Populismo
Enciclopedie on line
Termine usato per designare tendenze o movimenti politici
sviluppatisi in differenti aree e contesti nel corso del 20° secolo.
Tali movimenti presentano alcuni tratti comuni, almeno in parte
riconducibili a una rappresentazione idealizzata del ‘popolo’ e a
un’esaltazione di quest’ultimo, come portatore di istanze e valori
positivi (prevalentemente tradizionali), in contrasto con i difetti
e la corruzione delle élite. Tra questi tratti comuni hanno spesso
assunto particolare rilievo politico la tendenza a svalutare forme e
procedure della democrazia rappresentativa, privilegiando modalità
di tipo plebiscitario, e la contrapposizione di nuovi leader
carismatici a partiti ed esponenti del ceto politico tradizionale.
P. russo
Movimento rivoluzionario sviluppatosi in Russia tra la fine degli
anni 1850 e la fine degli anni 1880. La prima organizzazione
populista, la Zemlja i volja, venne costituita nel 1861 nel clima di
delusione provocato dalle modalità con cui era stata abolita la
servitù della gleba. La situazione fu interpretata dai populisti
come potenzialmente rivoluzionaria e alcuni di essi parteciparono
anche ai contemporanei preparativi per l’insurrezione polacca
(1863). Alla dura repressione militare di quest’ultima corrispose un
irrigidimento poliziesco anche all’interno della Russia, che portò
allo scioglimento della Zemlja i volja. In seguito si diffuse negli
ambienti populisti una visione dell’azione rivoluzionaria, sostenuta
soprattutto dai nichilisti, che anteponeva il ruolo dell’individuo,
come soggetto rivoluzionario, a quello della massa. Questa idea
venne ripresa e rielaborata in seguito sia dagli anarchici sia da
P.N. Tkačëv. Alla fine del decennio l’influenza combinata delle idee
di P.L. Lavrov sulla necessità dell’attività propagandistica fra le
masse, e della teoria di M.A. Bakunin sull’istinto rivoluzionario di
queste ultime, ricondusse l’attenzione dei populisti al popolo come
protagonista dell’azione rivoluzionaria. Ne conseguì, nella
primavera del 1874, lo spostamento di giovani rivoluzionari dalle
città ai villaggi (quella che fu chiamata l’andata al popolo), con
l’obiettivo di mobilitare le masse contadine attraverso la
propaganda. La mancata risposta di queste ultime evidenziò la
necessità di un’organizzazione centralizzata: nacque così la seconda
Zemlja i volja (1876). Alcuni esponenti di questa individuarono il
terrorismo quale unico strumento idoneo alla lotta contro l’apparato
dello Stato, necessaria premessa alla lotta sociale nelle campagne.
Il dibattito intorno a questa posizione portò nel 1879 alla
scissione in due gruppi: la Narodnaja volja, che si concentrò
sull’azione terroristica, sfociata nell’attentato allo zar Alessadro
II (marzo 1881), e il Čërnyj peredel («Ripartizione nera»), che
continuò a sottolineare la priorità dell’attività propagandistica
nelle campagne; da quest’ultima provennero in seguito i primi
esponenti della socialdemocrazia russa. Nel corso del decennio
successivo, il movimento populista, indebolito dalla repressione, si
disperse in gruppi che proseguirono l’attività terroristica in una
situazione di crescente isolamento.
Contemporaneamente, alcuni ideologi populisti diedero vita al
cosiddetto p. legale , che affidava allo zar il compito di dirigere
il paese verso una modernizzazione di tipo non capitalista. Alcuni
elementi del p. rivoluzionario vennero ripresi, all’inizio del
secolo successivo, dai socialisti-rivoluzionari.
P. latino-americano
Si manifestò a partire dal secondo decennio del 20° sec. ed ebbe il
suo massimo sviluppo tra gli anni 1930 e gli anni 1950. Nonostante
le differenze riscontrabili nei singoli Stati (dal peronismo
argentino all’Estado novo di G. Vargas in Brasile, all’attività
dell’APRA in Perù ecc.), il fenomeno fu caratterizzato da alcuni
elementi comuni, quali l’esistenza di una situazione socio-economica
in rapido mutamento per il passaggio da economie prevalentemente
agricole a economie industriali e da sistemi politici a
partecipazione molto limitata a sistemi a partecipazione più estesa;
la presenza di masse urbane di recente trasferitesi dalle campagne e
non integrate; l’emergere di un leader carismatico, che si presenta
come portavoce delle esigenze del popolo; la mobilitazione delle
masse da parte del leader attraverso l’esaltazione dei valori
nazionali e l’instaurazione con esse di un rapporto diretto, non
mediato dalle istituzioni tradizionali. Spesso tali regimi furono
sostituiti al potere dalle forze armate, l’unica istituzione
consolidata in grado di mantenere un elevato controllo sociale.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Bruno Bongiovanni
Sommario: 1. Prologo in Russia. 2. Populismo russo e socialismo. 3.
Farmers americani e populismo individualistico. 4. Peripezie europee
di un concetto. 5. Dal populismo urbano al populismo senza popolo. □
Bibliografia.
1. Prologo in Russia
Il termine 'populismo' corrisponde alla parola russa narodničestvo,
la quale, a sua volta, deriva da narod, ovverossia 'popolo'. La
parola russa cominciò a essere utilizzata intorno al 1870, e ancor
più intorno al 1875. Nello stesso periodo si diffuse in Russia anche
il termine narodnik, ovverossia 'populista'. Negli anni settanta
dell'Ottocento, d'altra parte, il movimento cui faceva riferimento
la nuova parola, sino ad allora un insieme senza nome di vigorose
personalità, di agguerrite teorie politico-sociali e di realtà
oggettive dotate di un peculiare profilo strutturale, assunse con
forza una visibilità e una vitalità che lo rendevano in qualche modo
al suo interno omogeneo, distinguendolo con nettezza dal restante
movimento socialista europeo. Prima di quella particolare
congiuntura si era parlato, a proposito dei personaggi che saranno
poi storiograficamente ricompresi appunto nel narodničestvo, di
democratici, di radicali, di socialisti, di comunisti, e addirittura
di 'nichilisti' (o 'nihilisti'): un termine, quest'ultimo, che ebbe
una gran fortuna internazionale, e non solo politica, ma ancor più
psicologico-culturale, e talvolta fuorviante rispetto al significato
originario, dopo la pubblicazione, nel 1862, del romanzo di Turgenev
Padri e figli.
Gli anni settanta, quelli che dettero un nome al fenomeno, si
aprirono del resto proprio con la morte di Herzen, l'uomo che,
nell'esilio, aveva rappresentato il movimento democratico e
socialista russo; proseguirono poi con il compimento, in ambito
processuale, del torbido affare Nečaev, con la sconfessione di
quest'ultimo e con il conseguente isterilirsi della tentazione
meramente settario-cospirativa; con il grande movimento dell''andata
al popolo' e con la propaganda degli studenti nelle campagne
(1874-1877), fenomeni che contribuirono di fatto a diffondere in
modo capillare la parola e a trasformarla in un concetto politico e
in un appello all'azione pratica. Si arrivò poi, proprio nell'anno
della morte di Bakunin (1876), alla formazione della prima
organizzazione rivoluzionaria panrussa, la Zemlja i volja; in
seguito, nel 1879, avvennero la scissione che la lacerò e la nascita
della Narodnaja volja, la cui febbrile deriva terroristica culminò
nel 1881 con l'uccisione di Alessandro II, lo zar 'liberatore'.
Questo avvenimento, a causa della repressione che ne seguì, provocò
una crisi profonda nel movimento rivoluzionario russo, concludendone
di fatto un'intera stagione.
Franco Venturi, storico insuperato delle idee, dei programmi e
dell'intera parabola storica dei populisti russi, ha giustamente
retrodatato la vicenda storica del populismo al 1848. Nella sua
persuasiva e ormai unanimemente accettata periodizzazione del
fenomeno l'intero scenario evocato dal termine narodničestvo si
estende elasticamente nel tempo in due direzioni, vale a dire
all'indietro appunto verso il 1848, e in avanti verso i nuovi
sviluppi del movimento socialista russo, un movimento segnato
profondamente, e per sempre, anche nella fase bolscevica, nonostante
le roventi polemiche e le aspre ripulse, dall'esperienza
populistica.
La fortuna del termine in questione, a partire dal terreno
strettamente semantico-lessicale, è stata infatti tenuta in vita e
ulteriormente dilatata, dopo l'eclisse dei primi anni ottanta,
proprio dalla critica di quei socialisti russi, talvolta riparati in
Occidente, che facevano riferimento ai programmi politici della
socialdemocrazia europea e che si trovavano tuttavia costretti a
confrontarsi, e a venire inevitabilmente a patti, con i problemi
ineludibili, e di fatto insormontabili, posti dalle tutt'altro che
esaurite ragioni sociali e strutturali che avevano disegnato
l'originale fisionomia del movimento populista russo. Tali ragioni,
malgrado l'ormai iniziata industrializzazione in aree limitate
dell'immenso Impero, avevano pur sempre a che fare con l'estesissima
arretratezza precapitalistica, complicata e non sanata
dall'emancipazione dei servi del 1861, con la persistente centralità
assoluta del mondo rurale, e con la forma "semi-asiatica e
semi-feudale", secondo la definizione di Marx, del sistema zarista
di potere e di controllo sociale.
È comunque con il fallimento in Occidente delle rivoluzioni
democratiche del 1848-1849 che si può far datare l'inizio di un
approccio 'populistico' allo sviluppo delle idee rivoluzionarie in
Russia, un approccio che sempre, sul terreno culturale come su
quello politico, è stato innescato da una risposta alle sfide
vincenti (lo sviluppo), o anche alle sfide abortite (l'avvento della
democrazia), delle aree geoeconomiche considerate storicamente più
evolute. Dopo aver letto i risultati, pur animati da forte spirito
conservatore, del viaggio-inchiesta in Russia del barone prussiano
Haxthausen, e dopo aver ritenuto praticamente esaurita, nel
1849-1850, la spinta propulsiva della dinamica democratica e
socialista in Occidente, fu Herzen che cominciò a individuare nel
patrimonio comunitario dei contadini russi, vale a dire nella comune
rurale spontaneamente e non artificialmente collettivistica
(l'obščina), il punto di partenza della rigenerazione sociale - e
morale - in Russia. Nell'Impero zarista la strada verso la
redenzione doveva così restare, rispetto all'Europa occidentale,
rigorosamente autonoma e rispettosa della propria specificità.
Poteva anzi essere la Russia, e non viceversa, a indicare al mondo
sviluppato, pur superiore quanto a risorse materiali, la via della
soluzione democratica e popolare della questione sociale: ex Oriente
lux.
Ed ecco profilarsi i fondamenti essenziali dell'identità del
movimento socialista-populista russo, un'identità in gran parte
costruita nell'ambito del confronto-contrasto con la realtà
economico-industriale europea e con il panorama sociale
proletarizzato che ne era scaturito. La presunta arretratezza non
era realmente tale: per i populisti rivoluzionari, che si trovavano
per questo aspetto in sintonia con l'orgoglio 'grande-slavo' o
addirittura panslavista dei pur reazionari 'slavofili', si trattava
di una differenza strutturale e di una via peculiare che poteva e
doveva, tra l'altro, consentire di evitare le forche caudine e le
peripezie sociali dello sviluppo capitalistico, quello sviluppo che
per i socialisti occidentali si poneva invece come una tappa
intermedia ineludibile, nonché produttrice di enorme ricchezza
collettiva e anche di irrinunciabili spazi di libertà. Il territorio
da cui far partire la battaglia per un'emancipazione futura, che
equivaleva di fatto alla restaurazione della pienezza del comunismo
rurale, non era la città, ma la campagna, non l'industria anonima e
spersonalizzante, ma il mondo patriarcale e fortemente coeso della
produzione rurale associata.
Il soggetto rivoluzionario per eccellenza era di conseguenza
costituito dai contadini, che si identificavano in toto appunto con
il popolo e con la virtuosa morale comunitaria che lo
contraddistingueva, e non dagli operai, consustanziali - tanto da
esserne il prodotto più clamorosamente visibile - con il processo
capitalistico-borghese, un processo che corrompeva i costumi
imborghesendoli con miraggi mercantili, divideva la comunità,
degradava il tessuto sociale, creava individui e individualismi,
allontanava dalle radici profonde, e naturali, della vita
collettiva. Il socialismo, o il comunismo, non erano l'esito più o
meno inevitabile, il rovesciamento-inveramento, da attuarsi con le
riforme o con la rivoluzione, della dinamica capitalistica giunta
alla sua feconda maturità, ma esistevano da tempo
nell'organizzazione sociale e nel grembo antico delle istituzioni
comunitarie russe, tanto da esserne diventati una sorta di codice
genetico. Il che fare non consisteva, infine, nell'assecondare lo
sviluppo storico, presunto alleato nell'Occidente della causa
dell'emancipazione operaia, in attesa della conquista della
democrazia da parte dell'immensa maggioranza proletarizzata (e
quindi potenzialmente e a posteriori socialista), ma nel liberare
l'immensa maggioranza contadina, già socialista a priori, dalle
sovrastrutture parassitarie, in primo luogo dallo zarismo
autocratico-liberticida e dall'aristocrazia fondiaria, con il
risultato di lasciar spontaneamente scorrere in superficie il libero
fiume incorrotto di un universo contadino e popolare messo
finalmente nelle condizioni di obbedire, invece che a padroni
esogeni e dispotici, alla propria natura.
Se lo sviluppo industriale era dunque in Occidente l'alleato
dell'emancipazione operaia e della marcia verso il socialismo,
nell'Europa orientale, per i populisti, esso era considerato la
possibile causa di un deragliamento strutturale che, con esiti
irreversibilmente antisocialistici, avrebbe potuto anche inquinare e
nel tempo demolire il comunismo contadino autoctono. A questo
proposito, anche se in chiave decisamente critica, e non certo
apologetica, Jules Michelet - in un passo pubblicato nel 1854
all'interno delle Légendes démocratiques du Nord, ma scritto nel
1851, immediatamente dopo la lettura di Herzen - confermava che
l'essenza della vita russa, in virtù della distribuzione della terra
da parte della comunità rurale, era "il comunismo", un comunismo
sorvegliato e promosso dall'autorità del signore feudale: la forza
della Russia, per Michelet, analoga per certi versi a quella degli
Stati Uniti, consisteva in una "specie di legge agraria", ossia
nella "distribuzione della terra a tutti i sopravvenienti". Il
confronto con gli Stati Uniti, del resto, non era certo una novità,
e lo stesso concetto di populismo uscirà ulteriormente approfondito
e reso più complesso, alla fine del XIX secolo, dall'esperienza
americana. Non solo Tocqueville, infatti, nella celebre chiusa della
prima parte de La démocratie en Amérique, aveva profetizzato (in
America nella libertà, in Russia nella schiavitù) un vitale destino
di contiguità tra le due nazioni 'popolari' per eccellenza, ma lo
stesso 'slavofilo' Kireevskij, amico di Herzen, nel 1830, cinque
anni prima di Tocqueville, aveva identificato nei Russi e negli
Americani, in quanto popoli giovani e non logorati, i soli due
soggetti dello scenario internazionale salvatisi dal generale
rilassamento dei costumi subìto dall'umanità civilizzata.
2. Populismo russo e socialismo
L'esaltazione del popolo, racchiuso in una sorta di fissismo sociale
che predisponeva forme di resistenza contro l'invadenza
traumatizzante della storia, nonché erede e depositario della forma
organica e armonica per eccellenza della convivenza, richiedeva
tuttavia la predicazione, o anche l'agitazione rivoluzionaria
introdotta dall'esterno, da parte di un ceto sociale largamente
presente in Russia, non di rado privo di un'occupazione stabile,
spesso frustrato (soprattutto dopo la Rivoluzione francese) e
psicologicamente attratto-respinto dall'Occidente, vale a dire
l'intelligencija, parola nata significativamente negli anni
sessanta, con qualche anticipo sul termine narodničestvo. Il popolo
contadino, infatti, in ragione dell'oppressione che subiva e delle
condizioni miserevoli in cui, anche sul piano spirituale, si
trovava, era comunista e non sapeva di essere tale. Non aveva cioè
conoscenza dell'enorme potenziale di liberazione imprigionato
nell'obščina, e cioè in quelle istituzioni che pure costituivano la
forma della sua vita sociale quotidiana.
Occorreva accostarlo, trovare un linguaggio comune, risvegliarlo,
indirizzarne nella giusta direzione le pulsioni di rivolta,
scuoterlo con azioni esemplari, non esclusa, nei momenti di
particolare disperazione, l'arma estrema del terrorismo. Occorreva
insomma convincerlo che il comunismo era lì, non restava che
afferrarlo. Narodnik, populista, non era del resto l'uomo del
popolo, vale a dire il contadino russo, la cui autoevidenza
'popolare' non aveva infatti bisogno di ulteriori specificazioni, ma
il militante proveniente dalle file dell'intelligencija che incitava
il popolo a diventare consapevolmente ciò che esso già era. Emergeva
qui una costante di ciò che sarà, in contesti certo diversi, il pur
variegato concetto di populismo, un costrutto concettuale che aveva
e ha tuttora a che fare non tanto con le presunte caratteristiche
specifiche del popolo, quanto con la relazione che si viene a creare
tra tali caratteristiche (esposte come fatti e come valori) e i
soggetti esterni, o anche interni (ma autonomizzatisi), i quali, con
motivazioni diverse, intendevano e intendono valorizzarle, portarle
alla luce, rappresentarle, organizzarle, mobilitarle. Il
protobolscevismo leninista, all'inizio del XX secolo, senza volgere
formalmente le spalle allo schieramento socialdemocratico
internazionale, seppe, universalizzandola, e riferendola al
proletariato, dare sostanza teorico-politica proprio a questa
relazione.
D'altra parte, un'aporia di partenza, probabilmente ineliminabile,
risiede nel concetto stesso di 'popolo', nell'accezione in cui
questo termine viene comunemente inteso e usato. I Romani, com'è
noto, avevano escogitato la formula Senatus Populusque Romanus, a
testimonianza del fatto che il popolo era una delle due componenti,
quella plebea, della Respublica romanorum. Tale componente era
naturalmente di gran lunga la più numerosa e il principato, dopo il
crepuscolo della repubblica, fu anche la risposta cesaristica alle
lacerazioni generate dall'antagonismo tra le due componenti. Nel
mondo moderno e contemporaneo, tuttavia, il 'popolo' sin nelle
stesse costituzioni - frutto, queste ultime,
dell'istituzionalizzarsi della sfida lanciata dal liberalismo e
dalla democrazia - diventerà la totalità della popolazione, resa
compatta in taluni casi dal concetto forte di 'nazione', e il luogo
sociale-universale da cui, legittimando il potere, verranno fatte
scaturire la sovranità e la rappresentanza. Esso non smarriva però,
neppure sotto il profilo semantico-lessicale - soprattutto in talune
circostanze, e in taluni contesti storici - la sua originaria
parzialità, la sua dimensione assiologica, il suo passato e il suo
presente di generica subalternità, e infine la sua aprioristica e
compatta organicità, contrapposta alla complessità policlassistica
delle società moderne e nel contempo alle formazioni oligarchiche
germinate dal potere politico-amministrativo e dal denaro.
L'ambiguità derivava dal fatto che il 'popolo' era, insieme, la
collettività dei cittadini (un concetto giuridico-politico che
privilegia l'inclusione di tutti i soggetti della 'nazione') e la
collettività dei produttori (un concetto sociopolitico, si pensi al
Terzo stato di Sieyès, che può fondarsi sull'esclusione degli
'oziosi', ma anche, talora, dei cosiddetti parassiti, dei
politicanti, degli intellettuali, dei 'borghesi', soprattutto di
quelli che vivono della mediazione, come, in un noto stereotipo, gli
ebrei, ecc.). Non sempre, ovviamente, le due collettività poterono
identificarsi. Il 'popolo' fu così, di volta in volta, o
contemporaneamente, il 'tutto' e la 'parte', tanto che chi non
veniva identificato con il popolo - concetto dotatosi nel
romanticismo e in genere nel XIX secolo di una dimensione religiosa
o addirittura mistica - poteva essere ritenuto estraneo, straniero,
alieno e anche nemico. Il populista, così, poté essere talora colui
che, in nome dei valori originari e preesistenti del popolo,
enfatizzava prima la percezione che il popolo aveva di se stesso
come 'parte' larghissimamente maggioritaria e purtuttavia insidiata
nelle sue prerogative e addirittura nella sua identità, valorizzava
poi la protesta collegata a tale percezione e spingeva infine la
'parte' ad autoconsiderarsi come 'tutto' e a sentirsi integrata con
le proprie istituzioni originarie, con i programmi diffusi dal
populista stesso, o anche, in talune esperienze novecentesche, con
lo Stato e con le élites al potere, soprattutto con quelle recenti
di origine 'plebea'.Tutto ciò, pur partendo dall'esperienza russa,
ha tuttavia a che fare con la deriva che ebbe il concetto di
populismo in generale, identificabile, in quanto tale, non con una
dottrina sistematizzata una volta per tutte, ma piuttosto con un
atteggiamento politico, e mentale, cangiante nel tempo e nelle
diverse realtà territoriali.
Che cosa fu invece il populismo russo realmente esistito? Che cosa
rappresentò nella storia della Russia? Numerose e autorevoli sono
state le risposte fornite dalla storiografia a queste domande. Per
Venturi e per Berlin esso fu sostanzialmente un'occasione mancata, e
anche autoritariamente soffocata (dallo zarismo e dal bolscevismo),
tanto da rappresentare la possibilità non realizzatasi di uno
sviluppo democratico e liberale del movimento socialista russo,
parte integrante, pur nella sua specificità, del movimento
socialista europeo del XIX secolo. Per Gerschenkron, invece, che
fece della sua conclamata differenza una sorta di modello esemplare,
il populismo russo fu un fondamentale e 'rivelatore' capitolo della
storia delle ideologie in una situazione di arretratezza. Per altri
ancora, come Strada (v., 1971), esso fu il movimento che conferì una
"logica", cui si affiancò la "storicità" marxiana, al successivo
movimento rivoluzionario russo, e in particolare al bolscevismo di
Lenin. La questione della continuità (oggettiva) o della
discontinuità (soggettiva e oggettiva) tra populismo e bolscevismo è
d'altra parte, da tutti i punti di vista, assolutamente ineludibile.
Diverse furono, del resto, le anime del populismo russo:
aristocraticamente liberale e democratica quella di Herzen;
anarco-ribellistica e antitedesca quella di Bakunin;
democratico-utopistica e letterariamente 'realistica' quella di
Belinskij; legata a intellettuali di rango sociale declassato e
portatori di radicalità crescente quella di Černyševskij e di
Dobroljubov (i cosiddetti 'nichilisti'); neogiacobina quella di
Tkačëv; internazionalistica quella di Lavrov; e così via, sino al
tenebroso Nečaev, agli intransigenti, ai terroristi, ma anche, dopo
la crisi del 1881, sino ai populisti liberali o 'legali' (Daniel'son
e Michailovskij) da una parte e, dall'altra, al raggruppamento
Čërnyi peredel, sorto nel 1879. Quest'ultimo, favorevole all'azione
politica, costituirà il punto di partenza che anni dopo consentirà a
una componente del movimento populistico, grazie al ruolo
inizialmente giocato da Plechanov, di confluire nel POSDR (Partito
Operaio Socialdemocratico Russo), formatosi nel 1894 e, a partire
dal 1903, pienamente 'occidentalista', vale a dire non coinvolto nel
particolarismo populistico-slavofilo, solo, e non sempre, con la
frazione menscevica. Tutte le sfaccettature, e le propensioni, del
pensiero democratico e socialista occidentale sono state comunque
recepite dal populismo russo, il quale ha mantenuto la propria
fisionomia e la propria fedeltà al comunitarismo rurale autoctono,
ma ha mutato le strategie e le forme organizzative, sospinto
certamente dall'evoluzione storico-sociale della Russia e tuttavia
anche grazie alle suggestioni assorbite dalla cultura filosofica,
politica e letteraria occidentale. Il populismo non poté dunque
emanciparsi dall'Occidente.
Il socialismo 'occidentalizzato' russo, quello che si autodefiniva
socialdemocratico, non poté, a sua volta, emanciparsi dal populismo.
Lo stesso Lenin, del resto, pur individuando nel populismo
l'ideologia del "piccolo produttore" utopista e reazionario, intriso
di "romanticismo economico", e pur riconoscendo come ormai
irreversibili gli sviluppi dei rapporti capitalistici di produzione
in Russia, ebbe a considerare la socialdemocrazia russa come la sola
erede legittima del populismo rivoluzionario e dei combattenti della
Narodnaja volja.
Il bolscevismo al potere, invece, soprattutto alla fine degli anni
venti, dopo la proclamazione della teoria del socialismo in un paese
solo, farà di tutto, cancellando d'autorità ogni dibattito
storiografico, per rimuovere persino la memoria di tale eredità,
divenuta ora doppiamente imbarazzante con la collettivizzazione
delle campagne e con la terribile repressione-deportazione dei
contadini, annientati nella loro residua autonomia e nella loro
capacità di resistenza. Il kolkhoz e il PCUS, intrecciati nelle
campagne in una sintesi politico-sociale da cui scaturiva un
socialismo che poteva apparire una sorta di populismo totalitario di
Stato, avrebbero potuto infatti essere interpretati come due entità
perversamente complementari, atte a riprodurre in modo allargato e
onnipervasivo il sodalizio dispotico-orientale - da Marx in molte
occasioni denunciato - che, sino al 1861 e anche oltre, aveva fatto
della comune rurale e dello zarismo autocratico due facce di una
medesima medaglia.
3. Farmers americani e populismo individualistico
Intanto nel 1891, a Cincinnati, negli Stati Uniti, era stato fondato
il People's Party, noto poi come 'partito populista'. Si trattava di
un partito che per un certo periodo ebbe dimensioni ragguardevoli e
che sorse come reazione dei piccoli contadini (farmers), e in genere
dei piccoli e piccolissimi proprietari, contro lo strapotere,
denunciato come giugulatorio, del sistema bancario e della grande
finanza plutocratica. Già nei primi anni del Novecento, tuttavia, il
People's Party vide contrarsi drasticamente la propria capacità di
penetrazione e i propri consensi. Nel 1912 il partito non esisteva
più. A partire dal 1893, comunque, dopo che nel 1892 era stato steso
a St. Louis il preambolo alla piattaforma del partito, aveva
cominciato a diffondersi sui giornali, ma anche nell'ambito della
pubblicistica politica, il sostantivo populism: che sarà poi esteso,
anche retroattivamente, allo stesso populismo russo. Il People's
Party fu peraltro, nei primi anni novanta, il punto terminale,
concretizzato in un'organizzazione politica, di una assai vasta
protesta agraria, originata negli ultimi tre decenni del secolo
dalla crisi sociale e morale succeduta nel Sud alla guerra civile,
ma anche - e forse soprattutto - dagli effetti della 'grande
depressione', che tra il 1870 e il 1897 era stata accompagnata,
negli stessi Stati Uniti, da un calo quasi continuo dei prezzi
agricoli. Si può anzi dire che quando il partito nacque le ragioni
che avevano surriscaldato l'agitazione agraria stavano per
assopirsi, attenuando di conseguenza, negli anni a venire,
l'intensità dell'agitazione stessa.
Le aree geografiche in cui si insediò il partito populista, che ha
rappresentato nella storia americana il tentativo forse più serio di
spezzare il tradizionale duopolio del sistema politico statunitense,
furono peraltro quasi esclusivamente quelle più colpite dalla crisi,
e cioè il Sud, ovverossia gli ex Stati confederati, e il Middlewest.
I militanti del nuovo partito - una meteora politica che intercettò
umori e malumori destinati a sopravvivere a lungo nella società
americana, ben oltre la sua scomparsa, e in realtà mai tramontati -
si proponevano di combattere il monopolio delle compagnie
ferroviarie, la grande proprietà anonima della terra, le tariffe
protezionistiche, il monometallismo aureo che rendeva scarso il
denaro liquido e potentissimi i possessori del medesimo, insomma il
grande capitale industriale e finanziario che aveva il suo centro
nell'Est, in particolare a Wall Street, e i tentacoli dappertutto.
Non solo il big business e il money power, che dividevano la nazione
in poveri laboriosi e in milionari corruttori e parassiti, venivano
tuttavia avvertiti come nemici, ma era considerato tale anche il
nascente melting pot. Avversari dichiarati, e odiatissimi, erano
infatti - e ancor più per la base che per i dirigenti - gli ebrei,
gli immigrati più recenti, gli stranieri, e naturalmente i neri. Con
non pochi sospetti venivano inoltre considerate le tortuose persone
istruite, cui veniva contrapposta la semplice e rettilinea etica
dell''uomo comune', del piccolo produttore onesto, dell'individuo
cioè che, solidarmente con i propri simili, percepiva la propria
piccola proprietà rurale - una microcomunità di lavoro e di destino
- come autonomia di vita, come fatto insormontabile, come valore
irrinunciabile, persino come missione religiosa. La ricchezza, si
sosteneva, doveva appartenere a chi la produceva; per ostacolare
questo elementare principio erano sorti ovunque intrighi e
giganteschi complotti. In particolare, negli stessi documenti
programmatici del People's Party, veniva denunciata "una vasta
cospirazione contro l'umanità, organizzata su due continenti e ormai
dilagante nel mondo intero".
Il termine populism, tuttavia, pur sollecitato dalla comparsa della
nuova realtà politica, non servì solo per descrivere oggettivamente
la fisionomia del nuovo partito. Esso si autonomizzò
progressivamente dal contesto specifico, come forse era inevitabile,
e cominciò ad assumere, nella lingua inglese, sfumature negative.
Tali sfumature erano destinate, negli anni successivi, a persistere,
e anzi ad ampliarsi, tranne qualche vistosa eccezione, in tutte le
lingue occidentali. Già nella seconda metà degli anni novanta alla
parola in questione venivano infatti associati significati che
tendevano a connotare il populismo come un fenomeno accostabile al
paternalismo e alla demagogia. E se in russo il termine
narodničestvo, criticato o meno che fosse il movimento, veniva
sempre collegato a una forma di socialismo (magari 'romantico', o
'utopistico', o, per usare un termine della storiografia sovietica,
'democratico-rivoluzionario'), ora il termine populism - sebbene il
movimento americano venisse sottoposto dopo il 1945 a un lungo
dibattito storiografico sulle sue componenti 'di sinistra' e 'di
destra' - si discostava nettamente dal socialismo e in una qualche
misura si bipartiva in due realtà senza dubbio contigue, ma
differenziate per referente e per significato.
Per un verso, infatti, sul versante oggettivo, dal punto di vista
della sociologia della modernizzazione (si pensi a Barrington Moore
o anche agli studi di Gino Germani sull'America Latina), esso stava
a significare una sorta di sindrome che si impadroniva della
'piccola gente' - strutturalmente difforme nei vari paesi - in una
situazione di disagio economico accentuato o nel corso della
difficile transizione da un'economia prevalentemente
agrario-contadina, largamente fondata sull'autoconsumo, a
un'economia permeata nelle stesse campagne da un'industrializzazione
e da una finanziarizzazione crescenti. Il populismo, in altre
parole, rappresentava una forma di resistenza e una risposta
autoreferenziale, ma di massa, alle difficoltà e ai traumi, anche
psicologici, di un dirompente mutamento sociale. Questa sindrome
poteva accomunare due situazioni pur diversissime come quella della
Russia precapitalistica, dove la resistenza si concentrava sulla
sostanza naturaliter socialista della comune agraria, e quella degli
Stati Uniti capitalistici, dove la resistenza, attingendo al
patrimonio agrario jeffersoniano e all'individualismo della
frontiera, si concentrava, cercando invano di sottrarsi ai
'politicanti' di Washington, sulla piccola proprietà dei farmers e
dei coloni.
Il populismo, insomma, sarebbe una sorta di attaccamento nei
confronti di ciò che, causando grandi disagi, sta per tramontare, un
attaccamento che non sembrerebbe tuttavia avere una funzione
disperatamente e inutilmente conservatrice, ma parrebbe poter essere
utilizzato - difficile dire con quale tasso di redditività - come
ammortizzatore e come anticorpo in grado di attutire gli inevitabili
contraccolpi generati dai passaggi più rudi della trasformazione in
atto.Per un altro verso, sul versante soggettivo, dal punto di vista
della sociologia della conoscenza (Wissensoziologie, termine
introdotto nel 1909), il populismo rientra a pieno titolo nella
storia delle ideologie.
A partire dall'esperienza americana - la quale però 'rivela'
nell'identità del lessico aspetti presenti nell'esperienza russa -
il concetto si carica di significati particolari che mirano a
individuare nell'atteggiamento populistico, come si è visto, il
paternalismo (moderatore) o la demagogia (estremizzatrice) di chi,
per fini propri, di ordine politico o sociale, utilizza, organizza o
mobilita la sindrome ravvisata sul versante oggettivo.
Successivamente, nella critica che, con intenti antitetici, ne fanno
sia i liberali che i socialisti, il populismo diventa anche, e forse
prevalentemente, sulla scorta delle suggestioni letterarie (si
pensi, per restare in Russia, all''umilismo' e al 'dolorismo' di
Dostoevskij o al misticismo panico di Tolstoj), sinonimo di vago
umanitarismo e di atteggiamento sentimentale e velleitario davanti
ai problemi sociali, ritenuti solubili grazie all'amore per il
popolo. Vi sarebbero dunque, per riassumere sinteticamente i
significati 'negativi' che la parola tende a incorporare, un
populista demagogico, che approfitta di una particolare situazione e
che in sostanza inganna a proprio vantaggio il popolo realmente
esistente, e un populista sentimentale che, pur in buona fede,
idealizza il popolo e non riesce quindi in modo concreto, e
soprattutto in modo radicalmente risolutivo, a lenirne i disagi.
4. Peripezie europee di un concetto
Nel frattempo, stimolata dalla precedente comparsa della parola
inglese, nel primo decennio nel Novecento compariva in francese la
parola populiste, e non solo come corrispettivo del termine di
origine americana, ma anche, e soprattutto, al fine di tradurre il
russo narodnik, ovverossia, come recitava il Larousse mensuel
illustré del 1907, il "membro di un partito che in Russia sostiene
tesi di tipo socialista": un partito che era evidentemente quello
socialista rivoluzionario, largamente maggioritario, appunto in
Russia, rispetto alla socialdemocrazia, e incontestabilmente
collegato con la stagione eroica del populismo. Nel 1912, ne La
Russie moderne di Alexinsky, un testo divulgativo destinato a un
buon successo, compariva finalmente in francese il sostantivo
populisme. Il libro veniva tradotto l'anno successivo in inglese,
ottenendo sempre un buon successo, e il populisme francese si saldò
allora con il populism angloamericano.
La stessa parola veniva dunque ormai usata per significare cose
certamente assai diverse, ma tra loro accorpabili, come si è visto,
in ragione di qualche affinità. Ed è proprio su queste affinità che
ha lavorato negli anni il lessico politico, con il risultato di
estrarre-elaborare un concetto dotato di un incerto e mobile statuto
semantico, ma anche di un'ampia e multidirezionale utilizzabilità
pratica. Si pensi, d'altra parte, che il libro di Alexinsky conobbe
in Francia una nuova edizione aggiornata nel 1917, dopo la
Rivoluzione di febbraio, quando l'interesse per le cose di Russia, e
per quelle rivoluzionarie in particolare, era comprensibilmente
cresciuto, e destinato a crescere a dismisura in seguito all'Ottobre
bolscevico.
In tedesco la parola utilizzata, e proveniente dall'esterno, fu
Populismus. Parola tipicamente tedesca - e in qualche modo
inquietante, visto l'uso che ne venne fatto da parte dell'estrema
destra tra Repubblica di Weimar e Terzo Reich - fu però völkisch.
Questo termine ebbe gran fortuna soprattutto negli anni venti, in
particolare nell'ambito della cosiddetta "rivoluzione
conservatrice", acquistando un significato plurimo dove l'elemento
nazionale, quello popolare e quello razziale si compenetrano con
forza, alludendo a una complessa fisionomia nordico-germanica che
tende a racchiudere in sé razza, popolo, stirpe, lingua e natura.
Il termine völkisch, nei contesti a valenza filosofico-politica, in
genere non viene tradotto perché, dato il suo carattere insieme
composito ed evocativo, è considerato intraducibile. Volgerlo in
'populista' sarebbe certo unilaterale e fuorviante, ma qualche
elemento di affinità, anche in questo caso, potrebbe essere
rintracciato.
I cosiddetti Völkischen, comunque, per il fatto di richiamarsi
direttamente a ciò che è originario, sono stati considerati da Armin
Mohler il primo dei cinque raggruppamenti essenziali che concorrono
a formare la nebulosa della "rivoluzione conservatrice". Gli altri
sono i Jungkonservativen, i Nationalrevolutionäre, i Bündischen e la
Landvolkbewegung. L'elemento 'popolare' o 'populista' compreso nel
völkisch precede comunque, in quanto natura e spirito, la realtà
meramente artificiale dello Stato, e resta ontologicamente ed
eticamente al di sopra di essa: rappresenta infatti il patrimonio
primigenio, e non scalfibile, dello 'stare assieme' proprio dei
Tedeschi.
In Italia il termine populismo, a quanto sembra, penetrò dopo la
prima guerra mondiale e in modo particolare all'inizio degli anni
venti. Il 3 dicembre 1921, con in calce la firma Baretti Giuseppe
(in realtà Piero Gobetti), comparve su "L'Ordine Nuovo" un articolo
sul tema in questione. Avrebbe fatto da tramite, seguendo alcuni
dizionari, la lingua inglese, dove il termine, adottato tra l'altro
per fornire di significato un fenomeno autoctono e non straniero, si
era effettivamente sedimentato da un maggior numero di anni; ma è
possibile che anche il francese sia stato determinante: si pensi, a
questo proposito, a quanta letteratura russa, prima dell'attività
delle edizioni torinesi Slavia, curate, tra gli altri, da Alfredo
Polledro e da Leone Ginzburg, fosse arrivata in Italia, sino appunto
agli anni venti, tradotta dal francese.
È un fatto, però, che Piero Gobetti, eccellente conoscitore e
traduttore della lingua russa, nel Paradosso dello spirito russo,
uscito postumo nel 1926 (ma scritto nel 1925 e comprendente anche
articoli del quinquennio precedente), scrivesse, a proposito
ovviamente del movimento russo, 'popolismo' invece che 'populismo'.
La grafia non ancora consolidata, e così evidentemente e volutamente
'italiana' del termine (senza cioè anglicismi, o francesismi, o
anche latinismi), conferma che il termine stesso era di conio
abbastanza recente e di non frequentatissimo utilizzo. Per Gobetti i
populisti realmente esistiti, la polemica contro i quali si
affiancava a quella contro l'intelligencija, erano stati sognatori e
agitatori illusi e sentimentali. Ma la sua argomentazione, invero
originale e anche francamente paradossale, non si fermava qui. Le
idee populistiche, infatti, soprattutto sul terreno economico,
intrise com'erano di "grossolano progettismo" e di declamazione
rousseauiane, affondavano le loro radici in un mondo rurale arcaico.
Di questo mondo i populisti, i veri egualitari, i veri
collettivisti-comunisti della storia russa, avevano voluto
preservare i caratteri fondamentali. Per questo si erano proposti
come portatori di un'ideologia sentimentale, primitiva, teocratica e
reazionaria quanto e più di quella slavocentrica e imperial-zarista.
Il bolscevismo, invece, nelle peculiari e non esportabili condizioni
russe, era un movimento 'realisticamente' liberalrivoluzionario e
intimamente, in virtù del primato accordato all'azione,
anticollettivista e anticomunista. Era insomma, in antitesi con il
nullismo socialistico dei populisti, e soprattutto grazie ai soviet,
l'espressione della modernità dispiegata e della formazione, in
terra d'Asia, contro ogni comunitarismo livellatore e
oscurantistico, del libero individuo autoconsapevole. Il
bolscevismo, in rebus ipsis, volente o no, si sarebbe piegato alla
propria stessa energia e avrebbe favorito in Russia l'inevitabile
sviluppo del capitalismo, formazione sociale che, tra libertà
politica e liberismo economico, rappresentava per Gobetti il
capolinea della storia economica del mondo moderno e contemporaneo.
Il populismo, invece, complice di fatto dello zarismo 'asiatico',
aveva fornito sino all'irrompere del bolscevismo, insieme alle altre
forze del passato, un contributo decisivo all'azzeramento della
possibilità stessa di una rivoluzione liberale in Russia.
Sul terreno letterario, tuttavia, il termine ebbe, quantomeno in
Francia, qualche risonanza positiva. Nel 1929 venne infatti steso,
da André Thérive e Léon Lemonnier, il Manifeste du roman populiste,
che intendeva aprire la letteratura, e la forma-romanzo in modo
particolare, all'universo popolare, alle condizioni di vita e di
lavoro del popolo delle città e dei paesi, ai sentimenti degli
operai, degli artigiani e dei piccoli commercianti, abbandonando nel
contempo da una parte lo sterile cerebralismo delle
iperintellettualistiche avanguardie letterarie e dall'altra
l'esasperato psicologismo del romanzo 'borghese'. C'era chi, come
per esempio Henry Poulaille, o anche il pacifista anarchico Marcel
Martinet, avrebbe preferito l'aggettivo 'proletario' piuttosto che
'populista', ma il Manifeste, e ancor più la letteratura che a esso
in qualche modo si ispirò, erano assai lontani, con la loro
attenzione per il mondo degli umili e con il loro realismo 'magico'
impregnato di forte e insieme malinconico lirismo, dalla poetica
staliniano-zdanovistica che sarà poi nota, nell'URSS e fuori, come
'realismo socialista'. Il romanzo 'populista' più famoso, e
destinato a maggior successo, fu Hôtel du Nord (1929) di Eugène
Dabit, la cui versione cinematografica, ad opera nel 1938 di Marcel
Carné, contribuì in modo decisivo ad ampliarne la fama.
E fu proprio il cinema francese della seconda metà degli anni
trenta, con le sceneggiature di Prévert, a incarnare al meglio
l'indirizzo artistico che non aveva temuto di autoproclamarsi
'populistico'. Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, in una
nota del 1931, intervenne su questi movimenti letterari francesi
"verso il popolo", definendoli tendenze appunto populiste, oltre che
idealizzanti, e interpretandoli ruvidamente come "ripresa del
pensiero borghese che non vuole perdere la sua egemonia sulle classi
popolari e che, per esercitare meglio questa egemonia, accoglie una
parte dell'ideologia proletaria". Quest'interpretazione esprimeva
bene, a sua volta, l'ostilità della teoria comunista - mirante a
difendere il primato della 'classe' - nei confronti del concetto
stesso di populismo, interclassista e sentimentalmente idealistico,
cui veniva contrapposta, per citare ancora Gramsci, "la potenza
politica e sociale del proletariato e della sua ideologia" (Quaderno
6, § 168). In modo più descrittivo, e assai meno ideologico,
Gramsci, su questo tema, e partendo sempre dall'ambito letterario,
intervenne ancora nel 1934, ricordando che Francesco De Sanctis
nell'ultima fase della sua vita rivolse la sua attenzione al romanzo
'naturalista' o 'verista'. Questo romanzo (Gramsci pensava
probabilmente a Zola) era stato l'espressione intellettuale del più
generale movimento di chi si proponeva di "andare al popolo", e cioè
del populismo professato da alcuni gruppi intellettuali nell'ultimo
scorcio del secolo, allorquando la democrazia quarantottesca era
tramontata e le città avevano accolto, per lo sviluppo della grande
industria, grandi masse destinate a infoltire i ranghi della classe
operaia (Quaderno 23, § 1).
Il populismo, in questo caso, sarebbe l'atteggiamento,
oggettivistico e sociologizzante (e quindi non sentimentale),
assunto dalla "classe dei colti", nell'età del positivismo maturo,
davanti al fenomeno dell'irruzione delle masse popolari - e della
classe operaia in particolare - sulla scena della città
moderna.Quanto al regime fascista italiano, pur ponendo esso al
centro delle proprie sistematizzazioni teorico-politiche la nozione
e la realtà del 'popolo', vale a dire del protagonista della
mobilitazione totalitaria, ovviamente non si definì mai 'populista'.
Saranno la storiografia e la pubblicistica politica della seconda
metà del secolo a definire in qualche occasione 'populistici' alcuni
aspetti dei fascismi - non solo di quello italiano - e taluni
corposi aspetti della destra 'rivoluzionaria' novecentesca, così
diversa da quella 'controrivoluzionaria' del primo Ottocento e da
quella 'conservatrice' del secondo Ottocento. L'aura negativa
addensatasi sulla parola, soprattutto per quel che riguarda il
lessico politico, ne sconsiglierà d'ora in poi l'utilizzo
autodefinitorio.
Il popolo, per i fascisti italiani, costituiva comunque, dovendo
sintetizzare le diverse e anche difformi prese di posizione,
un'unità genetica che consentiva a ogni appartenente di uscire dalla
sua singolarità per ritrovarsi in una realtà che lo includeva: ciò
si verificava tuttavia solo in presenza di una forte e carismatica
spinta politica atta a indirizzare e a far sviluppare la volontà del
popolo di esistere come tale. Emergeva così, in una esperienza
storica che era diventata un regime politico, un carattere che poi
la scienza politica contemporanea e la stessa storiografia
ravviseranno come tipico dei populismi del XX secolo, presenti in
America Latina e in varie aree con problemi di sviluppo: il
plebiscitarismo permanente e il rapporto diretto tra le masse e il
capo, rapporto che impone la mediazione politica molecolare, la
pressione ideologica e la pratica clientelare da parte del partito
politico al potere e dei suoi apparati. Il concetto di fascismo,
peraltro a sua volta assai variegato e polimorfo, e il concetto di
populismo, fornito, come si è visto, di più radici storiche e di più
diramazioni, in nessun modo s'identificano. Possono però,
rispettando l'irriducibile autonomia semantica di ciascuno, e senza
eccedere nelle comparazioni, illuminarsi reciprocamente.
5. Dal populismo urbano al populismo senza popolo
La scienza politica e le analisi storiografiche, come si è già avuto
modo di anticipare, hanno ritenuto di definire populistici, pur con
le opportune distinzioni, un buon numero di regimi politici
presentatisi nel panorama storico dell'America Latina del XX secolo.
Dopo i populismi-movimenti si avevano dunque i populismi-regimi,
anche se, in genere, gli studiosi che effettuavano una tale
tipologia unificante avvertivano che tali esperienze ben poco
avevano da spartire con il populismo russo e con quello
nordamericano, se non il fatto, certo centrale, di sorgere e di
strutturarsi in aree di arretratezza relativa (rispetto all'estero
in Russia e in America Latina, rispetto a zone più 'moderne' del
paese negli Stati Uniti) e all'interno di una difficile transizione
economico-sociale.
I populismi più noti furono il varghismo brasiliano (1930-1945, da
Getulio Vargas), che riuscì, tra colpi di Stato e virate
autoritarie, con l'ideologia dell'Estado novo e con una struttura
sindacale di tipo corporativo, a stringere in un blocco sociale la
borghesia industriale, le classi medie e settori del proletariato di
fabbrica urbano; il peronismo giustizialista argentino (1945-1955,
da Juan Domingo Peron), il più vicino, per certi aspetti ideologici,
al fascismo, ma in grado di promuovere, in una congiuntura
favorevole per le esportazioni (gli anni immediatamente successivi
alla guerra), una politica sociale che gli garantì il sostegno dei
descamisados e di un forte movimento nazionalsindacale; l'aprismo,
dall'APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana, partito fondato
in Perù nel 1924 da Victor Raúl Haya de la Torre), mai andato in
realtà al potere, indigenista e vero prototipo ideologico del
populismo latinoamericano; il Movimiento Nacionalista
Revolucionario, fondato nel 1941 in Bolivia da Victor Paz
Estenssoro, più volte al potere e promotore di un processo
(1952-1956) che portò alla nazionalizzazione delle miniere e a un
tentativo di riforma agraria. E così via. Con la possibilità di
includere l'esperienza protopopulistica di Yrigoyen in Argentina
(1916-1922 e 1928-1930), alcuni governi colombiani, naturalmente la
parabola progressista-conservatrice del Partito rivoluzionario
istituzionalizzato del Messico, persino, dilatando lo spettro
ideologico, il castrismo cubano, inizialmente populistico, e poi
diversificatosi a causa in un primo tempo dello scontro frontale -
quindi senza processi osmotici - della guerriglia con la classe
dirigente locale, e poi a causa della chiusura degli Stati Uniti,
che costrinse il nuovo governo di Cuba a chiedere udienza e sostegno
a Mosca.
Alcune caratteristiche comuni hanno contraddistinto tutte queste
realtà, tanto che il populismo latinoamericano ha designato, di
volta in volta, nelle indagini e nelle tassonomie che ne sono state
fatte, un universo ideologico, un movimento, un insieme di partiti,
un insieme di regimi politici. Il 'populismo', in altre parole, è
stato un passepartout concettuale applicabile, con efficacia
esplicativa, a fasi particolari delle realtà latinoamericane. Le
caratteristiche in questione hanno avuto comunque e innanzitutto a
che fare, come è già stato messo in luce, con la transizione
dall'economia agricola all'economia industriale, il che, tra
l'altro, è stato sostenuto, da studiosi come Gellner e Hobsbawm,
anche al fine di situare l'eziologia storica degli stessi concetti
di 'nazione' e di 'nazionalismo'. Il populismo, del resto, fu sempre
anche nazionalistico (in una realtà postcoloniale e ispanolusitana
dove le 'nazioni' hanno ovviamente, sullo stesso piano territoriale,
un tasso di artificialità elevatissimo), talvolta volto a esaltare
la tradizione antichissima di un popolo (non escluse le origini inca
o azteche), talvolta, almeno ideologicamente, antistatunitense,
antimperialista e antiplutocratico.
A differenza che in Russia e negli Stati Uniti, il populismo
latinoamericano è stato però fatto iniziare, in sintonia con la
dinamica strutturale del subcontinente, nel periodo della prima
guerra mondiale, il che lo differenzia nettamente dal caudillismo
ottocentesco, dai diversi bonapartismi 'straccioni' e da esperienze
iperpresidenzialistiche e dittatoriali come l'oligarchismo
latifondistico di Porfirio Diaz in Messico. Fu infine, sempre in
antitesi ai movimenti russo e nordamericano, un fenomeno
essenzialmente urbano, che coinvolse masse di recentissima
immigrazione nelle città. Si trattava di masse ovviamente non
tutelate sino a quel momento da alcun sindacato, prive di
qualsivoglia integrazione sociale e di qualsivoglia protezione
politica, ma certo ormai lontanissime psicologicamente dal mondo
rurale di provenienza e ben disponibili ad ascoltare gli appelli di
chi si proponeva di mobilitarle ricorrendo a un messaggio ideologico
schiettamente populistico (non nel senso 'storico', ma nel senso del
bricolage proposto dalla scienza politica), centrato cioè
sull'apologia dei valori che il popolo credeva propri e sul rapporto
il più possibile diretto, non mediato cioè da strutture
istituzionali intermedie, tra le masse e il leader. La conclamata e
sempre osannata supremazia della volontà popolare, sintesi del
raggrumarsi policlassistico di segmenti diversi di una realtà
prevalentemente urbana, e la fascinazione plebiscitaristica
diventarono così il cuore, e il nerbo, dello sfondo ideologico e
politico del populismo latinoamericano.
Anche in altre aree del pianeta, contrassegnate dai problemi di un
difficile decollo economico e da un panorama sociale traumatizzato,
sono state ravvisate da una parte una sindrome, e dall'altra una
mobilitazione ideologica che potrebbero essere etichettate come
populistiche. Si pensi all'Indonesia di Sukarno, all'Egitto di
Nasser e a diversi aspetti ideologici, complicati dalle
contrapposizioni della guerra fredda, del cosiddetto 'non
allineamento' e anche del 'terzomondismo'. La determinante, e per
certi versi quasi esclusiva, presenza dei contadini in tanti
processi di decolonizzazione e anche in grandi rivoluzioni che pure
si sono proclamate 'socialiste', come la cinese e la vietnamita, ha
potuto inoltre far pensare a una deriva populistica di enorme
portata lungo tutto il XX secolo. Il mancato realizzarsi della
previsione formulata dal movimento socialista ottocentesco, vale a
dire la non avvenuta trasformazione socialistica nelle aree 'forti'
dell'industrialismo capitalistico, ha spostato l'attenzione sulle
rivoluzioni autoproclamatesi socialiste del XX secolo, verificatesi
tutte, Russia compresa, nelle aree dell'arretratezza, del
sottosviluppo, della ridottissima presenza operaia, della prevalente
e schiacciante presenza contadina. Si è potuto così pensare anche a
una grandiosa rivincita-resurrezione del populismo, rurale e nel
contempo autonomo promotore autoritario di sviluppo extrarurale, nei
confronti del socialismo 'occidentalistico' del XIX secolo, urbano e
realizzabile solo al termine dello sviluppo promosso
dall'antagonista capitalistico.
Nello stesso sionismo politico, d'altra parte, e ancor più nella
forma-kibbutz, affine per certi versi all'obščina, è stata
intravista, in questo caso con molte buone ragioni filologiche,
l'eredità specifica del populismo russo. Si pensi infatti, oltre al
messianismo e all'attesa di redenzione politica e sociale, alla
provenienza geografica di tanta diaspora ebraica. Tuttavia il
dilatarsi del concetto ha rischiato, come sempre, di attenuarne, o
vanificarne, la carica esplicativa, di renderlo cioè generico. Nella
stessa America Latina, del resto, la spinta definita populistica è
sembrata essersi esaurita: prima, tra gli anni sessanta e settanta,
a causa di svolte autoritario-reazionarie promosse da organismi
oligarchici e dittature militari in sintonia con interessi stranieri
e nordamericani, pronti a irrigidire la presa sul subcontinente in
parallelo con il contemporaneo ripiegamento nel Sudest asiatico e
nel mondo arabo; poi, negli anni ottanta, a causa di una riproposta
certo importante - anche se non sempre limpida, considerato lo
scenario sociale attraversato da macroscopiche diseguaglianze -
della democrazia rappresentativa e del riformismo.
Non vi è stato cioè più spazio, se non in forme parziali, per la
'terza via' populistica, vale a dire per l'osmosi
plebiscitaristico-demagogica tra autoritarismo e riformismo. Vi era
spazio solo per l'uno o per l'altro.Ha comunque avuto
sostanzialmente ragione Gerschenkron, che ha legato il populismo
all'arretratezza, ma non a quella assoluta e immobile del mondo
primitivo, bensì a quella relativa e mobile del mondo moderno. Sono
infatti state la presa di coscienza dell'arretratezza nel momento
della transizione economica, l'insoddisfazione psicosociale che ne è
derivata, e la risposta politica che ha prodotto, che hanno
rappresentato il comune denominatore di tutti i fenomeni storici che
sono stati inglobati, in un modo o nell'altro, nel gran contenitore
del populismo.Il termine 'populismo' si era tuttavia ormai
autonomizzato dal contesto 'tecnico' degli imperativi della
modernizzazione nei paesi arretrati. Destrutturato rispetto ai
significati di partenza, e quindi ormai polivalente, si trovava a
essere introdotto, con intento sempre polemico, all'interno dei
dibattiti culturali e politici.
Nel 1965, ad esempio, per restare al caso italiano, veniva
pubblicato l'assai diffuso e discusso Scrittori e popolo di Alberto
Asor Rosa, propugnatore del cosiddetto 'punto di vista operaio'. Si
trattava di una storia della letteratura, in cui però l'intero
gramscismo italiano veniva messo in discussione. Nel Gramsci dei
Quaderni, infatti, veniva individuato un epigono di Gioberti, cui in
effetti si deve una prima riflessione sui concetti di 'egemonia' e
di 'nazionalpopolare'. Una tale eredità non lo poneva evidentemente
al riparo, come accadeva a molti intellettuali e scrittori italiani
progressisti, dal populismo paternalistico e dalla smania di 'andare
al popolo', annegando nell'indistinzione interclassista di
quest'ultimo l'irriducibile autonomia della classe operaia, vera
matrice dell'innescarsi dei conflitti radicali tipici del mondo
industriale.
Meglio, molto meglio, secondo Asor Rosa, il lucido e aspro
disincanto degli scrittori a tutto tondo borghesi, che, senza
lasciarsi afferrare e distrarre da miti arcaici d'origine contadina
o dalla filologia pauperistico-cattolicheggiante del
sottoproletariato, aprivano spiragli in direzione di un futuro che
la classe operaia, finalmente priva di saccenti maestri e di grilli
parlanti immersi nei buoni sentimenti del passato, s'incaricherà di
conquistare. Il libro di Asor Rosa si inseriva del resto
precocemente, sul terreno storico-letterario, in un clima e in una
crisi che nel 1970 Nicola Matteucci, contrapponendo il confuso
presente all'operoso scenario del 1945 ancora illuminato dalla
presenza della cultura liberale, ebbe a definire "insorgenza
populistica". La scena era dominata da un cattolicesimo che aveva
smarrito appunto gli anticorpi liberali e da un operaismo a parole
rivoluzionario e in realtà pansindacalistico. Si stava scontando
duramente il fallimento dell'età delle riforme e del centrosinistra.
Quanto al 'populismo', si avvertiva che esso non andava inteso nel
senso storico (ad esempio: il populismo russo), ma nel senso più
strettamente sociologico, col fine di cogliere l'apparire di
un'atmosfera attraversata da idee semplici e da passioni elementari,
da un diffuso antintellettualismo e dalla rivolta contro lo
specialista, l'esperto, lo studioso, in nome appunto di sentimenti
primitivistici, paragonabili, sul piano formale, a quelli
dell'interventismo del 1915 - sorto operando una sorta di aggressiva
tabula rasa dei valori dell'Italia liberale - e a quelli del
fascismo di sinistra, apologeta delle 'nazioni proletarie' in odio
alle 'demoplutocrazie'.La caduta dei comunismi, scompaginando oltre
tutto l'ordine arcigno della guerra fredda, avrebbe poi mutato le
cose e generato nell'Est europeo, e in particolare nella Russia di
El´cin, flussi di partecipazione politica e di arroccamento sociale
che sarebbero stati definiti 'nazionalpopulistici'. Il populismo, da
questo punto di vista, tornava allora al suo punto di partenza e
alla sua patria di elezione. A cavallo inoltre tra il crepuscolo
degli anni ottanta e il primo quinquennio degli anni novanta, in
concomitanza, in Italia, con la crisi politica e morale del sistema
dei partiti che ha posto in difficoltà non solo i partiti stessi, ma
anche le forme esistenti della rappresentanza, il termine
'populismo', con significati spesso diversi e modificato in
permanenza dal vortice della comunicazione mediatica (che ha
devastato, tra l'altro, la parola 'giustizialismo', trascinandola
incongruamente dall'ambito dell'ideologia peronista a quello
dell'azione giudiziaria), è tornato prepotentemente alla ribalta. Il
tracollo disordinato dei canali intermedi di connessione tra il
cittadino e il governo, appunto i partiti, su cui per un certo
periodo è caduta una sorta di damnatio memoriae, ha favorito,
secondo alcuni, lo sviluppo di una deriva plebiscitaria, animata da
un'aggressiva videopolitica che è sembrata incarnare una vistosa
dimensione populistica.
La platea cui si sarebbe rivolta la nuova democrazia plebiscitaria,
diretta e referendaria - surrogato della democrazia rappresentativa
in crisi - sarebbe però stata un 'popolo' assai diverso da quello
del passato: un 'popolo' non contadino, ovviamente, e neppure,
altrettanto ovviamente, operaio di recente formazione, ma il popolo
virtuale dei sondaggi e degli ascolti televisivi, costituito in gran
parte dal crescente settore del piccolo lavoro autonomo (talvolta
ultraliberista), dalle sacche ancora persistenti di lavoro salariato
(talvolta neostataliste) e dall'area in aumento della
disoccupazione, dell'occupazione precaria e della sottoccupazione.
Il 'populismo' sarebbe però diventato in realtà, e non solo in
Italia, per usare un orrendo neologismo, 'gentismo', e cioè trionfo
dell'indistinto, dell'omogeneo sempre mutevole, del 'senza radici'.
Si sarebbe infatti affermato, secondo i sociologi, che già da tempo
ragionano di "folla solitaria", il regno della moltitudine, frutto
della globalizzazione (o mondializzazione) che fa implodere le
masse, affossa le appartenenze, deterritorializza, produce
sradicamento e spaesamento. L'ultimo arrivato tra i populismi -
forma di resistenza ancora una volta contro l'ennesima transizione,
vale a dire contro il cosmopolitismo just in time di un'economia che
realizza finalmente la sua antica vocazione internazionalistica -
sarebbe così un populismo senza popolo. Un populismo forse perfetto.