Pluralismo
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Dottrina che riconosce la legittimità giuridica e politica nello
Stato a una pluralità di gruppi sociali (partiti, associazioni di
vario genere) e ne sollecita la partecipazione alla vita pubblica.
Nel campo della teoria politica, il termine p. definisce i tratti
comuni di alcune dottrine contemporanee che danno particolare
rilievo ai diritti, agli interessi e ai compiti di enti, comunità e
associazioni più piccole dello Stato. L’indirizzo pluralistico (in
Italia fatto proprio dal Movimento di Comunità di A. Olivetti) si
contrappone sia allo statalismo, sia all’individualismo, che
considera due facce della stessa medaglia.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Nicola Matteucci
Pluralismo
Sommario: 1. La parola. 2. Le radici storiche del pluralismo. 3. La
scoperta di un Nuovo Mondo. a) Un precursore. b) La moderna scienza
politica americana. 4. La teoria del pluralismo in Europa. a) Il
pluralismo contro il monismo statalistico. b) Tra società e Stato.
5. Conclusione.
1. La parola
Il termine 'pluralismo', derivato dall'aggettivo sostantivato
'plurale', esprime il concetto di molteplicità e si contrappone - in
una vera e propria dicotomia - al monismo, all'unità.Questo termine
entra nel linguaggio filosofico alla fine del Settecento con
Christian Wolff e Immanuel Kant, che in polemica con le teorie
solipsistiche, intendevano affermare la pluralità dei senzienti;
torna poi nel neorealismo e nel pragmatismo americano per i quali la
realtà, costituita da una pluralità di fenomeni, non può essere
compresa partendo da un solo principio e non è riducibile ad una più
profonda unità.Nella teoria politica, invece, il vocabolo entra
assai tardi, anche se si possono trovare - come vedremo -
interpretazioni pluralistiche della società e della politica in
tempi precedenti. L'Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed
Arti della Treccani alla voce 'pluralismo' (il volume uscì nel 1935)
riporta soltanto il suo significato filosofico; dal canto suo
l'Encyclopedia of the Social Sciences, che è del 1934, si limita a
riportare le teorie pluralistiche inglesi fiorite all'inizio del
secolo (cfr. § 4), e anche l'International Encyclopedia of the
Social Sciences, uscita nel 1968, insiste sulla teoria politica
inglese dando scarso spazio al pluralismo della scienza politica
americana.Nel linguaggio politico italiano la parola 'pluralismo'
entra solo in questo dopoguerra: il Vocabolario della lingua
italiana di Nicola Zingarelli la riporta nella X edizione, che è del
1970. Essa indica, in primo luogo, una società nella quale vi siano
due o più partiti, la libertà di organizzazione degli interessi (dei
lavoratori e dei datori di lavoro), il riconoscimento delle comunità
e delle associazioni intermedie fra l'individuo e lo Stato. In
secondo luogo, il termine indica il pluralismo delle fedi religiose,
delle culture, dei valori etici. Il vocabolo assume subito una
valenza politica contro il monismo dello statalismo e del
totalitarismo, ma, insieme, contiene anche una presa di distanza
dall'individualismo proprio di una certa tradizione liberale.
2. Le radici storiche del pluralismo
Le teorie pluralistiche sono un prodotto del Novecento, salvo
qualche isolato precursore. Ma il processo storico di
differenziazione culturale e sociale di cui il pluralismo è
l'espressione è assai più antico. Pertanto per comprendere il
pluralismo di oggi è necessario riconsiderare la storia europea
nell'età moderna, età in cui gli Stati si erano ormai consolidati e
l'idea di un Impero universale era soltanto un sogno. Tutti gli
Stati avevano un comune principio: "un re, una legge, una fede". Ma
questo equilibrio politico e morale venne sconvolto dal trauma della
Riforma protestante con cui non finiva soltanto l'unità religiosa
dell'Europa, ma, all'interno dei singoli Stati, la popolazione
stessa restava coinvolta e travolta in sanguinose guerre civili.
L'Europa continentale si divise tra luterani (o evangelici),
calvinisti e anabattisti; l'Inghilterra tra anglicani,
presbiteriani, congregazionalisti, puritani e sette separatiste.Per
la mentalità di allora, dominata dal principio dell'unità, risultava
quasi impossibile accettare il diverso, il non-conforme,
l'a-normale: sia chi restava fedele all'antico, sia chi si era
convertito al nuovo non poteva concepire l'idea di tolleranza,
perché sui valori ultimi, quelli religiosi, non si poteva
transigere. Di qui i roghi in Europa e le guerre civili in Francia,
in Germania e in Inghilterra.
Ma vi furono anche uomini nelle classi alte - dotti o politici - che
intuirono che alla lunga la vera soluzione era la tolleranza,
l'accettazione del diverso: il pluralismo trasformò poi il principio
della tolleranza in quello della libertà religiosa.In questa sede
non ci interessa tracciare la storia - estremamente complessa e
variegata - dell'idea di tolleranza, del suo lento e faticoso
affermarsi per il radicale mutamento della mentalità che implicava.
Basti accennare al principio da cui muove questa storia e alle due
principali tendenze che si svilupparono. Il principio venne
affermato, prima della Riforma, da Jan Huss in una lettera inviata
ai suoi discepoli (25 giugno 1415) dal Concilio di Costanza. A chi
lo invitava a sottomettersi in tutto anche se le tesi del Concilio
gli sembravano in contrasto con la sua ragione, rispose "io, avendo
la ragione, di cui ora faccio uso, non potrei dirlo senza la
resistenza della mia coscienza". Questa valorizzazione della
coscienza individuale e della sua libertà è un indizio del mutare
dei tempi. A questo principio si ispirerà poi chiaramente John
Locke.
La lotta per la tolleranza fu condotta su due fronti assai lontani.
Da una parte ci fu l'Umanesimo cristiano - rappresentato da
personalità quali Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro - che si poneva
al di sopra delle confessioni in lotta in nome della dignità umana;
ad esso si ispirarono correnti ecumeniche e ireniche. Dal canto suo
Sebastiano Castellione (1515-1563), eretico fra gli eretici, in De
Haereticis an sint perseguendi (1554) affermò: "forzare una
coscienza è peggio che uccidere crudelmente un uomo", per cui "il
Vangelo non deve essere imposto con le armi", ma con carità e con
amore. Dall'altra parte vi fu una risposta politica. In Francia,
durante le guerre di religione, si formò un terzo partito fra
papisti e ugonotti, chiamato il partito dei politiques, il cui motto
era "état, état; police, police", cioè Stato e politica. Dato che la
religione era soltanto causa di disordini e di guerra civile,
bisognava trovare il fondamento della pace e dell'ordine in una
diversa e superiore istanza, lo Stato e la politica, appunto. Lo
Stato può essere tollerante nella misura in cui neutralizza
politicamente le diverse religioni e le confina nella sfera del
privato. Il famoso editto di Nantes (1598) sulla tolleranza di
Enrico IV è il risultato dell'opera dei politiques.La tolleranza
stentò ad affermarsi: l'editto di Nantes venne revocato nel 1685 da
Luigi XIV. A prevalere fu la tendenza verso le Chiese nazionali.
Per mettere fine alle guerre di religione nell'Impero prima la pace
di Augusta (1555) poi la pace di Westfalia (1648) stabilirono il
principio "cuius regio, eius religio". Mentre in Francia restava
forte il gallicanesimo, in Inghilterra la Chiesa di Stato fu
dominata dagli anglicani, poi dai presbiteriani (estremamente
intolleranti) e in seguito - dopo la Restaurazione - dagli anglicani
latitudinari. Ma la Chiesa di Stato implicava un'equiparazione
estremamente pericolosa tra eresia (religiosa) e tradimento
(politico). Il principio della tolleranza comincia però a farsi
strada anche se non implica la separazione dello Stato dalla Chiesa
nazionale. In Inghilterra si ha l'Act of toleration del 1689; in
Prussia la politica ecclesiastica di Federico il Grande; nell'Impero
austro-ungarico l'Editto di tolleranza del 1781 di Giuseppe II; in
Francia nel 1787 un Editto che concede ai protestanti lo stato
civile.
Ma si trattava sempre di concessioni dall'alto, che non
riconoscevano il principio della libertà religiosa.Fu John Locke
(1632-1704), nella Epistola de tolerantia (1689), a porre i
fondamenti della libertà religiosa, istituendo una radicale
distinzione fra lo Stato (o "governo civile" per usare il suo
linguaggio) e le Chiese. Egli ritiene che "la società civile sia una
associazione di uomini costituita solo per curare, difendere e
migliorare i loro interessi civili", mentre una Chiesa è "una
società libera e volontaria di uomini, concordi a unirsi per adorare
pubblicamente Dio nel modo che essi ritengono a Lui gradito e, nello
stesso tempo, efficace alla salvezza delle loro anime". Pur
appartenendo alla Chiesa anglicana, la Chiesa ufficiale
dell'Inghilterra, Locke non rivendica per essa alcun privilegio. La
religione ha un solo fondamento, insindacabile dal magistrato
civile: la "voce della coscienza", perché "la forza vitale della
vera religione consiste nell'intima e piena persuasione della mente,
e la fede non è fede senza convincimento". Nella sua opera Locke
condensa molti motivi dei difensori religiosi della tolleranza; e
non per nulla - nel lungo cammino delle idee - l'eredità di Socino
era giunta, attraverso la Polonia, nei Paesi Bassi, e proprio in
Olanda Locke era stato in esilio dal 1683 al 1689.In America la
libertà di coscienza venne stabilita dal puritano Roger Williams
(1603-1684) nei nuovi insediamenti di Providence (1636) e di Rhode
Island (1647); e anche nel Maryland, un insediamento cattolico,
venne concessa la tolleranza religiosa nel 1649. Ma sarà solo con la
Rivoluzione americana che la libertà religiosa diventerà un
principio costituzionale: "il libero esercizio della religione"
venne stabilito nel 1776 nella Dichiarazione dei diritti della
Virginia nell'art. 16 (il principio poi lo ritroveremo nel 1°
Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti).
Anche la Francia rivoluzionaria stabilì all'art. 10 della
Déclaration des droits de l'homme et du citoyen (1791), la libertà
religiosa, ma in una forma assai più debole, perché l'articolo fu il
risultato di un compromesso fra coloro che difendevano il
cattolicesimo come religione dominante, coloro che riallacciandosi
all'editto del 1787 parlavano di tolleranza e coloro che
rifiutavano, come insultante, questa stessa parola in nome della
piena libertà.L'affermazione del pluralismo nell'età moderna doveva
infrangere un altro antichissimo principio, che i Romani definivano
in termini di idem sentire de republica e che nel Medioevo era
espresso dal concetto di bonum commune.
Nella trattatistica politica dell'età moderna si continua a ribadire
questo principio e si parla di bene comune, di commonwealth, di
pubblico bene, di bene del popolo, di interesse generale, di
benessere comune. Anche la filosofia politica privilegia il momento
dell'unità: Hobbes condanna senza appello il partito, che è "come
uno Stato nello Stato" (De cive, XIII, 13), e anche le
"corporazioni", che "sono simili a vermi negli intestini di un uomo
naturale" (Leviatano, II, 29). Spinoza afferma che "le cose che
contribuiscono alla società comune degli uomini, ovverosia le cose
che fanno sì che gli uomini vivano in buona armonia, sono utili, e
viceversa sono cattive quelle che provocano la discordia nello
Stato" (Etica, IV, 40). Anche Rousseau, che tanta influenza
eserciterà sul pensiero democratico, vede le "associazioni parziali"
come nemiche della volontà generale (Du Contrat social, II, 3).
Ne consegue che questo bene comune non ammette punti di vista
diversi per interpretarlo: ciò è possibile solo nelle monarchie
assolute, nelle quali il sovrano è l'esclusivo interprete. La
società comune non può ammettere nel suo seno divisioni, perché sono
soltanto causa di discordia: sono soltanto fazioni. Il 'partito',
d'altronde, come dice la parola stessa, è una semplice parte
rispetto al tutto.Il problema del riconoscimento del partito si pose
in Inghilterra, dove esisteva una reale vita politica e quindi di
fatto una divisione in partiti. Nella seconda metà del Seicento
abbiamo in questo paese due embrionali formazioni partitiche, quella
dei Whigs e quella dei Tories, che accetteranno entrambe - perché da
esse promossa - la Gloriosa rivoluzione del 1688-1689.
Nel Settecento, però, il pensiero politico inglese, dominato
dall'antico principio del bene comune, fatica a comprendere la nuova
realtà. Henry Saint-John, visconte di Bolingbroke (1678-1751),
continua a condannare le fazioni, che agiscono per considerazioni di
interesse personale e non pubblico, anche se poi opera una
distinzione - quantitativa e non qualitativa - fra partito e
fazione. Nel saggio storico Dissertation upon parties (1734)
Bolingbroke arriva ad una considerazione più realistica del
problema, prendendo atto che nella storia inglese i partiti si
dividono su diversi principî e progetti. Infatti, sotto gli Stuart,
abbiamo il country party e la Corte, il costituzionalismo e
l'assolutismo. Ma le differenze non s'arrestano qui. I Tories hanno
le loro radici nella Chiesa (anglicana) d'Inghilterra, i Whigs nei
dissidenti non conformisti; i primi sono portavoce degli interessi
terrieri, i secondi degli interessi finanziari.
Anche David Hume (1711-1776) è - sul piano teorico - contrario alle
fazioni, ma poiché esse esistono, ritiene che siano un male
inevitabile e che abolirle non sia desiderabile in un governo
libero. Egli procede ad una classificazione dei partiti: vi sono
quelli basati su un interesse di classe, quelli tenuti insieme da
legami affettivi e irrazionali e quelli che si ispirano a chiari
principî. Questi possono essere religiosi, e sono una pura follia,
oppure politici e in questo caso ci muoviamo sul piano di una
comprensibilità razionale. La distinzione tra principî è necessaria,
perché "in ogni governo vi è una continua lotta intestina, aperta o
nascosta, tra autorità e libertà, che non riescono mai, né l'una, né
l'altra, ad assicurarsi il predominio assoluto" (Essays moral and
political, I, 5). Non solo l'analisi di Hume si è ormai totalmente
secolarizzata, nel respingere come pura follia i partiti religiosi,
ma proprio per il suo empirismo la tipologia da lui definita apre la
strada allo studio scientifico dei partiti.Questa lenta
rivalutazione del partito-fazione si conclude con l'americano James
Madison (1751-1835), che nel famoso articolo del Federalist (n. 10)
scrive: "Vi sono due metodi per curare i mali causati dalle fazioni:
uno è rimuovere le cause, il secondo è controllarne gli effetti.
Vi sono due modi ancora, per distruggere le cause di una faziosità:
il primo è quello di distruggere la libertà che ne è la condizione
indispensabile; il secondo è quello di accomunare tutti i cittadini
in una unanimità di opinioni, di passioni e di interessi. Il detto
che il rimedio è peggiore del male ha, nel primo caso,
un'incomparabile esemplificazione. La libertà rappresenta per la
faziosità quel che l'aria rappresenta per il fuoco: un alimento
senza il quale essa viene senz'altro meno. Tuttavia sarebbe
altrettanto folle abolire la libertà, che è essenziale alla vita
politica - sol perché essa può nutrire le fazioni - quanto pensare
di eliminare l'aria, che è essenziale alla vita animale, solo perché
essa dona al fuoco la sua energia distruggitrice. Il secondo
espediente è inattuabile, proprio come il primo è imprudente. Finché
la ragione umana non diventa infallibile e fino a che l'uomo sarà
libero di esercitarla, vi saranno sempre opinioni differenti".
Il rimedio contro le fazioni, che prosperano soprattutto nelle
piccole democrazie, è quello di controllarne gli effetti con un
governo rappresentativo e con un ampliamento dell'orbita che
consenta una maggiore varietà di partiti, di opinioni e di
interessi: solo questo può impedire che uno di questi gruppi possa
superare ed opprimere gli altri. La legittimità del partito in un
governo libero trova in queste pagine la sua classica fondazione.Su
queste esperienze, che furono sociali prima di essere intellettuali,
fiorirono nel Novecento le teorie pluralistiche.
Parliamo di teorie al plurale, proprio perché vi sono due filoni
profondamente diversi, uno legato all'esperienza americana, l'altro
alla storia europea: il primo si muove soprattutto sul piano
descrittivo, e ha come punto di riferimento il government; il
secondo privilegia il piano prescrittivo, e ha come punto di
riferimento lo Stato.
3. La scoperta di un Nuovo Mondo
a) Un precursore
Alexis de Tocqueville nella sua Démocratie en Amérique non teorizza
certo il pluralismo, ma la società che descrive, senza alcun
pregiudizio eurocentrico, mostra chiaramente una natura
pluralistica. Basti pensare ai giudizi sugli Stati Uniti che davano
- ad esempio - Hegel nelle sue Vorlesungen über die Philosophie der
Weltgeschichte o Marx in Der Achtzehnte Brumaire des Louis Napoleon:
per il primo, l'America del Nord non si era ancora elevata alla
forma statuale, non aveva raggiunto la sua "spiritualità
sostanziale"; per il secondo, non si poteva parlare di Stato, dato
che le classi ivi esistenti non si erano ancora chiaramente fissate.
In quella immaturità Tocqueville scopre, invece, una società
libera.Nella sua descrizione del sistema politico americano,
Tocqueville opera un radicale capovolgimento rispetto a canoni
allora tradizionali, ma ancor oggi vigenti. Partendo dall'assioma
che negli Stati Uniti è il popolo a governare, la sua analisi muove
dalla società: quando parla delle istituzioni si sofferma lungamente
sulle autonomie locali per concludere con il "governo dell'Unione"
(non usa mai la parola Stato). Quando parla del funzionamento di
questa democrazia, la sua attenzione è rivolta soprattutto alla
società civile: ai partiti, alla pluralità di giornali, di
associazioni con fini politici e non politici, di confessioni
religiose, le quali riescono a convivere in base al principio delle
libere Chiese in un libero governo.
Ma la chiave del discorso è l'associazione, la libera associazione
non controllata (come in Francia) dallo Stato. Tocqueville osserva,
"L'America è il solo paese al mondo in cui si è tratto il maggior
profitto dall'associazione, e dove si è applicato questo potente
mezzo d'azione a una maggiore varietà di situazioni" (I, II, 4). E
ancora: "Dovunque, dove alla testa di una nuova iniziativa trovate,
in Francia, il governo, e in Inghilterra un gran signore, state
sicuri di vedere negli Stati Uniti un'associazione" (II, II, 5). Per
quanto riguarda la nascente società industriale europea, egli
auspica un associazionismo fra gli operai, che li metta in grado di
fronteggiare con più forza il potere del padronato (II, III, 7).
Chi ripercorre tutta la Démocratie en Amérique tenendo presente
questa centralità dell'associazione, comprenderà la polemica sia
contro quell'individualismo che vuole rinchiudere l'individuo nella
vita privata, sia contro quello statalismo che vuole delegare il
potere sociale ad uno Stato paternalista che provvede a tutto. Si
tratta peraltro di una polemica che non coinvolge i diritti
dell'individuo e il governo rappresentativo. Questi temi li
ritroveremo nel moderno pluralismo americano.
b) La moderna scienza politica americana
La scoperta o la riscoperta del pluralismo in una società
democratica non poteva darsi che in America, con il decisivo
contributo delle scienze sociali. Pioniere di questo nuovo modo di
guardare al governo - con un metodo non giuridico e formale, ma
descrittivo ed empirico - è stato Arthur Bentley, uno dei
protagonisti di quella "rivolta contro il formalismo" da cui
nacquero le scienze sociali. Il titolo della sua opera - The process
of government (1908) - è assai indicativo: non esiste una realtà
astratta chiamata governo, perché le sue azioni sono la risultante
di un processo che si dà nella vita sociale prima che in quella
politica. Così egli è interessato, contro ogni visione statica della
vita politica e sociale, al cambiamento e alla trasformazione per
l'azione dei gruppi sociali. L'unità di analisi è il "gruppo", un
insieme di individui associati volontariamente; in questo modo viene
respinto il concetto marxiano di classe, perché troppo schematico e
troppo rigido. Vi sono, sottostanti ai partiti, "gruppi di
interesse" e "interessi di gruppo", dove la parola 'interesse' non
ha un significato esclusivamente economico. Il concetto di gruppo
non è rigido, perché si può appartenere a più gruppi e i gruppi
possono intersecarsi fra di loro, dato che nella società essi sono
sempre in relazione con altri gruppi, per cui possono benissimo
darsi transazioni fra di loro. I gruppi inoltre possono essere sia
informali, sia formali. Il processo di governo è proprio questa
pressione che sale dal basso, passa attraverso i partiti, e giunge
alla fine alla sintesi del governo. Si riallaccia a Bentley D. B.
Truman, la cui opera principale porta un titolo analogo: The
governmental process (1951).
Egli parte sempre dalla categoria analitica di gruppo (o
associazione) contro l'individualismo, che mette l'individuo a
diretto contatto con lo Stato, e l'istituzionalismo, che ignora
l'effettiva realtà sociale. L'affermazione dell'individuo si dà
attraverso la sua adesione a più associazioni e attraverso la
possibilità di formare nuovi gruppi potenziali. La stabilità del
sistema politico è dovuta proprio a queste solidarietà incrociantesi
e quindi reciproche, per cui i gruppi debbono rispettare gli altri
legami dei loro membri.Anche l'opera di Robert M. MacIver, The web
of government (1947) è una riflessione sulla democrazia americana,
anche se non manca un'indagine comparatistica con altre forme di
governo. Il suo approccio al problema è essenzialmente descrittivo,
ma dal testo emergono chiaramente i caratteri che contraddistinguono
una vera società pluralistica. Egli vuole esaminare il rapporto fra
il governo (studiato dai giuristi) e la società (studiata dai
sociologi), aprendo così la strada alla scienza o sociologia
politica e respingendo - come già Bentley - la definizione
etimologica della democrazia, spesso adottata dalla teoria politica.
I processi politici devono essere analizzati nel contesto sociale,
in cui i protagonisti non sono gli individui (salvo al momento delle
elezioni), ma i gruppi e le comunità. Quello di comunità è un
concetto nuovo, ma MacIver ne respinge esplicitamente una
definizione organica. 'Gruppi' e 'comunità' sono termini
intercambiabili, perché hanno come punto di riferimento una libera
associazione fra individui.
Egli osserva che noi viviamo in comunità prima di vivere in uno
Stato, cioè viviamo in un'area delimitata della società, che ha
proprie norme, senza essere un'organizzazione o una corporazione o
una unità territoriale, anche se riconosce la funzione delle
comunità locali. La vera distinzione è fra associazioni nate da
comuni interessi economici o "distributivi" e associazioni nate da
interessi "condivisi", ossia gli interessi culturali, religiosi,
filosofici, scientifici, che in una società sono estremamente
diversi, ma che non appartengono all'area della politica.MacIver è
decisamente contrario all'uso del concetto di Stato, perché esso
indica l'unità che tutto ingloba, perché è un concetto monistico,
che sacrifica la complessità delle società: lo definisce un concetto
"tolemaico" per le scienze sociali. Preferisce analizzare la
tensione fra società e governo, che rappresenta la risultante e non
la superiore unità, e va visto quindi nel campo di forze della
società. Il ruolo del governo non viene per questo abolito: esso non
deve intervenire nella vita delle comunità culturali operanti nella
società, ma è suo preciso compito regolare le attività delle
associazioni economiche, che non possono essere lasciate al libero
arbitrio dei gruppi senza che l'ordine sociale ne soffra
seriamente.In tempi più recenti a sistemare e ad articolare la
concezione pluralistica è stato Robert A. Dahl con A preface to
democratic theory (1956), Polyarchy (1971), Dilemmas of pluralist
democracy (1982), Democracy and its critics (1989).
Pur essendosi occupato anche di sociologia politica, Dahl ha
incentrato l'attenzione sui concreti assetti di potere nelle
democrazie occidentali. A lui si deve la fortunata nozione di
'poliarchia', contrapposta a quella di monarchia, che è divenuta la
moderna definizione di democrazia. Il punto di partenza è -
ovviamente - l'esperienza americana, ma Dahl estende il discorso
alle democrazie occidentali analizzate su base empirica in una
prospettiva comparata e nel loro reale funzionamento: la sua teoria
democratica non è inizialmente costruita su una tavola di valori. La
poliarchia non è la sola forma di democrazia possibile e si oppone
alla democrazia populista, la quale esalta un governo della
maggioranza senza limiti, sfociando nella tirannia della
maggioranza. La poliarchia presuppone il rispetto dei diritti dei
cittadini, il rispetto delle regole procedurali di una costituzione,
che limita i poteri della maggioranza. Protagonisti del processo
politico sono, ancora una volta, non gli individui ma i gruppi, veri
attori collettivi, poi le coalizioni fra i gruppi, che con le loro
organizzazioni indipendenti dallo Stato riducono il potere
coercitivo del governo. Ci troviamo tuttavia di fronte ad una realtà
mobile, perché gli individui possono avere più appartenenze a gruppi
diversi.
Sull'arena politica si dà una competizione continua fra forti
minoranze, che sfocia però in una contrattazione continua: non c'è
più lo Stato, come unico centro di potere onnicompetente, ma una
molteplicità di centri di potere, nessuno dei quali può essere
veramente sovrano. Il potere potenziale di un gruppo è bilanciato e
controllato dal potere di un altro gruppo, e ciò consente di
risolvere pacificamente i conflitti. La dispersione del potere
trasforma il dominio in un complesso sistema di controlli reciproci.
Robert Dahl, pur preferendo chiaramente la poliarchia alla
democrazia populista, non si nasconde i reali problemi e i veri
pericoli di una democrazia pluralista. Fra questi problemi uno è
particolarmente attuale e concerne la necessità di un minimo di
omogeneità culturale, senza forti sottoculture fortemente
differenziate, di tipo religioso, ideologico, linguistico ed etnico.
Il pericolo, d'altro canto, è che queste organizzazioni indipendenti
possano violare i diritti dei cittadini, ostacolare il processo
democratico, stabilizzare le ineguaglianze, insomma, creare una
categoria di esclusi dalla cittadinanza. L'alternativa resta fra la
totale autonomia e l'assoluto controllo, cioè fra l'assoluta
poliarchia e l'assoluta monarchia; ma in realtà possono darsi forme
di compromesso. Dahl poi pensa a massimizzare la partecipazione
nelle organizzazioni, come le imprese e i sindacati. In definitiva,
per Dahl la poliarchia non è il punto di arrivo della democrazia
occidentale, ma il punto di partenza da cui muovere per affrontare i
dilemmi non risolti o le deficienze della democrazia pluralistica:
la democrazia resta ancora un valore che ci deve guidare per il
futuro.
Partendo da una teoria descrittiva, Dahl ha posto le basi
realistiche per una teoria prescrittiva.In conclusione la teoria
pluralistica rifiuta una definizione etimologica del concetto di
democrazia. Una posizione analoga era stata assunta da Joseph A.
Schumpeter in Capitalism, socialism and democracy (1942), ma mentre
questi vedeva la realtà della democrazia nella competizione sul
mercato elettorale fra due o più partiti per ottenere la delega
all'esercizio del potere, per i teorici del pluralismo la realtà
della democrazia è assai più complessa, sia perché i protagonisti
non sono i partiti ma i gruppi, sia perché i giochi non si decidono
soltanto al momento delle elezioni. La democrazia è così un insieme
di regole procedurali atte a consentire la libera attività dei
gruppi e a garantire quindi una società aperta (questa è la vera
caratteristica del pluralismo); ma nel concetto di 'gruppo' tende a
prevalere - salvo, forse, in Robert MacIver - la dimensione
dell'interesse su quella culturale: si guarda all'azione dei gruppi
che favoriscono o ostacolano l'azione del governo, mentre scarsa
attenzione è prestata al fatto che la società è assai più ampia del
governo e la sua vita non tocca sempre problemi di governo. Ed è
proprio in questa società che si pongono e si porranno nuovi
problemi per il pluralismo.Al riguardo è di rilievo ad esempio la
centralità che il tema del pluralismo assume nella recente opera di
John Rawls Political liberalism (1993). Con le lezioni raccolte in
questo volume Rawls prosegue la fondazione della sua teoria della
giustizia come equità cercando questa volta di evidenziarne la
valenza rigorosamente politica. Circoscrivendone l'applicabilità
alla sfera politica dell'agire, è possibile rispettare l'effettiva
pluralità dei principî morali, filosofici e religiosi.
Tale pluralità - che non rappresenta "un aspetto sfortunato della
condizione umana" - deve allora poter essere compatibile con i
principî di giustizia individuati da Rawls, deve essere in altre
parole un "pluralismo ragionevole", cui si contrappone il cosiddetto
"pluralismo in quanto tale, il quale ammette dottrine non solo
irrazionali, ma folli e aggressive".
4. La teoria del pluralismo in Europa
a) Il pluralismo contro il monismo statalistico
In Europa non troviamo una teoria descrittiva del pluralismo analoga
a quella americana. C'era bensì stata la valorizzazione dei 'corpi
intermedi' nel Settecento con Montesquieu, ma era stata condannata
prima dall'Illuminismo, poi dalla Rivoluzione francese: nel
preambolo della Costituzione del 1791 si affermava che "non vi sono
più né giurande, né corporazioni di professioni, di arti e
mestieri". Poi venne la famosa legge di Le Chapelier del 1791, la
quale aboliva tutte le società intermedie o, meglio, tutte le
corporazioni fondate su pretesi interessi comuni, che si
contrapponevano fra l'individuo e lo Stato: la difesa dei corpi
intermedi finiva per essere ricondotta ad una difesa dell'Antico
regime.Il vero protagonista in Europa è lo Stato, massima
espressione dell'unità politica. Aveva vinto la linea di Hobbes e -
se si vuole - di Rousseau e Kant: il discorso si muove
esclusivamente fra l'individuo e lo Stato, ignorando le società
intermedie. La compattezza teorica di questa costruzione poté
reggere finché non apparvero i partiti e i sindacati, ai quali
bisognava pur dare una qualche legittimità.
Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento Otto von Gierke,
con le sue famose opere Das deutsche Genossenschaftsrecht e J.
Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien
tentò di rivalutare i corpi intermedi, le corporazioni, lo Stato dei
ceti o degli ordini dell'antico diritto germanico, intesi come corpi
naturali, inseriti in una società organica. Il suo pensiero fu
introdotto in Inghilterra dallo storico Frederic William Maitland,
il quale però focalizzò l'attenzione sul fenomeno della corporation,
per stabilire se il riconoscimento da parte dello Stato della
volontà dell'associazione sia costitutivo di questo nuovo soggetto o
meramente ricognitivo. Da Gierke e da Maitland derivarono due teorie
simili e insieme opposte del pluralismo: quella cattolica e quella
socialista. Simili, perché hanno come comune avversario
l'individualismo e lo statalismo; opposte perché i nuovi soggetti
che vengono presi in considerazione sono per gli uni 'naturali', per
gli altri 'volontari'. Ma, in entrambi i casi, si tratta di teorie
prescrittive, che servono ad ispirare e a dirigere l'azione, non a
comprendere la realtà effettuale. Alla prima si ispirarono i
cattolici, alla seconda i socialisti inglesi. Esse erano però un
sintomo del fatto che la vecchia Staatslehre cominciava a
incrinarsi.Inizialmente la dottrina sociale della Chiesa con la
Rerum Novarum (1891) si richiamò chiaramente al corporativismo
medievale: per essa sono corpi naturali la famiglia, il comune,
l'organizzazione professionale, oltre - naturalmente - la Chiesa. I
partiti non sono presi in considerazione, e lo Stato deve mirare ad
un'organica rappresentanza dei contrapposti interessi che elimini il
conflitto sociale in nome della solidarietà. Il momento
contrattuale, che è proprio del moderno pluralismo, è del tutto
assente. Se non si accetta la radicale lotta di classe marxiana,
come sarà nel pluralismo americano, non si vede neppure la
positività del conflitto destinato a concludersi poi in un libero
contratto.
La dottrina sociale della Chiesa resta ancorata ad una soluzione
organica in nome del valore della solidarietà: contro l'individuo e
contro lo Stato vuole riabilitare la comunità.Il pluralismo
socialista è l'espressione di un piccolo gruppo di socialisti
inglesi, e nasce dalla riflessione sugli effetti degradanti
dell'industrializzazione. La polemica è rivolta sia contro
l'individualismo sfrenato, sia contro lo statalismo, alla ricerca di
un nuovo ordine sociale fondato sui gruppi. Non si tratta tanto di
una teoria della competizione politica, come quella sviluppata in
America, quanto di una critica della sovranità illimitata dello
Stato, che ha le sue massime espressioni in Hegel e Austin. Il
gruppo, di cui fecero parte Frederic Maitland, John Neville Figgis,
Harold J. Laski e R. H. Tawney, ebbe una grande influenza
intellettuale nei primi decenni di questo secolo, ma poi rapidamente
si dissolse.Il teorico di maggior rilievo della versione socialista
del pluralismo è George Douglas Cole (18891959), protagonista del
fabianesimo. Il guild socialism da lui teorizzato faceva riferimento
alle gilde medievali, alle associazioni corporative delle arti e dei
mestieri, ma guardava in realtà alle trade unions. Soprattutto con
l'opera Guild socialism re-stated (1920), Cole muove una critica al
tradizionale concetto di Stato basato su un principio fortemente
monistico come quello della sovranità: lo Stato esiste soltanto come
un'associazione fra le altre, un raggruppamento territoriale per il
raggiungimento di determinati fini comuni, mentre il principio della
moderna vita sociale è quello della specializzazione in base alle
funzioni. Ciò richiede l'autonomia dei diversi gruppi e insieme la
necessità di una struttura istituzionale di coordinamento fra queste
associazioni. Se non vi deve più essere la facile identificazione
della comunità con lo Stato, tuttavia il vero fine non è quello di
generalizzare l'associazione, bensì quello di particolarizzare lo
Stato.
Per dare una forma istituzionale a questa teoria indirizzata ad un
autogoverno industriale, per conciliare gli interessi dei produttori
e dei consumatori, gli interessi particolari e quelli generali, Cole
deve affrontare - e criticare - la teoria tradizionale della
rappresentanza: ci deve essere una rappresentanza specifica e
funzionale degli interessi (economici e culturali) affiancata
all'antica rappresentanza, la quale non può che essere generale e
onnicomprensiva. Ma per Cole il problema non si limita ad
un'architettura costituzionale: per realizzare la democrazia sociale
bisogna estendere la partecipazione dentro la fabbrica e in ogni
ambito in cui si dia un'azione sociale, anche se non strettamente
politica.
Queste teorie politiche prescrittive si affermeranno parzialmente in
questo dopoguerra soprattutto in Italia. Pensiamo alla Costituzione
italiana, in cui l'ispirazione cattolica di molti articoli è
evidente. Essa pone sullo stesso piano i diritti inviolabili
dell'uomo e quelli delle "formazioni sociali" (espressione assai
equivoca perché non si sa se siano naturali o volontarie) nelle
quali si svolge la sua personalità (art. 2); di conseguenza viene
ribadita la difesa della famiglia come "società naturale" (artt.
29-31), e la posizione privilegiata per la Chiesa cattolica rispetto
alle altre confessioni religiose (artt. 7-8). Non vengono ignorati i
sindacati (art. 39) e i partiti (art. 49). Poi - e qui l'ispirazione
è anche fabiana - è previsto il Consiglio nazionale dell'economia e
del lavoro (art. 99) - analogo al Consiglio nazionale economico
francese - come organo di consulenza delle Camere e del governo. Ma
si tratta di un pluralismo debole: il vero pluralismo è
l'espressione della vitalità di una società e non di una statuizione
normativa proveniente dall'alto.
Nella realtà i sindacati in Italia hanno rifiutato quella
registrazione, che avrebbe dato loro personalità giuridica, mentre i
partiti hanno sempre rifiutato uno Statuto pubblico: entrambi hanno
preferito restare nell'ambito del diritto privato, anche se svolgono
funzioni pubbliche. Il Consiglio nazionale dell'economia e del
lavoro è ormai un puro nome, e non esercita alcuna funzione nella
vita politica.In conclusione: si tratta di un pluralismo molto
debole, dato che è sempre lo Stato di diritto a limitarsi sottraendo
spazi (la religione, la cultura, l'economia) al vecchio monismo
statualistico e riconoscendo funzioni pubbliche ai partiti e ai
sindacati: è un pluralismo riconosciuto dall'alto.
b) Tra società e Stato
In Europa, nel secondo dopoguerra, non si è sviluppata una compiuta
teoria pluralistica. Ciò non significa che giuristi e sociologi non
abbiano rivolto la loro attenzione alle realtà sociali poste fra
l'individuo e lo Stato: i partiti e i sindacati, i gruppi di
pressione e i gruppi di interesse. In Italia il primo ad occuparsi
delle 'società intermedie' è stato un giurista cattolico, Pietro
Rescigno, nel volume Persona e comunità (1966). Attentissimo alle
nuove realtà sociali, egli studia la famiglia, le associazioni, il
partito, il sindacato, la Chiesa, pur rimanendo sempre fermamente
ancorato al diritto privato, proprio perché in esso vede la vera
garanzia della libertà e dell'autonomia delle associazioni. Ma
Rescigno respinge il modello pluralista americano di cui anzi
denuncia la crisi e il declino. Sul versante sociologico Alessandro
Pizzorno ha lungamente indagato 'i soggetti del pluralismo': le
classi, i partiti e i sindacati, per vedere poi il ruolo dei ceti
medi nel meccanismo del consenso. Manca tuttavia un chiaro confronto
con le teorie pluralistiche americane, che emarginavano le 'classi'
(in senso marxiano).In Germania a mostrare l'illusione liberale o
paleoliberale di un rapporto diretto tra individuo e Stato è stato
un giurista di formazione privatistica, Joseph Kaiser, con
l'imponente ricerca dal titolo Die Repräsentation organisierter
Interessen (1956). La sua attenzione spazia dalla Germania agli
Stati Uniti, all'Inghilterra, alla Francia; esaminando non solo i
gruppi di interesse economici (sindacati, imprenditori, contadini,
pubblico impiego, contribuenti e consumatori), ma anche le
organizzazioni di interesse religioso e culturale.
Gli interessi organizzati vogliono influenzare l'opinione pubblica,
i partiti, il parlamento, il governo, l'amministrazione, la
magistratura; essi sono una forza politica e una realtà
costituzionale. Nella - per Kaiser radicale - distinzione fra
società e Stato gli interessi organizzati si muovono nella prima
sfera, mentre i partiti agiscono nella seconda; tuttavia entrambi
sono portatori di funzioni politiche: sul piano sociale i primi, sul
piano statuale i secondi. Nell'analisi di Kaiser si possono rilevare
alcune incertezze teoriche: egli difende l'autonomia dei gruppi, che
non cercano né un riconoscimento, né una protezione da parte dello
Stato, ma poi afferma che essi possono violare la libertà e i
diritti dell'individuo, che solo nello Stato trovano una vera
protezione, una garanzia contro le oligarchie intermedie. Poi, per
definire il gruppo, respingendo il concetto marxiano di classe,
Kaiser usa la parola Verbände, ma si rifà anche a un termine antico,
corporativo e organico, come quello di Stand (ordine, stato) che
contrasta con l'idea di libere associazioni private. A prescindere
da queste incertezze, la conclusione complessiva cui perviene Kaiser
è che è difficile dare una 'rappresentanza' istituzionale agli
interessi organizzati, perché la rappresentanza nasce da un contesto
sociale omogeneo. Esiste però una 'rappresentanza di fatto' secondo
le forme e gli istituti del diritto privato. La dialettica fra Stato
e società è per Kaiser il problema costituzionale del XX secolo, se
si vuole salvare la democrazia liberale.
Più ambizioso sul piano teorico il saggio di Rainer Eisfeld, dal
titolo Pluralismus zwischen Liberalismus und Sozialismus (1972), il
quale ha come punto di partenza un'affermazione condivisa da molti
altri difensori del pluralismo: l'inadeguatezza delle tradizionali
istituzioni rappresentative per una società industriale. Eisfeld si
confronta sia con il pluralismo elaborato dalla scienza politica
americana (Bentley, Truman, Dahl), sia con il guild socialism. Nei
confronti del primo è assai critico, perché col suo descrittivismo
rappresenta soltanto un'apologia del presente, un'apologia della
società per come essa è di fatto organizzata: in questo modo il
pluralismo - di cui Eisfeld è fermo assertore - viene meno alla sua
promessa: un rafforzamento dell'autonomia individuale, attraverso
l'associazione, contro lo Stato. In realtà Eisfeld vede nelle
società capitalistiche solo l'apatia degli individui e
l'organizzazione degli interessi con strutture altamente
burocratizzate. Il rimedio, a suo avviso, va cercato nel guild
socialism: è necessaria in tutti i campi (dall'impresa
all'organizzazione degli interessi) una reale partecipazione, perché
vi sia un controllo sociale dal basso e l'individuo ridiventi
protagonista del processo politico. Eisfeld, influenzato da Jürgen
Habermas, conclude la sua analisi (ampiamente documentata) con una
teoria decisamente prescrittiva.
Per concludere, è necessario tener ben distinto il pluralismo dal
neocorporativismo, al quale spesso viene indebitamente accostato. Il
neocorporativismo è un fenomeno storico, verificatosi nel secondo
dopoguerra in Austria, Germania e Svezia, che ha ricevuto un'ampia
elaborazione teorica da parte della sociologia politica. Esso si
differenzia nettamente dal corporativismo fascista, perché se i
regimi autoritari hanno 'incorporato' le corporazioni, nei regimi
democratico-liberali le corporazioni hanno 'scorporato' dallo Stato
la facoltà decisionale relativa alla politica economica e sociale,
non con soluzioni istituzionali, ma con un incontro privato ad uno
stesso tavolo fra tre soli attori: il governo e le rappresentanze
funzionali dei produttori, dei sindacati e degli industriali. In
realtà si tratta di tre burocrazie, altamente professionalizzate,
che hanno di fatto l'esclusività della rappresentanza. È, nei fatti,
una concentrazione di potere, che contrasta con il pluralismo degli
interessi e che preclude ad 'estranei' l'accesso al tavolo privato
delle decisioni. La teoria pluralistica mira ad una situazione di
equilibrio fra una pluralità di gruppi o di centri di potere, in
modo che nessuno possa diventare egemone o dominante. I teorici
della "società corporata" privilegiano su questo equilibrio
spontaneo il momento del contratto fra i tre grandi vertici, il solo
che può dare unità, stabilità e continuità alla società. I
pluralisti sostengono un centro debole e una periferia forte, i
neocorporativi un centro forte e una periferia debole.
5. Conclusione
L'interrogativo che possiamo porci alla fine dell'esame di questi
diversi pluralismi antichi e moderni è: quanta diversità può
sopportare una società al suo interno? L'ideale è ex pluribus unum;
ma cosa succede se quei 'pluribus' diventano divaricanti?
Aristotele, contro il monista Socrate (Platone), aveva chiaramente
indicato la necessità di un equilibrio fra unità e pluralità: "È
chiaro che se una polis nel suo processo di unificazione diventa
sempre più una, non sarà più neppure una polis, perché la polis è
per sua natura pluralità e diventando sempre più una si ridurrà da
polis a famiglia [...]: chi fosse in grado di realizzare tale unità
non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe la polis" (Politica, II,
1261a, ma anche 1263b).
Il pluralismo implica sempre un tasso - più o meno alto - di
conflittualità, non ha come fine la pace sociale, che solo un regime
autoritario può garantire. Nel passato con la libertà religiosa e
poi con la libertà politica - in Europa e in America - questo
equilibrio è stato trovato, ma c'era - nel primo caso - la comune
eredità cristiana e - nel secondo - la vittoria del liberalismo, che
riteneva naturale l'esistenza di più partiti. La rivoluzione
democratica porterà a compimento questa profonda trasformazione
culturale, che ha inciso sulla mentalità collettiva. Ma oggi si
presentano nuovi problemi. Si parla molto di società multi-culturali
e di società multietniche, senza accorgersi che cultura ed etnia
sono cose diverse, o meglio, non coincidenti, e senza tenere
presente il fatto che l'integralismo islamico rappresenta un grave
fattore perturbante per un vero pluralismo. Le diverse nazioni
culturali possono benissimo coesistere, anzi lo scambio reciproco si
traduce in un autentico arricchimento per tutti, ma le etnie sono
società chiuse, legate ai ricordi del proprio passato e con vincoli
di sangue: è la parentela e non la cittadinanza a tenerle unite. Il
terzo millennio pone al pluralismo proprio questa sfida, quella
delle società multiculturali e multietniche. È una sfida aperta,
densa di rischi e di pericoli.Il solo pluralismo possibile è quello
'ragionevole' di Rawls, perché, dove c'è frattura sui valori ultimi,
appare soltanto una irrazionalità aggressiva. Il pluralismo può
darsi solo all'interno di una cultura condivisa, che abbia alcuni
valori comuni, soprattutto quello della tolleranza.