Politica pubblica


Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

di Gloria Regonini

Sommario: 1. Prime definizioni. a) Politics e policy. b) Un'altra idea di pubblico. c) Formale e informale. 2. Una storia americana. a) I think tanks. b) I centri interni alle istituzioni. c) Le università. d) Le organizzazioni professionali.  3. Altri contesti. 4. Una pluralità di approcci. a) L'analisi razionale delle politiche pubbliche. b) La policy inquiry. c) Lo studio del policy making. d) La scelta pubblica. 5. Nuove tendenze. a) Le politiche come giudizi. b) Le politiche come argomenti. c) Le politiche come pratiche. □ Bibliografia.Prime definizioni

La più illuminante definizione di politica pubblica è stata data cinquant'anni fa dallo scienziato politico americano David Easton: "una politica pubblica [...] consiste in una rete di decisioni e di azioni che alloca valori" (v. Easton, 1953, p. 130). Nelle società democratiche le riallocazioni di valori operate dalle istituzioni sono in genere legittimate dall'esigenza di trovare soluzioni a problemi di interesse comune: la crescita del tasso d'inflazione, lo smaltimento dei rifiuti, il rumore delle discoteche. E le reti di decisioni e di azioni tendono a essere molto larghe e articolate (v. Kenis e Schneider, 1991). Studiare le politiche pubbliche significa capire quali problemi, valori, decisioni e azioni sono in gioco quando, ad esempio, il ministro dell'economia, i rappresentanti delle parti sociali e la banca nazionale affrontano una fase di andamento negativo dei conti pubblici. O quando sindaci, imprese edili, associazioni del volontariato e protezione civile tentano di contenere gli smottamenti in un'area montana. Che cosa accade di solito in questi casi? E quali strumenti potrebbero migliorare la qualità dei risultati ottenuti?

Adottare questa prospettiva obbliga a collegare in modo trasversale eventi in genere considerati entro ambiti separati: l'iter legislativo di una proposta per ridurre il rischio idrogeologico, ma anche l'intervista su questo tema a uno scienziato ambientalista durante un programma televisivo di grande ascolto; le tecniche di costruzione nelle aree montane, ma anche le rivendicazioni degli addetti alla verifica dell'abitabilità degli edifici; gli interessi delle imprese che traggono profitti dal turismo locale, ma anche le mode che decretano il successo o la decadenza di un villaggio montano.

Un approccio di questo tipo porta il ricercatore a travalicare continuamente i confini disciplinari tra scienze giuridiche, politologiche, economiche, sociologiche, manageriali. Ma l'elenco potrebbe continuare, includendo l'urbanistica, la psicologia sociale, la medicina e via dicendo. Infatti, l'elemento che struttura l'analisi di una politica pubblica è il problema che l'ha messa in moto, qualunque sia la sua origine e quali che siano le risorse mobilitate per cercare di risolvere - o almeno contenere - il disagio: strumenti repressivi, oppure incentivi; campagne pubblicitarie o creazione di nuovi apparati; appelli su Internet o negoziazioni tra i soggetti coinvolti.

Politics e policyPer non sconfinare nell'improvvisazione o nell'arbitrio, tanta libertà di spaziare tra campi disciplinari diversi deve essere bilanciata da un severo rigore teorico, metodologico e deontologico (v. Carlsson, 1996). Ma non tutti i contesti culturali agevolano tale approccio. Gli Stati Uniti sono, senza dubbio, la nazione che più di ogni altra ha contribuito a creare e a consolidare questo ambito di ricerca. L'Italia, invece, ha importato tardi e a fatica questo modo di guardare alle tensioni che traversano la nostra convivenza civile.

I motivi di tale differenza sono talmente profondi da rendere complicata persino la traduzione letterale di molte espressioni che appartengono al lessico dei policy studies. Infatti l'italiano, come le altre lingue neolatine, dispone di un unico termine per identificare due campi di azione pubblica: la politica come politics, ossia come competizione per il consenso e per la conquista delle posizioni di potere, che nelle democrazie sono assegnate in base alla conta dei voti; la politica come policy, ossia come insieme delle intenzioni e degli atti volti a risolvere un problema sentito come rilevante da molti. Così, usiamo lo stesso sostantivo sia nella frase 'ai giovani non interessa la politica', sia nella frase 'ai giovani non interessa la politica previdenziale', mentre inglesi e statunitensi, per analoghe affermazioni, utilizzerebbero due termini diversi, politics nel primo caso e policy nel secondo (v. Heidenheimer, 1985).

Il fatto di dare uno o due nomi a queste sfere di attività pubblica porta a sottolineare le loro interdipendenze nel primo caso e le loro differenze nel secondo. Nel nostro paese, le politiche pubbliche sono considerate come effetti quasi automatici delle relazioni che si consolidano entro la sfera politica. Pertanto, le aspettative circa lo sviluppo delle politiche scolastiche, sanitarie o fiscali sono quasi interamente condizionate dalla visione che ciascuno ha della politica (politics). Chi la considera come un'arena in cui si scontrano gruppi rivali si aspetta che i governi di sinistra facciano politiche di sinistra, e che quelli di destra agiscano nella direzione opposta. Chi pensa che la politica sia il luogo della collusione o del 'consociativismo' spiega con il fatto che 'tanto i politici sono tutti uguali' la comparsa di tratti ricorrenti nella gestione delle politiche pubbliche.

Nel contesto politico e culturale statunitense, invece, la percezione della distinzione tra politics e policy è talmente netta da scivolare spesso nell'aperta contrapposizione. Si rilegga, ad esempio, quanto scrive Harold Lasswell, il fondatore delle policy sciences: "Il termine policy è libero da molte delle indesiderabili connotazioni collegate alla parola political, che spesso è considerata sottintendere ruoli partigiani e corruzione" (v. Lasswell, 1951, p. 5).

Anche quando non sconfina nel pregiudizio contro la politica, l'analisi delle politiche tende a ridimensionare il peso delle promesse, delle accuse o delle rivendicazioni fatte dai leaders politici nei dibattiti davanti agli elettori. Infatti, anche il più semplice dei progetti richiede la convergenza di un'ampia serie di fattori che raramente possono essere sottomessi al controllo totale delle maggioranze di governo. Questa osservazione dimostra come il rapporto tra politica e politiche, che per le lingue neolatine suona scontato, nelle società anglofone sia per l'appunto un problema di ricerca (v. Beyme, 1986, p. 541).

Un'altra idea di pubblicoNell'espressione 'politiche pubbliche' non è solo il sostantivo a costituire un problema, perché anche l'aggettivo assume connotazioni diverse nel passaggio dall'area anglofona all'Europa continentale. Nella letteratura politologica statunitense di matrice pragmatica, questo termine segnala una tensione e un impegno che ci coinvolgono in quanto individui non completamente liberi di disporre delle nostre vite, perché legati ad altri da quella comune avventura che è la convivenza in una stessa epoca e in una stessa società. Questo legame possiede una tenacia originaria più forte delle formule politico-istituzionali in cui si concretizza. Su di esso, prima che sulle carte costituzionali, si regge l'esercizio della democrazia: "Una democrazia è più di una forma di governo: è essenzialmente un modo di vivere insieme, di fare esperienze comunicandole l'un l'altro" (v. Dewey, 1916, p. 225).

Alcuni autori (v. Fischer, 1987; v. Aaron, 1978) hanno rilevato come l'universalismo evocato dal termine public in molti casi sia solo apparente, date le vistose disuguaglianze che dividono le nostre società. Ma tale rilievo, più che sminuire l'importanza di questo concetto, ne evidenzia un aspetto centrale: la lunghezza del raggio che una società prende a riferimento per disegnare la sfera del pubblico, facendola più o meno inclusiva, non è un dato né ovvio né costante. Come notava ancora John Dewey, "Il problema più rilevante del Pubblico è la scoperta e l'identificazione di se stesso" (v. Dewey, 1927, p. 185).

Dunque, a conferire carattere pubblico a una situazione è il fatto che i singoli cittadini considerino le loro strategie come interdipendenti le une dalle altre, sicché diventa vantaggioso per tutti lo scambio delle informazioni e il coordinamento, indipendentemente dallo status giuridico dei soggetti cui è demandata la realizzazione tecnica delle soluzioni.

Formale e informaleIl rigetto di qualunque legame, anche indiretto, tra il concetto di pubblico e il concetto di Stato è uno dei tratti che caratterizzano i policy studies. In questa prospettiva, rientrano nella categoria delle politiche pubbliche non solo le decisioni delle autorità con un potere formale di intervento, ma anche iniziative quali l'impegno di associazioni non profit, la raccolta di fondi lanciata dai frequentatori di una chat, la campagna d'opinione promossa da alcune testate giornalistiche, o il codice di autoregolazione di un ordine professionale. Infatti, in molte situazioni critiche, queste forme di coordinamento dal basso offrono un rimedio più rapido ed efficace di quello fornito dalle amministrazioni pubbliche.

Nel lessico continentale europeo, invece, il concetto di pubblico oscilla tra due significati: quello di spettatore passivo e quello di autorità statale. Ma entrambi questi significati sono inadeguati a spiegare ciò che - nell'accezione pragmatica statunitense - rende una politica 'pubblica', anziché 'privata'.

Soprattutto nel contesto italiano, una politica pubblica è spesso identificata con le leggi e gli altri atti formali compiuti dalle istituzioni politiche competenti. Ma l'identificazione è sbagliata, perché esistono politiche senza leggi, come negli esempi appena citati; ed esistono leggi senza politiche, come accade alle tante norme promulgate e mai implementate. Dunque, l'idea che se qualcosa non funziona nell'intervento pubblico occorre cambiare la legge, è solo una tra le tante ipotesi plausibili.

Questa osservazione mette in luce un altro dei tratti essenziali degli approcci orientati alle politiche: il proposito di considerare insieme decisioni ufficiali e accomodamenti impliciti, programmi e contesti, intenzioni ed effettive realizzazioni. Detto in altri termini, lo studio delle politiche pubbliche è una disciplina attenta non solo agli aspetti formali, ma anche a quelli informali (v. Stone, 1988). Nel valutare l'attuazione di una stessa politica in luoghi o in tempi diversi, l'analista muove dalla consapevolezza che minime variazioni dei dati di contesto possono determinare risultati anche molto divergenti. Le teorie e le pratiche che partono da questo concetto tendono dunque ad accantonare come irrealistico il proposito di identificare regole generali o conclusioni sempre valide, per concentrarsi invece sulla verifica di ipotesi di medio raggio. La tipica struttura di una ricerca di policy identifica: a) una serie di cause, spesso tra loro interrelate in modo non lineare; b) una fitta rete di attori, ciascuno con i suoi interessi e la sua cultura; c) un elenco di possibili interventi, tentati con alterne fortune in altre situazioni; d) una rosa di proposte, caratterizzate da diverse combinazioni di costi e benefici; e) una sequenza di decisioni adottate in svariati ambiti, istituzionali e non; f ) un insieme di indicatori per il monitoraggio degli effetti, che spesso non si adeguano alle attese.

In Italia, invece, il discorso sulla sfera pubblica è articolato da discipline che promettono una maggiore capacità di tenere sotto controllo quello che avviene all'interno di questo ambito. Solo i saperi che si nutrono di forti certezze sembrano dare garanzie di efficacia, obiettività e imparzialità. Il primato spetta naturalmente al discorso giuridico, vero 'esperanto' nella comunicazione pubblica italiana. L'importazione dal mondo anglosassone delle tecniche legate al 'new public management' ha poi comportato, a partire dagli anni novanta, una crescente diffusione del discorso economico. L'e-government ha segnato, infine, il tardivo ingresso sulla scena di un terzo tipo di competenze, quelle dell'ingegnere o dell'informatico. Nel nostro paese, queste sono le uniche professionalità trasversali riconosciute e gli unici punti di riferimento - anche etici - per le scelte pubbliche. Da questi saperi ci si attende la capacità di decifrare le cause di successi e fallimenti, di identificare le soluzioni migliori, di tutelare valori quali l'imparzialità e l'uguaglianza.

Ora, è fuor di dubbio che anche nei paesi dove lo studio delle politiche concorre a plasmare il dibattito civile e l'intervento pubblico questi apporti disciplinari continuino a dare un contributo prezioso al buon funzionamento delle amministrazioni. Le competenze giuridiche sono una risorsa fondamentale in ogni contesto, per ogni settore di policy. E, sul piano dei valori, la certezza del diritto è la base di qualunque teoria della democrazia. Le competenze economiche sono indispensabili per capire il rapporto tra costi e benefici e per vincolare gli attori a un uso intelligente delle risorse. Sul piano dei valori, dal principio 'nessun posto è gratis' viene un forte sostegno all'etica della responsabilità nelle decisioni pubbliche. Per quanto riguarda le competenze tecnologiche, la loro carenza nell'amministrazione italiana è una delle cause principali della sua inefficienza. Sul piano dei valori, il richiamo ai vincoli delle scienze 'dure' è un efficace antidoto contro la demagogia e le aspettative miracolistiche, spesso incoraggiate dai governanti.

Ma nel contesto anglosassone e nei paesi scandinavi, accanto alle tradizionali competenze fornite dal diritto, dall'economia, dall'ingegneria, si è diffuso un altro modo di guardare all'intervento pubblico, più attento alle relazioni informali oltre che a quelle formali, alle risorse tacite oltre che a quelle esplicite. In questi paesi, il discorso sulle dinamiche interne alla sfera pubblica da decenni può contare sull'apporto delle scienze sociali, che sono scienze del processo e della contingenza. Discipline quali la sociologia, la scienza politica, la psicologia, l'antropologia hanno arricchito la nostra conoscenza delle cause che determinano il successo o il fallimento di un programma. Grazie al loro contributo, possiamo ricostruire le pratiche con cui gli attori fanno fronte all'incertezza e all'imprevisto; possiamo capire il gioco delle convenienze politiche; possiamo spiegare l'amplissima forbice che spesso si apre tra le intenzioni dei policy makers e le loro effettive realizzazioni (v. Heidenheimer e altri, 19832). Insomma, possiamo sollevare il velo su quanto di impreciso, di contraddittorio e di vischioso c'è nei processi di costruzione e implementazione delle politiche pubbliche. E, soprattutto, possiamo guardare a questi aspetti come a fonti non solo di problemi, ma anche di soluzioni.Una storia americana

Per tutto il secolo scorso, gli Stati Uniti sono stati il paese che ha perseguito con maggiore determinazione l'obiettivo di integrare le scienze sociali tra le discipline legittimate a gestire i problemi di rilevanza collettiva. Anche se questo orientamento andrà verificato non appena saranno sedimentati gli effetti dell'attacco subito l'11 settembre 2001, nei decenni passati questo impegno ha prodotto un'enorme mole di studi, spesso definiti con termini quali policy studies, policy sciences, policy analysis, policy evaluation o, semplicemente, public policy.

Questo tipo di indagini affonda le sue radici in tratti distintivi della società americana: "Nonostante alcuni sforzi nella direzione opposta [...], le policy sciences sono ancora per la maggior parte basate sugli Stati Uniti per quanto riguarda la cultura, i valori impliciti ed espliciti, le assunzioni e le ortodossie" (v. Dror, 19942, p. 4). Secondo Aaron Wildavsky, uno dei più eminenti studiosi di questo settore, il pluralismo delle idee e l'importanza attribuita alla loro libera circolazione costituiscono per lo sviluppo dei policy studies un requisito tanto essenziale quanto difficile da trovare in altre tradizioni politiche: "In Giappone e in Europa è stata legittimata la competizione tra i partiti (alla stregua di gerarchie rivali), ma non ancora la competizione tra idee di policy che provengono dall'esterno dei partiti o della burocrazia" (v. Wildavsky, 19922, p. XXVII).

A differenza di quanto è avvenuto in Europa, negli Stati Uniti lo sviluppo della public policy è saldamente intrecciato a quello della scienza politica, e più precisamente al pragmatismo e a quella passione per l'osservazione dei comportamenti concreti che ha trovato nel comportamentismo l'espressione più significativa. Entrambe queste correnti esortano a diffidare delle generalizzazioni astratte e ad andare oltre le dichiarazioni ufficiali. Come osserva Douglas Torgerson, l'interesse per le politiche pubbliche deve molto "al pragmatismo e al movimento progressista dell'inizio del XX secolo, e precisamente alle figure di John Dewey e di Charles Merriam: questa storia continua tra molte sfide, fino a condurre ai tre contributi di Harold Lasswell, di Herbert Simon e di Charles Lindblom, che mirano a plasmare l'orientamento verso le politiche pubbliche; questa storia culmina, ma non finisce, con gli attuali tentativi di creare un orientamento che sappia evitare e sfidare ogni impostazione tecnocratica" (v. Torgerson, 1995, p. 228).

Negli anni trenta, l'accento - tipico del pragmatismo - posto sul fatto che le buone politiche sono quelle che danno buoni risultati si accordava con l'idea che nel settore pubblico il dibattito ideologico dovesse cedere il passo alla raccolta di dati e alla sperimentazione scientifica. Sull'onda di questo movimento, molte università decisero di incoraggiare la ricerca nel campo della pianificazione territoriale e della lotta contro l'emarginazione sociale. Da allora, l'interesse per l'analisi delle politiche pubbliche si è consolidato in un fitto reticolo di think tanks, di centri di ricerca interni alle istituzioni, di università, di organizzazioni professionali: i loro contributi costituiscono ormai un tratto fondamentale della vita politica e culturale statunitense (v. Dror, 19942). Questi quattro canali non solo hanno alimentato il flusso delle ricerche sulle politiche pubbliche, ma inoltre hanno promosso il prestigio di questa impresa intellettuale e garantito l'indipendenza di giudizio di quanti a essa si dedicano.

I think tanksL'espressione think tank (alla lettera, 'serbatoio del pensiero'), entrata nel lessico politico statunitense a partire dagli anni cinquanta, fa riferimento a centri di ricerca permanenti, dotati di un proprio staff, con una speciale competenza nello studio delle politiche pubbliche. La loro principale attività è la consulenza a enti di governo, imprese, organizzazioni degli interessi, testate giornalistiche, per i quali possono progettare, monitorare e valutare singoli programmi, pur senza avere alcun diretto coinvolgimento nella fase della loro esecuzione (v. Weiss, 1992). Secondo James Smith (v., 1989, p. 178), " 'Think tank' è un'espressione abbastanza amorfa per descrivere la varietà di assetti che questa nazione di inventori e sperimentatori di istituzioni ha escogitato, nel corso del XX secolo, per far pesare nelle questioni pubbliche la competenza tecnica, l'intuizione informale e il giudizio politico".

I centri interni alle istituzioniLe strutture di analisi interne all'esecutivo nel corso degli anni sono riuscite ad acquisire una grande rilevanza: "I presidenti possono oggi contare sui circa seicento esperti di policy e specialisti di bilanci dell'Office of Management and Budget. Due o tre dozzine di economisti fanno in genere parte dello staff del Council of Economic Advisers e cinquanta o sessanta esperti siedono nel National Security Staff. Poi ci sono gli specialisti che lavorano sulle politiche ambientali e dello sviluppo scientifico, dentro - o per - la Casa Bianca" (v. Smith, 1991, p. 13).

Ma il quadro non sarebbe completo senza considerare la straordinaria importanza assunta dalle tre strutture di documentazione e di analisi che coadiuvano deputati e senatori nella valutazione delle varie iniziative legislative all'interno del Congresso. Il Congressional Research Service, istituito nel 1914, svolge attività di ricerca e documentazione e occupa circa 600 addetti: suo compito istituzionale non è indicare le politiche migliori, bensì fornire tutti gli elementi per permettere al parlamentare la scelta più informata e ponderata. Il General Accounting Office, istituito nel 1921, ha un organico di circa 3.200 unità (dati 2002) che gli permette di condurre scrupolose valutazioni in tutti i principali settori di policy, con l'intento dichiarato di individuare le soluzioni più convenienti, una volta definite certe priorità; l'imparzialità e la qualità delle ricerche sono certificate annualmente da una commissione esterna, con una approfondita indagine a campione su alcuni degli studi prodotti. Il Congressional Budget Office, creato nel 1974, ha il compito di assistere i parlamentari in tutte le questioni che riguardano il bilancio, i provvedimenti che comportano spese, le questioni fiscali; a capo dell'ufficio, in cui lavorano circa 200 persone, si sono succeduti analisti di grande prestigio.

Le universitàIl flusso delle competenze per l'analisi delle politiche è alimentato dagli investimenti effettuati a livello accademico per la ricerca e la didattica. Nel 1919 l'Università di Berkeley istituì un Ufficio per l'amministrazione pubblica, in seguito ribattezzato Institute of Governmental Studies. Nel 1936 l'Università di Harvard seguì la stessa strada, fondando una scuola, in seguito dedicata al presidente John F. Kennedy. Da allora, i principali atenei hanno tutti avviato corsi di public policy, in genere collegati ai dipartimenti di scienza politica, di economia o di sociologia.

Le organizzazioni professionaliLe associazioni su base disciplinare hanno un ruolo importante nel facilitare la circolazione delle idee e nel rafforzare il prestigio dell'analista di politiche pubbliche. Nel 1971 nacque la Policy Studies Organization (PSO), la prima del suo genere, con l'obiettivo di "promuovere l'applicazione della scienza politica e sociale a importanti problemi di policy". Intorno a questo tema è inoltre cresciuto un folto numero di riviste che costituiscono sedi di dibattito scientifico, ma anche canali per la diffusione di esperienze pratiche.Altri contesti

Lo sviluppo dei policy studies negli altri paesi occidentali si distingue per due caratteristiche. Innanzi tutto, rispetto al contesto statunitense il profilo è senz'altro più basso per quanto riguarda l'ampiezza, la rilevanza politica e il grado di istituzionalizzazione della ricerca. Inoltre, l'oggetto di studio raramente è definito in termini di politica pubblica: si parla di progetti, programmi, investimenti, piani, mutuando le categorie chiave dall'economia o dalla scienza dell'amministrazione. Questa differenza non è di poco conto, perché rende più difficile incorporare nell'analisi aspetti quali la complessità dell'implementazione e il grado di collaborazione da parte dei destinatari. Inoltre, come abbiamo sottolineato, nel concetto di politica pubblica è implicita una tensione ideale verso 'il pubblico' come referente ultimo della valutazione, che altri paradigmi relegano nell'ombra o interpretano con categorie diverse.

Dopo questa premessa, occorre riconoscere che le organizzazioni internazionali hanno giocato un ruolo molto importante nel diffondere il linguaggio e i metodi di ricerca delle policy sciences, o almeno di quella parte di esse più orientata alla prescrizione di specifiche linee di azione. Innanzi tutto, molti di questi organismi nascono con una missione definita istituzionalmente in termini di policy: si pensi all'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS o WHO, World Health Organization), all'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), all'Organizzazione per l'Alimentazione e l'Agricoltura (FAO), al Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP). Altri si sono orientati sempre più decisamente in questa direzione: così ha fatto, ad esempio, la Banca Mondiale, dalla metà degli anni settanta impegnata in progetti a sostegno delle economie più fragili.

L'estrema eterogeneità delle credenze religiose, delle strutture economiche e dei sistemi politici rappresentati hanno indotto molte organizzazioni a privilegiare il linguaggio delle politiche pubbliche, almeno apparentemente neutrale, per la sua concretezza e per il suo orientamento verso criteri di valutazione indipendenti. E se la leadership politica degli Stati Uniti è stata spesso contestata all'interno di questi organismi, la loro leadership scientifica ha subito sfide solo marginali, in genere superate con le stesse risorse della policy analysis: studi di fattibilità, analisi costi/benefici, monitoraggio dell'output e dell'impatto.

In quella particolare istituzione multinazionale che è l'Unione Europea, il ricorso all'analisi delle politiche pubbliche è nato dall'esigenza di individuare procedure capaci di minimizzare i conflitti allocativi, rendendo più espliciti i criteri di scelta e più tecnici i processi di aggiudicazione delle risorse. Questa svolta è avvenuta negli anni ottanta, quando apparve chiaro che l'espansione dell'intervento comunitario non era governabile con l'esclusivo ricorso al criterio rigorosamente spartitorio precedentemente adottato per le politiche agricole.

Nei paesi dell'Europa continentale l'interesse per le politiche pubbliche è soprattutto il risultato di una conoscenza più ravvicinata della scienza politica statunitense, incoraggiata dagli scambi culturali degli anni sessanta e settanta. E tuttavia questo processo di importazione non è stato né rapido, né indolore. Secondo Wildavsky esso è stato ostacolato dall'autoritarismo latente nella cultura dei tradizionali protagonisti del policy making europeo, i politici e i burocrati: "È precisamente l'intolleranza per la consulenza indipendente che ha impedito alle scuole di public policy di decollare in Europa" (v. Wildavsky, 19922, XXVII).

Il caso italiano sembra confermare questo sferzante giudizio. Nel nostro paese, infatti, per l'esperto che intenda dare risonanza pubblica alle valutazioni di policy cui è pervenuto con le sue analisi, la via maestra rimane la ricerca di appoggio da parte di uno schieramento partitico, al fine di accedere a cariche nelle istituzioni politiche. Mentre nel governo e nel parlamento siedono molti professori universitari che spesso animano il dibattito sui media, le università, gli istituti di ricerca indipendenti, le fondazioni, le associazioni professionali hanno tuttora ruoli molto marginali nel policy making. Le conseguenze sono rilevanti. A differenza di quanto avviene nelle principali democrazie, gli organi costituzionali e le agenzie indipendenti si trovano ad assumere le loro decisioni senza potersi avvalere delle valutazioni di centri indipendenti, caratterizzati da elevati standard professionali e gelosi della loro apartiticità.

Per garantire rigore a un campo di ricerca con un oggetto di studio così multiforme, in cui confluiscono norme formali e fattori culturali, dati economici e reazioni emotive - cioè elementi normalmente indagati entro ambiti disciplinari tra loro non comunicanti - occorre esercitare un severo controllo su ogni fase del processo di ricerca: l'individuazione degli obiettivi, la scelta dei metodi, la verifica dei dati, l'esplicitazione delle procedure seguite, la discussione dei punti di forza e di debolezza nelle conclusioni raggiunte. In effetti, gli studiosi di politiche pubbliche considerano la pluralità degli approcci disponibili non come una patologia o come un sintomo di scarsa precisione, ma piuttosto come un segno di maturità scientifica. Lo stesso Lasswell, nei primi anni cinquanta, identificò questo tipo di studi con l'espressione policy sciences, sottolineando l'importanza del plurale.Una pluralità di approcci

Per mettere ordine nella grande varietà di ricerche riguardanti le politiche pubbliche, due dimensioni sono particolarmente significative: l'orientamento rispetto alle finalità della ricerca e le opzioni metodologiche di fondo.

La finalità rappresenta una caratteristica cruciale, perché esiste una netta differenza tra ricerche di tipo prescrittivo e ricerche di tipo descrittivo: le prime mirano allo studio 'per' il policy making e le seconde allo studio 'del' policy making, per riprendere la celebre distinzione di Lasswell (v., 1951). Le analisi del primo tipo esaminano i processi di formulazione e di attuazione dell'intervento pubblico in chiave diagnostico-terapeutica, con l'esplicito proposito di migliorarne i risultati o, quanto meno, ridurne i fallimenti. Le ricerche del secondo tipo mirano a ricostruire i contorni dei processi decisionali, i loro esiti, le caratteristiche degli attori che vi partecipano, le relazioni tra le diverse fasi, in modo da formulare modelli più realistici e incisivi del modo in cui le nostre società complesse affrontano le situazioni critiche. Sullo sfondo si delineano due profili professionali diversi: nel primo caso, la figura di riferimento è l'analista che, dall'interno o dall'esterno delle istituzioni, lavora per orientare le loro decisioni, e pertanto utilizza larga parte delle sue risorse per comunicare con coloro che fanno le politiche; nel secondo caso, la figura chiave è il ricercatore, che all'interno delle università e dei centri di ricerca, pubblici e privati, si confronta soprattutto con la comunità scientifica, da cui deriva i canoni per la validazione delle sue ipotesi.

La seconda dimensione fa riferimento alle due grandi opzioni metodologiche che caratterizzano la disciplina, con ricerche che seguono un approccio prevalentemente induttivo e altre che si basano invece su dimostrazioni di tipo prevalentemente deduttivo. Fanno parte della prima categoria le indagini che muovono dalla raccolta e dalla valutazione dei dati - quantitativi o qualitativi - per trarre conclusioni a conferma o a smentita delle ipotesi, come avviene nelle altre scienze sociali di orientamento empirico, siano esse la scienza politica, la sociologia o la psicologia. Appartengono invece alla seconda categoria le ricerche che basano le loro conclusioni su precise assunzioni circa le caratteristiche formali degli attori e dei contesti in cui agiscono, come fanno le teorie economiche, normative o positive. Infatti, l'economia è la scienza sociale che più di ogni altra è riuscita a derivare una serie molto elaborata di conclusioni circa le scelte di consumatori e produttori da alcune premesse relativamente semplici e intuitive che riguardano le caratteristiche dell'homo oeconomicus e le condizioni che definiscono il funzionamento dei mercati competitivi.

Occorre tuttavia notare che, dato il loro carattere eminentemente applicativo, i policy studies non possono certo aspirare a interpretare le diverse opzioni metodologiche con assoluta coerenza. Da un lato, l'uso del metodo induttivo è pesantemente condizionato dalla difficoltà di replicare gli esperimenti, per l'assenza di controllo sulle caratteristiche dei campioni esaminati. Mentre esistono protocolli per verificare se un certo farmaco è efficace o meno nel ridurre la mortalità perinatale, è certo più complicato impostare una ricerca sull'efficacia di una politica di sostegno alle esportazioni, in un contesto internazionale reso altamente instabile dai conflitti politici e dall'influenza delle nuove tecnologie. Dall'altro lato, gli approcci che adottano una strategia di tipo deduttivo, concentrando l'analisi sulla validità dei postulati e la correttezza dei percorsi logici che ne discendono, devono comunque guardarsi da semplificazioni troppo drastiche, che finirebbero con l'offuscare le effettive intenzioni e le concrete conseguenze delle decisioni pubbliche.

Dall'incrocio tra le due dimensioni che abbiamo presentato deriva una griglia capace di cogliere i tratti salienti di quattro tipici approcci, ciascuno caratterizzato da sue proprie potenzialità e da precisi limiti, e ciascuno attento a un diverso aspetto di quel complesso costrutto sociale che è una politica pubblica. Le denominazioni che qui di seguito utilizzeremo riflettono accezioni relativamente diffuse. Ma è necessario sottolineare che non esiste alcuna convenzione consolidata sul corretto uso di questi termini, che molti autori considerano sinonimi o impiegano con significati difformi.

L'analisi razionale delle politiche pubblicheLa rational policy analysis merita di figurare al primo posto nella nostra presentazione perché tra i non specialisti, e qualche volta anche tra gli esperti, è considerata il paradigma per eccellenza dei policy studies. Quando nel nostro paese un'amministrazione commissiona uno studio - si tratti della valorizzazione dei suoi beni culturali o del miglioramento dei servizi sanitari - in genere si aspetta un prodotto rispettoso degli standard fissati da questo approccio.

L'analisi razionale vede le politiche pubbliche soprattutto come decisioni (v. Quade e Boucher, 1968; v. Dunn, 1981). Le sue finalità, eminentemente prescrittive, possono essere sintetizzate in questi termini: 1) elaborare tutti i dati necessari per dare contorni precisi al problema che si intende affrontare (v. Carley, 1980); 2) selezionare le vie alternative realisticamente percorribili (v. Weimer e Vining, 1998); 3) individuare gli interventi in grado di garantire il miglior rapporto costi/benefici (v. Nagel, 19942); 4) valutare gli effetti della scelta attraverso il monitoraggio delle iniziative prese, dei risultati ottenuti, dell'impatto effettivo sul problema trattato (v. Osborne e Gaebler, 1992).

Per raggiungere questi obiettivi, l'analisi razionale ricorre di preferenza a metodi con una forte impronta deduttiva, come dimostrano i frequenti riferimenti all'economia, la disciplina che prima di ogni altra ha cercato di dare una risposta rigorosa a interrogativi quali: quando la regolazione pubblica è preferibile al libero mercato? In base a quali principî si può ritenere che una determinata distribuzione di risorse sia preferibile rispetto a un'altra? A quali conseguenze occorre guardare per formulare un giudizio? Quale arco temporale bisogna considerare per valutare i risultati in un determinato settore? Questi problemi di ricerca richiedono l'impiego delle tecniche proprie dei settori più formalizzati delle scienze sociali: l'economia pubblica, le discipline manageriali, la teoria delle decisioni, il problem solving. E richiedono, per la verifica delle ipotesi, una quantificazione, anche approssimativa, delle alternative in gioco (v. Stokey e Zeckhauser, 1978). Infatti, l'analisi razionale parte dal presupposto che sia possibile e utile fornire una qualche misura anche per quelle variabili che incidono molto concretamente sulla qualità della vita dei cittadini, ma che di solito sono lasciate nel vago e nel generico: il miglioramento dell'istruzione, la diminuzione del traffico, l'aumento della sicurezza personale, e così via.

La policy inquiryPer larga parte del pubblico italiano, il discorso sugli approcci prescrittivi si chiude con il capitolo sull'analisi razionale o, forse, ancora prima. A molti, infatti, pare impossibile proporre interventi pubblici che non prendano come parametri di riferimento la razionalità, l'economicità, l'efficienza.

Eppure, negli ultimi quarant'anni, molti autori, delusi dagli scarsi risultati ottenuti dalla rational policy analysis, hanno cercato altri punti di partenza e li hanno trovati nel riconoscimento che i problemi di policy, e le aspettative circa la loro soluzione, affondano le loro radici in contorte rappresentazioni sociali, in complesse interazioni, in incerte congetture non solo sul futuro, ma anche sul passato, oppure in storie incoerenti. L'estremo realismo di queste osservazioni, basate su un'ampia serie di ricerche empiriche, a prima vista sembra escludere qualunque declinazione in termini prescrittivi. Ma forse sono proprio questi i contributi che più valorizzano le potenzialità diagnostiche insite nel concetto di politica pubblica, qui considerata come un complicato esperimento sociale volto a dare un qualche senso alla convivenza entro una stessa società di persone con le più disparate esigenze.

Il termine inquiry guadagna il centro della scena con John Dewey, che intitola una delle sue opere maggiori Logic: the theory of inquiry (1938), facendo di questo vocabolo una delle parole chiave del pragmatismo. Come scrive David Paris (v., 1988, p. 86), "la policy inquiry deve riflettere la complessità e la confusione del mondo politico (political), con i suoi trade-off, le svariate e approssimative rivendicazioni, la conoscenza limitata, le conseguenze inattese. Se ciò rende la policy inquiry solo 'relativamente autorevole', forse è proprio questo tutto quel che essa può o deve essere in una società democratica".

Nella frase citata è implicita una severa critica all'analisi razionale. Secondo questi autori, infatti, la sua pretesa di individuare ciò che è bene per una società, senza fare i conti con le idee e gli interessi degli individui che la compongono, contiene implicitamente una tendenza dispotica, sia pure velata dai migliori propositi (v. Lindblom, 1990). Al contrario, dalla policy inquiry emerge il profilo di un professionista prudente, consapevole della pluralità delle passioni e degli interessi in gioco: "Che cosa ha prodotto una politica? Dopo aver assaggiato il frutto dell'albero della conoscenza, chi si occupa dell'implementazione può rispondere solo, in modo convinto, 'dipende...' " (v. Majone e Wildavsky, 1979, p. 180).

Questa consapevolezza porta a una radicale ridefinizione del tipo di risorse che l'analista può offrire ai policy makers. Nella sua 'cassetta degli attrezzi', infatti, entrano strumenti quali: a) la riflessività, intesa come capacità di vedere i limiti dei nostri schemi cognitivi anche mentre li stiamo utilizzando (v. Schön e Rein, 1994); b) la capacità di fare leva sugli interessi in gioco, per promuovere compromessi basati sull'aggiustamento reciproco (v. Lindblom, 1959); c) il ridimensionamento continuo delle aspettative miracolistiche, accompagnato dall'effettivo sfruttamento di ogni minimo margine di cambiamento (v. Wildavsky, 19922); d) il riconoscimento dei tratti caotici insiti nelle nostre vicende collettive, perennemente in bilico tra tensione progettuale e casualità (v. March e Olsen, 1989).

Lo studio del policy makingPassiamo ora a considerare le ricerche condotte con i tradizionali metodi empirici della sociologia e della scienza politica, con l'intento di capire come si sviluppano i processi di governo nelle democrazie contemporanee. Pertanto, le analisi di cui ci occupiamo ora si pongono finalità esplicative, predittive, o semplicemente descrittive. All'interno di questo approccio, le politiche pubbliche sono identificate essenzialmente a partire dai processi che innescano (v. Lindblom, 1980): la mobilitazione di chi chiede un cambiamento, le negoziazioni politiche, le deliberazioni, le procedure amministrative, le reazioni dei destinatari.

La prima impressione, ricostruendo gli eventi che hanno portato allo sviluppo o alla paralisi di una politica pubblica, è spesso quella di assistere a una telenovela con una sceneggiatura di bassa qualità, dove i colpi di scena sono continui e ingiustificati, la personalità dei protagonisti è delineata in modo contraddittorio, la trama è ripetitiva e piena di incoerenze: morti che ricompaiono, improbabili riconciliazioni, catastrofi inimmaginabili, per altro subito dimenticate. Dato che il mondo reale delle politiche, con i suoi aspetti inattesi e coloriti, è così distante dai resoconti ufficiali, il maggior pericolo da cui si deve guardare questo tipo di studi è lo scadere nell'aneddotico, nel racconto in cui ogni caso fa storia a sé (v. Stone, 1988). Dunque, per chi studia il policy making, è essenziale disporre di concetti, di immagini, di metafore (v. Kaplan, 1964; v. Sabatier, 1999) capaci di togliere le specifiche vicende dall'isolamento della singolarità per analizzarle nei loro elementi costitutivi, per collocarle in rapporto ad altre analoghe, per renderle adeguate alla verifica delle ipotesi teoriche.

Le principali categorie utilizzate per definire in termini analitici la fisionomia di una vicenda di policy fanno in genere riferimento a: 1) il peso specifico dei vari gruppi di policy makers: politici, burocrati, rappresentanti degli interessi, esperti, magistrati, opinion leaders (v. Jordan e Schubert, 1992); 2) la dinamica che regola le varie fasi del policy making (formazione dell'agenda, approvazione, implementazione, valutazione: v. Pressman e Wildavsky, 1973; v. Kingdon, 1984); 3) gli stili decisionali, più o meno cooperativi e lungimiranti (v. Richardson, 1982); 4) le regole, formali e informali, che definiscono il ventaglio delle mosse consentite (v. Wildavsky, 1987); 5) i contenuti (v. Lowi, 1964), cioè gli strumenti effettivamente utilizzati per mitigare, risolvere o rimuovere (v. Bachrach e Baratz, 1962) un problema di rilevanza collettiva.

Sullo sfondo sta un originale modo di guardare alle tensioni che attraversano le società postindustriali: "Il nucleo di questa prospettiva è un concetto decentralizzato di organizzazione sociale e di governo: la società non è più controllata esclusivamente da un'intelligenza centrale (ad esempio, lo Stato); piuttosto, i dispositivi di controllo sono dispersi, e l'intelligenza è distribuita tra una molteplicità di unità d'azione (o di elaborazione)" (v. Kenis e Schneider, 1991, p. 26).

La scelta pubblicaLe ricerche di cui ci occupiamo in questo paragrafo muovono da alcune assunzioni di base circa le preferenze degli attori razionali, le caratteristiche dei beni pubblici, l'influenza delle regole decisionali, il peso dei costi dell'informazione, per derivarne ipotesi sui rapporti tra policy makers e policy takers in particolari settori dell'intervento pubblico, quali le politiche previdenziali o ambientali, e in particolari ambiti istituzionali, quali i parlamenti, le agenzie indipendenti, gli Stati federali (v. McCubbins e altri, 1989). In questa prospettiva, le politiche pubbliche sono esaminate essenzialmente come scelte, cioè come decisioni consapevoli (v. Tullock e Wagner, 1978). Le risorse analitiche fondamentali sono fornite dalle teorie deduttive (o razionali, o economiche, o formali) delle decisioni pubbliche (o collettive, o sociali) (v. Amacher e altri, 1976).

L'assunto comune, di derivazione microeconomica, è che l'arena politica sia popolata da attori che hanno come principale obiettivo la massimizzazione del loro interesse personale, esattamente come avviene nel mercato. Le politiche pubbliche sono la merce di scambio con cui i governanti acquisiscono il consenso dei governanti e ottengono parte del loro reddito attraverso il prelievo fiscale (v. Buchanan e Tollison, 1972).

Gli elettori-contribuenti stanno al gioco, votando e pagando le tasse, perché sono interessati al prodotto dei governi in termini di difesa nazionale, pensioni, trasporti pubblici (v. Downs, 1957). Il problema è che, a differenza di quanto avviene nel mercato, nell'arena politica il punto di equilibrio tra domanda di politiche, da parte dei cittadini, e offerta, da parte dei governanti, tende a essere inefficiente (v. Fiorina, 1981). Infatti, la particolare natura delle questioni in gioco, la stratificazione di regole contorte, la complessità della catena dell'implementazione aprono enormi opportunità per strategie spregiudicate, con trasferimenti di risorse dalla vasta platea della popolazione a ristrette categorie di beneficiari - siano essi i politici, i burocrati, o i gruppi d'interesse - pronti ad approfittare di queste ghiotte occasioni (v. Olson, 1965; v. Niskanen, 1971). Termini quali 'volontà popolare' o 'consenso generale', comunemente usati nei testi di teoria politica o nei discorsi dei leaders, non sono che rappresentazioni antropomorfiche di quel che in realtà è solo il prodotto contingente del gioco degli interessi e di procedure imperfette (v. Riker, 1982).

Come è facile capire, molti autori considerano questo approccio incompatibile con le usuali definizioni di politica pubblica, dato che le brusche semplificazioni richieste dai suoi modelli tenderebbero a eliminare gli aspetti più interessanti del policy making. Insomma, a essere contestata è la possibilità di studiare le politiche come un caso speciale delle scelte razionali (v. Green e Shapiro, 1994). In effetti, i due concetti sono solo parzialmente sovrapponibili, perché le politiche pubbliche non sono solo scelte: sono anche il risultato di eventi che nessuno ha esplicitamente voluto, di situazioni che hanno preso una data piega per una serie di fattori che sfuggono al controllo degli attori.

La replica a questo argomento sottolinea come la radicale semplificazione cui ricorrono queste teorie non sia fine a se stessa (v. Miller, 2000). Se infatti l'obiettivo è quello di costruire modelli capaci di gettare una qualche luce su ciò che avviene nella sfera pubblica, adottare come punto di riferimento la definizione microeconomica di attore razionale fornisce certamente un parametro più saldo di quanto non faccia il suo opposto: la reazione emotiva, irrazionale o fortuita, sulla cui base è difficile avanzare spiegazioni o previsioni.Nuove tendenze

Negli ultimi decenni ha preso corpo una serie di analisi che non si riconoscono nelle due dimensioni (tipo di finalità e tipo di metodo) finora utilizzate per identificare i diversi approcci, perché non le considerano adeguate a cogliere il senso del loro impegno di ricerca. Tali studi ritengono inadeguata sia l'alternativa tra prescrizione e descrizione, sia quella tra induzione e deduzione. Da un lato, infatti, anche le ricerche senza finalità operative sono intrise di assunzioni di valore e di imperativi taciti (v. Fischer e Forester, 1987). Dall'altro, nel campo delle scienze sociali, né i modelli formali, né le acquisizioni empiriche possono stare in piedi senza sostenersi reciprocamente. Quando questo dato viene negato, per imitare la presunta purezza metodologica delle scienze 'dure', sono proprio gli aspetti più qualificanti dell'indagine sociale ad andare perduti. Tale orientamento teorico viene spesso qualificato come post-positivista, post-comportamentalista, post-moderno. Le idee sono mutuate da correnti quali "l'ermeneutica, la fenomenologia, il costruzionismo sociale, la teoria critica, l'analisi del discorso, il decostruzionismo" (v. Yanow, 1995, p. 111).

E tuttavia, all'interno degli studi di policy statunitensi, questa svolta appare meno brusca e traumatica di quella avviata, soprattutto in Europa, in altri campi del sapere: "Sebbene Foucault e Dewey cerchino di fare la stessa cosa, mi sembra che Dewey l'abbia fatta meglio, semplicemente perché il suo vocabolario dà spazio alla speranza ingiustificata e a un infondato, ma vitale, senso di solidarietà umana" (v. Rorty, 1982; tr. it., p. 210).

Del resto, già le policy sciences della prima generazione si riproponevano di superare le tradizionali linee di demarcazione tra le diverse discipline, come dimostra la biografia intellettuale del loro fondatore, Harold Lasswell. E la necessità di misurarsi fattivamente con problemi di ampia rilevanza sociale tende ad attenuare i tratti più esoterici e visionari presenti in questi nuovi paradigmi. Chi studia le politiche pubbliche, a differenza del critico letterario, si trova a studiare un verbum che prima o poi si deve fare carne, cioè deve riuscire, se non a smuovere le montagne, almeno a impedire che franino addosso a un centro abitato.

Le politiche come giudiziLa svolta post-positivista trova la sua più importante espressione nelle policy sciences in senso proprio, cioè nelle impostazioni che mantengono il legame più stretto con l'insegnamento di Lasswell (v. deLeon, 1988). Al centro di tale orientamento vi è l'affermazione del carattere progressivo implicito nel ragionare in termini di politiche pubbliche: "Il paradigma di Lasswell è un linguaggio di analisi delle politiche che rimarca la sua base eminentemente normativa. Nell'insegnare l'importanza della relazione tra l'analista e il potere, Harold Lasswell sottolinea il carattere orientato al problema, carico di valori, interdisciplinare, storico, sensibile al contesto e fiducioso circa la natura democratica del giudizio professionale sulle politiche" (v. Wildavsky, 19922, p. XXVII). Muovendo da questa base, le policy sciences tendono a gettare un ponte sia verso la teoria critica della società, erede della Scuola di Francoforte (v. Dryzek, 1990), sia verso le teorie normative della giustizia (v. Rawls, 1972).

Le politiche come argomentiForte del rinnovato interesse delle scienze sociali per la critica testuale e la retorica, la svolta argomentativa (v. Majone, 1989) applica alle politiche pubbliche metodi basati sull'analisi delle competenze linguistiche, sul decostruzionismo e sull'ermeneutica (Maynard-Moody e Stull, 1987). Alla base di questa impostazione vi è l'apprezzamento per le valenze espressive e simboliche implicite nelle politiche pubbliche che, prima di essere soluzioni, sono manifestazioni di considerazione per i valori che tengono insieme le nostre società: "È possibile sostenere che la vita non è soprattutto scelta: è interpretazione. I risultati sono generalmente meno significativi dei processi, sul piano sia del comportamento sia dell'etica. È il processo che dà il significato all'esistenza, e il significato è l'essenza della vita [...].

Questo argomento ha due aspetti. Da un lato, comporta che ogni tentativo per 'migliorare' il decision making deve vedere le decisioni come strumenti del significato. Dall'altro lato, capire e spiegare i comportamenti decisionali richiede il riconoscimento della centralità dell'interpretazione. Arrivare ad apprezzare il dramma simbolico del decision making non come un epifenomeno, ma come il suo tratto fondamentale porta lo studioso non solo a cogliere l'eleganza, la dignità, il fascino e la bellezza dei rituali decisionali come qualità estetiche, ma anche a capire meglio il decision making" (v. March, 1994, p. 218). In questa prospettiva, compito dell'analista non è difendere una verità, ma proporre buoni argomenti per facilitare l'adozione di decisioni meditate e condivise (v. Majone, 1980; v. Dunn, 1983).

Le politiche come praticheLa svolta neopragmatica rende espliciti i legami tra lo studio delle politiche pubbliche e il più importante movimento filosofico statunitense, il pragmatismo. Per questa impostazione, cogliere un problema significa avvertire una tensione verso il suo superamento: "Un problema sociale nasce solo quando la gente guarda allo stato delle cose in un modo particolare, e precisamente con il desiderio di un suo miglioramento" (v. Lindblom, 1990, p. 4). Questa tensione ha due importanti effetti. In primo luogo, dà un senso alla discussione con cui una comunità scientifica, capace di curiosità e di rispetto reciproci, confronta i diversi orientamenti, non con l'obiettivo di trovare 'il vero', ma con quello di 'riuscire a cavarsela' (v. Lindblom, 1959); in secondo luogo, dà dignità ai compromessi che il ricercatore o l'analista devono stipulare con i vincoli posti dal contesto. Sia nella ricerca, sia nell'intervento professionale, l'analista pragmatico, anziché rifarsi ai tradizionali criteri di oggettività e di imparzialità di derivazione positivistica, preferisce ispirarsi a quell'idea di saggezza meditata, umile e prudente che Aristotele, nell'Etica Nicomachea, chiama phronesis (v. Anderson, 1988).

La consapevolezza della natura contingente dei giudizi che riguardano le politiche pubbliche permette di considerare in modo nuovo le dispute sui metodi per la loro analisi (v. Patton, 19902). Se la valutazione non si limita ai meriti intrinseci, ma comprende la maggiore o minore adeguatezza rispetto a un particolare problema di ricerca, in certe situazioni possono rivelarsi utili e meritare considerazione teorica anche i metodi apparentemente più distanti, quali l'analisi razionale delle politiche e l'approccio della scelta pubblica, caratterizzati da una logica deduttiva e da un'elevata formalizzazione.

Per questa impostazione il percorso attraverso i diversi approcci da lineare diventa circolare: un risultato che può ben figurare a conclusione della nostra presentazione, perché rimarca le grandi potenzialità euristiche insite nel concetto di politica pubblica.

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)


di Giandomenico Majone


Sommario: 1. Introduzione. 2. Tre modelli esplicativi: neopluralismo, public choice, neoistituzionalismo. 3. Deliberazione e politiche pubbliche. 4. Il problema della credibilità. 5. Politiche nazionali e politiche europee. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il campo delle politiche pubbliche è vasto e composito, spaziando dalla politica estera alla giustizia, dalla politica monetaria a quella sanitaria; come pure, in senso verticale, dalle politiche dello Stato e degli enti territoriali a quelle dell'Unione Europea e di organismi internazionali come l'Organizzazione Mondiale per il Commercio. Tale complessità e articolazione farebbero ragionevolmente dubitare che sia possibile andare oltre l'analisi di singole politiche, tradizionalmente svolta da economisti, sociologi, giuristi ed altri specialisti dall'angolo visuale delle rispettive discipline. Indubbiamente, la complessità del campo d'indagine è una delle ragioni per cui i politologi hanno cominciato ad occuparsi del processo di policy-making solo in epoca recente.

La prima formulazione sistematica di un approccio generale allo studio di tale processo risale infatti a The policy sciences, di Harold Lasswell e Daniel Lerner (v., 1951).Tuttavia, altre ragioni ancora spiegano lo scarso interesse un tempo mostrato dai politologi per i risultati concreti dell'azione di governo. In passato, la scienza politica si è soprattutto interessata alle istituzioni ed ai processi ritenuti essenziali per la legittimità democratica delle decisioni pubbliche: elezioni, partiti politici, rappresentanza degli interessi, rapporti tra i poteri dello Stato, forme di governo. L'idea che anche la sostanza e le conseguenze di tali decisioni sono rilevanti per la legittimità del sistema politico è relativamente recente (v. Lipset, 1960).

Di qui l'attenzione portata oggi agli outputs del sistema politico: le politiche pubbliche, appunto.Conviene, tuttavia, ritornare sulla complessità delle politiche pubbliche come campo d'indagine, per vedere come si è cercato di ridurre tale complessità mediante varie classificazioni analitiche.

Un utile punto di partenza ci è offerto dalla distinzione, introdotta da Musgrave (v., 1959), tra le principali funzioni dello Stato in campo socio-economico: stabilizzazione economica, redistribuzione del reddito, regolazione del mercato. La prima funzione trova espressione nelle politiche fiscali e monetarie, di bilancio e di stimolo alla domanda, come anche nella politica dei redditi. La funzione redistributiva include tutti i trasferimenti di risorse da un gruppo sociale ad un altro, ed inoltre la produzione (o comunque l'offerta), assicurata dallo Stato, dei cosiddetti 'beni meritori' (merit goods), quali l'istruzione pubblica o il servizio sanitario nazionale.Infine, le politiche di regolazione hanno come obiettivo generale la correzione di varie forme di 'fallimento del mercato': situazioni di monopolio, esternalità negative (come l'inquinamento ambientale), informazione asimmetrica (ad esempio, tra produttori e consumatori), offerta sub-ottimale di 'beni pubblici' quali la difesa nazionale o la ricerca di base (v. Stiglitz, 1989). All'interno del campo delle politiche di regolazione, è utile distinguere ulteriormente tra regolazione economica (ad esempio, la legislazione antitrust o la regolazione delle tariffe dei servizi di pubblica utilità) e regolazione sociale (politiche ambientali, protezione dei consumatori, sicurezza dei prodotti, salute e sicurezza nell'ambiente di lavoro).

Il politologo americano Theodore Lowi (v., 1964), partendo da criteri diversi da quelli seguiti dall'economista Musgrave, è pervenuto ad una classificazione abbastanza simile. Egli distingue tra politiche regolative, redistributive e distributive; le prime due categorie coincidono con quelle discusse sopra, mentre la terza si riferisce a situazioni in cui il trasferimento di risorse a favore di un gruppo non avviene a scapito di altri gruppi, come invece nel caso delle politiche definite redistributive. Un esempio classico è la distribuzione di terre disabitate ai primi coloni americani. Ciò che caratterizza le politiche distributive nel senso di Lowi, distinguendole da tutte le altre politiche pubbliche, è il loro carattere non coercitivo - un punto sul quale avremo occasione di tornare in seguito. È importante tener presente che le distinzioni proposte da questi studiosi sono di natura analitica più che descrittiva. In realtà, qualsiasi concreta politica utilizza strumenti e produce effetti di varia natura. Ad esempio, una politica regolativa generalmente favorisce alcuni gruppi più di altri e ha pertanto effetti redistributivi più o meno importanti, così come le politiche redistributive presentano spesso aspetti regolativi.

Come tutte le classificazioni, anche quelle discusse qui vanno usate con cautela, e tuttavia la loro utilità non può essere negata. Ad esempio - anticipando un concetto che useremo a proposito delle politiche europee - una caratteristica strutturale delle politiche di regolazione è la scarsa incidenza dei vincoli di bilancio. Infatti, mentre l'attuazione della maggior parte delle altre politiche pubbliche richiede l'impiego di risorse, spesso notevoli, che devono essere iscritte nel bilancio pubblico, la produzione di norme e regolamenti ha un costo trascurabile per i regolatori: il costo implicito delle politiche regolative è sostenuto da industrie, enti territoriali o famiglie oggetto della regolazione. Di qui la possibilità di una crescita incontrollata, perché non sottoposta alla disciplina del bilancio pubblico, dell'attività di regolazione.Un'altra serie di distinzioni riguarda non tanto la natura delle politiche, quanto le fasi del processo decisionale.

Uno schema spesso usato dagli analisti distingue le seguenti fasi: definizione della 'agenda'; identificazione del problema; analisi delle soluzioni alternative; decisione; attuazione; valutazione dei risultati; riformulazione della politica. È appena il caso di osservare come tale schema corrisponda ad una visione 'sinottica' e iper-razionalista del processo di policy-making. Ad esempio, una netta distinzione tra la formulazione e l'attuazione di una politica presuppone che le decisioni vengano prese in condizioni di certezza e di informazione completa.

In realtà, inizialmente i decisori conoscono solo una piccola parte dei vincoli che si manifesteranno nella fase di attuazione. Obiettivi e strumenti andranno quindi continuamente rivisti alla luce delle nuove informazioni via via acquisite, e pertanto la distinzione tra formulazione ed attuazione è, sia concettualmente che praticamente, dubbia. Le fasi del processo di policy-making vanno concepite non come sequenza logica, ma in senso evolutivo (v. Majone e Wildavsky, 1978).Nonostante tali critiche, è difficile negare che lo schema esposto sopra abbia una certa utilità euristica. Inoltre, una buona parte della stessa letteratura sulle politiche pubbliche può essere classificata secondo tale schema. Basti pensare ai classici studi di Pressman e Wildavsky (v., 1973²) sull'implementazione, o di Kingdon (v., 1984) sulla formazione dell'agenda. Queste e simili opere monografiche, come anche molti case studies, hanno dato importanti contributi alla comprensione del processo di policy-making in tutta la sua complessità, ma non pretendono di offrire una spiegazione causale di tale processo. Per trovare tentativi di spiegazione di questo tipo occorre prendere in considerazione altri filoni di ricerca.

2. Tre modelli esplicativi: neopluralismo, public choice, neoistituzionalismo

È merito dei primi teorici del neopluralismo (termine adottato per distinguere questa corrente di pensiero dalla filosofia pluralistica classica di James Madison e di altri federalisti) l'aver condotto la scienza politica a riconoscere il ruolo degli interessi nella formazione delle politiche pubbliche. Il programma di ricerca dei neopluralisti è riassunto da una frase di Arthur Bentley: "Quando i gruppi [di interesse] sono analizzati in modo adeguato, tutto è spiegato" (v. Bentley, 1967, p. 208). Ne segue che, per i neopluralisti, non esiste un interesse generale che le politiche pubbliche dovrebbero perseguire. Inoltre, una determinata politica pubblica rappresenta un punto di equilibrio tra le pressioni esercitate dai gruppi concorrenti. Le decisioni del parlamento o del governo non fanno altro che riflettere e ratificare tale equilibrio. Bentley, Truman (v., 1951) e gli altri neopluralisti non negano che a volte partiti politici o gruppi di burocrati possano svolgere un ruolo indipendente, ma solo come gruppi di interesse in lotta con altri. In generale, tuttavia, gli attori principali nel processo di policy-making sono, in questo modello, i gruppi economici. Questi si organizzano in funzione di obiettivi molto particolari, e la loro capacità di mobilitare i propri membri su specifiche questioni spiega l'enorme influenza di tali gruppi privati sulle politiche pubbliche.Il modello neopluralista non spiega come l'equilibrio tra i gruppi venga raggiunto, né l'esatta natura di tale equilibrio, ma la direzione causale è chiara: i gruppi d'interesse sono il vero motore del processo di policy-making, mentre le istituzioni ed i poteri pubblici avrebbero un ruolo meramente passivo.

Naturalmente i neopluralisti si rendevano conto che i gruppi non sono tutti ugualmente potenti e che, pertanto, le possibilità di influenzare le politiche pubbliche sono distribuite in modo ineguale. Tuttavia, essi sostenevano che i gruppi più attivi hanno la possibilità, prima o poi, di far sentire la loro voce. In tal modo, il modello - da spiegazione causale quale voleva essere inizialmente - si era trasformato, verso la fine degli anni cinquanta, in una teoria normativa.

Questa visione ottimistica della concorrenza fra gruppi d'interesse doveva subire un duro colpo dalla dimostrazione, ad opera di Mancur Olson (v., 1965), che la comunanza di interessi è condizione necessaria ma non sufficiente per la formazione di gruppi in grado di influenzare il processo di policy-making. Poiché gli individui che perseguono il loro interesse privato sono riluttanti a contribuire volontariamente al finanziamento di beni pubblici (problema del free rider), molti gruppi 'latenti' non riescono ad organizzarsi stabilmente. La 'logica dell'azione collettiva' di Olson spiega anche perché, dovendo scegliere tra politiche volte ad aumentare l'efficienza del sistema economico e politiche redistributive, i gruppi d'interesse preferiscono le seconde: tali politiche appaiono ad essi preferibili in quanto aumentano la loro probabilità di ottenere una quota maggiore del prodotto nazionale, pur se tale prodotto risulta in realtà inferiore a quello ottenibile con politiche del primo tipo. Questo corollario della teoria di Olson, secondo cui tutte le politiche pubbliche sono riducibili a forme più o meno mascherate di redistribuzione a favore dei gruppi meglio organizzati, costituisce il punto di partenza del modello della public choice, specialmente nella versione della Scuola di Chicago.

La prima esposizione rigorosa di tale modello si trova in un articolo di George Stigler su La teoria della regolazione economica (1971). Con questo lavoro, Stigler intendeva porre i fondamenti analitici di una teoria 'positiva' della politica, intesa come lotta fra i gruppi d'interesse per il controllo del processo di policy-making. Partendo dall'ipotesi che tutti gli attori, privati e pubblici, perseguono esclusivamente il loro interesse, la teoria intende spiegare i meccanismi causali attraverso i quali le preferenze dei gruppi meglio organizzati determinano le scelte pubbliche. Come già osservato, la mancanza di una vera spiegazione causale costituisce uno dei principali punti di debolezza del modello neopluralista.

Secondo Stigler, l'obiettivo dei politici è massimizzare la probabilità di vincere le elezioni; tutto il resto, comprese le loro preferenze ideologiche, è secondario e accessorio. Pertanto, ai politici conviene far proprie le preferenze dei gruppi d'interesse più forti, diventandone la cinghia di trasmissione nel processo di policy-making. Se è vero che i regolatori hanno autonomia formale e motivazioni diverse, essi sono nondimeno sotto il controllo dei politici e dovranno pertanto assecondarne le preferenze 'derivate'. Abbiamo così una catena di influenze che va dai gruppi d'interesse ai regolatori, passando per i politici; e poiché si suppone che tale sistema di controlli funzioni perfettamente, ne segue che l'intero apparato politico-amministrativo può essere trattato come una 'scatola nera', che da determinati inputs produce esiti prevedibili. Lo scarso interesse di Stigler (come di tutta la Scuola di Chicago) per le istituzioni politiche e amministrative è dovuto al fatto che, per questi studiosi, solo i gruppi d'interesse e le risorse a loro disposizione contano realmente.
Tali gruppi sanno quali assetti istituzionali sono più favorevoli ai loro interessi, cioè offrono la massima probabilità di produrre le politiche pubbliche desiderate, e pertanto finiranno coll'imporre gli assetti desiderati. In altre parole, in questo modello le istituzioni sono endogene, almeno nel lungo periodo.

Tuttavia, le teorie fondate sugli interessi come unica 'variabile indipendente' non possono spiegare la relativa stabilità delle istituzioni, come anche di molte politiche pubbliche: tale stabilità mal si concilia con i continui cambiamenti nella configurazione degli interessi dominanti. Il modello neoistituzionalista prende le mosse da tale critica. Parlando di neoistituzionalismo, ci si riferisce ad una scuola di pensiero che, a differenza del vecchio funzionalismo della scuola storica tedesca, o, soprattutto, di autori come Veblen e Commons, cerca di dare una spiegazione teorica, fondata sui principî dell'individualismo metodologico, dell'origine di particolari istituzioni economiche, giuridiche o politiche (v. Williamson, 1985). Ora, le istituzioni - intese sia come organizzazioni formali che come 'regole del gioco' e principî di condotta - costituiscono dei vincoli, non facilmente modificabili, per tutti i partecipanti al processo di policy-making. Pertanto, la struttura istituzionale risponde solo parzialmente, e con ritardo, ai cambiamenti nella configurazione degli interessi. Tale inerzia spiegherebbe allora la relativa stabilità delle politiche pubbliche e la relativa autonomia delle istituzioni stesse (v. Hall, 1986).

Anche il modello neoistituzionalista vede negli interessi economici il motore del processo di policy-making, ma spiega in modo diverso la relazione tra interessi e politiche pubbliche. Ad esempio, laddove il modello della public choice postula una relazione monocausale, i neoistituzionalisti insistono sulla reciprocità dei condizionamenti: se è vero che gli interessi economici (o d'altra natura) influiscono sulla politica, è altrettanto vero che le istituzioni politiche, in quanto vincoli, influiscono sugli interessi, contribuendo in tal modo a trasformare le stesse forze che condizionano lo sviluppo delle politiche pubbliche. Pertanto, sostenere che queste ultime riflettono gli interessi economici sottostanti equivale a rappresentare il processo causale in modo incompleto, e perciò distorto. Con altrettanta giustificazione si potrebbe asserire che gli interessi economici sono condizionati dai processi politici 'sottostanti'. In realtà si tratta, appunto, di rapporti di reciproca influenza (v. Moe, 1987).

Riconoscendo un ruolo autonomo non solo alle istituzioni, ma anche alle idee ed ai principî, senza tuttavia abbandonare le premesse dell'individualismo metodologico e della razionalità limitata, il modello neoistituzionalista permette di reintrodurre concetti normativi, quali l'efficienza (nel senso di Pareto) e l'interesse generale, che i precedenti modelli avevano voluto bandire dall'analisi delle politiche pubbliche. Per questa ragione, il neoistituzionalismo è in grado di fornire un utile sostegno teorico ai tentativi più recenti di rivalutare gli aspetti discorsivi del processo di policy-making.

3. Deliberazione e politiche pubbliche

La democrazia è stata definita come una forma di governo in cui le politiche pubbliche vengono decise dopo un dibattito cui partecipano, con ruoli diversi ma tra loro collegati, cittadini, legislatori, esperti, amministratori, partiti politici, associazioni. È il modello di 'government by discussion' dei liberali inglesi da John Stuart Mill e Walter Bagehot a lord Lindsay ed Ernest Barker. Si tratta, ovviamente, di un modello idealizzato, che trascura conflitti di interesse e rapporti di forza, e che perciò è stato ferocemente criticato dai neopluralisti, ma che tuttavia coglie aspetti importanti della dialettica democratica e della dinamica delle politiche pubbliche (v. Majone, 1989).

La letteratura sul ruolo delle idee e dell'argomentazione nel processo di policy-making è abbondante ed in costante crescita (v. Kingdon, 1984; v. Hall, 1989; v. Haas, 1990; v. Dryzek, 1990; v. Goldstein e Keohane, 1994, per citare solo alcune delle opere più note). Il dibattito è ormai andato ben oltre la semplice affermazione che "anche le idee contano". Due questioni, soprattutto, attirano ora l'attenzione degli studiosi: a) in quali situazioni le idee e l'argomentazione possono influenzare le scelte politiche; e b) in quali modi, attraverso quali meccanismi, si esercita tale influenza. Riguardo alla prima questione, esistono ragioni teoriche e dati empirici per affermare che il ruolo dei fattori conoscitivi è maggiore nel caso di politiche dirette a migliorare l'efficienza del sistema che in quello di politiche di pura redistribuzione (v. Majone, 1993). Infatti, in una democrazia, la decisione di redistribuire risorse da un gruppo sociale ad un altro può essere presa solo a maggioranza, in quanto si deve presumere che il gruppo perdente si opporrebbe.

Ciò che in questo caso conta, pertanto, sono i rapporti numerici e di forza tra i vari gruppi, mentre la discussione è impotente a modificare il carattere di 'gioco a somma zero' di molte politiche redistributive. Aumentando, invece, l'efficienza del sistema, si produce un surplus da ripartire fra tutti i membri della collettività, o almeno tale che nessun membro si trovi in situazione peggiore rispetto allo statu quo: si realizza così un ottimo paretiano. Decisioni collettive di questo tipo corrispondono a 'giochi a somma positiva', e la regola di decisione ottimale, in teoria, è l'unanimità (v. Mueller, 1989).In pratica, poiché la regola dell'unanimità è di difficile applicazione in una comunità numerosa, si ricorre spesso a soluzioni di 'seconda scelta', ad esempio delegando l'elaborazione di politiche di efficienza ad organismi - quali le autorità amministrative indipendenti - sottratti all'influenza di maggioranze mutevoli. Anche certi fenomeni degli anni ottanta, quali il dibattito internazionale sul ruolo dello Stato nell'economia, il crescente favore popolare per politiche di privatizzazione e di deregulation, il rifiorire della policy analysis e la moltiplicazione dei centri di ricerca sulle politiche pubbliche, possono essere messi in relazione con le preoccupazioni sempre più diffuse per le perdite di efficienza del Welfare State, e con lo sforzo di riorientare le politiche pubbliche nel senso appunto di una maggiore efficienza allocativa.

Quanto alla seconda questione fondamentale, richiamata più sopra, tre modi o meccanismi di influenza dei fattori conoscitivi e discorsivi sul processo di policy-making hanno ricevuto particolare attenzione nella letteratura. In primo luogo, l'argomentazione serve a legittimare e razionalizzare le politiche pubbliche, se non addirittura a ricostruirle concettualmente, partendo da un insieme di decisioni e programmi più o meno slegati tra loro. Quest'opera di legittimazione e razionalizzazione presuppone l'esistenza di un ricco stock di idee elaborate in precedenza, spesso per altri scopi (v. Kingdon, 1984; v. Majone, 1989; v. Krasner, 1994). In secondo luogo, le idee possono servire a istituzionalizzare una politica. Ad esempio, Herbert Stein (v., 1984, p. 39) ha giustamente osservato come "senza Keynes e specialmente senza l'interpretazione dei suoi seguaci, il finanziamento in deficit non sarebbe mai diventato una politica pubblica, ma sarebbe rimasto una occasionale misura d'emergenza". Infine, il dibattito pubblico serve, per così dire, ad estendere il processo di policy-making, così come l'argomentazione del giudice, espressa nella motivazione della sentenza, estende il processo giudiziario offrendo alle parti la possibilità di mosse successive, come il ricorso in appello (v. Majone, 1989). In termini di teoria dei giochi, estendere il processo equivale a trasformare un gioco che si esaurirebbe in una singola mossa in un gioco ripetuto più volte. Si tratta di una trasformazione molto importante, in quanto permette di determinare soluzioni efficienti per giochi, come il 'dilemma del prigioniero', che non ammettono soluzioni soddisfacenti se giocati una sola volta (v. Ordeshook, 1992).
Come indicheremo nel prossimo capitolo, la teoria dei giochi ripetuti si è rivelata utile anche per analizzare la questione della credibilità delle politiche pubbliche, cioè un aspetto del policy-making al quale i politologi avevano dedicato poca attenzione, ma la cui importanza è aumentata al crescere dell'interdipendenza tra i diversi sistemi nazionali.

4. Il problema della credibilità

Anche la questione della credibilità delle politiche pubbliche, come quella della loro efficienza, è emersa con forza a partire dalla fine degli anni settanta. La prima formulazione analitica è stata avanzata da due economisti nel contesto del dibattito tra fautori della discrezionalità ovvero delle regole fisse per la politica monetaria (v. Kydland e Prescott, 1977). Secondo questi studiosi, il problema centrale di tale politica è la sua credibilità: regole fisse sono preferibili perché ne aumentano la credibilità, mentre la discrezionalità è alla radice del fenomeno della 'inconsistenza temporale'. Si ha inconsistenza temporale quando una politica ritenuta ottimale al tempo to non appare più tale al tempo tn. In questo caso, il policy-maker è indotto a usare i suoi poteri discrezionali per cambiare politica.

Tale cambiamento potrebbe essere considerato un aggiustamento razionale rispetto alla nuova situazione; ma se, come spesso avviene, gli operatori economici sono in grado di anticiparlo, essi modificheranno i loro comportamenti in modo tale da vanificare l'obiettivo della politica monetaria.È ovvio che il fenomeno dell'inconsistenza temporale non interessa solo la politica monetaria. Poiché in democrazia una legislatura non può vincolare quella successiva, ed una coalizione di governo non può assumere impegni per i governi futuri, tutte le politiche pubbliche corrono il rischio di risultare temporalmente inconsistenti. In mancanza di un impegno credibile dei governi a seguire con coerenza una certa linea, la credibilità stessa delle politiche ne risulta compromessa.

Perché allora tale problema è stato trascurato per tanto tempo dai politologi? Forse la ragione principale deve cercarsi nell'importanza tradizionalmente attribuita al potere coercitivo dello Stato. Tra i politologi contemporanei, Theodore Lowi (v., 1964 e 1979²) ha particolarmente insistito, in polemica con i neopluralisti, sull'uso legittimo della coercizione come caratteristica essenziale delle politiche pubbliche; ed è certamente vero che nel passato la scarsa credibilità di una politica pubblica poteva essere compensata, entro certi limiti, da un maggior ricorso a strumenti coercitivi. Oggi, tuttavia, il trade-off tra coercizione e credibilità è decisamente cambiato. Una conseguenza importante della crescente interdipendenza tra gli Stati è che le politiche nazionali vengono ormai valutate secondo parametri fissati a livello internazionale (si pensi ai parametri del Trattato di Maastricht per l'unione monetaria europea), mentre l'applicazione di strumenti coercitivi è possibile solo entro i confini nazionali. L'efficacia di tali strumenti è ulteriormente compromessa dalla crescente complessità dei problemi da risolvere. Ad esempio, il successo delle politiche ambientali dipende dalla loro capacità di modificare aspettative e comportamenti di milioni di cittadini e migliaia di imprese ed enti territoriali. Ora, aspettative e comportamenti non possono essere modificati in misura significativa mediante i tradizionali strumenti di 'command and control', ma soltanto se gli obiettivi ed i mezzi dell'intervento pubblico appaiono realistici e coerenti, quindi credibili, agli interessati.

L'importanza crescente del problema della credibilità delle politiche pubbliche spiega l'attuale tendenza a delegare importanti poteri di policy-making ad istituzioni indipendenti come banche centrali ed agenzie di regolazione (v. Majone, 1994). La delega di tali poteri ad una istituzione distinta dal governo dev'essere intesa, infatti, come un mezzo mediante il quale i governi stessi cercano di impegnarsi a seguire certe politiche, che non sarebbero credibili in mancanza di tale delega. L'istituzione di centri indipendenti di policy-making, se da un lato contribuisce a risolvere il problema della credibilità, dall'altro dà origine a nuovi problemi, con i quali gli studiosi di politiche pubbliche dovranno sempre più confrontarsi. Problemi come quelli del coordinamento, del controllo politico, ed anche quello della 'reputazione' di una molteplicità di policy-makers più o meno indipendenti, rientrano nell'ambito del modello generale dei rapporti tra un 'principale' (parlamento o governo, nel nostro caso) ed i suoi agenti (ad esempio, agenzie di regolazione). Come già accennato, questioni di questo tipo sono state affrontate con un certo successo mediante la teoria dei giochi ripetuti (v. Hargreaves Heap e Varoufakis, 1995).

5. Politiche nazionali e politiche europee

Alla luce della precedente discussione, anche l'ampia delega di poteri alle istituzioni europee da parte degli Stati membri intuitivamente appare in qualche modo collegata al problema della credibilità. L'intuizione, in effetti, è corretta; ma prima di darne una spiegazione teorica, conviene osservare come sia oggi difficile, se non impossibile, studiare le politiche nazionali indipendentemente dal contesto europeo. D'altra parte, l'influenza delle politiche della Unione Europea sui policy-makers nazionali è tutt'altro che uniforme. La politica estera e quella di difesa, ad esempio, restano in larga misura nell'ambito della sovranità nazionale.

Le limitate misure di coordinamento di tali politiche sono di carattere intergovernativo, e non rientrano pertanto nelle competenze degli organi sovranazionali - Commissione Europea e Corte Europea di Giustizia. Ma nemmeno le politiche sociali di tipo tradizionale - cioè prevalentemente redistributive - sono state influenzate in modo significativo dalla legislazione europea.

D'altra parte, le politiche di regolazione - dalla tutela della concorrenza alla difesa dei consumatori, dalla protezione dell'ambiente naturale alle misure di igiene e sicurezza nell'ambiente di lavoro - hanno in larga misura perso le loro caratteristiche nazionali per diventare politiche europee, pur se attuate dalle amministrazioni nazionali. Per capire i rapporti tra politiche nazionali e politiche europee è pertanto necessario, in primo luogo, capire perché queste ultime si siano sviluppate in modo così ineguale. Concetti già introdotti nei capitoli precedenti permettono di offrire una spiegazione alquanto semplice della prevalenza delle politiche regolative nell'ambito delle politiche europee.In primo luogo, bisogna osservare che le risorse finanziarie dell'Unione Europea sono estremamente limitate. Il bilancio a disposizione delle autorità di Bruxelles rappresenta poco più dell'1% del prodotto interno lordo dell'Unione, e meno del 4% della spesa complessiva dei governi centrali degli Stati membri (per avere un termine di confronto, si osservi che lo Stato italiano spende attualmente più del 50% del prodotto nazionale). Ora, è legittimo supporre che l'obiettivo della Commissione, in quanto organizzazione sovranazionale, sia di accrescere la propria influenza sugli Stati membri. A tale scopo, essa dovrebbe poter proporre nuove politiche, o l'ulteriore sviluppo di politiche che già rientrano nelle sue competenze. Ma, data la limitatezza delle risorse disponibili, quali politiche permetteranno di massimizzare l'obiettivo? La risposta è già anticipata nel primo capitolo. Si ricordi che le politiche regolative sono poco condizionate dal vincolo di bilancio, in quanto i costi che ne derivano sono sostenuti dalle imprese, dagli enti e dagli individui regolati. È indubbio, d'altra parte, che tali politiche incidono molto profondamente sul sistema politico-amministrativo e sulla stessa vita economica dei paesi membri.

Pertanto, la regolazione rappresenta una soluzione ottimale dal punto di vista della Commissione, in quanto assicura la massima influenza al minimo costo, date le risorse a disposizione.Tuttavia, la Commissione propone - ma il Consiglio dispone; ed il Consiglio dei ministri, che ha la facoltà di approvare o respingere le proposte legislative della Commissione, è l'organo comunitario dove gli interessi dei paesi membri sono istituzionalmente rappresentati. Se l'obiettivo della Commissione è di accrescere la propria influenza sovranazionale, quello del Consiglio è di proteggere la sovranità e l'autonomia decisionale degli Stati. Come spiegare l'accordo di entrambe le istituzioni sulle politiche europee di regolazione? È certamente vero che la stessa esistenza di un grande mercato europeo richiede numerosi interventi regolativi al fine di correggerne gli inevitabili 'fallimenti'. È però altrettanto vero che, in teoria, molti interventi potrebbero essere realizzati sulla base di accordi intergovernativi, così da evitare la delega di poteri alla Commissione. La difficoltà di tale soluzione deriva dall'alto grado di discrezionalità che deve essere concesso ai regolatori nazionali e, allo stesso tempo, dalla impossibilità pratica (in mancanza di un organo sovranazionale di controllo) di verificare l'uso corretto di tale discrezionalità. Ora, se è difficile determinare in quale misura i governi nazionali si sforzino di applicare obiettivamente un accordo intergovernativo, l'accordo stesso è poco credibile. Esso diventa credibile solo se i governi sono disposti a delegare poteri di controllo e di monitoraggio ad una istituzione super partes, quale è appunto la Commissione Europea.

Questa spiegazione è corroborata dal fatto - non sufficientemente percepito dall'opinione pubblica e dagli stessi uomini politici - che la grande maggioranza delle direttive e dei regolamenti europei non è il frutto di iniziative autonome della Commissione, ma è sollecitata dalle domande provenienti dai singoli Stati membri, dal Consiglio Europeo e dal Consiglio dei ministri (v. Majone, 1995).

Lo scopo di queste brevi considerazioni sull'importanza assunta dalle politiche di regolazione nell'ambito europeo è duplice. Da un lato si sono volute indicare le grandi linee di una divisione di compiti tra policy-makers nazionali ed europei. Dall'altro si è cercato di dimostrare concretamente come l'analisi delle politiche pubbliche, siano esse nazionali o europee, tenda sempre più ad avvalersi degli stessi schemi concettuali.