Parlamento
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Assemblea che tratta di affari pubblici, politici e amministrativi;
in particolare, l’assemblea (o le assemblee) incaricata della
funzione legislativa nei diversi Stati.
Diritto
1. Caratteri generali
Il p. è l’organo rappresentativo per eccellenza, titolare del potere
legislativo. La presenza di un p. elettivo, infatti, è uno dei
cardini del costituzionalismo liberale, in quanto consente, nello
stesso tempo, la creazione di un potere politico limitato e la
partecipazione dei cittadini al governo. L’importanza assunta da
tale istituto nell’ambito del costituzionalismo moderno nasce dal
fatto che, in gran parte degli ordinamenti costituzionali, esso è il
solo organo espressione della sovranità popolare, in quanto eletto
direttamente dal corpo elettorale. In base a ciò, a partire dal 19°
sec. molti autori, sulla scia della dottrina inglese, hanno parlato
(e parlano tuttora) di sovranità del parlamento . A prescindere
dall’accoglimento o meno di questa tesi, nei suoi rapporti con gli
altri organi costituzionali il p. gode senza dubbio di una autonomia
costituzionalmente garantita, la quale troverebbe espressione non
soltanto nell’autonomia normativa, e cioè nella potestà di
disciplinare con proprio regolamento la propria organizzazione e il
proprio funzionamento, ma anche nell’autonomia finanziaria e
nell’autonomia amministrativa. Collegata a quest’ultima è la
problematica riguardante la cosiddetta autodichia, e cioè la
possibilità del p. di essere giudice delle controversie che
riguardano i propri dipendenti. Va detto comunque che l’autonomia
normativa è stata interpretata in maniera diversa nei vari paesi:
mentre, per es., in Francia, nel giugno del 1959 il Conseil
Constitutionnel giunse ad annullare (in virtù dell’art. 61 Cost.)
tutta una serie di disposizioni del regolamento dell’Assemblea
nazionale, arrivando addirittura ad affermare un controllo molto
stringente sui regolamenti parlamentari, la Corte costituzionale
italiana ha escluso il proprio sindacato sul regolamento
parlamentare, in quanto esso rientrerebbe nei cosiddetti interna
corporis (sent. 9/1959; 78/1984; 154/1985).
Nell’ambito del costituzionalismo moderno, una distinzione
fondamentale è quella tra e parlamentare. Generalmente, la soluzione
di tipo bicamerale è quella che prevale nell’ambito della forma di
Stato di derivazione liberale, anche se non sono mancate (e non
mancano tuttora) esperienze costituzionali caratterizzate dal
monocameralismo, mentre la soluzione di tipo monocamerale è quella
che prevaleva (e prevale tuttora) nella forma di Stato socialista,
non senza significative eccezioni. Il bicameralismo, a sua volta,
può essere paritario , quando le Camere hanno gli stessi poteri e le
stesse funzioni (tale è il caso, per es., dell’Italia repubblicana o
degli Stati Uniti), oppure quando una delle due Camere ha una netta
prevalenza sull’altra (tale è il caso, per es., della Francia, della
Spagna, della Germania, del Regno Unito). Un caso peculiare di
bicameralismo era quello previsto dalla Costituzione francese
dell’Anno III, dove a una Camera (il Consiglio dei Cinquecento)
spettava il compito di proporre una legge (art. 76 Cost. francese
del 1795), mentre all’altra (il Consiglio degli Anziani) spettava il
compito di approvarla o respingerla (art. 86).
Al di fuori di questa dicotomia si collocano quelle esperienze
costituzionali che contemplavano un p. pluricamerale: per es. la
Costituzione francese del 1799, oltre ai due rami del potere
legislativo (Tribunato e Corpo legislativo), prevedeva l’intervento
di una terza Camera (il senato), distinta dalle altre due, alla
quale spettava il compito di nominare i membri del Consolato, del
Corpo Legislativo e del Tribunato, di controllare la
costituzionalità degli atti legislativi prima della loro
promulgazione, e, infine, di interpretare e modificare la
Costituzione tramite appositi senatoconsulti; secondo la
Costituzione iugoslava del 1963, il p. (Assemblea federale) era
composto da 5 camere diverse.
2. Il P. italiano
La soluzione bicamerale è quella che ha contraddistinto il nostro
sistema costituzionale, sia in epoca statutaria sia nell’attuale
esperienza repubblicana: così come lo Statuto prevedeva un p.
bicamerale formato dalla Camera dei deputati (poi trasformata in
Camera dei Fasci e delle Corporazioni, dalla l. 129/1939) e dal
Senato, la Costituzione vigente prevede (art. 55 e s.) un p.
articolato in due Camere (Camera dei deputati e Senato della
Repubblica), ognuna delle quali ha esattamente gli stessi poteri e
le stesse funzioni. La scelta di un bicameralismo paritario, se, da
un lato, risponde a una finalità di tipo garantistico, in quanto
impedisce la cosiddetta dittatura di Assemblea (si pensi a ciò che
significò la mancanza di una seconda Camera in Francia nel biennio
1792-1794), dall’altro finisce per rendere il procedimento
legislativo assai macchinoso, e più difficile la formazione di una
stabile maggioranza governativa (come si è verificato in Italia a
seguito delle elezioni politiche del 1994, del 1996 e del 2006,
quando, a fronte di una nettissima maggioranza in un ramo del p., vi
era una maggioranza appena sufficiente in un altro ramo). In sede di
Assemblea Costituente era stato deciso di differenziare le due
Camere, prevedendone una diversa durata (5 anni per la Camera; 6 per
il Senato), e una diversa rappresentanza (l’art. 57 Cost. stabilisce
che il Senato è eletto su base regionale), ma gran parte di queste
differenze sono venute a cadere dopo l’approvazione della l. cost.
2/1963, che, facendo seguito agli scioglimenti anticipati del 1953 e
del 1958, uniformò la durata di Camera e Senato.
L’accoglimento del principio bicamerale comporta che ciascuna delle
due Camere non solo debba partecipare al procedimento legislativo
(art. 70 e seg. Cost.) e a quello di revisione costituzionale, ma
possa anche: adottare un proprio regolamento che disciplini
puntualmente i lavori e, in particolare, il procedimento legislativo
(art. 64 e 72 Cost.); eleggere il proprio presidente e il proprio
ufficio di presidenza (art. 63 Cost.); deliberare a proposito delle
cosiddette immunità parlamentari previste dall’art. 68 Cost.;
giudicare sui titoli di ammissione dei propri membri e sulle cause
sopravvenute di ineleggibilità e incompatibilità (art. 66 Cost.);
essere parte di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
davanti alla Corte costituzionale (ord. 150/1980 e 265/1993 Corte
cost.; sent. 129/1981; 1150/1988; 443, 462, 463 e 464 del 1993
ecc.); togliere e/o dare la fiducia al governo ex art. 94 Cost.;
disporre inchieste su materie di pubblico interesse, ai sensi
dell’art. 82 Cost. (➔ inchiesta) ecc.
Conformemente a quanto accadeva (e accade) in altre esperienze
costituzionali (art. 89 Cost. francese; art. 74 Cost. spagnola; art.
148, 157 e 168 Cost. svizzera), la Costituzione italiana prevede che
le due Camere si riuniscano in comune per lo svolgimento di alcune
specifiche funzioni, tassativamente indicate (art. 55, co. 2,
Cost.). In questo caso – secondo l’opinione dottrinaria prevalente –
non si avrebbe una mera riunione congiunta delle Camere, ma un
organo costituzionale nuovo: il p. in seduta comune . In tali
occasioni, il p. viene presieduto dal presidente della Camera (art.
63, co. 2, Cost.) e ha essenzialmente funzioni di tipo elettivo o
accusatorio. Il p. in seduta comune, infatti, ha il compito: di
eleggere il presidente della Repubblica, in una composizione
integrata da 3 delegati per ogni Regione (con l’eccezione della
Valle d’Aosta, che ne ha uno solo; art. 83 Cost.), nonché ascoltarne
il giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della
Costituzione (art. 91 Cost.); di eleggere (art. 104 Cost.) un terzo
dei membri del Consiglio superiore della magistratura; di mettere in
stato di accusa il presidente della Repubblica per alto tradimento o
attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.); di eleggere un terzo
dei giudici della Corte Costituzionale, nonché di compilare ogni 9
anni l’elenco di 45 nominativi da cui debbono essere sorteggiati i
16 giudici aggregati nei giudizi contro il presidente della
Repubblica (art. 135 Cost.).
2. P. europeo
Istituzione che rappresenta i cittadini europei. La sua
organizzazione e i suoi compiti sono previsti dagli articoli 189 e
seguenti del Trattato che istituisce la Comunità Europea (TCE); è
composto da 736 deputati eletti nei 27 Stati membri dell’Unione
europea in misura proporzionale alla popolazione di ogni paese e
secondo principi comuni, e dura in carica per cinque anni. Il
Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, ha
innalza a 751 il numero dei deputati.
Con decisione del Consiglio del 20 settembre 1976 è stata decisa
l’elezione a suffragio universale diretto dei parlamentari europei;
le prime elezioni si sono svolte nel 1979, consentendo al P. europeo
di divenire istituzione di rappresentanza diretta e immediata. Il
funzionamento del p. è disciplinato da un apposito regolamento
interno, adottato a maggioranza dei suoi membri. Il p. nomina per un
periodo di due anni e mezzo tra i suoi membri un presidente con
poteri di rappresentanza all’esterno e nelle relazioni con le altre
istituzioni. Altri organi del P. europeo sono: l’Ufficio di
presidenza (composto da presidente, 14 vicepresidenti, e 6 questori)
che si occupa del funzionamento amministrativo e finanziario del p.;
la Conferenza dei presidenti (composta dal presidente e dai
presidenti dei gruppi politici) che definisce l’organizzazione e la
programmazione dei lavori; le 20 commissioni parlamentari con
competenze in determinati settori e compiti di elaborazione ed esame
di proposte legislative. I deputati europei si riuniscono in gruppi
politici in base alle affinità politiche e non alla nazionalità. Il
P. europeo ha il potere di chiedere alla Commissione di presentare
proposte normative (art. 192 TCE), ha potere di controllo sulla
Commissione, nei confronti della quale può votare una mozione di
censura (art. 201 TCE), e poteri decisionali nell’ambito delle
procedure legislative, che giungono fino a un sostanziale diritto di
veto esercitabile nell’ambito della procedura di codecisione ex art.
251 TCE. Il Trattato di Lisbona ha sottoposto oltre 40 nuovi campi
alla procedura di codecisione, in materia di agricoltura, energia,
immigrazione, giustizia e affari interni, salute e fondi
strutturali.
Storia
1. Età medievale e moderna
Il termine parlamentum risale agli ultimi secoli dell’Alto Medioevo,
e designò inizialmente la riunione di persone che trattavano
pubblici affari. Nel periodo comunale al p. furono demandate le
decisioni più importanti, sulle questioni costituzionali, sulla pace
e sulla guerra ecc. Nel 13° sec., accanto all’aumento della
popolazione urbana, si venne costituendo nei Comuni il Consiglio
maggiore (Consilium maius) che, meno numeroso del p., più adatto
alla discussione degli affari pubblici e di più facile convocazione,
esautorò progressivamente il p., riunito sempre più di rado. Nel 14°
sec. la funzione, puramente formale, del p. fu quella di legittimare
il trapasso al nascente regime signorile.
Diversa è la vicenda del p. nelle monarchie, di cui è controversa
l’origine; ci furono p. generali, con competenza su tutto il
territorio dello Stato, e p. provinciali o particolari con
competenze più ristrette. In Italia, tra le forme storiche più
antiche ricordiamo il p. del Regno di Sicilia (12° sec.), il p. del
Friuli e quello dello Stato della Chiesa (13° sec.). Nella Penisola
Iberica risalgono all’Alto Medioevo le prime cortes; in Inghilterra
nel 1264 si riunì la prima Assemblea generale delle città del regno;
in Francia la prima vera assemblea generale del Regno furono gli
Stati generali nel 1302. Nei paesi germanici, le città furono
ammesse nelle assemblee regionali dal 14° sec. e, da allora,
possiamo parlare di p. in senso più vicino al moderno. L’assemblea,
divisa così in tre classi (nobile, ecclesiastica e cittadina) veniva
convocata e presieduta dal principe o da un suo delegato: non vi era
una periodicità fissa, né tanto meno uniforme, delle convocazioni.
Le classi potevano deliberare in seduta plenaria ovvero
separatamente; e fu a lungo controverso il metodo di deliberazione,
se cioè il voto concorde di due classi potesse vincolare anche
l’altra classe e se, nella stessa classe, la deliberazione presa a
maggioranza potesse vincolare tutti i componenti di essa: questioni
che finirono per risolversi a vantaggio del principio maggioritario.
Le competenze dei p. furono diverse secondo i luoghi e i tempi:
particolarmente importante fu quella in materia finanziaria, per
l’impegno che l’assemblea doveva assumere in nome dei sudditi, di
fronte agli oneri richiesti dal principe per sussidi straordinari di
denaro o di armati. In materia legislativa, si manifestano le
maggiori diversità: alcuni p. avevano la sola funzione di prendere
atto delle norme che vi erano rese pubbliche; altri invece
elaboravano e approvavano le leggi. Altra importante funzione fu
quella di ricevere il giuramento del nuovo principe e di prestare a
lui in nome dei sudditi il giuramento di obbedienza e di ossequio,
nonché, quando le circostanze lo permisero, il loro intervento nella
politica dei governi. Con l’avvento dello Stato assoluto in Europa,
i p. si avviarono a una rapida decadenza.
2. Età contemporanea
Dopo la rivoluzione americana del 1776 e quella francese del 1789,
in quasi tutti i paesi, specialmente d’Europa, si tese a creare
assemblee parlamentari alla cui base stava il principio che la fonte
del potere è la volontà generale del popolo, il quale mediante i
rappresentanti in p. partecipa all’esercizio del potere statale, in
taluni casi condiviso con la monarchia di origine tradizionale
(monarchia costituzionale). In Inghilterra il regime statale
parlamentare si sviluppò con la costituzione, alla fine del
Settecento, di un gabinetto o governo di ministri responsabili e nel
secolo successivo con le riforme che portarono a un primo
allargamento della base elettorale (1832). In Francia si
succedettero forme diverse di regime parlamentare. Dopo il periodo
dell’Impero di Napoleone I, che praticamente tolse ogni funzione
autonoma al p., si cercò di dare vita a un sistema in cui la
funzione parlamentare trovasse il suo limite nella prerogativa
regia, manifestantesi attraverso le «ordinanze». Con la monarchia di
Luigi Filippo d’Orléans, instaurata nel 1830, ebbe inizio un sistema
parlamentare più avanzato. Perduta ancora una volta ogni pratica
funzione sotto Napoleone III, il p. francese tornò al sistema della
responsabilità solidale dei ministri e della condotta politica del
governo di fronte a esso.
3. Storia del p. in Italia
In Italia, assemblee parlamentari di tipo moderno si ebbero a
cominciare dal 1796. L’Assemblea cisalpina, nata dall’unione con la
Cispadana (17 luglio 1797), adottò il sistema bicamerale e fu in
attività fino all’aprile del 1799. Nel 1812 in Sicilia la
convocazione straordinaria del p. generale dell’isola diede vita a
un’assemblea parlamentare moderna, con due camere, abolita nel 1815.
P. di tipo moderno si costituirono a Napoli in seguito ai moti del
1820 e del 1848, quando si ebbero p. in quasi tutte le regioni
italiane, cessati dopo la reazione del 1849; solo in Piemonte il p.
si mantenne fino alla costituzione del Regno d’Italia. Dopo la
costituzione dell’unità nazionale, la riforma parlamentare del 1882
consentì un primo allargamento della base degli elettori; elevati
dalla riforma del 1912 da 2 a 8 milioni. Da ricordare le grandi
inchieste parlamentari di questo periodo su determinati aspetti
delle condizioni del paese (sul brigantaggio, 1863; agraria, 1885;
sul Mezzogiorno, 1910). La riforma del 1924, che creò il collegio
unico nazionale con 15 circoscrizioni a sistema maggioritario, segnò
il rapido declino del regime parlamentare sotto il governo fascista.
Con il decreto del 3 gennaio 1925 sparì di fatto ogni traccia di p.
democratico. La riforma del 1928 ridusse l’assemblea a 400 deputati,
le cui candidature erano designate dalle confederazioni sindacali e
approvate dal Gran consiglio del fascismo, e nel 1939 la Camera dei
deputati fu sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Il p. democratico fu ricostruito dopo la caduta del fascismo: la
nuova Costituzione mantenne la forma bicamerale e ne rafforzò
l’autonomia.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Augusto Barbera
Sommario: 1. Una difficile definizione. 2. La storia. 3. La
struttura bicamerale. 4. I caratteri costanti. 5. Le funzioni. a) La
funzione di rappresentanza. b) La funzione di indirizzo politico. c)
La funzione legislativa. d) La funzione di controllo. 6. Lo
scioglimento. 7. Declino dei parlamenti? □ Bibliografia.
1. Una difficile definizione
Il termine 'parlamento' comprende realtà spesso fra loro non
coincidenti, che variano sia nel corso delle diverse epoche storiche
sia, in una stessa epoca storica, nei diversi regimi politici.
Alcuni elementi appaiono ricorrenti: un'assemblea permanente, più o
meno ristretta, di rappresentanti; la sua collocazione intermedia
fra la società e il vertice delle istituzioni; la progressiva
specializzazione nella funzione legislativa; il metodo del dibattito
e della conseguente deliberazione collegiale; la pubblicità dei
dibattiti stessi; una tendenziale ma sempre contrastata autonomia da
altri organi costituzionali nell'organizzazione e conduzione dei
lavori dell'assemblea.
Nonostante questi elementi comuni la realtà si configura variamente
per quanto riguarda sia la funzione dei parlamenti, sia la loro
composizione. La stessa funzione rappresentativa, cui si ricollegano
oggi comunemente le assemblee parlamentari, non è mai stata univoca:
si può infatti sedere nell'assemblea a titolo personale o sulla base
di un titolo rappresentativo. Il titolo personale può derivare sia
da una trasmissione ereditaria (molti seggi della Camera dei lord
nel Regno Unito), sia da meriti acquisiti (ad esempio i senatori a
vita nel Senato italiano o i componenti la Camera alta di molti
paesi del Commonwealth), sia in ragione delle funzioni svolte (i
senatori di diritto sempre nel Senato italiano).
Il titolo rappresentativo, a sua volta, può essere espressione di
una rappresentanza di interessi generali (le Camere basse), o di una
rappresentanza di interessi territoriali (le Camere degli Stati: ad
esempio il Bundesrat tedesco formato dai rappresentanti dei governi
dei Länder), o di una rappresentanza di interessi settoriali (le
Camere corporative del primo dopoguerra: ad esempio la Camera dei
fasci e delle corporazioni dell'Italia fascista; alcune Camere alte
in questo dopoguerra: il Senato della Baviera; e, per una parte, il
Senato dell'Irlanda). Sono di difficile collocazione, se nelle
camere politiche o in quelle corporative, le Camere degli ultimi
paesi socialisti (per esempio l'Assemblea popolare cinese) elette in
rappresentanza "di operai e contadini", ma in quanto appartenenti a
classi ritenute portatrici di interessi generali.
Il riferimento agli interessi generali può essere poi variamente
espresso facendo richiamo, come oggi è più frequente, al 'popolo',
o, come nelle vecchie costituzioni liberali, alla 'nazione', vale a
dire a una entità che può trascendere i soggetti chiamati a
esprimere il voto (così, tra l'altro, giustificando l'esclusione dal
voto di chi non appartenga alle classi possidenti).
Il mandato rappresentativo può essere 'libero' ovvero 'imperativo',
con il conseguente vincolo dei parlamentari alle istruzioni ricevute
dagli elettori.
Varie, parimenti, sono le funzioni che il parlamento, nel corso dei
secoli e in vari paesi, può assumere: può svolgere funzioni solo
legislative (nei sistemi presidenziali o direttoriali) o anche di
indirizzo politico (nei sistemi parlamentari). Ma v'è di più: può
svolgere funzioni deliberative o limitarsi a funzioni essenzialmente
consultive, com'è stato in passato per i parlamenti i cui atti erano
sottoposti alla 'sanzione regia', e come tuttora avviene per qualche
camera alta nei confronti della rispettiva camera bassa, o per le
deliberazioni del Parlamento europeo, delle quali le principali sono
sottoposte all'approvazione del Consiglio dei ministri dell'Unione
Europea.
In realtà sul parlamento, forse più che su ogni altro organo
costituzionale, si riflettono le caratteristiche complessive del
sistema politico e costituzionale in cui esso è inserito (v.
Manzella, 1991); e a loro volta sono le funzioni, i poteri e le
prerogative del parlamento che danno una specifica connotazione al
sistema costituzionale. Dalla libertà dei parlamentari si deduce se
trattasi di regime libero o autoritario, dalla collocazione del
parlamento rispetto al governo se, sempre nell'ambito di regimi
liberi, si avrà una forma di governo presidenziale, parlamentare o
assembleare.
Decisivo altresì il collegamento che si instaura con altri soggetti,
quali i partiti e i sindacati, che pur collocati sul versante della
società svolgono anch'essi funzioni di rappresentanza.
Determinate forme di presenza di questi ultimi possono portare a
pratiche neocorporative in grado di incidere sui poteri del
parlamento. Poiché tali politiche rendono lo Stato non solo arbitro
ma anche 'parte contraente', ne deriva che il potere decisionale in
talune importanti materie, persino in quella tributaria, tende a
spostarsi sull'esecutivo.
Ma sono soprattutto il sistema dei partiti, la natura degli stessi
(a 'disciplina coesa', come in Gran Bretagna, o a 'vincolo debole',
come negli Stati Uniti) e le loro relazioni reciproche che possono
modellare la struttura della rappresentanza parlamentare e i compiti
del parlamento. A sua volta il tipo di sistema elettorale adottato
per l'elezione del parlamento influenza i lineamenti di fondo del
sistema dei partiti (v. Duverger, 1951; v. Sartori, 1976). Del
resto, sotto un profilo storico, gli stessi partiti tendono a
distinguersi a seconda che trovino origine o alimento nelle lotte e
nelle divisioni in parlamento (prevalentemente i partiti di
opinione) ovvero nelle lotte sociali (i partiti di massa). Tuttora
diverse, poi, appaiono le caratteristiche dei partiti a seconda che
la loro leadership trovi legittimazione nei gruppi parlamentari
ovvero nella base degli iscritti (v. Panebianco, 1982). I partiti di
quest'ultimo tipo, a loro volta, si caratterizzano per i loro
obiettivi come partiti parlamentari o come movimenti
extraparlamentari, in relazione alla loro maggiore o minore capacità
di integrazione nella democrazia rappresentativa.
2. La storia
Del parlamento è dunque difficile parlare isolatamente: esso è parte
di un sistema, è il punto d'incrocio di altri sottosistemi (rapporto
partiti-elettori; relazione parlamento-governo) e di altri sistemi
di relazioni (Stato-società; centro-periferia; comunità
sovranazionali e Stato).
Per queste ragioni una storia dei parlamenti come anche una loro
analisi comparata, ove prive di riferimenti a un 'tipo ideale'
attorno a cui polarizzare i vari modelli di parlamento, per usare
una ancora valida categoria weberiana (v. Weber, 1922), rischiano di
essere poco significative.
Non è certamente significativo, intanto, collegare i parlamenti
dell'era moderna alle antiche assemblee. E infatti ben pochi autori
risalgono alle assemblee delle città greche, variamente denominate
(l''ecclesia', la 'bulé', l''areopago', ad esempio), pur
rappresentando esse istituzioni importanti dei primi modelli di
democrazia politica. E sebbene nel XVII secolo il rump Parliament
inglese, il 'Parlamento monco', uscito vittorioso dalle lotte per le
libertà parlamentari, ambisse ad avere come modello le assemblee
della Repubblica romana, appare ugualmente poco significativo il
riferimento sia alla sovranità dei comitia sia alla patrum
auctoritas da cui si sviluppa il Senato romano.
Più frequente in dottrina, ma altrettanto privo di significato, il
riferimento alle assemblee germaniche (o, per l'Inghilterra, al
witenagemot sassone); lo stesso Montesquieu (v., 1748; tr. it., p.
291) riconduce a esse le origini del parlamento inglese, così
confondendo le assemblee popolari - se mai strumento di democrazia
diretta - con ciò che sono state nei secoli le assemblee inglesi,
vale a dire assemblee o di notabili o di rappresentanti (come subito
gli fece notare con ironia Voltaire). Montesquieu sottolineava anche
che "poiché in uno Stato libero ogni uomo [...] deve guidarsi da sé,
bisognerebbe che il corpo del popolo avesse direttamente il potere
legislativo; ma poiché ciò è impossibile nei grandi Stati, e
soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna che il popolo
faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto ciò che non può
compiere direttamente. [...] Il grande vantaggio di avere dei
rappresentanti è che essi sono capaci di discutere i pubblici
affari. Il popolo non ne è affatto in grado, e questo costituisce
uno degli inconvenienti principali della democrazia" (ibid., p.
280).
La stessa natura di assemblea popolare sembra avere quello che ha
fama di essere il più antico parlamento del mondo: l'Althing
dell'Islanda in cui il popolo cominciò ad adunarsi nel giugno 930,
nella località di Thingviller, poco distante da Reykjavik, per
ascoltare il sacerdote che ispirato dallo spirito degli antenati
proclamava la 'voce delle leggi' o per assistere all'esecuzione di
quanti avessero infranto le leggi eterne (v. Mancini, 1991).
Né appare un punto di riferimento sicuro l'uso del termine
'parlamento'. Publicum parlamentum o parliamentum, sinonimo spesso
di colloquium, consilium regis, magnum concilium, consistorium,
tractatus, curia regis, si ritrova in documenti vari fin dal XII
secolo: dai documenti inglesi a quelli del Regno di Sicilia, ai
documenti pontifici e prima ancora nella stessa anglo-normanna
Chanson de Roland (per un'ampia documentazione v. Marongiu, 1962; v.
Pasquet, 1964).
È anche una forzatura voler individuare una continuità fra i
parlamenti moderni e le assemblee dei cortigiani (cui talvolta sono
associati grandi feudatari laici ed ecclesiastici) che si riuniscono
nella curia regis per dare solennità con la loro presenza alle
principali decisioni del sovrano, per lo più atti di amministrazione
della giustizia. Erano quindi decisioni volte non a creare ma ad
applicare e interpretare un diritto che non era né nella
disponibilità del sovrano né tanto meno nella disponibilità del
consesso da lui riunito. Più che un corpo organizzato il parlamento
era allora un'occasione di incontro: così può dirsi per le Cortes
castigliane (o quelle della Corona d'Aragona o della Catalogna) del
XII secolo; così per la 'Curia generale e solenne' che nel 1194 si
riunisce in Sicilia sotto gli Svevi e ha un precedente nella 'curia'
introdotta dai re normanni.
Appartiene alla leggenda che il Parlamento siciliano sia stato il
primo d'Europa dopo quello islandese e avrebbe addirittura dato il
nome, parliament, a quello inglese (v. Palmieri, 1847; v. Orlando,
1951; v. Hermens, 1964). È invece meno contestato che detto
Parlamento (che fu convocato nel 1232-1240 a Foggia da Federico II
chiamando a parteciparvi per le prime volte anche le città) sia
stato fra i primi ad assumere le caratteristiche di una vera e
propria istituzione. È quanto sembra confermare la Costituzione del
25 marzo 1296, De curia semel in anno facienda, che prevedeva che
l'assemblea venisse convocata periodicamente per discutere del bene
e della felicità del re e dei siciliani, degli abusi di giustizieri
e notai, della nomina dei giudici per le pene capitali. Un secolo
dopo, nel 1397, essa si sarebbe divisa nei tre bracci, 'militare'
(ovvero della feudalità), 'ecclesiastico', 'demaniale' (ovvero delle
città libere).
Appartiene anche alla leggenda che Edoardo I (1272-1307) abbia
trasformato la massima di diritto privato quod omnes tangit, ab
omnibus probari debet in principio di diritto pubblico (v. Stubbs,
1880), ma è invece documentato (v. Fischel, 1866, p. 155) che nel
1255 si era riunito a Westminster un magnum Parliamentum di abati,
conti e baroni che respinse la richiesta di un sussidio avanzata da
Enrico III (1216-1272). Qualche anno dopo, nel 1258, il sovrano
ottiene il sussidio ma alle condizioni dettate dai baroni guidati
dal siniscalco Simone di Montfort, e contenute nelle Provisions of
Oxford. Fra queste condizioni è prevista la convocazione regolare
del Parlamento (tre volte l'anno) per esaminare lo stato del reame e
i comuni bisogni del re e del reame. Nel 1265 lo stesso Simone di
Montfort ottenne che alle riunioni partecipassero anche i
rappresentanti delle città e dei borghi. Ma è nel 1295, sotto il
citato Edoardo I, che si riunisce quello che passerà alla storia
(peraltro su questo punto messa in dubbio) come the great and model
Parliament, che unisce rappresentanti di città e borghi, baroni,
vescovi e arcivescovi.
Da allora lo sviluppo delle istituzioni parlamentari inglesi si fa
veloce: nel 1334 un funzionario (clerc) viene posto stabilmente al
servizio del Parlamento; nel 1376 si registra il primo impeachment
nei confronti del gran ciambellano e del gran siniscalco; nel 1383
si sancisce che le spedizioni militari siano decise dal re con
l'accordo dei lord.
Diviene progressivamente comune a tutti i parlamenti quanto era
stato conquistato a Runningmead il 15 giugno 1215, allorché i baroni
strapparono a Giovanni Senzaterra la Magna Charta libertatum: da
allora in poi non si sarebbero pagati sussidi o imposte senza il
consenso dei baroni. È opinione diffusa che il principio no taxation
without representation su cui si baserà anche la Costituzione degli
Stati Uniti d'America prenda le mosse da quella data, ma soltanto
dal XV secolo in poi il Parlamento acquisterà la consuetudine di
esaminare le richieste di sussidi dopo la risposta del sovrano alle
petitiones dei parlamentari.
C'è tuttavia una linea di demarcazione che distingue queste
assemblee dalle assemblee di 'stati' (detti anche 'stamenti',
Stände, stati provinciali o generali) che cominciano a riunirsi nei
principati germanici, nelle Fiandre, in Svezia, in Francia, alle
quali partecipano gli appartenenti a ordini che vigilano sulla
difesa dei propri privilegi. E del resto, in questi paesi, lo stesso
sovrano più che titolare di un potere superiore appariva titolare di
un ulteriore e più forte privilegio.Mentre per le citate assemblee
vale la definizione di parlamenti 'prerappresentativi' (v. Cam e
Marongiu, s.d.), da annoverarsi più nella storia del corporatisme
che del parlamentarisme, in Inghilterra, più decisamente e con
maggiore rapidità che in altre nazioni, tenderà progressivamente ad
affermarsi il concetto di 'rappresentanza'. Già nel 1565 (ma la
pubblicazione avverrà nel 1583) sir Thomas Smith potrà enunciare
quella che anche oggi appare come una definizione moderna di
parlamento: "Il Parlamento rappresenta e detiene il potere
dell'intero reame [...] giacché si reputa che ogni inglese sia in
esso presente, sia di persona sia per via di procura e mandato, di
qualsivoglia eminenza, stato, dignità o qualità egli sia, dal
monarca [...] alla più infima persona d'Inghilterra. E il consenso
del Parlamento è considerato rappresentare quello di tutti i
cittadini" (v. Smith, 1583; tr. it., p. 44).
Questa evoluzione dallo scambio corporativo alla rappresentanza
politica ha potuto prendere le mosse dall'Inghilterra perché mai
essa accettò la divisione in 'stati': la Camera dei lord non sarà
formata né dall'intero ceto ecclesiastico né dall'intero ceto
nobiliare, in quanto la nobiltà delle contee, i cavalieri e i
dignitari ecclesiastici minori troveranno spazio nella Camera dei
comuni, saldando i propri interessi con quelli dei rappresentanti
dei borghi.
È questa la ragione per la quale occorre rifarsi alla storia del
Parlamento inglese per cogliere con più coerenza il delinearsi dei
tratti dei moderni parlamenti, e quindi dello stesso nucleo forte
del costituzionalismo contemporaneo. Ed è per questo che assumiamo
come 'tipo ideale', nel senso weberiano, il parlamento dei moderni
Stati liberaldemocratici, quale risulta dalla lenta evoluzione del
Parlamento inglese nonché dalle accelerazioni impresse dalla
Rivoluzione francese e, in parte, da quella americana (soprattutto
per ciò che riguarda il rapporto fra legge e costituzione). Non si
può certo sottovalutare la differenza fra il parlamento che
amministra la giustizia, che esamina petitiones giudiziarie, quali
erano quei Parlamenti inglesi, e i parlamenti che producono leggi e
indirizzo politico (v. Mc Ilwain, 1940): tuttavia, come ha
sottolineato nel secolo scorso William Stubbs nella sua importante
Constitutional history (v. Stubbs, 1880), la storia inglese coincide
per tanta parte con la storia del suo Parlamento, e il
costituzionalismo moderno deve tanta parte di sé alla storia
inglese.
Nel 1641 e nel 1649 avvengono due passaggi cruciali per il
delinearsi dei parlamenti moderni: nella prima data il Triennial act
regolamenta la convocazione periodica del Parlamento, nella seconda
un Parlamento decimato, ma indomito, condanna alla decapitazione
Carlo I Stuart che lo aveva sfidato tentando di trarre in arresto
numerosi membri della Camera dei comuni (Pride's purge). Con la
decapitazione a Whitehall di fronte a una grande folla la supremazia
del Parlamento, e in particolare della Camera dei comuni che aveva
contemporaneamente soppresso la Camera dei lord, si sarebbe
affermata nella storia inglese sopravvivendo anche dopo la parentesi
repubblicana e la restaurazione monarchica.
Nel 1689, con il Bill of rights, Guglielmo d'Orange riconosce il
potere del Parlamento non più solo come privilegio del corpo ma come
diritto dei cittadini: il re assume l'impegno di non reclutare
truppe e di non adottare provvedimenti finanziari senza il consenso
del Parlamento, di non operare alcuna ingerenza nelle elezioni, di
convocare frequentemente le due Camere. Ma soprattutto Guglielmo
assume l'impegno a non esercitare lo ius dispensandi, cioè a non
dispensare chicchessia dall'osservanza delle deliberazioni del
Parlamento. Si apriva così la strada a una significativa
affermazione del principio di legalità. Ed è proprio dal
riconoscimento dei poteri del Parlamento che deriverà la
legittimazione dello stesso sovrano, facendo così emergere una
funzione tipicamente costituente del Parlamento (lo noterà nel 1736
di ritorno da un viaggio in Inghilterra Scipione Maffei). Nel 1701
l'Act of settlement non solo stabilirà che la successione regale
spetta ai discendenti di casa Hannover ma prevederà altresì
l'incompatibilità fra l'ufficio di deputato e la condizione di
stipendiato dal re, delineando con più nitidezza l'autonomia del
Parlamento.
Negli anni fra il 1721 e il 1742, con il risalto assunto dalla
posizione ministeriale di sir Robert Walpole, comincia a delinearsi
la figura del premier. Con essa si rafforza l'influenza del
Parlamento sulla composizione del governo del re e si incominciano a
delineare gli attuali tratti del governo parlamentare. Se nei secoli
precedenti era stato vieppiù difficile per il re governare senza il
consenso del Parlamento, dal XVIII secolo in poi sarebbe stato
consentito governare solo a un governo che godesse la fiducia del
Parlamento. Il governo rimane un governo regio: il re conserva tutti
i poteri di governo ma è obbligato a esercitarli per mezzo di
ministri che hanno la fiducia del Parlamento: mentre prima il re
governava per mezzo dei ministri da allora in poi vieppiù "i
ministri governano per mezzo del re" (v. Schmitt, 1928, p. 423). Le
dimissioni del gabinetto di lord North nel marzo del 1782, in
seguito a una mozione della Camera dei comuni contro la
continuazione della guerra in America, sottolineeranno in modo
significativo il rapporto di fiducia che deve intercorrere fra
governo e Camera dei comuni (v. Trevelyan, 1960, p. 637).
Allorché Pitt il giovane diverrà nel 1784 primo ministro proprio in
quanto leader del partito tory vincitore delle elezioni e divenuto
maggioranza in Parlamento, si delineerà in maniera sicura
quell'alternative government, che aveva iniziato già a configurarsi
un secolo prima allorché Guglielmo III aveva sostituito ministri
whig con ministri tratti dal partito dei tories.
Con la riforma elettorale del 1832 si fa un passo verso il suffragio
universale. Esso accrescerà la rappresentatività della Camera dei
comuni e favorirà l'affermarsi di un più moderno bipartitismo che
rafforzerà il sistema parlamentare di governo. Si rafforzerà così
ancora più la figura del premier, insieme capo del governo e leader
della maggioranza parlamentare. In quanto leader del partito
vincitore delle elezioni, in un sistema tendenzialmente bipartitico,
la sua investitura a premier trarrà, il più delle volte,
legittimazione politica direttamente dal corpo elettorale.
Mentre il Parlamento inglese, per la capacità di adattamento
dimostrata, reggerà alle sfide del XIX e del XX secolo conservando
antichi poteri e solenni liturgie ma aprendosi alle innovazioni con
molta flessibilità, altrettanto non avverrà per gli altri parlamenti
sopra indicati.
Le assemblee germaniche di 'stati', legate com'erano alle libertà
degli individui non in quanto uomini o cittadini ma solo in quanto
membri di un ceto, di una corporazione o di una città, non saranno
in grado di resistere all'assolutismo regio e alla fine cederanno il
passo a parlamenti senza una significativa storia alle spalle,
divisi in fazioni e incapaci di adattarsi alla nuova realtà del
suffragio universale (fino al 1918 la Dieta prussiana fu eletta con
un sistema elettorale distinto per tre classi). Il momento dello
scontro decisivo si ebbe in Prussia prima sotto il regno di Federico
Guglielmo I e, dal 1740, sotto Federico II: la necessità di
alimentare onerosi eserciti permanenti (che non ebbero né la
monarchia inglese né la confederazione americana né la stessa
Francia) diventava incompatibile con i privilegi fino ad allora
riconosciuti alle assemblee degli 'stati'. Ecco perché mentre negli
altri paesi europei si affermeranno nella seconda metà del secolo
XIX forme di governo parlamentare, nella Germania di Bismarck il
Parlamento, pressato dall'azione incisiva dei gruppi di interessi
(Interessenverbände), e reso debole dall'assenza di forti partiti
politici, non sarà in grado di sottoporre a controllo fiduciario
l'azione dei cancellieri che risponderanno soltanto all'Imperatore
(v. Weber 1918; tr. it., pp. 64 ss.). La vittoria di Guglielmo I sul
Parlamento prussiano nel conflitto apertosi sulle spese statali e il
consolidarsi della forma di 'governo costituzionale' porranno le
premesse per l'affermarsi di un abnorme potere militare e per il
fallimento del gracile 'governo parlamentare' tentato con la
sfortunata Repubblica di Weimar (v. Eyck, 1954; tr. it., p. 10).
Gli Stati Generali della Francia, che saranno riconvocati nel 1789
dopo aver tenuto la loro ultima riunione nel 1614, saranno travolti
dalla ventata rivoluzionaria lasciando spazio a un'Assemblea
Nazionale, che oscillerà fra tentativi di prevaricazione ('la
dittatura della Convenzione') e forme di subordinazione ad altri
poteri.
Eppure la storia del Parlamento francese, almeno fino alle guerre
della 'fronda' vinte dalla monarchia contro il popolo di Parigi
(nello stesso periodo in cui invece il Parlamento inglese condannava
Carlo I alla decapitazione) scorre parallela a quella del Parlamento
inglese: il Parlamento convocato da Filippo il Bello nel 1302
presenta caratteristiche non dissimili da quelle del Great
Parliament convocato da Edoardo I. A tale debolezza non fu estraneo
l'istituto del 'mandato imperativo', che percorre fino a Rousseau la
storia francese: i deputati vincolati ai cahiers de doleance dei
propri elettori, dove erano indicate talvolta minuziosamente le
richieste da avanzare e le concessioni oltre cui non spingersi, non
riusciranno a conservare il ruolo di autorevoli interlocutori del
potere regio (v. Hermens, 1964; tr. it., p. 352).
Solo il Congresso americano avrà una vita fortunata. Anche se dovrà
cedere i più rilevanti poteri di indirizzo politico al vertice
dell'esecutivo manterrà una forte incidenza sull'attività
legislativa e svilupperà una significativa capacità di controllo
nell'amministrazione. D'altro canto i costituenti americani nel
delineare le loro istituzioni ebbero presenti le istituzioni della
madrepatria (si era nell'epoca di Giorgio III, prima delle nuove
tendenze emerse alla fine del XVIII secolo) basate su un
bicameralismo allora tendenzialmente paritario e sulla separazione
dei poteri fra il governo del re e le due Camere: ebbero la fantasia
necessaria per sostituire ai lord i rappresentanti degli Stati
federati e al sovrano il presidente eletto e investito direttamente
dalla sovranità popolare.
3. La struttura bicamerale
Non è agevole individuare la data della divisione definitiva in due
Camere del Parlamento inglese. Secondo alcuni documenti la prima
riunione di due Camere distinte sarebbe avvenuta già nel 1332, ma è
più prudente collocare attorno al 1377, sotto Riccardo II, la
divisione fra Camera alta e Camera bassa (v. Fischel, 1866, vol. II,
p. 157): da una parte i conti, i vescovi, i titolari di antiche
baronie, dall'altra i rappresentanti delle città (che da una certa
data in poi, non definita, presero a riunirsi anche con i cavalieri
e la piccola nobiltà).
Nello stesso periodo prende gradualmente consistenza l'idea che
"solo i comuni rappresentano la nazione mentre i pari non
rappresentano che diritti personali" (ibid., p. 169), e già nel XV
secolo (forse dal 1408) sotto Enrico IV la Camera dei comuni
acquista il diritto di priorità nell'esame dei provvedimenti
finanziari.
A partire dal 1832, con l'estensione del suffragio elettorale,
l'ulteriore rafforzamento della borghesia e l'ampliamento della base
democratica della Camera dei comuni, si divaricano decisamente i
poteri di quest'ultima da quelli della Camera dei lord. Se agli
inizi dello sviluppo delle istituzioni parlamentari il bicameralismo
era 'ineguale' per la prevalenza dei lord, e nei secoli successivi
si mantiene un bicameralismo tutto sommato paritario, dalla riforma
elettorale del 1832 inizia un processo che porterà il bicameralismo
a tornare 'ineguale' per la prevalenza, questa volta, della Camera
dei comuni. Tale processo, avviatosi allorché si era andata
affermando la competenza prevalente dei comuni in materia
finanziaria, si concluderà (anche se sarà ulteriormente perfezionato
in questo dopoguerra) con il Parliament act del 1911 che riconoscerà
alla Camera dei lord solo un 'veto sospensivo' sull'approvazione
delle leggi.
Quanti nell'Europa continentale, dopo le esperienze monocamerali
rivoluzionarie, non vorranno limitarsi a restaurare l'assolutismo
monarchico potranno richiamarsi all'esperienza britannica,
pervenendo a un sistema di relazioni fra le due camere che, pur
valorizzando la camera di diretta derivazione popolare, tenderà a
mantenere il potere di freno e moderazione di una camera non
elettiva. Le prime saranno genericamente definite Camere basse, le
seconde Camere alte.
Come sottolineerà Montesquieu (v., 1748; tr. it., pp. 281-282), le
Camere alte sono composte da "persone illustri per nascita,
ricchezza o onori; se venissero confuse tra il popolo, e non
avessero che una voce come quella degli altri, la libertà comune
sarebbe la loro schiavitù e non avrebbero alcun interesse a
difenderla, perché la maggior parte delle risoluzioni sarebbero
contro di loro. La parte che essi hanno nella legislazione deve
dunque essere proporzionata agli altri vantaggi che essi godono
nello Stato; ciò accadrà se formeranno un corpo che abbia il diritto
di arrestare le iniziative del popolo, come il popolo ha il diritto
di arrestare le loro". Siamo in questo passo di fronte
all'esaltazione del 'principio aristocratico' chiamato a fare da
contrappeso al 'principio democratico', del principio della
'continuità' contrapposto a quello della 'mutevole opinione'.
Secondo i fautori della dottrina della forma di Stato mista (mixed
government), che comprende, oltre a Montesquieu, autori quali
Bolingbroke, Constant, Bagehot e tanti altri, una forma di governo
ispirata a principî democratici sarebbe incline a degenerazioni
demagogiche, così come una forma ispirata solo a principî monarchici
inclinerebbe al dispotismo. Di qui la necessità che la Camera bassa
sia temperata da una seconda camera in grado di bilanciarne i
poteri. La raison della Camera alta deve potersi contrapporre alla
immagination della Camera bassa: con questi termini si esprimerà
Boissy d'Anglas, proponendo la Costituzione termidoriana del 1795,
nel contrapporre la funzione moderatrice del 'Consiglio degli
anziani' rispetto al 'Consiglio dei cinquecento' (v. Baguenard,
1990, p. 3).
Mentre alla Camera bassa viene riconosciuto un potere di iniziativa,
e talvolta di decisione definitiva, alla Camera alta spetta il
compito di 'ritardare', 'far riflettere' o quanto meno spingere al
riesame (to controll, secondo la letteratura anglosassone). Se in
una prima fase, in un quadro di bicameralismo tendenzialmente
eguale, era stata funzione delle due Camere consentire la divisione
del potere fra aristocrazia e borghesia, successivamente,
consolidatasi l'egemonia dei ceti borghesi e in un quadro
istituzionale di bicameralismo 'ineguale', sarà compito delle Camere
alte frenare le Camere basse, rese più attive anche dal progressivo
allargamento del suffragio. La funzione delle due Camere è riassunta
in modo efficace da Stuart Mill, che pure non era particolarmente
incline al governo misto: "È desiderabile che vi siano due camere
per la ragione medesima che induceva i Romani a nominare due
consoli" (v. Mill, 1861).
Per opposti motivi le correnti del radicalismo democratico
punteranno a un sistema unicamerale. I loro argomenti possono così
riassumersi: o le due camere sono entrambe espressione della
sovranità popolare e in tal caso si ha un inutile doppione, ovvero
esse hanno una legittimazione diversa e in tal caso una camera ha
funzioni di freno rispetto all'altra ma si viene a contraddire il
fondamentale principio democratico della sovranità popolare.
Le correnti democratiche, in particolare, si richiameranno più volte
al modello francese della Convenzione del 1793 o a quello
dell'Assemblea nazionale del 1848 (che a loro volta non mancarono di
richiamarsi alla Camera unica del protettorato di Cromwell). Ma
proprio il ricordo di queste ultime esperienze susciterà il timore
di una possibile 'dittatura di assemblea', di quelle assemblee che
nei primi periodi della Rivoluzione si erano erette ad interpreti
assoluti, quasi ad 'oracoli', della nazione. Tale ricordo susciterà,
soprattutto nella stessa Francia, forti diffidenze nell'opinione
pubblica, portando gli elettori a respingere con referendum per ben
due volte, nel 1946 e nel 1969, riforme che avrebbero avviato la
Francia verso un sistema unicamerale o che, con la riforma proposta
dal generale de Gaulle, sembravano spingere verso tale risultato
(così come aveva suscitato non minore diffidenza nell'opinione
pubblica moderata della Spagna il Parlamento monocamerale della
Costituzione repubblicana del 1931).
Le dottrine del 'governo misto' appartengono ormai alla storia
essendo legate al primo costituzionalismo, al periodo delle Chambres
des pairs francesi, del Senato regio italiano e di altri consessi
ereditari (la stessa Camera dei lord viene oggi giustificata più per
la presenza dei membri di nomina governativa che per la pur
massiccia componente aristocratica), ma il dibattito fra
monocameralisti e bicameralisti è ancora vivo in diversi paesi.
I fautori della soluzione unicamerale adducono oggi per lo più
considerazioni pratiche: lentezza e macchinosità del processo
legislativo bicamerale, ripetitività, scarsa incisività e
trasparenza nelle relazioni fra parlamento e governo. Gli argomenti
dei bicameralisti sono di segno opposto, ritenendo essi positiva la
funzione sia di arricchimento delle forme della rappresentanza sia
di freno e moderazione che può essere svolta da una seconda camera.
Senza mettere in discussione la prevalenza della camera di diretta
derivazione popolare si tendono a valorizzare le Camere alte facendo
assumere loro la funzione di 'camera di raffreddamento'. Ma
nell'individuare i soggetti cui affidare tale funzione le posizioni
dei bicameralisti divergono.
L'assegnazione alla Camera alta non avviene ormai più solo in base
ai titoli ereditari ma in base ai titoli più vari: in alcuni casi
sono titoli professionali, in particolare l'appartenenza all'alta
burocrazia o alle università (quasi un quinto del Senato irlandese è
espresso dalle università); in altri casi c'è l'elezione indiretta
ad opera di appositi collegi elettorali (ad esempio il Senato
francese eletto dai consiglieri municipali, in prevalenza
espressione della Francia più conservatrice). Si avranno anche
camere alte espresse mediante cooptazione da parte della stessa
camera bassa (un sesto della seconda Camera nella Costituzione
francese del 1946) o dalla nomina o designazione da parte del
governo (il Senato del Canada e di altri paesi del Commonwealth e in
parte la Camera dei lord o il vecchio Senato regio in Italia). In
qualche caso si agirà sullo stesso elettorato attivo componendo le
seconde Camere mediante il voto plurimo riconosciuto ad alcune
categorie di cittadini (la Camera alta della Svezia fino alla
riforma unicamerale) o, infine, partendo dal requisito dell'età più
matura nell'elettorato attivo e passivo (il Senato repubblicano
italiano, che però vede anche la presenza di senatori a vita e di
diritto).
A
ll'ormai acquisita omogeneità delle Camere basse si contrappone la
varietà delle seconde Camere, ma sono differenziazioni, scriveva
Carl Schmitt (v., 1928; tr. it., p. 392) "che non bastano a formare
il presupposto ideale di un'istituzione autonoma e politicamente
significativa".
Sono peraltro regrediti i tentativi di dare alle seconde Camere un
fondamento meno empirico, ancorandole in tutto o in parte alla
rappresentanza delle categorie economiche. Solo in qualche paese la
Camera alta deriva ancora dall'appartenenza a categorie economiche
(per esempio una parte del Senato irlandese o il Senato del Land
della Baviera, formato dai rappresentanti 'dei corpi sociali
economici, culturali e comunali') mentre in talune democrazie sono
rimasti in piedi gracili Consigli economici (per esempio in Italia
il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro) con compiti
puramente consultivi. E del resto erano già falliti i tentativi più
radicali di superare del tutto la rappresentanza politica per
affermare forme di rappresentanza di lavoratori e produttori nei
regimi fascisti (ad esempio l'italiana Camera dei Fasci e delle
Corporazioni). Né sorte migliore hanno avuto in questo dopoguerra le
Camere economiche sperimentate nelle democrazie popolari.
Il bicameralismo oggi appare vitale solo negli Stati federali o
negli Stati a forte decentramento regionale. Il primo modello di
Senato federale nacque per l'esigenza dei costituenti americani di
avere una camera che svolgesse, pur in assenza della nobiltà
fondiaria, le stesse funzioni di freno e moderazione svolte dai
lord. Le assemblee dei singoli Stati avrebbero inviato a Washington
due senatori per ogni Stato a prescindere dall'ampiezza dello stesso
(al momento del viaggio di Tocqueville lo Stato di New York inviava
quaranta rappresentanti e due senatori, lo Stato del Delaware due
senatori e un solo rappresentante). L'elezione non da parte del
popolo dell'Unione ma da parte delle assemblee dei singoli Stati
nonché una più lunga durata (sei anni rispetto ai due dell'altra
Camera) e una maggiore età per l'elettorato passivo (30 anni contro
25) avrebbero assicurato un contrappeso alla rappresentanza popolare
e una maggiore influenza degli Stati federati. Tale modello ebbe
successo e fu adottato, con alcune varianti, dalla Costituzione
svizzera nel 1848 e dalla Costituzione federale tedesca nel 1870.
Nel 1913 un emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti ha
sostituito all'elezione da parte delle assemblee degli Stati
l'elezione diretta da parte dei cittadini, lasciando però intatti
strutture, durata e poteri del Senato.
Accanto al Senato degli Stati Uniti (ma anche del Venezuela, della
Colombia e altri ancora) si collocano il Consiglio degli Stati della
Confederazione elvetica, il Bundesrat della Germania Federale, il
Consiglio federale dell'Austria, il Senato della Spagna, il Senato
francese e altri ancora. Si tratta di organismi fra loro assai
diversi: per composizione (nella Confederazione elvetica sono i
Cantoni che decidono, dopo la riforma del 1978, come eleggere la
rappresentanza nel Consiglio degli Stati; in Spagna metà dei
delegati sono eletti dalle comunità autonome, metà sono eletti dai
cittadini); per prestigio (assai alta l'influenza del Senato
americano, assai scarsa quella del Senato francese o di quello
canadese); per poteri (il Bundesrat austriaco può presentare
proposte per il tramite del Cancelliere mentre le altre seconde
Camere lo fanno direttamente); per funzioni svolte (la funzione del
Bundesrat tedesco, che dà voce ai governi regionali richiedendo il
voto unitario delle delegazioni, è ben diversa da quella del Senato
americano che rappresenta in modo paritario gli Stati ma senza un
significativo collegamento con i governi degli stessi); per garanzie
(in Australia lo scioglimento non può riguardare il solo Senato);
ciononostante è comune l'intento di controllare e temperare i poteri
della Federazione o dello Stato centrale con i poteri o gli
interessi degli Stati membri o delle comunità regionali.
Ad analoga struttura possono corrispondere funzioni diverse anche in
relazione alla presenza o meno di partiti regionali e ai rapporti di
forza fra formazioni politiche alternative in centro e in periferia
(per esempio negli anni novanta il Partito socialdemocratico era in
maggioranza nel Bundesrat e in minoranza nel Bundestag). In ogni
caso non sempre ai disegni normativi corrispondono le funzioni
effettivamente svolte: in più di una circostanza, per esempio, il
Senato degli Stati Uniti ha svolto nei confronti della Camera dei
rappresentanti una funzione non di freno ma di stimolo. Infatti,
essendo assai esteso il collegio elettorale dei senatori, diventa
più importante nel Senato che nella Camera il peso delle grandi
agglomerazioni urbane e delle minoranze che in esse sono concentrate
(v. Krasner e Chaberski, 1982).
In modo diretto o indiretto anche in questi Stati la seconda Camera
è espressione della sovranità popolare, sia pure articolata su
diversi livelli territoriali, distinguendosi in ciò nettamente dalle
altre seconde Camere pur sempre ispirate (a parte l'anomalo Senato
italiano) a principî aristocratici (se non per nascita, per i titoli
posseduti) o a principî corporativi.
La tendenza nei moderni ordinamenti è dunque duplice: o si passa al
sistema unicamerale o, con un'ulteriore differenziazione delle due
Camere, si riconosce nella seconda la sede per la partecipazione
delle comunità regionali ai processi decisionali nazionali; tale
tendenza accentua però la asimmetria delle seconde Camere nei poteri
di indirizzo politico: non si hanno esempi, neanche in Stati a forte
impronta federale, di Camere a rappresentanza territoriale chiamate
a esprimere la fiducia ai governi.È comunque cresciuto in questo
secondo dopoguerra il numero dei parlamenti unicamerali, sia per le
scelte dei paesi di nuova indipendenza sia per il passaggio a questo
sistema di alcuni paesi occidentali: per esempio nel 1975 la Svezia
e la Grecia, nel 1976 il Portogallo, nel 1953 la Danimarca, nel 1950
la Nuova Zelanda.
Data la varietà delle forme ispirate al principio bicamerale, non è
agevole individuare una tipologia delle relazioni fra le due Camere.
Operando una sommaria sintesi si possono individuare le seguenti
tendenze.
1. La 'fiducia' o 'sfiducia' al governo, là dove sono previste, sono
sempre riservate alla Camera bassa (con l'eccezione dell'Italia)
anche se qualche volta non viene esclusa la possibilità di forme
limitate di sindacato politico da parte della Camera alta (Gran
Bretagna, Francia, Germania, Giappone, Spagna, Austria, Australia,
Irlanda e altri paesi ancora).
2. Il potere di iniziativa legislativa spetta ai parlamentari di
entrambi i rami del parlamento (ma talvolta l'iniziativa che
comporta una spesa è riservata alla Camera bassa, per esempio negli
Stati Uniti).
3. La legge ordinaria tende a porsi quale 'atto complesso' per la
cui approvazione si rende necessaria una doppia votazione delle due
Camere (le cosiddette 'navette'). Tale concorso assai raramente è
paritario (bicameralismo perfetto), spesso è asimmetrico
(bicameralismo ineguale). La funzione legislativa, infatti, tende ad
avere il proprio baricentro nella Camera bassa, seguendo così lo
schema delle competenze delle Camere dei comuni e dei lord quale si
è evoluto nei secoli e definitivamente fissato nei Parliament acts
del 1911 e del 1949. Tale schema può essere così riassunto: i poteri
della Camera alta sono in alcuni casi limitati alla presentazione di
progetti in ordine ai quali però decide definitivamente la Camera
bassa; in altri casi, più frequenti, a tale facoltà si aggiunge il
potere di approvare emendamenti a progetti già approvati dalla
Camera bassa, in ordine ai quali comunque la decisione definitiva
spetta a quest'ultima. In altri casi ancora è data alla Camera alta
anche la possibilità di porre un veto al progetto. Ma sarà sempre la
Camera bassa ad adottare la decisione definitiva, cosa che a seconda
delle materie avverrà o dopo un certo numero di mesi o in tempi più
ristretti, ma con un innalzamento del quorum per la decisione.
4. Le leggi di revisione costituzionale sono invece approvate quasi
sempre con il metodo della deliberazione paritaria.
5. Le Camere lavorano separatamente senza particolari forme di
coordinamento dei loro lavori (se non per il tramite dell'iniziativa
del governo), ma talvolta è prevista la loro riunione congiunta per
svolgere funzioni elettive (Italia, Svizzera), per deliberazioni
d'emergenza (Austria), per dirimere conflitti fra esse (Svizzera), o
nell'ambito del procedimento di revisione costituzionale (Francia).
6. La differenza di posizione fra le due Camere si riflette anche
nell'organizzazione della cosiddetta 'giustizia politica': la Camera
bassa ha il compito di porre in stato d'accusa ministri e capi di
Stato, la Camera alta, meno coinvolta nell'indirizzo politico,
quello di giudicare e condannare.
I più rilevanti poteri di indirizzo politico, e in particolare il
potere di concedere o negare la fiducia, sono dunque concentrati
nella Camera di diretta derivazione popolare. E del resto la natura
del rapporto fiduciario fra parlamento e governo mal tollererebbe un
doppio circuito fra corpo elettorale, maggioranza parlamentare e
governo. Questo doppio circuito sarebbe espressione di un cattivo
funzionamento delle procedure democratiche e fonte di instabilità
governativa. Gli unici paesi che possono permettersi il
riconoscimento di un bicameralismo 'meno ineguale' (come gli Stati
Uniti, almeno per la politica estera) sono quelli retti da governi
presidenziali (i cui vertici possono talvolta trovare utile il
conflitto fra le due Camere).
Fa eccezione l'Italia, il cui bicameralismo ha potuto reggere
proprio perché sono state progettate due Camere la cui composizione
riduce le possibilità di maggioranze divaricate. È bastata però una
ulteriore lieve differenziazione nei sistemi di elezione di Camera e
Senato per fare emergere nelle elezioni politiche del marzo 1994 il
pericolo di due diverse maggioranze parlamentari.
Il bicameralismo costituisce uno dei nodi irrisolti della
Costituzione italiana: alla sua attuale configurazione si pervenne
non sulla base di un disegno ma per effetto di veti reciproci: il no
di liberali e cattolici ai progetti monocamerali, sostenuti dalle
sinistre, fece da contrappeso al no delle sinistre al 'Senato delle
Regioni' (che si sarebbe però voluto eletto sulla base di
rappresentanze professionali e di categoria) sostenuto dal centro
cattolico. Si finì per seguire la via dell'elezione popolare,
affidando gli elementi di differenziazione alla diversa età
dell'elettorato attivo e passivo e alla diversa durata delle
rispettive legislature (secondo la Costituzione del 1948, corretta
su questo punto nel 1963, la Camera si sarebbe rinnovata ogni 5 anni
e il Senato ogni 6). Si affermò altresì che il Senato è eletto "su
base regionale", ma si tratta di un'affermazione generica, peraltro
interpretata dal legislatore in modo riduttivo, limitandosi a
prevedere l'elezione dei senatori attraverso circoscrizioni a
dimensione regionale. Contemporaneamente veniva raccomandato al
legislatore ordinario un diverso sistema elettorale (proporzionale
alla Camera e uninominale al Senato, secondo l'ordine del giorno
Nitti). L'elezione popolare diretta finì tuttavia per determinare la
parità delle funzioni, non potendosi stabilire la preminenza di una
Camera sull'altra.
Il risultato si prestò a critiche: gli unicameralisti temevano che
la differenziazione avrebbe potuto vanificare la possibilità di
incidenza della sovranità popolare; i fautori del bicameralismo
temevano che una differenziazione non marcata avrebbe potuto far
scivolare verso forme di 'dittatura dell'assemblea'. In realtà
l'esperienza maturata ha dimostrato che erano infondati i timori
degli uni e degli altri: la forza unificante assunta dal sistema dei
partiti ha ridotto a episodi marginali i conflitti politici fra
l'una e l'altra Camera, temuti dai fautori della soluzione
unicamerale (talmente temuti che era stato inizialmente previsto il
ricorso al referendum per dirimere i possibili contrasti fra le due
Camere); d'altra parte le scelte delle principali forze politiche,
la discreta tenuta del principio dell'equilibrio fra i poteri
assicurata dalla Corte costituzionale (che anzi talvolta
interferisce attivamente nella produzione legislativa, comportandosi
quasi da 'terza camera') e l'attivazione dell'istituto del
referendum abrogativo hanno fugato i timori dei bicameralisti per
possibili dittature della maggioranza (degenerazioni
assemblearistiche sono state registrate nelle relazioni fra
parlamento e governo, ma non per eccesso di forza bensì per
debolezza delle maggioranze).
L'esperienza ha in realtà plasmato il bicameralismo italiano nella
direzione di un 'monocameralismo imperfetto', che ha i difetti
'monisti' del monocameralismo e le procedure ripetitive del
bicameralismo senza tuttavia avere i pregi né dell'uno, né
dell'altro. È una situazione senza precedenti in altri ordinamenti;
qualche affinità può essere forse trovata con i Parlamenti norvegese
e islandese, i cui rappresentanti si dividono ogni anno in due
Camere, ma in realtà l'elezione unitaria del medesimo corpo
rappresentativo allontana in ogni caso, in quegli ordinamenti, i
citati possibili pericoli di divaricazione delle maggioranze.
4. I caratteri costanti
Le istituzioni parlamentari presentano caratteri ricorrenti con
regolarità in tutti gli ordinamenti liberaldemocratici, alcuni dei
quali appaiono come un necessario corollario della funzione stessa
di rappresentanza politica, altri sono basati su comuni tradizioni.
Proviamo a indicare in forma necessariamente sintetica alcune di
queste caratteristiche, la maggior parte delle quali, proprio perché
riferite al 'tipo ideale' di parlamento indicato sopra, possono
essere indifferentemente espresse sia sotto il profilo descrittivo
che sotto quello prescrittivo.
I. Le istituzioni parlamentari presuppongono un complesso di
condizioni che le mettano in grado di assicurare una comunicazione
effettiva fra Stato e società. Decisiva al riguardo la presenza di
procedure idonee a selezionare, per la composizione di quelle
istituzioni, élites recettive e competitive. Perché le istituzioni
parlamentari corrispondano, sia pure parzialmente, al citato modello
liberaldemocratico, almeno una delle assemblee in cui tende ad
articolarsi un parlamento deve essere: a) espressa da un elettorato
corrispondente il più possibile alla cittadinanza attiva (sempre più
si avverte come un limite in grado di alterare i caratteri di
rappresentatività che devono possedere le assemblee parlamentari la
preordinata emarginazione di intere etnie o di un intero genere,
come per secoli è accaduto all'elettorato femminile); b) eletta in
base a elezioni effettuate con tecniche tali da esprimere la libera
volontà della comunità rappresentata (in primo luogo la pluralità
delle candidature e il voto segreto); c) eletta, infine, sulla base
di una competizione elettorale in cui sia stata assicurata
un'adeguata eguaglianza di chances nella comunicazione politica
(libertà di parola e di propaganda, libertà di associazione
politica).
In assenza di queste condizioni il termine 'parlamento' è da
ritenersi usato impropriamente. Altrettanto non si può dire per il
passato, poiché alcuni di questi caratteri sono il frutto di
conquiste relativamente recenti: il voto segreto e il suffragio
universale maschile sono stati ottenuti tra la seconda metà
dell'Ottocento e il primo dopoguerra.
Anche la traduzione dei voti in seggi deve essere tale da soddisfare
alcune condizioni minime. È diffusa l'opinione che il massimo di
efficacia rappresentativa (sotto il profilo dell'input) si ha con
sistemi di tipo proporzionale, mentre il massimo di efficacia
decisionale si ha con sistemi maggioritari (sotto il profilo
dell'output). Ma tale affermazione non tiene conto di due elementi:
da un lato che la rappresentanza non è solo 'specchio' del paese, ma
è anche tecnica per trasformare gli orientamenti popolari in
decisioni delle istituzioni (non "appareil photographique" ma
"transformateur d'énergie", secondo Duverger: v., 1988); dall'altro
che l'efficacia decisionale non può prescindere dalla necessità di
assicurare alle istituzioni parlamentari tratti pluralistici tali da
riflettere, sia pure in modo non necessariamente proporzionale, i
caratteri del corpo politico rappresentato. Sotto questo profilo
sono stati gravemente alterati i tratti che contraddistinguono le
assemblee parlamentari in quei paesi ove queste sono state elette
con sistemi maggioritari incardinati su circoscrizioni
corrispondenti all'intero territorio nazionale (assicurando quindi
tutti i seggi alla lista vincente senza alcuna rappresentanza delle
minoranze) o in quei paesi in cui sono stati adottati sistemi
proporzionali con clausole di sbarramento senza prevedere una
esenzione per i partiti espressi da minoranze linguistiche.
II. Un'assemblea parlamentare, vale a dire composta di
'rappresentanti politici', si distingue da assemblee di altro tipo -
per esempio da un'assemblea di 'portavoce', portatori di un mandato
specifico - sulla base dei seguenti elementi: a) si tratta di
un'assemblea a carattere permanente e non a carattere intermittente
(anche se il suo lavoro può essere suddiviso in sessioni); b)
l'elezione della parte prevalente dei componenti avviene sulla base
di una legittimazione politica, di una legittimazione, cioè,
conferita dalla polis (e non sulla base di altre forme di
legittimazione, per esempio quella tecnica o professionale, come in
taluni consigli economico-sociali che hanno talvolta l'ambizione di
collocarsi fra le istituzioni parlamentari); c) il conferimento del
mandato rappresentativo non è di norma soggetto a istruzioni
vincolanti ('divieto del mandato imperativo') e, salvo casi
eccezionalmente previsti in taluni ordinamenti, non è revocabile; d)
l'esercizio del mandato da parte del numero prevalente dei
parlamentari, o almeno da parte dei componenti di una delle due
Camere, è personale e di norma non delegabile; e) deve essere
possibile, attraverso strumenti adeguati (non rielezione, soggezione
a critica politica e altro), far valere forme di responsabilità
politica.
Sono invece rimaste ai margini impostazioni diverse, volte a
privilegiare forme più dirette di democrazia. Queste ultime,
elaborate soprattutto dalla dottrina marxista, partendo dalla
riflessione di Marx sull'esperienza della Commune (v. Marx, 1871;
tr. it., p. 114; cfr. anche l'Introduzione allo stesso volume, di F.
Engels, p. 66) e da quella leninista (v. Lenin, 1918; tr. it., p.
108), sono giunte a teorizzare non solo il diritto di istruzione e
revoca dei deputati, ma financo la delega di volta in volta a
cittadini esperti nelle varie questioni. Successivamente queste
posizioni sono state progressivamente ridimensionate (v. Kelsen,
1924; tr. it., p. 85) ma ne è rimasta l'impronta nelle costituzioni
di alcuni paesi socialisti.
Questa impostazione è tutt'oggi presente nell'art. 83 della
Costituzione di Cuba del 1976 e nell'art. 29 della Costituzione
della Repubblica Popolare Cinese del 1978. La formula è pressappoco
quella contenuta nell'art. 107 della Costituzione dell'ex URSS che
prevedeva la revoca e la sostituzione dei deputati che non si
fossero mostrati "degni della fiducia degli elettori". L'ispirazione
è alla democrazia diretta, l'effetto è il controllo degli apparati
di partito e lo svilimento dell'autonomia del rappresentante.
Di tali ispirazioni alla democrazia diretta c'è ancora traccia anche
nelle costituzioni di alcuni Stati membri degli Stati Uniti ove è
previsto il recall, l'istituto del ritiro del deputato, e nelle
costituzioni di alcuni paesi dell'Europa centrale ove è previsto
l'Abberufungsrecht, lo scioglimento del Parlamento su iniziativa
popolare (Svizzera e alcuni Länder tedeschi).Il mandato imperativo è
tuttora presente in alcune seconde Camere formate da rappresentanti
di Stati membri (per esempio nel Bundesrat tedesco), prive tuttavia
di significativi poteri di indirizzo politico in ordine alla
politica generale del governo. Il divieto del mandato imperativo non
esclude tuttavia la presenza di vincoli rilevanti sul piano delle
relazioni politiche (la disciplina di partito in primo luogo) ma
comporta comunque la nullità di atti, accordi, negozi con cui
elettori, partiti o altri soggetti tendano a vincolare il mandato
degli eletti (v. Zanon, 1991). È escluso quindi che possano influire
sul mandato i rapporti del parlamentare con il partito di
appartenenza o con i gruppi che hanno promosso o sostenuto la sua
candidatura.
III. Le assemblee politiche, per loro natura, si fondano sul
principio di eguaglianza fra tutti i loro membri, riflesso
dell'eguaglianza politica che le dottrine del parlamentarismo
presumono nella comunità rappresentata (v. Canetti, 1960; tr. it.,
pp. 226 ss.). Ne discende che il voto all'interno delle assemblee
parlamentari deve essere, salvo eccezioni, ispirato al principio di
maggioranza. Le deliberazioni delle assemblee parlamentari non
possono essere ispirate né al 'principio di saenioritas' (prevalgono
i più saggi o chi è portatore di investiture di carattere religioso:
è usato in talune assemblee rette dal diritto canonico o dal diritto
islamico) né al 'principio di unanimità', tipico delle "conferenze"
fra soggetti autonomi ed equiordinati. Quest'ultimo, proprio perché
basato sul massimo rispetto dell'eguaglianza, non è idoneo a
rappresentare la volontà di un'assemblea. In essa, infatti,
l'eguaglianza si rivolterebbe contro se stessa attribuendo un peso
diseguale a chi vuole esercitare il potere di interdizione (il voto
unanime era richiesto nella Dieta polacca nei secoli scorsi, e
tutt'oggi per talune deliberazioni dei consigli economico-sociali).
IV. La funzione parlamentare esige per sua natura la 'pubblicità',
vale a dire la formazione delle decisioni mediante procedimenti che
consentano il confronto dialettico fra le varie posizioni,
assicurando a tal fine a ciascun componente l'assemblea - e, con
particolari norme, alle minoranze - il rispetto del diritto di
intervento, di iniziativa, di emendamento (government by
discussion). Solo la trasparenza della discussione, e di norma delle
stesse votazioni, consente il controllo da parte dei rappresentati e
l'attivazione e imputazione della responsabilità politica da parte
dell'opinione pubblica (v. Habermas, 1962; tr. it., pp. 79 ss.).
Sulla base dello stesso principio di pubblicità è stato possibile
giustificare l'ammissibilità di forme di ostruzionismo
(filibustering), se ragionevolmente volte a ritardare i lavori
parlamentari e a evidenziare le ragioni dell'opposizione più che a
impedire la decisione della maggioranza.
Dopo l'iniziale privilege della segretezza, volto ad assicurare la
libertà di espressione dei parlamentari (consentiva di punire la
pubblicazione di discussioni parlamentari), il Licensing act del
1695 apre vieppiù le assemblee di Westminster e i parlamenti moderni
al principio di pubblicità. Ed è significativo che ciò avvenga sei
anni dopo la conquista, con il Bill of rights, della piena libertà
di parola. Da allora tutti i parlamenti prevedono forme di
resocontazione dei lavori (sempre più facilitate dalle moderne
tecnologie della comunicazione) e considerano un'eccezione il
ricorso a sedute segrete.
Dal medesimo periodo i parlamenti prevedono come regola il 'voto
palese', o 'voto pubblico', e come eccezione il ricorso allo
scrutinio segreto, usato soprattutto se riferito a persone (con la
riforma del regolamento del 1987 si è adeguato a tale orientamento
anche il Parlamento italiano). Tuttavia soltanto dal 1853 per la
Camera dei comuni e dal 1857 per la Camera dei lord sarà consentito
al pubblico assistere alla parte delle sedute destinate al voto.
L'introduzione della disciplina di partito nelle aule parlamentari
ha modificato le forme della discussione parlamentare, che tende a
svilupparsi sempre meno come colloquio razionale per convincere gli
altri componenti l'assemblea e sempre più come modo per esprimere
posizioni politiche maturate all'interno dei gruppi parlamentari
(quando non in organi di partito), ma sottratte al principio della
pubblicità della discussione. Sarà un colpo inferto, dirà Schmitt
(v., 1923) all'"etica del parlamentarismo", basata sull'ascolto
reciproco, e farà diminuire l'interesse per la discussione
parlamentare; nel frattempo però si accrescerà, presso i ceti
popolari organizzati dai partiti moderni, la funzione di
legittimazione propria dei parlamenti, svolta anche grazie ai
partiti stessi.
V. Il libero esercizio della funzione parlamentare esige che siano
fissate condizioni di ineleggibilità e incompatibilità. Le prime
sono volte a evitare un'eccessiva influenza del candidato sulla
libera formazione della volontà dell'elettore garantendo parità di
chance nella competizione fra candidati. Le seconde sono volte
talora a garantire l'autonomia fra poteri (in tutti gli ordinamenti
non si può appartenere a entrambe le Camere o non si può
contemporaneamente appartenere al parlamento e mantenere incarichi
alle dipendenze del governo), talora a evitare conflitti di
interessi per assicurare così un più libero esercizio del mandato
parlamentare.
Il divieto si estende in alcuni ordinamenti fino all'incompatibilità
fra mandato parlamentare e incarico di governo. Tale incompatibilità
è propria dei governi presidenziali (Stati Uniti, Venezuela, ecc.) o
di alcuni ordinamenti legati alla tradizione rivoluzionaria francese
(oltre alla Francia anche Olanda, Svezia, Norvegia, Lussemburgo e
altri). Per i primi ciò è accaduto per un'applicazione rigorosa del
principio della separazione dei poteri; per i secondi l'intento
originario era di affermare la supremazia dell'assemblea sul
governo. Tale principio era stato infatti votato dall'Assemblea
Costituente il 67 novembre del 1789 per vietare l'incarico
ministeriale a Mirabeau, incarico che avrebbe rafforzato il governo
di Luigi XVI e indebolito l'Assemblea Legislativa.
VI. Spetta al parlamento la verifica dei titoli di ammissione al
parlamento stesso, la cosiddetta verifica dei poteri. La fase
contenziosa che segue all'eventuale contestazione dell'elezione è
tuttavia generalmente sottratta ai parlamenti e affidata ai giudici
comuni (Australia, Nuova Zelanda, Islanda, e dal 1868 Gran Bretagna)
o alle Corti costituzionali, talvolta in via diretta (Francia)
talvolta in via d'appello (Germania Federale). In molti paesi invece
anche la fase finale rimane affidata alle assemblee parlamentari
(Italia, Stati Uniti, Svezia, Norvegia, Danimarca, Israele).
VII. Spetta a ciascuna Camera darsi una propria presidenza, a cui
compete decidere ordine del giorno, data, inizio, interruzione,
chiusura delle sedute, nell'ambito di sessioni previste dalle
costituzioni o decise dal parlamento stesso.
È un'eccezione, legata alla natura di quell'assemblea, la presidenza
del Senato affidata al vicepresidente degli Stati Uniti.
Tradizionalmente le assemblee parlamentari erano convocate e
presiedute dai sovrani ma dal XIV secolo, in Inghilterra, le stesse
Camere esprimono uno speaker (o prolocutor) quale nuncius e garante
dell'ordinato svolgimento dei lavori (fra i primi ad assumere questa
veste furono Simone di Montfort e sir Thomas Hungerford).
Negli anni della Rivoluzione si afferma altresì in Francia, per
estendersi poi a tutti i parlamenti, l'autonomia della presidenza di
ciascuna camera per la polizia delle sedute e la sicurezza delle
sedi (ma fin dai tempi di Edoardo III all'apertura del Parlamento
inglese si leggeva un bando che proibiva di presentarsi armati).
Tale autonomia si rafforzerà dopo le vicende del dicembre 1850
(ricordate da Marx: v., 1852; tr. it., p. 90), quando fu affermata
l'immunità delle sedi parlamentari e addirittura si prospettò la
costituzione di una speciale polizia parlamentare.
VIII. Spetta altresì alle Camere un'autonomia regolamentare,
organizzativa e finanziaria. Conseguenza di tale autonomia è la
insindacabilità da parte degli altri organi dello Stato dei
cosiddetti interna corporis.
Dopo le vicende del 1789, che nella Francia rivoluzionaria avevano
portato l'amministrazione reale a intralciare le sedute e le spese
dell'Assemblea, nel 1790 ha modo di affermarsi, questa volta con più
chiarezza in Francia che in Inghilterra, la prerogativa di un libero
parlamento di darsi un regolamento autonomo, non solo per l'ordine
dei lavori ma anche per l'amministrazione. In base a tale principio
è altresì riconosciuta l'autonomia finanziaria per le spese di
funzionamento delle Camere, nonché la piena autonomia nel
reclutamento e nella gestione della burocrazia parlamentare (fino a
giungere talora alla cosiddetta autodichia, sottraendo ai tribunali
il contenzioso con i dipendenti).Sempre in base a tale principio
spetterà alle Camere stesse il pagamento delle indennità ai
parlamentari, considerate dall'inizio di questo secolo, dopo
l'estensione del suffragio universale, condizione di eguaglianza
nell'accesso al mandato rappresentativo e garanzia di indipendenza
nell'esercizio dello stesso.
IX. Il libero esercizio della funzione parlamentare richiede la
libertà di parola e di voto di ciascun rappresentante, assicurando a
tale scopo specifiche garanzie non previste per i comuni cittadini.
L'espressione più usata è quella di 'prerogative' (dalle centurie
prae-rogatae, che nei comitia dell'età repubblicana, avevano il
diritto di votare per prime), o di 'guarentigie', per sottolineare
che esse sono a tutela del mandato parlamentare e quindi, a
differenza dei privilegi, sono 'irrinunciabili e indisponibili' da
parte del rappresentante. In forza di tali prerogative il membro del
parlamento è esente da ogni responsabilità civile, penale e
amministrativa per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio
delle funzioni (cosiddetta insindacabilità).
È altresì prevista l''immunità dagli arresti' (la cosiddetta
inviolabilità) nonché da ogni altro atto di coercizione, anch'essa
volta alla tutela del mandato rappresentativo da possibili atti
persecutori (in qualche ordinamento viene prevista anche
l'autorizzazione a procedere in giudizio, come nella Costituzione
italiana fino alla riforma operata nell'ottobre 1993 in seguito
all'esplodere di fenomeni di corruzione politica). Mentre
l'insindacabilità non può mai essere rimossa, l'inviolabilità può
essere rimossa mediante apposita autorizzazione da parte della
camera di appartenenza.
L'inviolabilità trova la sua origine in epoca recente, in
particolare nell'art. 8 della Costituzione francese del 1791, e si è
poi rapidamente estesa a gran parte dei parlamenti (ma non a tutti);
l'insindacabilità è invece considerata da più tempo prerogativa
essenziale in ogni istituzione parlamentare.
La sua fonte è ancora nel Parlamento inglese: le prime significative
rivendicazioni risalgono al 1397, dopo le reazioni che seguirono
alla condanna a morte del deputato Thomas Haxley, reo di avere
censurato la Corte reale; nel 1523 lo speaker Tommaso Moro proclama
la libertà di parola dei parlamentari (che sarà preziosa
successivamente nella battaglia contro l'assolutismo regio, prima
contro Elisabetta Tudor, poi contro gli Stuart) ma solo il Bill of
rights sancirà definitivamente il 13 febbraio 1689, al punto 8, "The
freedom of speech, and debates or proceedings in Parliament".
Queste guarentigie, come del resto quelle indicate al punto
precedente, traggono origine dalle battaglie per l'indipendenza nei
confronti del governo del re; oggi però, in presenza di un diffuso
regime di supremazia della costituzione, lungi dall'essere superate
(come si affermava qualche decennio fa) esse tendono ad assumere un
significato più ampio. Possono essere volte a contrastare non solo i
possibili abusi del governo ma altresì gli abusi di altri poteri,
fra cui il potere giudiziario, la cui forza è molto cresciuta in
tutti i regimi liberaldemocratici. Qualora non se ne abusi per
precostituire privilegi a favore del ceto politico presente nelle
assemblee, tali prerogative possono collocarsi fra i checks and
balances del costituzionalismo contemporaneo in quanto garantiscono
il principio stesso della separazione dei poteri (il richiamo a
Montesquieu si trova del resto anche in Francia alle origini
dell'istituto dell'immunità parlamentare).
X. I parlamentari si organizzano in genere in 'gruppi parlamentari',
quasi sempre esplicitamente richiamati nei regolamenti o nella
stessa costituzione (Italia, Portogallo). Nei vecchi parlamenti
liberali tali gruppi sorgono per rispondere a esigenze di
coordinamento fra parlamentari di opinioni affini; anzi i primi
partiti di opinione, per lo più moderati, nascono, lo si accennava
prima, come proiezione esterna di tali raggruppamenti. Il percorso
inverso sarà invece effettuato dai partiti di massa che, sorti dal
seno della società, cercano poi una proiezione nei gruppi
parlamentari. In genere questi si sono costituiti con
caratteristiche organizzative analoghe a quelle attuali dopo
l'introduzione del sistema elettorale proporzionale: così in Italia
solo dopo il 1919, anno in cui si svolgono le prime elezioni con
questo sistema, si costituiscono veri e propri gruppi parlamentari
corrispondenti ai partiti presentatisi in tutto il territorio
nazionale con il medesimo simbolo e le medesime caratteristiche (v.
Lotti, 1963).
I regolamenti parlamentari si avvalgono della presenza dei gruppi
parlamentari per meglio regolare i lavori, realizzando apprezzabili
economie negli stessi. La presenza dei gruppi incide
sull'organizzazione e la promozione dei lavori parlamentari a
seconda della forma di governo in cui si sono inseriti: l'incidenza
sarà massima nei sistemi di democrazia consociativa, più ridotta nei
sistemi che danno rilievo alle prerogative del 'governo in
parlamento' (nei sistemi di derivazione anglosassone,
tendenzialmente bipartitici, il gruppo di opposizione si costituisce
in 'governo ombra', shadow cabinet, riconoscendo funzioni pubbliche
al leader dell'opposizione).
A una maggiore influenza dei partiti nel sistema politico, e quindi
dei gruppi nell'ordinamento parlamentare, corrisponde una possibile
compressione dei diritti dei singoli parlamentari spesso non solo
sottoposti a una disciplina rigida, ma talvolta, soprattutto nelle
assemblee pletoriche, costretti a vedere limitati i loro poteri di
intervento nella discussione.
XI. I parlamenti moderni si organizzano in commissioni con funzioni
istruttorie o ausiliarie rispetto alle assemblee. Le commissioni
possono essere permanenti o temporanee, articolate per competenze
ordinarie (per lo più corrispondenti ai grandi settori della
politica governativa) o per competenze speciali. Dall'inizio di
questo secolo (in Italia dal luglio 1920) sono costituite in modo da
riflettere, con criterio più o meno proporzionale, la stessa
composizione politica delle assemblee.
Le commissioni di inchiesta sono dotate dei poteri di indagine e
coercitivi propri dell'autorità giudiziaria, poteri che possono
essere conferiti ad hoc o essere permanenti, come è ad esempio
previsto per la Commissione Difesa del Bundestag o per gli
Investigating committees del Congresso degli Stati Uniti.Allo scopo
di coordinare il lavoro istruttorio di più assemblee possono essere
previste commissioni bicamerali, il più delle volte con il compito
di risolvere i conflitti fra le due camere (Stati Uniti, Australia,
Giappone, Belgio, Austria, Spagna e soprattutto Germania, che
prevede nella Costituzione una procedura molto analitica).
Nell'ordinamento italiano le commissioni bicamerali (dalle
commissioni di inchiesta a quelle di controllo su settori
dell'amministrazione) sono state invece introdotte in misura
crescente negli ultimi decenni allo scopo di rafforzare i poteri di
controllo del Parlamento.
Il lavoro delle commissioni precede il lavoro legislativo e politico
dell'assemblea, in tutto o in parte. Solo in due paesi (Italia e
Spagna) è consentita nel procedimento legislativo l'attribuzione di
poteri decisionali alle Commissioni, determinando così sia un
indebolimento della funzione direttiva del governo, sia effetti
negativi di settorializzazione, frantumazione e moltiplicazione
della produzione legislativa (di qui in Italia il fenomeno delle
cosiddette 'leggine'). L'esigenza di sottoporre ogni interesse a una
discussione politica, che è uno degli elementi che distinguono il
sistema parlamentare rispetto a quello corporativo (v. Schmitt,
1928; tr. it., p. 416), richiederebbe invece che fosse riconosciuta
all'intera assemblea ogni decisione legislativa (ed infatti il
sistema delle cosiddette Commissioni in sede legislativa è eredità,
in Italia, della Camera dei fasci e delle Corporazioni).
5. Le funzioni
In quasi tutti i sistemi costituzionali, e in modo più netto in
quelli di orientamento liberaldemocratico, il parlamento assolve le
seguenti quattro funzioni: di rappresentanza, legislazione,
controllo, indirizzo politico. Quest'ultima funzione, presente solo
nei sistemi parlamentari o di tipo semipresidenziale, è svolta in
collaborazione con il governo e, nei sistemi semipresidenziali,
anche con il presidente della Repubblica.
Questa classificazione non si discosta molto, nella sostanza, dalle
cinque funzioni che Walter Bagehot individuava nel 1867 per la
Camera dei comuni (di investitura del premier, rappresentativa,
pedagogica, informativa, legislativa).
Alcune di tali funzioni trovano corrispondenza in procedimenti e
atti tipici (per esempio la legge per la funzione legislativa),
altre, in particolare la funzione di rappresentanza, si esprimono in
forme libere e non sempre sono sussumibili entro schemi
prescrittivi.
a. La funzione di rappresentanza
La rappresentatività del parlamento costituisce il presupposto
necessario per l'esercizio di ogni funzione parlamentare, ma è
tuttavia possibile individuare anche una funzione di rappresentanza
come funzione a sé. Nei sistemi costituzionali moderni vari soggetti
svolgono funzioni di rappresentanza di parti della società di fronte
allo Stato, ma solo il parlamento ha una funzione costituzionale di
rappresentanza della società nello Stato, di comunicazione fra
governanti e governati (di re-ad-praesentare). Si tratta di una
forma di rappresentanza 'politica', relativa non a parti o settori
della società ma all'intera comunità politica, vale a dire di
rappresentanza non di interessi particolari ma di tutti gli
interessi generali che emergono nella comunità politica.
Di qui il duplice volto del parlamento, quasi Giano bifronte: volto
dello Stato, di cui è organo, e volto della società, di cui è
rappresentante. Di qui la funzione dei parlamenti moderni di essere,
assieme ad altre assemblee elettive, oltre che tramite tra i
cittadini e il potere pubblico, sede specifica, attraverso i gruppi
parlamentari, dell'attività dei partiti politici, soggetti
attraverso cui i cittadini in questo secolo partecipano in modo più
diretto e continuo alla politica nazionale (v. Leibholz, 1973).
La funzione rappresentativa, in quanto funzione di rappresentanza
politica, è volta alla tutela di interessi ma non è assimilabile né
alle forme di rappresentanza proprie del diritto privato, né alle
forme di espressione immediata degli interessi proprie degli
istituti della democrazia diretta (v. Cotta, 1983, p. 955). Tali
interessi sono valutati, come si è visto sopra, in autonomia dallo
stesso rappresentante, senza vincolo di delega o di mandato. Al di
là del riferimento alla dimensione territoriale, è questo il senso
della legge votata dall'Assemblea nazionale francese il 22 dicembre
1789 in cui è sancito, in modo più netto che nella stessa
Inghilterra, che "i rappresentanti [...] non potranno essere
considerati come i rappresentanti di un Dipartimento particolare ma
come i rappresentanti [...] della Nazione", così anticipando una
analoga affermazione della Costituzione del 1791 che aggiungerà il
divieto di conferire mandati specifici (e che farà da modello per le
altre Costituzioni, fra cui l'art. 67 della Costituzione italiana).
Analoga ispirazione si può trovare negli stessi anni nella
Costituzione americana, pur condizionata dal difficile rapporto fra
federalismo ed eguaglianza politica; come si legge nel Federalist, i
rappresentanti dovranno formare "un corpo scelto di cittadini che
per la loro saggezza possano meglio distinguere i reali interessi
della loro patria [...] e sono meno tentati di sacrificare questi
ultimi in nome di considerazioni contingenti e particolari" (cfr.
The Federalist, n. 10 e n. 35).
La rappresentanza è stata definita una 'necessaria finzione' e si è
tentato di ridurla ora ad una mera 'scelta di capacità' di persone
investite per le loro virtù e competenze (v. Orlando, 1944) ora alla
scelta di meri 'portavoce'. È significativo che, in questo secolo,
le istituzioni parlamentari siano state contestate su un duplice
fronte, da parte di regimi autoritari volti a fare regredire la
funzione rappresentativa e da parte di movimenti volti ad affermare
istanze di democrazia diretta (v. Kelsen, 1924).
La politicità della rappresentanza deriva dallo stesso processo di
decisione politica su cui si fonda la costituzione e l'unità
politica di uno Stato. Da qui trae origine la sovereignty of
parliament, che non è quindi in contraddizione con la sovranità
popolare, a cui va invece ricondotta costantemente. Contrapporre
sovranità del parlamento a sovranità popolare, o viceversa, non
significa solo dare spazio nel primo caso a restrizioni
oligarchiche, o viceversa, nel secondo caso, a degenerazioni
plebiscitarie. Significa anche porsi in contrasto con la sovereignty
of constitution, da cui entrambe le sovranità debbono essere
condizionate.
La politicità della rappresentanza ha fatto sì che il parlamento
potesse svolgere nei secoli una funzione di integrazione nazionale e
sociale. Proprio in ragione di ciò in gran parte degli ordinamenti
costituzionali il parlamento è ancora attore, sia pure non
esclusivo, del processo di revisione costituzionale, nonché titolare
(eventualmente integrato nella composizione) dell'elezione del capo
dello Stato (là dove esso non trae la propria legittimazione ex
iure, come nelle monarchie, o dove questa decisione non è
direttamente rimessa al corpo elettorale). Per le medesime ragioni
compete al parlamento una funzione più o meno incisiva di indirizzo
politico (connessa, anche se non coincidente, con la funzione di
rappresentanza politica) a meno che questa non competa, come nei
sistemi presidenziali o 'costituzionali puri', in via esclusiva al
governo.
Sempre per le stesse ragioni la funzione di rappresentanza, ai
confini con la più specifica funzione di controllo, ricomprende
anche l'assunzione di compiti di garanzia. Essa "proviene al
parlamento dal suo legame organico con la comunità popolare" (v.
Manzella, 1991, p. 354) ed è diretta a impedire che da parte dei
supremi organi e da parte di altri rilevanti poteri pubblici si
abbia un esercizio non costituzionalmente corretto degli stessi. È
una generale funzione di difesa della costituzione che copre
l'intera attività di diritto costituzionale (o costituzionalmente
rilevante), con il solo limite del rispetto dei singoli atti posti
in essere da soggetti dotati di autonomia costituzionalmente
garantita (per esempio i singoli giudici nell'esercizio delle loro
funzioni).
Appartiene alla stessa funzione di difesa della costituzione
l'istituto dell'impeachment nei confronti del capo dello Stato,
istituto ricondotto al parlamento, nelle forme più diverse (talvolta
solo l'accusa, talaltra l'accusa da parte della Camera bassa e il
giudizio da parte della Camera alta). È funzione presente pressoché
in ogni ordinamento (anche di tipo presidenziale), almeno dai tempi
in cui il Parlamento inglese condannò Carlo I alla pena capitale.
Rientra nella medesima funzione la nomina di una parte dei
componenti i tribunali costituzionali (Italia, Germania, Austria,
Olanda, Belgio, Israele) o di una parte dei componenti gli organi di
garanzia della magistratura (Italia e Spagna).Pressoché in ogni
ordinamento, e proprio in forza della sua funzione di rappresentanza
popolare, la legittimazione ultima di ogni decisione compete dunque
al parlamento. Un'eccezione è data dai regimi confessionali o a
ideologia di Stato che ripongano la propria legittimazione o in
autorità religiose o nel partito unico. Questa funzione di
legittimazione è bene espressa nelle prime costituzioni liberali:
così, per esempio, recitavano gli artt. 37 e 40 dello Statuto
costituzionale del Regno di Sicilia del 1848: "Le questioni di
successione saranno decise dal Parlamento"; "alla morte del re
l'immediato successore dovrà farsi conoscere dal Parlamento". Il
"farsi conoscere" indica chiaramente la funzione di legittimazione
del parlamento, proprio in quanto 'forma' della sovranità nazionale
o, con linguaggio più moderno, della sovranità popolare.
Non appare azzardato quindi ritenere, in base all'esperienza sia
degli ordinamenti liberaldemocratici che di altri ordinamenti più
fragili, che è il parlamento, in via di principio, "il sovrano che
decide in regime d'eccezione" (tranne espresse disposizioni
contrarie della costituzione: per esempio gli artt. 16 e 48 delle
Costituzioni, rispettivamente, di Weimar e della V Repubblica
francese). Se questa delicata funzione di difesa della costituzione
non viene assunta dal parlamento, il vuoto è riempito da altri
organi costituzionali, per lo più il capo dello Stato. Ma la storia
dimostra che esso avvertirà pur sempre il bisogno della
legittimazione popolare, o diretta, nella forma del plebiscito, o
indiretta, nella forma della legittimazione parlamentare.
b. La funzione di indirizzo politico
La funzione di indirizzo politico, come anticipavamo, è propria dei
parlamenti collocati all'interno delle forme di governo parlamentare
o, in modo più ridotto, della forma di governo semipresidenziale.
Nelle forme di governo presidenziale il parlamento ha vari
strumenti, primo fra tutti l'approvazione del bilancio, con cui può
far pesare una sia pur limitata capacità di indirizzo, condizionando
l'esecutivo che di tale funzione è titolare esclusivo.
La funzione di indirizzo consiste nell'indicare gli obiettivi che il
governo è tenuto a perseguire e che il parlamento fissa anche come
propri. In tal modo si pongono i presupposti per attivare quelle
forme di collaborazione che sono tipiche dei regimi di gabinetto e
che trovano il loro momento iniziale nell'atto di investitura del
governo.Tale collaborazione fra esecutivo e legislativo si realizza,
in primo luogo, attraverso l'istituto della fiducia, che ne
costituisce il momento iniziale. Talvolta può tuttavia mancare un
iniziale atto espresso di fiducia, che può essere presunto (così ad
esempio in Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda, Canada,
Finlandia, Islanda, V Repubblica francese, Austria) ovvero
sostituito dall'atto di elezione del capo del governo da parte del
parlamento (ad esempio nella Costituzione di Bonn o del Giappone).
La collaborazione trova il suo momento conclusivo nella sfiducia
parlamentare e nel conseguente obbligo di dimissioni del governo. In
taluni ordinamenti (per esempio nella Germania Federale) la sfiducia
può essere votata solo se accompagnata dalla contestuale indicazione
del nuovo governo: la cosiddetta sfiducia costruttiva. Il rapporto
fiduciario è alimentato e verificato per tutta la durata del governo
mediante l'approvazione di atti di indirizzo politico, non sempre
tipizzabili come tali (mozioni, risoluzioni, voto del bilancio,
autorizzazioni alla ratifica di trattati e accordi internazionali, e
così via).
Nelle democrazie maggioritarie, cui corrisponde per lo più un
sistema di partiti a dinamica bipolare o addirittura a struttura
bipartitica, la funzione di investitura dei governi è tuttavia
riconducibile allo stesso corpo elettorale, il quale eleggendo il
parlamento ha modo di esprimersi sullo stesso leader di governo (per
lo più il leader del partito che ha vinto le elezioni o del partito
pivot di un'alleanza elettorale fra più partiti).
Ma anche in molte democrazie consociative (per la distinzione fra
democrazie consociative e maggioritarie v. Lijphart, 1984),
costrette a ricorrere a governi di coalizione, la funzione di
esprimere i governi è in genere assunta di fatto dagli stessi
partiti della coalizione. Viene da qui l'affermarsi - per esempio in
Italia, Belgio, Danimarca, Francia della IV Repubblica - della
prassi delle dimissioni del governo nel caso di dimissioni di
ministri politicamente motivata (ormai le crisi extraparlamentari
sono praticamente la norma un po' dovunque: v. Colliard, 1978). Tali
prassi vanifica ogni tentativo di rendere più stabili i governi
mediante congegni costituzionali di cosiddetta razionalizzazione (v.
Mirkine-Guetzevitch, 1951), ivi compresa la 'sfiducia costruttiva'.
In entrambi i tipi di democrazia, in condizioni di normalità, l'atto
di nomina da parte del capo dello Stato perde quei caratteri di
discrezionalità che ancora possedeva nei vecchi regimi parlamentari
e assume spesso i tratti propri degli atti dovuti, mentre il
parlamento si limita a registrare la volontà o del corpo elettorale
o dei partiti.
Nelle forme di governo parlamentare sottoposte a una dinamica
bipolare (il 'modello Westminster') l'influenza del governo sulla
maggioranza è tale che esso tende a porsi quale vero e proprio
'comitato direttivo della maggioranza'. Tale influenza deriva, oltre
che dalla ricorrente identificazione di premier e leadership del
partito al governo (v. Elia, 1970), dal riconoscimento al premier di
particolari poteri, che possono giungere fino alla fissazione dello
stesso ordine del giorno delle camere e alla determinazione dei
tempi per l'approvazione dei progetti governativi. Tale materia,
invece, riguarda le Camere stesse sia nei sistemi presidenziali
(negli Stati Uniti è compito della Commissione per il regolamento),
sia nei sistemi a tendenza assembleare (in essi tale potere viene
riconosciuto alla maggioranza assembleare o affidato, come in
Italia, alla competenza dei presidenti delle Camere in
collaborazione con i gruppi parlamentari di maggioranza e
opposizione).
c. La funzione legislativa
In base al principio della separazione dei poteri, al parlamento
spetta essenzialmente la funzione legislativa: esso è anzi la sede
per eccellenza del potere legislativo. A suo favore opera in quasi
tutti gli ordinamenti una riserva di funzioni costituzionalmente
garantita (riserva di legge) che non opera invece, in senso inverso,
a favore delle amministrazioni (con la sola eccezione dell'attuale
Costituzione francese, in cui opera una 'riserva di regolamento' a
favore dell'esecutivo). Il sovrano, per lungo tempo considerato la
'terza Camera', ha visto regredire sempre più il suo potere nella
legislazione. La sanzione regia, necessaria nelle monarchie
costituzionali per rendere valida la manifestazione della volontà
legislativa delle Camere, si è tramutata, per lo più nelle forme
monarchico-parlamentari, in un atto formale (coincide con la
'promulgazione') o si è tradotta, per lo più nelle forme
repubblicane, al massimo in un 'veto sospensivo', rimovibile con una
nuova deliberazione parlamentare.
Alle origini la riserva di funzione legislativa al parlamento traeva
alimento dalla 'divisione del potere sociale' fra il re -
espressione della nobiltà fondiaria e militare - e il parlamento, in
cui era sempre più forte il potere delle Camere di estrazione
borghese, in rappresentanza di città, borghi, piccola nobiltà. In
base a tale schema il potere esecutivo è riconosciuto al re, che
però, nell'esercizio di tale potere, deve mantenersi entro il limite
delle leggi approvate dal parlamento. E proprio tale funzione della
legge, di limite e di cornice insieme, esalterà ancor di più le
caratteristiche di 'generalità e astrattezza' che appartengono per
vocazione alle disposizioni normative.
L'emergere della funzione legislativa del parlamento sarà ancora più
netta allorché si accompagnerà al regresso delle funzioni
giudiziarie svolte dallo stesso parlamento e all'affermarsi, quindi,
di un potere giudiziario distinto sia dalla corona che dal
parlamento. Mentre in Inghilterra il parlamento manterrà alcune
funzioni giurisdizionali (soprattutto nella Camera dei lord),
nell'Europa percorsa dai fremiti della Rivoluzione, dove era più
radicale la separazione dei poteri, si avvertì subito che anche il
potere dei giudici di 'interpretare le leggi' poteva determinare
pericolose invasioni di campo: in Francia, con decreto del
novembre-dicembre 1790, fu istituito, come organo ausiliare del
Parlamento ("près du corps legislatif"), un Tribunal de cassation
(la definizione inizialmente proposta era 'Conseil national pour la
conservation des lois') con il compito di cassare quelle decisioni
giudiziarie che, contravvenendo al principio di separazione dei
poteri, pretendessero, scostandosi dalla legge, di legiferare per il
caso singolo (v. Calamandrei, 1920).
Inizialmente si era addirittura stabilito il divieto per i giudici
di interpretare la legge, riservando tale potere alle assemblee
legislative e chiedendo ai giudici di rivolgersi alle stesse in caso
di dubbio o in caso di contrasto fra diverse pronunce giudiziarie
(il référé, facultatif nel primo caso, obligatoire nel secondo). È
significativo che a favore del parlamento, il nuovo sovrano
nell'Europa della Rivoluzione, si sia adottato un istituto, la
demande en cassation, che nell'ancien régime provocava l'intervento
del re contro le sentenze dei Parlements della periferia francese.
Dopo appena qualche decennio, però, la cassazione sfuggirà
all'orbita del parlamento ed entrerà a pieno titolo nel potere
giudiziario, collocandosi al vertice dello stesso. Della sua
iniziale funzione rimarrà alla cassazione solo il tradizionale
divieto di entrare nel merito delle singole decisioni giudiziarie.
Altro spazio sarà tolto al parlamento e assunto dal potere
giudiziario allorché si affermerà, nell'Europa continentale, il
controllo di legittimità costituzionale come controllo dei limiti
alla stessa funzione legislativa dei parlamenti. Da allora la
funzione legislativa perderà le caratteristiche di potestà
legislativa assoluta, propria di un parlamento espressione della
'volontà generale', che il costituente rivoluzionario aveva voluto,
per reinserirsi progressivamente nella più equilibrata e consolidata
tradizione anglosassone. La data dell'ottobre 1920, in cui viene
varata la Costituzione austriaca che, su progetto di Hans Kelsen,
aveva istituito il primo Tribunale costituzionale
(Verfassungsgerichtshof) si collega idealmente all'altra data, il
febbraio 1803, in cui viene decisa dal giudice John Marshall la
sentenza nel caso Marbury contro Madison. Se con quest'ultimo caso
si era determinato l'avvio di un sistema 'diffuso' di giustizia
costituzionale (in cui cioè è riconosciuto ad ogni giudice il potere
di disapplicare le norme incostituzionali) con il progetto di Kelsen
prende l'avvio un sistema di giurisdizione 'accentrata' presso
apposite Corti costituzionali. Si portava così a compimento nelle ex
colonie britanniche prima e nell'Europa continentale poi una dura
battaglia dei giudici inglesi, iniziata da lord Edward Coke, con il
Bonham's case del 1610, sia contro gli arbitri di Giacomo I Stuart
sia contro gli arbitri del Parlamento, per l'affermazione attraverso
la judicial review del primato della common law sulla statute law
(v. Cappelletti, 1968, pp. 43 ss.). La celebre affermazione di De
Lolme (1776) secondo cui il parlamento può fare tutto ciò che non è
impossibile in natura ("per esempio fare d'una donna un uomo, né
d'un uomo una donna") era quanto di più lontano dalla realtà e
veniva contraddetto ripetutamente dai giudici d'Inghilterra (massime
in Fischel, II, p. 245). La Gran Bretagna non ha un sistema di
giustizia costituzionale, che potrebbe scalfire la 'supremacy of the
Parliament', ma, come sottolineerà Dicey (v., 1885), le leggi
inglesi sono legate a un diritto superiore: esse non sono la fonte
ma la conseguenza dei diritti soggettivi degli individui.
Fino ai primi decenni di questo secolo la legge tendeva soprattutto
a porre le regole entro cui si sarebbero espresse le libertà dei
cittadini nonché, come si diceva, a porre i limiti entro cui si
sarebbe svolta l'azione del governo. Era caratteristica della legge,
come già detto, porre norme effettivamente generali e astratte. Con
l'intensificarsi, dal primo dopoguerra, dell'intervento pubblico e
con l'avvento dello 'Stato sociale' la legge cambia i propri
connotati: tende a diventare strumento di governo, 'provvedimento'
più che 'norma' (Maßnahmegesetz secondo la dottrina tedesca, che ha
analizzato più a fondo questo fenomeno). Oggi si governa non solo
eseguendo leggi e non solo con il limite delle leggi ma anche
attraverso le leggi.
L'intreccio fra politica ed economia che caratterizza le società
contemporanee e il diverso rapporto fra legge e amministrazione che
ne deriva (cui accenneremo nel paragrafo successivo), portano alla
ricerca di una coerente collaborazione fra parlamento e governo
nello svolgimento dell'attività legislativa. Ciò avviene più
agevolmente nelle forme di governo parlamentare, meno in quelle
assembleari e meno ancora nella forma di governo presidenziale. In
quest'ultima il presidente non può influire sull'attività
legislativa attraverso strumenti istituzionali (fino a giungere a
forme di cosiddetto divided government) non disponendo né
dell'iniziativa legislativa né di poteri di intervento sul
procedimento legislativo (ma solo di poteri di veto, sia nella forma
del pocket veto che del partial veto, quest'ultimo peraltro poco
usato negli Stati Uniti). Può tuttavia esercitare un'indiretta
influenza politica attraverso parlamentari politicamente vicini alla
presidenza. Ancora minore influenza può avere il governo nelle forme
assembleari, dove i governi sono poco stabili e politicamente poco
influenti e si tendono a formare maggioranze diverse in riferimento
a singole questioni.
Questo intreccio fra politica ed economia ha portato a un forte
aumento della produzione legislativa (che ha raggiunto in alcuni
paesi livelli abnormi: il Parlamento inglese approva circa 80 leggi
l'anno ma il Parlamento italiano ben 250), al sostanziale
indebolimento del parlamento ad opera delle sue commissioni o peggio
ad opera di commissioni governative, nonché alla crescente influenza
dei governi nell'attività legislativa. È a questo fenomeno che va
ricondotto l'uso abnorme dei decreti legge soprattutto in Italia e
nei paesi dell'America Latina (v. Sartori, 1995).
Da questa consapevolezza trae origine il tentativo, diffuso in vari
paesi dell'Occidente, di ridare spazio ai parlamenti qualificandone
l'attività in vario modo: ponendo mano a forme di 'delegificazione';
specializzando il parlamento nella 'legislazione per principî' o in
'leggi quadro' per i governi regionali; conferendo deleghe
legislative al governo; riconoscendo poteri di regolazione ad
autorità indipendenti o, in Europa, riconoscendo spazi normativi ad
autorità sovranazionali.
d. La funzione di controllo
Attraverso la funzione di controllo il parlamento tende ad assolvere
quella che Bagehot definiva "informing function": la funzione, cioè,
volta a evidenziare di fronte all'opinione pubblica "fatti che le
classi dirigenti non vogliono sentire" e ad attivare le
responsabilità del governo (v. Bagehot, 1872; tr. it., p. 155).Sotto
questo secondo profilo la funzione di controllo può assicurare un
duplice risultato: in primo luogo che il governo e le
amministrazioni nella loro azione non si discostino dai limiti
normativi in vigore (ivi compresa la legge di bilancio), in secondo
luogo che perseguano gli obiettivi indicati dal parlamento stesso
con gli atti di indirizzo. Mentre la prima funzione è svolta in
concorrenza con gli altri organi preposti al controllo di legalità,
la seconda è tipica delle istituzioni parlamentari (v. Miceli,
1908).
La funzione di controllo tuttavia non si limita solo ai poteri
pubblici, ma si allarga a tutti i soggetti, anche privati, che
abbiano rilevanti poteri di influenza. La presenza di garanzie
costituzionali per le autonomie pubbliche e private pone però limiti
all'esercizio di detta funzione e la lega strettamente alla funzione
di garanzia costituzionale. Rispetto al periodo in cui scriveva
Bagehot è mutato più di quanto allora già si intravedesse
l'interesse delle assemblee parlamentari per il controllo
finanziario: da organi che, nell'interesse dei contribuenti,
miravano a limitare le spese del governo, esse hanno
progressivamente assunto, con l'ampliarsi della base sociale
dell'elettorato attivo, la funzione opposta, lasciando ai governi la
responsabilità maggiore nell'assicurare gli equilibri di bilancio,
fino al punto che in molti ordinamenti è stato tolto ai parlamentari
il potere di presentare senza il concerto governativo progetti o
emendamenti che comportino un aumento della spesa o una diminuzione
delle entrate.
La funzione di controllo si esercita tradizionalmente mediante l'uso
di classici strumenti parlamentari (le interrogazioni, le
interpellanze, le inchieste, gli hearings, l'approvazione dei
bilanci, il controllo sulle nomine, l'autorizzazione alla ratifica
dei trattati internazionali, e così via), alcuni utilizzati anche
per l'esercizio della funzione di indirizzo. Da qualche tempo si
affianca a questi strumenti l'istituto del commissario parlamentare
sulla scia della consolidata esperienza scandinava dell'ombudsman
(Svezia dal 1809 e, più di recente, Finlandia, Danimarca, Norvegia,
Nuova Zelanda, dal 1967 Gran Bretagna e, per il controllo sulla
politica della difesa, dal 1949 la Germania).
Nei regimi presidenziali detta funzione si traduce, come si
accennava, in limitate forme di indirizzo nei confronti
dell'esecutivo (come avviene ad esempio attraverso l'advice and
consent sulle nomine federali da parte del Senato degli Stati Uniti
o in modo più consistente attraverso i controlli in materia
finanziaria).
Il controllo parlamentare ha modo di affermarsi ormai in tutti i
settori dell'attività di governo, ma rimangono ancora difficoltà nei
due settori in cui tradizionalmente operavano le prerogative della
corona, la politica estera e quella della difesa. Negli Stati Uniti,
ove è forte il controllo del Congresso sulla politica estera,
permangono difficoltà di controllo sugli executive agreements e su
altri importanti accordi di politica estera, difficoltà non minori
di quelle che incontra un sistema parlamentare come quello italiano
(v. Barbera, 1991, pp. 151 ss.).
Mentre nei regimi presidenziali la funzione di controllo è
generalmente svolta, con maggiore o minore intensità, da tutti i
settori del parlamento, nelle forme di governo parlamentare questi
strumenti sono utilizzati con più efficacia dall'opposizione.
Quest'ultima, soprattutto nelle democrazie competitive, non animate
da tendenze consociative, mira ad assumere quella funzione di
garanzia e di balance che nelle concezioni classiche della dottrina
della separazione dei poteri avrebbe dovuto essere connessa alla
divisione fra potere legislativo e potere esecutivo.
Per tali motivi i tradizionali strumenti di controllo parlamentare,
i più significativi dei quali sono attivabili da una maggioranza di
parlamentari, non paiono adeguati alla nuova dimensione dei rapporti
fra governo e assemblee parlamentari. A questa esigenza di strumenti
adeguati risponde il tentativo di alcuni parlamenti di dar vita a
nuovi strumenti di controllo, attivabili più agevolmente dalle
opposizioni (tanto che si è parlato in qualche caso di un vero e
proprio statuto dell'opposizione): per esempio l'attivazione di
commissioni di inchiesta da parte di minoranze (così nella
Costituzione di Bonn), il ricorso diretto alla corte costituzionale
da parte di una frazione di parlamentari (così nella Costituzione
della V Repubblica francese), la riserva di tempi di lavoro
parlamentare per le iniziative dell'opposizione (supply days nei
paesi del Commonwealth), la presidenza di commissioni strategiche
per l'esercizio del controllo (il public accounts committee in Gran
Bretagna), talvolta la stessa presidenza di un'assemblea
parlamentare, con più frequenza della Camera alta ma qualche volta
della stessa Camera politica (in Gran Bretagna negli anni novanta e
in Italia negli anni ottanta).
In ogni caso l'efficacia dei controlli parlamentari è strettamente
legata alla presenza di governi in grado di assumersi effettive
responsabilità. La crisi della 'responsabilità governativa' si
riflette alla fine sulla stessa capacità di controllo del
parlamento: ciò è accaduto negli Stati Uniti con le Indipendent
regulatory commissions e sta avvenendo in Europa, e in particolare
in Italia, con il moltiplicarsi di 'agenzie', 'autorità' e
'garanti'. È un tema che va al di là del dibattito iniziato negli
anni cinquanta in Gran Bretagna e in Italia circa i controlli
parlamentari sulle public corporations, dibattito che in Italia
favorì, tra l'altro, l'istituzione di un Ministero delle
Partecipazioni statali e il varo di apposite commissioni bicamerali,
mentre in Gran Bretagna portò alla nascita dei select
committees.Ieri eravamo di fronte al passaggio di attività dalla
sfera privata a quella pubblica; oggi siamo invece di fronte alla
trasmissione di attività tradizionalmente governative ad autorità
indipendenti, che sfuggono sia al controllo governativo che a quello
parlamentare. Probabilmente il punto di equilibrio andrà trovato
combinando insieme la rinuncia del parlamento alla tradizionale
pretesa di controllare l'intera attività pubblica con la capacità
del parlamento stesso di trovare nuove strade per un esercizio meno
invadente della funzione di controllo.
6. Lo scioglimento
Spettava al sovrano convocare il parlamento, e quindi sospenderne
l'attività (anche attraverso l'apertura o la chiusura delle
sessioni) o congedarlo quando avesse adempiuto ai compiti per il
quale era stato convocato. Fissata la periodicità e la durata dei
parlamenti, inizia a delinearsi l'istituto dello scioglimento
anticipato. Agli albori del moderno costituzionalismo esso
rappresenta lo strumento per affermare la supremazia del sovrano,
per licenziare Camere che si fossero rese responsabili di offese
alla corona o la cui attività fosse comunque non gradita alla corona
stessa.
Nelle prime costituenti continentali il dibattito sulle sorti
dell'istituto fu acceso: secondo il progetto di costituzione del
1791 il re avrebbe potuto sciogliere le assemblee per passare la
parola al popolo "perché detentore della sovranità", ma tale idea,
benché sostenuta da Mirabeau e Sieyès, non prevalse perché si
ritenne che ciò avrebbe significato esaltare non la sovranità del
popolo, ma quella del re. Al popolo andava riconosciuto il 'diritto
all'insurrezione', anche nei confronti del parlamento stesso, come
avrebbe specificato la Costituzione giacobina del 1793, ma nel
titolo III della stessa Costituzione fu sancito che "le corps
législatif ne pourra être dissous par le roi": questa impostazione
sarà recepita in molte delle prime costituzioni liberali. In altre
costituzioni ci si porrà il problema della fine anticipata delle
legislature, ma non si andrà oltre la previsione di
quell'autoscioglimento che il long parliament aveva rivendicato con
il Triennal act del 1641 (istituto che sarà mantenuto anche in
costituzioni più moderne e a cui per lo più, successivamente, si
affiancherà lo scioglimento presidenziale).
Tale avversione per lo scioglimento rimarrà nelle costituzioni la
cui forma di governo sarà improntata, come nelle forme
costituzionali pure, presidenziali o direttoriali, a un principio
più o meno rigido di separazione dei poteri: come il parlamento non
può licenziare i governi, così l'esecutivo non può provocare il
rinnovo dei parlamenti. Lo scioglimento sarà invece progressivamente
considerato uno strumento per il buon funzionamento del governo
parlamentare.
In una fase di passaggio fra l'avversione all'istituto dello
scioglimento e la sua utilizzazione nelle forme di governo
parlamentare si collocano varie e contrastanti esperienze del secolo
scorso. Da richiamare, perché emblematiche, quella francese, quella
britannica e quella italiana del periodo statutario.La legge
relativa all'organizzazione dei pubblici poteri della III Repubblica
francese prevedeva che il presidente della Repubblica potesse
sciogliere la Camera dei deputati "sull'avviso conforme del Senato".
Tale potere fu però subito condizionato dalle vicende che portano,
nel 1876, a quello che fu definito il 'colpo di Stato del 16
maggio': il presidente della Repubblica, maresciallo MacMahon,
licenzia il presidente del Consiglio Jules Simon, repubblicano
moderato, e lo sostituisce con il monarchico duca di Broglie. La
Camera nega la fiducia al nuovo governo e MacMahon, forte
dell'appoggio del Senato, a maggioranza monarchica e clericale,
indice elezioni che vedono di nuovo la vittoria dei repubblicani, la
sconfessione dell'atto di scioglimento, e di lì a poco le dimissioni
dello stesso MacMahon (costretto, secondo la celebre frase
attribuita a Léon Gambetta, a "ou se soumettre ou se demettre").
La vittoria dei repubblicani su MacMahon segnerà la definitiva
fondazione della Repubblica, ma la segnerà negativamente: da allora
in poi nessun presidente della Repubblica avrà il coraggio di
prospettare lo scioglimento della Camera. L'aver superato il
pericolo derivante da un atto di dittatura del capo dello Stato
favorirà in Francia l'avvento di un regime assembleare (di
'dittatura dell'assemblea') e impedirà la nascita di un regime
autenticamente parlamentare. La sicurezza sulla durata delle
legislature e il tipo di sistema elettorale favoriranno non la
'repubblica dei cittadini' ma la 'repubblica dei deputati' e
contribuiranno a rendere non facile l'emergere di partiti in grado
di assicurare quella disciplina che stava invece rafforzando, al di
là della Manica, il regime di gabinetto.
In Gran Bretagna nel 1806 Giorgio III procede a quello che viene
definito l'ultimo scioglimento nella storia inglese effettivamente
deciso dal re, mentre nel 1868 si registra l'ultimo rifiuto
ufficiale di un sovrano a una richiesta di scioglimento avanzata dal
premier. La valvola di sicurezza del sistema britannico, potrà
scrivere nel 1872 Walter Bagehot, è il potere di scioglimento della
Camera dei comuni affidato al primo ministro (v. Bagehot, 1872; tr.
it., p. 215). Il potere di scioglimento è formalmente nelle mani
della Corona ma la proposta del premier è divenuta vincolante (salvo
in some circumstances: v. Marshall, 1984, p. 7): se la Corona
dovesse rifiutarsi di procedere allo scioglimento si renderebbe
impossibile la formazione di ogni altro governo, stante la
presumibile indisponibilità del partito di maggioranza a sconfessare
il proprio leader.
In posizione intermedia si colloca l'esperienza dell'Italia nel
periodo statutario. Dopo i primi scioglimenti in cui è forte
l'influenza della Corona, già con i governi Depretis, Crispi,
Cairoli, Giolitti il ricorso allo scioglimento diviene uno strumento
alternativo alle dimissioni, persino nel caso di sfiducia
parlamentare (solo in qualche raro caso venne imposto dalle
opposizioni con il ricorso all'ostruzionismo, nel 1886 con Depretis
e nel 1899 con Pelloux). Il ricorso allo scioglimento rafforzerà
momentaneamente questo o quel governo (anche con l'ausilio di metodi
non ortodossi nelle campagne elettorali) ma non produrrà gli effetti
positivi di lungo periodo che già stava producendo in Gran Bretagna.
La motivazione va ricercata nelle diverse condizioni sociali e nella
composizione delle élites dirigenti, che portavano al cosiddetto
'trasformismo parlamentare', ma non furono estranei la base
elettorale inizialmente più ristretta e il sistema elettorale
adottato, l'uninominale a doppio turno, che non favorirono la
bipolarizzazione del sistema politico (v. Maranini, 1967).
Nelle costituzioni razionalizzate del primo dopoguerra lo
scioglimento cambia dunque natura (v. Mirkine-Guetzevitch, 1951):
non richiama più il conflitto fra capo dello Stato e parlamento ma
diviene lo strumento attraverso cui il primo, privo ormai di poteri
di governo, è chiamato a ristabilire, mediante nuove elezioni, il
circuito democratico fra corpo elettorale, parlamento e governo.
Circondato di particolari cautele (fra le tante previste da diverse
costituzioni: l'obbligo della controfirma del premier; la
consultazione con i presidenti delle Camere; il divieto di
scioglimenti ripetuti per lo stesso motivo; un intervallo di tempo
fra più scioglimenti; il divieto di scioglimento nei primi mesi di
legislatura o nell'ultimo periodo del mandato del capo dello Stato;
la presenza di un voto di sfiducia, ecc.), lo scioglimento diverrà
una funzione costituzionale per così dire fisiologica, volta a
bilanciare il potere di licenziare i governi che è in mano ai
parlamenti. Tale bilanciamento opera in due modi: in via preventiva
agendo da deterrente per evitare che si spezzino i legami fra i
componenti una coalizione di governo, per contenere scissioni nei
partiti di maggioranza, per mitigare un'opposizione non equilibrata;
in via successiva consentendo di riportare al corpo elettorale la
risoluzione del conflitto fra parlamento e governo, fra maggioranza
e opposizione, fra partiti della stessa maggioranza, o comunque per
rinnovare un mandato ritenuto invecchiato. Dal 1946 al 1983 in 21
paesi a regime liberaldemocratico sono stati registrati 134
scioglimenti anticipati (v. Volpi, 1983, p. 329).
Se lo scioglimento diviene, quindi, nelle forme più solide di
governo parlamentare, una sorta di 'appello al popolo' per la
verifica della maggioranza, più complessa si presenta la questione
per le altre democrazie, soprattutto nei paesi a 'multipartitismo
dissociato' (per esempio l'Italia o la Francia della IV Repubblica).
In questi ultimi è diffuso il timore che lo scioglimento divenga un
atto arbitrario del capo dello Stato, che venga utilizzato come
strumento di lotta politica fra i partiti, in particolare per dar
vita a gouvernements de combat, per favorire cioè un consenso
elettorale di tipo plebiscitario attorno a governi che non riescano
a ottenere il consenso del parlamento (contrapponendo la sovranità
popolare alla sovranità parlamentare). Si viene così a determinare
un paradosso: proprio nei sistemi di governo nei quali il potere del
parlamento (o addirittura dei partiti, con le crisi
extraparlamentari) di porre in crisi i governi è più demolitore,
determinando gravi fenomeni di instabilità, appare più problematico
esercitare quel potere di scioglimento che dovrebbe invece
riequilibrare il potere del parlamento stesso. C'è da aggiungere
tuttavia che ben difficilmente in tali sistemi le elezioni avrebbero
un effetto risolutivo: i ripetuti scioglimenti del Reichstag
effettuati dal presidente von Hindenburg, addirittura quattro nel
giro di sedici mesi, ebbero solo il risultato di umiliare parlamenti
già resi impotenti dalla legge elettorale proporzionale e favorirono
la crescita elettorale del partito nazista.
Tre sono dunque gli elementi che caratterizzano un regime
parlamentare, sia nella versione dualistica che in quella monistica:
a) la distinzione e la collaborazione fra potere legislativo e
potere esecutivo; b) la responsabilità politica del governo di
fronte al parlamento, che può usare lo strumento della 'sfiducia'
(può mancare, come si è visto, il momento iniziale della 'fiducia');
c) la facoltà di scioglimento anticipato delle Camere per decisione
almeno formalmente imputabile al capo dello Stato. L'assenza del
terzo elemento o la difficoltà di ricorrere allo scioglimento per i
troppi vincoli che lo condizionano trasformerebbero la forma di
governo da parlamentare ad assembleare.
Non solo lo scioglimento è ormai uno strumento per il buon
funzionamento del sistema parlamentare, ma addirittura in alcuni
ordinamenti ne può essere titolare lo stesso premier, o in modo
formale o per effetto di prassi o di regole convenzionali.
Il ricorso anticipato alle urne compete al premier, da un secolo
oramai, come si diceva, sotto forma di proposta normalmente
vincolante alla Corona, nel Regno Unito o, sotto forma di proposta
al Governatore generale, in altri paesi di tradizione britannica (in
Canada e Nuova Zelanda: ma anche in Australia, sebbene nel 1975 si
sia verificato uno scioglimento attribuito alla volontà del
Governatore generale nonostante l'opposizione del premier). L'art.
28, c. 10, della Costituzione dell'Irlanda conferisce espressamente
al Presidente del governo il potere di ottenere dal capo dello Stato
lo scioglimento del Parlamento ma esclude tale potere nel caso in
cui il governo da lui presieduto sia stato sfiduciato. Del tutto
innovativo l'art. 4 (cap. III) della Costituzione della Svezia del
1974 che conferisce direttamente al governo il potere di 'indire
elezioni straordinarie'. Altrettanto esplicitamente l'art. 69 della
Costituzione del Giappone consente lo scioglimento per decisione del
governo (anche se il relativo decreto è imputato all'Imperatore)
anche entro dieci giorni dalla sfiducia. In Spagna sono previsti due
tipi di scioglimento. Il primo, proprio di una funzione di arbitrato
del capo dello Stato, interviene ove nessun candidato proposto dal
re riesca ad ottenere, a partire da due mesi dalla prima votazione,
il consenso del Congresso (art. 99, c. 5, della Costituzione). Il
secondo si ricollega invece direttamente alla funzione del premier
che "sotto la sua esclusiva responsabilità, previa deliberazione del
Consiglio dei Ministri, può proporre lo scioglimento del Congresso,
del Senato o delle Cortes generali che deve essere decretato dal Re"
(art. 115), a meno che non sia in corso una mozione di censura o sia
trascorso meno di un anno dal precedente scioglimento (art. 115).
Analogamente l'art. 41 della Costituzione della Grecia, così
emendata nel 1986.
La Costituzione della Germania federale, oltre ad altri casi di
scioglimento, ivi compreso quello che può essere attivato in caso di
elezione del cancelliere con la sola maggioranza relativa, prevede
all'art. 68 la facoltà per il cancelliere federale di provocare lo
scioglimento del Bundestag nel caso di mancata adesione del
Bundestag stesso alla richiesta di esprimergli la fiducia. Non è
privo di significato che, per ben due volte, Brandt nel 1972 e Kohl
nel 1983, abbiano provocato lo scioglimento del Bundestag mediante
la tecnica delle assenze dal voto di deputati della maggioranza, che
hanno così favorito la reiezione di mozioni di fiducia al governo.
Si è tentato attraverso questa via di realizzare anche in Germania
quanto è già consentito al premier inglese, vale a dire la scelta
del momento favorevole per il voto.
7. Declino dei parlamenti?
Diversi fattori hanno portato a ritenere che le istituzioni
parlamentari abbiano subito in questo secondo dopoguerra (ma i
sintomi sarebbero apparsi fin dal primo dopoguerra) un declino.
Questi i principali fattori di crisi.
1. Le aule parlamentari non sono più l'unico o il principale centro
di comunicazione e di dibattito politico essendo a esse affiancati
altri strumenti di comunicazione, in particolare i mass media, che
riescono a 'fare opinione' talvolta più di un dibattito
parlamentare.
2. La stessa funzione di rappresentanza non è più monopolio
parlamentare, essendo ormai svolta con maggiore incisività da altri
soggetti o più legati alla società, come i partiti politici e le
organizzazioni sindacali, o incardinati nello stesso Stato, come i
vari organismi di rappresentanza di varie categorie sociali
(consigli nazionali, conferenze di presidenti o ministri regionali,
consigli superiori della magistratura).
3. Mentre il parlamento continua a rimanere la sede privilegiata per
le decisioni riguardanti microinteressi (soprattutto attraverso
l'attività delle commissioni parlamentari) assumono un crescente
rilievo altre sedi istituzionali (comitati di ministri, autorithies,
banche centrali e, soprattutto nei paesi dell'Unione Europea,
organizzazioni sovranazionali) per le decisioni relative ai
'macrointeressi'.
4. L'affermarsi, con fasi alterne di successo, di pratiche
neocorporative porta a privilegiare le forme consensuali degli
agreements, del contratto, dell'intesa, rispetto a quelle imperative
della legge, talvolta chiamata soltanto a dare veste formale ad
accordi sottoscritti fra governi, organizzazioni sociali,
rappresentanze di 'interessi forti'.
5. La stessa legge, anche nei paesi della tradizione continentale,
tende a divenire, per effetto del sempre più spiccato attivismo dei
tribunali costituzionali, non solo un atto sottoposto ai
tradizionali limiti esterni sanciti dalle norme costituzionali, ma
un atto altresì da valutare sotto il profilo della reasonableness e
dell'uso corretto del potere legislativo. Da massima espressione
della sovranità parlamentare la legge tende a trasformarsi in
espressione di mera discrezionalità.
6. La complessità dei fenomeni da regolare richiede specializzazioni
tecniche che accrescono il ruolo del governo nell'iniziativa
legislativa e nell'attività regolamentare.
7. La stessa funzione di legittimazione dei governi, là dove
appartiene ancora ai parlamenti, tende ad assumere caratteri solo
formali, essendosi spostata, come si è visto, o sui partiti, nelle
democrazie consociative, o direttamente sul corpo elettorale nelle
democrazie competitive.
8. La necessità di adottare decisioni su beni cosiddetti
irreversibili (in materia ambientale, in materia internazionale, in
ordine a temi che toccano la coscienza individuale) ravviva il
tentativo di contrapporre la "sovranità popolare" alla "sovranità
parlamentare". Viene in tali materie contestata la libertà del
parlamento di assumere decisioni in assenza di specifici mandati o
di una previa consultazione referendaria.
A questi fattori di crisi si aggiungono in Italia quelli specifici
indotti dal sistema politico e dal tipo del tutto anomalo, come si è
detto, di assetto bicamerale: vale a dire paralisi decisionali o
accentuate lentezze procedurali; ritualità e ripetitività dei
dibattiti; ostruzionismi di maggioranze e minoranze; dispersione e
frantumazione dell'attività legislativa, spesso anche tecnicamente
inadeguata, con conseguente abnorme produzione di cosiddette
'leggine'; scarsa attenzione ai vincoli di bilancio. A ciò si
aggiunga il trasferimento di decisioni reso necessario sia
dall'integrazione dell'Italia nelle Comunità Europee, sia dal
decentramento regionale.
Come causa ed effetto insieme di tale crisi si registrano in Italia
due fenomeni preoccupanti: da una parte il ricorso frequente allo
strumento referendario anche da parte di partiti presenti in
parlamento (talvolta perfino facenti parte della maggioranza
parlamentare); dall'altra l'abuso da parte del governo della
cosiddetta decretazione d'urgenza, istituto diffuso, come si è
visto, in alcuni regimi presidenziali dell'America Latina, ma senza
riscontro nelle democrazie europee (ove sono per lo più previsti o
eccezionali poteri di emergenza, cui si fa ricorso con notevole
cautela, ovvero percorsi accelerati per i progetti di legge
urgenti).
Nonostante questi segni di crisi, il parlamento rimane tuttora lo
strumento principale a sostegno dei regimi liberaldemocratici. Lo
dimostrano anche le diffuse forme di 'antiparlamentarismo'
endemicamente ricorrenti, che sono rivolte non tanto contro il
parlamento quanto contro le forme della democrazia rappresentativa.
Rimane inoltre determinante la funzione di integrazione democratica
svolta dai parlamenti: come nei secoli scorsi le istituzioni
parlamentari avevano consentito il compromesso fra aristocrazia e
borghesia, così in questo secolo hanno reso più agevole, dopo
l'estensione del suffragio universale, il 'compromesso
socialdemocratico' fra ceti borghesi e classi lavoratrici.
In realtà quanti parlano di declino del parlamento spesso compiono
un errore metodologico (v. Cotta, 1983, p. 324), perché assumono un
punto di partenza costruito sulla base di preferenze ideologiche più
che sull'analisi dei dati empirici. Non si dimostra, cioè, se siano
mai realmente esistiti parlamenti dotati di quella effettiva (e non
solo declamata) 'centralità' che sarebbe oggi messa in crisi (a meno
che non ci si voglia riferire a brevi periodi della storia
britannica in cui, in regime censitario, praticamente tutta la
classe dirigente era rappresentata in parlamento). Al contrario si
possono oggi osservare fenomeni capaci di ridare fiato alle
istituzioni parlamentari. V'è infatti da registrare sia il declino,
in molte democrazie occidentali, del ruolo centrale assunto dai
partiti di massa a detrimento delle istituzioni parlamentari, sia il
declino delle pratiche neocorporative (almeno in quei paesi del
Nordeuropa da cui esse avevano preso l'avvio). Il primo è dovuto
alla crisi delle cosiddette 'appartenenze ideologiche'; il secondo è
dovuto alla sempre maggiore difficoltà per le organizzazioni sociali
di operare una decisa e continuativa sintesi fra gli interessi
rappresentati. Accanto a questi fenomeni si colloca il definitivo
abbandono delle suggestioni di democrazia diretta, non delegata, che
hanno attraversato questo secolo dalle prime esperienze soviettiste
in poi (suggestioni che non possono ritenersi ravvivate - poiché si
tratta di fenomeni affatto diversi - dalle possibilità offerte
all'espressione diretta dei cittadini dalle moderne tecnologie
informatiche).
Le istituzioni parlamentari vivono un delicato equilibrio fra la
rappresentanza della società e il governo della stessa, fra le
ragioni della rappresentanza degli interessi e le ragioni del
governo degli stessi. Quando tale equilibrio viene alterato esse
vedono compromessa la loro funzione: non possono né diventare
prevalentemente organo di governo (come nelle forme di governo
assembleari) né luogo di mera rappresentanza degli interessi (siano
essi di tipo lobbistico oppure espressione di lotte sociali). La
funzione di mera rappresentanza presuppone un sovrano presso cui
rappresentare e nei cui confronti rivendicare; la funzione di
governo presuppone che l'assemblea presuma di erigersi essa stessa a
sovrano. Il modello di parlamento con cui ci si dovrà confrontare
negli anni a venire oscilla dunque fra due diversi tipi ideali:
quello dell'assemblea antagonista, che rappresenta gli interessi di
cittadini e corpi intermedi di fronte a presidenti della Repubblica,
titolari di poteri di governo, eletti direttamente dai cittadini,
recuperando così una più accentuata separazione di poteri
legislativo ed esecutivo, ovvero quello di un'assemblea protagonista
inserita in un tipo di governo neoparlamentare, in cui la divisione
dei poteri si realizza, piuttosto, fra l'opposizione e il continuum
maggioranza-premier (v. Barbera, 1991).
Sembra invece regredire l'idea di un parlamento collocato da solo al
centro della dinamica politica, che - sia pure in modo episodico -
ha rappresentato spesso una degenerazione assemblearistica del
governo parlamentare. I modelli di parlamento che furono propri
dell'Italia liberale o della Repubblica di Weimar nel primo
dopoguerra, le vicende della III e della IV Repubblica francese, le
difficoltà dei sistemi belga e danese, le difficoltà dell'Italia di
oggi stanno a ricordarci che in un modello assembleare il parlamento
è più un luogo di mediazione che una sede di decisione, quindi
un'istituzione che tende a ratificare decisioni assunte fuori dalle
aule parlamentari.
Il Parlamento inglese e quello americano rappresentano due diversi
modelli cui guardano altri parlamenti. Diverse le relazioni
governo-parlamento, diversa l'organizzazione del lavoro parlamentare
(policentrico il secondo, bipolare il primo). Il Bundestag della
Germania Federale, anche per effetto delle caratteristiche bipolari
del sistema politico in cui è inserito, si muove nella direzione del
primo modello. Il Parlamento francese non ha ancora trovato una
strada sicura, costretto com'è a una logorante ambiguità
dall'alternanza fra tratti presidenzialistici e tratti
neoparlamentari, che sono propri del sistema della V Repubblica. Il
Parlamento italiano è ancora in bilico fra il modello assembleare
disegnato negli anni sessanta e settanta e le riforme regolamentari
in senso maggioritario avviate con le riforme degli anni ottanta e
le altre che saranno prevedibilmente sollecitate dalle riforme
elettorali degli anni novanta.
È opinione diffusa che quello americano sia un parlamento forte. Se
l'assenza di poteri di indirizzo politico del Congresso rende più
liberi i parlamentari da vincoli verso il governo, accentuandone i
poteri di controllo, tuttavia ciò indebolisce, per i motivi indicati
sopra, sia l'esecutivo sia il Congresso stesso, reso più permeabile
agli interessi particolari, settoriali e territoriali, e afflitto -
secondo la letteratura americana - da una endemic weakness (v.
Sundqvist, 1981; v. Fabbrini, 1993). Se nel modello Westminster i
parlamentari della maggioranza devono subire il controllo del
comitato direttivo della stessa, che siede al governo, si tratta pur
sempre di un parlamento che possiede un necessario sense of
direction e che consente all'opposizione di porsi quale strumento di
controllo e quale soggetto alternativo al governo in carica. Se non
è lieve l'azione dei whips, le cosiddette 'fruste', nell'imporre la
disciplina di gruppo, è anche vero che è possibile per molte materie
il free vote sganciato dalla disciplina. E del resto nelle materie
che investono la responsabilità del governo l'alternativa alla
disciplina è offerta o dall'incoerenza dell'azione del governo o
dall'emarginazione del parlamento dalle decisioni politiche più
rilevanti.
La storia qui ripercorsa ci insegna che la capacità di incidenza
delle istituzioni parlamentari è legata al tipo di rapporto che si è
instaurato, dopo l'allargamento del suffragio, con i partiti
politici. Essi sono stati talvolta canale di collegamento con la
società ed elemento di arricchimento del parlamento stesso, talvolta
hanno contribuito a depotenziare l'attività. Ogni fattore che
indebolisce le forme e i luoghi dell'organizzazione politica della
società incide negativamente sulle stesse istituzioni parlamentari.