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Orientamento politico e sociologico volto a promuovere il
riconoscimento e il rispetto dell’identità linguistica, religiosa e
culturale delle diverse componenti etniche presenti nelle complesse
società odierne.
1. Origine
All’origine del m. si possono individuare due ordini di fenomeni. Il
primo è rappresentato dalle nuove ondate migratorie, le cui
dinamiche, per ampiezza e celerità, si differenziano da quelle del
passato e non consentono nella maggioranza dei casi
un’integrazione-assimilazione (peraltro ormai contestata nel suo
stesso significato e valore) delle comunità di immigrati nei paesi
di destinazione. Il secondo fenomeno è costituito dalla nuova
‘politica culturale dell’identità’. Affermatasi principalmente negli
Stati Uniti, essa può essere considerata una filiazione del
movimento giovanile degli anni 1960 e delle mobilitazioni in favore
dell’uguaglianza istituzionale, sotto il profilo della loro
specifica identità, di determinati gruppi discriminati o
marginalizzati (femministe, afroamericani e ispanici e, in seguito,
gay e lesbiche).
2. Caratteristiche
Il m. ha gradualmente acquisito una propria fisionomia in relazione
a vari tipi di problematiche: di quale riconoscimento si tratti, che
cosa voglia dire pari dignità, se all’interno di un quadro liberale
siano concepibili diritti sovraindividuali, a quali tipi di gruppi o
comunità vadano accordati riconoscimento ed eventuali diritti
collettivi. Le ragioni per le quali la convivenza di culture diverse
genera effetti dirompenti e problemi inusitati sembrano legate al
mutare di aspetti centrali della nostra cultura: l’identità
dell’individuo viene ora vista come una rappresentazione che la
persona fa di sé stessa a partire dall’interazione con altri con cui
entra in rapporti significativi; inoltre, si è rafforzato il
convincimento che rispettare l’individuo vuol dire rispettarlo con
tutto ciò che lo fa essere ciò che è – la sua cultura, la sua
comunità, la sua storia, la sua lingua – aprendo una nuova fase del
modo di intendere la società. Quella contemporanea, cioè, non appare
più come una comunità di individui, bensì piuttosto come una unione
di comunità, una ‘unione sociale di unioni sociali’.
3. Diritti culturali
Sulla possibilità di riconoscere un gruppo o una comunità come
soggetto di diritto è in corso un acceso dibattito. Una delle
soluzioni più interessanti afferma che il diritto alla cultura
rimane appannaggio dell’individuo, ma può essere legalmente
esercitato solo se esiste un numero minimo di individui che
richiedono di goderne. Riguardo al concetto di cultura si
confrontano concezioni più ampie, che definiscono la cultura solo
per contrasto con altri sistemi di oggettivazione di raggio più
ristretto, e concezioni più limitate, secondo le quali il termine
‘cultura’ va riservato solo a quei sistemi di mediazione simbolica
che hanno dimostrato di sapere integrare una società per un certo
numero di generazioni. La proposta di W. Kimlicka (1995) è di
utilizzare un concetto di ‘cultura societaria’ (societal culture),
intesa come vocabolario descrittivo e valutativo condiviso da uno
stesso gruppo per più generazioni. La cultura diventa sinonimo di
nazione intesa come «comunità intergenerazionale, più o meno
istituzionalmente completa, che occupa un certo territorio o patria,
e condivide una lingua e una storia distinte».
Per quanto poi riguarda la nozione di eguale dignità, alcuni
studiosi osservano che dal diritto al riconoscimento della eguale
dignità di ogni cultura non discende alcun diritto a una presunzione
di eguale valore, che è cosa ben diversa dalla eguale dignità; in
positivo, invece, ne discenderebbero: a) il diritto a condurre senza
interferenze uno stile di vita, con la sola limitazione del
principio del danno ad altri; b) il diritto a eque opportunità di
rappresentazione di tale stile di vita sui media; c) il diritto a un
aiuto da parte dello Stato per attività culturali delle comunità
etniche. In alcuni casi, la richiesta di diritti culturali si
concreta nel diritto di una minoranza etnico-culturale
all’autogoverno, ovvero a una autonomia giurisdizionale su un
territorio in cui il gruppo in questione risulti maggioritario; in
altri casi, i diritti culturali prendono la forma di una protezione
giuridica della libera espressione di tratti culturali tipici di una
minoranza; infine, detti diritti assumono la forma di una
rappresentanza speciale in seno a istituzioni legislative,
amministrative o educative.
Ci si interroga su cosa giustifichi l’introduzione dei diritti
culturali all’interno del quadro normativo delle società
democratiche contemporanee. Con l’eccezione dell’ipotesi centrata
sui requisiti dell’identità, le più importanti giustificazioni
finora addotte a sostegno dei diritti culturali hanno fatto
riferimento soprattutto ai valori della libertà e dell’uguaglianza;
altre giustificazioni si possono chiamare storiche, basate sulla
necessità di onorare gli antichi trattati bilaterali fra nazioni che
convivono all’interno del medesimo Stato, e altre ancora legano i
diritti culturali al perseguimento del pluralismo e delle diversità
come bene in sé. Nelle giustificazioni che fanno perno sul valore
della libertà, il diritto alla cultura viene inteso come parte del
più ampio e fondamentale diritto alla libertà, in perfetto accordo
con il quadro teorico liberale: ogni individuo ha interesse e
diritto a scegliere e cambiare i propri fini secondo la visione di
ciò che gli appare in grado di migliorare la sua vita; tale diritto
alla scelta può essere esercitato effettivamente solo se esiste una
pluralità di opzioni praticabili e l’individuo possiede degli
standard di valutazione delle opzioni. Proteggere il pluralismo
delle appartenenze culturali significherebbe proteggere l’autonomia
dell’individuo e la libertà di scelta ovvero le condizioni che la
rendono possibile. Una società che non offre ai soggetti l’opzione
di crescere dentro la propria cultura è una società che discrimina
due classi di cittadini: da un lato coloro che, essendo già nati in
un contesto culturale cosmopolita, beneficiano di una continuità
culturale lungo l’intero arco della loro socializzazione, dall’altro
lato coloro che sono condannati a un processo di riacculturazione
che non hanno scelto. È tuttavia legittima anche la considerazione
inversa: l’appartenenza stretta a una determinata cultura può
comportare una chiusura nei confronti di una società e di una
cultura cosmopolita.
4. Rischi del multiculturalismo
Molti anni prima che il termine m. si affermasse, R. Sennett (1977)
aveva sviluppato una critica degli effetti distruttivi di quella che
allora si chiamava identity politics, o, semplicemente, ‘nuovo modo
di fare politica’, caratterizzata da intransigenza settaria e
moralistica, unita all’inconcludenza che le deriva dalla mancata
accentuazione del momento strategico. A parte alcuni ‘vizi
dell’appartenenza’ e i rischi inerenti all’istituzionalizzazione di
una sensibilità multiculturalista, il rischio maggiore insito nella
prospettiva multiculturalista è forse quello di congelare ogni
gruppo protetto nella sua configurazione attuale, inibendo processi
di revisione interna della sua cultura. È stato osservato che
considerare il gruppo nel suo complesso come soggetto di diritti
culturali vuol dire dare per scontate le strutture esistenti e
favorire le maggioranze interne. Tra i rimedi proposti contro questi
rischi del m., uno in particolare è da segnalare: garantire
all’individuo sempre e in qualunque caso il ‘diritto alla
secessione’ ossia subordinare ogni misura protettiva dell’integrità
di una cultura al dovere per la comunità in questione di lasciare i
suoi membri liberi di allontanarsene senza subire vessazioni di
sorta.
Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)
di Bernard Valade
Sommario: 1. Gli orientamenti e la posta in gioco di un nuovo
dibattito. 2. Multiculturalismo e diritti delle minoranze nella
cultura anglosassone. 3. Il multiculturalismo tra universalismo e
particolarismo. 4. Politiche e problemi delle identità culturali. 5.
Conclusione. ▭ Bibliografia.
1. Gli orientamenti e la posta in gioco di un nuovo dibattito
Il 'multiculturalismo' rappresenta, nell'ambito delle scienze
sociali, politiche e giuridiche, una problematica relativamente
nuova. Comparso in Canada alla fine degli anni sessanta del
Novecento, questo termine designa la coesistenza di più culture
all'interno di uno stesso paese. Diventato di uso comune nel corso
del decennio successivo, l'aggettivo 'multiculturale' si riferisce a
fenomeni che riguardano molteplici e differenti culture. Fino a quel
momento, le politiche di assimilazione e di integrazione messe in
atto nel contesto nordamericano erano associate alla nozione di
melting pot (crogiolo di razze) e alla lotta contro la
discriminazione razziale. La tematica del salad bowl (macedonia o
mosaico), nata in California negli anni ottanta, è decisamente più
complessa: essa infatti assume una molteplicità di significati non
riconducibili alla filosofia della discriminazione positiva
(affirmative action), filosofia legata al rispetto dei valori propri
delle culture minoritarie ( political correctness).
Sul piano sociologico, il multiculturalismo rinvia alle differenze
culturali inerenti alla diversa origine degli individui che
compongono una data società. I suoi interessi hanno a che vedere con
affermazioni identitarie e con domande di riconoscimento - spesso
simultaneamente - principalmente di ordine religioso, etnico,
linguistico e nazionale. Il successo del multiculturalismo negli
Stati Uniti si spiega col potere crescente dei cittadini di etnia
ispanica i quali - mettendo in discussione la supremazia degli
anglofoni - hanno finito col farsi promotori di una nuova teoria
della legittimazione. Come osserva Jean-Loup Amselle (v., 2003), in
Canada è stata proprio l'esistenza di una minoranza di francofoni -
pronti a considerarsi i 'primi arrivati' - che vedevano messa in
discussione l'antichità del proprio insediamento nel paese a favore
degli Amerindi, a mandare in frantumi il patto giuridico su cui si
fondava l'esistenza stessa della nazione canadese e a imporre il
multiculturalismo. Oltre alla logica di anteriorità, chiamata in
causa nelle controversie circa l'ordine di arrivo dei differenti
gruppi nazionali su un determinato territorio, anche altre logiche
contribuiscono a far emergere la problematica multiculturale:
logiche di importazione (con l'immigrazione), di riproduzione (in
particolare per quanto concerne le minoranze regionali) e
soprattutto di produzione (all'interno dei numerosi paesi nei quali
l'identità nazionale è ormai messa in discussione; v. Wieviorka,
1997).
Sul piano della politica pubblica, il multiculturalismo si propone
di conciliare le esigenze di coesione sociale - alla quale ogni
governo ha il dovere di contribuire - con le aspirazioni a
conservare forme e pratiche culturali specifiche, espresse da gruppi
di individui più o meno numerosi. Adottata da alcuni Stati per
opporsi alla discriminazione e porre un freno ai danni subiti dalle
minoranze, la politica ispirata al multiculturalismo tende a
promuovere il riconoscimento dei particolarismi culturali e la lotta
alle disuguaglianze, tentando al tempo stesso di risolvere le
difficoltà sociali che affliggono i gruppi interessati: è quanto
accade in Australia, in Svezia e in Canada. Non c'è tuttavia un
consenso unanime sulle modalità con cui essa debba essere attuata;
così negli Stati Uniti sono sorti in merito animati dibattiti ancor
oggi attuali.
Il multiculturalismo è infine una filosofia politica, poiché implica
un atteggiamento etico e una determinata visione del funzionamento
della società. Un'idea del 'Noi' - inteso come gruppo e come società
- collegata con la concezione del ruolo svolto dall'individuo nella
collettività, è alla base tanto delle dottrine incentrate
sull'universalismo, quanto di quelle basate sui particolarismi.
Nella tradizione intellettuale anglosassone quest'idea costituisce
il nucleo di due filosofie sociali, difese l'una dai liberals,
l'altra dai communitarians. Di conseguenza, il multiculturalismo è
pervaso da dinamiche conflittuali in cui la dimensione politica è
onnipresente.
A questo proposito, peraltro, è opportuno anzitutto rilevare la
molteplicità delle problematiche con le quali il multiculturalismo
entra in rapporto. Se da un punto di vista formale il concetto ha a
che fare in primo luogo con la teoria sociologica - che si occupa
dell'influenza esercitata sull'individuo dall'ambiente culturale e
dalle forme acquisite di comportamento -, d'altro canto esso si rifà
anche a una concezione antropologica della cultura, intesa come
insieme durevole di pratiche sociali divenute modi di vita di
un'intera comunità. A dire il vero, il multiculturalismo non è
investito dalla tensione tra natura e cultura, spesso chiamata in
causa dagli antropologi, ma piuttosto è influenzato in modo vario da
un'altra opposizione antropologica classica, quella tra cultura e
civiltà: tale opposizione, molto debole se non del tutto assente
nell'area nordamericana, sussiste ancora in area europea, dove si
era creduto - a torto - che fosse definitivamente scomparsa.
L'origine stessa del dibattito sulla contrapposizione
cultura-civiltà - promosso da pensatori inglesi e italiani, ma
soprattutto tedeschi e francesi - risale a una delle radici della
modernità, cioè alla filosofia dei Lumi di quel XVIII secolo in cui
cosmopolitismo, universalismo e individualismo avevano intrecciato
in modi del tutto diversi la trama del tessuto sociale, prima che
nel secolo successivo i liberalismi, i socialismi e i nazionalismi
riannodassero i fili di quel tessuto in forme alternative.
È chiaro perciò quante, e di quale importanza, siano le
problematiche affrontate dal multiculturalismo: le identità
individuali e collettive, il sentimento di appartenenza, gli
atteggiamenti nei riguardi dei valori, la differenza culturale e i
connessi diritti, il destino dello Stato-nazione e delle passioni
nazionaliste, le trasformazioni della cittadinanza in un mondo che
riconosce il pluralismo culturale - temi che oggi vengono tutti
ripensati in forme nuove. Ci si interessa pertanto - sia da un punto
di vista teorico che secondo un approccio più legato al quotidiano -
agli effetti dei flussi migratori, alla situazione delle popolazioni
di immigrati, al posto delle minoranze in seno all'intera società,
alla xenofobia e ai limiti delle crociate antirazziste, alla
persistenza dei pregiudizi e alla complessità degli stereotipi
sociali. Nel dibattito suscitato dal multiculturalismo, inoltre,
rientra anche la riflessione sui pericoli del relativismo,
l'ambiguità del comunitarismo, gli eccessi del politically correct.
Aspetti che sono generalmente affrontati ricorrendo ai paradigmi di
analisi elaborati dalla filosofia morale e politica di ispirazione
liberale o comunitarista, e che vengono poi esaminati da un punto di
vista giuridico in rapporto alla gestione pratica delle relazioni
sociali.
Le due rassegne di studi realizzate da Will Kymlicka e Wayne Norman
(v., 1994 e 2000) dimostrano l'estensione delle tematiche affrontate
dal multiculturalismo nel corso degli ultimi due decenni. I lavori
recensiti si riferiscono tutti a problemi emersi con la comparsa di
società multiculturali, multinazionali e multietniche. Queste
diverse determinazioni appaiono difficilmente dissociabili, tanto
sono interconnessi i termini sui quali verte l'analisi: individuo e
comunità, storia, cultura, identità, cittadinanza, differenza e
diritti, ecc. Bisogna tuttavia ricordare che tali problemi si
pongono in contesti specifici, dai quali traggono anche origine le
rispettive e originali formulazioni; e che, ad esempio, la tensione
tra multiculturalismo e appartenenza nazionale non è
generalizzabile, tanto che in Canada sono le identità nazionali -
francofoni del Québec e anglofoni canadesi - a essere in conflitto,
non le identità etniche in seno alle due nazioni.
Ciò nonostante, considerata nel suo insieme, la problematica del
multiculturalismo è stata oggetto, negli Stati Uniti, di
interpretazioni che ogni analisi dedicata a un'esplicitazione del
concetto può utilizzare come propri modelli. Queste interpretazioni
innescano nuove riflessioni sulle più comuni rappresentazioni della
democrazia e sui fondamenti, in genere nascosti, dello Stato-nazione
- interpretazioni che in Europa trovano un campo di applicazione già
delineato grazie a una storia più antica. La destabilizzazione dei
modi di pensare il mondo, l'io e l'altro, la soggettività e la sua
dimensione sociale, va in realtà ricondotta agli effetti congiunti
della 'mondializzazione' e della 'individualizzazione': da una
parte, le interazioni tra popoli appartenenti a civiltà diverse si
moltiplicano e di conseguenza aumenta la percezione delle differenze
tra i gruppi; dall'altra, l'emancipazione dalla tradizione, seguita
alla dilatazione dell'individualismo moderno, ha destabilizzato lo
stesso soggetto il quale, privo di punti di riferimento, non può che
porsi la domanda 'chi sono?'. E questo riproporsi di un'esigenza
identitaria a volte potrà condurre il soggetto a trovare una
risposta nella ricomposizione di un mondo tradizionale e nel
ripiegamento in seno a una comunità.
2. Multiculturalismo e diritti delle minoranze nella cultura
anglosassone
Molti autori nordamericani hanno parlato del multiculturalismo
adottando punti di vista diversi, ma tra coloro che hanno fornito
contributi essenziali al dibattito è opportuno ricordare, oltre al
già citato Kymlicka, Charles Taylor e Michael Walzer. Al primo si
deve il classico Multicultural citizenship: a liberal theory of
minority rights (1995) preceduto, nel 1989, da Liberalism, community
and culture. Nello stesso anno (1989) Taylor pubblicava un'opera
importante come Sources of the self. The making of the modern
identity e un articolo sul dibattito 'liberal/communitarian' (v.
Taylor, Cross-purposes..., 1989), cui vanno aggiunti un'opera di
sintesi, The malaise of modernity (1991), e una serie di scritti
sulla politica di riconoscimento, il principio d'identità
collettiva, il nazionalismo e la modernità. Con Spheres of justice:
a defense of pluralism and equality (1983) Walzer infine diede il
via a una riflessione che sarebbe coerentemente proseguita nei testi
dedicati al pluralismo e alla democrazia, alla tolleranza e alla
critica 'comunitarista' del liberalismo.
C'è stato anche chi ha tentato di sintetizzare le argomentazioni
sostenute da entrambi gli orientamenti nel dibattito fra liberali e
comunitaristi. Kymlicka, pur essendo il miglior interprete di alcune
posizioni difese dai filosofi liberali, prova a dimostrare che
l'individualismo morale è compatibile con una politica di
riconoscimento dei diritti collettivi (che egli accetta), mentre
alcuni filosofi comunitaristi - come ad esempio Walzer - li negano.
Dal canto suo Taylor, uno dei maggiori esponenti del pensiero
comunitarista, porta avanti un'argomentazione simile a quella
sviluppata dai liberali quando sostiene che gli individui esigono
che le loro differenze vengano riconosciute come mezzo e condizione
della libertà, giammai a danno della libertà individuale; lo stesso
Taylor, peraltro, usa con cautela la nozione di diritti collettivi.
Quali che siano le sfumature con cui si presentano, le posizioni dei
liberali e dei comunitaristi restano contrapposte. Secondo i
liberali gli individui e i popoli possiedono un'identità antecedente
alle finalità che li guidano; i diritti e le libertà individuali
costituiscono dei principî comuni cui far ricorso nella gestione del
pluralismo morale; esiste un primato del giusto sul bene; infine, lo
Stato liberale ha un atteggiamento neutrale verso ogni concezione
particolare del bene comune. Per i comunitaristi, invece,
l'individuo è costituito dall'insieme dei progetti che si dà, e
anche i popoli si definiscono e caratterizzano in rapporto a una
concezione determinata del bene comune; diritti e libertà devono
scaturire dalle finalità costitutive del soggetto e della società;
il giusto non può avere il sopravvento sul bene; infine, lo Stato ha
il dovere di occuparsi delle concezioni del bene comune.
Le varie tematiche del multiculturalismo - in particolare quella
relativa alla rivendicazione dei diritti culturali, che ha fatto la
sua comparsa in un contesto minoritario - hanno finito col
riflettere questa divisione ideologica formulata in modo
estremamente chiaro da Michel Seymour (v. Couture e altri, 1996).
Così, in un'ottica liberale ci si limita a prendere in
considerazione soltanto l'autonomia individuale, senza soffermarsi
sui diritti minoritari rivendicati; quanto ai comunitaristi - per i
quali gli individui sono il risultato di 'pratiche sociali' e fanno
parte integrante di un sistema di statuti e ruoli -, essi hanno
considerato la lotta a favore dei diritti delle minoranze come un
mezzo per affermare i valori comunitari, vedendo in essa sia
un'occasione per protestare contro l'erosione di tali valori da
parte di una modernità devastatrice, sia un'opportunità per
dimostrare che non è possibile ridurre gli interessi collettivi a
interessi individuali. Ne è nato un movimento di tutela delle
minoranze etno-culturali, nella convinzione che esse siano tutte
impegnate a preservare forme di vita collettiva minacciate
dall'individualismo liberale.
Kymlicka ha tentato di mettere in luce come questo dibattito sia in
realtà superato. In effetti, se esistono ancor oggi gruppi che
intendono restare al di fuori della modernità (i Menoniti, gli
Amish, gli Ebrei hassidici, i seguaci del fondamentalismo islamico,
quanti si professano fedeli a forme di integralismo cristiano,
ecc.), moltissime minoranze non si propongono affatto di tramandare
inalterati il loro modo di vita tradizionale e la mentalità
ereditata dal passato. Anche se alcune si propongono di realizzare
forme di secessione, il loro vero scopo non è quello di riportare in
vita un gruppo comunitario. In Europa, in Canada, in Australia, i
gruppi nati dall'immigrazione sono in gran parte integrati nella
società democratica e intendono beneficiare dei vantaggi che questa
offre loro: vogliono accedere all'istruzione e sfruttare i canali
della mobilità sociale. Negli Stati Uniti gli Afro-americani non
sono particolarmente interessati a riprodurre le forme di esistenza
sociale del passato, e in molti altri paesi, come Spagna, Regno
Unito e Canada, le minoranze nazionali (catalana, scozzese,
québecoise) condividono i valori dei gruppi maggioritari.
L'opposizione tra maggioranze liberali e minoranze comunitariste va
dunque ridimensionata, poiché è inesatto affermare che tutti i
gruppi minoritari si contraddistinguono per il forte attaccamento
alla tradizione e per l'ostilità verso i valori della società
moderna. Inoltre, se spesso sui principî democratici è possibile
raggiungere un accordo, è più difficile che ciò avvenga circa la
loro applicazione all'interno di società multietniche, dove tutto
ciò che riguarda la lingua, la nazionalità e l'identità culturale è
fonte di conflitti. È necessario pertanto capire perché i gruppi
minoritari - le cui rivendicazioni legate alla valorizzazione delle
differenze etno-culturali diventano ogni giorno più pressanti -
chiedono allo Stato la concessione di diritti complementari.
Rispondere a questa domanda porta a mettere in discussione l'ipotesi
secondo cui lo Stato democratico liberale funziona in base a un
principio di neutralità etno-culturale. Infatti, le istituzioni che
si suppone siano neutrali rispetto alle differenze, in realtà non lo
sono affatto; esse sono invece legate, in modo implicito o
esplicito, agli interessi e alle strategie culturali di un gruppo
maggioritario; sono, quindi, al servizio dell'affermazione di
un'identità che ne esclude ogni altra. Così, ad esempio, la
supremazia della maggioranza anglofona negli Stati Uniti è stata
molto forte: una cultura che abbraccia l'intera società, concentrata
su un territorio definito, trasmessa da una lingua comune, delineata
da numerose istituzioni (come scuole e università, pubbliche
amministrazioni, media, ecc.) domina tutte le altre, che finiscono
col rimanere corpi estranei al suo interno. I mezzi usati per
garantire questa supremazia, del resto, sono noti a tutti: si tratta
delle politiche pubbliche progettate e realizzate in diversi ambiti,
come l'uso della lingua ufficiale, l'immigrazione, la
naturalizzazione, il sistema educativo, il mercato del lavoro.
Frutto di una politica di governo che punta al raggiungimento
dell'integrazione sociale, la coesione linguistica e istituzionale
così realizzata mostra senza dubbio aspetti positivi, che tuttavia
non sembrano in grado di cancellare le facili accuse di
etno-centrismo o di imperialismo culturale. Fra questi vantaggi è
possibile citare l'eguaglianza delle opportunità, la solidarietà
garantita dallo Stato attraverso la previdenza sociale, la
partecipazione sociale resa possibile dall'uso di una lingua comune.
Tra gli aspetti negativi bisogna ricordare i danni subiti dalle
minoranze: da quelli che le colpiscono in modo diretto - derivati
dall'aperta discriminazione razziale - a quelli indiretti, come ad
esempio il prevalere dei simboli preferiti o degli 'eroi' esaltati
dal gruppo maggioritario. Per le culture minoritarie che vengono in
tal modo danneggiate, di conseguenza, i diritti culturali concessi
non possono essere assimilati a privilegi, ma sono piuttosto delle
riparazioni alle ingiustizie subite. Tuttavia, determinare quali
siano tali diritti e a chi vadano attribuiti continua a essere un
problema.
In effetti, non si tratta più di difendere gruppi minoritari
minacciati da uno stile di vita che tende alla omologazione, ma di
capire l'importanza, per gli individui che fanno parte di tali
gruppi, dell'accesso alla propria cultura; solo così è possibile
ammettere la legittimità di rivendicazioni relative all'appartenenza
culturale e all'identità nazionale. In questa prospettiva liberale,
il multiculturalismo prende atto del fatto che alcuni gruppi
culturali minoritari aspirano a un riconoscimento e a una
rappresentanza di solito non concessi dalla cultura sociale
dominante. Un simile multiculturalismo rifiuta, a livello nazionale,
ogni imposizione di identità comune, accettando che si faccia
riferimento a un sistema simbolico distinto da quello del gruppo
maggioritario; di conseguenza, autorizza l'espressione e la
manifestazione pubbliche di tutte le forme più caratteristiche della
differenza culturale. Questa prospettiva viene peraltro attuata in
forme diverse: cambiamenti di legislazione, revisione dei programmi
scolastici, formazione di lavoratori dotati di sensibilità sociale e
attenti alle differenze culturali, ecc.
Il multiculturalismo 'liberale' sembra oggi la dottrina dominante
nel pensiero anglosassone. Secondo i suoi sostenitori, a esso non si
può opporre alcuna valida alternativa. In tali condizioni è ancora
possibile proporre un modello di cittadinanza repubblicana unitaria,
riaffermando che gli interessi considerati comuni sono più
importanti delle identità che dividono? In molti hanno condannato la
falsa neutralità di questo modello e, del resto, le stesse
condizioni alla base del suo funzionamento sono ormai cambiate.
Bisogna allora abbracciare le posizioni del postmodernismo, che ha
sviluppato una critica radicale di tutti gli etno-centrismi,
imperialismi, essenzialismi da cui sono state contaminate le norme
liberali, esaltando la natura plurale della cittadinanza? Ma nel
caso dei postmoderni, la volontà di diffusione delle idee non tiene
affatto conto delle circostanze in grado di renderle effettive: così
i modi indicati per realizzarle non differiscono molto, in realtà,
da quelli tracciati dal multiculturalismo liberale.
3. Il multiculturalismo tra universalismo e particolarismo
La riflessione sul multiculturalismo, in parte piegata alle esigenze
di funzionamento dello Stato-nazione, induce a prendere nuovamente
in esame il paradossale rapporto esistente fra il processo di
costruzione della nazione (nation building) e lo sviluppo del
liberalismo. Al pensiero liberale, in effetti, sono associati valori
universali, mentre il particolarismo è connesso alla politica di
nation building. Ecco perché l'unione tra liberalismo e nazionalismo
è problematica; essa richiede, a livello collettivo, di conciliare
l'universalismo di principio con la volontà di autodeterminazione e,
a livello individuale, di combinare il desiderio di identità e il
bisogno di diversità evidenti nella ricerca di una 'identità
differenziata'. Una qualche forma di solidarietà nazionale sta
dunque alla base dello Stato liberale, proposto come modello di
organizzazione politica e considerato culturalmente omogeneo.
Il nuovo modo di pensare la società come un'entità multiculturale
finisce col mettere in questione il collegamento comunemente
accettato fra Stato-nazione, liberalismo e individualismo morale.
Oggi, infatti, l'esaltazione delle libertà individuali a scapito
delle minoranze nazionali non è più possibile, almeno all'interno di
società nelle quali le appartenenze culturali, a lungo mantenute
nascoste, sono oramai oggetto di aperta rivendicazione. Dato che uno
Stato può essere formato da una pluralità di culture, che implicano
tutte una visione complessiva della società e aspirano a un
riconoscimento completo, bisognerà chiedersi se gli Stati
multinazionali siano davvero possibili e auspicabili. Prima ancora
di porsi questa domanda, tuttavia, è necessario definire meglio in
che modo il bisogno di appartenenza a una comunità si è affermato
come bisogno fondamentale. In effetti ne conosciamo bene l'origine
in ambito europeo, seguendo passo dopo passo le tormentate vicende
del sentimento nazionale studiate da Federico Chabod (v., 1961),
Pierre Renouvin (v., 1962), Ernest Gellner (v., 1983).
Johann Gottfried Herder fu il primo a insistere sul ruolo svolto
dalle radici e dal suolo - non dal sangue e dalla razza - nella vita
dei popoli. L'autore delle Ideen zur Philosophie der Geschichte
(1784-1785 e 1791) si fa quindi interprete di un nazionalismo
culturale in totale rottura con la concezione di civiltà universale,
che presuppone, a suo parere, una nozione astratta e disincarnata di
umanità: secondo Herder, infatti, i popoli sono espressione di
culture e sistemi di valori diversi. In seguito, Alexander Herzen
seguirà le indicazioni di Herder, diventando agli occhi degli slavi
l'eroe del rifiuto populista della modernizzazione della cultura e
il difensore delle tradizioni ancestrali dagli attacchi dei
filo-occidentali; i suoi appelli alla tradizione, tuttavia, non
oltrepasseranno l'ambito del socialismo utopico. Gli attacchi di
Herder intendevano colpire l'universalismo cosmopolita della civiltà
dei Lumi e, più precisamente, il concetto giuridico di nazione che
nel XVIII secolo riuniva artificialmente in sé i tre principî di
civiltà, legalità e carattere pubblico. Nella sua opera comincia a
prender forma quella opposizione tra cultura e civiltà che Oswald
Spengler sistematizzerà all'indomani della prima guerra mondiale.
La contrapposizione cultura/civiltà nasce nello stesso periodo in
cui lo spazio europeo comincia a strutturarsi in nazioni
culturalmente differenziate, politicamente divise e verticalmente
integrate. In Germania tale dicotomia si sviluppa nel XIX secolo,
all'interno di una cultura che rivendica la particolarità,
l'originalità e la vitalità come aspetti che garantiscono
un'identità nazionale di natura organica. Altrove - soprattutto in
Francia - si ritiene invece che la civiltà rappresenti una
cristallizzazione di elementi generali, comuni a diverse
organizzazioni sociali razionalizzate, meccanizzate e dunque ormai
prive di vita. La vocazione universalista della civiltà, unita
all'idea di 'nazione civica' (concetto formulato in Francia da
Ernest Renan nel 1882), finirà per scontrarsi con la linea
etno-culturale rappresentata dall'idea tedesca di nazione etnica.
Più importante ancora degli antagonismi e delle contrapposizioni,
comunque, è il fatto che in Francia come in Germania la promozione
delle culture nazionali portata avanti dai nazionalismi doveva far
fronte alla scomparsa di una comunità sociale, cui la cristianità
aveva offerto, in passato, il modello. In Francia si tentò di
colmare il vuoto creatosi dando nuovo vigore alla comunità politica
(v. Nicolet, 1982), mentre in Germania fu promosso un rafforzamento
della comunità culturale nata dall'unione tra Volkskultur e
Gemeinschaft e con lo sviluppo di una scienza nazional-populista, la
Volkskunde (v. Bausinger, 1971). A questo punto è possibile capire
quale sia lo scenario storico al quale rinviano i movimenti
xenofobi, identitari, settari, integralisti o fondamentalisti che si
sviluppano nell'Europa di oggi, nella quale il progetto di
un'integrazione orizzontale, realizzata attraverso numerose reti di
scambi, prende il posto delle politiche di integrazione verticale
sostenute sino a tempi recenti dallo sviluppo esacerbato di un
sentimento nazionale rispetto al quale i movimenti che incentrano la
propria attività sui diritti dell'uomo, le attività umanitarie, la
cittadinanza e l'ecologia disegnano (o ridisegnano) le forme
dell'universalismo.
A queste evoluzioni recenti è necessario aggiungere, in particolare
nel caso della Germania, l'analisi dei rapporti creatisi tra la
costituzione dell'identità nazionale e la costruzione della memoria
collettiva (v. Assman, 1993). Gli usi e costumi del passato sono di
nuovo posti in primo piano e un lavoro di recupero - sotto forma di
riconoscimento talvolta retrospettivo - prende il via dalle
rivendicazioni identitarie, dalle ingiustizie denunciate, dalle
libertà reclamate: nasce così il primo abbozzo di una 'etica della
ricostruzione' (v. Ferry, 1996). Tuttavia, non è difficile rendersi
conto delle carenze e ambiguità cui oggi può andare incontro il
semplice riconoscimento del pluralismo culturale, vale a dire di una
pluralità di valori tutti egualmente autentici.
Come dottrina che vede nelle convinzioni morali, nelle
rappresentazioni mentali e negli stili di vita dei gruppi
l'espressione di una molteplicità di valori eterogenei e non
ordinabili gerarchicamente in base a un criterio assoluto, il
pluralismo culturale finisce sempre per scontrarsi con forme diverse
di monismo. Al pluralismo culturale, per esempio, deve essere
associata la nozione di 'pari rispetto', affinché la sua efficacia -
in particolare politica - sia reale; e il 'pari rispetto' non potrà
che essere una norma imposta dall'esterno. Aderire a ciò che esso
implica e prescrive, tuttavia, non significa sempre - o, in ogni
caso, non necessariamente - sconvolgere equilibri e alienarsi
consensi storicamente consolidati. Così come oggi è inteso, il
multiculturalismo fa al contrario risorgere quanto era da tempo
sepolto nella coscienza collettiva; ma la sua ricomparsa si scontra
con gli stereotipi nazionali e sociali, poiché esso ha in sé i germi
della dissoluzione di quanto si riteneva per sempre stabilito e
codificato.
Alla problematica del multiculturalismo inoltre si riallacciano i
problemi posti dall'etnicità, considerati del tutto marginali sino a
tempi recenti. Il ritardo della riflessione su tali problemi - ad
esempio, su quello delle minoranze volutamente dimenticate - è sotto
gli occhi di tutti, e l'accelerazione attuale del dibattito è
ovviamente causata dall'estrema gravità che essi hanno assunto.
L'integrazione culturale, praticata sia dagli Stati liberali che da
quelli autoritari, oggi è oggetto di contestazione. Perciò non
sembra più così 'normale' come un tempo che gli Stati occidentali
multilingue abbiano profuso sforzi spesso considerevoli per
integrare le proprie minoranze linguistiche nelle istituzioni che si
servono di una lingua comune - quella del gruppo maggioritario.
Eppure è ciò che essi hanno fatto ovunque, tranne che in Svizzera,
paese in cui le minoranze francofone e di lingua italiana non sono
state oggetto di una politica di assimilazione alla maggioranza di
lingua tedesca.
Il caso francese illustra bene quanto sia difficile adattare i
meccanismi di uno Stato repubblicano - vero e proprio meccanismo di
assimilazione che ha funzionato a pieno regime sino all'inizio degli
anni settanta - a una società etnicizzata. Eppure nel XVIII secolo,
secondo la tesi di Henri de Boulainvilliers, la società francese fu
profondamente segnata da una vera e propria guerra tra gli eredi di
due razze - Franchi invasori, Galli autoctoni. L'immagine che la
Rivoluzione del 1789 ce ne ha fornito è invece quella di un'entità
formata da cittadini chiaramente eguali. In realtà, la popolazione
francese era composta da strati differenti: classi-etnie primitive,
gruppi di immigrati italiani e polacchi che si erano fusi alla
collettività nazionale, minoranze etnico-religiose che avevano avuto
un trattamento diseguale. Perciò, i gruppi musulmani, con le loro
odierne rivendicazioni, chiedono solo di poter beneficiare delle
concessioni fatte in passato agli ebrei e ai cristiani integralisti.
Il fatto che la "verità razziale (raciologique) dello Stato
repubblicano" (v. Amselle, 2003, p. 122) si sia manifestata appieno
nelle sue imprese coloniali, ci consente di capire i modi in cui
esso gestiva i diversi "gruppi di popoli". Non appena lo Stato
liberale comunitario prende il suo posto, fa il proprio esordio una
'società civile' che si assume il compito - attraverso le sue
associazioni - di controllare le nuove classi pericolose, formate da
Neri e da Beurs (figli di immigrati magrebini nati in Francia): ciò
a riprova del fatto che la questione sociale si era ormai
trasformata in questione etnica. Esaminando questa situazione,
Jean-Loup Amselle conclude che lo Stato repubblicano francese è
stretto nella contraddizione fra le sue esigenze di universalità e
il suo radicamento gallo-cattolico. Inoltre, esso deve favorire lo
sviluppo delle lingue regionali che minacciano le sue stesse
fondamenta. Perciò "lo Stato repubblicano, al tempo stesso non
abbastanza universalista e non abbastanza particolarista, [...]
sembra accerchiato da ogni parte", e il modello da esso
rappresentato è meno esportabile rispetto al modello
multiculturalista nordamericano.
4. Politiche e problemi delle identità culturali
Ai dibattiti su universalismo e particolarismo e ad alcuni temi -
come quelli relativi ai diritti collettivi rivendicati dalle
minoranze - che danno corpo al multiculturalismo, si aggiunge il
problema delle identità culturali. Taylor (v., 1992) collega alla
nozione di identità le idee di autenticità (la fedeltà a se stessi),
di riconoscimento (di quello che siamo), di differenza (nella
rappresentazione di sé e degli altri) e di uguale dignità (con il
diritto a pari rispetto). Questi termini e questi differenti
aspetti, tuttavia, non vanno intesi nell'accezione straordinaria
attribuita loro dall'ideale eroico di autocreazione sviluppato
dall'individualismo romantico nel XIX secolo. Per la maggioranza
degli individui, l'identità si forgia nel crogiolo della nazione,
dell'etnia o della cultura, ma si forma anche in seno ad ambienti
particolari. E, soprattutto, quell'identità si declina in vari modi:
come appartenenza a un gruppo linguistico, nell'esser seguaci di una
religione, nell'avere un determinato stato civile, ecc., cioè in una
serie di identità pratiche, più o meno ben coordinate tra loro, che
interagiscono con le identità degli altri individui di una
collettività e che sono chiamate a diventare oggetto di reciproco
riconoscimento.
Il 'mondo che abbiamo perduto' era caratterizzato da una relativa
stabilità dei rapporti tra la dimensione individuale e quella
collettiva. Quanto alle società contemporanee, sono teatro di uno
sviluppo incessante di differenze identitarie prodotte da un
movimento generale di distensione e decentramento. Al suo interno,
perciò, si sviluppano continue lotte per liberarsi da un'identità
imposta e ottenere il riconoscimento di un'identità che si è scelta.
Queste lotte, intraprese da individui che si trovano a vivere in una
situazione difficile (immigrati, rifugiati), da gruppi minoritari
sotto il profilo linguistico, etnico, culturale e religioso, da
popoli che si oppongono all'etno-centrismo e all'imperialismo
culturale dell'Occidente, hanno come obiettivo il 'riconoscimento'
in diverse forme: dalla richiesta di riconoscimento pubblico,
giuridico e politico, alla richiesta di rappresentanza o di
protezione. Le rivendicazioni alla base di tali lotte, inoltre, sono
diversificate a seconda dei punti su cui vertono: il rispetto delle
differenze identitarie inerenti a sfere culturali diverse,
l'istituzionalizzazione di una cittadinanza multiculturale e
multinazionale, l'attuazione di politiche di equità, la creazione di
istituzioni distinte dai grandi apparati statali. Spesso esse si
accompagnano a una denuncia della xenofobia, del razzismo e
dell'emarginazione.
Sebbene qua e là siano stati messi in atto dispositivi in grado di
soddisfare alcune di queste esigenze, come l'autonomia regionale o
la sovranità condivisa (ad esempio, in Belgio e in Canada), per
molto tempo l'esito consueto di queste lotte è stata la repressione,
la conflittualità, l'assimilazione forzata. Ecco allora che la
rinegoziazione rappresenta una soluzione alternativa per una
politica dell'identità. Essa fa infatti appello al dovere di
deliberazione collettiva, una necessità imprescindibile se si vuole
far funzionare nel migliore dei modi il sistema dei rapporti
sociali. Abbiamo insomma il dovere - che Kant ha formulato come
imperativo categorico - di intenderci con coloro che ci vivono
accanto e che non necessariamente condividono tutte le nostre
convinzioni. La concertazione è funzione di un modo prudente e
responsabile di agire, anche se è necessario distinguerne due
diverse modalità: la concertazione necessaria all'interno del
gruppo, che si fa interprete di una rivendicazione identitaria, e
quella rivolta all'esterno, che punta a convincere la società
maggioritaria.
James Tully (v., 1995) osserva inoltre che l'identità condivisa ha
valore solo se declinata in un contesto democratico e dialogico.
Democraticamente, e in base al principio di sovranità popolare, ciò
che riguarda tutti deve essere discusso da tutti. La discussione
sarà perciò aperta, e non si ridurrà a uno o più dialoghi a due
voci. Nel corso di questi 'multiloghi' ci sforzeremo sempre di
ascoltare l'altra parte - ubbidendo al precetto audi alteram partem
- con l'intento di stabilire un rapporto nuovo, o rinnovato, di
riconoscimento reciproco cui tutti possano aderire. Da tale modo di
procedere deriverà una reciproca comprensione tra le identità
interessate, vale a dire un accordo che - a partire da ragioni
condivise - converge su un'identità multiculturale e multinazionale.
Anche se in tempi brevi tali procedure non produrranno risultati
concreti, come l'elaborazione di un'intesa formalizzata, questo
atteggiamento faciliterà comunque una presa di coscienza del modo in
cui le identità in discussione sono state costruite e trasmesse,
acquisite o imposte. Inoltre, dando il loro contributo alla critica
e al rovesciamento di stereotipi sempre presenti e condizionanti,
queste discussioni sulle identità pratiche possono dar vita - in
assenza di accordi nati da un riconoscimento reciproco - a un
'disaccordo ragionevole' (evitando in tal modo il confronto
violento) o a compromessi atti a ridurre le tensioni.
La resistenza al riconoscimento delle differenze identitarie e alla
rivendicazione dei diritti culturali è tuttavia piuttosto diffusa.
Si teme infatti che le prime minaccino la coesione politica, mentre
si diffida dei secondi perché sono apparsi in un contesto
minoritario. Perciò un processo iniziato nel XVIII secolo con la
conquista dei diritti civili, proseguito nel XIX secolo con
l'accesso ai diritti politici e che sembrava compiuto nel XX secolo
con la concessione dei diritti sociali, prosegue oggi con la
rivendicazione dei diritti culturali. Contro tali rivendicazioni può
esser fatta valere una 'retorica reazionaria' che Albert O.
Hirschman ha descritto e criticato punto per punto. Ma poiché essa
fa riferimento a un'entità nazionale-maggioritaria che non
corrisponde all'ideale democratico, è difficile ricorrervi. Del
resto, Patrice Meyer-Bisch (v., 1993) ritiene con valide
argomentazioni che le autorità alla guida della società liberale
avrebbero tutto da guadagnare se accettassero l'estensione della
logica dei diritti dell'uomo all'ambito culturale, invece di
occuparsi solo dei diritti civili e politici. Questa estensione
servirebbe infatti a eliminare le ambiguità esistenti tra Stato
monoculturale e multiculturalismo, individualismo e comunitarismo.
Il dibattito odierno relativo ai problemi che la gestione delle
rivendicazioni identitarie pone alle regole comunitarie rimane
nondimeno prigioniero di schemi mentali che ne cristallizzano i
termini fondamentali. L'inclinazione prevalente è ancora verso
l'essenzialismo, che consiste nel considerare le identità come
insieme di caratteri costitutivi e invariabili. Vi è inoltre una
forte tendenza a ipostatizzare la cultura: in quest'ottica essa si
trasforma in un sistema chiuso di tradizioni etiche e intellettuali
che ne garantiscono l'integrità. Ma l'identità, in realtà, si
costruisce in modo dinamico, essendo radicata al tempo stesso in una
natura umana universale e in una cultura particolare; essa unisce
cioè aspetti ontologici - ai quali l'umanesimo ha contribuito a dar
senso - e componenti che possono essere sottoposte a un'analisi
culturalista, sicché non è possibile nessuna identificazione senza
inculturazione. La cultura deve anche essere intesa nella sua
duplice capacità di universalizzare e di particolarizzare; vedervi
solo un sistema fisso di rappresentazioni equivale a mutilarla.
Essa, che per molti aspetti è una sorta di 'dono dei morti', è anche
un potenziale che il soggetto e la società in cui vive sono chiamati
a sfruttare in modo originale.
Proprio in questo ambito si ritrovano i limiti di quasi tutte le
analisi anglosassoni delle identità culturali. Gli autori di tali
analisi - si tratti di Kymlicka o di Taylor - inscrivono le identità
in questione unicamente in un quadro giuridico e politico,
preoccupandosi soltanto della loro sistemazione all'interno dello
spazio pubblico. Da un lato ci si preoccupa di valorizzare il
soggetto individuale e delle condizioni per la sua realizzazione
personale, senza prestare grande attenzione alla riproduzione di
culture specifiche; dall'altro ci si sofferma in modo esclusivo
sulla sopravvivenza di queste ultime. In tutti i casi, comunque -
come nota Michel Wieviorka (v., 1998) -, non ci si interessa alla
trasformazione delle appartenenze, all'emergere di nuove identità,
ai processi di scomposizione e di ricomposizione che le
caratterizzano. Anzi, proprio questo disinteresse, sottolinea
Wieviorka, è ciò che rende possibile affrontare le identità in
un'ottica politica e giuridica.
Eppure, nel mondo si verifica una continua mescolanza di culture, si
susseguono fenomeni di incroci e contaminazione fra razze
differenti. Serge Gruzinski (v., 1999) ha descritto questi fenomeni
per il Messico e il Perù a partire dalla Conquista. John Francis
Burke ne ha parlato invece in relazione alla zona al confine tra
Stati Uniti e Messico, dove si intrecciano oggi "la cultura
nordamericana protestante, capitalista, e la cultura cattolica,
mediterranea, meridionale dell'America latina" (v. Burke, 1999, p.
131): prende forma in tal modo un nuovo mestizaje, nel quale si è
totalmente Nordamericani e pienamente Messicani ma non
esclusivamente l'uno o l'altro; si diviene al tempo stesso individui
diversi e più ricchi, in virtù di una specie di visione culturale
'binoculare' imposta dall'obbligo di vivere all'interno di due
culture. Ecco allora che le appartenenze e le identità culturali non
devono essere considerate fossilizzate: da queste mescolanze, che
spaventavano Arthur de Gobineau, ha sempre origine qualcosa di
inedito. Anzi il meticciaggio, per esser più precisi, non si
identifica né con l'ibridazione priva di consistenza storica, né con
il cosmopolitismo, definito come adattamento egocentrico ed
etno-centrico rispetto alla diversità culturale.
5. Conclusione
In conclusione, si può affermare che l'unità può e deve essere
realizzata nella differenza, all'interno di contesti nazionali
rifondati su nuove basi. Più di un esempio storico testimonia
dell'efficacia di tale processo. Nel caso degli Stati Uniti, ad
esempio, Michael Lind (v., 1995) ha individuato quattro momenti di
rifondazione della nazione americana in cinquecento anni di storia,
sempre in relazione con l'arrivo sul territorio di nuovi gruppi di
origini differenti. Il risultato è che vi sono quattro differenti
tipi di nazione americana, ciascuno dei quali accoglie e sintetizza
le esperienze del precedente: l'Anglo-America, l'Euro-America,
l'America multiculturale e infine la nazione culturale americana
trans-razziale, che nasce nella seconda metà del XX secolo. Lind
vede addirittura formarsi negli Stati Uniti una nuova 'etnicità
americana', condivisa dai membri di una società dietro la cui
diversità si cela una profonda coesione. Il multiculturalismo in
senso proprio che ivi si sviluppa non implica affatto, come ha
mostrato Raymond Boudon (v., 2000), un 'relativismo dei valori'. Al
contrario, esso segna l'emergere di un nuovo contesto culturale del
tutto unico, la cui particolarità è data dal riconoscimento della
diversità di origini e tratti culturali dei cittadini che vivono
insieme in un nuovo contesto nazionale.
La tesi dello 'scontro tra culture', del 'conflitto tra civiltà'
alla quale Samuel Huntington ha legato il suo nome - e di cui si è
fatto interprete in articoli, saggi e opere pubblicati negli anni
novanta - non deve quindi essere interpretata in modo sbagliato.
Quella tesi, infatti, si fonda su una constatazione difficile da
smentire: che le tradizionali divisioni tra società ricche e povere
e tra regimi democratici e autoritari, pur continuando a restare
importanti, in futuro lo saranno meno rispetto alle divisioni e
contrapposizioni di carattere culturale. Tuttavia, è proprio la
rappresentazione delle differenze che sono all'origine di queste
divisioni che sta per cambiare. A quanti ritengono che queste
differenze siano radicali, qualcosa di irriducibile e 'insanabile',
si oppongono infatti quanti hanno intenzione di 'sanarle' in modo
positivo e pragmatico proprio nell'ambito del multiculturalismo, che
induce a pensare altrimenti la pluralità dei mondi, l'identità e
l'alterità.