Partito
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Organizzazione che persegue l’obiettivo della gestione del potere
politico mediante il processo di competizione elettorale ovvero –
quando non entrano regole democratiche di competizione elettorale –
attraverso la designazione diretta dei propri membri nei ruoli di
governo.
DIRITTO
I p. sono associazioni private che hanno il monopolio di fatto delle
elezioni politiche, attraverso le candidature. In ciò sta la loro
natura ambivalente, in quanto, da un lato, hanno una connotazione
privatistica di fondo, essendo associazioni non riconosciute, prive
di personalità giuridica e con limitata autonomia patrimoniale, ma,
dall’altro, svolgono una funzione pubblica. Il monopolio di fatto
delle elezioni si riverbera anche sulla forma di governo, in quanto
si possono classificare le forme di governo a seconda del numero dei
p. che vi operano e del ruolo che ricoprono.
L’irrompere sulla scena politico-costituzionale dei p. è uno dei
caratteri distintivi del passaggio dallo Stato liberale allo Stato
democratico di massa. Nello Stato liberale i p. avevano rilevanza
soltanto all’interno dell’organo rappresentativo, erano cioè
essenzialmente dei gruppi parlamentari la cui organizzazione si
riduceva a un comitato elettorale. Invece, con l’avvento dello Stato
democratico, fondato sul suffragio universale, l’organizzazione dei
p. non può più limitarsi al solo Parlamento ma deve estendersi a
tutta la società, potendo tutti i cittadini influire direttamente
sulla vita politica attraverso il voto. Un ulteriore impulso alla
trasformazione dei p. fu dato dal cambio dei sistemi elettorali in
gran parte dei paesi europei, con l’abbandono di formule elettorali
maggioritarie e l’introduzione di formule elettorali
non-maggioritarie (o proporzionalistiche). L’avvento dello Stato
democratico ha comportato inoltre il processo di
costituzionalizzazione dei p., e cioè il loro graduale inserimento
nell’ambito dei documenti costituzionali, laddove lo Stato liberale
li aveva sostanzialmente ignorati per tutto il 19° secolo.
In Italia, la Costituzione si occupa dei p. nell’art. 49 Cost., che
sancisce il diritto dei cittadini di associarsi liberamente in p.,
al fine di concorrere con metodo democratico a determinare la
politica nazionale, nell’art. 98, co. 3, Cost., che prevede la
possibilità di limitare con legge l’iscrizione di alcune categorie
di impiegati pubblici (come magistrati, militari di carriera,
funzionari e agenti di polizia, e rappresentanti diplomatici e
consolari all’estero), e nella XII disp. trans. Cost., che vieta la
ricostituzione del disciolto partito fascista. Per le funzioni
pubbliche dei p., si è posto in primo luogo il problema del
controllo sulle loro fonti di finanziamento per evitare i fenomeni
di corruzione. A ciò si è cercato di ovviare con la l. 195/1974, che
prevedeva, oltre a un rimborso delle spese elettorali, anche un
finanziamento pubblico. Il finanziamento pubblico diretto fu
abrogato da un apposito referendum, il 18 aprile 1993, ma rimase in
vigore quella parte della legge che prevedeva i rimborsi delle spese
elettorali. Quattro anni dopo il Parlamento reintrodusse una forma
di finanziamento pubblico, con un contributo volontario pari allo
0,4% dell’IRPEF (l. 2/1997). Poi intervenne la l. 157/1999 che,
abrogando la precedente, introdusse un sistema di rimborsi
elettorali, a sua volta oggetto di referendum abrogativo nel maggio
2000 (ma la consultazione non superò il quorum di partecipazione).
In virtù del combinato disposto della l. 157/1999 e della successiva
l. 156/2002, è quindi prevista, allo stato attuale, la costituzione
di fondi per le elezioni della Camera e del Senato, del Parlamento
europeo e dei consigli regionali, nonché per comitati promotori di
referendum. L’ammontare del rimborso per le elezioni viene
determinato moltiplicando per un euro il numero di cittadini
iscritti nelle liste elettorali per la Camera dei deputati, e viene
poi distribuito (tra i p. che superino la soglia dell’1%) in
proporzione ai voti conseguiti.
STORIA
1. I primordi
Nelle società tradizionali il diritto di esercitare l’autorità e la
partecipazione alla lotta per la distribuzione dei diritti e degli
obblighi si basavano su privilegi, frequentemente ereditari, o su
immunità istituzionali. La Rivoluzione francese distrusse questo
sistema, creando tra i cittadini un’astratta uguaglianza e
affermando il principio che ogni potere legittimo deve fondarsi
sulla volontà popolare, da esprimersi tramite rappresentanti. Le
prime forme embrionali del moderno p. politico furono costruite da
raggruppamenti instabili di parlamentari e, in occasione delle
competizioni elettorali, da comitati che si formavano a sostegno
delle loro candidature. Solo con l’allargamento del suffragio, e
spesso come conseguenza di determinate procedure del sistema
elettorale (per es., la registrazione degli elettori, lo scrutinio
plurinominale, lo scrutinio di lista), si svilupparono i moderni p.
politici. Nel definitivo assetto del sistema politico negli Stati
occidentali, i p. che avevano ricevuto legittimazione andarono
perdendo progressivamente le caratteristiche originarie di classe,
di denominazione religiosa ecc., per assumerne altre connaturate con
le diverse funzioni che storicamente si trovavano a svolgere sia in
qualità di mediatori (al governo o all’opposizione) sia come
rappresentanti (delle vecchie e delle nuove categorie e classi
sociali, cui il p. si era rivolto per allargare la propria forza).
Nell’analisi storica si possono distinguere 3 fasi nel processo di
formazione e trasformazione dei p. moderni. La prima riguarda la
divisione politica avvenuta in seno alla classe dominante; la
seconda riguarda la nascita dei p. di classe e la risposta venuta
dai p. borghesi; la terza riguarda la collaborazione dei p. di
classe alla gestione del potere in seno alla società capitalistica,
nonché le trasformazioni dei p. di classe una volta raggiunto il
potere per via rivoluzionaria.
2. La nascita dei p. moderni
Inizialmente il pensiero politico si pronunciò negativamente
sull’esistenza dei raggruppamenti che preludono ai p. politici. T.
Hobbes in Inghilterra li considerava ‘Stati nello Stato’ e quindi
fonte di anarchia. Il pensiero rivoluzionario francese fu contrario
ai corpi intermedi e la Dichiarazione dei diritti del 1789 sancì la
libertà di opinione, ma non menzionava quella di riunione e di
associazione. Negli Stati Uniti la Costituzione prevedeva che
diventasse presidente il candidato che avesse riportato la
maggioranza dei voti e vicepresidente il suo concorrente più
prossimo. Tuttavia, si manifestarono ben presto differenziazioni di
interessi che lo sviluppo economico tendeva a stabilizzare. In
Inghilterra si fece strada una contrapposizione parlamentare tra
whig e tory. Negli Stati Uniti la Costituzione fu emendata nel 1804,
per riconoscere il principio delle candidature contrapposte alle
cariche di presidente e vicepresidente. In Francia invece le
divisioni politiche per lungo tempo non poterono avere piena
espressione a causa delle limitazioni imposte dai regimi che si
susseguivano.
Conservatori e liberali iniziarono in Inghilterra il loro processo
di trasformazione in p. moderni con il primo allargamento del
suffragio, nel 1832, quando il sistema elettorale consigliò la
costituzione di società per la registrazione degli elettori. Queste
diventarono poi macchine elettorali locali, raggruppate nell’Unione
nazionale dei conservatori nel 1867 e nella Federazione nazionale
dei liberali nel 1877. Negli Stati Uniti una nuova classe politica
s’impose a quella dei federalisti attraverso modifiche istituzionali
che attivavano gli strati inferiori della società. Sotto la
presidenza Jefferson si realizzò il sistema del frazionamento del
potere pubblico, cui era in larga misura possibile accedere per via
elettiva; sotto la presidenza Jackson fu portato alle estreme
conseguenze il sistema della divisione delle ‘spoglie’ (spoils
system), secondo il quale era riconosciuto al presidente il diritto
di nominare e revocare una parte consistente di funzionari pubblici.
L’indebolimento dell’autorità lasciava spazio alla macchina dei
partiti. Le sue funzioni riguardavano, fin d’allora, la
soddisfazione dei bisogni privati, che non trovavano adeguata
considerazione da parte della struttura pubblica, e l’attribuzione
di privilegi politici che permettessero ai privati di acquisire
vantaggi economici. Il sistema delle elezioni primarie dirette, che
assunse rilievo giuridico alla fine del 19° sec., pose un limite
all’arbitrio dei boss o capi in seno ai p., che aveva raggiunto
l’apice dopo la sostituzione del metodo del caucus (riunione
ristretta di notabili per designare i candidati del p.) con quello
della convenzione (assemblea di delegati di primo grado o di grado
superiore, eletti dagli elettori del p., per designare i candidati).
3. P. di classe e p. borghesi
Negli altri paesi il problema dell’integrazione si pose con il
sorgere di nuove classi come prodotto dello sviluppo economico e con
il loro organizzarsi. Quanto più erano lontane le prospettive di una
piena legittimazione del ruolo politico delle nuove classi, tanto
prima sembrava manifestarsi la loro autonomia politica. Nella
Germania imperiale la socialdemocrazia tedesca si sviluppò negli
anni intorno al 1860, in modo tale da rappresentare ben presto un
modello organizzativo per i movimenti operai degli altri paesi. Al
movimento operaio era permesso di esistere legalmente, con una
propria identità politica, ma gli era impedito l’accesso ai centri
di potere. I dirigenti socialdemocratici accettarono questa
soluzione, mirando a salvaguardare innanzi tutto l’unità e la forza
del movimento operaio. La struttura di base del p. fu la sezione.
L’alternarsi di condizioni permissive e repressive da parte del
sistema dominante favoriva all’interno del movimento socialista
l’abitudine a una prassi moderata e nel contempo l’adesione a
un’ideologia marxista radicale. Il rafforzamento del p.
socialdemocratico fece sorgere uno strato di parlamentari e di
funzionari che non vivevano più per, ma grazie al movimento operaio.
Trasformatasi da mezzo in fine, l’organizzazione, che in periodi di
relativa tranquillità riusciva a strappare importanti conquiste per
il ceto operaio, rivelò la sua intrinseca debolezza nel periodo
successivo alla Prima guerra mondiale. Situazioni analoghe si
verificarono in altri paesi europei.
La strada che imboccarono le socialdemocrazie europee fu, negli anni
1920 e 1930, dove possibile, quella della collaborazione con i p.
borghesi (governo MacDonald in Gran Bretagna, Repubblica di Weimar,
fronti popolari). Altrove, invece, le difficoltà della classe
dominante borghese nel controllo dello sviluppo dei rispettivi
paesi, e le prospettive autoritarie di una parte di essa, impedirono
quella soluzione, a causa dell’affermazione dei p. nazionalisti,
fascisti, nazionalsocialisti. In una prima fase questi presentarono
caratteristiche non di p. ma di movimento sociale. Una volta al
potere, s’identificarono nel nuovo regime, diventando p. unici. Loro
caratteristica, sul piano dell’organizzazione, fu di avere una
struttura fortemente gerarchizzata, non elettiva, e di inquadrare le
masse (anche militarmente) senza riconoscere loro alcun diritto a
una partecipazione attiva ai processi decisionali del partito.
Una strada alternativa alla collaborazione con i p. borghesi fu
indicata dalla Rivoluzione d’ottobre e dalla Terza internazionale,
cui fecero capo fino al 1943 i p. comunisti di tutto il mondo. La
vittoria in Russia andò all’ala bolscevica della socialdemocrazia,
che aveva fatto propria la teoria del p. dei rivoluzionari di
professione, enunciata da Lenin nel Che fare? (1902). Subito dopo,
il p.-avanguardia fu trasformato in p.-massa, ma all’interno
prevalse una pratica burocratico-autoritaria, che si rifletté anche
sui p. comunisti degli altri paesi, i quali fecero propria la teoria
staliniana della ‘costruzione del socialismo in un solo paese’ e
furono condizionati dalle oscillazioni della stessa politica estera
sovietica. Questa situazione fu modificata solo a partire dagli anni
1950, con l’avvio di una certa distensione internazionale, grazie
agli avvenimenti interni al mondo comunista che ne scossero il
monolitismo ideologico, e il riconoscimento da parte dell’URSS delle
vie nazionali al socialismo. I rapporti internazionali influenzarono
profondamente la linea e la stessa concezione organizzativa dei p.
comunisti. Nel quadro della ripartizione mondiale delle zone
d’influenza tra URSS e USA (1943-90), i p. comunisti, così
strutturati, divennero in Europa orientale p. unici o egemoni,
identificandosi con il regime; in Occidente si prodigarono per il
mantenimento dell’unità antifascista, fonte della loro
legittimazione.
Dopo la fase della guerra fredda, i maggiori p. comunisti
dell’Occidente attenuarono progressivamente le caratteristiche di
‘organizzazione di combattimento’ e accentuarono quelle tradizionali
dei p. di massa del movimento operaio. In concomitanza del crollo
dei regimi socialisti nell’Est europeo (1989-90) alcuni di questi p.
(tra cui l’italiano) sciolsero, anche nella denominazione, i legami
con la tradizione comunista.
Alla fine del 20° sec. nei paesi democratici i p. si sono evoluti in
formazioni di collegamento tra interessi e tradizioni, meno
ideologiche e più orientate alla formulazione di un programma.
4. La partitocrazia
È un fenomeno di predominio, strapotere dei p. che tendono a
sostituirsi alle istituzioni rappresentative nella direzione e nella
determinazione della vita politica democratica dello Stato.
In questo senso, e in polemica con il consolidamento del sistema dei
p. nella società italiana del dopoguerra,
Enciclopedia del Novecento (1980)
di Maurice Duverger
Partiti politici
Sommario: Introduzione. 2. Differenti tipi di partito. a) I partiti
di quadri. b) I partiti di massa. 3. Le funzioni dei partiti. a) I
partiti e il potere politico. b) La funzione rappresentativa. 4.
Bipartitismo e pluripartitismo. a) Il pluripartitismo. b) Il
bipartitismo. 5. Il partito unico. a) I partiti unici comunisti. b)
I partiti unici fascisti. c) I partiti unici dei paesi in via di
sviluppo. 6. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
I partiti politici sono raggruppamenti organizzati in vista della
conquista e dell'esercizio del potere politico. Sono nati in Europa
e negli Stati Uniti, nel XIX secolo, insieme alle procedure
elettorali e parlamentari, e si sono sviluppati parallelamente a
esse. Si sono in seguito diffusi, con un certo ritardo, in America
Latina, dove il loro funzionamento è stato spesso falsato da
interventi dell'esercito, che si riscontrano talvolta, ma più di
rado, anche in Europa.
Nei vecchi regimi aristocratici e monarchici il gioco politico si
svolgeva in circoli assai ristretti e opponeva dei clan raccolti
intorno a qualche signore o personalità influente. Lo stabilirsi di
regimi parlamentari e la comparsa dei partiti non hanno,
inizialmente, affatto modificato questa situazione. Ai clan
costituiti intorno a principi, duchi, conti o marchesi si sono
aggiunti quelli costituiti intorno a banchieri, commercianti,
industriali, uomini d'affari. Più esattamente: i clan della seconda
categoria, emersi già nelle vecchie monarchie europee, si sono
sviluppati a danno dei clan della prima categoria. Così, a regimi
che poggiavano sui nobili sono succeduti regimi poggianti sui
notabili. A questa prima tappa corrispondono i ‛partiti di quadri',
così come funzionavano nel XIX secolo. In seguito, essi si sono più
o meno trasformati. Soprattutto si sono sviluppati, accanto a essi,
i ‛partiti di massa', aperti a un gran numero di cittadini che
possono quindi partecipare attivamente alla vita politica. Così, per
gradi, al parlamentarismo dei notabili subentra un parlamentarismo
delle organizzazioni. Ciò corrisponde a un'evoluzione verso la
democrazia, malgrado la struttura delle organizzazioni generi anche
delle tendenze oligarchiche (v. sotto, cap. 3).
D'altra parte, il sistema dei partiti si è esteso nel XX secolo al
mondo intero. In Africa si sono costituiti grandi partiti, che
combinano talvolta un inquadramento di tipo moderno con uno
sottostante - su base etnica o tribale - di tipo tradizionale:
l'oligarchia dirigente, ad esempio, è formata appunto dai capi
tradizionali. In certe regioni dell'Asia si è talvolta sviluppato un
amalgama dello stesso genere, in cui l'appartenenza al partito
coincide approssimativamente con l'appartenenza al gruppo religioso
o alle confraternite rituali. Spesso i partiti del Terzo Mondo sono
per metà politici e per metà militari: possono tanto partecipare
alle elezioni e ai parlamenti quanto animare guerriglie e
rivoluzioni. Alcuni decenni or sono, certi partiti socialisti e i
partiti comunisti hanno avuto in Europa questa stessa
caratteristica.
I partiti comunisti europei hanno del resto mostrato un'eguale
attitudine a funzionare sia nell'ambito di democrazie pluralistiche
(per es. in Italia, Francia e Finlandia) che in sistemi a partito
unico di regimi dittatoriali. Ciò corrisponde a un'ulteriore
estensione dell'ambito dei partiti. Nati, all'inizio, nel quadro
della democrazia liberale, nel XX secolo essi sono stati utilizzati
dalle dittature, nella forma di partito unico, quando esse a loro
volta hanno utilizzato procedure elettorali e parlamentari
stravolgendone il significato. I partiti tendono così a divenire
un'istituzione che funziona in regimi diversissimi. Essi
costituiscono una delle forme dello sviluppo generale delle
organizzazioni che inquadrano grandi masse di uomini, sviluppo che è
in corso da mezzo secolo.
2. Differenti tipi di partito
La distinzione fondamentale resta quella fra partiti di quadri e
partiti di massa. Essa corrisponde tanto a due tipi di partiti
quanto a due categorie di regimi democratici: quelli precedenti il
1914 si fondavano essenzialmente sui notabili, mentre quelli
contemporanei si fondano su grandi organizzazioni. Tuttavia,
attualmente, partiti di quadri e partiti di massa coesistono in
numerosi paesi, in particolare in Europa occidentale, dove i partiti
socialisti e comunisti si sono affiancati ai preesistenti partiti
conservatori e liberali. D'altra parte, molti partiti si trovano a
mezza strada tra la categoria dei partiti di quadri e quella dei
partiti di massa.
a) I partiti di quadri
I partiti di quadri si sono sviluppati in Europa e in America nel
XIX secolo. Se si fa eccezione per gli Stati Uniti d'America (e
nemmeno per tutti), per la Francia dopo il 1848, e per l'Impero
tedesco successivamente al 1871, nell'Ottocento il suffragio risulta
limitato dal censo o dalla proprietà. Anche quando il diritto di
voto ha una larga estensione, l'influenza politica appartiene
essenzialmente a una parte assai ristretta della popolazione. Le
masse popolari ne sono escluse, rimanendo spettatrici piuttosto che
protagoniste della vita politica. Tuttavia, nell'ultimo decennio del
secolo, si fa sentire il bisogno di allargare il gioco politico. Da
ciò nascono i primi partiti di massa, di cui ci occuperemo più
avanti. Ma ciò comporta anche la trasformazione di alcuni partiti di
quadri (particolarmente negli Stati Uniti con lo sviluppo delle
‛primarie') o la comparsa di forme nuove di partiti, a mezza strada
tra i partiti di quadri e quelli di massa (Partito Laburista in Gran
Bretagna).
1. Il modello europeo. - I partiti europei del XIX secolo esprimono
un conflitto fondamentale tra due classi (o gruppi di classi): da un
lato l'aristocrazia, dall'altro la borghesia. La prima, formata da
proprietari fondiari, s'appoggia sulle campagne, dove vivono
contadini generalmente analfabeti, inquadrati da un clero
tradizionalista. La seconda, costituita da industriali,
commercianti, grossisti, banchieri e finanzieri, liberi
professionisti, si appoggia sulla folla degli impiegati e degli
operai delle città, tra i quali - inizialmente con lentezza - si
svilupperà più tardi il socialismo. Ciascuno di questi due gruppi si
esprime attraverso un'ideologia che corrisponde ai propri interessi,
pur travalicandone talvolta i confini.
L'ideologia liberale è stata forgiata per prima, a partire dalla
rivoluzione inglese del XVII secolo (Locke), e poi dai filosofi
francesi del XVIII secolo. Richiedendo l'eguaglianza giuridica, ma
accettando la diseguaglianza delle fortune, essa corrisponde agli
interessi della borghesia che vuole distruggere i privilegi
dell'aristocrazia e le regolamentazioni corporative. Essa esprime
però, nell'idea egualitaria, e soprattutto nella sua rivendicazione
della libertà, aspirazioni comuni a tutti gli uomini. L'ideologia
conservatrice non giunge a definire temi così generali: sembra più
egoisticamente legata agli interessi dell'aristocrazia. Tuttavia,
mantiene a lungo un impatto popolare considerevole, presentandosi
come l'espressione della volontà divina. E dunque fortemente legata
alla religione. Nei paesi cattolici, in cui la religione poggia su
un clero gerarchizzato e autoritario, i partiti conservatori sono
spesso dei partiti clericali (Francia, Italia, Belgio, ecc.).
Partiti conservatori da una parte, partiti liberali dall'altra:
queste sono le due forme principali dei partiti europei nel XIX
secolo. Ogni categoria comporta talvolta delle divisioni interne tra
moderati ed estremisti (ad esempio, ‛legittimisti' e ‛orleanisti'
tra i conservatori francesi; oppure ‛giacobini' e ‛liberali'
propriamente detti). Raramente si trova una terza categoria distinta
dalle due precedenti: il caso più notevole è quello dei partiti
agrari scandinavi, sorta di partiti liberali rurali. Essi
corrispondono a una classe media rurale che poggia su una lunga
tradizione: nelle assemblee dei vecchi regimi monarchici si
trovavano in Svezia non tre stati - clero, nobiltà, borghesia - ma
quattro: i contadini liberi avevano una rappresentanza separata.
Questi partiti si sviluppano attraverso una lotta violenta, molto
più profonda di quella degli attuali partiti europei. Conservatori e
liberali si sono gettati a vicenda in prigione, combattuti con le
armi alla mano, si sono perfino massacrati, nella Rivoluzione
francese del 1789, nella reazione del 1815, nelle rivoluzioni del
1830 e 1848, nella Comune del 1871 e infine nelle lotte quotidiane
che non cessavano mai neppure tra l'una e l'altra di queste crisi
eccezionali. La guerriglia rurale non ha uno spazio rilevante in
questa lotta, nella quale spiccano invece le rivolte urbane e le
cospirazioni. Alcuni partiti dell'Ottocento europeo sono, perciò,
più o meno legati a movimenti clandestini, dei quali il più famoso,
ma non l'unico, è la Carboneria italiana: la loro struttura e la
loro composizione sociale assomiglia un po' a quella dei tupamaros
uruguaiani.
Una tale situazione è però eccezionale. I partiti europei di quadri
sono essenzialmente, nell'Ottocento, strumenti di azione elettorale
e parlamentare. Una volta al potere, i loro dirigenti utilizzano il
braccio secolare dell'esercito o della polizia, ma il partito in
quanto tale non è generalmente adatto all'azione violenta. I
comitati di base assicurano, sostanzialmente, il sostegno morale e
il finanziamento materiale dei candidati alle elezioni e il
collegamento permanente tra l'eletto e gli elettori.
L'organizzazione nazionale si sforza di coordinare le iniziative
nelle assemblee degli eletti del partito. In generale i comitati
locali mantengono un'ampia autonomia, e lo stesso dicasi dei singoli
deputati. La disciplina di voto stabilita nei partiti britannici che
sono i più antichi, poiché il Parlamento di Londra funziona da più
lunga data - non è affatto imitata sul continente.
2. Il modello americano. - In origine i partiti americani
ottocenteschi non differiscono granché dai partiti europei di
quadri, salvo che lo scontro fra di loro è meno violento e meno
ideologico. Nell'America settentrionale la lotta fra aristocrazia e
borghesia, fra conservatori e liberali, si è svolta nella forma di
guerra di Indipendenza: la Gran Bretagna incarnava il potere
monarchico e nobiliare, gli insorti la borghesia e il liberalismo.
Certo, l'identificazione è sommaria, poiché si trovano nel Sud
alcuni aristocratici, e soprattutto uno spirito aristocratico
fondato sulla grande proprietà fondiaria schiavista e paternalista.
In questo senso la guerra di Secessione potrebbe essere considerata
come una seconda versione della lotta fra conservatori e liberali.
Malgrado tutto gli Stati Uniti sono, fin dalla loro nascita, una
civiltà essenzialmente borghese, senza privilegi nobiliari e senza
nobili, fondata su un senso profondo dell'eguaglianza - che aveva
stupito Tocqueville - e della libertà individuale. Federalisti e
antifederalisti, repubblicani e democratici si collocano tutti nella
famiglia liberale: hanno la stessa ideologia di fondo, lo stesso
sistema di valori fondamentali. Differiscono solo per certi
obiettivi pratici, relativamente secondari. Questa situazione spiega
il conformismo americano. La civiltà degli Stati Uniti si è
sviluppata a partire da un'unica ideologia fondamentale, mentre la
civiltà europea si è sviluppata nel conflitto tra due ideologie
fondamentalmente opposte.
Riguardo alla struttura, i partiti americani sono poco diversi,
inizialmente, da quelli europei; sono anch'essi formati da comitati
di notabili locali, i cui legami reciproci sono però, a causa della
struttura federale, ancora più deboli che in Europa. A livello di
ogni Stato il coordinamento dei comitati locali conserva ancora una
sua efficacia che vien meno a livello nazionale. Una struttura più
originale si svilupperà dopo la guerra di Secessione, sia nel Sud,
con lo sfruttamento del voto dei Negri, sia sulla costa orientale,
con l'organizzazione del voto degli immigrati. L'estrema
decentralizzazione americana fa sì che un partito possa stabilire
una semidittatura locale in una città o in una contea, dato che può,
con le elezioni, conquistarvi tutti i posti chiave: non soltanto il
municipio e il potere politico, ma la polizia, le finanze, la
giustizia, ecc. Compaiono così, a partire dalla struttura
tradizionale dei partiti di quadri, gli ‛apparati'.
Invece che da notabili, il comitato di partito è formato talora da
avventurieri o da gangsters che nel potere cercano solo un'occasione
di profitti materiali. Essi sono fortemente dominati dall'autorità
di un boss. Agli ordini del comitato, la circoscrizione elettorale è
attentamente suddivisa, ogni settore è sorvegliato da un agente del
partito, il ‛capitano', che ha il compito di controllare il voto
degli elettori. A questi vengono resi dei servizi materiali e
distribuito qualche privilegio, contrattando la promessa dei loro
voti. Possono così costituirsi dei blocchi di voti in grado di
garantire la maggioranza. Detenendo allora la direzione
dell'amministrazione, della polizia, della giustizia, delle finanze,
ecc., si assicura l'impunità all'apparato e ai suoi clienti e si
hanno i mezzi per sviluppare senza rischi la corruzione, i traffici
illegali, la prostituzione, il gioco. Nel periodo successivo alla
prima guerra mondiale, il proibizionismo diede nuovo impulso agli
apparati.
Questa degenerazione del meccanismo dei partiti non aveva però solo
aspetti negativi. L'emigrante europeo che sbarcava negli Stati Uniti
sperduto, isolato, in un mondo immenso e diverso, trovava un
appoggio nell'organizzazione politica. Essa lo aiutava a trovare
lavoro e alloggio in cambio del suo fermo appoggio elettorale. In un
regime capitalista puro, in cui non esistevano servizi sociali, gli
apparati e i boss li hanno in qualche modo sostituiti, accollandosi
funzioni indispensabili alla vita collettiva. Il costo morale e
materiale del sistema restava evidentemente elevatissimo. D'altronde
la componente socioassistenziale non è sempre presente: è
difficilmente riscontrabile nei carpet-baggers della ricostruzione
del Sud e manca del tutto nel gangsterismo del periodo
proibizionista.
Alla fine del XIX secolo gli eccessi degli apparati e dei boss e
l'eccessiva angustia dei partiti hanno dato impulso al movimento
delle ‛primarie'. Si trattava di togliere ai notabili dei comitati
il diritto di designare i candidati alle elezioni, facendo eleggere
questi direttamente dall'insieme dei cittadini in un prescrutinio
organizzato ufficialmente come lo scrutinio vero e proprio. Fra il
1900 e il 1920 la maggior parte degli Stati adotterà
progressivamente questo sistema, sebbene in forme diverse. Nelle
primarie ‛chiuse' l'elettore si iscrive in anticipo come democratico
o repubblicano e designa i candidati del partito che ha scelto.
Nelle primarie ‛aperte' decide di votare per i candidati dell'uno e
dell'altro partito al momento del prescrutinio, e in modo anonimo.
Nelle primarie senza schieramento l'elettore può designare il
candidato di un partito per un incarico (ad es. senatore) e il
candidato del partito opposto per un altro incarico (ad es.
rappresentante, sceriffo, ecc.).
Le primarie senza schieramento tendevano a distruggere i partiti; le
altre miravano, piuttosto, a democratizzarli, aprendoli ai cittadini
nella speranza di controbilanciare così l'influenza dei comitati. In
pratica, questo risultato non è stato conseguito che in scarsissima
misura, e i comitati suddetti conservano l'ultima parola sulla
selezione dei candidati alle primarie, cioè dei candidati alla
candidatura. Nelle primarie chiuse l'iscrizione degli elettori
somiglia un po' all'iscrizione ai partiti di massa (che in quella
stessa epoca cominciano a svilupparsi in Europa): ma senza quote e,
soprattutto, senza influenza sulla scelta dei dirigenti e sul loro
indirizzo.
3. Il modello laburista. - Nella sua prima forma (1900), il Partito
Laburista britannico costituisce un modello nuovo di partito di
quadri, anello di congiunzione con i partiti di massa. Esso è
formato dalla federazione di sindacati, di società mutue, di
cooperative, di club di intellettuali. Alla base ogni organizzazione
aderente invia i suoi rappresentanti al comitato laburista di
circoscrizione. Lo stesso meccanismo funziona al vertice, per il
Congresso nazionale e l'Esecutivo del partito.
In una tale organizzazione non esiste l'adesione individuale; il
partito laburista raggruppa unicamente i rappresentanti di
organizzazioni che gestiscono i fondi da queste versati, designano
in comune i candidati del partito alle elezioni e controllano
l'attività degli eletti. Siamo di fronte a un partito di tipo nuovo,
che poggia non su singoli notabili, riuniti a causa della loro
personalità, ma su ‛notabili organici', se così si può dire, cioè su
rappresentanti di organizzazioni. Alcuni partiti
democratico-cristiani - per esempio il Partito Cristiano Sociale
belga tra le due guerre e il Partito Popolare austriaco - hanno una
struttura analoga: essi sono una federazione di sindacati, di
organizzazioni agricole, di movimenti delle classi medie, di
associazioni padronali, e così via. Dopo il 1918 il Partito
Laburista britannico ha istituito anche le iscrizioni dirette, sul
modello dei partiti socialisti continentali: i rappresentanti degli
iscritti individuali si aggiungono a quelli delle organizzazioni per
formare i comitati del partito, il cui carattere intermedio tra i
partiti di quadri e quelli di massa risulta così ulteriormente
accentuato.
b) I partiti di massa
I partiti di quadri raggruppavano solo qualche migliaio di persone,
notabili per situazioni personali o rappresentanti di
organizzazioni. I partiti di massa riuniscono centinaia di migliaia
di iscritti, a volte milioni. Le dimensioni stesse
dell'organizzazione comportano una trasformazione della sua
struttura: da gruppi spesso informali, con limiti imprecisi e
criteri di adesione scarsamente definiti, si passa a comunità
fortemente strutturate. Il numero degli iscritti non è tuttavia il
criterio per la definizione dei partiti di massa, malgrado il loro
nome. Essenziale è che essi facciano appello alle masse, anche se
queste non sempre rispondono, vale a dire che cerchino di
raggruppare non solo persone influenti, conosciute e
rappresentative, ma tutti i cittadini che accettano di entrare nel
partito. Un partito di massa che non riunisca che pochi aderenti è
però tale solo potenzialmente; esso conserverà ciononostante
caratteri diversi da quelli di un partito di quadri.
1. Il modello socialista. - E stato il movimento socialista
dell'Europa continentale a ‛inventare' verso la fine dell'Ottocento
il partito di massa, e questo per tre ragioni principali. In primo
luogo, si voleva formare ideologicamente e inquadrare gli operai e i
salariati, che l'industrializzazione rendeva sempre più numerosi e
ai quali l'estensione del diritto di voto conferiva una grande
importanza politica. S'intendeva così sostituire i partiti di
notabili, corrispondenti a una classe politica ristretta, con grandi
organizzazioni popolari che permettessero al massimo numero di
cittadini di partecipare alla scelta dei candidati alle elezioni e
dei dirigenti politici e quindi di esercitare su di loro un
controllo permanente. E c'era infine il proposito di raccogliere i
fondi necessari alla propaganda e alle campagne elettorali
mobilitando in modo regolare le risorse di strati poveri ma assai
numerosi.
Si domanda dunque a tutti coloro che simpatizzano per la dottrina e
gli obiettivi di un partito di aderire esplicitamente alla sua
organizzazione. Ogni iscritto paga una quota regolare, generalmente
frazionata attraverso l'acquisto di una tessera annuale e di bollini
mensili. I membri del partito, così definiti, si raggruppano in
sezioni locali che si riuniscono una o più volte al mese: queste
riunioni sono una sorta di scuola serale che permette di dare una
formazione politica. Se gli iscritti sono numerosi, il partito
perviene a costituire in questo modo una possente organizzazione,
che gestisce fondi considerevoli e diffonde le sue idee in una parte
notevole della popolazione. Nel 1913 il Partito Socialista tedesco
supera il milione di iscritti.
Una simile organizzazione avrà necessariamente una forte struttura
interna. Occorre una registrazione precisa degli iscritti, ci
vogliono tesorieri per riscuotere le quote, segretari per convocare
e animare le riunioni, un apparato gerarchico per coordinare
l'azione di migliaia di sezioni locali. L'abitudine all'azione
collettiva e alla disciplina di gruppo, più sviluppata fra gli
operai, attraverso l'azione sindacale e gli scioperi, che tra la
borghesia e l'aristocrazia, favorisce un siffatto sviluppo
dell'organizzazione del partito e la sua centralizzazione. Il
termine ‛sezione', utilizzato da certi partiti socialisti, esprime
appunto questa situazione, che è diversa dalla decentralizzazione,
in genere molto spinta, dei partiti di quadri.
Per forza di cose una struttura tanto vasta tende a dare una grande
influenza ai responsabili ai diversi livelli, e a costituire così
una sorta di cerchia interna che esercita grandi poteri: più avanti
studieremo questa tendenza oligarchica (v. sotto, cap. 3, È b, 2). I
partiti socialisti si sono sforzati di arginarla, elaborando
procedure democratiche di scelta e di controllo dei dirigenti. A
tutti i livelli i responsabili sono eletti dai membri del partito.
Ogni gruppo di base designa delegati ai congressi regionali o
nazionali e ciascuno dispone di un numero di mandati proporzionale
al numero dei membri del gruppo. I congressi, attraverso votazioni
‛per mandati', designano i candidati del partito e i suoi organi
direttivi e, per mezzo di ‛mozioni', fissano la linea di condotta
che gli organi eletti dovranno applicare. Talvolta sono previsti
referendum che permettano di conoscere l'opinione di tutti gli
iscritti sulle questioni fondamentali. Questo tipo di organizzazione
è stato combinato da alcuni partiti socialisti con il modello
laburista. Così il Partito Laburista inglese dopo la prima guerra
mondiale ha reclutato direttamente degli iscritti i cui
rappresentanti si sono aggiunti a quelli dei sindacati, delle
società mutue, delle cooperative, ecc., per formare i comitati di
partito. In Scandinavia e in Belgio il partito è rimasto in teoria
più indipendente dalle altre organizzazioni popolari, ma in pratica
ha sviluppato con esse numerosi legami. D'altronde la maggior parte
dei partiti di massa hanno creato delle organizzazioni parallele e
collegate - di giovani, di donne, ecc. - che permettono loro di
allargare la propria influenza.
Questo modello di partito di massa è stato imitato da numerosi
partiti non socialisti. Alcuni dei vecchi partiti europei di quadri,
conservatori o liberali, hanno cercato di trasformarsi seguendo
questo schema, che è stato poi spesso ricalcato ancor più
direttamente nell'organizzazione dei partiti democratico-cristiani.
Nell'uno e nell'altro caso il successo è stato per lo più solo
parziale. Le classi medie e la borghesia delle società industriali
capitalistiche accettano meno degli operai organizzazioni rigide e
disciplinate, la cui necessità appare loro meno evidente, sia che si
tratti dell'educazione politica, sia delle elezioni.
Per ragioni inverse, l'imitazione del modello socialista ha sortito
miglior successo nei paesi in via di sviluppo, anche se, data la
permanenza di una struttura fortemente inegualitaria e dato che lo
Stato e l'economia sono nelle mani di una ristretta oligarchia che
domina su masse poco evolute, in realtà il sistema dei partiti di
quadri - come già nell'Europa dell'Ottocento - corrisponde meglio
alla situazione: la mobilitazione delle masse rimane cioè illusoria,
giacché, in luogo di un'effettiva partecipazione, esse non svolgono
nella vita del partito che un ruolo di comparse.
2. Il modello comunista. - I primi partiti comunisti hanno
inizialmente adottato l'organizzazione dei partiti socialisti, dai
quali erano derivati per scissione. A partire dal 1924, per
decisione dell'Internazionale (Komintern), si sono tutti adeguati al
modello sovietico, diventando partiti di massa basati sull'adesione
del maggior numero possibile di cittadini, anche se la selezione
era, ed è ancora talvolta, più severa (necessità di una
presentazione e di un periodo di candidatura). Questi partiti hanno
però sviluppato un nuovo sistema di inquadramento degli iscritti.
Innanzitutto hanno sostituito ai gruppi di base territoriali,
stabiliti cioè in relazione al domicilio (comitati dei partiti di
quadri, sezioni socialiste), gruppi di base secondo il luogo di
lavoro. La ‛cellula di fabbrica' è il primo elemento originale dei
partiti comunisti. Essa riunisce tutti gli iscritti che dipendono da
una stessa ditta o da uno stesso stabilimento o magazzino o, più in
generale, da una stessa istituzione professionale (scuola,
università, facoltà). L'inquadramento dei membri del partito è, in
questo modo, più stretto, poiché la solidarietà del lavoro è in
generale, nelle città e nelle società industriali, più forte di
quella del domicilio.
Permangono, beninteso, anche le cellule territoriali, per
raggruppare i lavoratori singoli e utilizzare le solidarietà di
quartiere. Ma esse costituiscono, in qualche modo, una
sopravvivenza. La priorità è data alle cellule di fabbrica, cui, se
possibile, ci si deve iscrivere di preferenza. Il sistema si è
rivelato assai efficace e altri partiti lo hanno imitato,
generalmente senza successo. Un tale sistema spinge ogni cellula a
occuparsi di problemi corporativi e professionali piuttosto che di
problemi politici. D'altro canto questi gruppi di base, generalmente
più piccoli e dunque più numerosi delle sezioni socialiste, tendono
a ripiegarsi ciascuno su se stesso. Per resistere a questa pressione
centrifuga è necessaria una struttura molto forte e una grandissima
autorità degli organi direttivi.
Proprio questo è il secondo tratto originale dei partiti comunisti.
Tutti i partiti di massa tendono a essere centralizzati. I partiti
comunisti lo sono più degli altri e, in particolare, più dei partiti
socialisti. Tuttavia questo centralismo è definito ‛democratico',
perché la discussione è per principio libera e dev'essere sviluppata
a tutti i livelli, prima che venga presa una decisione: dopo, tutti
hanno il dovere di applicarla. Le tendenze e le frazioni, che hanno
talvolta lacerato e paralizzato i partiti socialisti, sono proibite
nei partiti comunisti, che riescono generalmente a conservare la
loro unità. Secondo le circostanze e i paesi la regola è applicata
con maggiore o minore elasticità (il Partito Comunista italiano è,
in Occidente, il più elastico mentre il Partito Comunista francese è
stato monolitico sotto Stalin e un po' meno in seguito).
L'altro tratto originale dei partiti comunisti è il ruolo importante
che vi gioca l'ideologia. Naturalmente tutti i partiti hanno una
dottrina o, quanto meno, una piattaforma. I partiti socialisti
europei erano molto dottrinari prima del 1914 e tra le due guerre,
prima di divenire più empirici, se non più opportunisti. Nei partiti
comunisti l'ideologia occupa un posto molto più importante. La prima
preoccupazione del partito è di dare ai suoi iscritti una formazione
marxista, attraverso la sua stampa, i suoi opuscoli, i suoi seminari
e le sue scuole. Nei giornali, nei discorsi e in tutti i testi del
partito i problemi non sono presentati in modo isolato, ma in
rapporto alla dottrina, che essi servono a illustrare. Il marxismo
non riguarda solo la vita politica, ma costituisce una concezione
generale del mondo, una filosofia. L'importanza dell'ideologia nei
partiti comunisti conduce alcuni a parlare, a questo proposito, di
‛religioni secolari' e a compararli alle Chiese centralizzate, come
la Chiesa romana. Ma si dimentica in questo modo che la dottrina
comunista è essenzialmente materialistica e razionalistica: essa è
basata infatti - o pretende di esserlo - sull'osservazione,
sull'esperienza, sul ragionamento, non sulla fede.
3. Il modello fascista. - Nell'Europa occidentale, si è affermato
tra le due guerre in due ondate successive - l'una negli anni venti
e l'altra negli anni trenta - un nuovo modello di partito di massa:
quello fascista. Sebbene i partiti fascisti si sforzino anch'essi,
come quelli socialisti e comunisti, di ottenere l'adesione del
maggior numero possibile di persone, essi non pretendono però di
essere espressione delle masse popolari. La loro dottrina è
autoritaria ed elitaria. Essi pensano che la società debba essere
diretta dai più adatti, cioè i più capaci, che sono un piccolo
numero. I dirigenti del partito costituiscono appunto questa élite,
raggruppata sotto l'autorità assoluta del capo supremo; la folla dei
militanti è fatta per obbedire e la struttura del partito ha lo
scopo di assicurare l'obbedienza.
Tale struttura somiglia a quella degli eserciti, anch'essi
organizzati per assicurare l'obbedienza rigorosa di grandi masse di
uomini a un piccolo numero. Uniformi, gradi, comandi, saluti,
sfilate, disciplina senza discussioni: ritroviamo nei partiti
fascisti gli elementi che hanno fatto la forza dei soldati di
Federico II, modello di tutti gli eserciti. La somiglianza poggia su
un altro elemento: la dottrina fascista insegna che il potere
dev'essere preso da minoranze organizzate che utilizzano la forza.
Il partito è dunque una milizia, addestrata alla lotta fisica,
all'uso delle armi e ai combattimenti nelle strade, che devono
assicurargli la vittoria sulle folle amorfe.
La gerarchia è dunque di tipo militare, generalmente ricalcata
direttamente su quella dell'esercito: consiste in una piramide la
cui base è formata da gruppi assai piccoli che, uniti gli uni agli
altri formano gruppi sempre più ampi. Così nei reparti d'assalto
nazionalsocialisti (SA) si distinguevano: la squadra (Schar)
composta da 4 a 12 uomini; il plotone (Trupp) comprendente da 3 a 6
squadre; la compagnia (Sturm) comprendente 4 plotoni; il battaglione
(Sturmbann) comprendente due compagnie; il reggimento (Standarte)
comprendente da 3 a 5 battaglioni; la brigata (Untergruppe)
comprendente 3 reggimenti; infine la divisione (Gruppe) comprendente
da 4 a 7 brigate. Secondo le necessità si poteva dunque disporre di
truppe più o meno numerose da lanciare nello scontro.
Rimane, rispetto all'esercito, una differenza importante. L'esercito
costituisce, in generale, un meccanismo di inquadramento
essenzialmente materiale, malgrado l'importanza data al morale delle
truppe. Le organizzazioni fasciste poggiano anche sullo sviluppo di
un'adesione fanatica a dottrine semplicistiche e irrazionali, che
fanno appello a passi oni elementari e violente: nazionalismo,
razzismo, anticomunismo. I membri delle milizie sono soldati, ma
della specie dei monaci-soldati o dei crociati. Non va comunque
dimenticato che intorno alle milizie, nucleo essenziale del partito,
si ammettono anche - analogamente a quanto avviene nei partiti
socialisti e comunisti - iscritti ‛civili', che non hanno però
alcuna importanza e non giocano alcun ruolo.
Partiti molto grossi, costituiti secondo questo modello, si sono
sviluppati in Italia e in Germania tra le due guerre e sono riusciti
a prendere il potere. Negli altri paesi dell'Europa occidentale le
organizzazioni fasciste hanno avuto un'estensione minore, ma si sono
viste sorgere pressappoco dappertutto nello stesso momento. Le
nazioni meno sviluppate dell'Europa orientale e dell'America Latina
sono state ugualmente toccate dal contagio. La vittoria degli
Alleati nel 1945 e il crollo di Mussolini e di Hitler, come anche la
rivelazione degli orrori nazisti, hanno fermato la spinta fascista e
provocato il suo regresso. La costituzione di partiti-milizie,
armati e fanatizzati, rimane tuttavia uno strumento sempre efficace
a disposizione delle classi dominanti per lottare contro i movimenti
rivoluzionari. In questo senso, ‟è ancora fecondo il ventre che
generò l'immonda bestia" (B. Brecht).
3. Le funzioni dei partiti
Che siano conservatori o rivoluzionari, che riuniscano notabili o
inquadrino masse, che funzionino in una democrazia pluralistica o in
una dittatura monolitica, i partiti assolvono nell'insieme alla
stessa funzione: la partecipazione all'esercizio del potere
politico. Nei regimi liberali ciò comporta anche una funzione di
opposizione, che è anch'essa un aspetto del potere, come hanno ben
capito gli Inglesi che fanno del leader dell'opposizione un
personaggio ufficiale; partecipazione e opposizione si alternano
generalmente in una competizione permanente di cui le elezioni sono
le manifestazioni decisive. Queste funzioni dei partiti di fronte al
potere sono inseparabili dal loro carattere rappresentativo: essi
sono o si presume siano espressione di certe categorie della
popolazione, di cui sono i mediatori rispetto al potere politico.
a) I partiti e il potere politico
Conquista, partecipazione, opposizione: queste sono le tre funzioni
essenziali dei partiti rispetto al potere politico. Esse li
distinguono dai gruppi di pressione che tentano non di entrare in
questa dialettica del potere, ma di agire sul potere dall'esterno,
di ‛fare pressione' su di esso dal di fuori.
1. La lotta per il potere. - Si possono distinguere a questo
riguardo i partiti rivoluzionari, che cercano di conquistare il
potere con la violenza (complotti, guerriglia, ecc.), e i partiti
legalitari, che agiscono essenzialmente nel quadro elettorale. La
distinzione non è sempre facile perché gli stessi partiti utilizzano
talvolta tutti e due i metodi, sia simultaneamente, sia
successivamente, secondo le circostanze. Negli anni venti i partiti
comunisti giocavano la partita elettorale pur sviluppando un'azione
sotterranea di natura rivoluzionaria. Oggi, nell'Europa occidentale
utilizzano esclusivamente metodi legali, ma sono obbligati, al
contrario, a utilizzare l'azione rivoluzionaria nei paesi dove è
loro impedito il fare altrimenti. Nel XIX secolo i liberali agivano
allo stesso modo, impiegando talvolta tecniche di complotto (Italia,
Austria, Germania, Russia, Polonia), talvolta la battaglia
elettorale (Gran Bretagna, Francia, ecc.).
I metodi rivoluzionari sono di natura assai varia. I complotti
clandestini, con i quali gruppi di minoranza, energici e armati, si
impadroniscono dei centri nevralgici del potere, presuppongono
governi monarchici o dittatoriali in cui le masse popolari non
giochino che un debole ruolo. Gli attentati terroristici a carattere
spettacolare possono servire a mobilitare i cittadini e a mostrare
l'impotenza del potere. All'inizio del XX secolo i sindacalisti di
sinistra caldeggiavano lo sci opero generale rivoluzionario:
l'arresto totale di ogni attività, paralizzando completamente la
società, avrebbe messo il governo in ginocchio. La guerriglia rurale
è stata molto utilizzata nei paesi prevalentemente agricoli: essa ha
dato la vittoria ai comunisti cinesi, i quali hanno cercato poi di
generalizzare questa loro esperienza. La guerriglia urbana è servita
di base ai rivoluzionari europei del XIX secolo, ed è praticata
anche oggi nella forma del terrorismo.
I partiti rivoluzionari sono poco numerosi rispetto a quelli
legalitari. La scheda elettorale è l'arma normale dei partiti nella
lotta per la conquista del potere; d'altro canto è sul terreno
elettorale che nasce originariamente il partito politico. In questo
campo i partiti esercitano una triplice funzione: organizzano la
propaganda, selezionano i candidati, partecipano al finanziamento
della campagna. La prima funzione è la più evidente. Il partito dà
innanzitutto al candidato la sua etichetta, che serve da biglietto
da visita per gli elettori. Questi ultimi possono così meglio
distinguere i candidati, dato che le promesse e le dichiarazioni,
per lo più, si somigliano tutte e non significano granché: sapere
che il tale è comunista, il tal altro è socialista, quello è
fascista e quell'altro liberale è molto più istruttivo. Il partito
fornisce inoltre al candidato i militanti che attaccano i manifesti,
distribuiscono i volantini, organizzano le riunioni, vanno di porta
in porta, e così via. Tuttavia, il ruolo dei partiti in questo campo
si va indebolendo nelle nazioni industrializzate, dove i candidati
fanno sempre di più ricorso ad agenzie di pubblicità.
La selezione dei candidati resta invece una funzione essenziale dei
partiti, che la traducono in pratica in tre forme principali. Nei
partiti di quadri, i candidati sono designati dai comitati di
notabili che costituiscono il partito: è quello che gli americani
chiamano il sistema del caucus. In generale il comitato locale
svolge, a questo proposito, il ruolo principale. Tuttavia, in alcuni
partiti (Partito Conservatore britannico, Unione dei Democratici per
la Repubblica in Francia, ecc.) la designazione è accentrata da un
caucus nazionale. Nei partiti di massa la designazione è fatta dagli
iscritti, in congressi regionali o nazionali, seguendo il metodo
all'apparenza democratico del voto per mandato (v. sopra, cap. 2, È
b, 1): in realtà i comitati direttivi svolgono un ruolo essenziale,
dato che, in genere, gli iscritti ratificano le loro scelte. Negli
Stati Uniti, infine, il meccanismo delle primarie ha stabilito un
terzo sistema di selezione dei candidati: la designazione da parte
degli elettori del partito secondo diverse modalità (v. sopra, cap.
2, È a, 2). I vari metodi non differiscono molto quanto ai
risultati. I dirigenti dei partiti giocano sempre il ruolo
essenziale nella designazione dei candidati, il che introduce in
certa misura, nel gioco democratico, un meccanismo oligarchico di
cooptazione. I congressi dei partiti di massa e le primarie
americane apportano solo qualche limitazione al potere dei comitati
direttivi.
Infine, i partiti hanno un ruolo importante nel finanziamento delle
elezioni. I partiti di quadri hanno sempre nei loro comitati qualche
notabile influente presso gli uomini d'affari, incaricato di
raccogliere i loro contributi, che costituiscono il grosso del
finanziamento delle elezioni e, in generale, delle attività del
partito. Nei partiti di massa, anziché ricavare in questo modo
grosse somme da pochi singoli, si raccolgono somme piccole,
regolarmente versate (ogni anno o ogni mese) da un gran numero di
persone: abbiamo già visto che questo sistema è una delle basi
fondamentali dei partiti di massa.
Qualche volta la legge interviene nel finanziamento delle elezioni e
dei partiti. Vi sono anzitutto norme che limitano le spese
elettorali e prevedono il controllo delle risorse dei partiti: in
generale sono inoperanti, perché è facile aggirarle. Esistono poi
norme che stabiliscono una partecipazione dello Stato alle spese
elettorali attraverso l'erogazione di fondi pubblici. Inizialmente
limitata alle spese elettorali e basata sull'eguaglianza dei
candidati (Francia), questa partecipazione tende attualmente a
divenire un finanziamento del partito stesso e a essere calcolata
proporzionalmente ai suffragi ottenuti nell'ultima elezione
legislativa (Scandinavia e Italia). Una simile evoluzione è conforme
alla logica della democrazia liberale.
2. La partecipazione al potere. - Ci occuperemo in questo paragrafo
solo delle funzioni dei partiti nei regimi pluralistici: il ruolo
del partito unico nelle dittature è analizzato più avanti (v. sotto,
cap. 5). Tali funzioni consistono essenzialmente nell'inquadrare
l'azione parlamentare, ed eventualmente di governo, dei candidati
eletti. Sotto questo aspetto, è fondamentale la distinzione fra
partiti elastici e partiti rigidi. Nei primi l'azione del partito
sui suoi eletti è molto debole: assicura il loro coordinamento
attraverso riunioni periodiche in cui essi confrontano i rispettivi
punti di vista e definisce le linee generali; si tratta però di
linee fluide e sono poche le decisioni comuni prese in queste
riunioni. Ciascun parlamentare conserva una grande libertà d'azione:
negli interventi ai dibattiti, nella partecipazione al governo e
soprattutto nell'esercizio del voto. Nelle assemblee contano dunque
gli individui piuttosto che i partiti. Questo è il caso dei partiti
statunitensi, della maggior parte dei partiti liberali e
conservatori europei, dei partiti di quadri in generale.
I partiti rigidi sono assai differenti. Le decisioni fondamentali
della vita parlamentare - partecipazione al governo, votazioni
importanti e, in particolare, voto di fiducia o di censura - vengono
prese dagli organi di partito e sono vincolanti per gli eletti sotto
pena di gravi sanzioni (generalmente l'espulsione definitiva). La
conseguenza è un capovolgimento nella natura delle assemblee, nelle
quali non contano più gli individui, ma i gruppi disciplinati. Un
tale sistema si è inizialmente affermato in Gran Bretagna, in cui i
partiti conservatore e liberale del XIX secolo erano già rigidi,
fatto eccezionale per dei partiti di quadri. Si è in seguito
sviluppato con la crescita dei partiti socialisti che hanno tutti
adottato una struttura rigida. Gli altri partiti di massa
(comunisti, fascisti, ecc.) hanno seguito la stessa strada, e così
pure i partiti democratico-cristiani e alcuni partiti conservatori e
liberali.
Attualmente, la maggior parte delle democrazie dell'Furopa
occidentale poggia su partiti rigidi. Un regime politico fondato su
organizzazioni è qui subentrato a un regime fondato su notabili. Ciò
ha reso i governi più stabili e più efficaci. Se il primo ministro
inglese è sicuro di non essere rovesciato dal Parlamento, se riesce
sempre a far votare i suoi progetti di legge dai deputati, non è
solo per il fatto che un unico partito detiene la maggioranza, ma
ancor più perché si tratta di un partito rigido, in cui cioè tutti i
deputati votano secondo le consegne ricevute dai propri organismi
direttivi, e in cui tali consegne dipendono largamente dal leader,
che è appunto il primo ministro. Nel quadro del sistema americano
del partito elastico, un governo parlamentare a Washington
rischierebbe d'essere debole e instabile quanto quelli della Terza o
della Quarta Repubblica Francese. Nel caso di maggioranze di
coalizione, la rigidità dei partiti assicura la stabilità delle
alleanze, come si può vedere in Scandinavia, nei Paesi Bassi, nella
Repubblica Federale Tedesca.
Il carattere rigido dei partiti provoca talvolta un conflitto tra
parlamentari e dirigenti interni . Nel Partito Conservatore e nel
Partito Liberale britannici del XIX secolo il conflitto non esisteva
poiché i parlamentari erano al tempo stesso i dirigenti interni:
essi designavano il leader e prendevano le decisioni concernenti le
votazioni e la partecipazione al governo. Nel Partito Laburista e
nei partiti di massa il conflitto si sviluppa poiché esistono
dirigenti interni distinti dai parlamentari: rappresentanti delle
organizzazioni che costituiscono il partito nel primo caso, eletti
dagli iscritti nel secondo. Di norma i comitati direttivi sono
formati da una maggioranza di dirigenti interni: i parlamentari vi
si trovano in minoranza. L'esercizio del voto e la partecipazione al
governo sono così determinati dall'esterno, almeno parzialmente.
Il conflitto è tanto più grave in quanto riflette le differenze fra
due comunità di base: quella degli elettori, che designano i
parlamentari, e quella dei militanti, che designano i dirigenti
interni. I primi sono naturalmente meno attaccati al partito, meno
sensibili alla sua ideologia, più moderati e meno politicizzati di
quanto lo siano i secondi. Così i conflitti tra parlamentari e
dirigenti interni sono stati vivi in alcuni partiti socialisti
europei tra il 1918 e il 1939, quando era sensibile lo scarto tra
l'elettorato, già largamente integrato nel sistema capitalista, e
gli iscritti, più fedeli all'ideale collettivista. Dopo il 1945 c'è
stato un riavvicinamento tra iscritti ed elettorato, e i conflitti
si sono smussati (salvo che in circostanze speciali: particolarmente
il voto sulla Comunità Europea di Difesa da parte del Partito
Socialista francese). In ogni modo si osserverà che il conflitto non
opponeva la totalità dei parlamentari alla totalità dei dirigenti
interni, ma nasceva dalla diversità degli orientamenti maggioritari
in ciascuna delle categorie. D'altronde, nei partiti molto
disciplinati e centralizzati - quali i partiti comunisti - simile
conflitto non è mai esistito, non essendo contestata da parte dei
deputati l'autorità dei dirigenti interni.
3. La funzione di opposizione. - Nelle democrazie pluraliste
l'opposizione e la partecipazione al potere non sono radicalmente
separate. Uno degli organi del potere, il parlamento, è anche il
luogo privilegiato per l'esercizio dell'opposizione. La distinzione
fra partiti elastici e partiti rigidi, che abbiamo appena ricordato,
vale non solo per i partiti al governo, ma anche per quelli
all'opposizione. I voti di censura o di sfiducia, i voti di rigetto
dei progetti di legge o del bilancio, le interrogazioni ai ministri
e al governo: in generale, tutta l'opposizione in seno al parlamento
si svolge in modo diverso a seconda che sia esercitata da un partito
elastico o rigido.
Sotto certi aspetti la differenza è addirittura maggiore
all'opposizione che al governo. L'esercizio del potere, infatti,
stabilisce una solidarietà fra quanti vi sono associati: costituisce
per essi un cemento di unità. In un sistema di partiti elastici
l'indisciplina è quindi più grave all'opposizione che al governo.
Solo dei partiti rigidi possono costituire una forza d'opposizione
sufficientemente solida per controbilanciare il potere. Al tempo
stesso, la disciplina permette di dare all'opposizione il carattere
di un'‛alternativa' alla maggioranza: lo sbocco del sistema è il
‛gabinetto ombra' inglese, che abitua gli elettori all'idea che è
pronta una équipe di ricambio. Ciò tuttavia presuppone che
l'opposizione sia formata da un solo partito o da una coalizione
abbastanza ristretta: se è divisa fra un partito di estrema destra e
un partito di estrema sinistra risulta paralizzata. Ma perfino in
questo caso la disciplina dei partiti rigidi le conferisce minore
debolezza.
I partiti sono, d'altro canto, gli organi che mantengono il contatto
fra l'opposizione e l'opinione pubblica. Svolgono questo ruolo anche
al governo, ma in tal caso esso è meno necessario, perché l'apparato
dello Stato già consente il contatto. Dato che l'opposizione non
dispone invece di nessuno strumento del genere, la funzione dei
partiti è in questo caso essenziale; e rappresenta anzi una
necessità in una democrazia pluralistica, dove i partiti
d'opposizione, dando espressione alle proteste contro le decisioni
del governo, svolgono un ruolo in certo modo affine a quello dei
tribuni della plebe nella Repubblica romana. Ciò giustifica il fatto
che i partiti di opposizione abbiano un ruolo quasi istituzionale,
come in Gran Bretagna, e siano addirittura sovvenzionati dallo Stato
- come tutti gli altri partiti - in alcuni paesi europei.
b) La funzione rappresentativa
I partiti non sono solo organizzazioni di natura tecnica per
designare candidati, finanziare elezioni e inquadrare parlamentari.
Sono anche raggruppamenti di uomini, sono collettività, comunità.
1. La comunità partitica. - A questo proposito si pongono problemi
diversi: quello della comunità costituita dal partito stesso e
quello della o delle categorie sociali di cui esso è espressione.
L'uno e l'altro sono problemi assai complessi. I classici partiti di
quadri raggruppano alcune migliaia di persone tramite una piramide
di comitati locali e regionali riuniti in una federazione alquanto
elastica. L'adesione ai comitati non riveste carattere formale e
spesso è abbastanza difficile distinguere gli autentici membri del
partito dalla clientela che gravita loro intorno. Ad ogni modo la
comunità partitica è qui formata da professionisti della politica o
comunque da persone molto interessate, che vi consacrano una parte
notevole della loro attività. All'interno dei comitati, si formano
naturalmente cricche intorno a questa o quella personalità; anche la
ripartizione dell'autorità nell'insieme del partito avviene
soprattutto secondo i clan costituiti intorno ai vari dirigenti
nazionali, piuttosto che in modo formale organizzato.
Nei partiti di massa la comunità partitica è meglio delimitata e più
rigorosamente organizzata. Uno specifico meccanismo permette di
determinare chi è membro del partito e chi non lo è. Firmare una
scheda di iscrizione significa entrare nella comunità. Per restarvi
è necessario in seguito pagare regolarmente una quota. I confini del
partito sono dunque, in teoria, esattamente definiti. In pratica le
cose sono meno semplici. Molti iscritti non vanno quasi mai alle
riunioni e hanno con il partito legami molto deboli: nei partiti
socialisti, di solito, ciò avviene nella misura dei due terzi o dei
tre quarti dei membri. Inversamente, certe persone formalmente non
aderenti al partito, ne seguono tuttavia assai dappresso la vita, in
particolare attraverso le organizzazioni annesse (movimenti
giovanili, associazioni femminili, sindacati, club diversi, ecc.).
Comunque sia, quando un partito di massa ha successo rappresenta
un'importante comunità: 800.000 membri per il Partito
Socialdemocratico tedesco, 800.000 per il Partito Socialista svedese
(cioè un decimo della popolazione), un milione di membri per il
Partito Comunista italiano, 400.000 per il Partito Comunista
francese, ecc. Per le loro dimensioni, tali collettività sono
costrette - a differenza dei partiti di quadri - a darsi una
struttura formale precisa e complessa, con gruppi di direzione ai
vari livelli e responsabili incaricati delle diverse funzioni.
All'interno della massa degli iscritti si costituisce così una
cerchia ristretta di persone più direttamente associate alla vita
del partito, cerchia che, nell'insieme, somiglia alla collettività
di notabili che forma il partito di quadri.
Tutti i partiti includono, inoltre, una collettività più larga,
quella dei loro elettori. In generale, nei paesi di solida
democrazia, la maggioranza dell'elettorato resta stabile per un
lungo periodo e i cambiamenti di orientamento riguardano solo una
piccola minoranza. Perciò i partiti di quadri conoscono due gruppi
concentrici: quello degli attivisti e quello degli elettori. Al
contrario nei partiti di massa una terza cerchia si interpone fra le
due precedenti: quella degli iscritti.
Sul terreno elettorale, s'incontra il problema delle categorie
sociali di cui i partiti sono - o si ritiene siano - espressione.
Per i marxisti la soluzione è relativamente semplice: i partiti sono
gli strumenti politici delle classi sociali, che per il loro tramite
agiscono nella vita politica. Non si tratta di una rappresentanza
soggettiva, legata al fatto che gli elettori di una classe votano
per un partito, quelli di un'altra classe per un altro partito e
così via. Si tratta di una rappresentanza ‛oggettiva', legata al
fatto che il partito esprime e difende gli interessi di una classe
determinata: beninteso, nella misura in cui i membri di tale classe
ne sono coscienti, appoggiano effettivamente il partito con i loro
suffragi e la loro adesione. Ma anche se non ne sono coscienti e non
appoggiano il partito, non per questo esso cessa di essere
espressione della classe di cui difende gli interessi.
Questa teoria solleva numerose difficoltà, in particolare circa la
definizione delle classi sociali e il criterio per determinare i
loro interessi oggettivi. Non si deve tuttavia dimenticare che
nell'Europa dell'Ottocento, in cui il marxismo è nato, i partiti si
sono sviluppati essenzialmente dalle classi sociali: i conservatori
esprimevano l'aristocrazia, i liberali la borghesia e i socialisti
il ‛proletariato', anche se la determinazione di queste tre classi
non era rigorosa, nè era del resto assoluta la loro corrispondenza
con i partiti. D'altro canto, partiti che sembrano poggiare su
categorie sociali diverse dalle classi si rivelano spesso, in
realtà, basati proprio su di esse: per esempio, molti partiti
religiosi o nazionalisti mascherano appunto la difesa di interessi
di classe. Tuttavia certi partiti sono effettivamente espressione di
gruppi differenti dalle classi: per esempio minoranze etniche o
religiose, sette, e così via. D'altra parte, nelle società
industriali le classi assumono una struttura molto complessa e
fortemente diversificata: la corrispondenza tra esse e i partiti
tende probabilmente ad attenuarsi.
Può inoltre accadere che il richiamo stesso esercitato da un partito
divenga il fondamento di una comunità particolare. La visione
idealista dei liberali del XIX secolo, secondo cui i partiti sono
gruppi basati sulle dottrine cui si aderisce perché sono considerate
giuste, è assai distante dalla realtà. Un'ideologia esprime in
generale gli interessi e gli obiettivi di una categoria sociale, che
le preesisteva e la utilizza nella propria rivalità con altre
categorie sociali. Tuttavia, rimane vero che una parte degli
iscritti e dei militanti di un partito lo ha scelto proprio sulla
base di un atteggiamento ‛idealistico': il liberalismo e il
socialismo, in particolare, hanno in questo modo esteso la loro
influenza molto al di là delle classi di cui esprimono gli
interessi. Infine, non è da dimenticare che l'adesione a un partito
risulta talvolta da una tradizione familiare o locale, senza altri
fondamenti: alcuni americani sono repubblicani o democratici di
padre in figlio. Ciò appare come una degenerazione del sistema.
2. La tendenza oligarchica. - I partiti politici moderni
costituiscono una delle forme dello sviluppo generale - in atto da
circa un secolo e mezzo - delle organizzazioni che inquadrano grandi
masse umane. Altre forme sono costituite dai sindacati operai, dagli
eserciti, dalle chiese, dalle grandi aziende, dalle grandi
amministrazioni ecc. Tutte le organizzazioni hanno come effetto la
sottomissione - diretta o indiretta - di tutti gli uomini che
inquadrano all'autorità di un gruppo dirigente: tendono così a porre
una maggioranza sotto il controllo di una minoranza, secondo la
‛legge ferrea dell'oligarchia' formulata oltre mezzo secolo fa
(1911) da R. Michels proprio a proposito dei partiti politici.
Sennonché questi ultimi - e altre organizzazioni come i sindacati
operai, alcuni movimenti contadini, ecc. - hanno anche lo scopo di
permettere ai propri membri di esercitare realmente le loro
prerogative di cittadini. I partiti politici e le altre
organizzazioni dello stesso tipo poggiano dunque su una
contraddizione di fondo: da un lato, sono necessari all'esercizio
della democrazia, dall'altro, tendono a distruggerla o almeno a
indebolirla.
Non vi è democrazia senza partiti politici. Perché i cittadini
possano scegliere con cognizione di causa il loro deputato o il loro
presidente è necessario che conoscano le tendenze e gli orientamenti
dei diversi candidati. I programmi e le promesse di ciascuno non
sono a questo proposito sufficienti: per ottenere il massimo dei
suffragi tutti cercano di evitare gli argomenti scottanti, le scelte
chiare, le questioni controverse; tendono tutti a parlare lo stesso
linguaggio, cioè a camuffare il proprio pensiero. È solo il fatto
che l'uno sia socialista, l'altro conservatore o liberale, l'altro
comunista, che permette all'elettore di vederci un po' chiaro. In
parlamento la disciplina di partito limita la possibilità degli
eletti di mutare opinioni e politica, e garantisce una (relativa)
continuità alla scelta fatta dagli elettori. Più in generale, i
partiti permettono il dialogo politico, sintetizzando le differenti
posizioni in gioco, delle quali ciascuno di essi è un incarnazione
più o meno compiuta. Perfino il partito unico assicura un certo
contatto tra il popolo e il potere, contatto inesistente nelle
dittature senza partito.
Ma i partiti, come ogni altra organizzazione che inquadri degli
uomini, tendono a manipolare i propri membri, a piegarli alle
direttive definite dalla cerchia interna dei dirigenti, che tende
anch'essa a sfuggire al controllo degli iscritti e a perpetuarsi
attraverso il metodo della cooptazione. Nei partiti di quadri gli
elettori sono manipolati da comitati in cui il potere è esercitato
da un certo numero di personaggi, secondo il meccanismo dei clan che
abbiamo descritto. Nei partiti di massa i dirigenti sono in teoria
designati dai loro iscritti, ma di fatto vengono rielette sempre le
stesse persone, che tengono solidamente in mano l'apparato e
dispongono così di tutti i mezzi di manipolazione con cui perpetuare
la propria posizione. Nè si tratta del resto di una manipolazione
materiale - scrutini truccati ecc. - ma di una manipolazione morale:
i dirigenti hanno i mezzi per conservare la fiducia degli iscritti.
Le democrazie pluralistiche poggiano dunque, più o meno, sulla
competizione di oligarchie rivali. Nelle dittature l'apparato del
partito rafforza l'autorità del capo e nel contempo lo mette in
contatto con le masse. Tuttavia la tendenza oligarchica non può mai
dispiegarsi liberamente. Perfino in un partito unico non è possibile
ignorare totalmente l'opinione della base, e ancor meno è possibile
nei partiti competitivi dei regimi liberali. La ‛legge ferrea
dell'oligarchia' non funziona da sola, ma deve integrarsi sempre con
la necessità di tener conto delle masse inquadrate
nell'organizzazione. L'esperienza mostra che, se la manipolazione
può essere spinta assai avanti quando l'inquadramento è
monopolistico, essa resta più limitata in un sistema di
inquadramento concorrenziale.
Ma, soprattutto, l'oligarchia che tende a costituirsi all'interno
dei partiti è meno oligarchica, se possiamo dire così, delle
oligarchie politiche precedenti, fondate sulla nascita o sul censo.
La formazione dei partiti, e soprattutto dei partiti di massa, ha
permesso l'emergere di élites politiche di più diretta derivazione
popolare, attraverso procedure meno lontane dalla democrazia di
quelle delle aristocrazie ereditarie. Ad ogni modo, nessuna
democrazia moderna può funzionare senza partiti. Lo svilupparsi, al
loro interno, di tendenze oligarchiche rivela semplicemente i limiti
pratici di ogni regime democratico. Bisogna però prendere coscienza
del fatto che questi limiti tendono a divenire più angusti a causa
dell'evoluzione delle società moderne verso tecnostrutture che
rafforzano la ‛legge ferrea dell'oligarchia'.
4. Bipartitismo e pluripartitismo
Bipartitismo e pluripartitismo sono le due varianti del sistema
pluralistico che caratterizza le democrazie liberali. Il sistema
pluralistico si oppone al partito unico, che costituisce la forma
moderna delle dittature e che sarà studiato nel capitolo seguente.
La distinzione fra bipartitismo e pluripartitismo non è sempre così
chiara come si potrebbe credere. Esistono sempre, in un sistema
bipartitico, piccoli partiti oltre ai due maggiori. Non se ne tiene
però conto se non impediscono all'uno o all'altro dei due partiti
maggiori di raccogliere da solo la maggioranza assoluta dei seggi
parlamentari. Questo è, ad esempio, il caso della Gran Bretagna. Ma
si trovano anche situazioni intermedie: l'Austria e la Repubblica
Federale Tedesca sono, ad esempio, attualmente vicine al
bipartitismo senza poter essere completamente inserite in questa
categoria. Vedremo d'altronde che la definizione di bipartitismo non
è una faccenda meramente numerica; intervengono infatti anche altri
elementi tra cui, in particolare, la disciplina interna.
a) Il pluripartitismo
Nei paesi anglosassoni vi è la tendenza a considerare il
bipartitismo come normale e il pluripartitismo come eccezionale.
Sembra vero piuttosto il contrario. Il bipartitismo, che funziona
soprattutto in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda
(per limitarsi alle nazioni industriali), è molto più raro del
pluripartitismo, che si estende a quasi tutta l'Europa occidentale,
al Canada, all'Australia, al Giappone, a Israele, all'India, ecc.
1. Le basi sociali del pluripartitismo. - Il pluripartitismo sembra
corrispondere meglio all'evoluzione delle forze sociali nelle
nazioni industrializzate. Nell'Europa occidentale almeno tre grandi
categorie di partiti si sono sviluppate a partire dall'inizio del
XIX secolo: i partiti conservatori, i partiti liberali e i partiti
socialisti. Ciascuna corrisponde nel contempo a una classe sociale,
a un'ideologia politica e a un'organizzazione. Dopo la prima guerra
mondiale sono emerse altre categorie di partiti, inizialmente con
caratteristiche meno originali, dato che - piuttosto che categorie
veramente nuove - erano il frutto di un frazionamento o di una
trasformazione di partiti preesistenti. I partiti comunisti si sono
in genere organizzati in seguito a scissioni di partiti socialisti
preesistenti. Il fascismo è una forma nuova di conservatorismo. I
partiti democratico-cristiani hanno cercato di raggruppare
socialisti moderati, conservatori moderati e liberali.
A fianco di queste grandi formazioni di base - conservatori,
liberali, socialisti, comunisti, democristiani, fascisti - si
trovano, in taluni paesi, delle tendenze particolari. In Scandinavia
si è sviluppato, a partire dal XIX secolo, un Partito Liberale
Rurale, distinto sia dal Partito Conservatore che dal Partito
Liberale propriamente detto: ciò corrisponde a una vecchia
tradizione di rappresentanza contadina separata nelle assemblee
degli stati. Nei Paesi Bassi la tendenza conservatrice fin
dall'inizio si è scissa in due partiti, uno cattolico e l'altro
protestante, mentre quest'ultimo si è in seguito diviso in
‛antirivoluzionari' e ‛cristiani storici'. In Francia, moderati ed
estremisti hanno in genere costituito - all'interno di ogni
categoria - partiti distinti: orleanisti e legittimisti, liberali e
giacobini ecc. In numerosi paesi le minoranze etniche sono servite
da base a partiti nazionalisti che si sono aggiunti agli altri
partiti o ne hanno provocato la scissione.
Senza dubbio queste tendenze alla moltiplicazione dei partiti non
devono essere esagerate. Per esempio, i tre grandi gruppi -
conservatori, liberali e socialisti - non si sono semplicemente
contrapposti gli uni agli altri. La lotta politica ha inizialmente
posto in conflitto i primi due. La comparsa del socialismo ha
sconvolto i termini dello scontro, spingendo a un ravvicinamento
conservatori e liberali per la difesa comune della libera impresa e
del capitalismo. La logica del sistema avrebbe dovuto portare alla
fusione dei conservatori e dei liberali in un partito ‛borghese'
avverso ai socialisti, cioè alla trasformazione di un bipartitismo
in un altro. Ciò, come vedremo più oltre, è avvenuto in Gran
Bretagna. Ma le organizzazioni resistono sempre alla pressione delle
forze sociali che tendono a farle scomparire: alcuni partiti
liberali indipendenti, benché ridotti e malgrado non corrispondano
alle strutture e ai bisogni delle società attuali, sono riusciti a
preservare la propria indipendenza, resistendo alle pressioni che li
spingevano a fondersi con i vecchi partiti conservaton in una grande
formazione del tipo dell'attuale Partito Conservatore inglese, o
della Democrazia Cristiana tedesca o italiana.
2. Le basi tecniche del pluripartitismo. - Il processo di sviluppo
delle società industriali, quale si è svolto in Europa, tendeva
piuttosto a moltiplicare il numero dei partiti, secondo lo schema
che abbiamo appena descritto. Intervengono però dei fattori tecnici
che possono accelerare o frenare il processo in questione. Il più
noto è il sistema elettorale. Nel 1951 si è cercato di riassumerne
gli effetti attraverso queste tre formule: a) la rappresentanza
proporzionale tende verso il pluripartitismo; b) il sistema
maggioritario a un turno (anglosassone) tende verso il bipartitismo;
c) il sistema maggioritario a due turni a un pluripartitismo
temperato dalle alleanze. Riguardo al pluripartitismo, la prima
formula è la più importante, visto che lo scrutinio maggioritario a
due turni è assai raro e ha funzionato solo nell'Impero tedesco
(1871-1914) e nella Francia della Terza (1871-1940) e della Quinta
Repubblica (dopo il 1958).
Non si può dire che la proporzionale abbia realmente l'effetto di
moltiplicare i partiti, come troppo spesso si sostiene. I partiti
rappresentano forze sociali e una legge elettorale, o qualsiasi
altro strumento tecnico, non può farli scaturire dal nulla. La
verità è che la proporzionale non oppone alcun argine alla comparsa
di nuovi partiti e non esercita alcuna pressione per la scomparsa di
quelli vecchi. Si potrebbe dire che essa è neutra, passiva. Nei
sistemi maggioritari i piccoli partiti sono sempre più o meno
svantaggiati: ciò ostacola i nuovi venuti o i partiti in declino, e
limita le scissioni e le spaccature dei partiti esistenti. La
proporzionale ha così salvato dalla scomparsa il Partito Liberale
belga, il Partito Liberale austriaco, il Partito Liberale tedesco;
ha favorito la comparsa dei partiti fascisti nell'Europa degli anni
1920-1940, quella dell'MRP nella Francia del 1945, ecc.
Lo scrutinio maggioritario a due turni (sistema francese) è meno
neutrale e meno passivo, ma è un poco svantaggioso per i partiti
deboli. Tuttavia lascia loro grandi possibilità, attraverso il
secondo turno, a condizione che siano disposti a entrare nelle
alleanze elettorali. Grande è la differenza rispetto al meccanismo
rigido del sistema maggioritario a un solo turno, che spinge molto
energicamente nel senso del bipartitismo, come vedremo più avanti.
Non si dimentichi, tuttavia, che l'analisi del sistema maggioritario
a due turni è molto difficile a causa della sua rarità: le assemblee
dell'Impero tedesco non avevano che scarsi poteri decisionali, e la
Francia tra il 1871 e il 1939 e dopo il 1958 costituisce il solo
esempio di nazione industriale moderna che adotti questo sistema
elettorale.
Un altro fattore tecnico sembra sia costituito dalla stabilità o
instabilità del regime politico. Nella Francia del XIX secolo, ad
esempio, sembra che il frequente mutamento di regime costituisse un
elemento supplementare di divisione politica, in aggiunta al gioco
delle forze sociali che abbiamo descritto. Era possibile trovare
così - tra il 1830 e il 1848 - conservatori contrari e conservatori
favorevoli a Luigi Filippo, e - tra il 1851 e il 1870 - conservaton
contrari e conservatori favorevoli a Napoleone III, come pure
liberali favorevoli e liberali contrari. Fenomeni analoghi sembrano
aver accresciuto il numero dei partiti tedeschi dopo la prima guerra
mondiale, quando la contestazione della Repubblica di Weimar si
aggiungeva - attraversandoli - agli altri conflitti politici. È
d'altronde possibile discutere se si tratti di un dato ‛tecnico' o
‛politico', dal momento che la struttura e la natura di un regime,
al di là dell'assetto tecnico dei poteri pubblici, mettono in gioco
l'organizzazione fondamentale della società.
Lo stesso può dirsi di un altro fattore che favorisce il
pluripartitismo: se, all'interno di un dato schieramento, c'è una
forte ala estremista, sarà difficile che i moderati accettino di
confluire con gli estremisti in un unico partito; prevarrà piuttosto
la tendenza a formare due organizzazioni rivali. Così la forza dei
‛giacobini' tra i liberali francesi del XIX secolo ha contribuito a
impedire il formarsi di un unico grande partito liberale come in
Gran Bretagna. Ugualmente, la forza degli ultras tra i conservatori
ha rappresentato un ostacolo allo sviluppo di un grande partito
conservatore. Il fenomeno, beninteso, non è a senso unico: la
divisione dei liberali ha a sua volta favorito in seguito il
giacobinismo e quella dei conservatori l'oltranzismo.
3. Il funzionamento del pluripartitismo. - La distinzione tra
pluripartitismo e bipartitismo è capitale, poiché corrisponde a
quella fra due tipi di regimi politici occidentali. Alcuni pensano
che, per la comprensione del funzionamento delle istituzioni
politiche dell'Occidente, la distinzione fra regimi bipartitici e
regimi pluripartitici sia più importante di quella fra regimi
parlamentari e regimi presidenziali. In un regime bipartitico, in
effetti, il governo dispone di una maggioranza sicura in parlamento,
formata da un solo partito: vi sono dunque garanzie di durata e di
efficienza. Oggi si tende a definire questo sistema ‛parlamentarismo
maggioritario'. In un regime pluripartitico, al contrario, è assai
raro che un partito disponga, da solo, della maggioranza
parlamentare. Dovendo di conseguenza poggiare su coalizioni,
caratterizzate inevitabilmente da una maggiore fragilità ed
eterogeneità, i governi saranno meno forti e meno stabili. Si tende
a definire questo sistema ‛parlamentarismo non maggioritario'.
In realtà, la distinzione fra parlamentarismo maggioritario e non
maggioritario non coincide esattamente con quella fra bipartitismo e
pluripartitismo. Innanzitutto, se entrambi i partiti sono elastici e
non assoggettano a disciplina il voto dei loro deputati (come è il
caso degli Stati Uniti), la maggioranza numerica di un unico partito
non significa nulla: più avanti torneremo su questa situazione.
Inoltre può succedere che anche in un sistema pluripartitico un
partito detenga da solo la maggioranza assoluta dei seggi
parlamentari. Se si tratta di un fatto eccezionale - come nella
Germania federale, in Italia e in Belgio nel corso di alcune
legislature successive al 1945 - la logica del sistema permane
immutata. Diversamente vanno le cose se una tale maggioranza si
perpetua per un lungo periodo; si ha allora una situazione di
partito dominante: questo è stato il caso dell'India dal 1950 al
1969.
Si noterà come si tratti di un paese dove non vigeva la
proporzionale: ciò è importante, poiché il Partito del Congresso,
non avendo mai ottenuto la maggioranza dei suffragi, poteva dominare
in parlamento grazie al sistema maggioritario. Si noterà ancora come
si tratti di un paese di recente indipendenza, in cui il partito
dominante era stato l'animatore principale della lotta di
liberazione ed era il solo che si presentasse come un partito
nazionale, mentre i suoi avversari avevano un'influenza
esclusivamente locale; fenomeni analoghi sono frequenti in
situazioni simili (Africa del Nord, Africa Nera negli anni
immediatamente successivi all'indipendenza). Comunque sia, il
meccanismo del partito dominante ha dato all'India venti anni di
stabilità politica, assicurando ai suoi governi durata e possibilità
d'azione; tale meccanismo rappresenta una delle tecniche che
permettono il funzionamento di un ‛parlamentarismo maggioritario'
nel quadro del pluripartitismo. Dal 1962 vige in Francia un sistema
abbastanza simile.
Situazioni del genere restano eccezionali. Di norma, solo una
coalizione permette una maggioranza parlamentare nel quadro del
pluripartitismo, e, ovviamente, tali coalizioni sono più eterogenee
e più fragili del blocco formato da un solo partito. Tuttavia le
situazioni variano notevolmente, secondo il grado di disciplina e di
organizzazione dei partiti coalizzati. Quando si tratta di partiti
elastici, poco disciplinati, i cui parlamentari votano ciascuno
secondo la propria preferenza personale, la coalizione risulta assai
debole, molto eterogenea e in genere poco durevole. L'instabilità e
l'impotenza dei governi giungono allora al culmine. La Terza
Repubblica francese fornisce un buon esempio di una tale situazione.
Solo il Partito Socialista e quello Comunista erano disciplinati; ma
il secondo non ha partecipato, prima del 1936, a nessuna coalizione
e il primo - sempre prima del 1936 - formava solo una frazione del
‛cartello delle sinistre', in cui i radicali e i repubblicani del
centro occupavano il posto principale.
Se invece i partiti alleati sono rigidi e disciplinati e, in
particolare, se i loro parlamentari votano tutti nello stesso modo
secondo le indicazioni degli organi direttivi - come nei partiti
britannici, nei partiti socialisti europei, nei partiti comunisti,
ecc. - la coalizione è molto più stabile e molto più coerente. Si
può allora arrivare a un sistema assai vicino al bipartitismo nel
caso si costituiscano due alleanze che si fronteggiano, una a
sinistra e l'altra a destra, durante tutto il corso della
legislatura. Questo tipo di coalizione prende il nome di
‛bipolarizzazione' e introduce, se così possiamo dire, una sorta di
bipartitismo nel pluripartitismo. In Svezia, in Norvegia e in
Danimarca si sta sviluppando da qualche anno un meccanismo del
genere, che oppone da un lato i tre partiti cosiddetti ‛borghesi' -
conservatore, liberale e agrario - e dall'altro il Partito
Socialdemocratico, alleato, eventualmente, al Partito Comunista. La
Repubblica Federale Tedesca si muove nella stessa direzione, con
l'alleanza dei socialisti e dei liberali da un lato e la Democrazia
Cristiana dall'altro.
Dopo il 1962 la Francia sembrava esitare tra un sistema bipolare di
questo genere e una situazione di partito dominante. Alle elezioni
legislative del 1962, del 1967 e del 1968 e alle elezioni
presidenziali del 1965 si è assistito allo scontro tra la coalizione
gollista (U.D.R., repubblicani indipendenti e una parte dei
centristi) e la coalizione delle sinistre (radicali, socialisti,
comunisti): solo alcuni gruppi del centro sono rimasti fuori da
queste grandi alleanze, con notevoli perdite. Alle elezioni
presidenziali del 1969 mancò invece l'alleanza delle sinistre
(realizzatasi invece nelle elezioni successive e poi nuovamente
entrata in crisi) e i radicali e i socialisti si batterono
separatamente dai comunisti. Dato che socialisti e radicali
rappresentavano insieme appena il 20% dei suffragi e il Partito
Comunista poco di più (20-22%), nessuno dei due gruppi poteva
fronteggiare da solo la maggioranza gollista: il blocco
maggioritario assunse allora le vesti di partito dominante.
Al sistema di alleanze bipolari si oppone il sistema di alleanza
centrista: in luogo della situazione caratterizzata dalla
contrapposizione tra un'alleanza dei partiti di sinistra (compresi
quelli di centro-sinistra) e un'alleanza dei partiti di destra
(compresi quelli di centro-destra), può configurarsene un'altra, in
cui centro-destra e centro-sinistra si alleano, respingendo le
estreme all'opposizione. La Repubblica di Weimar offre un buon
esempio di una tale strategia, dato che i governi si appoggiavano su
una maggioranza formata dalla coalizione del centro cattolico e
della socialdemocrazia, mentre i comunisti e i nazionalisti
costituivano due opposizioni, una all'estrema sinistra e l'altra
all'estrema destra. La Quarta Repubblica francese ha funzionato
seguendo questo stesso schema dopo la rottura dell'alleanza delle
sinistre (1947-1958).
Bipolarizzazione e centrismo non sono sempre così contraddittori
come sembrano. La Francia della Terza Repubbuca ha talvolta visto
simultaneamente all'opera entrambi i meccanismi, grazie al doppio
gioco del Partito Radicale. Questi si alleava con i socialisti (e
nel 1936 con i comunisti) per le elezioni, nel quadro di una
coalizione di sinistra opposta a una coalizione di destra. Tendeva
poi a rompere con i suoi alleati di sinistra avvicinandosi al
centro-destra, per costituire un governo fondato su un'alleanza
centrista. Questa dissociazione tra alleanze elettorali di tipo
bipolare e alleanze di governo centriste raggiunse il culmine tra le
due guerre, quando si stabilì una sorta di movimento oscillatorio:
vinte le elezioni, grazie all'alleanza elettorale (1924, 1932,1936),
le sinistre governavano per due anni, dopo di che il Partito
Radicale rovesciava le alleanze e costituiva una coalizione
centrista allargata verso destra, battezzata ‛Unione Nazionale'
(1926, 1934, 1938). Un simile meccanismo ha fortemente contribuito
al declino delle istituzioni parlamentari francesi alla vigilia
della seconda guerra mondiale.
A ogni modo, le coalizioni centriste hanno il comune difetto di dare
ai cittadini un senso di alienazione politica. Respingere le estreme
in un'opposizione semipermanente non significa solo emarginare i più
violenti, ma anche i più dottrinari e coloro che sembrano essere i
più puri e i più disinteressati. Riunire gli altri in una coalizione
di governo non significa solo associare i più moderati, ma anche i
meno sensibili alle idee, i più pragmatici, i più affaristi. Ciò
favorisce una sorta di dissociazione permanente tra la politica
vissuta e la politica pensata. Uno dei vantaggi della
bipolarizzazione o del bipartitismo sta nel fatto che i moderati di
ciascuno schieramento sono costretti a collaborare con gli
estremisti e viceversa: i primi ricevono dai secondi un impulso che
impedisce loro di impantanarsi, i secondi sono costretti a tener
conto della realtà concreta. Al contrario, nel centrismo i moderati
perdono lo stimolo degli estremisti, che a loro volta possono più
liberamente fissarsi in atteggiamenti rigidi e dottrinari. Bisogna
aggiungere che il centrismo non offre ai cittadini nessun'altra
possibilità concreta se non la propria perpetuazione, essendo
impossibile un'alleanza delle due estreme. La partecipazione alle
scelte dei governanti diviene in questo modo irreale, poiché il
potere resta, per l'essenziale, nelle mani degli stati maggiori dei
partiti del centro.
b) Il bipartitismo
La nozione di ‛bipolarizzazione', quale l'abbiamo appena precisata,
mostra che non esiste una frontiera invalicabile tra pluripartitismo
e bipartitismo: molti dei tratti della bipolarizzazione si trovano
in regime di bipartitismo. In realta la bipolarizzazione è più
vicina al bipartitismo di quanto non lo sia a un pluripartitismo
fondato su alleanze centriste o su alleanze senza disciplina.
D'altronde la nozione di bipartitismo è eterogenea quanto quella di
pluripartitismo. Una distinzione fondamentale a questo riguardo è
quella tra il bipartitismo di tipo americano e il bipartitismo di
tipo britannico.
1. Il bipartitismo di tipo americano. - Gli Stati Uniti d'America
hanno sempre conosciuto il bipartitismo: nella forma di una
contrapposizione prima tra federalisti e antifederalisti, poi tra
repubblicani e democratici. In varie fasi della storia americana si
sono sviluppati movimenti in favore di un terzo partito, ma sono
sempre falliti. L'elezione presidenziale sembra aver esercitato un
ruolo importante nella formazione del bipartitismo. Il meccanismo di
una votazione nazionale in un territorio tanto vasto necessitava di
organizzazioni politiche molto grosse e, insieme, di una
semplificazione delle scelte offerte all'elettore. La potenza e la
popolarità del presidente ne facevano d'altro canto un leader
nazionale, l'animatore del suo partito. Per scalzarlo bisognava
opporgli un solo altro grande leader sostenuto anch'esso da una
vasta organizzazione. La complessità del sistema elettorale
americano costringeva d'altronde a costituire organizzazioni
nazionali di tal fatta, per assicurarne il funzionamento.
Ciò spiega in parte perché i partiti statunitensi si distinguano da
tutti gli altri partiti occidentali, e come mai non presentino
analoghe connessioni con i grandi movimenti sociali e ideologici che
da due secoli costituiscono, in Europa e in America, il terreno
della lotta politica. Gli Stati Uniti non hanno conosciuto realmente
il conflitto tra conservatori e liberali; né hanno conosciuto - come
abbiamo già detto - lo sviluppo del socialismo e il suo conflitto
con liberali e conservatori, donde la loro tendenza a unificarsi in
un unico partito borghese. Nella storia degli Stati Uniti troviamo
bensì partiti socialisti, ma si tratta di piccoli partiti che non
incidono durevolmente sul gioco tra i due grandi. Il proletariato
americano era, nel XIX secolo, formato essenzialmente da immigrati
desiderosi di integrarsi nella nuova società, in cui trovavano una
mobilità relativamente elevata, dato che ogni generazione di
immigrati poteva salire nella scala sociale via via che nuovi
arrivati la rimpiazzavano nelle mansioni più umili. L'esistenza
all'Ovest di una riserva - ancora disponibile - di terre coltivabili
aumentava le prospettive di mobilità e di elevazione sociale.
Comunque sia, la coscienza di classe non si è sviluppata negli Stati
Uniti con un'intensità tale da promuovere la formazione di grandi
partiti socialisti o comunisti.
I partiti americani appaiono così, se paragonati agli altri
movimenti politici europei e americani, come due varianti di un
partito liberale. Coerentemente con tale caratteristica la loro
ideologia, pur essendo più sviluppata di quanto comunemente si
creda, rimane in genere abbastanza inespressa: non abbisogna,
infatti, di una formulazione esplicita in quanto corrisponde
all'ideologia latente di tutta la popolazione americana. In ognuno
dei due partiti troviamo una vasta gamma di opinioni, che vanno
dalla destra alla sinistra, come nella maggior parte dei partiti
liberali del mondo: rivoluzionari due secoli fa, conservatori oggi,
l'amalgama delle loro vecchie tradizioni e dei loro attuali
interessi permette combinazioni svariatissime, adattabili a tutte le
situazioni, a condizione, beninteso, di restare nel quadro della
libera impresa. Dei partiti liberali i partiti americani hanno anche
la struttura fluida e decentrata, l'assenza di disciplina e di
apparato: tutte caratteristiche tipiche dei partiti di quadri
ottocenteschi e che i partiti liberali hanno in maggioranza
conservato. Il federalismo e il decentramento dei poteri accentuano
negli Stati Uniti l'elasticità di struttura e la debolezza
dell'impalcatura dei partiti. Se l'organizzazione è relativamente
forte e omogenea su scala locale, è assai labile a livello di Stato
e pressocché inesistente a livello nazionale. Si è potuto affermare
che negli Stati Uniti non esistono due partiti, ma cento, ossia due
per ogni Stato. Non bisogna tuttavia dimenticare che ogni partito
ritrova la sua unità nazionale in occasione delle elezioni
presidenziali e che la leadership del presidente dà al suo partito
una relativa omogeneità. Quanto al funzionamento del governo, il
tratto più importante dei partiti americani è la mancanza completa
di qualsiasi disciplina di voto nelle Assemblee. Al Senato come alla
Camera dei rappresentanti, questa disciplina non esiste né per i
repubblicani né per i democratici. Ogni senatore e ogni
rappresentante vota come ritiene opportuno, liberamente. Quasi in
ogni votazione troviamo dei repubblicani schierati con i democratici
e viceversa. In generale, si delinea un'alleanza tra repubblicani
liberali e democratici liberali, di fronte a quella tra repubblicani
conservatori e democratici conservatori: ma nemmeno questi due
blocchi sono stabili e si modificano da una votazione all'altra.
Di conseguenza, ogni parlamentarismo maggioritario - malgrado il
bipartitismo - è negli Stati Uniti impossibile. Dire che il
presidente dispone della maggioranza al Congresso semplicemente
perché il suo partito ha il maggior numero di seggi nelle due
Camere, significa avanzare un argomento di scarso rilievo, dato che
il suo partito non è quasi mai compatto nelle votazioni
parlamentari. Per fare approvare il bilancio e i progetti di legge,
il presidente degli Stati Uniti deve cercare pazientemente di
raccogliere una maggioranza su ogni problema: faticosa tela di
Penelope, da ricominciare ogni giorno. Se - per mantenersi al potere
- il governo degli Stati Uniti avesse bisogno, come i governi
parlamentari europei, della fiducia dei deputati, sarebbe
probabilmente, data la mancanza di una maggioranza coerente,
altrettanto instabile e debole quanto i ministeri della Terza e
della Quarta Repubblica francese.
Si può dunque vedere che il numero - due o più di due - non è
l'unico criterio per una classificazione dei sistemi di partito. Il
criterio numerico è in realtà inseparabile dalla struttura interna
dei partiti e, in particolare, dall'esistenza o meno di una
disciplina di voto nelle assemblee. Da questo punto di vista il
bipartitismo americano è uno pseudobipartitismo, poiché ogni partito
è solo una cornice assai fluida all'interno della quale si fa
pressappoco quello che si vuole. Diminuisce fortemente, allora,
l'interesse a distinguere il dualismo dagli altri sistemi
(tripartitismo, quadripartitismo, ecc.). La ragione essenziale che
giustifica la classificazione del bipartitismo in una categoria a
parte sta in realtà nella sua capacità di assicurare una maggioranza
omogenea e stabile nell'ambito di un partito. Se la struttura dei
partiti è tale da inficiare questa condizione, il concetto di
bipartitismo perde la sua importanza.
Una classificazione esauriente dei sistemi dei partiti non dovrebbe,
dunque, contrapporre il bipartitismo al pluripartitismo, ma il
bipartitismo di tipo britannico al pluripartitismo e al bipartitismo
di tipo americano (quest'ultimo essendo, per quanto riguarda le
maggioranze parlamentari, in definitiva più vicino al
pluripartitismo che al bipartitismo inglese). Beninteso, all'interno
del pluripartitismo, la bipolarizzazione costituirebbe un sistema
intermedio, abbastanza vicino al bipartitismo britannico. Tuttavia,
non va dimenticato che il dualismo americano permette un'elezione
presidenziale relativamente chiara malgrado la complessità del
sistema elettorale: in questo esso si differenzia profondamente dal
pluripartitismo.
2. Il bipartitismo di tipo britannico. - Il bipartitismo di tipo
britannico funziona in Gran Bretagna e in Nuova Zelanda. In
Australia è parzialmente alterato dalla presenza di un terzo partito
- il Partito delle campagne - tra i liberali e i laburisti: una
stretta alleanza tra il Partito Liberale e il Partito delle campagne
introduce, tuttavia, una bipolalarizzazione abbastanza rigida. In
Canada il bipartitismo originario, di liberali e conservatori, è
stato modificato in profondità dalla presenza di un Partito
Socialista e di un Partito ‛Creditista' (Social Credit: movimento
separatista di destra) e più ancora dal problema del Quebec. Se il
bipartitismo arretra così nel Commonwealth, nell'Europa continentale
tende, al contrario, a svilupparsi: la Repubblica Federale Tedesca e
l'Austria vi sono assai vicine e il Belgio non ne è molto distante.
In Gran Bretagna si sono succeduti due bipartitismi diversi: il
bipartitismo di liberali e conservatori che vigeva prima del 1914,
il bipartitismo di conservatori e laburisti che funziona dal 1935.
Il periodo 1920-1935 ha costituito una fase intermedia fra l'uno e
l'altro, una fase in cui Londra ha conosciuto un'instabilità
politica abbastanza accentuata. Il Partito Conservatore britannico
attuale è, in realtà, un partito liberale conservatore nato dalla
fusione delle componenti essenziali dei due grandi partiti del XIX
secolo. Anche se mantiene la denominazione di ‛conservatore', la sua
ideologia è piuttosto improntata al liberalismo, sia politico che
economico. Il piccolo Partito Liberale, rimasto fuori da questa
fusione, rappresenta la frazione di sinistra del vecchio grande
Partito Liberale. Lo stesso può dirsi degli altri grandi partiti
conservatori europei (Democrazia Cristiana tedesca, Democrazia
Cristiana italiana, Partito Cristiano Sociale belga) e degli altri
piccoli partiti liberali. Va notato che in Canada il vecchio
bipartitismo di conservatori e liberali sussiste tuttora e che un
grande partito socialista non è riuscito finora ad affermarsi nel
paese: situazione in cui la vicinanza degli Stati Uniti e lo
sviluppo di una mentalità nordamericana hanno avuto probabilmente un
certo peso.
Il bipartitismo di tipo britannico poggia dunque sull'evoluzione
sociale e ideologica comune alla maggior parte dei paesi d'Europa e
d'America: conflitto tra conservatori e liberali, sviluppo del
socialismo, comparsa del comunismo e di altre tendenze politiche
affermatesi dopo la prima guerra mondiale (democrazia cristiana,
fascismo, ecc.). L'incidenza di un fattore tecnico, il regime
elettorale, sembra a questo riguardo importante: il sistema
maggioritario a un unico turno opponeva un ostacolo alla scissione
dei partiti esistenti e alla proliferazione di piccoli gruppi nuovi
mentre, al tempo stesso, accelerava l'eliminazione dei vecchi
partiti quando s'indebolivano. Fino al 1914 il sistema elettorale
gioca dunque in favore del bipartitismo esistente: frena lo sviluppo
del socialismo. A partire dal 1920, quando i laburisti diventano il
secondo partito, il sistema si rivolge contro i liberali,
contribuendo a eliminarli.
Al tempo stesso esso protegge il Partito Socialista contro la
tentazione di scissioni che - in un tale meccanismo elettorale -
rischierebbero di distruggerlo: viene così innalzato un ostacolo
allo sviluppo del comunismo. A destra un ostacolo analogo intralcia
la comparsa di partiti fascisti. È ovvio che, se comunismo e
fascismo avessero rappresentato in Gran Bretagna forze sociali
importanti, avrebbero anche superato l'ostacolo, così come è
avvenuto per il socialismo. Il sistema maggioritario a un unico
turno non può mantenere il bipartitismo se l'evoluzione delle
strutture della società tende a distruggerlo. Ugualmente, non vi è
bisogno di sistema maggioritario a un unico turno perché vi sia
un'evoluzione verso il bipartitismo, se le forze sociali spingono in
questo senso, come nella Repubblica Federale Tedesca e in Austria.
Resta il fatto che l'adozione del sistema maggioritario a un unico
turno porterebbe a compimento e consoliderebbe questa evoluzione,
stabilendo in questi due paesi un autentico bipartitismo, il che non
si è ancora verificato.
Il bipartitismo di tipo britannico poggia su partiti rigidi, nei
quali, cioè, regni una disciplina di voto nelle assemblee. In tutte
le votazioni importanti (investitura, fiducia, censura, ecc.), tutti
i deputati del partito sono costretti a votare compatti, seguendo
rigorosamente le direttive stabilite in comune da essi stessi o
decise dagli organismi dirigenti. Una relativa indisciplina è
tollerata, talvolta, nella misura in cui non compromette l'azione
del governo: si ammette che qualche membro del partito si astenga se
l'astensione non modifica il risultato del voto. In tal modo il
leader del partito di maggioranza, che è al tempo stesso primo
ministro, è sicuro di restare al potere per tutta la durata della
legislatura e di fare adottare dal parlamento tutti i progetti che
ritiene importanti. Non esiste piu autentica separazione dei poteri
tra esecutivo e assemblee: il governo e la maggioranza parlamentare
formano un blocco omogeneo e solido, di fronte al quale
l'opposizione può solo esprimere le sue critiche. Durante i quattro
o cinque anni della legislatura la maggioranza al potere è
onnipotente: solo le difficoltà interne alla maggioranza stessa
possono limitare questa onnipotenza. Questo è il ‛parlamentarismo
maggioritario'.
Stabili e forti, i governi di tal genere sono in pratica designati
dai cittadini, come se uscissero da un'elezione presidenziale.
Poiché ogni partito costituisce un'organizzazione disciplinata con
un leader riconosciuto, che diventa primo ministro in caso di
vittoria elettorale, le elezioni legislative designano in realtà non
soltanto i deputati, ma anche il capo del governo. Basta seguire una
campagna elettorale britannica per rendersene conto. In Inghilterra,
nel 1970, ad es., si è votato Wilson o Heath quasi allo stesso modo
in cui negli Stati Uniti si votava nel 1968 Humphrey o Nixon. La
differenza è che, votando per mandare al governo l'uno o l'altro dei
leaders, gli inglesi gli assicurano al contempo una maggioranza
disciplinata che gli fornisce i mezzi per governare. Da tutto ciò
risulta un sistema politico insieme stabile, forte e democratico:
più democratico, più stabile e più forte che in ogni altra parte
dell'Occidente.
Questo sistema presuppone, ovviamente, che i due partiti siano
d'accordo sulle regole fondamentali della democrazia. Se si
trovassero di fronte in Gran Bretagna, non un Partito Conservatore e
uno Laburista, ma un partito comunista e un partito fascista, il
bipartitismo non durerebbe a lungo: il vincitore si affretterebbe a
sopprimere il proprio avversario e a governare da solo. Ma il
meccanismo del bipartitismo britannico tende precisamente a
‛moderare' entrambi i partiti. Per vincere, i laburisti hanno
bisogno di conquistare non i voti dei laburisti convinti, voti che
avranno comunque, ma quelli degli elettori esitanti del centro, che
decidono della vittoria a seconda che si riversino sull'una o
sull'altra parte. Su questo stesso settore dell'elettorato, e per le
stesse ragioni, anche i conservatori concentreranno i loro sforzi di
persuasione. La conseguenza è che in entrambi i partiti prevarranno,
di solito, le forze moderate e centriste: un buon leader laburista è
‛il più a destra degli uomini di sinistra'; un buon leader
conservatore è ‛il più a sinistra degli uomini di destra'.
Un tal sistema, spingendo ognuno dei due partiti in direzione
moderata, protegge contro l'avvento di forze estremiste. Esso non
presenta però unicamente dei vantaggi. Tende naturalmente a
sclerotizzare i partiti, riducendo all'impotenza i suoi elementi
innovatori, obbligati perpetuamente a piegarsi davanti agli elementi
più moderati per non impaurire il centro. Si può pensare che ciò sia
comunque meglio che la tendenza all'astrattezza, che minaccia i
piccoli partiti estremisti quando sono separati dalle masse
moderate. Ad ogni modo, sembra che il rischio di sclerosi, nelle
società industriali, riguardi oggi tutti i partiti, e non solo
quelli che funzionano in regime di bipartitismo. Questo rischio è
legato alla difficoltà di creare organizzazioni nuove capaci di
farsi prendere sul serio da una frazione importante di cittadini, o
di rinnovare le vecchie organizzazioni dominate dagli apparati in
carica. Più oltre affronteremo di nuovo questo problema (v. sotto,
cap. 6).
5. Il partito unico
Le dittature moderne hanno preso a prestito dalle democrazie
pluraliste i partiti politici, nella forma però del partito unico.
Il sistema si è sviluppato nell'URSS, a vantaggio del Partito
Comunista, dopo la rivoluzione del 1917. Qualche anno più tardi è
stato imitato dall'Italia fascista. Dopo il 1933 la Germania
nazionalsocialista ha adottato il modello italiano, portandolo a un
alto grado di perfezione tecnica. Dopo il 1945 le democrazie
popolari d'Europa hanno imitato il modello sovietico. Alcuni anni
più tardi la Cina, la Corea del Nord e il Vietnam del Nord hanno
fatto la stessa cosa. Dal canto loro, un gran numero di paesi del
Terzo Mondo, in particolare africani, hanno stabilito un regime di
partito unico dopo l'indipendenza. Si è così indotti a distinguere
tre tipi di partito unico: i partiti unici comunisti, i partiti
unici fascisti e i partiti unici dei paesi in via di sviluppo.
a) I partiti unici comunisti
Nei paesi comunisti il partito unico è considerato come
l'avanguardia della classe operaia e dei suoi alleati (contadini,
intellettuali, ecc.), avanguardia che permette di costruire un
regime socialista nella fase transitoria della cosiddetta ‛dittatura
del proletariato'. Per comprendere esattamente il suo ruolo, bisogna
sempre tenere a mente la concezione marxista dell'evoluzione dello
Stato. Nei paesi fondati sulla proprietà privata dei mezzi di
produzione, lo Stato è un insieme di strumenti di coercizione
(amministrazione, polizia, esercito, ecc.) al servizio della classe
dominante che possiede i mezzi di produzione e si serve appunto
dello Stato per mantenere il proprio dominio. La rivoluzione
socialista consiste nel fatto che i lavoratori si impadroniscono
dell'apparato statale e lo volgono a un diverso fine: la
soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e
l'edificazione delle basi del socialismo. La resistenza delle
vecchie classi dominanti e dei loro alleati esterni (paesi
capitalisti) obbliga all'impiego di mezzi coercitivi, donde la
necessità di una dittatura del proletariato. Ma questa dittatura è
solo temporanea: una volta poste le basi del socialismo e sviluppata
la società socialista, la Costrizione scomparirà poco a poco. Si
giungerà alla ‛fase superiore del comunismo', caratterizzata dal
deperimento dello Stato.
Il ruolo del partito comunista, in quanto partito unico, si situa
nel quadro della dittatura del proletariato, di cui è lo strumento
essenziale. Lo Stato è solo un insieme di mezzi a disposizione del
partito, che costituisce il centro del potere. La gerarchia reale è
quella del partito e non già la gerarchia ufficiale dello Stato. Il
segretario generale del partito o primo segretario è il numero uno
del regime. Prima del 1940 Stalin non era neppure ministro, ma il
suo titolo di segretario generale indicava chiaramente che era il
capo supremo dell'URSS e nessuno aveva dubbi al riguardo. Gli
eccessi del ‛culto della personalità' hanno portato dopo di allora a
modificare l'autorità in seno al partito, dove ci si è sforzati di
stabilire una direzione collegiale. Ciò riguarda unicamente
l'organizzazione interna del partito, non il suo ruolo nello Stato:
che la direzione sia collegiale o personale, il partito resta il
centro del potere politico.
In tutti i paesi comunisti la struttura del partito unico è
destinata a permettere al partito sia di esercitare il suo ruolo
direttivo nello Stato che di mantenere il contatto con le masse
popolari. L'originalità del partito consiste nel fatto che non
costituisce un'organizzazione tecnica dell'autorità come può
esserlo, per es., una qualsiasi amministrazione - ma
un'organizzazione dell'autorità che vuole esprimere le aspirazioni e
la volontà della popolazione. I membri del partito fanno parte di
questa popolazione, di cui sono gli elementi più attivi e più
coscienti. Il contatto è assicurato da una rete ramificata di
cellule del partito, che sono presenti ovunque. Così, se il circuito
funziona bene in entrambe le direzioni, i dirigenti del partito
stanno continuamente in sintonia con le masse, e le masse sono
costantemente al corrente delle decisioni dei dirigenti. In pratica
può succedere che il partito sia più o meno isolato, come nell'URSS
ai tempi di Stalin, in Cecoslovacchia dopo il 1968, ecc.
Il partito non è solo uno strumento permanente di contatto tra il
popolo e i dirigenti: è anche un elemento di propaganda o, più
esattamente, di formazione. Si è già detto del ruolo fondamentale
dell'ideologia nei partiti comunisti. Nel caso siano partiti unici,
l'educazione ideologica della popolazione è uno dei loro compiti
essenziali. Essi agiscono direttamente attraverso le scuole di
quadri, le campagne d'informazione, i giornali, le riviste, le
pubblicazioni, e con l'azione instancabile dei propri militanti, che
hanno un po' il ruolo che in una religione ha il clero di fronte ai
fedeli. Agiscono anche in modo indiretto, controllando la stampa, i
libri, le associazioni di intellettuali, ecc. Il partito è così il
guardiano dell'ortodossia del regime, un guardiano che pronuncia
condanne e scomuniche. Vigila inoltre sulla fedeltà e
sull'ortodossia dei suoi propri membri, sorvegliandone in primo
luogo il reclutamento (obbligo di presentazione e di un periodo di
candidatura) e, in seguito, decidendo su eventuali espulsioni.
Talvolta hanno luogo ‛purghe' generali: cioè un controllo
sistematico di tutti gli iscritti.
b) I partiti unici fascisti
In teoria i partiti unici fascisti assicurano le stesse funzioni di
direzione dello Stato e di contatto con la popolazione garantite dai
partiti unici comunisti. Al pari di questi, tendono a riunire
un'élite, formata dalle persone più fedeli e devote al regime. Ma
dietro questi tratti generali affini si celano enormi differenze.
Lasciamo da parte il fatto che, in teoria, l'esistenza di partiti
comunisti è limitata alla fase transitoria della dittatura del
proletariato, mentre i partiti fascisti sono per loro natura
permanenti: essi corrispondono infatti a una dittatura stabile, il
cui indebolimento futuro non è nemmeno preso in considerazione. In
pratica, tuttavia, l'avvento della fase superiore del comunismo e il
deperimento dello Stato appaiono come obiettivi assai lontani e le
dittature comuniste rischiano di durare a lungo: il che rende meno
sensibile la loro differenza rispetto alle dittature fasciste.
Più importante è il fatto che i partiti unici fascisti svolgono
nello Stato un ruolo minore dei partiti unici comunisti. In Italia,
il Partito Nazionale Fascista non è mai stato l'elemento
preponderante del regime, e la sua influenza è restata spesso
abbastanza secondaria. Anche in Spagna, la Falange non ha mai svolto
un grande ruolo. In Portogallo, l'Unione Nazionale era
un'organizzazione molto debole perfino quando il regime di Salazar
era all'apogeo. Solo in Germania il Partito Nazionalsocialista ha
avuto nello Stato una grande influenza, che non va tuttavia
esagerata: dopo la ‛purga' del giugno 1934, ad es., le SA furono
confinate in un ruolo subalterno (il resto del partito non aveva mai
contato molto). La dittatura, in conclusione, poggiava piuttosto
sulle SS, che costituivano una formazione a parte in seno al
partito, molto chiusa e dipendente direttamente dal Führer, e sulla
Gestapo, che era un'organizzazione dello Stato e non del partito.
La differenza rispetto ai partiti comunisti non verte unicamente
sull'importanza del ruolo del partito unico, ma sulla natura stessa
di questo ruolo. I partiti unici fascisti sono essenzialmente
milizie che sostengono il regime con la forza delle armi. Questa
funzione corrisponde sia alla struttura di questi partiti sia alla
filosofia dei regimi fascisti, che intendono essere delle dittature
imposte alle masse dall'azione di una minoranza fortemente
organizzata. Quello di un partito unico fascista è, dunque, un ruolo
poliziesco e militare piuttosto che un ruolo di formazione
ideologica. Il tipo di propaganda cui fa ricorso è assolutamente
diverso da quello dei partiti comunisti, i quali conducono la loro
opera di convincimento elaborando una dottrina razionale in cui ogni
avvenimento particolare è collocato in un sistema esplicativo
generale.
La propaganda fascista non mira a convincere col ragionamento. Essa
fa piuttosto appello alle pulsioni irrazionali. Si fonda su miti
elementari (la nazione, la razza, il sangue, l'elite, il capo,
ecc.). Tende a imporre anzitutto il culto del capo, il solo che
possa assicurare la grandezza della patria e al quale si deve
un'obbedienza cieca e totale. Per il suo stile questa propaganda
assomiglia a quella militare, che sviluppa pochi temi semplificati e
mescola i sentimenti di fedeltà personale, di onore, di nazionalismo
con la minaccia di sanzioni implacabili contro gli oppositori. La
grande novità dei regimi fascisti, in questo campo, è consistita
nell'utilizzare tecniche modernissime di propaganda radio, cinema,
manifesti, slogan, ecc. per trasmettere messaggi il cui contenuto
rimaneva assai elementare e meramente suggestivo.
Aggiungiamo infine che l'evoluzione dei partiti fascisti dopo la
presa del potere li allontana dal ruolo di strumenti di contatto tra
il popolo e il governo, ruolo in generale assegnato ai partiti unici
e assunto dai partiti comunisti. In Germania come in Italia, si nota
la tendenza del partito a chiudersi in se stesso, con l'eliminazione
di ogni nuova adesione individuale. Il rinnovamento del partito
viene allora assicurato essenzialmente dalle organizzazioni
giovanili, i cui elementi più fidati, selezionati sin dalla più
tenera età, entrano in blocco ogni anno nel partito nel corso di una
solenne cerimonia. Il partito in questo modo tende a costituire un
‛ordine' chiuso, composto da un'élite di superuomini votati corpo e
anima al capo supremo, per il quale costituiscono il più solido
sostegno. Si tratta di formare un'oligarchia di tipo nuovo,
piuttosto che un'avanguardia che abbia il compito di esprimere e
illuminare le masse.
c) I partiti unici dei paesi in via di sviluppo
Certi partiti unici di paesi in via di sviluppo non differiscono dai
partiti unici corrispondenti dei paesi industriali. Così il Partito
Comunista della Repubblica Democratica del Vietnam, il Partito
Comunista della Corea del Nord, assomigliano molto, per struttura e
funzioni, ai partiti unici degli altri paesi comunisti. Troviamo
tuttavia in alcuni paesi africani, asiatici o dell'America Latina,
dei partiti unici con caratteristiche originali, che non
assomigliano nè ai partiti comunisti nè a quelli fascisti, quali li
abbiamo descritti. Era questo il caso del Partito Repubblicano del
Popolo nella Turchia kemalista prima del 1950. È questo, oggi, il
caso dell'Unione Socialista Araba Egiziana, del Neo-Destur tunisino,
del Fronte di Liberazione Nazionale Algerino e di parecchi partiti
dell'Africa Nera, divenuti partiti unici dopo una fase di partito
dominante all'indomani dell'indipendenza.
Tutti questi paesi, più o meno, si autodefiniscono socialisti, o per
lo meno progressisti, pur restando assai lontani dal comunismo, di
cui sono talvolta nemici. Ataturk voleva ‛repubblicanizzare' la
Turchia, e il suo Partito Repubblicano del Popolo, laico e
democratico, presentava qualche somiglianza col Partito
Radical-Socialista francese. Nasser e i suoi successori hanno voluto
stabilire in Egitto un socialismo nazionale e moderato. In Tunisia
il Neo-Destur è repubblicano più che socialista, e trae ispirazione
più dal kemalismo che dal nasserismo. Nell'Africa Nera i partiti
unici si proclamano spesso socialisti, ma raramente lo sono, salvo
qualche eccezione. Tuttavia non si tratta di mero mimetismo; i
partiti unici di questo tipo vogliono effettivamente trasformare la
società modernizzandola: se non sono rivoluzionari, sono però
riformisti e, di conseguenza, si collocano agli antipodi del
fascismo, dittatura reazionaria.
I partiti unici in questione hanno in generale un'organizzazione
meno rigida di quella dei partiti comunisti o fascisti. In Turchia
il Partito Repubblicano del Popolo era un partito di quadri
piuttosto che un partito di massa. In Egitto ci si è sforzati di
organizzare un nucleo di quadri all'interno di uno pseudopartito di
massa. Nell'Africa Nera si tratta in generale di veri partiti di
massa, sebbene l'adesione sembri motivata soprattutto
dall'attaccamento personale al leader e dai legami tribali, e
l'impalcatura non sia sempre solida. Questa debolezza
nell'organizzazione spiega il ruolo secondario che questi partiti
unici svolgono nell'ambito dello Stato. Talvolta si ha l'impressione
che essi ricoprano il ruolo di partiti unici senza però svolgerne
realmente le funzioni. Essi non sono, in nessun modo, gli organi
direttivi del regime, la cui forza ha altre basi.
Alcuni regimi si sforzano tuttavia di sviluppare al massimo il ruolo
del partito, ravvicinando progressivamente le sue funzioni reali
alle sue funzioni teoriche. A questo riguardo è molto interessante
lo studio della politica di Kemal Atatùrk, alla quale assomiglia la
politica di Nasser, che ha tentato di aumentare l'influenza
dell'Unione Socialista Araba e di farne il pilastro essenziale del
regime. Questo modo di procedere è molto significativo in quanto
dimostra la volontà di passare da una dittatura arcaica, basata
sull'esercito (Kemal, Nasser) o su tradizioni tribali (certi regimi
africani) o sul prestigio personale del capo (Burghiba, ecc.) a una
dittatura moderna, basata su di un partito unico organizzato. Non
bisogna dimenticare che i regimi comunisti hanno fornito la prova
che il sistema del partito unico permette di istituzionalizzare le
dittature, facendole durare oltre la vita di un singolo uomo.
6. Conclusione
In Occidente si parla spesso del declino dei partiti politici. A
dire il vero, opinioni del genere vengono espresse da molto tempo
negli ambienti conservatori e corrispondono a una latente ostilità
contro i partiti, accusati di dividere i cittadini, di pregiudicare
l'unità nazionale, di favorire le promesse eccessive e la demagogia.
In alcuni paesi europei - in Francia, ad es. - le organizzazioni
politiche di destra rifiutano perfino il nome di partito e si
definiscono ‛movimenti', ‛unioni', ‛federazioni', ‛centri', ecc.
Detto questo, è incontestabile che i grandi partiti politici
d'Europa e degli Stati Uniti appaiono oggi invecchiati,
sclerotizzati, se si pensa a come si presentava la situazione
all'inizio del secolo o all'indomani della prima guerra mondiale.
Perfino partiti relativamente nuovi come la Democrazia Cristiana
italiana o la Democrazia Cristiana tedesca - nate nel 1945 - danno
un'impressione di logoramento.
In realtà, in rapporto al 1900, i partiti politici non sono in
declino, ma piuttosto in espansione. All'inizio del secolo i partiti
politici erano essenzialmente limitati all'Europa e all'America del
Nord; altrove le organizzazioni politiche erano molto deboli o
addirittura inesistenti. Oggi i partiti politici funzionano nel
mondo intero o quasi. E anche in Europa e nell'America del Nord il
numero dei cittadini inquadrati dai partiti è oggi, in generale,
molto superiore a quanto non fosse prima del 1914. I partiti
attualmente esistenti sono più numerosi, più potenti, meglio
organizzati di un secolo o mezzo secolo fa. Nei paesi industriali, e
soprattutto nell'Europa occidentale, sono divenuti meno
rivoluzionari e il loro rinnovamento è stato insufficiente: questo
spiega l'impressione di sclerosi e di logoramento alla quale abbiamo
fatto cenno. Ma si tratta di un fenomeno limitato nello spazio e
forse anche nel tempo.
D'altro canto, lo stesso sviluppo dei partiti, la loro tendenza a
costituire grandissime organizzazioni comporta un senso di impotenza
nei cittadini così inquadrati in queste vaste macchine. Che si
tratti di partiti, di imprese, di amministrazioni, di sindacati,
ecc., la reazione è analoga. La difficoltà di modificare i partiti
esistenti quando hanno ormai raggiunto una tale struttura, la quasi
impossibilità di creare nuovi partiti che abbiano una dimensione
iniziale sufficiente: tutto ciò dà la stessa impressione di
immobilismo dei grandi trusts industriali che hanno sostituito le
piccole e medie imprese. La tecnostruttura politica ha le stesse
conseguenze della tecnostruttura economica. In ambedue i casi non si
tratta affatto di un declino, ma di un'evoluzione.
D'altronde, i partiti rimangono insostituibili per permettere le
scelte degli elettori e assicurare un minimo di inquadramento degli
eletti. Non si è ancora riusciti a immaginare qualcosa di meglio - o
di meno peggio - per selezionare i candidati e organizzare la
propaganda. Il sistema americano delle ‛primarie', sviluppato a
partire dal 1900 per sostituire i partiti, può funzionare solo
grazie a essi. L'idea di riunire i rappresentanti dei sindacati,
delle organizzazioni professionali, dei club di intellettuali, delle
associazioni locali, ecc., per scegliere i candidati alle elezioni
porta solo a modificare le strutture dei partiti: l'organizzazione
laburista inglese, per es., è nata su queste basi.
Nessuno pensa che una democrazia possa funzionare senza partiti
politici: in ogni caso, finora nessuno ha proposto un modello di
democrazia che possa funzionare senza partiti politici. Che lo
‛spazio' dei partiti nei paesi industriali vada diminuendo, che il
dibattito fra loro si banalizzi, che riescano spesso a esprimere le
principali tendenze in campo solo imperfettamente, sono tutti fatti
che rispecchiano un indebolimento della democrazia più che un
indebolimento dei partiti stessi; in realtà, l'una cosa non può
essere separata dall'altra, poiché democrazia e partiti
rappresentano le due facce della stessa medaglia.il termine fu
introdotto nel dibattito politico da G. Maranini (Storia del potere
in Italia, 1848-1967, 1967).
Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)
di Gaetano Quagliariello
Partiti politici
Sommario: 1. Origini e sviluppi del moderno partito politico. 2. Il
partito politico e i prodromi della 'terza ondata'. 3. Gli anni
ottanta: la rivoluzione dei mass media. 4. La svolta del 1989 a
Ovest. 5. La svolta del 1989 a Est. 6. Conclusioni. ▭ Bibliografia.
1. Origini e sviluppi del moderno partito politico
Nella riflessione che Alexis de Tocqueville svolse sui moderni
partiti politici nel corso del suo viaggio in America, si rintraccia
una significativa distinzione tra 'grandi' e 'piccoli' partiti.
Questi aggettivi non si riferivano alle dimensioni. I grandi
partiti, per Tocqueville, erano aggregazioni costruite intorno a
principî politici condivisi; presupponevano, dunque, un'ideologia
forte e strutturata, disprezzavano i particolarismi, anteponevano le
ragioni della fede comune agli interessi dei singoli. I piccoli
partiti, di contro, gli apparivano come formazioni a scarso
contenuto ideologico, influenzate dalle personalità più che dalle
idee, sensibili ai bisogni - anche e soprattutto materiali - dei
loro membri (v. Tocqueville, 1831-1832; v. Matteucci, 1990).
Questa analisi contiene in sé gli elementi per fissare alcune
distinzioni fondamentali nell'evoluzione storica dei partiti. Essa
evidenzia, in particolare, il diverso sviluppo che i partiti ebbero
nel mondo anglosassone e nell'Europa continentale, richiamando
l'attenzione sul rapporto tra partiti e istituzioni. Tali elementi,
però, furono ampiamente trascurati dagli scienziati politici che per
primi analizzarono l'affermarsi dei partiti moderni e i loro effetti
sullo svolgimento della vita politica, nonché sul funzionamento dei
sistemi. Moisei Ostrogorski accomunò partiti inglesi e statunitensi
in un'unica condanna, fondata sulla convinzione che lo sviluppo
della 'macchina politica' sarebbe inevitabilmente entrato in
conflitto con i principî e le istituzioni delle democrazie liberali.
Per Ostrogorski (v., 1903) il rappresentante del popolo, un tempo
libero e disinteressato nelle sue decisioni, era destinato ad
assoggettarsi a un sistema dispotico e, a seguito di tale processo,
alla politica come scontro di ideali sarebbe succeduto il primato
della corruzione materiale e morale. Roberto Michels, dal canto suo,
concentrò la propria attenzione sul Partito Socialdemocratico
Tedesco. Egli ignorò il consiglio del suo maestro Max Weber di
guardare anche, in chiave comparativa, ai partiti americani. Nei
suoi scritti analizzò, così, la delusione del militante tradito
dall'evoluzione dell'organizzazione alla quale aveva affidato le
proprie speranze di cambiamento palingenetico. Il suo discorso
risulta speculare a quello di Ostrogorski, anche se le conclusioni
non sono molto diverse. Michels sottolineò i rischi ai quali
sarebbero andati incontro i partiti rivoluzionari, che si sarebbero
adattati a vivere all'interno di sistemi di tipo liberal-democratico
e quindi si sarebbero inevitabilmente corrotti in senso oligarchico,
rendendo fittizia la consistenza democratica del sistema (v.
Michels, 1911).
Tra i grandi interpreti dei moderni partiti politici nella fase
della loro affermazione, solo lo statunitense Abbot Lawrence Lowell
mise l'accento sulle differenze tra 'modello anglosassone' e
'modello continentale', evidenziando come l'analisi della
forma-partito fosse improponibile senza prendere in considerazione
il nesso tra partiti e istituzioni. Secondo la sua ricostruzione (v.
Lowell, 1889), i partiti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna -
seppure con tempi diversi e differenziandosi sotto l'aspetto
strutturale - erano divenuti funzioni dei rispettivi sistemi
politici in quanto si erano sottomessi a istituzioni condivise,
animando una contesa per il governo del paese che presupponeva la
regola dell'alternanza al potere. Sul continente, invece, il forte
tasso di ideologia aveva spinto i partiti a ricercare l'affermazione
dei propri ideali anche al prezzo di destabilizzare le istituzioni:
l'origine dei moderni partiti politici europei fu, anzi, spesso
legata all'obiettivo di rovesciare un equilibrio istituzionale non
gradito. In ogni caso, i membri dei partiti continentali avvertivano
quasi sempre l'appartenenza alla propria formazione come prevalente
rispetto all'appartenenza a un sistema e ai valori sul quale esso si
fondava (v. Lowell, 1896).
Questa distinzione tra i due modelli emerse chiaramente quando
nell'Europa continentale si inaugurò la grande stagione del partito
politico. Essa fu una conseguenza della prima guerra mondiale
(1914-1918), in quanto rappresentò una risposta sia alla
massificazione della vita politica, sia alla radicalizzazione dello
scontro politico che seguirono a quell'evento. Il partito di massa
si affermò, allora, in quanto ritenuto il portato obbligato del
processo di modernizzazione della vita politica (v. Maier, 1975).
All'interno di realtà nelle quali i compiti della politica e le
risposte che si attendevano da essa andavano dilatandosi, il partito
divenne l'elemento centrale della costruzione sia di sistemi
politici che rimasero nell'alveo delle regole democratiche - pur
ricercando una revisione degli originari schemi liberal-parlamentari
-, sia di sistemi di tipo autoritario o totalitario (v.
Quagliariello, 1996). Il partito ebbe un ruolo imprescindibile nella
costruzione istituzionale del comunismo sovietico e del nazismo
tedesco, e una funzione di formazione, mobilitazione e inquadramento
nel fascismo italiano.
La diffusa convinzione evoluzionistica secondo la quale il partito
di massa europeo, ritenuto più adeguato ai bisogni della modernità,
era destinato ad affermarsi in ogni contesto politico, agevolò la
conferma della sua centralità anche dopo la seconda guerra mondiale.
Nell'immediato dopoguerra, il partito si presentò come il centro
della vita politica nei grandi paesi continentali usciti sconfitti
dal conflitto e investiti dalla transizione alla democrazia (come
Germania e Italia), o comunque caratterizzati da una profonda crisi
politico-istituzionale (come la Francia). Si ritenne che
l'affermazione del partito di massa rappresentasse una garanzia di
stabilità per i sistemi politici e che, per questo, dovesse essere
tenuta nel debito conto nella fase di elaborazione delle nuove carte
costituzionali. La rottura della coalizione bellica, l'alba della
guerra fredda e la conseguente necessità di convivere con
consistenti forze antisistema - che regolavano i loro comportamenti
sulla base della considerazione prioritaria degli interessi
internazionali dell'Unione Sovietica - giunsero tuttavia a smentire
queste convinzioni. Se si presta attenzione ai tempi della
ricostruzione istituzionale nei tre paesi citati, si deve, inoltre,
notare che la nuova consapevolezza indotta dalla realtà della
divisione dei blocchi li investì in momenti differenti della loro
fase costituente. In Francia essa si presentò quando la Costituzione
della IV Repubblica era già stata approvata. In Italia, invece,
attraversò il periodo costituente cominciato prima dello scoppio
della guerra fredda e conclusosi quando questa era, ormai, una
realtà. In Germania, infine, la divisione del paese in zone di
occupazione consentì nella parte occidentale di scrivere una carta
costituzionale che tenesse conto del nuovo quadro internazionale e
che, anche per questo, non affidò la stabilizzazione delle
istituzioni esclusivamente alla centralità del partito politico di
massa e all'accordo necessario tra i grandi partiti.
2. Il partito politico e i prodromi della 'terza ondata'
La nuova situazione europea fece sì che, dove la presenza di forti e
radicati partiti antisistema non era stata neutralizzata a livello
costituzionale, si cercasse di intervenire attraverso la modifica
delle regole elettorali. L'obiettivo era quello di assicurare a
coalizioni centriste la possibilità di governare, evitando così il
ripresentarsi del 'male oscuro' proprio dei sistemi costruiti sulla
centralità del partito, che si era già manifestato a Weimar dopo la
prima guerra mondiale. Da quest'esigenza nacquero sia la legge
elettorale degli 'apparentamenti', varata in vista delle elezioni
francesi del 1951, sia la legge italiana che, nel 1953, prevedeva un
forte premio per la coalizione che avesse superato la soglia del
50%. Queste nuove leggi elettorali sancirono la fine dell'illusione
che un accordo permanente tra grandi partiti di massa potesse
garantire la stabilità politica, e furono varate in una fase nella
quale la forte mobilitazione che aveva fatto seguito alla guerra
andava riassorbendosi. L'interazione tra questi due fenomeni segnò
l'inizio di una lunga fase di declino del partito di massa, che fu
più impetuoso ed evidente in Francia, dove la modifica del sistema
elettorale aveva raggiunto il suo scopo immediato, più lento e
nascosto in Italia, dove la riforma delle norme elettorali, a causa
del mancato raggiungimento del quorum da parte della coalizione
centrista, non determinò gli effetti auspicati dai suoi promotori.
L'inizio della lunga crisi del partito di massa europeo non fu,
però, registrato con tempestività dagli studi dei politologi.
Paradossalmente, il libro di Maurice Duverger (v., 1951), che
nell'analisi della forma-partito accredita un paradigma
evoluzionistico fondato sulla convinzione che il partito di massa
risponda meglio ai problemi posti dalla modernità, risale proprio al
1951. In questo stesso torno di tempo, d'altro canto, persino la
politologia statunitense fu attraversata da un'evidente propensione
per il partito di massa. Il modello di riferimento prevalente dei
politologi americani divenne quello dei più strutturati partiti
inglesi e, nella letteratura scientifica, non era raro imbattersi in
critiche al presunto carattere amorfo dei partiti statunitensi (v.
Pizzorno, 1969).
Solo con gli anni sessanta si avviò una riflessione critica,
nell'ambito politologico, sulla centralità del partito di massa. Le
analisi di Stein Rokkan (v., 1970) sullo sviluppo politico, di
Seymour Martin Lipset (v., 1960) e Daniel Bell (v., 1960), di
Gabriel Almond sulla civic culture (v. Almond e Verba, 1963) e di
David Easton (v., 1965) sull'approccio sistemico convergevano
nell'allargare il quadro e nel suggerire di inserire lo studio sulla
forma-partito in contesti più ampi che, utilizzando approcci
comparativi, sapessero prendere in considerazione le istituzioni, le
ideologie e le culture diffuse. Su questa linea, il saggio di Otto
Kirchheimer (v., 1966) sul 'partito pigliatutto' (catch-all party)
decretò la definitiva crisi del partito di massa come modello di
riferimento. Poco dopo, persino in Italia - dove la maggiore
centralità dei partiti aveva reso meno visibile la loro crisi - si
iniziò a prescindere dallo schema duvergeriano, sia attraverso studi
che auspicavano nuove forme di democrazia in grado di relativizzare
il ruolo dei partiti (v. Farneti, 1971), sia tramite analisi che
prendevano in considerazione i soggetti politici 'inferiori' al
partito (le correnti, i notabili, le reti di rapporti
interpersonali). Per un'interpretazione compiuta e coerente dei
partiti differente da quella di Duverger, si è dovuti arrivare ai
primi anni ottanta, con lo studio di Angelo Panebianco (v., 1982).
In questa fase, d'altro canto, in Europa si erano già verificate
modifiche fondamentali dei sistemi politici, che gli analisti dei
partiti non potevano fare a meno di considerare. In particolare, la
transizione francese dalla IV alla V Repubblica (1958) era avvenuta,
almeno apparentemente, contro i partiti e con l'intento di spostare
il potere verso l'esecutivo, ricercando, per quest'ultimo, forme di
legittimazione che non passassero obbligatoriamente attraverso i
partiti. L'evoluzione di quel nuovo sistema politico mise però in
evidenza che dei partiti non era possibile fare a meno. La
previsione dell'elezione diretta del presidente della Repubblica nel
1962 e, ancor più, l'esito della prima sperimentazione di
quell'ipotesi nel 1965 misero in luce che persino sistemi
presidenziali o semipresidenziali non avrebbero potuto evitare di
assegnare un ruolo importante ai partiti politici. Nel 1965,
infatti, il tentativo del fondatore della V Repubblica, Charles de
Gaulle, di trasformare l'elezione presidenziale in un dialogo
esclusivo e privo di mediatori tra i candidati e gli elettori fallì
(il fallimento fu sancito dal fatto che de Gaulle venne costretto al
secondo turno dal candidato delle sinistre, François Mitterrand). Si
comprese allora che anche nel nuovo sistema istituzionale,
fondamentalmente diverso da quelli sorti in altri paesi europei
all'indomani della guerra, vi sarebbe stato bisogno dei partiti,
sebbene non si trattasse più dei vecchi partiti di massa, ma di
organizzazioni al servizio del candidato-presidente. Prese allora
avvio in Francia una profonda ristrutturazione della forma-partito,
che portò alla nascita di una nuova forza a sinistra, dove il
partito socialista di Mitterrand successe alla SFIO (Section
Française de l'International Ouvrière), e all'edificazione di un
vero e proprio partito gollista, che cercò di ovviare alla fragilità
delle strutture preesistenti (v. Charlot, 1971). Da allora, il
controllo di un'efficiente macchina partitica divenne un requisito
quasi obbligatorio per prevalere in una competizione presidenziale.
Si spiegano in tal modo sia le vittorie di uomini quali Georges
Pompidou, Mitterrand e Jacques Chirac, sia le sconfitte di Valéry
Giscard d'Estaing (nelle elezioni per ottenere un secondo mandato),
Raymond Barre ed Edouard Balladur.
Nel decennio successivo, nel corso degli anni settanta, questa
trasformazione dei partiti si rafforzò a seguito di un'evoluzione
sociale che, per l'affermarsi delle logiche dell'età
postindustriale, vide l'emergere di contesti sociali più frammentati
e, anche per questo, maggiormente autonomi rispetto alla politica,
caratterizzati da un minor grado di partecipazione e, infine, da una
relativizzazione dell'importanza delle fratture che aveva segnato
l'era dei partiti di massa.
Su un altro piano, però, la rilevanza del partito è stata rilanciata
dall'avvio di quel ciclo di transizioni nelle quali Samuel
Huntington (v., 1991) ha identificato l'esordio della cosiddetta
'terza ondata', che ha visto i regimi autoritari dell'Europa
meridionale lasciare il posto all'edificazione di sistemi
democratici. In Spagna, Grecia e Portogallo questa trasformazione si
presentò con caratteri politici simili, anche in virtù delle
analogie socio-economiche fra i tre contesti. Lo sviluppo economico
di tali paesi, infatti, era stato caratterizzato da un lento
processo di industrializzazione, che determinò un successivo,
repentino passaggio da società agrarie a società in prevalenza
terziarie. Il passaggio diretto, senza una fase di decantazione, dal
primario al terziario favorì, così, l'emergere di tratti comuni
nelle strutture sociali dei tre paesi. Essi mantennero una
continuità di relazioni tipica delle società rurali, fondate sulla
preminenza di legami parentali e rapporti individualistici di natura
gerarchica, piuttosto che su collegamenti di tipo collettivo e
orizzontale, portato della sedimentazione dei processi di
industrializzazione. Le esperienze dittatoriali, inoltre,
contribuirono ulteriormente a saldare l'intreccio e la
sovrapposizione tra modernità sociale e tradizionalismo politico (v.
Sapelli, 1996).
Queste caratteristiche sociali concorsero a far sì che, nel processo
di transizione dai regimi autoritari a quelli democratici, il
passato giocasse in ognuno di questi paesi un ruolo fondamentale:
sia sotto forma di eredità storica della quale tenere comunque
conto, sia per quanto concerne il recupero di uomini e strutture del
periodo dittatoriale e predittatoriale. Esse aiutano anche a
comprendere perché le prime transizioni della 'terza ondata' fossero
caratterizzate da una precaria legittimità delle nuove istituzioni,
dall'edificazione di fragili strutture amministrative, infine
dall'incapacità delle classi politiche di dar vita a nuclei
dirigenti autonomi da pressioni di tipo clientelare e, ancor di più,
da quelle dell'esercito che, seppure con obiettivi antitetici, in
tutti e tre i casi giocò un ruolo assolutamente centrale.
In contesti di questo tipo, si può comprendere perché la funzione
dei partiti politici fosse fondamentale. Questi si strutturarono in
sistemi partitici tra loro non omogenei: in Portogallo e in Grecia
prevalse la tradizionale frattura destra/sinistra, che segnò in modo
persistente lo spazio politico (anche se in Portogallo il successo
del partito socialista di Mario Soares garantì la spinta centripeta,
isolando a sinistra le tendenze più radicali); in Spagna, invece, la
prima fase della transizione si compì sotto il segno dell'UCD (Unión
de Centro Democrático), una coalizione di partiti formatasi per
impulso del presidente del Consiglio in carica, Adolfo Suárez, che
legò il suo ruolo al passaggio tra i regimi, declinando poi
velocemente e irreversibilmente (v. Cotta, 1995; v. Pridham, 1996).
Nonostante queste differenze, si può affermare che in tutti e tre i
casi i partiti furono le strutture in grado di mediare tra passato e
presente, di assicurare rappresentatività alle opposizioni sorte nel
corso dei regimi autoritari e, contemporaneamente, a quei segmenti
di classe dirigente che abbandonarono gradatamente il vecchio
regime, descrivendo così una parabola dalla dittatura alla
democrazia che non conobbe soluzione di continuità. Essi furono
anche gli organismi che, seppure con modalità diverse, si
confrontarono con gli eserciti e che - prima che si compisse la fase
del consolidamento - supplirono all'insufficiente legittimazione
delle istituzioni e assorbirono le tensioni derivanti da tale
situazione, rafforzando con ciò la convinzione che l'avvento del
regime democratico non possa fare a meno dei partiti politici (v.
Morlino, 1995).
3. Gli anni ottanta: la rivoluzione dei mass media
A partire dagli anni ottanta, per comprendere l'evoluzione
organizzativa e programmatica dei partiti politici non è possibile
fare a meno di considerare il rapporto triangolare che si è
instaurato tra il sistema politico, quello dei media e l'opinione
pubblica. La radio prima e poi la televisione, come è noto,
cominciarono a influire sulla politica e sulle sue forme di
organizzazione sin dagli anni trenta. Negli anni ottanta, però, la
'mediatizzazione' della politica e l'assunzione da parte del sistema
politico di formati comunicativi massmediali - che inevitabilmente
hanno trovato riflesso nel rapporto tra partiti ed elettori - sono
divenuti elementi strutturali della storia dei partiti (v.
Mazzoleni, 1999). In questa fase tre processi paralleli, originatisi
in epoche diverse, hanno raggiunto un punto di connessione, finendo
per rafforzarsi a vicenda. Innanzitutto, la televisione si è
affermata definitivamente come il mezzo principale della
comunicazione politica per la sua capacità di consentire il contatto
visivo diretto degli uomini politici con milioni di
cittadini-elettori. Inoltre, si sono avviate dinamiche di
privatizzazione e deregulation dei sistemi radiotelevisivi che, dopo
essere state una peculiarità del sistema politico americano (non a
caso caratterizzato da partiti poco strutturati e con un debole
profilo ideologico), sono divenute una caratteristica comune a tutti
i paesi occidentali. Infine, si è affermato nella prassi
giornalistica un atteggiamento critico e polemico rispetto alla
politica ufficiale, riscontrabile nell'analisi così come nel modo di
concepire le notizie, anch'esso ampiamente debitore dell'esempio
americano.
L'avvento dell"era televisiva' ha determinato, come fenomeno
complementare, la spettacolarizzazione e la personalizzazione del
conflitto politico. David Altheide e Robert Snow (v., 1979) hanno
evidenziato l'imporsi di una 'logica mediale' nella copertura dei
fatti politici, che comporta il ricorso a forme di linguaggio
imperniate sul sensazionalismo, l'utilizzo di tecniche di
informazione frammentata al posto di analisi consequenziali e la
preminenza degli aspetti 'coreografici', nonché di dettagli
personalistici e spettacolari (v. Norris, 2000). Alcuni studiosi
sono giunti a contrapporre la media logic alla party logic come
forme conflittuali di costruzione della 'agenda politica' e di
narrazione degli eventi (v. Mazzoleni, 1987). Nella realtà dei
fatti, invece, la logica dei media e quella dei partiti hanno finito
con l'interagire. I partiti politici europei - seppure con tempi
differenti a causa di fattori legati sia alla struttura del sistema
mediale (e dei rapporti tra soggetti politici e soggetti mediali),
sia alle caratteristiche del sistema politico (presidenzialismo o
parlamentarismo, legge elettorale proporzionale o maggioritaria, e
così via) - hanno reagito alla 'terza era' della comunicazione
politica in modo analogo (v. Norris, 2000). Fino agli anni settanta
il mezzo televisivo è stato da loro considerato una sorta di
'vetrina' adatta a iniziative non primarie, specialmente nel campo
della propaganda. A partire dagli anni ottanta, invece, e con più
forza verso la fine del decennio, i leaders di partito hanno
cominciato a considerare la televisione non più come uno strumento
da tenere sotto controllo ed eventualmente sfruttare per iniziative
secondarie, ma come l'arena principale nella quale sono chiamati a
operare coloro i quali hanno come fine l'acquisizione del consenso.
Contemporaneamente, e non certo casualmente, si è gradualmente
sviluppato anche in Europa quel modello di 'campagna permanente', il
cui effetto è di estendere e radicalizzare il conflitto per tutto il
corso del ciclo politico-elettorale (v. Blumenthal, 1980). In tal
modo, l'arte di governare ha finito con l'inglobare la promozione e
la propaganda politica permanente; per l'opposizione, la
spettacolarità dei motivi di contestazione dell'esecutivo in carica
è divenuta più importante della loro ineccepibilità tecnica.
Come si è detto, anche il fenomeno della personalizzazione della
politica risulta strettamente connesso con l'emergere della
televisione come mezzo principale di comunicazione politica. La
televisione, infatti, premia le performances dei singoli rispetto
alle strutture politiche e conferisce significato anche a elementi
accessori della personalità, come il bell'aspetto, l'eloquio
semplice, il carisma mediatico (v. Cavalli, 1992; v. Calise, 1994).
In tal modo, l'affermazione di personalità mediatiche, per molto
tempo legata a particolari caratteristiche di personaggi storici
come Charles de Gaulle (un vero precursore per l'utilizzo che seppe
fare della radio e, a partire dagli anni sessanta, anche della
televisione), è divenuta una costante della vita politica
occidentale.
Va considerato, infine, che la mediatizzazione della politica ha
favorito la diffusione nell'opinione pubblica di sentimenti
antipartitici e persino antipolitici (v. Dalton e Wattenberg, 2000).
L'affermazione negli anni ottanta dei movimenti della 'nuova
politica', come i partiti verdi (v. Poguntke, 2000) e, a cavallo tra
gli anni ottanta e novanta, di movimenti e partiti neopopulisti (v.
Mény e Surel, 2000), è stata anche la conseguenza della
semplificazione del messaggio politico imposta dai mass media, che
ha inevitabilmente premiato le formazioni in grado di reagire al
diffuso sentimento di distacco nei confronti della politics as usual
e di incarnare nuove esigenze presenti nell'elettorato (v. Mair,
1997).
Questo insieme di fenomeni non poteva che ripercuotersi in modo
significativo sui partiti: sui loro profili programmatico-culturali
così come sulle logiche organizzative. Per quanto concerne il primo
aspetto, il 'partito pigliatutto' - che, come si è detto, era stato
preso in considerazione da Kirchheimer già negli anni sessanta - è
divenuto, seppure con alcune varianti nazionali, il modello di
partito 'convergente al centro' tipico di tutte le democrazie
occidentali, assumendo la forma di un partito di professionisti
della politica, costruito sull'obiettivo predominante di vincere le
elezioni (v. Panebianco, 1982). Infatti, la necessità mediatica di
dover comunicare all'intera opinione pubblica, e non più a fasce
mirate di elettori, ha accelerato il processo di dismissione dei
contenuti ideologici dei partiti, portandoli ad assumere profili
programmatici sempre più generali e comprensivi (v. Wolinetz, 2002).
Inoltre, i sondaggi, le analisi di mercato e in generale il
marketing politico sono divenuti fattori in grado di condizionare i
partiti non soltanto nel tempo limitato delle campagne elettorali,
portando gli obiettivi e le affermazioni dei leaders ad adattarsi il
più possibile e in forma permanente agli umori e ai desideri
dell'opinione pubblica (v. Newman, 1999).
Per quanto concerne gli aspetti organizzativi, a questo punto non è
difficile comprendere perché l'interazione tra media e politica
abbia istituzionalizzato l'ascesa di partiti 'presidenziali',
all'interno dei quali il leader deve anzitutto risultare un soggetto
politico in grado di rappresentare efficacemente la propria immagine
e quella della sua organizzazione attraverso i mezzi di
informazione, subordinando a quest'esigenza le pratiche
partecipative, di diffusione delle subculture e di approfondimento
ideologico proprie dei vecchi partiti di massa. La politica
mediatizzata, inoltre, accanto all'esplosione personalistica dei
leaders a discapito della base dei militanti, ha favorito
l'accentramento delle risorse economiche e dei processi decisionali
nelle mani dei leaders di partito e del loro staff. Il capo del
partito e, accanto a lui, la sua squadra di consulenti (in parte
esterni allo stesso partito) esercitano un controllo pressoché
totale sulla vita dell'organizzazione, definendone i tratti
programmatici, l'immagine pubblica, i temi di campagna e le issues
di governo; essi detengono in tal modo un vasto potere di indirizzo
su una base militante priva di reali possibilità di controllo nella
piramide organizzativa del partito. L'esempio di Tony Blair e del
suo rapporto con il New Labour assume, a tal proposito, un
significato paradigmatico (v. Farrell e Webb, 2000). Esso porterebbe
a sostenere che l'antica legge ferrea dell'oligarchia, proposta da
Michels nel lontano 1911 con riferimento ai partiti di massa, valga
ancora oggi per i partiti dell'era della comunicazione. Con la
differenza che le nuove oligarchie interne, in luogo di controllare
la risorsa dell'ideologia per controllare la base militante, fondano
oggi il loro potere sulla capacità di sfruttare i mass media e, in
tal modo, di identificare l'immagine del leader con quella del
partito. L'utilizzo politico dei nuovi media come Internet, pur
avendo suscitato speranze riguardo a una possibile inversione di
questa tendenza oligarchica a favore di un più ampio controllo
interno, non sembra finora aver prodotto risultati apprezzabili
sulle logiche di funzionamento interno dei partiti, poiché le
potenzialità interattive di questi media sono state fino a oggi
sfruttate molto più per scopi promozionali che non per implementare
forme di democrazia e di controllo interno.
4. La svolta del 1989 a Ovest
L'evoluzione della società civile, prodottasi in Europa occidentale
sin dalla fine degli anni sessanta, non ha potuto ricevere - sino
agli anni ottanta - una piena traduzione a livello della politica,
anche a causa della contrapposizione dei blocchi che caratterizzava
lo scenario internazionale. La caduta del muro di Berlino, in tal
senso, ha determinato lo sviluppo di processi già presenti allo
stato embrionale, ma sino ad allora frenati dal persistere della
guerra fredda con i suoi corollari di natura politico-ideologica.
Sul piano socio-economico, il crollo dell'Unione Sovietica ha reso
possibile il pieno sviluppo di quelle dinamiche del sistema
internazionale semplicisticamente riassunte nella categoria della
globalizzazione: ovvero un grado di integrazione fino ad allora
sconosciuto tra diversi sistemi economici, determinato dalla
correlazione tra l'apertura dei mercati e la diffusione di
tecnologie in grado di velocizzare gli scambi economici e di
informazioni. Per quanto concerne la presente analisi, va
sottolineato che quest'evoluzione ha una grande importanza nel
restringere i confini delle scelte praticabili nell'ambito
nazionale. Il ruolo crescente dell'economia finanziaria, in
particolare, ha ridotto drasticamente le possibilità che paesi
diversi compiano scelte e perseguano strategie differenti. Infatti,
la sempre maggiore integrazione dei sistemi economici fa sì che le
politiche non condivise dai mercati internazionali provochino
l'immediata reazione dei medesimi, la quale determina conseguenze
nei sistemi politici dei singoli Stati, mettendo in allarme
l'opinione pubblica e generando una situazione di difficoltà per i
governi (v. Reinicke, 1998).
In Europa tali dinamiche sono state ulteriormente rafforzate
dall'avvio del processo di unificazione monetaria. A partire dal
Trattato di Maastricht, i vincoli generali posti alle politiche
finanziarie nazionali dal mercato internazionale si sono trasformati
in vincoli specifici, fissati in sede negoziale e collegati a
precisi meccanismi sanzionatori, il più efficace dei quali è
rappresentato dall'esclusione dal processo di unificazione.
Le conseguenze di queste dinamiche economiche sulla politica e sui
partiti sono state di grande momento. Abbiamo assistito a una
graduale ma persistente riduzione dell'afflato ideologico della vita
politica che, come si è detto, era già significativamente diminuito
nel decennio che aveva preceduto la caduta del muro di Berlino.
Subito dopo il 1989 i partiti, e in particolar modo quelli più
connotati ideologicamente, cercarono di adattare, per quanto
possibile, la loro identità tradizionale all'accettazione dei
vincoli esterni imposti dai nuovi livelli di integrazione
internazionale. In un secondo tempo, però, la difficoltà crescente
di mantenere inalterata l'identità politica, soprattutto dove sono
state effettuate scelte governative non coerenti con essa, ha
costretto i partiti tradizionali a mettere in discussione una parte
consistente del loro patrimonio identitario. Nei casi in cui questo
processo si è compiuto, il partito si è ritrovato a dover
privilegiare sempre più l'etica della responsabilità rispetto
all'etica della convinzione. Tale dinamica ha favorito da un lato la
nascita di movimenti 'globali', che si sottraggono alla dimensione
politica nazionale e ai suoi vincoli, dall'altro lo sviluppo di
movimenti etnici e locali, che rispondono al forte bisogno di
recupero di identità secondo un criterio non più ideologico.
Il nesso tra la fine della guerra fredda e l'ulteriore
assottigliamento dell'elemento identitario ha trovato immediatamente
riflesso anche nel rapporto tra partiti e finanziamento della
politica. Il controllo delle risorse, infatti, storicamente aveva
rappresentato uno dei compiti più importanti del moderno partito di
massa, rimanendo a lungo un motivo della sua forza. Il partito, sin
dalla fase del progressivo ampliamento del suffragio, assunse i
compiti propri del fornitore di mezzi materiali e di servizi per i
suoi candidati, che si trovavano costretti ad affrontare campagne
elettorali sempre più complesse e dispendiose, rivolte verso un
numero crescente di potenziali elettori. Esso, inoltre, prima che
fosse introdotta l'indennità parlamentare, in alcuni casi
interveniva anche al termine del periodo elettorale, per
sovvenzionare i propri rappresentanti e le loro famiglie. La
circostanza aveva una giustificazione materiale di immediata
comprensione, ma assumeva, al contempo, anche un significato ideale,
in quanto realizzava forme di compensazione verso i meno abbienti,
contribuendo così a rendere la politica un'attività alla quale
avrebbe potuto accedere un numero crescente di individui. Con il
trascorrere del tempo, i compiti di collettore di risorse del
partito si sono dilatati e complicati. La politica è divenuta
un'attività sempre più dispendiosa. Anche per questo, alle
contribuzioni degli iscritti e dei simpatizzanti si sono aggiunti i
proventi derivanti da pratiche di intermediazione lecite e illecite,
il finanziamento pubblico e, nel corso della guerra fredda, anche le
contribuzioni erogate da potenze straniere, che in alcuni contesti,
tra i quali quello italiano, rivestivano un'importanza particolare
(v. della Porta e Vannucci, 1999).
Ognuna di queste diverse forme di finanziamento presenta
problematiche storiche, sociologiche e giuridiche peculiari. Esse,
però, hanno anche un aspetto unificante. Per un partito di massa
dotato di un profondo radicamento sociale e di una coerente
ideologia è evidentemente più facile divenire canale di risorse
lecite, in quanto può contare su una base ampia e motivata (v. della
Porta e Vannucci, 1994). Esso, quantomeno in taluni contesti
storici, si è trovato agevolato anche nell'intraprendere pratiche
illecite, in quanto il perseguimento più efficace dei suoi fini
ultimi, sostenuti da robusti substrati ideologici, rappresentava una
potenziale giustificazione all'utilizzo di mezzi formalmente
proibiti (v. Pizzorno, 1992). Ciò aiuta a comprendere perché, in
particolare dopo il 1989 e la fine del grande scontro ideologico, il
rapporto tra finanziamento della politica e corruzione dei partiti
sia divenuto un problema che investe l'ordinamento democratico.
Quando i 'grandi fini' hanno cominciato a risultare meno
percepibili, l'opinione pubblica ha cessato di ritenere legittimo
ogni mezzo di finanziamento e, anche per questo, in alcuni contesti
- come l'Italia, il Giappone, la Francia, la Spagna e la Germania -
sono scoppiati veri e propri scandali. I partiti, privi di
giustificazioni ideologiche adeguate e di basi ampie di sostenitori,
si sono trovati costretti ad alleggerire i propri compiti e funzioni
e, con essi, le loro strutture organizzative. Quest'esigenza è stata
ulteriormente accresciuta dalle nuove politiche di rigore
finanziario caratteristiche degli anni novanta, che hanno imposto
l'adozione di misure di finanza pubblica contraddistinte da maggiore
responsabilità. Anche per questo, in diverse realtà nazionali la
dipendenza dei partiti dal finanziamento pubblico - sia diretto, sia
indiretto - è aumentata. Le legislazioni in materia sono state
meglio definite, enfatizzando il rilievo pubblicistico proprio dei
partiti e rendendo sempre più anacronistica una loro
regolamentazione sotto il solo profilo privatistico (v. Lanchester,
2000).
Lo strutturarsi di una crescente dimensione sovranazionale, oltre a
rappresentare un indiscutibile aspetto problematico per una
forma-partito che si era consolidata nel tempo secondo un paradigma
prettamente nazionale, apre anche un'opportunità da cogliere. Non va
dimenticato, infatti, che la dimensione istituzionale nazionale
riveste ancora un ruolo centrale nello sviluppo della politica e
che, pertanto, i partiti nazionali esercitano un'essenziale funzione
di presidio nella complessa attività di integrazione comunitaria
europea. Al tempo stesso, lo sviluppo delle istituzioni europee e
internazionali ha creato nuove arene politiche, che richiedono la
crescita di soggetti in grado di operarvi. E tali soggetti possono
essere i partiti stessi, in quanto sono in grado di adeguare la
dimensione politica nazionale alle esigenze derivanti dallo sviluppo
delle istituzioni sovranazionali. Questa peculiare collocazione,
alla confluenza tra passato e futuro, prefigura un'ulteriore
evoluzione dei partiti, i quali da un lato saranno chiamati a
raccogliere le istanze presenti nelle società civili nazionali per
trasferirle in sede sovranazionale, e dall'altro potranno compiere
un'opera di orientamento dell'opinione pubblica del loro paese sulla
base delle dinamiche presenti ai livelli superiori. In tal senso,
l'attività di coordinamento transnazionale, che rappresenta un
elemento tradizionale nella storia dei partiti, appare oggi qualcosa
di qualitativamente diverso, come si evince agevolmente considerando
l'interazione fra l'evoluzione delle istituzioni europee e quella
dei soggetti politici che hanno dato loro corpo.
L'esistenza in seno alla Comunità Europea di partiti transnazionali
(ovvero di strutture che federano formazioni nazionali differenti),
infatti, non è una novità legata a quest'ultima fase
dell'integrazione europea. Sin dalla nascita della CECA (Comunità
Europea del Carbone e dell'Acciaio), tra le cui istituzioni vi era
l'Assemblea parlamentare composta da rappresentanti dei parlamenti
nazionali, si era delineata una chiara tendenza a unire gli
esponenti dei diversi partiti degli Stati membri in gruppi
politicamente omogenei. Tutte le principali correnti politiche -
prima cristiano-democratici, socialisti e liberali; successivamente
nazionalisti, comunisti, ecologisti e autonomisti - ritennero
opportuno sviluppare forme di raccordo transnazionali in seno alle
istituzioni europee, nella consapevolezza che un'attività concepita
solo a livello nazionale non fosse adeguata per rappresentare
nell'arena europea le istanze delle loro famiglie politiche (v.
Delwit e altri, 2001).
Nel 1979, l'elezione diretta a suffragio universale dei membri del
Parlamento europeo ebbe un forte impatto su queste forme di accordo.
Non a caso, infatti, proprio in previsione di quell'evento, i
liberali diedero vita nel 1976 all'ELD (European Liberal Democrats -
Liberaldemocratici Europei; con l'adesione del Partito
Socialdemocratico Portoghese, sancita dal congresso di Catania del
10 e 11 aprile 1986, il nome del partito cambiò in ELDR, European
Liberal, Democrat and Reform Party - Liberaldemocratici e Riformisti
Europei), un vero e proprio partito politico di dimensioni
continentali; egualmente i cristiano-democratici rafforzarono i
legami tra i partiti nazionali in seno al gruppo parlamentare
popolare e costituirono nel 1976 il PPE (Partito Popolare Europeo);
e anche i socialisti, già dal 1973, si erano organizzati in una
confederazione di partiti, la cui struttura appariva indubbiamente
più solida e articolata rispetto a quella del vecchio gruppo
parlamentare. In tal modo, le tre principali famiglie politiche
europee si adeguarono alla mutata situazione dotandosi di strumenti
politico-organizzativi che, da un lato, fungevano da veicolo del
consenso in consultazioni elettorali le quali, pur essendo
continentali, mantenevano una notevole rilevanza nazionale e,
dall'altro, permettevano di interpretare una linea il più possibile
comune a differenti partiti nazionali ideologicamente simili, nel
seno di un organo che cominciava a disporre, seppur in misura
limitata, di poteri legislativi.
La realtà dei primi nuclei di queste federazioni transnazionali
interagì, negli anni successivi, con i mutamenti profondi che
investirono sia i sistemi politici degli Stati membri, sia il quadro
istituzionale comunitario. Tutte le preesistenti famiglie politiche
hanno preso atto della mutazione del tessuto connettivo dei partiti
continentali intervenuta a seguito delle trasformazioni storiche e
istituzionali del quadriennio 1989-1992. In particolare, la caduta
del muro di Berlino, la successiva dissoluzione dell'Unione
Sovietica e la firma del trattato istitutivo dell'Unione Europea
hanno completamente alterato gli equilibri politici preesistenti. In
quasi tutte le formazioni si è verificato un sorprendente fenomeno
di ibridazione tra culture politiche differenti. I principali
partiti e gruppi parlamentari europei, infatti, per acquisire la
consistenza numerica necessaria a esercitare una più forte influenza
nel Parlamento europeo, hanno modificato la propria composizione
accogliendo nuove componenti e, di conseguenza, mettendo in
discussione programmi e orientamenti. Le ideologie tradizionali
hanno cessato di designare confini invalicabili, mentre hanno
assunto maggiore importanza gli accordi specifici su programmi
contingenti. È accaduto così che il partito dei liberaldemocratici
europei, l'ELDR, ha visto più volte cambiare i propri membri,
accogliendo in diverse occasioni formazioni che poco avevano a che
vedere con la cultura politica che da sempre contraddistingueva la
famiglia liberale o perdendo intere delegazioni nazionali, migrate
verso altri movimenti europei. I mutamenti più radicali, però, si
sono verificati all'interno del Partito Popolare Europeo e del suo
gruppo parlamentare. A guidare la trasformazione nel dopo-Maastricht
è stato soprattutto l'allora cancelliere tedesco della CDU
(Christlich-Demokratische Union) Helmut Kohl, convinto che il
partito avrebbe dovuto aprirsi verso altre culture politiche, se
voleva conservare la leadership numerica nel Parlamento europeo ed
esercitare così la supremazia in un'Assemblea che, dopo l'entrata in
vigore del trattato istitutivo dell'Unione Europea, poteva
intervenire in maniera più efficace nel processo decisionale.
L'elemento democratico cristiano non era più sufficiente e per
questo, gradualmente, i cristiano-democratici europei si sono
allontanati dalle proprie radici tradizionali di partito di centro
riformista sul piano sociale e legato alla dottrina sociale della
Chiesa sul piano economico, per diventare una formazione più
eclettica, protesa verso il conservatorismo in campo politico e il
liberalismo sul piano economico. Così si spiega l'apertura del PPE a
movimenti distanti dalle tradizioni cristiane dell'Europa carolingia
- quali i gollisti dell'RPR (Rassemblement pour la République, oggi
UMP, Union pour un Mouvement Populaire) e i conservatori britannici
(i quali, per il momento, hanno aderito solo al gruppo parlamentare
e non anche al partito) - e a partiti di ispirazione prettamente
liberale come Forza Italia o preminentemente conservatrice come il
Partido Popular spagnolo. In tal modo il PPE si è trasformato in una
forza moderata di centro-destra, nella quale sempre meno spazio
trovano i singoli deputati e i partiti che invocano un ritorno alle
origini e nella quale, al contrario, sempre più forti diventano le
ragioni empiriche del bipolarismo, in ambito tanto europeo quanto
nazionale.
Questo stesso processo di trasformazione ha interessato, seppure con
modalità differenti, anche i socialisti europei. Essi, a partire
dalla nascita effettiva del PSE (Partito dei Socialisti Europei)
avvenuta nel 1992 per la necessità di rafforzare la struttura della
confederazione, hanno progressivamente moderato la loro
caratterizzazione ideologica di tipo socialdemocratico per
sperimentare contaminazioni con altre culture politiche. Negli
ultimi anni, in particolare, la convivenza nel PSE del New Labour di
Blair, dei tradizionali partiti socialisti continentali guidati da
quello francese, delle forze della socialdemocrazia scandinava e di
un'esperienza come quella dei Democratici di Sinistra italiani,
sorta dalle ceneri del più forte partito comunista occidentale,
dimostra quanto l'omogeneità di valori e programmi non rappresenti
più una preoccupazione rilevante nelle file del socialismo europeo.
Non è un caso, d'altro canto, che, seppur per ragioni diverse,
alcuni dei partiti membri del PSE ricerchino un confronto
programmatico con i liberali dell'ELDR.
Questo generale processo di 'integrazione partitica europea' può
essere interpretato solo come frutto della confluenza di due
fenomeni distinti: da un lato, la radicale trasformazione (avvenuta
dopo la fine della guerra fredda) del quadro politico dei diversi
Stati che partecipano alla costruzione comunitaria, dall'altro la
lenta ma progressiva acquisizione di nuovi poteri da parte del
Parlamento europeo (in campo legislativo e, in special modo, in
materia di bilancio; in altri e diversi settori, a causa
dell'estensione della procedura di codecisione; e, infine, in campo
istituzionale con l'approvazione della nomina, operata dal Consiglio
europeo, del presidente della Commissione).
Qualora i risultati dei lavori della Convenzione e della successiva
Conferenza intergovernativa dovessero conferire ulteriori poteri
legislativi e di controllo al Parlamento europeo, non è difficile
ipotizzare un rafforzamento del ruolo dei partiti politici e dei
gruppi parlamentari nell'Unione e un graduale avvicinamento a una
forma di bipolarismo europeo. Non mancano segnali in tal senso.
Sotto il profilo politico vanno considerati i tentativi dei Verdi,
dei conservatori nazionalisti e, addirittura, di alcune forze
antieuropeiste di dare vita ad aggregazioni in vista delle elezioni
per il rinnovo del Parlamento europeo del 2004, per non restare
esclusi da un processo che appare irreversibile. Dal punto di vista
giuridico-costituzionale, va rilevato che già l'articolo 191 del
trattato istitutivo della Comunità Europea assegnava ai partiti
politici il compito di contribuire a esprimere la volontà politica
dei cittadini. Questa formula è stata di recente rafforzata dal
contenuto dell'articolo 12 della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione e, ancor più, da un comma che il Trattato di Nizza
(2001) ha aggiunto all'articolo 191, secondo il quale spetterà al
Consiglio deliberare, a maggioranza, sullo statuto pubblico dei
partiti e sulle fonti del loro finanziamento.
5. La svolta del 1989 a Est
Il XX secolo, che aveva visto i partiti di massa assurgere a
elementi indispensabili della democrazia, si è chiuso, anche per
quanto concerne i processi di democratizzazione, con un
ridimensionamento del ruolo del partito politico. Il contributo dei
partiti alla prima fase dei processi di transizione postcomunista
può considerarsi non fondamentale, e solo in alcuni e ben
individuabili casi comparabile a quello che essi ebbero nelle
transizioni dall'autoritarismo alla democrazia caratteristiche degli
anni settanta.
Nelle fasi iniziali delle transizioni di fine secolo, il termine
'partito' è stato per lo più evitato, per il riflesso negativo
proveniente dai partiti comunisti, che avevano rappresentato le
strutture portanti dei regimi appena sconfitti. Per le nuove
aggregazioni sono state preferite denominazioni come 'movimento',
'alleanza', 'unione'. Ben oltre le questioni terminologiche,
l'idealtipo dei primi partiti dell'era postcomunista può descriversi
come una struttura organizzativa complementare a una o più
personalità politiche di spicco, piuttosto che come un'istituzione
indipendente. Questa struttura si caratterizza per la precaria
adesione dei deputati e degli stessi dirigenti, e per un grado di
obbligazione politica molto debole e intermittente. Il numero delle
iscrizioni si è mantenuto poco elevato, e bassa è stata la
percentuale dei cittadini che hanno visto nei partiti 'istituzioni
di fatto' degne di una qualche fiducia. Molte formazioni hanno
vissuto lo spazio di una legislatura e, per questo, pochi cittadini
hanno potuto votare per una stessa forza politica in due elezioni
successive.
La causa principale di questo sottosviluppo partitico va
rintracciata nel carattere monistico dei regimi di tipo sovietico,
al potere per un periodo compreso tra i quaranta e i settanta anni.
Nella maggior parte dei paesi dell'area di influenza sovietica, fino
al crollo dei regimi, mancarono spazi per l'espressione di una
società civile autonoma e ancor più per lo sviluppo di forze di
opposizione significative. Tale situazione ha determinato, nel corso
delle transizioni, due fenomeni in apparenza opposti, ma
riconducibili, in realtà, a cause largamente omogenee: un'estrema
frammentazione partitica ovvero una prevalenza iniziale di
formazioni che erano eredi dirette degli ex partiti comunisti.
Questo quadro generale presenta tuttavia alcune eccezioni. Una
realtà sin dalle origini più favorevole a una trasformazione
democratica fondata sui partiti è rintracciabile in quei paesi nei
quali la società civile aveva avuto un certo grado di sviluppo della
propria autonomia prima dell'avvento del comunismo, e che, proprio
per questo, hanno conosciuto fenomeni di opposizione anche durante
gli anni del regime comunista: Polonia, Ungheria e, in misura
minore, Cecoslovacchia.
In Ungheria, in particolare, già le elezioni del 1990 produssero un
governo stabile, restato in carica per l'intera legislatura (quattro
anni), anche grazie a criteri rigorosi per l'accettazione delle
candidature (v. Lewis, 2000). Solo in questo caso, tra tutti i paesi
dell'area mitteleuropea, già le prime elezioni competitive sono
state caratterizzate dalla presenza di partiti indipendenti con
identità distinte. Molto più spesso, invece, anche in quest'area
(Polonia e Cecoslovacchia), così come in molti altri paesi
interessati dalla transizione (Lettonia, Slovenia, Croazia, Estonia,
Moldavia), i primi scontri elettorali sono avvenuti tra forze
comuniste e ampie ed eterogenee coalizioni anticomuniste. Si è
trattato di uno scontro sul sistema, piuttosto che fra forze
rappresentanti interessi definiti all'interno di un medesimo sistema
condiviso. E, conseguentemente, le larghe coalizioni anticomuniste,
una volta sconfitto il nemico comune, sono state investite da una
profonda crisi di identità, che ha portato alla loro dispersione. Va
rilevato, però, che, specialmente in quest'area centroeuropea, il
succedersi delle competizioni elettorali ha portato a un certo
consolidamento dei sistemi partitici, caratterizzato dal
rafforzamento di formazioni regolarmente rappresentate in parlamento
e dall'uscita di scena dei partiti marginali. Si è così osservata
una riduzione della volatilità partitica, e l'affermarsi di
dinamiche di alternanza stabili e riconoscibili. Dopo una fase
iniziale nella quale, oltre che il nome, anche il modello
tradizionale del partito è stato coscientemente respinto a favore di
strutture più aperte e decentralizzate - strutture che avrebbero
dovuto rendere possibile l'accostamento di forze eterogenee sotto
un'unica etichetta - è prevalso a poco a poco un formato
organizzativo più classico. Con la pratica politica ci si è resi
conto della necessità della gerarchia e dell'organizzazione, per
ottenere maggiore efficienza in campagna elettorale e maggiore
coerenza in parlamento. In Cecoslovacchia, già nelle elezioni del
1992 cinque dei sei partiti principali apparivano "partiti sia di
nome che per struttura interna e organizzazione" (v. Kostelecky,
2002, pp. 154-155). Anche in Slovacchia, verso il 1994 e a seguito
delle ripetute vittorie elettorali di Vladimir Mečiar e del suo
Movimento per la Slovacchia Democratica, il formato del partito
organizzato è divenuto dominante. I partiti, inoltre, una volta
conquistato un ruolo primario in parlamento, hanno avuto
l'opportunità di definire le regole del gioco democratico in modo da
rafforzare la loro centralità a svantaggio di movimenti,
associazioni della società civile e gruppi locali di origine etnica.
Ciò è stato fatto, innanzitutto, intervenendo nell'ambito della
legislazione elettorale: si pensi, a tal proposito, alla progressiva
modifica della legislazione relativa alle elezioni locali nella
Repubblica Ceca, che ha imposto la raccolta di un numero sempre
maggiore di firme per la registrazione delle liste in distretti
sempre più ampi; oppure alla legge dell'inizio del 2000
sull'elezione dei parlamenti regionali dello stesso paese, che
consente la partecipazione ai soli partiti nazionali (v. Agh, 1998,
p. 105).
In molti paesi ex comunisti dell'area balcanica (Albania, Romania,
Bulgaria ed ex Iugoslavia, a eccezione della Slovenia) e anche in
alcuni paesi ex sovietici (Ucraina, Bielorussia, Moldavia),
l'adozione di sistemi elettorali formalmente competitivi non ha
impedito l'iniziale affermazione di situazioni semiautoritarie,
caratterizzate da uno scarso pluralismo, nelle quali la scena
politica è dominata da partiti legati al precedente regime comunista
o da loro reincarnazioni di tipo nazionalista e populista. In
Serbia, ad esempio, nel 1990 i comunisti ottennero il 78% dei voti,
per essere poi confermati al potere nel 1992. E ancora nel 1997, il
boicottaggio delle elezioni contro il regime di Slobodan Milošević
da parte dell'opposizione democratica ha avuto un successo solo
parziale. In Bulgaria un cambio di governo, con la conseguente
vittoria elettorale delle forze anticomuniste, è avvenuto solo nel
1991, e in Albania non prima del 1992. Per Croazia e Slovenia,
invece, le prime elezioni in condizioni di indipendenza, svoltesi
nel 1992, hanno confermato la forza dei sentimenti nazionalistici
(cosa che, in quello stesso anno, avvenne anche in Lettonia). Gli ex
comunisti sono stati confermati al potere anche in Montenegro, e in
Romania con l'FSN (Fronte di Salvezza Nazionale) di Ion Iliescu.
In Slovenia e nei paesi baltici i progressi sulla via della
democratizzazione e della riforma economica sono stati più rapidi,
ma non privi di difficoltà, legati come erano a fattori etnici che
hanno giocato un ruolo importante specialmente in Estonia e
Lettonia. In ogni caso, la Lituania è stata, nel dicembre del 1990,
il primo paese ex sovietico a legalizzare il sistema pluripartitico
e quello in cui, nelle elezioni del 1992, si è realizzata la prima
alternanza democratica, con il ritorno al potere degli ex comunisti
riformati (il Partito Laburista Lituano): dinamica, questa, poi
ripetutasi anche in Ungheria, in Polonia e in molti altri paesi
dell'area di influenza ex sovietica.
A parte va considerata, infine, la realtà della Russia
postcomunista, dove lo sviluppo democratico - e soprattutto quello
partitico - presentano delle peculiarità. La Russia, pur
differenziandosi rispetto ad altri paesi ex sovietici (Kazachstan,
Azerbaigian, Uzbekistan, Georgia, Armenia) che debbono considerarsi
regimi puramente autoritari - e anche rispetto ai semiautoritarismi
affermatisi in Ucraina, Bielorussia, Serbia e Albania - non ha
seguito la stessa progressione dei paesi postcomunisti dell'Europa
centro-orientale. In Russia non può ancora registrarsi una chiara
tendenza verso il consolidamento del sistema partitico. Le elezioni
della Duma del 1999 e gli sviluppi successivi hanno riaffermato
alcuni tratti tipici del sottosviluppo partitico, caratteristico,
come si è detto, della prima fase delle transizioni. In particolare,
è stata confermata la propensione a un'elevata volatilità elettorale
del sistema dal lato dell'offerta, con la creazione di nuove
formazioni di considerevole successo - il partito filogovernativo
Unità (Edinstvo), lo 'sfidante' Patria-Tutta la Russia (OVR,
Otecestvo Vsya Rossija) del sindaco di Mosca, Yurij Lužkov, e
l'Unione delle Forze di Destra (SPS, Sojuz Pravikh Sil) - cui è
andata in totale oltre la metà dei voti. Il numero dei candidati
indipendenti, dopo la riduzione prodottasi in occasione delle
consultazioni del 1995, è tornato ai livelli del 1993, quando oltre
il 50% degli eletti nei distretti uninominali non era formalmente
collegato ad alcun partito. Si è confermata la schiacciante
superiorità organizzativa del Partito Comunista della Federazione
Russa (KPRF, Kommunisticeskaya Partija Rossijskoi Federatsii)
rispetto a ogni altra formazione politica. Infine, a questa scarsa
formalizzazione del partito è corrisposta una ancor più esigua
rilevanza istituzionale. Il presidenzialismo russo ha infatti
assunto un carattere marcatamente carismatico e 'al di sopra delle
parti', la Duma ha un'influenza molto relativa sulla formazione del
governo, con una tendenza a sottomettersi a quello che è stato
definito il 'superpresidenzialismo' di Vladimir Putin (v. Fish,
2000).
Non per questo si può escludere che la situazione russa evolverà in
futuro nello stesso senso dei paesi dell'Europa centro-orientale. In
tale direzione è persino possibile rilevare alcuni sia pur flebili
segnali. Una recente legislazione, in particolare, ha introdotto
requisiti più rigorosi per la registrazione dei partiti, ai quali si
richiede un maggiore sforzo di presenza in ambito regionale - ambito
che, però, conserva una forte dose di indipendenza dall'arena
politica principale. Il secondo presidente russo, inoltre,
nonostante abbia rafforzato i caratteri carismatici del suo ruolo,
sembra più incline del suo predecessore a considerare la funzione
politica dei partiti, non celando le proprie simpatie per Edinstvo e
per la recente unione di questo con l'OVR. Tali dinamiche potrebbero
approdare a un sistema partitico stabile con una larga coalizione
centrista e filogovernativa, che verrebbe sfidata da un'opposizione
di sinistra formata sostanzialmente dai comunisti, e da un'ala di
centro-destra costituita dall'unione, per ora in fieri, fra i
liberali di SPS e di Yabloko.
In definitiva, il ruolo dei partiti nei nuovi processi democratici
postcomunisti ha assunto caratteristiche eterogenee per diversi
gruppi di paesi. Generalizzando, si può però affermare che i partiti
e i sistemi di partito appaiono meno strutturati di quelli operanti
nelle democrazie avanzate. Al modello classico del partito di massa
si approssimano, e in modo parziale, i soli partiti ex comunisti,
mentre la maggior parte degli altri ha pochi membri e fa affidamento
su finanziamenti pubblici (e, se al governo, sul clientelismo) per
sostenere le spese richieste dalla loro attività. Alcuni osservatori
parlano, per questo, di diffusione in Europa centro-orientale del
modello del 'partito di cartello' (v. Agh, 1998, p. 109; per il
concetto di 'partito di cartello', v. Mair, 1997). L'affidamento ai
fondi pubblici sembra, però, dovuto più alla debolezza della società
civile e alla difficoltà dei partiti postcomunisti di identificare
con precisione gruppi sociali di riferimento, che non al desiderio
di indipendenza dalla società e alla volontà di sottrarsi a una
genuina competizione elettorale escludendo 'nuovi ingressi',
implicita nell'idea di cartello. L'analisi del rapporto tra processo
di democratizzazione e sviluppo partitico spinge, dunque, a una
riconsiderazione della sintesi storica proposta da Huntington con la
formula 'terza ondata verso la democrazia'. Solo in alcuni paesi
dell'ex blocco sovietico - in quelli dell'area centro-orientale e in
alcune repubbliche baltiche - si è infatti realizzata una
transizione di tipo pattizio, che lo stesso Huntington individua
come caratteristica dell'ondata avviatasi negli anni settanta: in
queste realtà il partito ha rappresentato il principale luogo dello
'scambio politico' e della 'contaminazione' tra vecchie e nuove
élites, e, non certo casualmente, proprio in tali contesti ha finito
con l'assumere un ruolo comparabile a quello che i partiti ebbero in
Spagna, Portogallo e Grecia. In altre realtà, invece, in particolare
nei paesi ex sovietici, la mancanza di partiti consolidati ha
contribuito a uno sviluppo incerto del processo di transizione, che
in molti casi risulta ancora sospeso tra democrazia e
semiautoritarismo (v. McFaul, 2002).
6. Conclusioni
Il partito di massa come versione moderna del 'grande partito'
tocquevilliano, protagonista della vita politica e delle transizioni
democratiche nell'immediato dopoguerra, cominciò la sua
trasformazione e il suo declino in Europa già negli anni cinquanta,
quando si iniziò ad avvertire il problema delle forze antisistema,
connesso alla rottura della coalizione internazionale prevalsa nella
seconda guerra mondiale. Il partito, in questo nuovo scenario, non
fu più in grado di rappresentare un elemento di stabilizzazione del
complessivo equilibrio istituzionale e a tale sua incapacità si
aggiunse, a partire dal decennio successivo, una crescente
inadeguatezza a offrire risposte ai processi di autonomizzazione e
secolarizzazione che stavano investendo le società civili dei paesi
più avanzati.
Il caso dell'Italia, dove il partito mantenne una sua centralità
fino alla fine degli anni settanta, va considerato in questo
scenario un'eccezione, conseguenza della mancata modernizzazione del
sistema istituzionale e della perdurante presenza di un forte e
radicato Partito Comunista, al quale era interdetto, per il peso che
i vincoli internazionali esercitavano sulle scelte degli elettori,
l'accesso all'area del governo (v. Ignazi, 2002).
La nuova ondata di democratizzazione che ebbe inizio negli anni
settanta sembrò rilanciare il ruolo dei partiti, i quali si
trovarono a svolgere un'importante funzione di mediazione
nell'ambito delle transizioni dell'Europa meridionale, avvenute, per
lo più, attraverso degli accordi. Essi, anche per questo,
ricevettero una disciplina costituzionale nell'articolo 51 della
Costituzione portoghese del 1976 (poi modificata nel 1997) e
nell'articolo 6 della Costituzione spagnola del 1978.
Questo nuovo protagonismo non deve far ritenere che in Occidente il
processo di trasformazione della forma-partito e il declino della
sua funzione sociale si arrestassero. Negli anni settanta, infatti,
in Europa il processo di autonomizzazione della società civile dalla
politica si fece più impetuoso e, inoltre, si accelerò il processo
di 'mediatizzazione' della vita politica, che produsse le sue
maggiori conseguenze nei decenni successivi, investendo appieno la
realtà dei partiti. In Occidente, e segnatamente in Europa, negli
anni ottanta si compì quella metamorfosi dei partiti, che poi la
svolta storica del 1989 ha consentito di ultimare e consolidare. Il
ruolo del leader si è affermato come preminente, è crollata la
partecipazione dei militanti, i contenuti ideologici si sono
affievoliti, i processi di centralizzazione dei meccanismi
decisionali si sono perfezionati e pratiche fino ad allora
sconosciute nell'orizzonte partitico - quali i sondaggi e il
marketing - hanno assunto un'importanza crescente.
Tutto ciò è stato a più riprese e sotto diversi aspetti considerato
come un pericolo per i regimi democratici occidentali. E la presunta
minaccia del 'partito mediatico' nei riguardi della democrazia è
stata avvertita come ancora più pericolosa quando, nel 1992, si è
verificata negli Stati Uniti l'ascesa del movimento United We Stand
America del magnate televisivo Ross Perot e, due anni più tardi, in
Italia, seppure in un contesto completamente diverso, di Forza
Italia, partito strettamente legato alla figura di Silvio
Berlusconi, imprenditore di primo piano nel settore dei media. La
sedimentazione di queste esperienze induce, però, a trarre
conclusioni meno allarmanti. Innanzitutto, il fallimento
dell'esperienza di Perot e, soprattutto, l'evoluzione organizzativa
di Forza Italia mostrano che, se i mass media possono offrire una
formidabile 'finestra di opportunità' per l'ascesa di un partito
politico, il passaggio dallo 'stato nascente' dell'organizzazione
alla sua istituzionalizzazione richiede a qualsiasi attore politico
forme di radicamento più tradizionali (v. Poli, 2001). Inoltre,
l'accrescersi delle opportunità di successo per nuove formazioni,
come conseguenza di una maggiore influenza della comunicazione nelle
dinamiche sociali, induce ad applicare all'analisi dei partiti la
categoria della 'contendibilità', che la scienza economica da
Schumpeter in poi ha utilizzato per spiegare alcuni meccanismi del
mercato economico (v. Baumol e altri, 1982). La velocizzazione delle
sfide politiche assicurate da strumenti che garantiscono un'ampia e
immediata diffusione del messaggio politico (v. Rosanvallon, 1995)
aumenta la 'contendibilità' della posizione preminente dei partiti
consolidati, che in passato non poteva essere insidiata a causa di
una necessaria sedimentazione di complessi processi organizzativi.
Questa dinamica rende più difficile il consolidarsi di rendite di
posizione e spinge, perciò, i partiti a prestare una maggiore
attenzione alle volontà e alle intenzioni dell'opinione pubblica,
con la conseguenza di accrescere il tasso di democrazia reale dei
sistemi (v. Manin, 1995).
Quanto detto induce a ritenere che la svolta epocale del 1989 si
inserisca a Ovest in un processo già in atto, amplificandone gli
effetti. La novità di questa fase, piuttosto, è che l'analisi
complessiva delle trasformazioni politico-istituzionali dei paesi ex
comunisti ha ridimensionato l'importanza del partito nel passaggio
alla democrazia. Mentre la considerazione delle transizioni del
dopoguerra e di quelle degli anni settanta nell'Europa
centromeridionale portava a pensare che il partito avesse un ruolo
assolutamente centrale e difficilmente sostituibile (v. Morlino,
1995), nei paesi post-comunisti più avanzati le nuove regole del
gioco democratiche hanno acquisito visibilità e legittimità prima (e
quindi senza il bisogno) dell'emergere di partiti istituzionalizzati
(v. Tóka, 1997).
Il contemporaneo ridimensionamento delle funzioni del partito a
Ovest e a Est fa nascere il rischio che i due processi possano
essere confusi e troppo frettolosamente sovrapposti. È senz'altro
vero che sia in Occidente, sia nel mondo postcomunista i partiti
tendono a essere più leggeri, a non avere un elettorato stabile di
riferimento e, anche per questo, a subire forti sbalzi della propria
forza elettorale. In Occidente, però, si è pervenuti a questo stato
di cose per gli effetti del crescente benessere sociale portato
dall'affermarsi della società postindustriale, per il conseguente
allargamento della classe media e la correlativa erosione delle
differenze di classe, per la crisi delle fratture politiche
tradizionali e l'emergere di istanze postmateriali legate a
condizioni o problemi specifici (come, solo per fare degli esempi,
ecologismo o femminismo). Il sottosviluppo dei partiti dell'Europa
postcomunista, invece, risulta piuttosto connesso all'ancora
accentuata debolezza della società civile e alla sua limitata
autonomia, alla scarsa differenziazione dei gruppi e degli interessi
sociali, alla povertà di massa. Esso, in altri termini, va
considerato come l'effetto paradossale di un 'residuo' del sistema
di tipo sovietico che, per quanto concerne il partito politico, si
risolve in una sorta di contrappasso. Tutto ciò non toglie che, nel
processo di consolidamento delle forme della democrazia a Est, i
partiti assai difficilmente passeranno per lo stadio del partito
ideologico di massa. Essi, probabilmente, saranno portati a saltare
una fase della loro evoluzione storica (circostanza che certamente
renderà più complesso il definitivo affermarsi della democrazia) sia
per l'influenza dei processi di integrazione europea in atto, che
coinvolgono alcuni di quei paesi, sia per il rilievo che, anche in
quei contesti, avranno le nuove sfide politiche globali.
La frammentazione della società civile da un lato, la
globalizzazione dei conflitti dall'altro inducono a ritenere che i
partiti tradizionali saranno sempre più surrogati da altre
istituzioni di fatto, quali gruppi di interesse e associazioni di
categoria (v. Schmitter, 1992), ovvero da movimenti che, per loro
stessa natura, sono più portati a rappresentare istanze complessive.
Sarebbe però un errore pensare per questo che il ruolo dei partiti
si vada estinguendo (v. Antiseri, 1999): il passato recente dovrebbe
rappresentare, in tal senso, una lezione.
Dopo il 1989 vi fu chi ritenne, seppure per poco, che il conflitto
politico potesse estinguersi (v. Fukuyama, 1992). Dopo l'11
settembre 2001, invece, sono state rivalutate quelle analisi che
prevedevano una generalizzazione del conflitto, a livello di scontro
di civiltà (v. Huntington, 1996). Il partito, nell'uno e nell'altro
caso, verrebbe a trovarsi in difficoltà al cospetto di una
conflittualità eccessivamente indebolita o esasperata. In realtà,
nella società globalizzata il conflitto, rispetto al passato, non si
annulla né si generalizza, si articola solo in modo differente; e
questa nuova articolazione passa anche attraverso istituzioni di
diversi livelli (locale, nazionale, sovranazionale), dei quali i
partiti restano funzione essenziale per rendere possibile, in un
contesto divenuto più complesso, l'accountability e la
responsiveness dei governanti verso i governati (v. Mainwaring,
1999; v. Kitschelt e altri, 1999).
Si può, dunque, concludere che ciò che i partiti stanno perdendo in
termini di rappresentatività per la concorrenza di altri soggetti
politici, lo guadagnano in termini di funzionalità istituzionale per
la loro capacità di puntellare e mettere in contatto tra di loro
differenti arene. All'alba del XXI secolo, i partiti sembrano sempre
più somigliare ai 'piccoli partiti' intesi come mere funzioni delle
istituzioni - dei quali Tocqueville, con malcelata preoccupazione,
descriveva l'affermarsi nell'America dei primi decenni
dell'Ottocento - che non ai 'grandi partiti' al servizio degli
ideali che, seppure in forme diverse, dominarono a lungo la vita
politica dell'Europa.