Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
di Luciano Vandelli
Sommario: 1. Introduzione: le ambiguità del termine. 2. Regionalismo
e federalismo. 3. Stato regionale e Stato federale. 4. Regionalismo
e regionalizzazione: a) la situazione italiana; b) le soluzioni
europee. 5. Caratteri culturali, fisici e demografici delle regioni.
6. Le forme istituzionali delle regioni: a) il riconoscimento
costituzionale delle autonomie regionali; b) autonomie regionali e
poteri legislativi; c) autonomie regionali e poteri amministrativi.
7. Stato regionale e Stato federale nelle esperienze europee. 8.
Prospettive del regionalismo. □ Bibliografia.
1. Introduzione: le ambiguità del termine
Inteso genericamente quale dottrina, tendenza o atteggiamento
connesso a un'area territoriale variamente contraddistinta da
elementi geografici, storici, economici, sociali, istituzionali, il
'regionalismo' riflette pienamente le ambiguità del sostantivo da
cui trae origine; anzitutto per quanto concerne le dimensioni e la
collocazione stessa di tale area in rapporto alla delimitazione
degli Stati nazionali.
'Regione', in effetti, è un termine non raramente riferito ad ambiti
assai estesi, che ricomprendono una pluralità di Stati. Così è, ad
esempio, in espressioni quali 'regione europea', 'mediorientale',
'araba' e simili; ambiti cui corrispondono, in molti casi,
specifiche organizzazioni sovranazionali o internazionali (Unione
Europea, Lega Araba, Associazione tra le nazioni del Sudest
asiatico, ecc.). In un'accezione di questo tipo il termine è diffuso
particolarmente nelle discipline economiche, ove ad aree
multistatali vengono correttamente riferite espressioni quali
'economia regionale', 'sviluppo regionale', 'distribuzione
regionale', 'politiche regionali', 'analisi regionale', ecc. (v.
Isard, 1960 e 1975).
Dal lato opposto, non mancano situazioni in cui per regione si
intende una realtà di dimensione assai contenuta, che si colloca -
quale livello intercomunale - all'interno delle articolazioni
provinciali di uno Stato. È questo, in particolare, il caso dei
Paesi Bassi, ove da tempo va sviluppandosi un rilevante dibattito
sulle inadeguatezze strutturali delle tradizionali circoscrizioni
provinciali, ritenute troppo vaste, e dove, dunque, si è presentata
come centrale l'individuazione di nuovi livelli intermedi tra il
comune e la provincia; livelli che, appunto, vengono qui indicati
con il termine 'regioni'.
Tanto l'una accezione (regione come dimensione ultrastatale) quanto
l'altra (regione come dimensione infraprovinciale) sono notevolmente
distanti dall'uso più comunemente accettato, dominante nel dibattito
giuridico-istituzionale e - ciò che più conta - fatto proprio dalla
Carta costituzionale italiana, così come da numerose costituzioni e
legislazioni (particolarmente in Europa: dalla Carta costituzionale
della Seconda Repubblica spagnola, del 1936, alle recenti revisioni
della Costituzione belga) nonché, negli ultimi decenni,
dall'ordinamento comunitario (si veda, in particolare, il Trattato
di Maastricht).
Pur con varietà di modelli e di forme, i dati desumibili da diverse
e autorevoli fonti di diritto attribuiscono, in modo specifico e
univoco, un significato più circoscritto e preciso al termine
'regione', identificandola con l'articolazione territoriale più
vasta all'interno dello Stato. Un'articolazione cui, in un'ampia
serie di ordinamenti, corrisponde uno specifico assetto
istituzionale, dotato di organi democraticamente espressi dalla
corrispondente collettività, di poteri amministrativi e, in molti
casi, anche legislativi, di un'autonomia garantita dalle ingerenze
degli organi dello Stato stesso.
2. Regionalismo e federalismo
Le ambiguità che contrassegnano il 'regionalismo' sono, del resto,
tutt'altro che estranee alle vicende del termine 'federalismo', del
quale si sono classificate molte decine di significati (cfr. W.H.
Stewards, Concepts of federalism, Boston 1984; K.C. Wheare, Federal
government, Oxford 1946).
Così, nella filosofia politica, sono di grande rilievo le concezioni
federalistiche orientate in una direzione globalizzante e
palingenica, come ricerca di una forma di organizzazione del potere
finalizzata alla pace, al primato del diritto, all'emancipazione
umana. In questa direzione muove anzitutto il pensiero di Kant (Idea
di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico, 1784;
Per la pace perpetua, 1795), ove la federazione mondiale, strumento
essenziale per la realizzazione della libertà e dell'eguaglianza di
tutti gli uomini, diviene lo sbocco del processo storico di una
progressiva pacificazione dei gruppi umani in conflitto attraverso
la loro unificazione.
La teoria federalistica della pace trova, del resto, riflessi
importanti nel pensiero contemporaneo: ad esempio, in certi filoni
delle tendenze europeiste, secondo cui la federazione europea "segna
una tappa nella storia: l'avvio del superamento della divisione del
mondo in Stati sovrani, che si concluderà con il raggiungimento
della pace perpetua, attraverso la federazione mondiale" (v. Levi,
1994, p. 42). Secondo le accezioni più diffuse nel dibattito
attuale, tuttavia, il riferimento al 'federalismo' prescinde
totalmente da prospettive cosmopolitiche, ovvero le colloca sullo
sfondo di un contesto che pone comunque al centro dell'attenzione il
tema della forma territoriale dello Stato. Anche in questo caso sono
univoche le indicazioni desumibili da numerose costituzioni: a
partire da quella degli Stati Uniti, proseguendo per quelle
canadese, australiana, indiana, austriaca, sino alla Legge
fondamentale di Bonn del 1949 o alla revisione costituzionale belga
del 1980. Domina, anche qui, un'ampia varietà di modelli e di forme,
ma sempre all'interno di una problematica che attiene comunque a un
assetto strutturale dello Stato, articolato in due livelli
fondamentali tra cui sono ripartiti i poteri, secondo criteri
stabiliti dalla Costituzione.In questa prospettiva 'federalismo' si
configura come termine strettamente contiguo a 'regionalismo', al
punto da sollevare questioni di fondo sulla reale possibilità di
distinguere i due concetti sulla base di criteri scientificamente
fondati.
3. Stato regionale e Stato federale
Il dibattito su questi aspetti è tutt'altro che recente; i dubbi, in
realtà, risalgono al periodo stesso in cui si iniziò a teorizzare la
configurabilità della forma regionale come "tipo intermedio di Stato
fra l'unitario e il federale", un'impostazione che in Italia fu
definita e sostenuta da G. Ambrosini (v., 1933).
Secondo questa impostazione, lo Stato regionale si differenzierebbe
dal federale per il fatto che, "pur essendo dotate di diritti
propri, le regioni non riescono ad assumere la qualità e dignità
degli Stati membri di uno Stato federale [...]; d'altra parte,
appunto perché dotate di diritti propri, si differenziano nettamente
dalle consimili collettività territoriali (province o regioni),
anche fortemente decentrate, degli Stati unitari".
In quest'ultimo caso, in effetti, si realizzerebbe un semplice
"decentramento autarchico" che "implica sempre [...] l'idea di
trapasso, di trasferimento, di delegazione di poteri e
implicitamente perciò della revocabilità di essi"; mentre, a
proposito dello Stato regionale, "si deve invece parlare di
autonomia, perché si tratta di riconoscimento o di conferimento
irrevocabile di poteri in favore degli enti di cui trattasi, i quali
così finiscono di essere dotati di poteri propri, di natura
costituzionale, in quanto affermati in modo speciale dalla
Costituzione e posti sotto la speciale garanzia di essa [...]. In
questo sistema la regione ha anzitutto un diritto che può chiamarsi
diritto dell'esistenza; diritto che non compete alle collettività
consimili esistenti nel seno degli Stati unitari. Lo stesso è a
dirsi della competenza" (v. Ambrosini, 1957, pp. 5-7).
Che criteri di classificazione di questo tipo avessero in sé
"qualcosa di arbitrario" fu avvertito dallo stesso Ambrosini (ibid.,
p. 9); tuttavia, la formula ebbe fortuna, trovando numerosi e
autorevoli giuristi disposti a impegnarsi nella ricerca di parametri
idonei a distinguere, in forma scientificamente ineccepibile, lo
Stato regionale dal federale, così come da quello unitario.
Parametri che, di volta in volta, vennero individuati in aspetti
diversi: ad esempio, nella partecipazione degli Stati-membri alla
formazione della volontà centrale, particolarmente attraverso un
senato composto da rappresentanti degli stessi Stati, oppure nel
riconoscimento a ciascuno Stato-membro della potestà costituente:
elementi, questi, presenti nel modello federale, ma assenti negli
Stati regionali, in cui le regioni prive di rappresentanza a livello
nazionale sarebbero rette sempre da un ordinamento costituzionale
ottriato, cioè dettato dagli organi costituzionali dello Stato, cui
viene riservata, tra l'altro, la definizione delle competenze
regionali.
Ma la ricerca, alla luce della grandissima varietà di caratteri che
le concrete esperienze andavano sviluppando, si è presentata assai
travagliata, portando spesso alla contestazione dell'ipotesi da cui
aveva tratto origine. In questo senso è significativa, ad esempio,
l'evoluzione del pensiero di C. Mortati. Dopo aver fatto
riferimento, ai fini di una definizione dello Stato federale e di
una sua distinzione da quello regionale, a un'ampia serie di
elementi classici (formazione delle regioni per volontà dello Stato
e non per accordo di carattere internazionale; mancanza nelle
regioni della potestà di darsi un proprio ordinamento e di
modificarlo; assenza di partecipazione delle regioni all'attività
legislativa dello Stato; criterio di ripartizione delle competenze;
emarginazione delle regioni dalla potestà giurisdizionale e
dall'ordine pubblico; ecc.), Mortati raggiunse in seguito la
convinzione che, in definitiva, le differenze tra Stato federale e
Stato regionale, che non siano di ordine meramente quantitativo, "si
esauriscono nella partecipazione al potere di revisione
costituzionale, che è consentito agli Stati-membri e non alle
regioni. Differenza, come si vede, troppo esigua per giustificare
l'attribuzione di una qualifica statuale all'ente che sia in
possesso di quel potere" (cfr. C. Mortati, Istituzioni di diritto
pubblico, Padova 1957⁷, vol. II, pp. 801-802, e 1976⁹, vol. II, p.
1514).
Ora, a vent'anni di distanza da queste considerazioni, si potrebbe
aggiungere che la stessa gamma delle forme di coinvolgimento di
regioni o di Stati-membri nei procedimenti di revisione
costituzionale si presenta estremamente varia e sfumata; e le forti
asimmetrie, che la diffusione di sistemi decentrati va
fantasiosamente evidenziando (come si vedrà nei capitoli seguenti),
aumentano le perplessità su ogni tentativo di schematizzazione
qualitativa, sulla base di modelli differenziati secondo criteri
rigorosi e universalistici. E non a caso, recenti analisi tendono ad
accomunare modello federale e modello regionale, quali espressioni
di "un'unica forma organizzativa che comporta un decentramento dello
Stato unitario tramite la necessaria presenza di autonomie
territoriali e politiche" (v. de Vergottini, 1992, p. 859).
Fortemente problematica sotto il profilo giuridico, la distinzione
tra modelli federali e modelli regionali diviene, poi, nebulosa
nell'ambito complessivo delle scienze sociali. Non a caso un
autorevole studioso del federalismo ha accomunato nella generica
espressione non-accentramento i vari sistemi in cui "il potere è
così diffuso da non poter essere legittimamente accentrato o
concentrato senza violare la struttura e lo spirito della
Costituzione" (v. Elazar, 1968, p. 97), e non a caso va
diffondendosi il termine mesogovernment in grado di includere
indubbiamente fenomeni che si estendono dai Länder ai Cantoni, dalle
Comunidades autónomas alle Regioni, ecc.
Quanto alle discipline economiche, la distinzione tra Stati
contrassegnati da federalismo e Stati caratterizzati da regionalismo
risulta sostanzialmente marginale, se non del tutto indifferente (v.
Brancati, 1995).
Significativa, del resto, è la fortunata espressione 'federalismo
fiscale', che fa riferimento al "funzionamento degli Stati dotati di
una pluralità di livelli di governo, siano o non siano definiti
federali secondo i canoni di diritto pubblico" (v. Osculati, 1994) e
alle tendenze favorevoli a spostare l'asse del prelievo fiscale dal
centro alla periferia (cfr., ad esempio, il cosiddetto 'Libro bianco
Tremonti', La riforma fiscale, Ministero delle Finanze, 1994; v.
Brancati, 1995, p. 53). Il più noto studio dedicato in questi anni,
in Italia, al federalismo fiscale fa significativamente riferimento,
nel sottotitolo, all'"autonomia municipale" (v. Tremonti e
Vitaletti, 1994).In realtà, ad accomunare complessivamente i modelli
'federali' e quelli 'regionali' sono gli obiettivi sostanziali da
essi perseguiti, anche e specificamente nella fase attuale;
obiettivi che attengono particolarmente a esigenze che possiamo così
elencare.
1. Trovare punti di riferimento istituzionali meno vasti e distanti
dalle richieste dei cittadini di quanto non siano gli Stati; è
un'aspirazione che assume oggi un particolare rilievo, dinnanzi alla
crisi della sovranità statale, in un quadro contrassegnato da
elementi di sovranazionalizzazione (particolarmente in ambito
europeo) e di globalizzazione. La connessione tra
'continentalizzazione' e 'regionalizzazione' è stata spesso
sottolineata: "L'autonomia delle regioni nella Comunità Europea e la
creazione di un'Europa politicamente più unita - rilevava, ad
esempio, il documento approvato dall'Assemblea delle regioni
d'Europa il 30 ottobre 1987 - costituiscono due aspetti
complementari e convergenti di una medesima evoluzione politica".
2. Dare risposta, in questa prospettiva, alla crisi dello Stato
nazionale e alla sempre più evidente inadeguatezza (o
impraticabilità) di ogni soluzione che tende a tenere in un unico
centro il potere democratico: identificando livelli istituzionali
dotati di caratteristiche demografiche, territoriali, finanziarie
sufficientemente ampie da consentire il governo dei problemi che
presenta un'area vasta, ma anche sufficientemente vicine ai
cittadini da consentire circuiti più funzionali di partecipazione e
di responsabilizzazione.
3. Trovare soluzioni adeguate per le istanze e peculiarità locali,
garantendo le minoranze, prevenendo o tenendo sotto controllo i
contrasti territoriali, costituendo istituzioni in grado di
contemperare e bilanciare gli interessi delle distinte aree
territoriali e, in definitiva, superando fenomeni di campanilismo
esasperato.In sostanza, alla base delle istanze federalistiche o di
quelle regionalistiche vi sono i medesimi criteri di autogoverno,
efficienza, trasparenza, responsabilità e adattabilità alle
specifiche esigenze e preferenze dei cittadini.
4. Regionalismo e regionalizzazione
Il 'regionalismo' si distingue dalla 'regionalizzazione', secondo
alcuni autori (v., ad esempio, Petschen, 1992, pp. 17 e 29), per il
fatto che la seconda, quale fenomeno 'dall'alto' con prevalenti
connotazioni economiche e amministrative, tende a caratterizzarsi
come pianificazione e ordinamento del territorio stabiliti dai
poteri statali, mentre il regionalismo si identifica con la tendenza
dei popoli, 'dal basso', a ottenere maggiori attribuzioni politiche
per ragioni antropologiche, storiche e culturali. In realtà, i
diversi aspetti e le diverse motivazioni sono fortemente connessi
nei due concetti che, in definitiva, si distinguono semplicemente
per la loro natura intrinseca: nel caso del regionalismo si tratta
di una tendenza, di una proposta, di un'idea favorevole al
riconoscimento o al potenziamento delle realtà regionali (tendenza
che può essere sostenuta dai popoli, ma anche da espressioni dei
poteri statali, e che può essere motivata dai più diversi
argomenti); si configura, invece, una situazione di
regionalizzazione in presenza della concreta istituzione di regioni
nell'ordinamento di un determinato paese.
a) La situazione italiana
Se già le fasi centrali del Risorgimento erano state contrassegnate
dalla presenza di importanti istanze federalistiche, da quelle
liberali, progressiste e repubblicane di Cattaneo a quelle neoguelfe
di Gioberti, all'epoca dell'unificazione non rimase estraneo un
rilevante dibattito sul regionalismo. Così, nel 1861, Giuseppe
Mazzini (Dell'unità italiana, in Scritti politici editi e inediti,
vol. II, Imola 1907, p. 333) richiamava con forza la necessità di
creare le regioni, quali zone intermedie accomunate "dai caratteri
territoriali secondari, dai dialetti e dal predominio delle
attitudini agricole, industriali o marittime"; indicando i vantaggi
del sistema regionale nel fatto che, tra l'altro, "spegnerebbe il
localismo gretto, darebbe all'unità forze sufficienti per tradurre
in atto ogni processo possibile nella loro sfera, e farebbe più
semplice e spedito assai l'andamento, oggi intricatissimo e lento,
della cosa pubblica".In questa direzione, del resto, si orientano le
proposte elaborate dal ministro dell'Interno Farini e dal suo
successore Minghetti, deliberate dal Consiglio dei ministri, sotto
la presidenza di Cavour, il 31 marzo dello stesso anno. In questo
disegno le regioni si configuravano sia come circoscrizioni
dell'amministrazione periferica dello Stato, sia come enti
autarchici, e precisamente come consorzi obbligatori tra province,
dotati di una commissione composta da membri nominati, al proprio
interno, dai consigli provinciali. Il progetto, peraltro, sollevò
rilevanti resistenze del Parlamento, che lo respinse, optando
decisamente per un'estensione all'intero territorio italiano del
modello accentrato di amministrazione già adottato in Piemonte con
la legge comunale e provinciale (la cosiddetta legge Rattazzi) del
1859.
Questo modello era destinato a perdurare a lungo, mentre le proposte
favorevoli al regionalismo restavano in posizione marginale nel
dibattito politico. D'altronde, col trascorrere del tempo, esse
venivano assumendo valenze diverse: e se all'epoca dell'unificazione
amministrativa la regionalizzazione poteva essere finalizzata a
graduare, senza traumi, il trapasso da sette legislazioni a una,
vent'anni dopo, compiuta quella unificazione "con molti spostamenti
e molti dolori", alle regioni si poteva guardare come a un
fondamentale perno di decentramento delle funzioni dello Stato e di
redistribuzione della spesa pubblica (cfr. le considerazioni dello
stesso Minghetti in I partiti politici e l'ingerenza loro nella
giustizia e nell'amministrazione, Bologna 1881).
Ancora fortemente minoritario alla fine del secolo, il regionalismo
trovava peraltro sostegno da parte di voci significative e
autorevoli che, riprendendo i valori della tradizione repubblicana,
della sinistra liberale, del socialismo, si connettevano
(particolarmente con Gaetano Salvemini: cfr. Scritti sulla questione
meridionale, Torino 1955) alle analisi e agli obiettivi propri del
meridionalismo.
Sulla base di questi diversificati punti di riferimento, le tendenze
regionalistiche assumevano nel primo dopoguerra il senso di una
forte prospettiva di revisione complessiva dell'assetto dello Stato.
E a questa prospettiva si ispirava nettamente il programma del
Partito Popolare Italiano del 1919. Centrale è, in questo, il ruolo
di Luigi Sturzo, convinto sostenitore (come scriveva nella relazione
al Congresso di Venezia del 23 ottobre 1921; v. Santarelli, 1970, p.
121) di un ente regionale "elettivo, rappresentativo,
autonomo-autarchico, amministrativo-legislativo [...] concepito come
una unità convergente non divergente dallo Stato".
Ma è soltanto con la fine del rigido centralismo che aveva
caratterizzato il ventennio fascista che la questione si propone in
termini concreti: dapprima in alcune situazioni specifiche, ove già
nel 1944-1945 si affermano peculiari forme di governo regionale
(cfr., in particolare, per la Sardegna, il decreto legislativo
luogotenenziale del 28 dicembre 1944, n. 417; per la Valle d'Aosta
il decreto legislativo luogotenenziale del 7 settembre 1945, n. 545;
per la Sicilia lo Statuto approvato con il regio decreto legislativo
del 15 maggio 1946, n. 455), quindi in seno all'Assemblea
costituente, ove il principio regionalistico fu oggetto del
dibattito più prolungato e tormentoso.
In tale confronto le diverse opzioni convivono, spesso, all'interno
delle medesime aree politico-culturali, e l'evolversi degli eventi
generali (a partire dalla estromissione delle sinistre dal governo)
comporta non secondari mutamenti di posizioni; sì che la definizione
di questa parte della Carta costituzionale risulterà incerta fino
alle ultime fasi dei lavori costituenti. Il risultato è un
compromesso, che alterna a spunti fortemente avanzati il
mantenimento di meccanismi ereditati dalla tradizione dello Stato
accentrato, o significativi silenzi.Il riconoscimento costituzionale
delle autonomie regionali è comunque sancito: le regioni, enti
territoriali esponenziali dotati di un'organizzazione legittimata
dall'elezione in via diretta, sono titolari di poteri di rango anche
legislativo, in una serie di materie elencate dalla Costituzione
stessa. E, se non manca una rilevante gamma di interventi di
controllo da parte di organi statali, la Corte costituzionale si
configura come supremo garante del rispetto delle sfere di autonomia
costituzionalmente stabilite.
D'altronde, le alternative discusse nei lavori costituenti si erano
concentrate essenzialmente sulle cosiddette regioni 'a statuto
ordinario', definite nel numero di 15; per le rimanenti (Sicilia,
Sardegna, Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia
Giulia), l'Assemblea costituente si trovava talora di fronte a
vincoli di carattere internazionale e, comunque, a forme di
autonomia già riconosciute. Forme che, in definitiva, era chiamata
solo a confermare, demandando a singoli statuti speciali (approvati,
subito dopo la Costituzione, con le leggi costituzionali 2-5 del
1948, mentre per il Friuli-Venezia Giulia occorrerà attendere la
legge costituzionale n. 1 del 1963) la disciplina degli aspetti che
per le rimanenti regioni venivano stabiliti direttamente nella
Costituzione.
Le disposizioni di quest'ultima, del resto, erano destinate a
rimanere a lungo inattuate: mentre le regioni ad autonomia speciale
avviavano la propria esperienza in una situazione di isolamento,
prevaleva decisamente un clima di complessiva sfiducia e
disattenzione per la questione regionale, che venne superato
soltanto alla fine degli anni sessanta, in un quadro di forte
tensione riformatrice. Una tensione che portò il Parlamento,
superando l'ostruzionismo delle forze antiregionaliste, ad approvare
le indispensabili leggi di disciplina elettorale (legge n. 108 del
1968) e finanziaria (legge n. 281 del 1970), avviando così una 'fase
costituente' delle regioni ordinarie che si sarebbe compiuta con la
prima elezione dei consigli regionali (avvenuta il 6 giugno 1970),
con l'approvazione degli statuti (maggio-luglio 1971) e con
l'emanazione dei decreti di trasferimento delle funzioni in
precedenza esercitate dai ministeri (gennaio 1972).
Basati su interpretazioni fortemente riduttive delle materie
costituzionalmente spettanti alle regioni, questi decreti lasciarono
peraltro profondamente insoddisfatte le forze regionaliste, dando
luogo a lunghe e complesse polemiche che portarono, tra il 1975
(legge n. 382) e il 1977 (decreto delegato n. 616), a un sostanziale
ridisegno delle funzioni regionali in una nuova, aggiornata
interpretazione della Costituzione.In questo (inadeguato) quadro
normativo, e in un contesto di diffusa inefficienza amministrativa,
la regionalizzazione ha dato luogo a un'esperienza complessivamente
deludente o, comunque, fortemente variegata (v. Putnam e altri,
1985; v. Putnam, 1993).
Con ciò, peraltro, le istanze del regionalismo italiano non si sono
esaurite; e infatti hanno ripreso fiato alla fine degli anni ottanta
puntando ormai a una revisione della stessa Costituzione.
b) Le soluzioni europee
Nell'intera Europa il regionalismo può vantare, in varie situazioni,
tradizioni tutt'altro che recenti. Ma se da lungo tempo si possono
registrare istanze e proposte volte a un riconoscimento delle realtà
regionali, la regionalizzazione è invece un fenomeno che soltanto
recentemente si è affermato su un'area assai estesa.I percorsi e i
contenuti degli interventi sui governi locali realizzati negli
ultimi decenni sono in realtà fortemente differenziati, ma
complessivamente contrassegnati dalla tendenza a un decentramento
articolato sulla base di enti territoriali autonomi di livello
regionale. Rispetto a questa impostazione assumono dunque una
propria peculiarità le trasformazioni che, pur in presenza di
istanze e tradizioni regionalistiche, hanno seguito vie diverse. Tra
questi casi spetta un rilievo particolare alla Gran Bretagna: paese
che ha inteso rispondere alle proprie, consistenti esigenze
regionali, non attraverso autonomie a largo raggio, ma mediante
specifiche articolazioni degli apparati del governo centrale.
Si collocano dal lato opposto sistemi definiti come federali - quali
la Repubblica Federale Tedesca, la Confederazione Elvetica,
l'Austria - ove i poteri si presentano tradizionalmente ripartiti,
su base territoriale, tra lo Stato centrale e i Länder o Cantoni.
A questi sono venuti via via ad affiancarsi altri soggetti di
autonomia territoriale (regioni, comunità autonome, ecc.), in un
processo che, pur nella varietà delle realizzazioni, è segnato da
parallelismi importanti. Anche nella cronologia, che segna il suo
momento centrale di impulso all'inizio degli anni settanta: in
Italia - come si è visto - con l'istituzione delle regioni
ordinarie, in Belgio con una revisione della Costituzione del 1831
che si proponeva un complessivo rinnovamento dello Stato, basato su
una duplice articolazione di tipo linguistico-culturale,
ricomprendente tre comunità (francese, olandese, tedesca), e di tipo
economico-territoriale, ricomprendente tre regioni (vallone,
fiamminga, bruxellese).
Alla seconda metà degli stessi anni settanta (vale a dire durante la
fase in cui le regioni italiane ricevevano il più importante
complesso di trasferimenti, con il decreto del presidente della
Repubblica n. 616) risalgono poi i disegni autonomistici - connessi
a processi di democratizzazione quasi coevi - adottati in Portogallo
e in Spagna. La Costituzione portoghese del 1976 fonda la propria
impostazione regionale su una netta distinzione tra il regime
riservato al territorio insulare (Azzorre e Madera) e quello
concernente il territorio continentale. Nel primo vengono previste
regioni autonome, dotate di rilevanti poteri legislativi; per il
continente, invece, regioni amministrative. In qualche misura
ritoccato per effetto della revisione costituzionale del 1982 (che,
tra l'altro, istituisce un Tribunale costituzionale, competente in
ordine ai conflitti tra Stato e regioni), il disegno costituzionale
è stato rapidamente attuato nelle isole, mentre la ripartizione del
territorio continentale in regioni amministrative ha incontrato
difficoltà di fondo.
Seguendo concezioni alquanto diverse, la Costituzione spagnola del
1978 ha costruito il proprio disegno di regionalizzazione sancendo
il principio dell'autonomia delle 'comunità autonome', ma demandando
alle collettività locali e ai loro rappresentanti non solo
l'iniziativa per accedere all'autonomia, ma anche, in sostanza, la
scelta del tipo di aggregazione territoriale. Tra le comunità
autonome, del resto, alcune (Catalogna, Paese Basco, Galizia e le
altre in cui l'iniziativa fosse approvata, con referendum, dalla
maggioranza assoluta della popolazione) potevano assumere
immediatamente, nei rispettivi statuti, funzioni in qualunque
materia non esplicitamente riservata allo Stato, mentre le altre
avrebbero potuto disporre di competenze più limitate. In concreto,
il disegno è stato realizzato, nel quinquennio successivo alla
Costituzione, con l'istituzione di 17 comunità autonome, di cui
soltanto 4 configurano autonomie di primo livello, anche se le
rimanenti hanno ricevuto di recente un considerevole ampliamento
delle proprie funzioni.
In Francia l'istituzione di enti territoriali regionali si colloca
nell'ambito delle riforme di decentramento avviate nel 1982.
Ritoccata nel 1986 (ma sostanzialmente confermata, in questi anni,
da maggioranze di segno contrapposto), la riforma francese evidenzia
sul versante regionale una notevole cautela rispetto agli
orientamenti prevalsi nei paesi vicini (essendo, anzitutto, assai
lontana dal delineare una potestà legislativa regionale). Eppure,
sotto vari profili, la configurazione di questo nuovo livello,
caratterizzato da una propria organizzazione di governo che si basa
su un consiglio elettivo e su un presidente espresso dal consiglio
stesso, ha introdotto novità tutt'altro che marginali.
Ora, è il 'federalismo' che sembra segnare gli anni novanta, con
l'importante estensione, a seguito dell'unificazione tedesca del 3
ottobre 1990, del sistema istituzionale tracciato dalla Legge
fondamentale di Bonn, la quale viene a disciplinare gli assetti dei
cinque Länder costituiti nel territorio orientale della Germania; ma
soprattutto con la nuova revisione costituzionale adottata in Belgio
il 5 maggio 1993, che prosegue il peculiare percorso autonomistico
belga sfociando in una soluzione che si definisce esplicitamente
come federale.
5. Caratteri culturali, fisici e demografici delle regioni
Nell'identificazione e nella delimitazione delle regioni, realizzata
nelle varie esperienze, si alternano e si sovrappongono criteri
assai diversi, che si ispirano variamente al tipo di regionalismo
che ne sta alla base.
Così, possono distinguersi diverse concezioni della regione: dalla
regione naturale o geografica, contrassegnata da specifici caratteri
fisici (evidenti, particolarmente, nel caso delle isole), alla
regione amministrativa, intesa quale delimitazione del territorio
ispirata a esigenze di razionalità negli assetti degli apparati e
degli interventi amministrativi; dalla regione economica,
finalizzata alla pianificazione e allo sviluppo di zone aggregate
per caratteristiche e potenzialità economiche, alla regione
sociologica, ove prevale la considerazione dell'elemento umano.
Elemento, quest'ultimo, che assume particolare evidenza nella
regione culturale, dotata di specifiche identità di gruppi
linguistici, etnici o religiosi, o (se si vuole sottolineare
distintamente questo profilo, generalmente coincidente con il
precedente) nella regione storica, corrispondente a 'nazioni senza
Stato', ma che in altre epoche lo furono (come Scozia, Bretagna, o
Corsica), o che comunque a lungo e con forza aspirarono a esserlo
(come Galles, Fiandre, Catalogna, Paese Basco).
Nell'esperienza concreta è certamente vero che, ad esempio, criteri
economici e amministrativi hanno esercitato una influenza prevalente
nella regionalizzazione francese, mentre criteri storici e
linguistici hanno condizionato la regionalizzazione belga; ma in
realtà all'interno di ogni paese europeo si sono variamente
amalgamati e sovrapposti diversi elementi. D'altronde, alla grande
varietà di criteri e di concezioni fa riscontro un'amplissima
differenziazione nelle dimensioni demografiche e territoriali
adottate. Così, le 22 regioni francesi presentano generalmente
un'estensione tra 10.000 e 45.000 km², mentre scendono attorno agli
8.000 due regioni storiche: Alsazia e Corsica. Quest'ultima, insieme
al Limousin, costituisce un'eccezione anche in termini demografici,
contando un numero di abitanti notevolmente inferiore a quello delle
altre (che si aggira tra 1.500.000 e 5.000.000, con la sola, vistosa
eccezione dell'Île-de-France, che comprende la grande agglomerazione
parigina).
Molto superiori risultano le differenze nelle situazioni in cui
fattori storici e sociali hanno esercitato un'influenza più
incisiva. È questo, ad esempio, il caso delle 17 comunità autonome
spagnole: delle quali tre (Castiglia-La Mancia, Castiglia-Leon,
Andalusia) hanno un'estensione imponente (tra i 79.000 e i 94.000
km²), mentre, dal lato opposto, sei non raggiungono gli 8.000 (di
queste, Baleari, Cantabria e La Roja si aggirano attorno ai 5.000).
Non minore risulta lo scarto in termini demografici: dagli oltre 6
milioni di abitanti di Catalogna e Andalusia, sino al mezzo milione
di Cantabria e Navarra e ai 260.000 della Rioja.
Queste notevoli differenze possono richiamare la situazione tedesca,
nella quale quattro dei 16 Länder (Sassonia, Bassa Sassonia,
Baden-Württemberg, Baviera) si aggirano tra i 5 e gli 11 milioni di
abitanti, uno (Renania settentrionale-Westfalia) sfiora i 17
milioni, segnando un divario rilevantissimo rispetto ai 600.000 di
Brema. Un divario non inferiore, del resto, sussiste in termini di
estensione: dai 4-700 km² dei Länder corrispondenti ad aree
metropolitane (Berlino, Brema, Amburgo), sino agli oltre 70.000
della Baviera.
La soluzione della città-regione è stata adottata anche per
Bruxelles, comportando anche qui una enorme distanza tra
l'estensione di questa (162 km²) e il territorio delle altre regioni
belghe (Fiandre, oltre 13.000 km²; Vallonia, quasi 17.000).Rispetto
a questi casi, i criteri adottati dalla Costituzione italiana
sembrano segnare una situazione intermedia: se sei regioni
(Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Sicilia, Sardegna)
superano i 22.000 km², quelle dal territorio più circoscritto
(Molise, Valle d'Aosta) si aggirano fra i 3 e i 4.000. Queste stesse
regioni presentano le dimensioni più ridotte anche in termini
demografici (rispettivamente 300.000 e 110.000 abitanti, mentre 9
regioni hanno una popolazione tra i 4 e i 9 milioni).
6. Le forme istituzionali delle regioni
Se la presenza di significativi poteri territoriali su vaste aree
sembra accomunare gli assetti adottati dai grandi Stati europei, non
è agevole identificare ulteriori elementi unificanti nei disegni
istituzionali, e le modulazioni concrete dei tipi di organizzazione,
di funzionamento, di riparto delle competenze, ecc., evidenziano una
notevole varietà di soluzioni che riguarda anche elementi di fondo,
quali: a) la previsione nella Costituzione dell'autonomia regionale
e delle relative garanzie; b) il riconoscimento di poteri
legislativi in capo alle istituzioni regionali, e i criteri di
riparto di tali poteri tra queste ultime e il legislatore statale;
c) l'estensione tendenzialmente generale delle funzioni
amministrative, con attribuzione dei compiti di gestione - di regola
- anche nelle materie riservate alla legislazione dello Stato, privo
in via di massima di propri apparati periferici.
a) Il riconoscimento costituzionale delle autonomie regionali
Il riconoscimento esplicito delle autonomie regionali in
disposizioni di rango costituzionale è fortemente diffuso in Europa:
dalle Costituzioni che risalgono al dopoguerra (quali quella
italiana e la Legge fondamentale di Bonn), a quelle approvate negli
anni settanta (con la fine dei regimi autoritari nella penisola
iberica), fino alla revisione della Costituzione belga del 1980.
In questo si distingue nettamente la situazione francese: le regioni
sono state istituite sulla base di un generico riferimento
costituzionale ad altre "collettività territoriali", oltre ai comuni
e ai dipartimenti. Così, in Francia (diversamente da quanto avviene
negli altri paesi) sono gli enti locali minori a essere tutelati a
livello costituzionale, mentre le regioni sono previste - e dunque
garantite - semplicemente sul piano della legislazione ordinaria.
b) Autonomie regionali e poteri legislativi
Se l'assenza di poteri legislativi distingue nettamente solo la
situazione delle regioni francesi e di quelle continentali
portoghesi, nei sistemi a legislazione decentrata sussistono
tuttavia differenziazioni non trascurabili, anzitutto in ordine agli
schemi seguiti per definire il riparto delle competenze legislative
regionali da quelle statali: dal criterio (adottato, ad esempio,
dalla Costituzione italiana) che si basa sull'espressa elencazione
delle materie attribuite alla competenza legislativa regionale a
quello (previsto dalla Costituzione spagnola) articolato sulla
determinazione, da parte della Costituzione, di limiti di materia
entro i quali gli statuti individuano le competenze spettanti a
ciascuna comunità autonoma, sino al sistema (proprio di Azzorre e
Madera) che riconosce ai legislatori autonomi la potestà di
legiferare nelle materie di interesse specifico per le regioni che
non siano riservate alla competenza statale.
Così, nessuno dei processi di regionalizzazione sviluppati negli
anni settanta e ottanta ha seguito il modello di un riparto basato
sulla determinazione espressa delle materie riservate alla
competenza dello Stato, demandando la competenza generale alle
autonomie regionali; prospettive in questa direzione si vanno invece
aprendo nella fase attuale: nella riforma ora approvata in Belgio,
per esempio, così come nel progetto di revisione costituzionale in
discussione in Italia.
c) Autonomie regionali e poteri amministrativi
Quanto agli assetti dell'amministrazione, è da rilevare che i
processi di regionalizzazione si sono sviluppati, negli ultimi
decenni, in un'area europea direttamente influenzata dalla
tradizione amministrativa francese, contrassegnata da un radicato
sdoppiamento tra 'decentramento' e 'deconcentrazione', sì che il
trasferimento di funzioni in capo a enti territoriali autonomi non
esclude la presenza, in periferia, di (consistenti) uffici
statali.In definitiva, nessuno di questi paesi ha affidato alle
regioni, in via generale, l'attività amministrativa di esecuzione
della legislazione statale, secondo il modello della cosiddetta
'esecuzione federale', tipico in Europa del sistema tedesco.
Tuttavia sviluppi in questa direzione sono discussi in alcuni paesi,
quali Spagna o Italia, e si sono verificati in varie situazioni
significativi ridimensionamenti degli apparati periferici statali.
Da ultimo, poi, con la legge sull'amministrazione territoriale del
febbraio 1992, il legislatore francese ha inteso valorizzare il
livello regionale; ma si tratta di una valorizzazione del tutto
distinta da quella tedesca, così come da quella spagnola o italiana,
in quanto punta essenzialmente su una ridistribuzione di funzioni
nell'ambito dell'amministrazione dello Stato e, dunque, su un
potenziamento del ruolo del prefetto di regione. Complessivamente,
il rilievo che in Francia conservano l'amministrazione dello Stato e
la deconcentrazione, in rapporto a quello attribuito alle autonomie
locali e al decentramento, costituisce un elemento del tutto
peculiare.
7. Stato regionale e Stato federale nelle esperienze europee
La varietà di forme assunte nelle situazioni accennate rende,
dunque, eccessivamente semplificante e incerto ogni richiamo a
classificazioni che, abbandonato ormai ogni carattere di precisione
scientifica, assumono nel dibattito politico valenze fortemente
simboliche ma contenuti spesso indecifrabili; l'analisi delle
esperienze concrete sembra evidenziare con forza come la distinzione
tra Stato regionale e Stato federale si mostri ora eccessivamente
rigida per cogliere le implicazioni e le sfumature di situazioni
sempre più complesse.
È sufficiente richiamare gli elementi utilizzati, nel corso di una
lunga e ampia elaborazione, per tracciare una linea di demarcazione
tra regionale e federale, per sottolinearne l'inadeguatezza: dalla
presenza (o assenza) di una camera delle autonomie all'attribuzione
della competenza generale-residuale (a favore del centro o degli
enti regionali), dalla concentrazione (o dalla ripartizione) di
funzioni considerate strettamente connesse alla sovranità (in
materia di relazioni internazionali, ordinamento della giustizia,
diritto penale, pubblica sicurezza) sino al coinvolgimento (o meno)
nei procedimenti di revisione costituzionale.In effetti, su ciascuno
di questi punti le esperienze realizzate, particolarmente in Europa,
presentano una gamma assai variegata di soluzioni, senza che la
classificazione 'regionale' o 'federale' dello Stato consenta di
identificarne i caratteri fondamentali.
Lo stesso riferimento all'origine degli assetti autonomistici (in
seguito a processi di unificazione, negli Stati federali, di
decentramento, in quelli regionali), è divenuto ben poco risolutivo,
se si è affermata, ad esempio in Belgio, una distinzione tra un
federalismo di tipo 'centripeto' e uno di tipo 'centrifugo': senza
che la distinzione storica implichi, in definitiva, alcuna
conseguenza sugli ordinamenti giuridici.E proprio la soluzione
recentemente adottata in Belgio offre un esempio efficace delle
peculiarità e delle varietà di moduli che uno Stato può assumere nel
plasmare i propri assetti. Uno Stato che, dunque, si classifica come
'federale'; che peraltro mantiene un sistema amministrativo ancora
fortemente connotato da tratti ereditati dalla tradizione
rivoluzionario-napoleonica; che, come si è accennato, affianca a una
articolazione territoriale (le regioni vallona, fiamminga,
bruxellese), un'articolazione di tipo linguistico-culturale (le
comunità francese, olandese, tedesca), distinguendo e giustapponendo
un 'federalismo regionale', da un lato, e un 'federalismo
comunitario', dall'altro; che, ancora, conferisce in sostanza il
ruolo predominante alla comunità nel Nord, alla regione nel Sud;
che, nel bipartire rigorosamente la composizione dei fondamentali
organi federali (parlamento, governo, Cour d'arbitrage) fra
rappresentanti valloni e fiamminghi, "corrisponde piuttosto
all'immagine di un sistema confederale, nel quale i rappresentanti
delle diverse componenti nel sistema di cooperazione non sono
responsabili che nei confronti della popolazione della rispettiva
entità" (v. K. Rimanque, in Delpérée, 1993, pp. 31-35). Così, è
perfettamente comprensibile che si parli di "un federalismo alla
belga, dissimile da tutti gli altri", e che ci si chieda se "non
sarà forse proprio per questo, per il fatto di presentarsi o essere
percepito come tale, che esso può sembrare equilibrato, cioè
tagliato su misura?" (v. H. Simonard, in Delpérée, 1993, p. 57).
Domanda, questa, che ben potrebbe ripetersi altrove perché, in
definitiva, la situazione belga non rappresenta l'eccezione, ma
piuttosto il caso più marcato della fantasiosa plasmabilità che lo
Stato composito va assumendo. In realtà, si può dire che ogni Stato
regionalmente articolato ha elaborato un proprio sistema; sì che,
nell'ambito europeo, coesistono attualmente tanti modelli di regione
quanti sono gli Stati regionalizzati. Sono significativi, in questo
contesto, gli stessi sforzi terminologici effettuati per definire le
nuove realtà, parlando non solo di Stati federali o regionali, ma
anche di modelli quasi-federali, federalizzabili, federo-regionali,
ecc.: la varietà delle situazioni ben si presta a sviluppare
l'inventiva, e le definizioni poco incidono sulla sostanza delle
cose. E se si presta attenzione ai dati sostanziali di fondo, è
assai dubbio che il grado di autonomia effettiva di cui godono, ad
esempio, il Paese Basco o la Catalogna sia inferiore a quello
consentito ai Länder dello Stato federale austriaco.
Così, lo stesso termine 'federalismo', se sul piano politico,
culturale o economico, può costituire un assioma che non richiede
dimostrazioni, sul piano giuridico-istituzionale si stempera in una
varietà di contenuti che stentano ad assumere contorni definiti. Del
resto, già Luigi Sturzo parlava di una "federalizzazione regionale"
(La regione, 1901). In un quadro dominato dall'asimmetria, dunque,
ogni tentativo di classificazione, di definizione di categorie, di
ricostruzione di modelli rischia di risultare artificioso, rigido e,
in definitiva, scarsamente utile. Ciò che, invece, può forse
presentare una qualche utilità è tentare di individuare, senza
alcuna pretesa di generalizzazione, qualche elemento che possa
consentire di sottolineare le affinità e le differenze di maggiore
rilievo.In questa prospettiva, se si ritiene necessario raggruppare
queste esperienze in termini significativi e per caratteri
sufficientemente omogenei, si possono forse più utilmente operare
alcune differenziazioni basate su dati di fondo, quali quelli sopra
richiamati. Si possono distinguere, ad esempio, in riferimento al
potere legislativo, a seconda che il parlamento nazionale mantenga o
meno il monopolio della produzione legislativa, i sistemi a
decentramento (anche) legislativo dai sistemi a decentramento
(esclusivamente) amministrativo. I primi sono necessariamente
sistemi ad autonomie previste a livello costituzionale (Repubblica
Federale Tedesca, Italia, Belgio, Spagna, Azzorre e Madera); i
secondi possono esserlo (Portogallo, per quanto concerne le regioni
amministrative) o non esserlo (Francia).In riferimento al potere
amministrativo, si possono distinguere, a seconda che lo Stato
mantenga o meno l'esecuzione delle proprie leggi, i sistemi a
decentramento amministrativo generale (con affidamento complessivo
di tale esecuzione alle amministrazioni delle autonomie
territoriali, come nella Repubblica Federale Tedesca) dai sistemi a
decentramento e deconcentrazione. In quest'ultimo gruppo rientra la
gran parte delle esperienze regionali europee, anche se non mancano
(ad esempio in Spagna, o nella stessa Italia) proposte in senso
diverso.
Anche le caratteristiche ora accennate, del resto, devono essere
collocate nell'ambito di processi in continua evoluzione. A un esame
in prospettiva diacronica le singole situazioni considerate
evidenziano, in più di un caso, tendenze ad aggiustamenti graduali:
ad esempio, partendo da schemi costituzionali essenziali, che
lasciano a sviluppi ulteriori la sostanziale conformazione delle
autonomie, oppure intervenendo ripetutamente (sia con ritocchi alla
Costituzione, sia sul piano della legislazione ordinaria) per
rafforzare, completare e rimodulare i poteri regionali, che paiono
così soggetti a progressive mutazioni istituzionali anche in aspetti
di grande importanza.Si tratta di tendenze non isolate: sotto questi
profili il caso spagnolo o quello belga non costituiscono, forse,
che gli esempi più manifesti e perspicui.Le esperienze recenti,
dunque, richiamano in modo suggestivo approcci dinamici nello studio
delle autonomie, intese come caratteristica di ordinamenti che,
situati all'interno di altri ordinamenti, assumerebbero nei
confronti di questi ultimi posizioni mutevoli nel tempo, essendo
fondate su equilibri in continuo aggiustamento.
8. Prospettive del regionalismo
Neppure nelle prospettive attuali, del resto, gli itinerari del
regionalismo possono considerarsi definiti e conclusi. In vari
paesi, in effetti, è in corso un dibattito incentrato su proposte di
una nuova valorizzazione dei livelli regionali; anche se, in diverse
realtà, il termine 'regionalismo' tende a essere emarginato o del
tutto respinto come secondario (è quanto si verifica, ad esempio, in
Belgio o in Spagna: v. Petschen, 1992, p. 29), in quanto collegato a
esperienze ritenute deludenti, dalle quali si intendono prendere le
distanze.
Tendenze in questa direzione, in particolare, sono rilevanti nel
dibattito italiano, dove si preferisce qualificare come
'federaliste' prospettive e ipotesi che frequentemente non si
differenziano da quelle 'regionaliste', semplicemente al fine di
sottolineare un atteggiamento critico nei confronti della realtà
esistente e, dunque, un'esigenza di netta discontinuità. Esigenza,
questa, in realtà diffusamente condivisa dalle stesse prospettive
'regionaliste', così come sono diffusamente condivise alcune
proposte di una sostanziale revisione costituzionale, a partire da
quelle che tendono a invertire il criterio di riparto delle
attribuzioni sostituendo all'attuale elencazione delle materie
demandate alle regioni (essendo riservate allo Stato tutte le
funzioni residue: art. 117 della Costituzione) la determinazione
costituzionale delle materie statali, con il riconoscimento alle
regioni della competenza residuale. Quest'ultima proposta è già
stata recepita nel corso dell'XI legislatura dai risultati della
Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, che
significativamente affermava di voler adottare un "regionalismo di
ispirazione federalista".
Così, in definitiva, il termine 'federalismo' finisce per
differenziarsi nettamente da 'regionalismo' soltanto se riferito ad
alcune ipotesi tendenti a ripartire il territorio italiano in tre
grandi repubbliche. Si tratta tuttavia di ipotesi tuttora alquanto
confuse, sostenute da una parte ben circoscritta dello schieramento
politico, spesso con evidenti valenze provocatorie.Ipotesi di
riassetto territoriale sono state avanzate, d'altronde, anche da
qualche autorevole centro di ricerca, come la Fondazione Agnelli,
che, sulla base di argomentazioni approfondite ma legate
essenzialmente a esigenze di riequilibrio finanziario e demografico,
ha proposto un riassetto basato su 12 grandi regioni (v. Fondazione
Agnelli, 1993 e 1994; v. Pacini, 1994): esso dovrebbe fondarsi su
processi di riaccorpamento volontario, che peraltro sono oggi assai
poco realistici e lontani dal senso di appartenenza e di identità
delle popolazioni.
Ma, anche a prescindere dalle ipotesi che implicano un ridisegno
territoriale, il dato di fondo che emerge con evidenza nel dibattito
italiano - in sintonia con quanto si verifica in varie situazioni
europee - è il diffondersi di tendenze al rafforzamento delle
autonomie regionali, con un significativo riequilibrio di poteri tra
queste e lo Stato. Nel quadro di queste tendenze le distinzioni
reali non possono tracciarsi sulla base di una (inesistente)
antinomia federalismo/regionalismo. Le contrapposizioni più
rilevanti e sostanziali riguardano, semmai, le concezioni di un
federalismo (o regionalismo) duale, basato essenzialmente sulle
garanzie di non ingerenza tra Stato e autonomie e su funzioni
rigidamente separate, e le prospettive di un federalismo (o
regionalismo) cooperativo o solidale, con una forte valorizzazione
dei momenti di collaborazione, di compartecipazione e di codecisione
tra i vari livelli, in un quadro condizionato dall'obiettivo
fondamentale di garantire comunque a tutti i cittadini un medesimo
nucleo di condizioni di vita. Ulteriori, non indifferenti,
distinzioni concernono le concezioni sulla collocazione dei poteri
locali nell'ambito dei nuovi poteri regionali, a proposito della
quale si distinguono impostazioni di stampo tradizionale, che
risolvono il problema del riordino dello Stato italiano pressoché
esclusivamente sul piano dei livelli più alti (Stato-regioni), e
tendenze a costruire il processo federalistico come un processo 'dal
basso', che prende avvio e si basa sulle autonomie più vicine ai
cittadini.