Politica pubblica
Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)
di Gloria Regonini
Sommario: 1. Prime definizioni. a) Politics e policy. b)
Un'altra idea di pubblico. c) Formale e informale. 2. Una storia
americana. a) I think tanks. b) I centri interni alle istituzioni.
c) Le università. d) Le organizzazioni professionali. 3. Altri
contesti. 4. Una pluralità di approcci. a) L'analisi razionale delle
politiche pubbliche. b) La policy inquiry. c) Lo studio del policy
making. d) La scelta pubblica. 5. Nuove tendenze. a) Le politiche
come giudizi. b) Le politiche come argomenti. c) Le politiche come
pratiche. □ Bibliografia.Prime definizioni
La più illuminante definizione di politica pubblica è stata data
cinquant'anni fa dallo scienziato politico americano David Easton:
"una politica pubblica [...] consiste in una rete di decisioni e di
azioni che alloca valori" (v. Easton, 1953, p. 130). Nelle società
democratiche le riallocazioni di valori operate dalle istituzioni
sono in genere legittimate dall'esigenza di trovare soluzioni a
problemi di interesse comune: la crescita del tasso d'inflazione, lo
smaltimento dei rifiuti, il rumore delle discoteche. E le reti di
decisioni e di azioni tendono a essere molto larghe e articolate (v.
Kenis e Schneider, 1991). Studiare le politiche pubbliche significa
capire quali problemi, valori, decisioni e azioni sono in gioco
quando, ad esempio, il ministro dell'economia, i rappresentanti
delle parti sociali e la banca nazionale affrontano una fase di
andamento negativo dei conti pubblici. O quando sindaci, imprese
edili, associazioni del volontariato e protezione civile tentano di
contenere gli smottamenti in un'area montana. Che cosa accade di
solito in questi casi? E quali strumenti potrebbero migliorare la
qualità dei risultati ottenuti?
Adottare questa prospettiva obbliga a collegare in modo trasversale
eventi in genere considerati entro ambiti separati: l'iter
legislativo di una proposta per ridurre il rischio idrogeologico, ma
anche l'intervista su questo tema a uno scienziato ambientalista
durante un programma televisivo di grande ascolto; le tecniche di
costruzione nelle aree montane, ma anche le rivendicazioni degli
addetti alla verifica dell'abitabilità degli edifici; gli interessi
delle imprese che traggono profitti dal turismo locale, ma anche le
mode che decretano il successo o la decadenza di un villaggio
montano.
Un approccio di questo tipo porta il ricercatore a travalicare
continuamente i confini disciplinari tra scienze giuridiche,
politologiche, economiche, sociologiche, manageriali. Ma l'elenco
potrebbe continuare, includendo l'urbanistica, la psicologia
sociale, la medicina e via dicendo. Infatti, l'elemento che
struttura l'analisi di una politica pubblica è il problema che l'ha
messa in moto, qualunque sia la sua origine e quali che siano le
risorse mobilitate per cercare di risolvere - o almeno contenere -
il disagio: strumenti repressivi, oppure incentivi; campagne
pubblicitarie o creazione di nuovi apparati; appelli su Internet o
negoziazioni tra i soggetti coinvolti.
Politics e policyPer non sconfinare nell'improvvisazione o
nell'arbitrio, tanta libertà di spaziare tra campi disciplinari
diversi deve essere bilanciata da un severo rigore teorico,
metodologico e deontologico (v. Carlsson, 1996). Ma non tutti i
contesti culturali agevolano tale approccio. Gli Stati Uniti sono,
senza dubbio, la nazione che più di ogni altra ha contribuito a
creare e a consolidare questo ambito di ricerca. L'Italia, invece,
ha importato tardi e a fatica questo modo di guardare alle tensioni
che traversano la nostra convivenza civile.
I motivi di tale differenza sono talmente profondi da rendere
complicata persino la traduzione letterale di molte espressioni che
appartengono al lessico dei policy studies. Infatti l'italiano, come
le altre lingue neolatine, dispone di un unico termine per
identificare due campi di azione pubblica: la politica come
politics, ossia come competizione per il consenso e per la conquista
delle posizioni di potere, che nelle democrazie sono assegnate in
base alla conta dei voti; la politica come policy, ossia come
insieme delle intenzioni e degli atti volti a risolvere un problema
sentito come rilevante da molti. Così, usiamo lo stesso sostantivo
sia nella frase 'ai giovani non interessa la politica', sia nella
frase 'ai giovani non interessa la politica previdenziale', mentre
inglesi e statunitensi, per analoghe affermazioni, utilizzerebbero
due termini diversi, politics nel primo caso e policy nel secondo
(v. Heidenheimer, 1985).
Il fatto di dare uno o due nomi a queste sfere di attività pubblica
porta a sottolineare le loro interdipendenze nel primo caso e le
loro differenze nel secondo. Nel nostro paese, le politiche
pubbliche sono considerate come effetti quasi automatici delle
relazioni che si consolidano entro la sfera politica. Pertanto, le
aspettative circa lo sviluppo delle politiche scolastiche, sanitarie
o fiscali sono quasi interamente condizionate dalla visione che
ciascuno ha della politica (politics). Chi la considera come
un'arena in cui si scontrano gruppi rivali si aspetta che i governi
di sinistra facciano politiche di sinistra, e che quelli di destra
agiscano nella direzione opposta. Chi pensa che la politica sia il
luogo della collusione o del 'consociativismo' spiega con il fatto
che 'tanto i politici sono tutti uguali' la comparsa di tratti
ricorrenti nella gestione delle politiche pubbliche.
Nel contesto politico e culturale statunitense, invece, la
percezione della distinzione tra politics e policy è talmente netta
da scivolare spesso nell'aperta contrapposizione. Si rilegga, ad
esempio, quanto scrive Harold Lasswell, il fondatore delle policy
sciences: "Il termine policy è libero da molte delle indesiderabili
connotazioni collegate alla parola political, che spesso è
considerata sottintendere ruoli partigiani e corruzione" (v.
Lasswell, 1951, p. 5).
Anche quando non sconfina nel pregiudizio contro la politica,
l'analisi delle politiche tende a ridimensionare il peso delle
promesse, delle accuse o delle rivendicazioni fatte dai leaders
politici nei dibattiti davanti agli elettori. Infatti, anche il più
semplice dei progetti richiede la convergenza di un'ampia serie di
fattori che raramente possono essere sottomessi al controllo totale
delle maggioranze di governo. Questa osservazione dimostra come il
rapporto tra politica e politiche, che per le lingue neolatine suona
scontato, nelle società anglofone sia per l'appunto un problema di
ricerca (v. Beyme, 1986, p. 541).
Un'altra idea di pubblicoNell'espressione 'politiche pubbliche' non
è solo il sostantivo a costituire un problema, perché anche
l'aggettivo assume connotazioni diverse nel passaggio dall'area
anglofona all'Europa continentale. Nella letteratura politologica
statunitense di matrice pragmatica, questo termine segnala una
tensione e un impegno che ci coinvolgono in quanto individui non
completamente liberi di disporre delle nostre vite, perché legati ad
altri da quella comune avventura che è la convivenza in una stessa
epoca e in una stessa società. Questo legame possiede una tenacia
originaria più forte delle formule politico-istituzionali in cui si
concretizza. Su di esso, prima che sulle carte costituzionali, si
regge l'esercizio della democrazia: "Una democrazia è più di una
forma di governo: è essenzialmente un modo di vivere insieme, di
fare esperienze comunicandole l'un l'altro" (v. Dewey, 1916, p.
225).
Alcuni autori (v. Fischer, 1987; v. Aaron, 1978) hanno rilevato come
l'universalismo evocato dal termine public in molti casi sia solo
apparente, date le vistose disuguaglianze che dividono le nostre
società. Ma tale rilievo, più che sminuire l'importanza di questo
concetto, ne evidenzia un aspetto centrale: la lunghezza del raggio
che una società prende a riferimento per disegnare la sfera del
pubblico, facendola più o meno inclusiva, non è un dato né ovvio né
costante. Come notava ancora John Dewey, "Il problema più rilevante
del Pubblico è la scoperta e l'identificazione di se stesso" (v.
Dewey, 1927, p. 185).
Dunque, a conferire carattere pubblico a una situazione è il fatto
che i singoli cittadini considerino le loro strategie come
interdipendenti le une dalle altre, sicché diventa vantaggioso per
tutti lo scambio delle informazioni e il coordinamento,
indipendentemente dallo status giuridico dei soggetti cui è
demandata la realizzazione tecnica delle soluzioni.
Formale e informaleIl rigetto di qualunque legame, anche indiretto,
tra il concetto di pubblico e il concetto di Stato è uno dei tratti
che caratterizzano i policy studies. In questa prospettiva,
rientrano nella categoria delle politiche pubbliche non solo le
decisioni delle autorità con un potere formale di intervento, ma
anche iniziative quali l'impegno di associazioni non profit, la
raccolta di fondi lanciata dai frequentatori di una chat, la
campagna d'opinione promossa da alcune testate giornalistiche, o il
codice di autoregolazione di un ordine professionale. Infatti, in
molte situazioni critiche, queste forme di coordinamento dal basso
offrono un rimedio più rapido ed efficace di quello fornito dalle
amministrazioni pubbliche.
Nel lessico continentale europeo, invece, il concetto di pubblico
oscilla tra due significati: quello di spettatore passivo e quello
di autorità statale. Ma entrambi questi significati sono inadeguati
a spiegare ciò che - nell'accezione pragmatica statunitense - rende
una politica 'pubblica', anziché 'privata'.
Soprattutto nel contesto italiano, una politica pubblica è spesso
identificata con le leggi e gli altri atti formali compiuti dalle
istituzioni politiche competenti. Ma l'identificazione è sbagliata,
perché esistono politiche senza leggi, come negli esempi appena
citati; ed esistono leggi senza politiche, come accade alle tante
norme promulgate e mai implementate. Dunque, l'idea che se qualcosa
non funziona nell'intervento pubblico occorre cambiare la legge, è
solo una tra le tante ipotesi plausibili.
Questa osservazione mette in luce un altro dei tratti essenziali
degli approcci orientati alle politiche: il proposito di considerare
insieme decisioni ufficiali e accomodamenti impliciti, programmi e
contesti, intenzioni ed effettive realizzazioni. Detto in altri
termini, lo studio delle politiche pubbliche è una disciplina
attenta non solo agli aspetti formali, ma anche a quelli informali
(v. Stone, 1988). Nel valutare l'attuazione di una stessa politica
in luoghi o in tempi diversi, l'analista muove dalla consapevolezza
che minime variazioni dei dati di contesto possono determinare
risultati anche molto divergenti. Le teorie e le pratiche che
partono da questo concetto tendono dunque ad accantonare come
irrealistico il proposito di identificare regole generali o
conclusioni sempre valide, per concentrarsi invece sulla verifica di
ipotesi di medio raggio. La tipica struttura di una ricerca di
policy identifica: a) una serie di cause, spesso tra loro
interrelate in modo non lineare; b) una fitta rete di attori,
ciascuno con i suoi interessi e la sua cultura; c) un elenco di
possibili interventi, tentati con alterne fortune in altre
situazioni; d) una rosa di proposte, caratterizzate da diverse
combinazioni di costi e benefici; e) una sequenza di decisioni
adottate in svariati ambiti, istituzionali e non; f ) un insieme di
indicatori per il monitoraggio degli effetti, che spesso non si
adeguano alle attese.
In Italia, invece, il discorso sulla sfera pubblica è articolato da
discipline che promettono una maggiore capacità di tenere sotto
controllo quello che avviene all'interno di questo ambito. Solo i
saperi che si nutrono di forti certezze sembrano dare garanzie di
efficacia, obiettività e imparzialità. Il primato spetta
naturalmente al discorso giuridico, vero 'esperanto' nella
comunicazione pubblica italiana. L'importazione dal mondo
anglosassone delle tecniche legate al 'new public management' ha poi
comportato, a partire dagli anni novanta, una crescente diffusione
del discorso economico. L'e-government ha segnato, infine, il
tardivo ingresso sulla scena di un terzo tipo di competenze, quelle
dell'ingegnere o dell'informatico. Nel nostro paese, queste sono le
uniche professionalità trasversali riconosciute e gli unici punti di
riferimento - anche etici - per le scelte pubbliche. Da questi
saperi ci si attende la capacità di decifrare le cause di successi e
fallimenti, di identificare le soluzioni migliori, di tutelare
valori quali l'imparzialità e l'uguaglianza.
Ora, è fuor di dubbio che anche nei paesi dove lo studio delle
politiche concorre a plasmare il dibattito civile e l'intervento
pubblico questi apporti disciplinari continuino a dare un contributo
prezioso al buon funzionamento delle amministrazioni. Le competenze
giuridiche sono una risorsa fondamentale in ogni contesto, per ogni
settore di policy. E, sul piano dei valori, la certezza del diritto
è la base di qualunque teoria della democrazia. Le competenze
economiche sono indispensabili per capire il rapporto tra costi e
benefici e per vincolare gli attori a un uso intelligente delle
risorse. Sul piano dei valori, dal principio 'nessun posto è gratis'
viene un forte sostegno all'etica della responsabilità nelle
decisioni pubbliche. Per quanto riguarda le competenze tecnologiche,
la loro carenza nell'amministrazione italiana è una delle cause
principali della sua inefficienza. Sul piano dei valori, il richiamo
ai vincoli delle scienze 'dure' è un efficace antidoto contro la
demagogia e le aspettative miracolistiche, spesso incoraggiate dai
governanti.
Ma nel contesto anglosassone e nei paesi scandinavi, accanto alle
tradizionali competenze fornite dal diritto, dall'economia,
dall'ingegneria, si è diffuso un altro modo di guardare
all'intervento pubblico, più attento alle relazioni informali oltre
che a quelle formali, alle risorse tacite oltre che a quelle
esplicite. In questi paesi, il discorso sulle dinamiche interne alla
sfera pubblica da decenni può contare sull'apporto delle scienze
sociali, che sono scienze del processo e della contingenza.
Discipline quali la sociologia, la scienza politica, la psicologia,
l'antropologia hanno arricchito la nostra conoscenza delle cause che
determinano il successo o il fallimento di un programma. Grazie al
loro contributo, possiamo ricostruire le pratiche con cui gli attori
fanno fronte all'incertezza e all'imprevisto; possiamo capire il
gioco delle convenienze politiche; possiamo spiegare l'amplissima
forbice che spesso si apre tra le intenzioni dei policy makers e le
loro effettive realizzazioni (v. Heidenheimer e altri, 19832).
Insomma, possiamo sollevare il velo su quanto di impreciso, di
contraddittorio e di vischioso c'è nei processi di costruzione e
implementazione delle politiche pubbliche. E, soprattutto, possiamo
guardare a questi aspetti come a fonti non solo di problemi, ma
anche di soluzioni.Una storia americana
Per tutto il secolo scorso, gli Stati Uniti sono stati il paese che
ha perseguito con maggiore determinazione l'obiettivo di integrare
le scienze sociali tra le discipline legittimate a gestire i
problemi di rilevanza collettiva. Anche se questo orientamento andrà
verificato non appena saranno sedimentati gli effetti dell'attacco
subito l'11 settembre 2001, nei decenni passati questo impegno ha
prodotto un'enorme mole di studi, spesso definiti con termini quali
policy studies, policy sciences, policy analysis, policy evaluation
o, semplicemente, public policy.
Questo tipo di indagini affonda le sue radici in tratti distintivi
della società americana: "Nonostante alcuni sforzi nella direzione
opposta [...], le policy sciences sono ancora per la maggior parte
basate sugli Stati Uniti per quanto riguarda la cultura, i valori
impliciti ed espliciti, le assunzioni e le ortodossie" (v. Dror,
19942, p. 4). Secondo Aaron Wildavsky, uno dei più eminenti studiosi
di questo settore, il pluralismo delle idee e l'importanza
attribuita alla loro libera circolazione costituiscono per lo
sviluppo dei policy studies un requisito tanto essenziale quanto
difficile da trovare in altre tradizioni politiche: "In Giappone e
in Europa è stata legittimata la competizione tra i partiti (alla
stregua di gerarchie rivali), ma non ancora la competizione tra idee
di policy che provengono dall'esterno dei partiti o della
burocrazia" (v. Wildavsky, 19922, p. XXVII).
A differenza di quanto è avvenuto in Europa, negli Stati Uniti lo
sviluppo della public policy è saldamente intrecciato a quello della
scienza politica, e più precisamente al pragmatismo e a quella
passione per l'osservazione dei comportamenti concreti che ha
trovato nel comportamentismo l'espressione più significativa.
Entrambe queste correnti esortano a diffidare delle generalizzazioni
astratte e ad andare oltre le dichiarazioni ufficiali. Come osserva
Douglas Torgerson, l'interesse per le politiche pubbliche deve molto
"al pragmatismo e al movimento progressista dell'inizio del XX
secolo, e precisamente alle figure di John Dewey e di Charles
Merriam: questa storia continua tra molte sfide, fino a condurre ai
tre contributi di Harold Lasswell, di Herbert Simon e di Charles
Lindblom, che mirano a plasmare l'orientamento verso le politiche
pubbliche; questa storia culmina, ma non finisce, con gli attuali
tentativi di creare un orientamento che sappia evitare e sfidare
ogni impostazione tecnocratica" (v. Torgerson, 1995, p. 228).
Negli anni trenta, l'accento - tipico del pragmatismo - posto sul
fatto che le buone politiche sono quelle che danno buoni risultati
si accordava con l'idea che nel settore pubblico il dibattito
ideologico dovesse cedere il passo alla raccolta di dati e alla
sperimentazione scientifica. Sull'onda di questo movimento, molte
università decisero di incoraggiare la ricerca nel campo della
pianificazione territoriale e della lotta contro l'emarginazione
sociale. Da allora, l'interesse per l'analisi delle politiche
pubbliche si è consolidato in un fitto reticolo di think tanks, di
centri di ricerca interni alle istituzioni, di università, di
organizzazioni professionali: i loro contributi costituiscono ormai
un tratto fondamentale della vita politica e culturale statunitense
(v. Dror, 19942). Questi quattro canali non solo hanno alimentato il
flusso delle ricerche sulle politiche pubbliche, ma inoltre hanno
promosso il prestigio di questa impresa intellettuale e garantito
l'indipendenza di giudizio di quanti a essa si dedicano.
I think tanksL'espressione think tank (alla lettera, 'serbatoio del
pensiero'), entrata nel lessico politico statunitense a partire
dagli anni cinquanta, fa riferimento a centri di ricerca permanenti,
dotati di un proprio staff, con una speciale competenza nello studio
delle politiche pubbliche. La loro principale attività è la
consulenza a enti di governo, imprese, organizzazioni degli
interessi, testate giornalistiche, per i quali possono progettare,
monitorare e valutare singoli programmi, pur senza avere alcun
diretto coinvolgimento nella fase della loro esecuzione (v. Weiss,
1992). Secondo James Smith (v., 1989, p. 178), " 'Think tank' è
un'espressione abbastanza amorfa per descrivere la varietà di
assetti che questa nazione di inventori e sperimentatori di
istituzioni ha escogitato, nel corso del XX secolo, per far pesare
nelle questioni pubbliche la competenza tecnica, l'intuizione
informale e il giudizio politico".
I centri interni alle istituzioniLe strutture di analisi interne
all'esecutivo nel corso degli anni sono riuscite ad acquisire una
grande rilevanza: "I presidenti possono oggi contare sui circa
seicento esperti di policy e specialisti di bilanci dell'Office of
Management and Budget. Due o tre dozzine di economisti fanno in
genere parte dello staff del Council of Economic Advisers e
cinquanta o sessanta esperti siedono nel National Security Staff.
Poi ci sono gli specialisti che lavorano sulle politiche ambientali
e dello sviluppo scientifico, dentro - o per - la Casa Bianca" (v.
Smith, 1991, p. 13).
Ma il quadro non sarebbe completo senza considerare la straordinaria
importanza assunta dalle tre strutture di documentazione e di
analisi che coadiuvano deputati e senatori nella valutazione delle
varie iniziative legislative all'interno del Congresso. Il
Congressional Research Service, istituito nel 1914, svolge attività
di ricerca e documentazione e occupa circa 600 addetti: suo compito
istituzionale non è indicare le politiche migliori, bensì fornire
tutti gli elementi per permettere al parlamentare la scelta più
informata e ponderata. Il General Accounting Office, istituito nel
1921, ha un organico di circa 3.200 unità (dati 2002) che gli
permette di condurre scrupolose valutazioni in tutti i principali
settori di policy, con l'intento dichiarato di individuare le
soluzioni più convenienti, una volta definite certe priorità;
l'imparzialità e la qualità delle ricerche sono certificate
annualmente da una commissione esterna, con una approfondita
indagine a campione su alcuni degli studi prodotti. Il Congressional
Budget Office, creato nel 1974, ha il compito di assistere i
parlamentari in tutte le questioni che riguardano il bilancio, i
provvedimenti che comportano spese, le questioni fiscali; a capo
dell'ufficio, in cui lavorano circa 200 persone, si sono succeduti
analisti di grande prestigio.
Le universitàIl flusso delle competenze per l'analisi delle
politiche è alimentato dagli investimenti effettuati a livello
accademico per la ricerca e la didattica. Nel 1919 l'Università di
Berkeley istituì un Ufficio per l'amministrazione pubblica, in
seguito ribattezzato Institute of Governmental Studies. Nel 1936
l'Università di Harvard seguì la stessa strada, fondando una scuola,
in seguito dedicata al presidente John F. Kennedy. Da allora, i
principali atenei hanno tutti avviato corsi di public policy, in
genere collegati ai dipartimenti di scienza politica, di economia o
di sociologia.
Le organizzazioni professionaliLe associazioni su base disciplinare
hanno un ruolo importante nel facilitare la circolazione delle idee
e nel rafforzare il prestigio dell'analista di politiche pubbliche.
Nel 1971 nacque la Policy Studies Organization (PSO), la prima del
suo genere, con l'obiettivo di "promuovere l'applicazione della
scienza politica e sociale a importanti problemi di policy". Intorno
a questo tema è inoltre cresciuto un folto numero di riviste che
costituiscono sedi di dibattito scientifico, ma anche canali per la
diffusione di esperienze pratiche.Altri contesti
Lo sviluppo dei policy studies negli altri paesi occidentali si
distingue per due caratteristiche. Innanzi tutto, rispetto al
contesto statunitense il profilo è senz'altro più basso per quanto
riguarda l'ampiezza, la rilevanza politica e il grado di
istituzionalizzazione della ricerca. Inoltre, l'oggetto di studio
raramente è definito in termini di politica pubblica: si parla di
progetti, programmi, investimenti, piani, mutuando le categorie
chiave dall'economia o dalla scienza dell'amministrazione. Questa
differenza non è di poco conto, perché rende più difficile
incorporare nell'analisi aspetti quali la complessità
dell'implementazione e il grado di collaborazione da parte dei
destinatari. Inoltre, come abbiamo sottolineato, nel concetto di
politica pubblica è implicita una tensione ideale verso 'il
pubblico' come referente ultimo della valutazione, che altri
paradigmi relegano nell'ombra o interpretano con categorie diverse.
Dopo questa premessa, occorre riconoscere che le organizzazioni
internazionali hanno giocato un ruolo molto importante nel
diffondere il linguaggio e i metodi di ricerca delle policy
sciences, o almeno di quella parte di esse più orientata alla
prescrizione di specifiche linee di azione. Innanzi tutto, molti di
questi organismi nascono con una missione definita istituzionalmente
in termini di policy: si pensi all'Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS o WHO, World Health Organization), all'Organizzazione
delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura
(UNESCO), all'Organizzazione per l'Alimentazione e l'Agricoltura
(FAO), al Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP). Altri
si sono orientati sempre più decisamente in questa direzione: così
ha fatto, ad esempio, la Banca Mondiale, dalla metà degli anni
settanta impegnata in progetti a sostegno delle economie più
fragili.
L'estrema eterogeneità delle credenze religiose, delle strutture
economiche e dei sistemi politici rappresentati hanno indotto molte
organizzazioni a privilegiare il linguaggio delle politiche
pubbliche, almeno apparentemente neutrale, per la sua concretezza e
per il suo orientamento verso criteri di valutazione indipendenti. E
se la leadership politica degli Stati Uniti è stata spesso
contestata all'interno di questi organismi, la loro leadership
scientifica ha subito sfide solo marginali, in genere superate con
le stesse risorse della policy analysis: studi di fattibilità,
analisi costi/benefici, monitoraggio dell'output e dell'impatto.
In quella particolare istituzione multinazionale che è l'Unione
Europea, il ricorso all'analisi delle politiche pubbliche è nato
dall'esigenza di individuare procedure capaci di minimizzare i
conflitti allocativi, rendendo più espliciti i criteri di scelta e
più tecnici i processi di aggiudicazione delle risorse. Questa
svolta è avvenuta negli anni ottanta, quando apparve chiaro che
l'espansione dell'intervento comunitario non era governabile con
l'esclusivo ricorso al criterio rigorosamente spartitorio
precedentemente adottato per le politiche agricole.
Nei paesi dell'Europa continentale l'interesse per le politiche
pubbliche è soprattutto il risultato di una conoscenza più
ravvicinata della scienza politica statunitense, incoraggiata dagli
scambi culturali degli anni sessanta e settanta. E tuttavia questo
processo di importazione non è stato né rapido, né indolore. Secondo
Wildavsky esso è stato ostacolato dall'autoritarismo latente nella
cultura dei tradizionali protagonisti del policy making europeo, i
politici e i burocrati: "È precisamente l'intolleranza per la
consulenza indipendente che ha impedito alle scuole di public policy
di decollare in Europa" (v. Wildavsky, 19922, XXVII).
Il caso italiano sembra confermare questo sferzante giudizio. Nel
nostro paese, infatti, per l'esperto che intenda dare risonanza
pubblica alle valutazioni di policy cui è pervenuto con le sue
analisi, la via maestra rimane la ricerca di appoggio da parte di
uno schieramento partitico, al fine di accedere a cariche nelle
istituzioni politiche. Mentre nel governo e nel parlamento siedono
molti professori universitari che spesso animano il dibattito sui
media, le università, gli istituti di ricerca indipendenti, le
fondazioni, le associazioni professionali hanno tuttora ruoli molto
marginali nel policy making. Le conseguenze sono rilevanti. A
differenza di quanto avviene nelle principali democrazie, gli organi
costituzionali e le agenzie indipendenti si trovano ad assumere le
loro decisioni senza potersi avvalere delle valutazioni di centri
indipendenti, caratterizzati da elevati standard professionali e
gelosi della loro apartiticità.
Per garantire rigore a un campo di ricerca con un oggetto di studio
così multiforme, in cui confluiscono norme formali e fattori
culturali, dati economici e reazioni emotive - cioè elementi
normalmente indagati entro ambiti disciplinari tra loro non
comunicanti - occorre esercitare un severo controllo su ogni fase
del processo di ricerca: l'individuazione degli obiettivi, la scelta
dei metodi, la verifica dei dati, l'esplicitazione delle procedure
seguite, la discussione dei punti di forza e di debolezza nelle
conclusioni raggiunte. In effetti, gli studiosi di politiche
pubbliche considerano la pluralità degli approcci disponibili non
come una patologia o come un sintomo di scarsa precisione, ma
piuttosto come un segno di maturità scientifica. Lo stesso Lasswell,
nei primi anni cinquanta, identificò questo tipo di studi con
l'espressione policy sciences, sottolineando l'importanza del
plurale.Una pluralità di approcci
Per mettere ordine nella grande varietà di ricerche riguardanti le
politiche pubbliche, due dimensioni sono particolarmente
significative: l'orientamento rispetto alle finalità della ricerca e
le opzioni metodologiche di fondo.
La finalità rappresenta una caratteristica cruciale, perché esiste
una netta differenza tra ricerche di tipo prescrittivo e ricerche di
tipo descrittivo: le prime mirano allo studio 'per' il policy making
e le seconde allo studio 'del' policy making, per riprendere la
celebre distinzione di Lasswell (v., 1951). Le analisi del primo
tipo esaminano i processi di formulazione e di attuazione
dell'intervento pubblico in chiave diagnostico-terapeutica, con
l'esplicito proposito di migliorarne i risultati o, quanto meno,
ridurne i fallimenti. Le ricerche del secondo tipo mirano a
ricostruire i contorni dei processi decisionali, i loro esiti, le
caratteristiche degli attori che vi partecipano, le relazioni tra le
diverse fasi, in modo da formulare modelli più realistici e incisivi
del modo in cui le nostre società complesse affrontano le situazioni
critiche. Sullo sfondo si delineano due profili professionali
diversi: nel primo caso, la figura di riferimento è l'analista che,
dall'interno o dall'esterno delle istituzioni, lavora per orientare
le loro decisioni, e pertanto utilizza larga parte delle sue risorse
per comunicare con coloro che fanno le politiche; nel secondo caso,
la figura chiave è il ricercatore, che all'interno delle università
e dei centri di ricerca, pubblici e privati, si confronta
soprattutto con la comunità scientifica, da cui deriva i canoni per
la validazione delle sue ipotesi.
La seconda dimensione fa riferimento alle due grandi opzioni
metodologiche che caratterizzano la disciplina, con ricerche che
seguono un approccio prevalentemente induttivo e altre che si basano
invece su dimostrazioni di tipo prevalentemente deduttivo. Fanno
parte della prima categoria le indagini che muovono dalla raccolta e
dalla valutazione dei dati - quantitativi o qualitativi - per trarre
conclusioni a conferma o a smentita delle ipotesi, come avviene
nelle altre scienze sociali di orientamento empirico, siano esse la
scienza politica, la sociologia o la psicologia. Appartengono invece
alla seconda categoria le ricerche che basano le loro conclusioni su
precise assunzioni circa le caratteristiche formali degli attori e
dei contesti in cui agiscono, come fanno le teorie economiche,
normative o positive. Infatti, l'economia è la scienza sociale che
più di ogni altra è riuscita a derivare una serie molto elaborata di
conclusioni circa le scelte di consumatori e produttori da alcune
premesse relativamente semplici e intuitive che riguardano le
caratteristiche dell'homo oeconomicus e le condizioni che
definiscono il funzionamento dei mercati competitivi.
Occorre tuttavia notare che, dato il loro carattere eminentemente
applicativo, i policy studies non possono certo aspirare a
interpretare le diverse opzioni metodologiche con assoluta coerenza.
Da un lato, l'uso del metodo induttivo è pesantemente condizionato
dalla difficoltà di replicare gli esperimenti, per l'assenza di
controllo sulle caratteristiche dei campioni esaminati. Mentre
esistono protocolli per verificare se un certo farmaco è efficace o
meno nel ridurre la mortalità perinatale, è certo più complicato
impostare una ricerca sull'efficacia di una politica di sostegno
alle esportazioni, in un contesto internazionale reso altamente
instabile dai conflitti politici e dall'influenza delle nuove
tecnologie. Dall'altro lato, gli approcci che adottano una strategia
di tipo deduttivo, concentrando l'analisi sulla validità dei
postulati e la correttezza dei percorsi logici che ne discendono,
devono comunque guardarsi da semplificazioni troppo drastiche, che
finirebbero con l'offuscare le effettive intenzioni e le concrete
conseguenze delle decisioni pubbliche.
Dall'incrocio tra le due dimensioni che abbiamo presentato deriva
una griglia capace di cogliere i tratti salienti di quattro tipici
approcci, ciascuno caratterizzato da sue proprie potenzialità e da
precisi limiti, e ciascuno attento a un diverso aspetto di quel
complesso costrutto sociale che è una politica pubblica. Le
denominazioni che qui di seguito utilizzeremo riflettono accezioni
relativamente diffuse. Ma è necessario sottolineare che non esiste
alcuna convenzione consolidata sul corretto uso di questi termini,
che molti autori considerano sinonimi o impiegano con significati
difformi.
L'analisi razionale delle politiche pubblicheLa rational policy
analysis merita di figurare al primo posto nella nostra
presentazione perché tra i non specialisti, e qualche volta anche
tra gli esperti, è considerata il paradigma per eccellenza dei
policy studies. Quando nel nostro paese un'amministrazione
commissiona uno studio - si tratti della valorizzazione dei suoi
beni culturali o del miglioramento dei servizi sanitari - in genere
si aspetta un prodotto rispettoso degli standard fissati da questo
approccio.
L'analisi razionale vede le politiche pubbliche soprattutto come
decisioni (v. Quade e Boucher, 1968; v. Dunn, 1981). Le sue
finalità, eminentemente prescrittive, possono essere sintetizzate in
questi termini: 1) elaborare tutti i dati necessari per dare
contorni precisi al problema che si intende affrontare (v. Carley,
1980); 2) selezionare le vie alternative realisticamente
percorribili (v. Weimer e Vining, 1998); 3) individuare gli
interventi in grado di garantire il miglior rapporto costi/benefici
(v. Nagel, 19942); 4) valutare gli effetti della scelta attraverso
il monitoraggio delle iniziative prese, dei risultati ottenuti,
dell'impatto effettivo sul problema trattato (v. Osborne e Gaebler,
1992).
Per raggiungere questi obiettivi, l'analisi razionale ricorre di
preferenza a metodi con una forte impronta deduttiva, come
dimostrano i frequenti riferimenti all'economia, la disciplina che
prima di ogni altra ha cercato di dare una risposta rigorosa a
interrogativi quali: quando la regolazione pubblica è preferibile al
libero mercato? In base a quali principî si può ritenere che una
determinata distribuzione di risorse sia preferibile rispetto a
un'altra? A quali conseguenze occorre guardare per formulare un
giudizio? Quale arco temporale bisogna considerare per valutare i
risultati in un determinato settore? Questi problemi di ricerca
richiedono l'impiego delle tecniche proprie dei settori più
formalizzati delle scienze sociali: l'economia pubblica, le
discipline manageriali, la teoria delle decisioni, il problem
solving. E richiedono, per la verifica delle ipotesi, una
quantificazione, anche approssimativa, delle alternative in gioco
(v. Stokey e Zeckhauser, 1978). Infatti, l'analisi razionale parte
dal presupposto che sia possibile e utile fornire una qualche misura
anche per quelle variabili che incidono molto concretamente sulla
qualità della vita dei cittadini, ma che di solito sono lasciate nel
vago e nel generico: il miglioramento dell'istruzione, la
diminuzione del traffico, l'aumento della sicurezza personale, e
così via.
La policy inquiryPer larga parte del pubblico italiano, il discorso
sugli approcci prescrittivi si chiude con il capitolo sull'analisi
razionale o, forse, ancora prima. A molti, infatti, pare impossibile
proporre interventi pubblici che non prendano come parametri di
riferimento la razionalità, l'economicità, l'efficienza.
Eppure, negli ultimi quarant'anni, molti autori, delusi dagli scarsi
risultati ottenuti dalla rational policy analysis, hanno cercato
altri punti di partenza e li hanno trovati nel riconoscimento che i
problemi di policy, e le aspettative circa la loro soluzione,
affondano le loro radici in contorte rappresentazioni sociali, in
complesse interazioni, in incerte congetture non solo sul futuro, ma
anche sul passato, oppure in storie incoerenti. L'estremo realismo
di queste osservazioni, basate su un'ampia serie di ricerche
empiriche, a prima vista sembra escludere qualunque declinazione in
termini prescrittivi. Ma forse sono proprio questi i contributi che
più valorizzano le potenzialità diagnostiche insite nel concetto di
politica pubblica, qui considerata come un complicato esperimento
sociale volto a dare un qualche senso alla convivenza entro una
stessa società di persone con le più disparate esigenze.
Il termine inquiry guadagna il centro della scena con John Dewey,
che intitola una delle sue opere maggiori Logic: the theory of
inquiry (1938), facendo di questo vocabolo una delle parole chiave
del pragmatismo. Come scrive David Paris (v., 1988, p. 86), "la
policy inquiry deve riflettere la complessità e la confusione del
mondo politico (political), con i suoi trade-off, le svariate e
approssimative rivendicazioni, la conoscenza limitata, le
conseguenze inattese. Se ciò rende la policy inquiry solo
'relativamente autorevole', forse è proprio questo tutto quel che
essa può o deve essere in una società democratica".
Nella frase citata è implicita una severa critica all'analisi
razionale. Secondo questi autori, infatti, la sua pretesa di
individuare ciò che è bene per una società, senza fare i conti con
le idee e gli interessi degli individui che la compongono, contiene
implicitamente una tendenza dispotica, sia pure velata dai migliori
propositi (v. Lindblom, 1990). Al contrario, dalla policy inquiry
emerge il profilo di un professionista prudente, consapevole della
pluralità delle passioni e degli interessi in gioco: "Che cosa ha
prodotto una politica? Dopo aver assaggiato il frutto dell'albero
della conoscenza, chi si occupa dell'implementazione può rispondere
solo, in modo convinto, 'dipende...' " (v. Majone e Wildavsky, 1979,
p. 180).
Questa consapevolezza porta a una radicale ridefinizione del tipo di
risorse che l'analista può offrire ai policy makers. Nella sua
'cassetta degli attrezzi', infatti, entrano strumenti quali: a) la
riflessività, intesa come capacità di vedere i limiti dei nostri
schemi cognitivi anche mentre li stiamo utilizzando (v. Schön e
Rein, 1994); b) la capacità di fare leva sugli interessi in gioco,
per promuovere compromessi basati sull'aggiustamento reciproco (v.
Lindblom, 1959); c) il ridimensionamento continuo delle aspettative
miracolistiche, accompagnato dall'effettivo sfruttamento di ogni
minimo margine di cambiamento (v. Wildavsky, 19922); d) il
riconoscimento dei tratti caotici insiti nelle nostre vicende
collettive, perennemente in bilico tra tensione progettuale e
casualità (v. March e Olsen, 1989).
Lo studio del policy makingPassiamo ora a considerare le ricerche
condotte con i tradizionali metodi empirici della sociologia e della
scienza politica, con l'intento di capire come si sviluppano i
processi di governo nelle democrazie contemporanee. Pertanto, le
analisi di cui ci occupiamo ora si pongono finalità esplicative,
predittive, o semplicemente descrittive. All'interno di questo
approccio, le politiche pubbliche sono identificate essenzialmente a
partire dai processi che innescano (v. Lindblom, 1980): la
mobilitazione di chi chiede un cambiamento, le negoziazioni
politiche, le deliberazioni, le procedure amministrative, le
reazioni dei destinatari.
La prima impressione, ricostruendo gli eventi che hanno portato allo
sviluppo o alla paralisi di una politica pubblica, è spesso quella
di assistere a una telenovela con una sceneggiatura di bassa
qualità, dove i colpi di scena sono continui e ingiustificati, la
personalità dei protagonisti è delineata in modo contraddittorio, la
trama è ripetitiva e piena di incoerenze: morti che ricompaiono,
improbabili riconciliazioni, catastrofi inimmaginabili, per altro
subito dimenticate. Dato che il mondo reale delle politiche, con i
suoi aspetti inattesi e coloriti, è così distante dai resoconti
ufficiali, il maggior pericolo da cui si deve guardare questo tipo
di studi è lo scadere nell'aneddotico, nel racconto in cui ogni caso
fa storia a sé (v. Stone, 1988). Dunque, per chi studia il policy
making, è essenziale disporre di concetti, di immagini, di metafore
(v. Kaplan, 1964; v. Sabatier, 1999) capaci di togliere le
specifiche vicende dall'isolamento della singolarità per analizzarle
nei loro elementi costitutivi, per collocarle in rapporto ad altre
analoghe, per renderle adeguate alla verifica delle ipotesi
teoriche.
Le principali categorie utilizzate per definire in termini analitici
la fisionomia di una vicenda di policy fanno in genere riferimento
a: 1) il peso specifico dei vari gruppi di policy makers: politici,
burocrati, rappresentanti degli interessi, esperti, magistrati,
opinion leaders (v. Jordan e Schubert, 1992); 2) la dinamica che
regola le varie fasi del policy making (formazione dell'agenda,
approvazione, implementazione, valutazione: v. Pressman e Wildavsky,
1973; v. Kingdon, 1984); 3) gli stili decisionali, più o meno
cooperativi e lungimiranti (v. Richardson, 1982); 4) le regole,
formali e informali, che definiscono il ventaglio delle mosse
consentite (v. Wildavsky, 1987); 5) i contenuti (v. Lowi, 1964),
cioè gli strumenti effettivamente utilizzati per mitigare, risolvere
o rimuovere (v. Bachrach e Baratz, 1962) un problema di rilevanza
collettiva.
Sullo sfondo sta un originale modo di guardare alle tensioni che
attraversano le società postindustriali: "Il nucleo di questa
prospettiva è un concetto decentralizzato di organizzazione sociale
e di governo: la società non è più controllata esclusivamente da
un'intelligenza centrale (ad esempio, lo Stato); piuttosto, i
dispositivi di controllo sono dispersi, e l'intelligenza è
distribuita tra una molteplicità di unità d'azione (o di
elaborazione)" (v. Kenis e Schneider, 1991, p. 26).
La scelta pubblicaLe ricerche di cui ci occupiamo in questo
paragrafo muovono da alcune assunzioni di base circa le preferenze
degli attori razionali, le caratteristiche dei beni pubblici,
l'influenza delle regole decisionali, il peso dei costi
dell'informazione, per derivarne ipotesi sui rapporti tra policy
makers e policy takers in particolari settori dell'intervento
pubblico, quali le politiche previdenziali o ambientali, e in
particolari ambiti istituzionali, quali i parlamenti, le agenzie
indipendenti, gli Stati federali (v. McCubbins e altri, 1989). In
questa prospettiva, le politiche pubbliche sono esaminate
essenzialmente come scelte, cioè come decisioni consapevoli (v.
Tullock e Wagner, 1978). Le risorse analitiche fondamentali sono
fornite dalle teorie deduttive (o razionali, o economiche, o
formali) delle decisioni pubbliche (o collettive, o sociali) (v.
Amacher e altri, 1976).
L'assunto comune, di derivazione microeconomica, è che l'arena
politica sia popolata da attori che hanno come principale obiettivo
la massimizzazione del loro interesse personale, esattamente come
avviene nel mercato. Le politiche pubbliche sono la merce di scambio
con cui i governanti acquisiscono il consenso dei governanti e
ottengono parte del loro reddito attraverso il prelievo fiscale (v.
Buchanan e Tollison, 1972).
Gli elettori-contribuenti stanno al gioco, votando e pagando le
tasse, perché sono interessati al prodotto dei governi in termini di
difesa nazionale, pensioni, trasporti pubblici (v. Downs, 1957). Il
problema è che, a differenza di quanto avviene nel mercato,
nell'arena politica il punto di equilibrio tra domanda di politiche,
da parte dei cittadini, e offerta, da parte dei governanti, tende a
essere inefficiente (v. Fiorina, 1981). Infatti, la particolare
natura delle questioni in gioco, la stratificazione di regole
contorte, la complessità della catena dell'implementazione aprono
enormi opportunità per strategie spregiudicate, con trasferimenti di
risorse dalla vasta platea della popolazione a ristrette categorie
di beneficiari - siano essi i politici, i burocrati, o i gruppi
d'interesse - pronti ad approfittare di queste ghiotte occasioni (v.
Olson, 1965; v. Niskanen, 1971). Termini quali 'volontà popolare' o
'consenso generale', comunemente usati nei testi di teoria politica
o nei discorsi dei leaders, non sono che rappresentazioni
antropomorfiche di quel che in realtà è solo il prodotto contingente
del gioco degli interessi e di procedure imperfette (v. Riker,
1982).
Come è facile capire, molti autori considerano questo approccio
incompatibile con le usuali definizioni di politica pubblica, dato
che le brusche semplificazioni richieste dai suoi modelli
tenderebbero a eliminare gli aspetti più interessanti del policy
making. Insomma, a essere contestata è la possibilità di studiare le
politiche come un caso speciale delle scelte razionali (v. Green e
Shapiro, 1994). In effetti, i due concetti sono solo parzialmente
sovrapponibili, perché le politiche pubbliche non sono solo scelte:
sono anche il risultato di eventi che nessuno ha esplicitamente
voluto, di situazioni che hanno preso una data piega per una serie
di fattori che sfuggono al controllo degli attori.
La replica a questo argomento sottolinea come la radicale
semplificazione cui ricorrono queste teorie non sia fine a se stessa
(v. Miller, 2000). Se infatti l'obiettivo è quello di costruire
modelli capaci di gettare una qualche luce su ciò che avviene nella
sfera pubblica, adottare come punto di riferimento la definizione
microeconomica di attore razionale fornisce certamente un parametro
più saldo di quanto non faccia il suo opposto: la reazione emotiva,
irrazionale o fortuita, sulla cui base è difficile avanzare
spiegazioni o previsioni.Nuove tendenze
Negli ultimi decenni ha preso corpo una serie di analisi che non si
riconoscono nelle due dimensioni (tipo di finalità e tipo di metodo)
finora utilizzate per identificare i diversi approcci, perché non le
considerano adeguate a cogliere il senso del loro impegno di
ricerca. Tali studi ritengono inadeguata sia l'alternativa tra
prescrizione e descrizione, sia quella tra induzione e deduzione. Da
un lato, infatti, anche le ricerche senza finalità operative sono
intrise di assunzioni di valore e di imperativi taciti (v. Fischer e
Forester, 1987). Dall'altro, nel campo delle scienze sociali, né i
modelli formali, né le acquisizioni empiriche possono stare in piedi
senza sostenersi reciprocamente. Quando questo dato viene negato,
per imitare la presunta purezza metodologica delle scienze 'dure',
sono proprio gli aspetti più qualificanti dell'indagine sociale ad
andare perduti. Tale orientamento teorico viene spesso qualificato
come post-positivista, post-comportamentalista, post-moderno. Le
idee sono mutuate da correnti quali "l'ermeneutica, la
fenomenologia, il costruzionismo sociale, la teoria critica,
l'analisi del discorso, il decostruzionismo" (v. Yanow, 1995, p.
111).
E tuttavia, all'interno degli studi di policy statunitensi, questa
svolta appare meno brusca e traumatica di quella avviata,
soprattutto in Europa, in altri campi del sapere: "Sebbene Foucault
e Dewey cerchino di fare la stessa cosa, mi sembra che Dewey l'abbia
fatta meglio, semplicemente perché il suo vocabolario dà spazio alla
speranza ingiustificata e a un infondato, ma vitale, senso di
solidarietà umana" (v. Rorty, 1982; tr. it., p. 210).
Del resto, già le policy sciences della prima generazione si
riproponevano di superare le tradizionali linee di demarcazione tra
le diverse discipline, come dimostra la biografia intellettuale del
loro fondatore, Harold Lasswell. E la necessità di misurarsi
fattivamente con problemi di ampia rilevanza sociale tende ad
attenuare i tratti più esoterici e visionari presenti in questi
nuovi paradigmi. Chi studia le politiche pubbliche, a differenza del
critico letterario, si trova a studiare un verbum che prima o poi si
deve fare carne, cioè deve riuscire, se non a smuovere le montagne,
almeno a impedire che franino addosso a un centro abitato.
Le politiche come giudiziLa svolta post-positivista trova la sua più
importante espressione nelle policy sciences in senso proprio, cioè
nelle impostazioni che mantengono il legame più stretto con
l'insegnamento di Lasswell (v. deLeon, 1988). Al centro di tale
orientamento vi è l'affermazione del carattere progressivo implicito
nel ragionare in termini di politiche pubbliche: "Il paradigma di
Lasswell è un linguaggio di analisi delle politiche che rimarca la
sua base eminentemente normativa. Nell'insegnare l'importanza della
relazione tra l'analista e il potere, Harold Lasswell sottolinea il
carattere orientato al problema, carico di valori,
interdisciplinare, storico, sensibile al contesto e fiducioso circa
la natura democratica del giudizio professionale sulle politiche"
(v. Wildavsky, 19922, p. XXVII). Muovendo da questa base, le policy
sciences tendono a gettare un ponte sia verso la teoria critica
della società, erede della Scuola di Francoforte (v. Dryzek, 1990),
sia verso le teorie normative della giustizia (v. Rawls, 1972).
Le politiche come argomentiForte del rinnovato interesse delle
scienze sociali per la critica testuale e la retorica, la svolta
argomentativa (v. Majone, 1989) applica alle politiche pubbliche
metodi basati sull'analisi delle competenze linguistiche, sul
decostruzionismo e sull'ermeneutica (Maynard-Moody e Stull, 1987).
Alla base di questa impostazione vi è l'apprezzamento per le valenze
espressive e simboliche implicite nelle politiche pubbliche che,
prima di essere soluzioni, sono manifestazioni di considerazione per
i valori che tengono insieme le nostre società: "È possibile
sostenere che la vita non è soprattutto scelta: è interpretazione. I
risultati sono generalmente meno significativi dei processi, sul
piano sia del comportamento sia dell'etica. È il processo che dà il
significato all'esistenza, e il significato è l'essenza della vita
[...].
Questo argomento ha due aspetti. Da un lato, comporta che ogni
tentativo per 'migliorare' il decision making deve vedere le
decisioni come strumenti del significato. Dall'altro lato, capire e
spiegare i comportamenti decisionali richiede il riconoscimento
della centralità dell'interpretazione. Arrivare ad apprezzare il
dramma simbolico del decision making non come un epifenomeno, ma
come il suo tratto fondamentale porta lo studioso non solo a
cogliere l'eleganza, la dignità, il fascino e la bellezza dei
rituali decisionali come qualità estetiche, ma anche a capire meglio
il decision making" (v. March, 1994, p. 218). In questa prospettiva,
compito dell'analista non è difendere una verità, ma proporre buoni
argomenti per facilitare l'adozione di decisioni meditate e
condivise (v. Majone, 1980; v. Dunn, 1983).
Le politiche come praticheLa svolta neopragmatica rende espliciti i
legami tra lo studio delle politiche pubbliche e il più importante
movimento filosofico statunitense, il pragmatismo. Per questa
impostazione, cogliere un problema significa avvertire una tensione
verso il suo superamento: "Un problema sociale nasce solo quando la
gente guarda allo stato delle cose in un modo particolare, e
precisamente con il desiderio di un suo miglioramento" (v. Lindblom,
1990, p. 4). Questa tensione ha due importanti effetti. In primo
luogo, dà un senso alla discussione con cui una comunità
scientifica, capace di curiosità e di rispetto reciproci, confronta
i diversi orientamenti, non con l'obiettivo di trovare 'il vero', ma
con quello di 'riuscire a cavarsela' (v. Lindblom, 1959); in secondo
luogo, dà dignità ai compromessi che il ricercatore o l'analista
devono stipulare con i vincoli posti dal contesto. Sia nella
ricerca, sia nell'intervento professionale, l'analista pragmatico,
anziché rifarsi ai tradizionali criteri di oggettività e di
imparzialità di derivazione positivistica, preferisce ispirarsi a
quell'idea di saggezza meditata, umile e prudente che Aristotele,
nell'Etica Nicomachea, chiama phronesis (v. Anderson, 1988).
La consapevolezza della natura contingente dei giudizi che
riguardano le politiche pubbliche permette di considerare in modo
nuovo le dispute sui metodi per la loro analisi (v. Patton, 19902).
Se la valutazione non si limita ai meriti intrinseci, ma comprende
la maggiore o minore adeguatezza rispetto a un particolare problema
di ricerca, in certe situazioni possono rivelarsi utili e meritare
considerazione teorica anche i metodi apparentemente più distanti,
quali l'analisi razionale delle politiche e l'approccio della scelta
pubblica, caratterizzati da una logica deduttiva e da un'elevata
formalizzazione.
Per questa impostazione il percorso attraverso i diversi approcci da
lineare diventa circolare: un risultato che può ben figurare a
conclusione della nostra presentazione, perché rimarca le grandi
potenzialità euristiche insite nel concetto di politica pubblica.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Giandomenico Majone
Sommario: 1. Introduzione. 2. Tre modelli esplicativi:
neopluralismo, public choice, neoistituzionalismo. 3. Deliberazione
e politiche pubbliche. 4. Il problema della credibilità. 5.
Politiche nazionali e politiche europee. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il campo delle politiche pubbliche è vasto e composito, spaziando
dalla politica estera alla giustizia, dalla politica monetaria a
quella sanitaria; come pure, in senso verticale, dalle politiche
dello Stato e degli enti territoriali a quelle dell'Unione Europea e
di organismi internazionali come l'Organizzazione Mondiale per il
Commercio. Tale complessità e articolazione farebbero
ragionevolmente dubitare che sia possibile andare oltre l'analisi di
singole politiche, tradizionalmente svolta da economisti, sociologi,
giuristi ed altri specialisti dall'angolo visuale delle rispettive
discipline. Indubbiamente, la complessità del campo d'indagine è una
delle ragioni per cui i politologi hanno cominciato ad occuparsi del
processo di policy-making solo in epoca recente.
La prima formulazione sistematica di un approccio generale allo
studio di tale processo risale infatti a The policy sciences,
di Harold Lasswell e Daniel Lerner (v., 1951).Tuttavia, altre
ragioni ancora spiegano lo scarso interesse un tempo mostrato dai
politologi per i risultati concreti dell'azione di governo. In
passato, la scienza politica si è soprattutto interessata alle
istituzioni ed ai processi ritenuti essenziali per la legittimità
democratica delle decisioni pubbliche: elezioni, partiti politici,
rappresentanza degli interessi, rapporti tra i poteri dello Stato,
forme di governo. L'idea che anche la sostanza e le conseguenze di
tali decisioni sono rilevanti per la legittimità del sistema
politico è relativamente recente (v. Lipset, 1960).
Di qui l'attenzione portata oggi agli outputs del sistema politico:
le politiche pubbliche, appunto.Conviene, tuttavia, ritornare sulla
complessità delle politiche pubbliche come campo d'indagine, per
vedere come si è cercato di ridurre tale complessità mediante varie
classificazioni analitiche.
Un utile punto di partenza ci è offerto dalla distinzione,
introdotta da Musgrave (v., 1959), tra le principali funzioni dello
Stato in campo socio-economico: stabilizzazione economica,
redistribuzione del reddito, regolazione del mercato. La prima
funzione trova espressione nelle politiche fiscali e monetarie, di
bilancio e di stimolo alla domanda, come anche nella politica dei
redditi. La funzione redistributiva include tutti i trasferimenti di
risorse da un gruppo sociale ad un altro, ed inoltre la produzione
(o comunque l'offerta), assicurata dallo Stato, dei cosiddetti 'beni
meritori' (merit goods), quali l'istruzione pubblica o il servizio
sanitario nazionale.Infine, le politiche di regolazione hanno come
obiettivo generale la correzione di varie forme di 'fallimento del
mercato': situazioni di monopolio, esternalità negative (come
l'inquinamento ambientale), informazione asimmetrica (ad esempio,
tra produttori e consumatori), offerta sub-ottimale di 'beni
pubblici' quali la difesa nazionale o la ricerca di base (v.
Stiglitz, 1989). All'interno del campo delle politiche di
regolazione, è utile distinguere ulteriormente tra regolazione
economica (ad esempio, la legislazione antitrust o la regolazione
delle tariffe dei servizi di pubblica utilità) e regolazione sociale
(politiche ambientali, protezione dei consumatori, sicurezza dei
prodotti, salute e sicurezza nell'ambiente di lavoro).
Il politologo americano Theodore Lowi (v., 1964), partendo da
criteri diversi da quelli seguiti dall'economista Musgrave, è
pervenuto ad una classificazione abbastanza simile. Egli distingue
tra politiche regolative, redistributive e distributive; le prime
due categorie coincidono con quelle discusse sopra, mentre la terza
si riferisce a situazioni in cui il trasferimento di risorse a
favore di un gruppo non avviene a scapito di altri gruppi, come
invece nel caso delle politiche definite redistributive. Un esempio
classico è la distribuzione di terre disabitate ai primi coloni
americani. Ciò che caratterizza le politiche distributive nel senso
di Lowi, distinguendole da tutte le altre politiche pubbliche, è il
loro carattere non coercitivo - un punto sul quale avremo occasione
di tornare in seguito. È importante tener presente che le
distinzioni proposte da questi studiosi sono di natura analitica più
che descrittiva. In realtà, qualsiasi concreta politica utilizza
strumenti e produce effetti di varia natura. Ad esempio, una
politica regolativa generalmente favorisce alcuni gruppi più di
altri e ha pertanto effetti redistributivi più o meno importanti,
così come le politiche redistributive presentano spesso aspetti
regolativi.
Come tutte le classificazioni, anche quelle discusse qui vanno usate
con cautela, e tuttavia la loro utilità non può essere negata. Ad
esempio - anticipando un concetto che useremo a proposito delle
politiche europee - una caratteristica strutturale delle politiche
di regolazione è la scarsa incidenza dei vincoli di bilancio.
Infatti, mentre l'attuazione della maggior parte delle altre
politiche pubbliche richiede l'impiego di risorse, spesso notevoli,
che devono essere iscritte nel bilancio pubblico, la produzione di
norme e regolamenti ha un costo trascurabile per i regolatori: il
costo implicito delle politiche regolative è sostenuto da industrie,
enti territoriali o famiglie oggetto della regolazione. Di qui la
possibilità di una crescita incontrollata, perché non sottoposta
alla disciplina del bilancio pubblico, dell'attività di
regolazione.Un'altra serie di distinzioni riguarda non tanto la
natura delle politiche, quanto le fasi del processo decisionale.
Uno schema spesso usato dagli analisti distingue le seguenti fasi:
definizione della 'agenda'; identificazione del problema; analisi
delle soluzioni alternative; decisione; attuazione; valutazione dei
risultati; riformulazione della politica. È appena il caso di
osservare come tale schema corrisponda ad una visione 'sinottica' e
iper-razionalista del processo di policy-making. Ad esempio, una
netta distinzione tra la formulazione e l'attuazione di una politica
presuppone che le decisioni vengano prese in condizioni di certezza
e di informazione completa.
In realtà, inizialmente i decisori conoscono solo una piccola parte
dei vincoli che si manifesteranno nella fase di attuazione.
Obiettivi e strumenti andranno quindi continuamente rivisti alla
luce delle nuove informazioni via via acquisite, e pertanto la
distinzione tra formulazione ed attuazione è, sia concettualmente
che praticamente, dubbia. Le fasi del processo di policy-making
vanno concepite non come sequenza logica, ma in senso evolutivo (v.
Majone e Wildavsky, 1978).Nonostante tali critiche, è difficile
negare che lo schema esposto sopra abbia una certa utilità
euristica. Inoltre, una buona parte della stessa letteratura sulle
politiche pubbliche può essere classificata secondo tale schema.
Basti pensare ai classici studi di Pressman e Wildavsky (v., 1973²)
sull'implementazione, o di Kingdon (v., 1984) sulla formazione
dell'agenda. Queste e simili opere monografiche, come anche molti
case studies, hanno dato importanti contributi alla comprensione del
processo di policy-making in tutta la sua complessità, ma non
pretendono di offrire una spiegazione causale di tale processo. Per
trovare tentativi di spiegazione di questo tipo occorre prendere in
considerazione altri filoni di ricerca.
2. Tre modelli esplicativi: neopluralismo, public choice,
neoistituzionalismo
È merito dei primi teorici del neopluralismo (termine adottato per
distinguere questa corrente di pensiero dalla filosofia pluralistica
classica di James Madison e di altri federalisti) l'aver condotto la
scienza politica a riconoscere il ruolo degli interessi nella
formazione delle politiche pubbliche. Il programma di ricerca dei
neopluralisti è riassunto da una frase di Arthur Bentley: "Quando i
gruppi [di interesse] sono analizzati in modo adeguato, tutto è
spiegato" (v. Bentley, 1967, p. 208). Ne segue che, per i
neopluralisti, non esiste un interesse generale che le politiche
pubbliche dovrebbero perseguire. Inoltre, una determinata politica
pubblica rappresenta un punto di equilibrio tra le pressioni
esercitate dai gruppi concorrenti. Le decisioni del parlamento o del
governo non fanno altro che riflettere e ratificare tale equilibrio.
Bentley, Truman (v., 1951) e gli altri neopluralisti non negano che
a volte partiti politici o gruppi di burocrati possano svolgere un
ruolo indipendente, ma solo come gruppi di interesse in lotta con
altri. In generale, tuttavia, gli attori principali nel processo di
policy-making sono, in questo modello, i gruppi economici. Questi si
organizzano in funzione di obiettivi molto particolari, e la loro
capacità di mobilitare i propri membri su specifiche questioni
spiega l'enorme influenza di tali gruppi privati sulle politiche
pubbliche.Il modello neopluralista non spiega come l'equilibrio tra
i gruppi venga raggiunto, né l'esatta natura di tale equilibrio, ma
la direzione causale è chiara: i gruppi d'interesse sono il vero
motore del processo di policy-making, mentre le istituzioni ed i
poteri pubblici avrebbero un ruolo meramente passivo.
Naturalmente i neopluralisti si rendevano conto che i gruppi non
sono tutti ugualmente potenti e che, pertanto, le possibilità di
influenzare le politiche pubbliche sono distribuite in modo
ineguale. Tuttavia, essi sostenevano che i gruppi più attivi hanno
la possibilità, prima o poi, di far sentire la loro voce. In tal
modo, il modello - da spiegazione causale quale voleva essere
inizialmente - si era trasformato, verso la fine degli anni
cinquanta, in una teoria normativa.
Questa visione ottimistica della concorrenza fra gruppi d'interesse
doveva subire un duro colpo dalla dimostrazione, ad opera di Mancur
Olson (v., 1965), che la comunanza di interessi è condizione
necessaria ma non sufficiente per la formazione di gruppi in grado
di influenzare il processo di policy-making. Poiché gli individui
che perseguono il loro interesse privato sono riluttanti a
contribuire volontariamente al finanziamento di beni pubblici
(problema del free rider), molti gruppi 'latenti' non riescono ad
organizzarsi stabilmente. La 'logica dell'azione collettiva' di
Olson spiega anche perché, dovendo scegliere tra politiche volte ad
aumentare l'efficienza del sistema economico e politiche
redistributive, i gruppi d'interesse preferiscono le seconde: tali
politiche appaiono ad essi preferibili in quanto aumentano la loro
probabilità di ottenere una quota maggiore del prodotto nazionale,
pur se tale prodotto risulta in realtà inferiore a quello ottenibile
con politiche del primo tipo. Questo corollario della teoria di
Olson, secondo cui tutte le politiche pubbliche sono riducibili a
forme più o meno mascherate di redistribuzione a favore dei gruppi
meglio organizzati, costituisce il punto di partenza del modello
della public choice, specialmente nella versione della Scuola di
Chicago.
La prima esposizione rigorosa di tale modello si trova in un
articolo di George Stigler su La teoria della regolazione economica
(1971). Con questo lavoro, Stigler intendeva porre i fondamenti
analitici di una teoria 'positiva' della politica, intesa come lotta
fra i gruppi d'interesse per il controllo del processo di
policy-making. Partendo dall'ipotesi che tutti gli attori, privati e
pubblici, perseguono esclusivamente il loro interesse, la teoria
intende spiegare i meccanismi causali attraverso i quali le
preferenze dei gruppi meglio organizzati determinano le scelte
pubbliche. Come già osservato, la mancanza di una vera spiegazione
causale costituisce uno dei principali punti di debolezza del
modello neopluralista.
Secondo Stigler, l'obiettivo dei politici è massimizzare la
probabilità di vincere le elezioni; tutto il resto, comprese le loro
preferenze ideologiche, è secondario e accessorio. Pertanto, ai
politici conviene far proprie le preferenze dei gruppi d'interesse
più forti, diventandone la cinghia di trasmissione nel processo di
policy-making. Se è vero che i regolatori hanno autonomia formale e
motivazioni diverse, essi sono nondimeno sotto il controllo dei
politici e dovranno pertanto assecondarne le preferenze 'derivate'.
Abbiamo così una catena di influenze che va dai gruppi d'interesse
ai regolatori, passando per i politici; e poiché si suppone che tale
sistema di controlli funzioni perfettamente, ne segue che l'intero
apparato politico-amministrativo può essere trattato come una
'scatola nera', che da determinati inputs produce esiti prevedibili.
Lo scarso interesse di Stigler (come di tutta la Scuola di Chicago)
per le istituzioni politiche e amministrative è dovuto al fatto che,
per questi studiosi, solo i gruppi d'interesse e le risorse a loro
disposizione contano realmente.
Tali gruppi sanno quali assetti istituzionali sono più favorevoli ai
loro interessi, cioè offrono la massima probabilità di produrre le
politiche pubbliche desiderate, e pertanto finiranno coll'imporre
gli assetti desiderati. In altre parole, in questo modello le
istituzioni sono endogene, almeno nel lungo periodo.
Tuttavia, le teorie fondate sugli interessi come unica 'variabile
indipendente' non possono spiegare la relativa stabilità delle
istituzioni, come anche di molte politiche pubbliche: tale stabilità
mal si concilia con i continui cambiamenti nella configurazione
degli interessi dominanti. Il modello neoistituzionalista prende le
mosse da tale critica. Parlando di neoistituzionalismo, ci si
riferisce ad una scuola di pensiero che, a differenza del vecchio
funzionalismo della scuola storica tedesca, o, soprattutto, di
autori come Veblen e Commons, cerca di dare una spiegazione teorica,
fondata sui principî dell'individualismo metodologico, dell'origine
di particolari istituzioni economiche, giuridiche o politiche (v.
Williamson, 1985). Ora, le istituzioni - intese sia come
organizzazioni formali che come 'regole del gioco' e principî di
condotta - costituiscono dei vincoli, non facilmente modificabili,
per tutti i partecipanti al processo di policy-making. Pertanto, la
struttura istituzionale risponde solo parzialmente, e con ritardo,
ai cambiamenti nella configurazione degli interessi. Tale inerzia
spiegherebbe allora la relativa stabilità delle politiche pubbliche
e la relativa autonomia delle istituzioni stesse (v. Hall, 1986).
Anche il modello neoistituzionalista vede negli interessi economici
il motore del processo di policy-making, ma spiega in modo diverso
la relazione tra interessi e politiche pubbliche. Ad esempio,
laddove il modello della public choice postula una relazione
monocausale, i neoistituzionalisti insistono sulla reciprocità dei
condizionamenti: se è vero che gli interessi economici (o d'altra
natura) influiscono sulla politica, è altrettanto vero che le
istituzioni politiche, in quanto vincoli, influiscono sugli
interessi, contribuendo in tal modo a trasformare le stesse forze
che condizionano lo sviluppo delle politiche pubbliche. Pertanto,
sostenere che queste ultime riflettono gli interessi economici
sottostanti equivale a rappresentare il processo causale in modo
incompleto, e perciò distorto. Con altrettanta giustificazione si
potrebbe asserire che gli interessi economici sono condizionati dai
processi politici 'sottostanti'. In realtà si tratta, appunto, di
rapporti di reciproca influenza (v. Moe, 1987).
Riconoscendo un ruolo autonomo non solo alle istituzioni, ma anche
alle idee ed ai principî, senza tuttavia abbandonare le premesse
dell'individualismo metodologico e della razionalità limitata, il
modello neoistituzionalista permette di reintrodurre concetti
normativi, quali l'efficienza (nel senso di Pareto) e l'interesse
generale, che i precedenti modelli avevano voluto bandire
dall'analisi delle politiche pubbliche. Per questa ragione, il
neoistituzionalismo è in grado di fornire un utile sostegno teorico
ai tentativi più recenti di rivalutare gli aspetti discorsivi del
processo di policy-making.
3. Deliberazione e politiche pubbliche
La democrazia è stata definita come una forma di governo in cui le
politiche pubbliche vengono decise dopo un dibattito cui
partecipano, con ruoli diversi ma tra loro collegati, cittadini,
legislatori, esperti, amministratori, partiti politici,
associazioni. È il modello di 'government by discussion' dei
liberali inglesi da John Stuart Mill e Walter Bagehot a lord Lindsay
ed Ernest Barker. Si tratta, ovviamente, di un modello idealizzato,
che trascura conflitti di interesse e rapporti di forza, e che
perciò è stato ferocemente criticato dai neopluralisti, ma che
tuttavia coglie aspetti importanti della dialettica democratica e
della dinamica delle politiche pubbliche (v. Majone, 1989).
La letteratura sul ruolo delle idee e dell'argomentazione nel
processo di policy-making è abbondante ed in costante crescita (v.
Kingdon, 1984; v. Hall, 1989; v. Haas, 1990; v. Dryzek, 1990; v.
Goldstein e Keohane, 1994, per citare solo alcune delle opere più
note). Il dibattito è ormai andato ben oltre la semplice
affermazione che "anche le idee contano". Due questioni,
soprattutto, attirano ora l'attenzione degli studiosi: a) in quali
situazioni le idee e l'argomentazione possono influenzare le scelte
politiche; e b) in quali modi, attraverso quali meccanismi, si
esercita tale influenza. Riguardo alla prima questione, esistono
ragioni teoriche e dati empirici per affermare che il ruolo dei
fattori conoscitivi è maggiore nel caso di politiche dirette a
migliorare l'efficienza del sistema che in quello di politiche di
pura redistribuzione (v. Majone, 1993). Infatti, in una democrazia,
la decisione di redistribuire risorse da un gruppo sociale ad un
altro può essere presa solo a maggioranza, in quanto si deve
presumere che il gruppo perdente si opporrebbe.
Ciò che in questo caso conta, pertanto, sono i rapporti numerici e
di forza tra i vari gruppi, mentre la discussione è impotente a
modificare il carattere di 'gioco a somma zero' di molte politiche
redistributive. Aumentando, invece, l'efficienza del sistema, si
produce un surplus da ripartire fra tutti i membri della
collettività, o almeno tale che nessun membro si trovi in situazione
peggiore rispetto allo statu quo: si realizza così un ottimo
paretiano. Decisioni collettive di questo tipo corrispondono a
'giochi a somma positiva', e la regola di decisione ottimale, in
teoria, è l'unanimità (v. Mueller, 1989).In pratica, poiché la
regola dell'unanimità è di difficile applicazione in una comunità
numerosa, si ricorre spesso a soluzioni di 'seconda scelta', ad
esempio delegando l'elaborazione di politiche di efficienza ad
organismi - quali le autorità amministrative indipendenti -
sottratti all'influenza di maggioranze mutevoli. Anche certi
fenomeni degli anni ottanta, quali il dibattito internazionale sul
ruolo dello Stato nell'economia, il crescente favore popolare per
politiche di privatizzazione e di deregulation, il rifiorire della
policy analysis e la moltiplicazione dei centri di ricerca sulle
politiche pubbliche, possono essere messi in relazione con le
preoccupazioni sempre più diffuse per le perdite di efficienza del
Welfare State, e con lo sforzo di riorientare le politiche pubbliche
nel senso appunto di una maggiore efficienza allocativa.
Quanto alla seconda questione fondamentale, richiamata più sopra,
tre modi o meccanismi di influenza dei fattori conoscitivi e
discorsivi sul processo di policy-making hanno ricevuto particolare
attenzione nella letteratura. In primo luogo, l'argomentazione serve
a legittimare e razionalizzare le politiche pubbliche, se non
addirittura a ricostruirle concettualmente, partendo da un insieme
di decisioni e programmi più o meno slegati tra loro. Quest'opera di
legittimazione e razionalizzazione presuppone l'esistenza di un
ricco stock di idee elaborate in precedenza, spesso per altri scopi
(v. Kingdon, 1984; v. Majone, 1989; v. Krasner, 1994). In secondo
luogo, le idee possono servire a istituzionalizzare una politica. Ad
esempio, Herbert Stein (v., 1984, p. 39) ha giustamente osservato
come "senza Keynes e specialmente senza l'interpretazione dei suoi
seguaci, il finanziamento in deficit non sarebbe mai diventato una
politica pubblica, ma sarebbe rimasto una occasionale misura
d'emergenza". Infine, il dibattito pubblico serve, per così dire, ad
estendere il processo di policy-making, così come l'argomentazione
del giudice, espressa nella motivazione della sentenza, estende il
processo giudiziario offrendo alle parti la possibilità di mosse
successive, come il ricorso in appello (v. Majone, 1989). In termini
di teoria dei giochi, estendere il processo equivale a trasformare
un gioco che si esaurirebbe in una singola mossa in un gioco
ripetuto più volte. Si tratta di una trasformazione molto
importante, in quanto permette di determinare soluzioni efficienti
per giochi, come il 'dilemma del prigioniero', che non ammettono
soluzioni soddisfacenti se giocati una sola volta (v. Ordeshook,
1992).
Come indicheremo nel prossimo capitolo, la teoria dei giochi
ripetuti si è rivelata utile anche per analizzare la questione della
credibilità delle politiche pubbliche, cioè un aspetto del
policy-making al quale i politologi avevano dedicato poca
attenzione, ma la cui importanza è aumentata al crescere
dell'interdipendenza tra i diversi sistemi nazionali.
4. Il problema della credibilità
Anche la questione della credibilità delle politiche pubbliche, come
quella della loro efficienza, è emersa con forza a partire dalla
fine degli anni settanta. La prima formulazione analitica è stata
avanzata da due economisti nel contesto del dibattito tra fautori
della discrezionalità ovvero delle regole fisse per la politica
monetaria (v. Kydland e Prescott, 1977). Secondo questi studiosi, il
problema centrale di tale politica è la sua credibilità: regole
fisse sono preferibili perché ne aumentano la credibilità, mentre la
discrezionalità è alla radice del fenomeno della 'inconsistenza
temporale'. Si ha inconsistenza temporale quando una politica
ritenuta ottimale al tempo to non appare più tale al tempo tn. In
questo caso, il policy-maker è indotto a usare i suoi poteri
discrezionali per cambiare politica.
Tale cambiamento potrebbe essere considerato un aggiustamento
razionale rispetto alla nuova situazione; ma se, come spesso
avviene, gli operatori economici sono in grado di anticiparlo, essi
modificheranno i loro comportamenti in modo tale da vanificare
l'obiettivo della politica monetaria.È ovvio che il fenomeno
dell'inconsistenza temporale non interessa solo la politica
monetaria. Poiché in democrazia una legislatura non può vincolare
quella successiva, ed una coalizione di governo non può assumere
impegni per i governi futuri, tutte le politiche pubbliche corrono
il rischio di risultare temporalmente inconsistenti. In mancanza di
un impegno credibile dei governi a seguire con coerenza una certa
linea, la credibilità stessa delle politiche ne risulta compromessa.
Perché allora tale problema è stato trascurato per tanto tempo dai
politologi? Forse la ragione principale deve cercarsi
nell'importanza tradizionalmente attribuita al potere coercitivo
dello Stato. Tra i politologi contemporanei, Theodore Lowi (v., 1964
e 1979²) ha particolarmente insistito, in polemica con i
neopluralisti, sull'uso legittimo della coercizione come
caratteristica essenziale delle politiche pubbliche; ed è certamente
vero che nel passato la scarsa credibilità di una politica pubblica
poteva essere compensata, entro certi limiti, da un maggior ricorso
a strumenti coercitivi. Oggi, tuttavia, il trade-off tra coercizione
e credibilità è decisamente cambiato. Una conseguenza importante
della crescente interdipendenza tra gli Stati è che le politiche
nazionali vengono ormai valutate secondo parametri fissati a livello
internazionale (si pensi ai parametri del Trattato di Maastricht per
l'unione monetaria europea), mentre l'applicazione di strumenti
coercitivi è possibile solo entro i confini nazionali. L'efficacia
di tali strumenti è ulteriormente compromessa dalla crescente
complessità dei problemi da risolvere. Ad esempio, il successo delle
politiche ambientali dipende dalla loro capacità di modificare
aspettative e comportamenti di milioni di cittadini e migliaia di
imprese ed enti territoriali. Ora, aspettative e comportamenti non
possono essere modificati in misura significativa mediante i
tradizionali strumenti di 'command and control', ma soltanto se gli
obiettivi ed i mezzi dell'intervento pubblico appaiono realistici e
coerenti, quindi credibili, agli interessati.
L'importanza crescente del problema della credibilità delle
politiche pubbliche spiega l'attuale tendenza a delegare importanti
poteri di policy-making ad istituzioni indipendenti come banche
centrali ed agenzie di regolazione (v. Majone, 1994). La delega di
tali poteri ad una istituzione distinta dal governo dev'essere
intesa, infatti, come un mezzo mediante il quale i governi stessi
cercano di impegnarsi a seguire certe politiche, che non sarebbero
credibili in mancanza di tale delega. L'istituzione di centri
indipendenti di policy-making, se da un lato contribuisce a
risolvere il problema della credibilità, dall'altro dà origine a
nuovi problemi, con i quali gli studiosi di politiche pubbliche
dovranno sempre più confrontarsi. Problemi come quelli del
coordinamento, del controllo politico, ed anche quello della
'reputazione' di una molteplicità di policy-makers più o meno
indipendenti, rientrano nell'ambito del modello generale dei
rapporti tra un 'principale' (parlamento o governo, nel nostro caso)
ed i suoi agenti (ad esempio, agenzie di regolazione). Come già
accennato, questioni di questo tipo sono state affrontate con un
certo successo mediante la teoria dei giochi ripetuti (v. Hargreaves
Heap e Varoufakis, 1995).
5. Politiche nazionali e politiche europee
Alla luce della precedente discussione, anche l'ampia delega di
poteri alle istituzioni europee da parte degli Stati membri
intuitivamente appare in qualche modo collegata al problema della
credibilità. L'intuizione, in effetti, è corretta; ma prima di darne
una spiegazione teorica, conviene osservare come sia oggi difficile,
se non impossibile, studiare le politiche nazionali
indipendentemente dal contesto europeo. D'altra parte, l'influenza
delle politiche della Unione Europea sui policy-makers nazionali è
tutt'altro che uniforme. La politica estera e quella di difesa, ad
esempio, restano in larga misura nell'ambito della sovranità
nazionale.
Le limitate misure di coordinamento di tali politiche sono di
carattere intergovernativo, e non rientrano pertanto nelle
competenze degli organi sovranazionali - Commissione Europea e Corte
Europea di Giustizia. Ma nemmeno le politiche sociali di tipo
tradizionale - cioè prevalentemente redistributive - sono state
influenzate in modo significativo dalla legislazione europea.
D'altra parte, le politiche di regolazione - dalla tutela della
concorrenza alla difesa dei consumatori, dalla protezione
dell'ambiente naturale alle misure di igiene e sicurezza
nell'ambiente di lavoro - hanno in larga misura perso le loro
caratteristiche nazionali per diventare politiche europee, pur se
attuate dalle amministrazioni nazionali. Per capire i rapporti tra
politiche nazionali e politiche europee è pertanto necessario, in
primo luogo, capire perché queste ultime si siano sviluppate in modo
così ineguale. Concetti già introdotti nei capitoli precedenti
permettono di offrire una spiegazione alquanto semplice della
prevalenza delle politiche regolative nell'ambito delle politiche
europee.In primo luogo, bisogna osservare che le risorse finanziarie
dell'Unione Europea sono estremamente limitate. Il bilancio a
disposizione delle autorità di Bruxelles rappresenta poco più
dell'1% del prodotto interno lordo dell'Unione, e meno del 4% della
spesa complessiva dei governi centrali degli Stati membri (per avere
un termine di confronto, si osservi che lo Stato italiano spende
attualmente più del 50% del prodotto nazionale). Ora, è legittimo
supporre che l'obiettivo della Commissione, in quanto organizzazione
sovranazionale, sia di accrescere la propria influenza sugli Stati
membri. A tale scopo, essa dovrebbe poter proporre nuove politiche,
o l'ulteriore sviluppo di politiche che già rientrano nelle sue
competenze. Ma, data la limitatezza delle risorse disponibili, quali
politiche permetteranno di massimizzare l'obiettivo? La risposta è
già anticipata nel primo capitolo. Si ricordi che le politiche
regolative sono poco condizionate dal vincolo di bilancio, in quanto
i costi che ne derivano sono sostenuti dalle imprese, dagli enti e
dagli individui regolati. È indubbio, d'altra parte, che tali
politiche incidono molto profondamente sul sistema
politico-amministrativo e sulla stessa vita economica dei paesi
membri.
Pertanto, la regolazione rappresenta una soluzione ottimale dal
punto di vista della Commissione, in quanto assicura la massima
influenza al minimo costo, date le risorse a disposizione.Tuttavia,
la Commissione propone - ma il Consiglio dispone; ed il Consiglio
dei ministri, che ha la facoltà di approvare o respingere le
proposte legislative della Commissione, è l'organo comunitario dove
gli interessi dei paesi membri sono istituzionalmente rappresentati.
Se l'obiettivo della Commissione è di accrescere la propria
influenza sovranazionale, quello del Consiglio è di proteggere la
sovranità e l'autonomia decisionale degli Stati. Come spiegare
l'accordo di entrambe le istituzioni sulle politiche europee di
regolazione? È certamente vero che la stessa esistenza di un grande
mercato europeo richiede numerosi interventi regolativi al fine di
correggerne gli inevitabili 'fallimenti'. È però altrettanto vero
che, in teoria, molti interventi potrebbero essere realizzati sulla
base di accordi intergovernativi, così da evitare la delega di
poteri alla Commissione. La difficoltà di tale soluzione deriva
dall'alto grado di discrezionalità che deve essere concesso ai
regolatori nazionali e, allo stesso tempo, dalla impossibilità
pratica (in mancanza di un organo sovranazionale di controllo) di
verificare l'uso corretto di tale discrezionalità. Ora, se è
difficile determinare in quale misura i governi nazionali si
sforzino di applicare obiettivamente un accordo intergovernativo,
l'accordo stesso è poco credibile. Esso diventa credibile solo se i
governi sono disposti a delegare poteri di controllo e di
monitoraggio ad una istituzione super partes, quale è appunto la
Commissione Europea.
Questa spiegazione è corroborata dal fatto - non sufficientemente
percepito dall'opinione pubblica e dagli stessi uomini politici -
che la grande maggioranza delle direttive e dei regolamenti europei
non è il frutto di iniziative autonome della Commissione, ma è
sollecitata dalle domande provenienti dai singoli Stati membri, dal
Consiglio Europeo e dal Consiglio dei ministri (v. Majone, 1995).
Lo scopo di queste brevi considerazioni sull'importanza assunta
dalle politiche di regolazione nell'ambito europeo è duplice. Da un
lato si sono volute indicare le grandi linee di una divisione di
compiti tra policy-makers nazionali ed europei. Dall'altro si è
cercato di dimostrare concretamente come l'analisi delle politiche
pubbliche, siano esse nazionali o europee, tenda sempre più ad
avvalersi degli stessi schemi concettuali.