Monarchia
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Forma di governo nella quale i poteri di sovranità popolare e
nazionale fanno capo a un’autorità sostanzialmente, ma non
esclusivamente, monopersonale, basata su fattori di legittimazione
tradizionale (m. assoluta ) o legale (m. costituzionale ) e
comunque, in genere, sul principio della ‘rappresentanza senza
elezione’.
1. Antichità classica
La Grecia delle origini non conosce altri ordinamenti politici che
quelli monarchici. Monarchica era la società cretese-micenea e m. di
tipo paternalistico sono quelle rappresentate da Omero nell’8°-7°
sec. a.C. La decifrazione dei testi d’età micenea in lineare B ha
provato la diversità dell’organizzazione politica micenea da quella
ricostruibile attraverso i poemi omerici: nella prima, al vertice
dello Stato non era un βασιλεύς, come nella seconda, ma un Ƒάναξ
(«signore»), coadiuvato da un λαƑαγέτας, capo della nobiltà
guerriera. I pasireve (βασιλῆƑες) menzionati nelle tabelle micenee
sembrano estranei all’organizzazione politica e connessi invece con
le strutture gentilizie: emersero come capi dello Stato in epoca più
tarda, dopo l’invasione dorica. La m. fu presto esautorata dalle
aristocrazie che quasi ovunque soppiantarono gli antichi istituti,
conservandosi in poche regioni culturalmente arretrate o agli
estremi della civiltà ellenica (Macedonia, Epiro) e a Sparta, dove
si mantenne sotto la forma della diarchia.
In età propriamente storica (dal 7° sec. in poi) l’istituto
monarchico è avversato anche sotto il profilo teorico dai Greci,
restii ad ammettere che uomini liberi possano sottostare al dominio
di uno solo: Platone e Aristotele, che pur non escludono il bene che
può derivare ai sudditi da un saggio monarca, hanno presente la
frequente e nefasta degenerazione della m. in tirannide.
L’istituto monarchico risorse nel mondo ellenico dopo la
conquista macedone della Grecia e la formazione dei grandi imperi
ellenistici. Caratteristici delle m. d’età ellenistica furono
l’assolutismo dispotico, il culto prestato alla persona del monarca,
il difetto di legalità: sostegno principale ne fu l’esercito, in
massima parte mercenario, e il complicato sistema amministrativo
fiscale che fece, per es., dell’Egitto tolemaico un anticipatore dei
moderni Stati accentratori e burocratizzati.
La sovranità assoluta dei monarchi, illimitata nei riguardi delle
popolazioni barbare assoggettate (per es., nell’Egitto e nelle
regioni orientali dell’impero seleucidico), ebbe un qualche freno
nei rapporti tra i sovrani ellenistici e le città greche
appartenenti ai loro regni, le quali godettero di una certa
autonomia amministrativa; più volte i sovrani s’impegnarono, nelle
dichiarazioni ufficiali, al rispetto della eleutherìa, autonomìa,
demokratìa delle città. Malgrado queste parvenze di autonomia, la
mancanza di libertà politica accentuò il disinteresse dei singoli
verso la cosa pubblica: causa prima della fragilità interna di quei
regni e del loro soccombere a Roma.
A Roma la m. è la prima forma costituzionale: la città sarebbe stata
fondata da un re, Romolo, cui succedettero, secondo la tradizione,
altri 6 re: il nome etrusco del 5° e 7° re (Tarquinio) ha fatto
ipotizzare un periodo di dominazione straniera nell’Urbe durante il
6° sec. a.C. La m. sarebbe durata 244 anni (753-509 a.C., secondo
Varrone): se sono dubbi la precisione delle date, il numero, la
personalità e l’opera stessa dei singoli sovrani, è certo che fino a
tutto il 6° sec. la città fu retta a monarchia. Sui modi del
passaggio alla repubblica, vi sono 2 teorie contrastanti: una
evolutiva, che ammette una transizione graduale, attraverso forme di
governo collegiale con potestà diseguale, alla collegialità eguale
dei consoli; un’altra che riconosce la sostanza della tradizione,
presentando il passaggio come un evento rivoluzionario. Il re romano
era a vita, fornito di omnis potestas e libero dal rendere conto del
proprio operato; la m. non era ereditaria e l’elezione del re da
parte del popolo doveva essere convalidata dall’autorità del Senato.
Al sovrano competevano il comando delle milizie, la suprema autorità
religiosa e l’amministrazione della giustizia penale.
2. Medioevo
Travolte le istituzioni romane d’Occidente dalle incursioni
barbariche, in quasi tutta l’Europa si ritornò alla primitiva
organizzazione politica, di tipo patriarcale, con governi misti,
aristocratici, in cui il potere personale del re era limitato da
assemblee deliberanti. Il feudalesimo trasformò la m. in uno Stato
di proprietari, legati da un rapporto personale di subordinazione
verso il sovrano che aveva donato loro la terra e, con essa,
l’autorità. Privato della proprietà terriera, il re conservava su
questa solamente una sovranità nominale, mentre era vero e proprio
sovrano in tutti quei territori rimasti sotto il suo dominio. Lo
Stato feudale, quindi, si presentava come uno Stato composito in cui
ciascun signore era sottoposto al sovrano che lo aveva investito.
Al sommo della gerarchia medievale stavano i due poteri universali,
papa e imperatore (derivando la sua dignitas, quest’ultimo,
direttamente o indirettamente per mezzo del papato, da Dio), anche
se la subordinazione gerarchica fu presto respinta dalle maggiori
potenze secondo il principio ‘rex in regno suo est imperator’.
L’autorità monarchica assunse, nel Medioevo, carattere religioso non
solo nella teoria politica, ma anche nella coscienza popolare; il
diritto divino dei re, tuttavia, si affermò solo alle soglie
dell’età moderna, contribuendo al passaggio dalla m. elettiva alla
m. ereditaria. Il principio dell’ereditarietà si stabilì in Francia
con la legge salica, in Spagna con la Ley de las siete partidas.
Contro la reazione dell’aristocrazia feudale e il particolarismo
autonomistico delle città, sul finire del Medioevo la m. impersonò
interessi più vasti, quasi nazionali e, in alcuni casi, avviò quel
processo di riorganizzazione economica, militare, burocratica e
amministrativa che segna l’origine dello Stato moderno. In questa
prospettiva il re si considerava padrone assoluto dello Stato
(assolutismo); gli organi rappresentativi furono sostituiti dalla
organizzazione burocratica. Si ebbe un’organizzazione accentrata per
ogni potere (tributario, giudiziario, militare ecc.); il Consiglio
privato si ridusse a organo consultivo e i Parlamenti si limitarono
a una funzione di rappresentanza. La società feudale da organismo
politico si trasformò in società di proprietari privilegiati.
Diverso svolgimento si ebbe in Inghilterra, dove la m., concedendo
la Magna Charta (1215), fin dal 13° sec. dovette venire a patti con
l’aristocrazia, che per lungo tempo lottò contro ogni tentativo di
allargare la potestà regia. Nel 1264 si aggiunsero ai rappresentanti
del clero e dei nobili anche quelli delle città e dei borghi e si
instaurò quindi un problema generale di rappresentanza, non più
limitata alla sola determinazione dei tributi.
3. Età moderna e contemporanea
Mentre in Francia proseguiva la costruzione di un potere statale
fortemente centralizzato, in Inghilterra fu sventato il programma
assolutistico degli Stuart. La Petition of rights (1628), il Bill of
rights (1689), l’Act of settlement (1701) costituiscono le leggi
fondamentali della m. inglese che si avviò decisamente al
costituzionalismo. Il re e il Parlamento formavano ormai delle
istituzioni impersonali dello Stato. Dopo la Rivoluzione francese il
sistema monarchico costituzionale si impose gradualmente in Europa.
In Francia la m. divenne costituzionale nel 1791 a opera
dell’Assemblea legislativa; cadde l’anno dopo e riacquistò il suo
carattere costituzionale solo nel 1848. In Svezia il principio
costituzionale venne introdotto nel 1809, in Norvegia nel 1814, in
Belgio nel 1831.
In Italia la m. assoluta del Regno di Sardegna si trasformò in
costituzionale nel 1848 con lo Statuto di Carlo Alberto e fu
recepita nel nuovo Regno d’Italia (1861).
4. Partiti e movimenti monarchici in Italia
Il problema della difesa dell’istituto monarchico si pose dopo l’8
settembre 1943, allorché gran parte della popolazione cominciò a
orientarsi in senso repubblicano. A fronte della crescente influenza
dei partiti repubblicani, specie nei Comitati di liberazione
nazionale, sorsero diversi gruppi e movimenti di orientamento
monarchico (alcuni dei quali operarono nella Resistenza a Roma e
nell’Italia settentrionale), che dopo la liberazione di Roma (giugno
1944) costituirono il Partito Democratico Italiano (PDI), guidato da
E. Selvaggi e R. Lucifero, cui dopo l’aprile 1945 giunse l’apporto
dei monarchici del Nord. A seguito dell’esito del referendum del 2
giugno 1946, il PDI si fuse con i liberali lasciando un certo spazio
a coloro che intendevano perseguire il ripristino della monarchia.
In questo spazio si inserì il Partito nazionale monarchico (1948),
guidato da A. Covelli, con un elettorato prevalentemente meridionale
e tradizionalista. Nel 1954 una scissione promossa da A. Lauro diede
vita al Partito monarchico popolare, scissione riassorbita prima
delle elezioni del 1963 con la costituzione del Partito democratico
italiano di unità monarchica, guidato sempre da Covelli. Ma l’ideale
monarchico era in declino (1,7% dei suffragi nel 1963 e 1,3 nel
1968) e per le elezioni del 1972 i monarchici confluirono nelle
liste del Movimento sociale italiano, che aggiungeva alla sua
denominazione quella di Destra nazionale. Esterna alle vicende di
partito, a tener viva l’istanza monarchica ha operato dal 1944
l’Unione monarchica italiana.