Marxismo
www.treccani.it
Enciclopedie on line
Insieme delle dottrine economiche, politiche, filosofiche
elaborate da K. Marx (e da F. Engels) e i loro sviluppi a opera
degli intellettuali che si sono richiamati a esse.
I primi marxisti
Durante la Prima Internazionale i sostenitori di Marx erano
definiti polemicamente marxisti dai loro avversari. Fu Engels a
fornire una prima sistematizzazione del m., con il saggio
Anti-Dühring (1878) e la pubblicazione del secondo e del terzo
volume de Il Capitale (1867-79). Il m., affermatosi nel socialismo
tedesco e nell'Internazionale, penetrò nella cultura europea,
sviluppato da intellettuali come K. Kautsky, G.V. Plechanov, A.
Labriola, M. Adler (1873-1937). Nel contesto della Seconda
Internazionale E. Bernstein (I presupposti del socialismo e i
compiti della socialdemocrazia, 1899) attaccò l'ortodossia marxista,
auspicando una declinazione del m. in senso riformista. Contro i cd.
revisionisti si schierarono Kautsky (punto di riferimento
dell'elaborazione politico-strategica ispirata al m.) e R.
Luxemburg.
La fine dell'ortodossia marxista
L'inizio del 20° sec. vide la disgregazione del m. della
Seconda Internazionale e l'emergere di nuove correnti: dopo la
rivoluzione russa del 1905, si consolidò la sinistra marxista
radicale animata da Luxemburg e da V.I. Lenin; negli stessi anni la
socialdemocrazia russa si divise (1902) nelle correnti bolscevica e
menscevica, in polemica sul ruolo della classe operaia
nell'imminente processo rivoluzionario; contemporaneamente si
diffusero le tesi del francese G. Sorel (Riflessioni sulla violenza,
1908), teorico del sindacalismo rivoluzionario.
Tra Marx e Stalin
La crisi del m. si aggravò con la Prima guerra mondiale, in
seguito al voto dei socialdemocratici tedeschi a favore dei crediti
di guerra (che determinò il radicalizzarsi della polemica tra
riformisti e rivoluzionari) e si compì con la rivoluzione bolscevica
(1917); negli anni successivi si affermò il m. di Lenin, grazie alla
fondazione della Terza Internazionale (1919) e dei partiti
comunisti. Negli anni Trenta si cristallizzò nell'urss il cd.
marxismo-leninismo, che assurse a ideologia ufficiale del partito.
Nel resto d'Europa la riflessione critica sul m. fu condotta da
intellettuali come l'ungherese G. Lukács, il tedesco K. Korsch,
l'italiano A. Gramsci, e dagli esponenti del cd. austromarxismo
(Adler, R. Hilferding, O. Bauer).
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Pietro Rossi
Marxismo
Sommario: 1. Il marxismo come scienza della società. 2. Il marxismo
come concezione generale della storia e come prospettiva
rivoluzionaria. 3. L'analisi dello sviluppo capitalistico. 4. La
critica dell'economia politica e la teoria del valore-lavoro. 5. Il
rapporto con l'antropologia evoluzionistica e l'origine della
società e dello Stato. 6. La teoria del crollo del capitalismo. 7.
La teoria dell'estinzione dello Stato e il ruolo del partito. 8.
Marxismo e scienza economica: dalla critica della teoria del
valore-lavoro alle teorie dello sviluppo. 9. Marxismo e sociologia:
la critica del materialismo storico e l'eredità della teoria delle
classi. 10. Marxismo e antropologia: le 'rivoluzioni' produttive e
la natura dell'economia primitiva. 11. Il marxismo tra concezione
del mondo, critica delle ideologie e ideologia. 12. Conclusione. □
Bibliografia.
1. Il marxismo come scienza della società
Il marxismo nasce, negli scritti di Marx e di Engels degli anni
quaranta dell'Ottocento, sotto forma di una scienza della società
che intende fornire un'interpretazione complessiva della nascente
società borghese-capitalistica e della sua direzione di sviluppo.
Naturalmente il marxismo non è soltanto questo, e lo vedremo in
seguito; ma fin dall'inizio è anche e soprattutto questo. A partire
dal 1845, e ancor più esplicitamente nel Manifesto del partito
comunista scritto alla vigilia della rivoluzione europea del 1848,
Marx ed Engels hanno preso posizione nei confronti di quello che
hanno definito il socialismo "utopistico", contrapponendogli il
proprio come socialismo "scientifico". E nella prefazione al
Capitale (1867) Marx ha dichiarato che oggetto della sua indagine
era "il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione
e di scambio che gli corrispondono", di cui si proponeva - in
analogia con il procedimento delle scienze della natura - di
scoprire le "leggi naturali", cioè le tendenze "che operano e si
fanno valere con bronzea necessità". Questa rivendicazione di
scientificità non è affatto estrinseca; essa è invece un elemento
costitutivo dell'analisi marxiana (e poi marxistica) della società.
Ciò che Marx ed Engels si propongono è infatti, in primo luogo,
individuare gli aspetti caratteristici di una nuova struttura
sociale che si è venuta affermando nel mondo europeo nel corso degli
ultimi secoli, e di cui lo sviluppo dell'industria, dapprima sul
suolo inglese poi anche nel continente, ha ormai posto in luce
l'irriducibilità alle società del passato; in secondo luogo,
spiegare il processo di trasformazione che ha messo capo ad essa e
che potrà condurre, in futuro, alla nascita di un'altra società che
ne costituisca il "superamento".
La prima linea di analisi ha il proprio centro di gravità nel
riconoscimento della struttura capitalistica della società moderna -
una struttura assente nelle società del passato - la quale si è
venuta costituendo nel corso di un processo secolare che ha avuto
inizio nel tardo Medioevo. Questa struttura risulta caratterizzata
dal prevalere della proprietà privata o, più precisamente, di un
tipo particolare di proprietà privata - la proprietà capitalistica -
che comporta, per un verso, la trasformazione delle forme di
proprietà precedenti e, per l'altro, un processo di crescente
concentrazione nelle mani di un determinato gruppo sociale, ossia
della classe dei "capitalisti". Caratteristica fondamentale della
proprietà capitalistica è infatti la separazione tra capitale e
lavoro, e quindi tra la classe che possiede i mezzi di produzione e
quella che fornisce la forza-lavoro. Marx ha collegato questa
analisi alla distinzione, formulata da Smith e largamente recepita
dall'economia politica dei primi decenni del secolo XIX, tra
salario, rendita e profitto, definendo il reddito del capitale
investito in termini di profitto. Mentre la classe proprietaria di
origine feudale aveva la propria base economica nella rendita, la
classe capitalistica vive del profitto ricavato dall'investimento
del capitale, e perviene ad accumulare capitale in misura crescente
attraverso il profitto.
Ma nel passaggio dalla società feudale, fondata sulla proprietà
terriera, alla società borghese-capitalistica non si ha soltanto uno
spostamento di importanza dalla rendita al capitale; la rendita
stessa viene trasformata in capitale, cosicché la classe percettrice
di rendita vede progressivamente diminuita, insieme al proprio peso
economico, anche la propria importanza sociale. E come la classe
capitalistica viene assorbendo i ceti redditieri, così la classe
operaia assorbe, da parte sua, i ceti artigianali e
piccolo-borghesi. Al processo di concentrazione del capitale fa
riscontro la proletarizzazione della forza-lavoro, che viene a
trarre la fonte esclusiva del proprio sostentamento dal
salario.Questa analisi, ripresa e ampiamente sviluppata nel primo
libro del Capitale - pubblicato a distanza di circa un ventennio,
nel 1867 -, poggia su un'interpretazione conflittuale della
struttura dicotomica della società moderna. Capitale e lavoro,
profitto e salario non sono infatti componenti che cooperano al
processo produttivo integrandosi a vicenda; sono invece elementi
contrapposti, in quanto la classe capitalistica tende ad accrescere
il proprio profitto riducendo la quota di ricavo destinato ai salari
al minimo possibile, a un livello di pura e semplice sussistenza,
mentre la classe operaia è in balia delle crisi ricorrenti che
producono disoccupazione. Il rapporto tra le due classi si configura
perciò agli occhi di Marx e di Engels - i quali guardano soprattutto
alle condizioni del lavoro nelle manifatture e nelle fabbriche
inglesi, e al pauperismo che ne costituiva l'inevitabile conseguenza
- come un conflitto permanente e non suscettibile di composizione,
come una lotta. La lotta di classe è un elemento costitutivo, non
eliminabile, della società borghese-capitalistica.
Tale elemento è rintracciato, fin dalla Deutsche Ideologie (1845),
anche nelle società del passato: questa è la seconda fondamentale
direzione dell'analisi marxiana. Tutte le società finora succedutesi
nella storia presentano infatti un'analoga struttura dicotomica,
anche se le classi "polari" e contrapposte sono diverse in ognuna di
esse. E ciò per la correlazione che sussiste tra proprietà e
stratificazione sociale. Richiamandosi su questo punto alla tesi
largamente diffusa nella cultura socialista francese e inglese della
prima metà dell'Ottocento, che aveva collegato l'origine della
diseguaglianza sociale alla nascita della proprietà (secondo un
modello interpretativo che risale a Rousseau e che è stato in
seguito ampiamente sviluppato nei testi di Proudhon), Marx ed Engels
ritengono che la divisione della società in classi sia un fenomeno
universale riconducibile all'esistenza di una qualche forma di
proprietà. Ma essi relativizzano questo fenomeno, cercando di
determinare il rapporto esistente tra la successione storica delle
formazioni economiche della società e quella delle forme di
proprietà. E - fatto ancor più decisivo - pongono la struttura della
proprietà in relazione con il progredire della divisione del lavoro.
La divisione del lavoro è un processo per così dire lineare, che
però dà luogo a una successione di modi di produzione tra loro
qualitativamente distinti. Già nella Deutsche Ideologie s'incontra
infatti la distinzione tra proprietà tribale, proprietà comunitaria,
proprietà feudale e proprietà capitalistica, intese come le
strutture portanti di forme differenti di organizzazione sociale.
Nella comunità primitiva la divisione del lavoro ha una base
naturale, essendo il semplice prolungamento della divisione per
sesso e per età presente all'interno della famiglia, e la proprietà
appartiene non al singolo ma alla tribù, cosicché in essa non esiste
ancora proprietà privata; nelle forme successive la proprietà è
invece nelle mani di una classe detentrice anche del potere
politico, la quale trae il proprio sostentamento dal lavoro o degli
schiavi o dei servi della gleba o, nella società
borghese-capitalistica, del proletariato industriale. A differenza
di quanto avviene nella comunità primitiva, queste forme di
organizzazione poggiano tutte su una divisione tra classe possidente
e classe non possidente, la quale coincide con quella tra classe
dominante e classe dominata: tra cittadini e schiavi nella comunità
antica, tra signori e servi della gleba nella società feudale, tra
capitalisti e lavoratori salariati nella società
borghese-capitalistica.
Marx ha ripreso i termini della sua analisi nei Grundrisse - un
testo composto nel 1857-1858, ma pubblicato soltanto a metà di
questo secolo, nel 1939-1941. Se nella Deutsche Ideologie l'elenco
dei modi di produzione era riferito in modo esclusivo allo sviluppo
europeo, nei Grundrisse se ne aggiungeva ad essi un altro estraneo a
questo sviluppo, vale a dire il modo di produzione asiatico. Anche
qui il punto di partenza era rappresentato dalla comunità primitiva,
corrispondente all'organizzazione tribale. Da essa trae origine la
comunità di villaggio diffusa soprattutto, ma non soltanto, nel
subcontinente indiano, che detiene collettivamente il possesso della
terra ma non la sua proprietà: questa è infatti nelle mani di un
potere esterno alla comunità stessa, cioè del sovrano. Si ha così
una dissociazione tra possesso comunitario e proprietà, la quale
costituisce il fondamento del modo di produzione asiatico. Esso è
infatti caratterizzato non soltanto, e non tanto,
dall'appropriazione collettiva e dallo sfruttamento collettivo del
terreno, già presenti nella comunità primitiva, quanto dal sorgere
di un potere dispotico che si colloca al di fuori della comunità di
villaggio e al quale va - sotto forma di prelievo fiscale o di
prestazioni per lavori pubblici - il prodotto eccedente di ogni
comunità.
A questa forma di organizzazione sociale se ne affiancano altre due,
in un rapporto che per certi versi è di parallelismo, per altri
versi di sequenza: la comunità antica e la comunità germanica,
caratterizzate l'una dall'affermarsi della distinzione tra proprietà
pubblica e proprietà privata e l'altra dal prevalere della proprietà
individuale o familiare. Se la comunità germanica tenderà a
scomparire dal quadro dell'analisi marxiana, il modo di produzione
asiatico finirà per caratterizzare la prima formazione economica
della società nata dalla dissoluzione della comunità primitiva.
All'estremo opposto della serie a cui esso ha dato inizio si
colloca, dopo le tappe intermedie rappresentate dal modo comunitario
e dal modo feudale di produzione - che sembra affondare le sue
radici nella comunità germanica più che in quella antica - la
società strutturata su base capitalistica. Ma, comunque si configuri
la classe proprietaria - sotto forma di un despota esterno alle
comunità di villaggio o della classe possidente della città antica o
della nobiltà feudale, o ancora della classe capitalistica - le si
contrappone sempre una classe dominata, dal cui lavoro essa trae il
proprio sostentamento.Questa concezione dicotomica della società
distingue nettamente la marxiana scienza della società
dall'impostazione della sociologia positivistica, quale era stata
formulata negli scritti di Saint-Simon e di Auguste Comte successivi
al 1815 e poi sistematizzata dallo stesso Comte nel Cours de
philosophie positive (1830-1842).
Anche per Comte, come già per Saint-Simon, la società moderna che
sta sorgendo dal processo di industrializzazione rappresenta una
forma di organizzazione radicalmente nuova, irriducibile alle
società del passato; anche per Comte la società moderna si distingue
da queste in virtù dell'affermarsi di nuove classi sociali. Ma
questa struttura non riveste affatto un carattere dicotomico. Il
passaggio da una società all'altra si compie attraverso un processo
di sostituzione delle classi detentrici del potere, tanto temporale
quanto spirituale: dalla nobiltà feudale e dal clero che dominavano
nel vecchio sistema ai giuristi e ai metafisici che nel periodo di
transizione hanno minato le basi di quel sistema, agli industriali e
agli scienziati positivi che costituiscono la base del nuovo
sistema, cioè del sistema industriale. Ma all'interno di ognuno di
questi sistemi non vi è una divisione rigida, e tanto meno una
contrapposizione, tra le classi detentrici del potere e il resto del
corpo sociale; vi è, anzi, una solidarietà che affida alle classi
detentrici del potere la rappresentanza legittima degli interessi
dell'intero corpo sociale. Non la lotta di classe, ma il progresso
intellettuale dell'umanità - quale si manifesta nel passaggio dal
sapere teologico al sapere positivo, attraverso l'intermediazione
dello stato metafisico - costituisce il "motore" della storia.
Emerge qui la profonda distanza che separa la marxiana scienza della
società dalla sociologia positivistica. Quest'ultima si richiama
infatti al modello di una società organica fondata su rapporti di
solidarietà, sia che si tratti della società sviluppatasi nel corso
del Medioevo sulla base dell'autorità di una fede religiosa
condivisa, oppure di quella che - dopo l'azione dissolutrice della
Riforma, della cultura dei Lumi e della Rivoluzione francese - sta
nascendo in seguito all'affermarsi dell'industria, e che trova la
sua base nel sapere positivo e nel potere che dev'essere
riconosciuto agli scienziati. In questa prospettiva il conflitto è
un elemento transitorio della vita sociale, destinato a scomparire
allorché la società poggia su un'autorità legittima e sul consenso
che questa riscuote. Marx ed Engels proiettano invece la visione di
una società organica nel futuro, nella formazione che dovrà nascere
dalla dissoluzione della società borghese-capitalistica: per quanto
riguarda il passato e ancor più il presente, la storia è - secondo
la formulazione del Manifesto - lotta di classe, conflitto
permanente tra classi contrapposte. E tale è stata fin dal momento
dell'uscita dell'uomo dalla comunità primitiva, in cui il carattere
collettivo della proprietà e dell'uso dei beni non consentiva il
sorgere di divisioni al suo interno. O, più precisamente, tale è
stata non la storia, ma la "preistoria" dell'umanità; perché la
storia vera e propria avrà inizio soltanto con l'eliminazione delle
classi e quindi del loro conflitto. Mentre la teoria comtiana (ma
già quella di Saint-Simon) vedeva nella società industriale la forma
definitiva di organizzazione sociale, la marxiana scienza della
società fa del futuro, non del presente, il luogo della liberazione
dell'uomo dalle catene prodotte dalla proprietà privata. Essa
sfociava così in una filosofia della storia di chiara impronta
escatologica.
2. Il marxismo come concezione generale della storia e come
prospettiva rivoluzionaria
Fin dall'inizio, infatti, il marxismo si presenta anche come una
concezione dell'uomo e della storia dell'umanità, formulata in
riferimento a Hegel e alle posizioni della sinistra hegeliana. Per
Marx l'uomo è essenzialmente un essere sociale, un essere che ha
bisogni e che cerca di soddisfarli trasformando la natura mediante
il lavoro. Correlativamente, la società non è altro che l'insieme
dei rapporti reciproci tra gli uomini, di rapporti storicamente
determinati che sono, in primo luogo, rapporti di produzione. L'uomo
si realizza nel lavoro, ma al tempo stesso viene a perdere la
propria essenza, ad "alienarsi", in quanto è costretto a cedere ad
altri il prodotto del proprio lavoro. Questa prospettiva è stata
enunciata da Marx fin dagli Oekonomisch-philosophische Manuskripte
del 1844 (rimasti inediti fino al 1932), in cui egli ha per la prima
volta preso in esame la situazione del lavoratore salariato nella
società borghese-capitalistica. Il rapporto tra capitalista e
lavoratore è, per Marx, un rapporto di diseguaglianza, nel quale il
lavoratore non può determinare il prezzo del proprio lavoro ma è
costretto a sottostare alle condizioni che gli vengono imposte dal
capitalista. In tale situazione anche il lavoro, che pure appartiene
all'essenza dell'uomo, viene ridotto a merce, non differente dalle
altre merci; e dalla mercificazione del lavoro deriva
l'estraniazione del lavoratore dal processo produttivo, vale a dire
la sua alienazione. Questa assume una triplice forma: nei confronti
del prodotto del proprio lavoro, che non appartiene più a lui bensì
al capitalista; nei confronti del lavoro, che risulta estraneo al
lavoratore; e, infine, nei confronti dell'essenza stessa dell'uomo,
che diventa estranea all'uomo in quanto semplice mezzo della sua
esistenza. Marx riprendeva così la nozione hegeliana di alienazione
per caratterizzare la situazione del lavoratore nella società
borghese-capitalistica, definita dalla separazione tra la proprietà
dei mezzi di produzione e la disponibilità della forza-lavoro. Ma
l'alienazione, a rigore, non si ha soltanto nella società
borghese-capitalistica; essa accompagna lo sviluppo dell'umanità fin
dalla nascita della proprietà privata e quindi della divisione in
classi, pur assumendo forme diverse nelle diverse forme di
organizzazione sociale. L'uomo può liberarsi dall'alienazione
soltanto dando vita a una società senza classi, compiendo cioè il
passaggio al "comunismo".
Questo passaggio è reso non soltanto possibile, ma necessario, dalla
dialettica della storia. Il trapasso da un modo all'altro di
produzione, e quindi da una forma all'altra di organizzazione
sociale, avviene in virtù del meccanismo tipicamente hegeliano
dell'insorgenza di una contraddizione all'interno di una data
società e della sua risoluzione in una struttura ad essa superiore.
Ma la dialettica marxiana si presenta come il "rovesciamento" di
quella hegeliana; si presenta non come dialettica dell'idea, ma come
dialettica reale. In polemica con Hegel, ma anche con Feuerbach,
Marx ed Engels fanno valere - a partire dalla Deutsche Ideologie -
il principio secondo cui non è lo sviluppo dell'idea a determinare
la vita degli uomini, ma sono i rapporti tra gli uomini a
determinare le forme della coscienza, le quali non posseggono di per
sé alcuna autonomia e quindi neppure, a rigore, una storia. La
dialettica marxiana ha infatti il proprio fondamento nella relazione
tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione,
cioè tra lo sviluppo della divisione del lavoro e
dell'organizzazione produttiva e i rapporti sociali che
caratterizzano una data formazione della società. Il che vuol dire
che essa ha un fondamento economico, e che su questa base poggiano
gli altri aspetti della vita dell'uomo. Lo stato di sviluppo delle
forze produttive dà luogo a un determinato tipo di rapporti sociali;
ma, mentre questi tendono a stabilizzarsi permanendo più o meno
immutati nel tempo, quello sviluppo procede ininterrotto, mettendo
in crisi i rapporti a cui ha dato origine.
Questa concezione si trova espressa in forma sintetica nella
prefazione a Zur Kritik der politischen Oekonomie, che risale al
1859. "Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini
entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro
volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un
determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali.
L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura
economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva
una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono
forme determinate della coscienza sociale. Il mondo di produzione
della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale,
politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini
che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere che
determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo le
forze produttive materiali della società entrano in contraddizione
con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di
proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i
quali tali forze per l'innanzi si erano mosse. Questi rapporti si
convertono, da forme di sviluppo delle forze produttive, in loro
catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. E con il
mutamento della base sociale si sconvolge, più o meno rapidamente,
tutta la gigantesca sovrastruttura".Marx collegava in tal modo la
concezione del processo storico come movimento dialettico e la
teoria del materialismo storico. La contraddizione tra lo sviluppo
delle forze produttive, che tende a procedere al di là dell'assetto
esistente, e i rapporti sociali che corrispondono a un momento
precedente di tale sviluppo, rappresenta il meccanismo che conduce
da una formazione economica a un'altra, in cui la contraddizione
risulta "risolta". In questa maniera la società
borghese-capitalistica è sorta dalla società feudale; e analogamente
da tale società nascerà un'altra forma di organizzazione, il
comunismo.
Anche per il marxismo, dunque, la storia dell'umanità ha un
andamento progressivo; ma la base di questo progresso non è il
movimento dell'idea, bensì lo sviluppo delle forze produttive - la
divisione del lavoro e l'organizzazione della produzione. Se il
"motore" della storia è, come si è visto, la lotta di classe, in
quanto la contraddizione interna a ogni formazione si esprime
appunto attraverso il conflitto tra classe dominante e classe
dominata, il fondamento di esistenza delle classi è la struttura
economica. In ciò consiste il materialismo storico, elemento
fondamentale della concezione marxistica, dove per "materia"
s'intende appunto la "struttura" economica della società in antitesi
a ciò che è invece "sovrastruttura", vale a dire la sfera dei
rapporti politici e quella dei fenomeni ideologico-culturali.La
storia non è infatti altro che una sequenza di formazioni economiche
della società, ognuna delle quali corriponde a un determinato grado
di sviluppo delle forze produttive. E soltanto la struttura
economica possiede propriamente una storia. Lo Stato e il diritto,
infatti, non sono altro che un apparato istituzionale creato dalla
classe dominante a difesa dei propri interessi; analogamente, le
idee di una data società sono le idee elaborate dalla classe
dominante, che ne riflettono la concezione del mondo. Anche tra
struttura e sovrastruttura, però, si ha una relazione dialettica,
vale a dire un'azione reciproca. Se nel testo della Deutsche
Ideologie il rapporto tra i due termini si configura piuttosto come
un rapporto unilaterale, di determinazione della sovrastruttura da
parte della struttura, in seguito alla struttura sarà attribuito da
Engels il carattere di fondamento "in ultima istanza", e alla
sovrastruttura sarà riconosciuta la possibilità di reagire sulla
base economica della società, e in qualche misura di modificarla.
Anche allora, però, il movimento della sfera politica come di quella
ideologico-culturale sarà ricondotto al movimento della struttura,
senza acquisire una propria autonomia sostanziale. Lo Stato e il
diritto, al pari della cultura, sono pur sempre espressione di una
particolare classe in conflitto con la classe ad essa antagonistica.
E l'autonomia della sovrastruttura consisterà soprattutto nella
capacità riconosciuta anche alla classe dominata di dare vita a una
propria organizzazione politica e a una propria ideologia, in
antitesi a quelle della classe dominante.
La storia non è però soltanto uno sviluppo avente carattere
progressivo; è anche sviluppo che tende a un fine. E questo fine,
che segna il passaggio dall'alienazione all'umanità liberata, è
appunto il comunismo. Sul processo di transizione al comunismo, come
sui caratteri che in esso contraddistingueranno i rapporti sociali,
Marx e anche i successivi teorici del marxismo sono stati piuttosto
generici. Negli scritti giovanili il comunismo è definito di solito
in termini negativi, come "la soppressione dell'auto-alienazione" o
"l'espressione positiva della proprietà privata soppressa" (com'è
detto nel testo degli Oekonomisch-philosophische Manuskripte); ma
anche in seguito, nel Capitale, esso sarà sempre caratterizzato in
maniera piuttosto generica. Una cosa, tuttavia, è certa. Come per
Hegel lo Stato moderno, quale si è configurato nel mondo
cristiano-germanico, segna il culmine dello spirito oggettivo, così
per Marx il comunismo rappresenta l'ultima possibile formazione
della società, una formazione priva di quel carattere conflittuale
che costituiva un elemento comune a quelle che l'hanno preceduta. Il
comunismo non segna soltanto, infatti, l'eliminazione delle classi e
quindi la scomparsa della lotta di classe; esso segna anche la
liberazione dell'uomo dall'alienazione e il recupero della sua
essenza, vale a dire - come si espresse Engels - il trapasso dal
regno della necessità al regno della libertà.
Per realizzare il comunismo è però necessario il ricorso all'azione
rivoluzionaria. In conformità al principio - enunciato nelle Thesen
über Feuerbach - secondo cui "i filosofi hanno soltanto interpretato
diversamente il mondo" e "si tratta ora di trasformarlo", Marx
ritiene che la futura società senza classi possa essere instaurata
soltanto attraverso la rivoluzione del proletariato. La necessità
che presiede allo sviluppo storico, e che rende inevitabile la fine
della società borghese-capitalistica, non può prescindere
dall'intervento attivo degli uomini, di quegli "individui reali" la
cui esistenza costituisce il primo presupposto della storia. Il
passaggio da un modo di produzione all'altro non avviene in virtù di
un processo evolutivo, ma attraverso la contraddizione che lo
sviluppo delle forze produttive introduce nell'assetto sociale e la
rottura di quest'ultimo. E la storia del modo di produzione
capitalistico è costellata, del resto, da una serie di rivoluzioni
non soltanto politiche ma anche sociali, culminanti nel 1848 e più
tardi nella Comune parigina. Esse preannunciano, in qualche maniera,
la rivoluzione del proletariato, che provocherà la fine della
società borghese-capitalistica; e tuttavia questa dovrà avere
caratteristiche peculiari. Essa sarà infatti, a differenza delle
precedenti, una rivoluzione generale condotta dal proletariato nei
confronti della classe che detiene la proprietà dei mezzi di
produzione, una rivoluzione destinata a diffondersi in tutto il
mondo. E ciò in quanto nel corso degli ultimi secoli si è venuto
formando, a causa dello sviluppo della società
borghese-capitalistica, un mercato mondiale, che ha trasformato la
storia in "storia universale".
L'unificazione del globo in un mercato privo di confini, determinata
dalla capacità espansiva del modo di produzione capitalistico, ha
come conseguenza che la rivoluzione del proletariato, pur avendo
inizio nei paesi in cui esso ha raggiunto il maggior grado di
sviluppo, sarà anch'essa una rivoluzione universale.
3. L'analisi dello sviluppo capitalistico
Il marxismo è dunque sì una scienza della società, ma è anche - e in
maniera indissolubile - una filosofia della storia che si propone di
determinare lo sviluppo dell'umanità tanto nel passato quanto nel
futuro, e una teoria della rivoluzione del proletariato come
condizione necessaria del trapasso dal capitalismo al comunismo. Il
cuore di questa complessa costruzione, quale è stata delineata da
Marx dapprima nei Grundrisse e poi soprattutto nel Capitale, è
costituito dall'analisi della società borghese-capitalistica, della
sua origine, del suo sviluppo e delle tendenze che dovranno condurre
alla sua scomparsa. Si tratta di un'analisi che ha per oggetto la
struttura di tale società, vale a dire il funzionamento del sistema
ecomico capitalistico, e che lascia in secondo piano - in quanto,
tutto sommato, secondaria - la sua sovrastruttura, cioè i fenomeni
appartenenti alla sfera politica e a quella ideologico-culturale.
Essa riveste un carattere che si può dire storico-sociologico. Non
si tratta infatti di un'analisi puramente storica, in quanto il suo
scopo non è quello di delineare lo sviluppo del sistema
capitalistico quale si è venuto configurando nelle varie epoche nei
diversi paesi in cui si è diffuso; ciò che si propone è piuttosto
l'individuazione delle sue fasi e la determinazione delle leggi del
suo sviluppo. E neppure è un'analisi puramente sociologica, poiché
queste leggi sono viste all'opera in contesti specifici, assumendo
anzi come modello e come campo privilegiato d'indagine lo sviluppo
del paese all'avanguardia nella trasformazione in senso
capitalistico e poi nell'industrializzazione, vale a dire
l'Inghilterra. Marx procede 'concettualizzando' i processi che
prende in esame, riportando la loro dinamica a categorie desunte
dall'economia politica al fine di darne una spiegazione teorica.
In questo procedimento il problema che inizialmente si pone è quello
della formazione stessa del capitale, e quindi dell'origine della
distinzione tra capitale e lavoro. Il problema è formulato
teoricamente distinguendo l'accumulazione originaria, che consente
la nascita del capitale, dall'accumulazione progressiva, che è
all'opera nel successivo sviluppo capitalistico. Ciò conduce Marx a
cercare i presupposti storici del capitale nel passaggio dalla
società feudale alla società borghese-capitalistica. Il modo di
produzione feudale poggiava sul lavoro della terra da parte dei
servi della gleba, e la proprietà s'identificava perciò con il
possesso del terreno. Con la fuga dei servi della gleba dalla
campagna, con il loro insediamento in città e con l'affrancamento
che essi vi ottengono, il modo di produzione feudale entra in crisi;
i settori produttivi che si sviluppano in città assorbono la
popolazione rurale che vi si insedia, e giungono a produrre in
misura eccedente rispetto ai bisogni del suo sostentamento. Si ha
così non soltanto un trasferimento crescente di manodopera dalla
campagna alla città, e quindi dall'agricoltura all'attività
artigianale, ma anche un ricavo crescente da parte di quest'ultima,
che si traduce in capitale accumulato. Al rapporto dominio-servitù,
caratteristico del modo di produzione feudale, subentra un diverso
rapporto tra imprenditore e lavoratore, fondato sullo scambio, cioè
un rapporto contrattuale: il lavoratore vende all'imprenditore il
proprio lavoro in cambio del salario, mentre l'imprenditore investe
il capitale che è venuto accumulando e se ne serve da un lato per
procurarsi gli impianti produttivi (capitale costante), dall'altro
per remunerare i lavoratori dipendenti (capitale variabile). La
proprietà privata capitalistica presuppone la progressiva
distruzione della proprietà feudale.Marx ha collocato lo spartiacque
tra il vecchio e il nuovo modo di produzione, tra società feudale e
società borghese-capitalistica, all'inizio dell'età moderna, tra
Quattro e Cinquecento.
Ma questa determinazione cronologica è, in fondo, secondaria: ciò
che conta è il fatto che l'accumulazione originaria presuppone
l'esistenza della città come centro produttivo e lo sviluppo di
un'economia cittadina svincolata dal modo di produzione feudale.
Come la città e l'economia cittadina abbiano potuto sorgere in
concomitanza, e in certo senso in concorrenza, con la società
feudale - anche se, per la verità, nella Deutsche Ideologie esse
erano viste piuttosto come un suo correlato, e i rapporti di lavoro
nella bottega artigiana erano in qualche modo assimilati a quelli
della servitù della gleba - è un problema che Marx ha lasciato in
ombra. Ciò che gli preme è stabilire le modalità dell'accumulazione
originaria, per muovere di qui alla delineazione delle fasi
successive di sviluppo del modo di produzione capitalistico.Queste
fasi sono tre: la cooperazione, la manifattura e, infine, la grande
industria. La fase della cooperazione segna la nascita del sistema
economico capitalistico, ed è rintracciabile anche in contesti
storici diversi da quello europeo - in contesti, cioè, che
richiedono l'impiego su scala più o meno ampia di manodopera per
effettuare opere pubbliche. Nello sviluppo storico europeo essa
assume però una fisionomia specifica, in quanto la manodopera è
fornita non più dalla tribù o dalla comunità di appartenenza del
lavoratore, ma da lavoratori liberi i quali instaurano un rapporto
contrattuale con l'imprenditore capitalistico.
Ed essa giunge fin verso la metà del Cinquecento, mentre la fase
successiva, quella della manifattura, si estende fino all'inizio del
processo di industrializzazione, che ha luogo verso gli anni
settanta del Settecento. Più che lo spartiacque storico, però,
interessa a Marx la distinzione concettuale tra queste tre fasi. La
cooperazione comporta infatti l'attività in comune di più lavoratori
nello stesso luogo e per la produzione dello stesso genere di merci;
è cioè un lavoro in comune nell'ambito del medesimo mestiere. La
manifattura sorge invece attraverso la concentrazione in una
medesima officina di mestieri diversi in vista della fabbricazione
dello stesso prodotto, oppure attraverso la cooperazione di addetti
che, pur nell'ambito del medesimo mestiere, si suddividono le
operazioni necessarie in vista di tale scopo. Il passaggio dall'una
all'altra fase comporta però sempre la scomposizione di un'attività
artigianale unitaria in operazioni parziali, svolte non più dallo
stesso lavoratore ma da lavoratori diversi. Se la base tecnica
dell'attività produttiva rimane quella artigianale, la sua
configurazione viene però a mutare. La manifattura introduce infatti
all'interno una gerarchia di funzioni e una corrispondente scala di
salari, sotto la direzione dell'imprenditore capitalistico, e
all'esterno una situazione di concorrenza tra i diversi produttori.
Ne deriva la tendenza all'aumento delle dimensioni dell'impresa per
quanto riguarda sia il numero dei lavoratori occupati sia il volume
del capitale investito e quello della merce prodotta - una tendenza
che mette capo alla terza e ultima fase del modo di produzione
capitalistico, quella dell'industria.
L'industria non rappresenta quindi, per il marxismo, il punto di
partenza di una nuova forma di organizzazione sociale, come riteneva
invece la sociologia positivistica: essa rientra nel modo di
produzione capitalistico, distinguendosi dalle due fasi precedenti
in quanto il processo produttivo ha la sua base non più nella
forza-lavoro e nella sua organizzazione, ma nel mezzo di lavoro,
cioè nell'impiego su larga scala delle macchine. Essa rientra nel
modo di produzione capitalistico perché il suo fondamento rimane pur
sempre lo stesso, cioè la separazione tra capitale e lavoro, tra una
classe proprietaria dei mezzi di produzione e una classe che
fornisce la forza-lavoro: la sua specificità poggia sul progressivo
trasferimento delle operazioni lavorative dall'uomo alla macchina.
Non già che le macchine fossero assenti nelle fasi precedenti; ma in
quest'ultima fase si ha dapprima la cooperazione di diverse macchine
omogenee all'interno dell'impresa, poi il sorgere di un sistema di
macchine eterogenee che vengono a formare una catena. Il
trasferimento di operazioni dal lavoratore alla macchina non
significa però - ed è questa una tesi centrale del marxismo - una
liberazione dal lavoro, e neppure un miglioramento delle condizioni
di vita della classe lavoratrice. Nell'analisi di queste condizioni
Marx poteva richiamarsi infatti alle conclusioni cui erano
pervenuti, negli anni trenta, Charles Babbage e Andrew Ure, e
soprattutto al libro di Engels Die Lage der arbeitenden Klasse in
England (1845), che aveva posto in luce le conseguenze socialmente
negative del lavoro industriale e il processo di pauperizzazione che
ne era derivato. Lungi dall'inaugurare un'epoca di libertà,
l'industria comporta un grado crescente di alienazione del
lavoratore.
Come ciò sia possibile, e anzi necessario, viene spiegato sulla base
del rapporto di dipendenza che s'instaura tra il lavoratore e la
macchina. Il passaggio dalla manifattura all'industria richiede
l'aumento dei lavoratori salariati, e quindi il ricorso su larga
scala anche al lavoro femminile e infantile, nonché il prolungamento
della giornata lavorativa. All'aumento della manodopera impiegata
subentra, in seguito, l'intensificazione del lavoro, cioè la sua
condensazione: cresce la velocità delle macchine, e cresce pure il
numero delle macchine che il singolo addetto deve sorvegliare. Lo
sfruttamento estensivo della forza-lavoro cede il passo a uno
sfruttamento intensivo. Ne deriva una diversa organizzazione del
lavoro: come aveva già osservato Ure, la gerarchia di lavoratori
specializzati, che caratterizzava la manifattura, tende a essere
sostituita dal livellamento delle funzioni, in quanto gli addetti
alle macchine risultano fungibili tra loro. Lungi dal liberare il
lavoratore, la macchina lo ha asservito a sé. Tra il lavoratore e la
macchina s'instaura perciò una competizione crescente: la macchina
compie le operazioni che erano prima effettuate dai lavoratori, e
questi vengono espulsi, in numero sempre maggiore, dal processo
produttivo. Mentre all'inizio l'industrializzazione comporta
l'aumento della manodopera, in seguito l'impiego delle macchine
comporta il diffondersi della disoccupazione, cioè la creazione di
quello che Marx ha chiamato "l'esercito industriale di riserva".
Il rapporto tra il capitalista e il lavoratore risulta nettamente
squilibrato in favore del primo; anzi, lo scambio che in esso si ha
tra forza-lavoro e salario risulta una "pura forma che è estranea al
contenuto e lo mistifica soltanto". Ma lo sviluppo dell'industria ha
effetti di ampia portata anche sul capitale, sia sotto l'aspetto
quantitativo sia soprattutto sotto quello qualitativo. Non soltanto
il progredire dell'accumulazione fa sì che il capitale investito
assuma dimensioni sempre maggiori, ma cambia anche la composizione
del capitale stesso: dal momento che il processo produttivo richiede
l'impiego crescente di macchine, la parte investita in mezzi di
lavoro, cioè il capitale costante, cresce a scapito della parte
impiegata in salari, cioè del capitale variabile. Il monte salari
diventa così una parte sempre minore del capitale complessivo.
Diminuisce la domanda di lavoro, non già nel senso che la manodopera
impiegata decresca in senso assoluto, ma nel senso che essa aumenta
in proporzione decrescente rispetto al periodo iniziale del processo
di industrializzazione. E tende a diminuire anche il livello della
remunerazione, poiché il lavoro specializzato prima svolto
dall'artigiano viene ora compiuto dalle macchine, e le operazioni
lavorative risultano sempre più uniformate, con la conseguenza che
vengono meno le differenze di funzione (e di retribuzione) tra i
lavoratori.Attraverso questa analisi Marx è pervenuto, nel primo
libro del Capitale, a enunciare la legge generale dell'accumulazione
capitalistica, vale a dire la legge dello sviluppo crescente
dell'esercito industriale di riserva.
Parallelamente all'aumento del capitale e al mutamento della sua
composizione cresce anche la popolazione operaia in cerca di
occupazione, e si ha quindi quella che egli chiama un'"accumulazione
di miseria". Il pauperismo non è un elemento transitorio dello
sviluppo capitalistico nella fase industriale, ma è il suo destino
inevitabile. Alla concentrazione del capitale in una classe sempre
più ristretta fa riscontro la proletarizzazione del resto della
popolazione: come la classe capitalistica assorbe in sé la classe
che viveva di rendita, trasformando la proprietà fondiaria in
capitale da investire, così i ceti intermedi vengono
progressivamente cancellati e ricondotti anch'essi nell'ambito del
lavoro salariato. Ne risulta una polarizzazione della società che
rende sempre più aspro il conflitto di classe, ponendo le condizioni
per la rivoluzione del proletariato.
Nel terzo libro del Capitale questa analisi viene integrata con la
formulazione di un'altra legge, quella della caduta tendenziale del
saggio di profitto. Con l'aumento del capitale costante e la
diminuzione di quello variabile si realizza, nel processo di
industrializzazione, un incremento progressivo della produttività:
ogni prodotto contiene una quantità di lavoro via via minore, e
quindi ne risulta diminuito il margine di profitto che
all'imprenditore capitalistico deriva dal plusvalore in esso
incorporato. L'aumento della produttività che si attua nello
sviluppo capitalistico si rivela infatti ambivalente: da una parte
esso accresce il plusvalore, in quanto a una medesima quantità di
lavoro corrisponde una maggior quantità di merci prodotte, ma
dall'altra, in quanto richiede un investimento crescente in
macchinario, riduce la proporzione del capitale variabile rispetto a
quello costante, e quindi proprio quella parte di capitale che
genera plusvalore. Se la massa del capitale aumenta, e con essa
anche la quantità assoluta del profitto che il capitalista ne
ricava, diminuisce invece, con il mutamento della composizione del
capitale stesso, il rapporto tra il profitto e il capitale
complessivo investito, ossia il saggio del profitto. È pur vero che
a questa tendenza generale si contrappongono delle "controtendenze":
aumenta il grado di sfruttamento del lavoro, si riduce il salario
individuale e con esso il monte salari, diminuisce altresì il prezzo
degli elementi che compongono il capitale costante, vale a dire il
prezzo delle macchine, diminuisce il numero dei lavoratori
impiegati; e inoltre il commercio estero allarga le possibilità di
sbocco delle industrie, mentre la massa del capitale investito tende
pur sempre ad aumentare. Ma queste "controtendenze" non sono tali da
poter eliminare la tendenza di lungo periodo alla diminuzione del
profitto che l'imprenditore può ricavare dal capitale investito. E
con il declino del profitto viene meno la stessa ragion d'essere del
sistema economico capitalistico.
C'è dunque una "necessità logica" interna allo sviluppo del modo di
produzione capitalistico che deve condurre - come Marx sostiene
nella prefazione alla seconda edizione del Capitale - a una crisi
generale. Da una parte le condizioni di vita del proletariato si
sono fatte insostenibili a causa della subordinazione del lavoratore
alla macchina e del venir meno della sua capacità contrattuale nei
confronti dell'imprenditore capitalistico; dall'altra il processo di
concentrazione del capitale nelle mani di un numero sempre più
ristretto di persone comporta l'espropriazione di molti capitalisti.
Alla proprietà diffusa del capitale si sostituisce la sua
monopolizzazione; e così "suona l'ultima ora della proprietà
capitalistica", la quale va ora incontro allo stesso processo di
espropriazione che aveva colpito la classe lavoratrice. A ciò si
aggiungono le crisi ricorrenti dovute allo squilibrio tra la
produzione e il consumo, cioè quelle crisi di sovrapproduzione che,
mentre accrescono la pressione sulla classe lavoratrice, impediscono
il realizzo delle merci prodotte al loro valore, e quindi incidono
sulla stessa formazione del plusvalore. Dall'analisi dello sviluppo
del modo di produzione capitalistico Marx approda dunque
all'affermazione dell'inevitabilità della fine della società
borghese-capitalistica. La previsione - o, se si preferisce, la
profezia - di questa fine fa parte integrante del corpus teorico del
marxismo, e pone in luce il nesso che lega l'impianto della scienza
della società con la prospettiva escatologica della filosofia della
storia di Marx.
4. La critica dell'economia politica e la teoria del valore-lavoro
Come si è visto, nessun rapporto intercorre tra la marxiana scienza
della società e la sociologia positivistica, portatrice di
un'interpretazione della società moderna non soltanto differente ma
sostanzialmente alternativa. E neppure essa si richiama alla
tradizione della scienza politica settecentesca, inaugurata
dall'Esprit des lois di Montesquieu, e al suo duplice sforzo di
determinare da un lato la natura e il principio delle diverse forme
di governo, dall'altro i diversi poteri che, nella loro distinzione,
garantiscono la possibilità di un ordinamento fondato sulla libertà.
Lo precludeva la stessa considerazione della politica come sfera
appartenente alla sovrastruttura, e la conseguente interpretazione
dello Stato come espressione degli interessi della classe dominante.
Anzi, Marx ed Engels ritenevano che lo Stato fosse destinato a
scomparire nella futura società senza classi, e che le funzioni
politiche dovessero ridursi - come aveva suggerito Saint-Simon - a
compiti di pura e semplice amministrazione.
Centrale è invece, per la formazione della teoria marxistica, il
rapporto con l'economia politica, con Adam Smith ma soprattutto con
Ricardo. Marx aveva letto la Wealth of nations e i Principles of
political economy fin dal 1843-1844, accompagnando tale lettura con
quella degli economisti posteriori, sia inglesi che francesi, da
James Mill e John Ramsay McCulloch a Jean Baptiste Say; dopo il
fallimento della rivoluzione del 1848 riprenderà sistematicamente lo
studio dell'economia. E proprio la distinzione smithiana tra
salario, profitto e rendita è il punto di partenza della teoria
dell'alienazione esposta negli Oekonomisch-philosophische
Manuskripte del 1844, così come la teoria del valore di Ricardo
costituirà, nel Capitale, il termine di riferimento per la
definizione del valore in termini di lavoro incorporato e per la
formulazione della teoria del plusvalore. L'economia politica si
presenta - agli occhi di Marx e del marxismo posteriore - come un
corpo di dottrine che ha saputo cogliere i meccanismi di
funzionamento della società borghese-capitalistica, enunciandoli in
forma di leggi scientifiche, ma che ha anche preteso di trasformare
queste ultime in leggi 'eterne', valide per qualsiasi modo di
produzione. In quanto autointerpretazione della società
borghese-capitalistica, l'economia politica ne costituisce non
soltanto la scienza ma, al tempo stesso, l'ideologia.
Ciò spiega perché il marxismo si presenti non tanto come la
prosecuzione, quanto come la critica dell'economia politica (non a
caso questa espressione ricorre spesso, a partire dai Grundrisse,
nel titolo delle opere di Marx). L'errore dell'economia politica
consiste nell'aver assunto i rapporti di produzione che sono propri
della società borghese-capitalistica come "leggi di natura
immutabili della società in astratto", perdendo di vista il loro
carattere storico. È pur vero che la produzione presenta
caratteristiche generali che permangono nel tempo, e che sono quindi
comuni a ogni società; ma essa si configura diversamente da un modo
di produzione all'altro, in relazione alla forma della proprietà e
ai rapporti sociali che ne derivano. L'economia politica ha
arbitrariamente trasformato le categorie formulate per interpretare
la società borghese-capitalistica, le quali sono "il prodotto di
condizioni storiche e hanno piena validità soltanto per e
all'interno di tali condizioni", in determinazioni dei processi
economici in generale. Essa ha perciò assolutizzato sia il modo di
produzione capitalistico sia le sue leggi specifiche.In realtà, il
rapporto di Marx con l'economia politica è più complesso; e ciò per
il fatto che il modo di produzione capitalistico non soltanto si
distingue strutturalmente da quelli che lo hanno preceduto, ma
costituisce anche il risultato ultimo (almeno fino a oggi) del loro
sviluppo e il loro "superamento".
Come Marx scrive nei Grundrisse, la società borghese-capitalistica è
"l'organizzazione storica più sviluppata e differenziata della
produzione", e in quanto tale contiene in sé, "spesso solo del tutto
atrofizzati, o addirittura travestiti", determinati rapporti che
erano costitutivi delle forme precedenti di società. Come per la
filosofia hegeliana della storia, così anche per il marxismo il
passato si conserva nel presente, anche se "risolto" (aufgehoben) in
una forma superiore. Stando così le cose, le categorie formulate
dall'economia politica, pur riflettendo la struttura della società
borghese-capitalistica, "permettono in pari tempo di comprendere
l'articolazione e i rapporti di produzione di tutte le forme di
società scomparse, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è
costruita". La loro applicabilità agli altri modi di produzione, che
sembrava esclusa dal carattere storico che esse rivestono, viene
così recuperata in virtù della dialettica della storia. La società
borghese-capitalistica, in quanto risultato ultimo (fino a oggi)
dello sviluppo storico, è al tempo stesso il modello interpretativo
delle società che l'hanno preceduta, poiché consente di considerarle
"come gradini che portano ad essa". L'impianto categoriale
dell'economia politica, sebbene storicizzato, non perde la propria
validità generale.
In questo quadro epistemologico si colloca la teoria marxiana del
valore, oggetto di tante controversie - come vedremo - nella storia
successiva del marxismo. Essa ha la propria origine nello sforzo
compiuto dall'economia politica classica per determinare un criterio
di misura dei prezzi. Più precisamente, essa si richiama alla
distinzione che Smith aveva tracciato tra il valore d'uso e il
valore di scambio delle merci e al collegamento da lui istituito tra
quest'ultimo e il lavoro. A differenza del valore d'uso, che dipende
dai bisogni individuali del singolo soggetto, il valore di scambio
di una merce trova una base oggettiva nel lavoro necessario a
produrla; ed è questa quantità che ne determina il prezzo. Ricardo
aveva ripreso l'analisi di Smith riconducendo il valore di scambio a
due fonti principali, la scarsità - che agisce però soltanto nel
caso di merci particolarmente rare come, per esempio, i metalli
preziosi - e il lavoro; e da ciò aveva concluso affermando che è la
quantità di lavoro incorporata in una data merce a regolarne il
prezzo. Il valore di scambio non è quindi altro, in sostanza, che
lavoro incorporato. In realtà, l'analisi di Ricardo risultava più
complessa, in quanto egli prendeva in considerazione anche altri
elementi, come la qualità del lavoro, la diversa misura del
compenso, l'incidenza degli strumenti e delle costruzioni nonché
quella del capitale investito.
Marx si è richiamato alla teoria del valore di Ricardo lasciando
cadere questi elementi e facendo della quantità di lavoro
socialmente necessario il fondamento del valore di scambio. Una
merce può essere scambiata con altre merci, e quindi ha un prezzo,
in quanto in essa si cristallizza una determinata quantità di
lavoro, misurata sulla base del tempo impiegato a produrla. Se per
quanto riguarda il valore d'uso le merci sono qualitativamente
diverse l'una dall'altra, dal punto di vista del valore di scambio
possono sussistere soltanto differenze quantitative, vale a dire
differenze nella durata temporale del processo lavorativo. La
grandezza del valore di una merce è quindi data dalla quantità di
lavoro socialmente necessario per produrla; cosicché la possibilità
di scambio di merci diverse viene a fondarsi sulla quantità relativa
di lavoro che esse hanno richiesto. Non già che il lavoro
costituisca l'unico fattore della produzione; ché, al contrario, in
essa intervengono anche altri fattori, e in primo luogo il capitale
investito, che esige di esser remunerato. E proprio dal rapporto tra
capitale e lavoro, tra remunerazione dell'uno e dell'altro sotto
forma rispettivamente di profitto e di salario, nasce il plusvalore.
Con questo termine Marx indica la quantità di lavoro che si traduce
non già in salario, bensì in profitto. Affinché il capitale possa
venir remunerato, infatti, il lavoratore riceve non già un salario
equivalente al valore delle merci che ha prodotto ma un salario
inferiore; più precisamente, dal momento che il capitale tende a
ottenere la massima remunerazione possibile, egli riceve un salario
commisurato al valore delle merci corrispondenti agli oggetti d'uso
necessari per il sostentamento proprio e della sua famiglia. La
differenza va all'imprenditore capitalistico, e costituisce il
"lavoro eccedente" o il "valore eccedente", il plusvalore.
Di questa teoria - che costituisce il nucleo del primo libro del
Capitale (di cui occupa le sezioni centrali) - Marx si è avvalso per
spiegare il processo dell'accumulazione capitalistica, ma anche per
illustrare la struttura dicotomica del processo produttivo proprio
del modo di produzione capitalistico. Intorno ad essa ruotano gli
altri aspetti della complessa costruzione dell'opera, dall'analisi
del rapporto tra merce e denaro da cui essa prende le mosse a quella
del processo di circolazione del capitale, e infine a quella del
processo complessivo della produzione capitalistica: tutti temi in
parte anticipati nei Grundrisse, e poi sviluppati in forma
sistematica nel secondo e nel terzo libro del Capitale, pubblicati
postumi a cura di Engels. Si può anzi asserire, con buon fondamento,
che proprio l'accettazione della teoria del valore-lavoro e del
plusvalore costituisca lo spartiacque tra l'economia marxistica e la
scienza economica post-classica nei suoi diversi indirizzi. Essa
offriva infatti una base teorica alla visione di una classe
lavoratrice sfruttata, e sembrava saldarsi con la tesi
dell'alienazione come elemento strutturale dell'esistenza dell'uomo
nella società borghese-capitalistica.
5. Il rapporto con l'antropologia evoluzionistica e l'origine della
società e dello Stato
Al rapporto con l'economia politica si aggiunge, più tardi, il
rapporto con la nascente antropologia evoluzionistica. L'interesse
per l'origine della società umana, e per il rapporto tra natura e
società, era certamente presente già nel giovane Marx, che aveva
infatti definito l'essenza dell'uomo mediante la sua capacità di
trasformare la natura con il lavoro, traendone i mezzi per il
proprio sostentamento. E di lunga data era anche l'interesse per la
struttura della comunità primitiva, concepita - in contrapposizione
ai modi di produzione sorti dalla sua dissoluzione - come una forma
di organizzazione sociale in cui era assente, insieme alla proprietà
privata, anche qualsiasi divisione in classi. Questo interesse aveva
condotto alla 'scoperta' del modo di produzione asiatico,
considerato come l'esito se non esclusivo, certo privilegiato del
distacco da tale comunità: una scoperta le cui premesse si trovano
già negli articoli di Marx sull'India degli anni cinquanta, e che
confluisce nella trattazione delle forme di produzione
precapitalistiche. Ne risultava un quadro dello sviluppo storico
incentrato, come si è visto, sulla successione di modi di produzione
correlati al progresso della divisione del lavoro, dove il 'fuoco'
dell'analisi si portava sempre più sul modo più progredito, quello
capitalistico. Non a caso nel Capitale Marx contrapponeva allo
sviluppo della società borghese-capitalistica l'immobilità delle
società asiatiche, nelle quali la costante dissoluzione e il
riformarsi degli Stati è un fenomeno superficiale che non incide né
sulla comunità di villaggio e sulla sua autosufficienza, né sulla
struttura complessiva della società.
Ma il problema della struttura comunitaria della forma primitiva di
organizzazione era destinato a ritornare in primo piano nel corso
degli anni settanta, allorché Marx si trovò a dover affrontare il
problema della possibilità di un processo di trasformazione
rivoluzionaria che muovesse non da una situazione di capitalismo
avanzato, come in Gran Bretagna o nell'Europa centro-occidentale, ma
dalla dissoluzione della comunità agricola, come in Russia. Rispetto
a questa possibilità egli si mostrò per la verità sempre scettico, e
riaffermò più volte che una rivoluzione socialista presuppone un
certo grado di sviluppo delle forze produttive, e quindi l'esistenza
sia del proletariato sia di una borghesia capitalistica; anche se
poi - soprattutto nella lettera a Vera Zasulič del marzo 1881, il
cui testo risulta singolarmente attenuato rispetto agli abbozzi, che
ne testimoniano la genesi laboriosa - egli parve ridurre la rigidità
della sua posizione negativa ammettendo come condizione di una
rivoluzione proletaria in Russia la contemporaneità dello sviluppo
capitalistico in Occidente. In linea di principio, tuttavia,
risultava chiara, ai suoi occhi, l'eterogeneità - e anche la
discontinuità - tra la comunità primitiva e la futura società senza
classi, e di conseguenza, nel caso specifico, tra la comunità rurale
russa e il comunismo, che poteva realizzarsi soltanto in virtù del
superamento del modo di produzione capitalistico. La comunità di
villaggio russa veniva ricondotta al tipo della comunità rurale,
cioè a quello che Marx riteneva essere il tipo più recente della
formazione arcaica della società, e accostata tanto alla comunità
indiana quanto alla comunità germanica studiata da Georg Ludwig
Maurer.
Se la storia umana doveva condurre dalla proprietà comunitaria al
comunismo, attraverso il susseguirsi di molteplici forme di
proprietà privata e di organizzazione sociale, tuttavia il passaggio
diretto dall'una all'altra si rivelava impossibile: l'esito della
comunità rurale può essere soltanto la sua dissoluzione.I modi di
produzione si susseguono quindi in un ordine non modificabile,
poiché la loro sequenza è correlata allo sviluppo delle forze
produttive, e quindi anche della divisione del lavoro. In questa
visione Marx poteva trovarsi in sintonia con le prospettive
dell'antropologia evoluzionistica, che proprio nel corso degli anni
sessanta e settanta produceva le sue opere più significative: nel
1861 Ancient law e nel 1875 le Lectures on the early history of
institutions di Henry Sumner Maine, nel 1865 le Researches into the
early history of mankind and the development of civilisation e nel
1871 Primitive culture di Edward Burnett Tylor, nel 1870 The origin
of civilisation di John Lubbock, sempre nel 1870 i Systems of
consanguinity and affinity of the human family e nel 1877 Ancient
society di Lewis H. Morgan. Già la pubblicazione dell'Origin of
species di Darwin, intervenuta durante la stesura del primo libro
del Capitale, aveva offerto a Marx una concezione della natura
vivente compatibile con la sua visione della storia, cioè una
concezione che assumeva la lotta per la sopravvivenza e la selezione
da essa determinata come la chiave di spiegazione del sorgere e
della scomparsa delle specie, non diversamente da come la marxiana
scienza della società si avvaleva della lotta di classe come
principio per spiegare il passaggio da un modo all'altro di
produzione - tanto da fargli osservare, un po' ironicamente, che "in
Darwin il regno animale è raffigurato quale società borghese".
La storia umana poteva quindi essere interpretata come la
continuazione, in forma specifica, della storia naturale. Da ciò il
nuovo rilievo che assumeva la comunità primitiva, nella quale si
compie appunto il passaggio dalla natura all'organizzazione sociale
propria della specie umana.Negli ultimi anni di vita Marx studiò a
lungo i testi dell'antropologia evoluzionistica, in particolare la
morganiana Ancient society, e ne fece degli ampi "estratti"
(pubblicati soltanto nel 1972) in vista di uno studio che intendeva
dedicare alla struttura della comunità primitiva e all'origine dello
Stato. La sua ricerca veniva così a muoversi tra due poli,
caratterizzati l'uno dalla nascita della proprietà privata e della
divisione in classi, l'altro dall'eliminazione di quella proprietà e
dalla fine della lotta di classe. E, per quanto riguarda il primo
polo, gli "estratti" di Marx comprovano la sua sostanziale adesione
al quadro dell'evoluzione dell'umanità delineato da Morgan, in
contrasto con la critica rivolta a Maine su un punto essenziale,
quello dell'origine dell'organizzazione sociale primitiva dalla
famiglia congiunta. Il sorgere delle classi veniva fatto coincidere,
di conseguenza, con il passaggio da una società organizzata sulla
base della consanguineità (qual era la gens) a una società
organizzata politicamente, o - nei termini, non del tutto
equivalenti, dell'analisi di Maine - da una società in cui la
posizione dell'individuo era determinata dal suo status a una
società fondata su rapporti contrattuali. Veniva perciò in primo
piano il problema dell'origine dello Stato, in certo senso
parallelo, pur nell'opposizione, al problema della sua estinzione:
se l'organizzazione politica è un fenomeno transitorio collegato
all'esistenza delle classi, allora occorre spiegare il meccanismo
che l'ha prodotta, e quindi anche individuare quale tipo di
organizzazione sia preesistita alla sua nascita.
La morte (1883) impedì a Marx di elaborare sistematicamente questi
temi; ma il lavoro da lui intrapreso offrì a Engels il materiale per
la stesura di Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des
Staats, apparso l'anno seguente. In questo volume Engels innestava
la teoria dell'evoluzione sociale formulata da Morgan sul tronco del
marxismo, quasi a colmare una lacuna della concezione marxiana della
società. Egli accoglieva la distinzione di origine illuministica fra
tre epoche di sviluppo dell'umanità - stato selvaggio, barbarie,
civiltà - e le caratteristiche con cui Morgan le aveva definite. Al
tempo stesso, però, egli si rifaceva alla teoria del matriarcato
primitivo che Johann Jakob Bachofen aveva delineato nel 1861 in Das
Mutterrecht.
Da una originaria promiscuità sessuale l'umanità è pervenuta, nel
corso dello stato selvaggio, a darsi un'organizzazione fondata su
una linea di discendenza matrilineare, a cui corrisponde un diritto
su base matriarcale; soltanto in seguito, con l'affermarsi della
monogamia, e quindi con la certezza della paternità che questa
implica, ad esso è subentrato il diritto patriarcale. La famiglia
monogamica si colloca così al culmine di un processo evolutivo i cui
gradini inferiori sono rappresentati dai diversi tipi di famiglia
posti in luce da Morgan - da quella consanguinea a quella "panalua"
e poi alla famiglia di coppia. Lo sviluppo dell'organizzazione
sociale primitiva era contrassegnato da un duplice passaggio,
rintracciabile sia nel mondo antico sia nelle tribù indiane
nordamericane a cui faceva riferimento Morgan, sia nelle popolazioni
germaniche studiate, sulla traccia di Maurer, dallo stesso Engels:
dalla gens alla famiglia e dal matriarcato al patriarcato.
La famiglia in generale, e quella monogamica in particolare, si
presenta non come una struttura originaria (quale la riteneva
Maine), ma come il prodotto di un'evoluzione coincidente, grosso
modo, con l'esistenza dell'umanità allo stato selvaggio.Il passaggio
dalla gens alla famiglia ha coinciso, per Engels, con il passaggio
dalla proprietà comunitaria alla proprietà privata. Ma questa non
riguarda soltanto il possesso del suolo e degli armenti; investe
anche - e in ciò egli innova rispetto ai testi di Marx- i rapporti
tra i membri della famiglia. La famiglia monogamica, organizzata su
base patriarcale, comporta il dominio del maschio sulla femmina, del
padre sui figli. In tal modo Engels sviluppava la teoria di Bachofen
nel senso di rintracciare all'interno della famiglia monogamica, in
virtù della divisione del lavoro che in essa s'instaura, il punto di
partenza del conflitto di classe. L'antagonismo tra uomo e donna
nella famiglia monogamica è alla radice dell'antagonismo tra classe
dominante e classe dominata; la forma più elementare di oppressione
è quella che il sesso maschile esercita su quello femminile, così
come la prima forma di schiavitù è quella domestica della donna.
Famiglia monogamica, proprietà privata, rapporti di dominio e di
subordinazione nascono a un tempo, al momento del passaggio dallo
stato selvaggio alla barbarie. Ma insieme ad essi - o, più
precisamente, in seguito ad essi - sorge un'altra istituzione, lo
Stato: sorge dalla dissoluzione dei rapporti parentali su cui
poggiava la gens e dall'affermarsi di un'organizzazione su base
locale, insieme alla quale s'introduce la duplice distinzione tra
liberi e schiavi e tra ricchi e poveri. Lo Stato diventa il garante
dell'ordine, il che vuol dire il garante degli interessi della
classe dominante.L'interpretazione dello sviluppo della società ai
suoi primordi veniva a saldarsi, in Engels, con la visione del suo
futuro. Se la famiglia monogamica, la proprietà privata, l'esistenza
delle classi e la lotta tra classe dominante e classe dominata sono
un prodotto storico, ossia il risultato di un processo evolutivo,
allora acquista forza la prospettiva di una società differente da
quella borghese-capitalistica, contrassegnata dalla "resurrezione,
in una forma più elevata, della libertà, dell'eguaglianza e della
fraternità delle antiche gentes" (come suona la citazione di Morgan
che conclude il volume di Engels). E in questo quadro trovava un
posto non secondario anche l'emancipazione della donna dalle catene
della famiglia monogamica. Inglobando l'antropologia evoluzionistica
nel quadro della marxiana scienza della società Engels non si
limitava però a completare quest'ultima; la finalizzava, in qualche
maniera, alla teoria del comunismo. La storia dell'umanità, pur
mantenendo il carattere progressivo intrinseco alla dialettica,
acquista un andamento circolare: da una condizione originaria di
libertà a una condizione finale anch'essa di libertà, ma superiore,
dopo una serie intermedia di epoche culminanti nella civiltà.
6. La teoria del crollo del capitalismo
La previsione del crollo del modo di produzione capitalistico,
conseguente alla caduta tendenziale del saggio di profitto e al
progressivo intensificarsi delle crisi di sovrapproduzione, è un
elemento costitutivo dell'analisi marxiana. La fine del capitalismo
è il risultato inevitabile delle leggi che presiedono al suo
sviluppo. Sull'imminenza di questa fine la posizione di Marx e di
Engels è certamente mutata nel tempo con il venir meno delle
aspettative rivoluzionarie del 1848 riemerse, ma per breve tempo,
all'epoca della Comune parigina. In ogni caso, tuttavia, essa non si
presentava come un evento remoto; tanto è vero che ancora nel 1895
Engels si spingeva a preconizzare il declino del capitalismo entro
la fine del secolo. Ma proprio l'allontanarsi della rivoluzione che
doveva segnare il passaggio al comunismo portava a sottolineare
maggiormente il carattere oggettivo del processo di sviluppo
capitalistico e delle sue leggi. Ciò non voleva certamente dire che
la fine della società borghese-capitalistica potesse essere il
risultato di un'evoluzione non traumatica; ma significava che il
meccanismo che avrebbe dovuto provocarla è intrinseco alla sua
stessa struttura. La dialettica della storia doveva produrre, prima
o poi, una crisi generale di quella società, e quindi il passaggio
al comunismo.
Su questa teoria si appuntò, nell'ultimo decennio del secolo, la
critica di quel filone del marxismo a cui fu dato il nome di
'revisionismo', in particolare quella di Eduard Bernstein, che in
una serie di articoli pubblicati sulla "Neue Zeit" - e poi raccolti
nel 1899 sotto il titolo Die Voraussetzungen des Sozialismus und die
Aufgaben der Sozialdemokratie - si propose di sottrarre l'analisi di
Marx alle implicazioni deterministiche della teoria del crollo. Egli
prendeva le mosse dalla constatazione che, nel corso dello sviluppo
capitalistico, non si era verificata quell'intensificazione delle
crisi di sovrapproduzione che Marx, sulla scia di Sismondi e di
Rodbertus, aveva previsto, e che il capitalismo non aveva prodotto
quel duplice processo di concentrazione del capitale in poche mani e
di pauperizzazione del proletario che, secondo Marx, avrebbe dovuto
segnare la fine del modo di produzione capitalistico. Lungi
dall'essere collegate a una fase di capitalismo maturo, le crisi
sono per Bernstein una caratteristica dei suoi albori, una specie di
malattia infantile. La sovrapproduzione in singoli rami produttivi
può essere controllata mediante la creazione di cartelli, e quindi
sostituendo alla concorrenza sfrenata tra i produttori accordi tali
da permettere il mantenimento di un adeguato tasso di profitto.
Anche l'espansione dell'economia capitalistica in altri paesi e in
altri continenti, e la conseguente creazione di quel mercato
mondiale di cui Marx aveva parlato fin dalla Deutsche Ideologie, non
rappresenta il venir meno della possibilità di collocamento delle
merci eccedenti il consumo interno; al contrario, essa favorisce il
controllo del mercato e quindi riduce la frequenza delle crisi. Il
modo di produzione capitalistico è quindi suscettibile di una
trasformazione interna che, consentendogli di correggere i suoi
errori iniziali, lo avrebbe consolidato. Il progresso tecnico,
congiunto al perfezionamento dell'organizzazione industriale, appare
in grado di impedire quella crisi generale del capitalismo che Marx
ed Engels avevano data per inevitabile. Veniva perciò a cadere,
insieme alla teoria del crollo, anche la profezia dell'avvento del
comunismo in virtù della rivoluzione del proletariato. Il socialismo
si trasformava in un "ideale etico" da perseguire attraverso
strumenti democratici, cioè attraverso il sistema parlamentare. E
proprio la democrazia appariva a Bernstein la "forma della
realizzazione del socialismo", la via che il proletariato deve
imboccare per migliorare le proprie condizioni di vita.Sulla critica
di Bernstein alla teoria del crollo si accese, negli ultimi anni del
secolo scorso, un'aspra polemica. Ad essa fu obiettato, e
giustamente, che Marx non aveva mai parlato di "crollo", ma di una
tendenza alla caduta del saggio di profitto, accompagnata dal
progressivo intensificarsi delle crisi di settore, destinato a
sfociare in una crisi generale. Soltanto Heinrich Cunow, in fondo,
rintracciava in Marx una compiuta teoria del crollo, e nel
difenderla cercava la spiegazione del ritardo della crisi generale
del capitalismo nell'ampliamento del mercato capitalistico non
soltanto nell'Europa continentale e negli Stati Uniti, ma anche
nelle colonie inglesi oltremare. Proprio questa espansione del
capitalismo aveva impedito che le crisi parziali sfociassero in una
crisi generale; ma quando il processo raggiungesse i suoi limiti,
quando cioè l'eccedenza produttiva dell'industria capitalistica non
trovasse più una possibilità di assorbimento, allora quella crisi
sarebbe stata inevitabile. Il rilievo terminologico era però, tutto
sommato, secondario.
La divergenza riguardava infatti non tanto la presenza o l'assenza,
nei testi di Marx, della nozione di "crollo" e di una compiuta
teoria del crollo, ma la visione dello sviluppo capitalistico e,
insieme ad essa, l'alternativa tra la via rivoluzionaria e la via
riformistica al socialismo. L'originaria impostazione di Marx e di
Engels - ripresa dai sostenitori della teoria del crollo come, in
primo luogo, Karl Kautsky e Rosa Luxemburg - presupponeva infatti
che capitalismo e comunismo fossero due modi di produzione, due
forme di organizzazione sociale successive nel tempo, e che
l'avvento del comunismo fosse il prodotto inevitabile
dell'altrettanto inevitabile crisi generale del capitalismo, di cui
la rivoluzione doveva costituire il momento conclusivo. Al
contrario, Bernstein e gli altri esponenti del revisionismo facevano
valere la prospettiva di una trasformazione interna del capitalismo
in direzione del socialismo, da realizzarsi sì mediante
l'organizzazione della classe lavoratrice da parte dei sindacati e
quindi mediante il conflitto sindacale, ma senza il ricorso alla
rivoluzione.Il dibattito si sviluppò intorno alle tesi
dell'economista russo Michail J. Tugan-Baranovskij, che, muovendo da
un'analisi delle crisi commerciali in Inghilterra, aveva poi, nel
1905, indagato i "fondamenti teorici del marxismo". Egli aveva
sottoposto a critica la visione di una crisi cronica di
sovrapproduzione, correlata al sottoconsumo della classe
lavoratrice, che avrebbe reso impossibile la remunerazione del
capitale investito bloccando così il processo di accumulazione
capitalistica. A tale visione egli obiettava rilevando, tra l'altro,
lo sviluppo di nuovi settori industriali i cui prodotti erano
destinati non al consumo ma all'utilizzazione da parte di altri
settori - come nel caso dell'industria mineraria, chimica o
siderurgica. Ed egli concludeva affermando che l'economia
capitalistica, quale si era andata sviluppando nel corso del secolo,
non conteneva alcun fattore capace di determinarne inevitabilmente
la fine; al contrario, essa ha continuato e continuerà a espandersi,
aumentando di continuo la massa dei suoi prodotti e trovando, o
creandosi, i mercati per il loro smercio.
A questa radicale critica della teoria del "crollo" Kautsky replicò
sottolineando l'alternarsi di periodi di prosperità e di periodi di
depressione. Egli scorgeva nel sottoconsumo il risultato permanente
della condizione della classe lavoratrice e dell'aumento della
disoccupazione per effetto non soltanto del progresso tecnologico,
ma anche dell'aumento della popolazione industriale a scapito di
quella agricola. Kautsky riconosceva che nella seconda metà del
secolo il primato economico era passato dall'industria inglese a
quella tedesca e americana, e che nuovi rami produttivi si erano via
via aggiunti a quelli preesistenti; analogamente, egli riconosceva
l'importanza dei cartelli come strumento per frenare la concorrenza
tra i produttori capitalistici e mantenere alto il prezzo delle
merci. Ma questi fenomeni non sarebbero stati in grado, secondo
Kautsky, di eliminare il carattere periodico delle crisi a cui il
capitalismo andava incontro e il loro sfociare in una crisi
generale. Perciò egli respingeva la via democratica al socialismo, e
indicava nella rivoluzione del proletariato l'unica possibilità di
uscita dalle contraddizioni del capitalismo.Anche la Luxemburg
prendeva posizione nei confronti del revisionismo, rivendicando la
scelta della rivoluzione nei confronti della riforma sociale. Si
trattava però di render conto del perché, contrariamente alla
previsione di Marx e di Engels, il crollo del capitalismo non fosse
ancora avvenuto, ed anzi sembrasse allontanarsi nel tempo. Per
rispondere a questo interrogativo la Luxemburg riformulava la teoria
marxiana dell'accumulazione capitalistica, sostenendo che l'ipotesi
di una società polarizzata, costituita da una classe capitalistica e
da una classe lavoratrice, era un'astrazione teorica che doveva
essere messa a confronto con la realtà dello sviluppo capitalistico.
Marx aveva correttamente visto nella sovrapproduzione, e
nell'impossibilità di assorbimento dei prodotti eccedenti da parte
del proletariato, la radice delle crisi ricorrenti del capitalismo;
ma il suo schema teorico non teneva conto del fatto che la
produzione capitalistica trova una possibilità di smercio non
soltanto all'interno della società capitalistica ma anche al di
fuori di essa, in un ambiente non capitalistico. Così è avvenuto fin
dall'inizio, quando il rapporto di scambio del capitalismo nascente
con l'economia contadina tradizionale gli offriva la possibilità di
rifornirsi sia di merci sia di forza-lavoro; e così è avvenuto nel
corso dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, che è
penetrato in altri paesi e in altri continenti sconvolgendo gli
equilibri preesistenti ed erodendo i rapporti dell'economia
naturale. Questo rapporto tra produzione capitalistica e ambiente
non capitalistico spiega come al capitalismo sia stato finora
possibile collocare i propri prodotti senza che venisse interrotto
il processo di accumulazione. Ma l'area dei paesi non capitalistici
è destinata a ridursi progressivamente; quando essa verrà meno, il
capitalismo non potrà espandersi ulteriormente, e la sua crisi
diventerà inevitabile. D'altra parte la pressione che ne deriverà
sulla classe lavoratrice renderà più aspra la lotta di classe, e il
proletariato internazionale - unificato dal dominio mondiale del
capitalismo - sarà indotto a ribellarsi.
Nella riproposizione della teoria del "crollo" interveniva perciò,
come elemento costitutivo, il riferimento sia all'allargamento della
produzione capitalistica a nuovi settori sia al processo di
espansione del mercato, correlato a sua volta con la politica
coloniale delle potenze industriali. Il capitalismo non era più
quello dei tempi di Marx, ma era entrato in una nuova fase: in ciò
concordavano, in fondo, critici e difensori della teoria. E la vera
risposta alle insufficienze che l'analisi marxiana rivelava fu
infatti la teoria dell'imperialismo come "fase suprema del
capitalismo" (come suona il titolo del saggio scritto da Lenin nel
1916, pochi anni dopo Die Akkumulation des Kapitals della
Luxemburg). La teoria dell'imperialismo era, in origine, estranea al
marxismo: l'aveva proposta per primo, nel 1902, uno studioso inglese
di orientamento radicale, John A. Hobson, analizzando il ricorso
all'espansione coloniale come strumento per trovare sbocchi ai
prodotti dell'industria capitalistica. Hobson riteneva il commercio
estero un fenomeno secondario, e destinato a diminuire, rispetto
alla possibilità di sviluppo indefinito che attribuiva al mercato
interno; e il rimedio da lui indicato si limitava a suggerire una
più adeguata distribuzione del reddito, capace di innalzare il
livello dei consumi della classe lavoratrice.
Ma il nesso tra ricerca di nuovi sbocchi per la produzione
capitalistica e politica coloniale fu ben presto accolto dal
marxismo come caratteristica fondamentale di una nuova fase di
sviluppo del capitalismo, che era iniziata dopo il periodo
ventennale della "grande depressione". L'analisi di Marx aveva
assunto come modello lo sviluppo del capitalismo in Gran Bretagna,
lasciando sullo sfondo il processo di diffusione dell'economia
capitalistica che pure era implicito nella nozione di mercato
mondiale; all'inizio del Novecento il capitalismo era diventato un
fenomeno internazionale, che investiva non soltanto i paesi europei
ma anche le loro colonie oltremare. La teoria marxistica doveva
perciò fare i conti con questa nuova realtà.Per Lenin (come anche
per Bucharin) il capitalismo si era ormai trasformato in capitalismo
monopolistico, e proprio l'affermazione dei monopoli ne caratterizza
l'ultima fase, quella imperialistica. Sorti dalla concentrazione
della produzione e dall'associazione degli imprenditori
capitalistici allo scopo di mantenere elevato il livello dei prezzi,
i monopoli hanno condotto alla ricerca e al controllo delle fonti
delle materie prime. Al capitalismo concorrenziale studiato da Marx
è così subentrato un altro tipo di capitalismo, quello
monopolistico.
A tale processo ha fatto riscontro lo sviluppo di una nuova specie
di capitale, il capitale finanziario - la cui importanza Rudolf
Hilferding aveva posto in luce fin dal 1910, in un libro
fondamentale ad esso dedicato -, che si era affiancato al capitale
industriale realizzando una fusione con esso. Anche il mercato
internazionale aveva così assunto una nuova configurazione, poiché
l'esportazione di prodotti aveva ceduto il posto, in misura
crescente, all'esportazione di capitali dai paesi produttori alle
altre regioni del globo. Diventava perciò essenziale, per gli Stati
in cui il capitalismo si era sviluppato, acquistare il controllo
delle materie prime e assicurarsene il regolare rifornimento: ciò
spingeva alla conquista di colonie e alla creazione di zone
d'influenza nei continenti extraeuropei. Il capitalismo aveva così
trovato il proprio sostegno nell'imperialismo politico-militare. Ma
ciò, se può spiegare la sua permanenza, nulla toglie
all'inevitabilità della sua fine. Lo sviluppo capitalistico ha
creato all'interno dei paesi produttori una classe di redditieri che
vivono del profitto del capitale investito all'estero; anzi, gli
Stati alla testa di tale sviluppo si sono trasformati in Stati
rentiers, contrapposti a una massa di Stati economicamente
dipendenti da essi. Lo stesso proletariato non è rimasto immune
dalle conseguenze di questo processo, poiché la classe lavoratrice
di quei paesi, trovandosi in una situazione relativamente
privilegiata rispetto al proletariato degli altri continenti, ha
subito un progressivo imborghesimento, e nei partiti che ne hanno la
rappresentanza politica è prevalsa la tendenza all'opportunismo.
Diffusione del capitale finanziario, espansione coloniale degli
Stati europei, imborghesimento del proletariato sono i diversi
aspetti del progressivo "imputridimento" del capitalismo, nei cui
confronti Lenin faceva valere la prospettiva di una rivoluzione
promossa e guidata da un'élite organizzata.
Proprio l'appello all'azione rivoluzionaria metteva in ombra, però,
la teoria del crollo, anche se non mancarono, per la verità,
tentativi di riproporla, nel periodo tra le due guerre, da parte di
studiosi come Henryk Grossmann e Otto Bauer. E proprio la
Rivoluzione sovietica, smentendo la tesi di Marx secondo cui il
comunismo poteva sorgere soltanto nei paesi all'avanguardia dello
sviluppo capitalistico, finiva per 'falsificare' tale teoria. Come
ebbe a rilevare Antonio Gramsci, quella del 1917 fu in sostanza "una
rivoluzione contro Il capitale", una rivoluzione, cioè, che non
soltanto usciva fuori dallo schema interpretativo marxiano, ma ne
rappresentava pure la smentita. Nei decenni successivi la
rivoluzione comunista diventerà sempre più un fenomeno esclusivo dei
paesi economicamente arretrati dei continenti extraeuropei. Dopo la
Russia, paese a industrializzazione incipiente, sarà un paese
contadino come la Cina a imboccare, in forme originali, la strada
del comunismo; e dopo il successo della Rivoluzione cinese il
comunismo diventerà sempre più un modello di sviluppo destinato
all'esportazione nel Terzo Mondo.
Da parte sua il capitalismo, superando la crisi del 1929, mostrava
una capacità di adattamento che ne ha assicurato la sopravvivenza; e
la spinta rivoluzionaria che Marx aveva attribuito al proletariato,
già affievolitasi a partire dalla fine dell'Ottocento, veniva
assorbita dalla politica del Welfare State, quando non si trasferiva
a gruppi sociali marginali diversi dal proletariato. La prospettiva
rivoluzionaria si trasformava sempre più in un'utopia coltivata da
gruppi più o meno ampi di intellettuali. La lunga stagione che va
dal 1917 al 1989 - complicata dall'affermarsi di regimi totalitari
all'interno del mondo capitalistico e dal contemporaneo sviluppo in
senso totalitario dello stesso "socialismo reale" - ha visto il
mondo diviso in due blocchi contrapposti, trasformando quello che
doveva essere un rapporto di successione, e di "superamento", tra
capitalismo e comunismo in un'alternativa tra sistemi
economico-politici coesistenti nel tempo. In questa situazione così
distante dalle previsioni di Marx e di Engels la teoria del "crollo"
è stata sostanzialmente messa in disparte, anche se non sempre in
maniera esplicita, prendendo atto dell'impossibilità, o almeno
dell'improbabilità, di una crisi generale del capitalismo, senza
tuttavia rinunciare alla prospettiva della futura società senza
classi. E al suo posto è stata formulata la teoria della transizione
graduale dal capitalismo al comunismo. Alla base di questa agiva il
riconoscimento che il comunismo quale si era realizzato in Unione
Sovietica, nei paesi dell'Europa orientale e nei paesi extraeuropei,
si era arrestato alla fase della dittatura del proletariato, per di
più sottoponendo il proletariato stesso al dominio di una "nuova
classe" (secondo l'espressione di Milovan Gilas). Il socialismo
reale, in altri termini, non era vero socialismo, né sarebbe potuto
diventarlo. Il socialismo poteva sorgere soltanto nei paesi
capitalistici così come si erano trasformati nel corso del secolo,
imboccando la strada della democrazia parlamentare e delle riforme
sociali. Si trattava quindi di compiere la transizione dalla
democrazia parlamentare alla democrazia diretta, dal capitalismo al
socialismo. Questa prospettiva, alimentata dalla "primavera di
Praga" e dalla presa di distanza nei confronti del paese-guida, fu
alla base dell'eurocomunismo che, richiamandosi alla tradizione
socialdemocratica, si propose di conciliare le regole alla
democrazia con il fine ultimo di un nuovo assetto economico-sociale,
proclamando l'esigenza di un'"avanzata democratica" verso il
socialismo. Anch'essa, però, conoscerà una brusca eclissi di fronte
a una realtà imprevista che ha posto in termini pressanti il
problema di una transizione in senso inverso, non già dal
capitalismo al socialismo, bensì dal socialismo, per quanto "reale",
all'economia di mercato organizzata capitalisticamente.
7. La teoria dell'estinzione dello Stato e il ruolo del partito
In Sozialismus und Staat (1922) Hans Kelsen ha distinto, all'interno
del marxismo, una teoria economica incentrata sull'analisi dello
sviluppo capitalistico e una teoria politica che ha il suo nucleo
nella tesi dell'estinzione dello Stato nella futura società senza
classi. Ciò coglie indubbiamente un aspetto peculiare del marxismo
nei confronti della tradizione politica moderna che aveva invece
attribuito un ruolo centrale allo Stato, cercando di determinare il
fondamento della sovranità e di definire le relazioni tra sovrano e
suddito in maniera da far coesistere il dovere di obbedienza con la
rivendicazione di una sfera di diritti preesistenti all'appartenenza
alla comunità politica. Per Marx, infatti, lo Stato è un prodotto
della lotta di classe, e in quanto tale è destinato a scomparire con
il venir meno di tale lotta. Fin dal suo primo scritto, Zur Kritik
der Hegel'schen Rechts~philosophie, che risale al 1842, Marx aveva
considerato la distinzione tra società civile e Stato come una
caratteristica specifica del mondo borghese moderno, derivante dalla
dissociazione che in esso si è prodotta tra determinazioni
socio-economiche e determinazioni politico-giuridiche
dell'individuo; cosicché quest'ultimo risulta, a sua volta,
internamente scisso in citoyen, in quanto membro della comunità
statale, e in bourgeois, in quanto appartenente alla società civile.
Da ciò Marx prendeva le mosse per procedere a una critica radicale
sia della "libertà dei moderni", che gli appariva una libertà
puramente negativa fondata sull'isolamento "atomistico"
dell'individuo, sia dell'eguaglianza così come era stata rivendicata
dalla Rivoluzione francese, che riguarda soltanto i diritti del
cittadino senza investire la sfera dei rapporti economico-sociali.
Egli rifiutava perciò esplicitamente il principio di rappresentanza
e lo Stato rappresentativo. Richiamandosi da un lato all'ideale
rousseauiano della partecipazione di tutti i cittadini all'esercizio
della sovranità, dall'altro al modello della polis come comunità
vivente nella quale l'individuo si integra armonicamente con gli
altri individui e quindi con la totalità stessa - un modello
presente non soltanto nel giovane Hegel, ma in gran parte della
letteratura politica romantica - Marx scorgeva nella rappresentanza
il risultato della separazione tra società civile e Stato, di una
separazione che finisce per sanzionare giuridicamente le
diseguaglianze inerenti ai rapporti economici.
Lo Stato borghese moderno si presentava così, agli occhi di Marx,
come una forma storica di organizzazione della vita sociale che,
lungi dall'esserle sovraordinato, deve garantire il funzionamento
della società civile. Il rapporto tra società civile e Stato si
precisava quindi, nella Deutsche Ideologie, come un rapporto non
soltanto di separazione ma anche di derivazione dello Stato dalla
società civile. La società civile è "il vero focolare, il teatro di
ogni storia"; e le diverse forme assunte dallo Stato riflettono la
configurazione dei rapporti economico-sociali. È vero che la società
civile è il luogo dell'antagonismo tra gli interessi particolari,
ossia gli interessi dei singoli e dei gruppi, mentre lo Stato si
presenta come portatore di un interesse collettivo estraneo; ma
questo interesse - lungi dall'essere generale, come pretendeva Hegel
- s'identifica, in realtà, con l'interesse della classe dominante.
Una volta formulata la teoria del materialismo storico, e quindi
attribuito ai rapporti di produzione un carattere strutturale, lo
Stato veniva confinato nella sfera della sovrastruttura: le lotte
politiche si presentano perciò come l'espressione, in forma
illusoriamente indipendente, delle lotte reali, ossia del conflitto
di classe. Su questa base Marx ha concepito lo Stato come lo
strumento - o, più precisamente, come la "macchina" - del dominio di
classe, come l'apparato di cui la classe dominante si avvale,
rivestendo i propri interessi di una universalità soltanto
apparente, per garantire il proprio potere. Di conseguenza, la
rivoluzione del proletariato dovrà non già impadronirsi della
macchina statale creata dalla borghesia ma "spezzarla", secondo la
via tentata dalla Comune parigina; e il risultato dovrà essere non
l'instaurazione di una nuova forma di Stato ma la sua soppressione.
La scomparsa della proprietà privata e della lotta di classe
comporta necessariamente, nella futura società senza classi, anche
la scomparsa dello Stato. Nel regno della libertà non c'è bisogno di
un apparato repressivo.
La teoria politica marxistica è dunque una teoria non della
trasformazione, bensì dell'estinzione dello Stato. A quali
istituzioni dovessero trasferirsi le funzioni esercitate dalla
macchina statale, se e in quale misura esse dovessero ancora
sussistere, rimaneva però del tutto indeterminato: Marx rifiutava
infatti di offrire delle "ricette" per il futuro. Ma la teoria
politica veniva a interagire con la teoria del "crollo" del
capitalismo. Una volta che la crisi finale del capitalismo si veniva
allontanando nel tempo, diventava infatti necessario indicare le
modalità concrete con cui si sarebbe potuto arrivare alla
realizzazione del comunismo. Nell'Antidühring (1878) Engels aveva
prospettato il trapasso dalla proprietà privata alla proprietà
statale dei mezzi di produzione, e la conseguente pianificazione dei
processi produttivi da parte di un potere centrale. Ma ciò
comportava, almeno in una fase transitoria, il mantenimento di un
apparato in grado di dirigere la produzione. Veniva così in luce la
contraddizione latente tra il termine finale del processo, cioè
l'estinzione dello Stato, e la necessità di riprodurre un
ordinamento politico anche se su una base diversa da quella dello
Stato borghese. E qui le strade si divaricarono a partire dalla fine
del secolo. Bernstein riteneva indispensabile, per la realizzazione
del socialismo, non soltanto il raggiungimento di un determinato
grado di sviluppo capitalistico, ma anche la partecipazione del
"partito di classe dei lavoratori", cioè della socialdemocrazia, al
potere politico.
Non il socialismo di Stato, cioè il trasferimento della produzione
dagli imprenditori capitalistici allo Stato, ma lo sviluppo del
movimento sindacale e l'aumento dei livelli salariali diventavano
per lui le direttrici del cammino verso il socialismo. E ad esse
doveva accompagnarsi la conquista del suffragio universale, che
avrebbe assicurato la rappresentanza politica degli interessi della
classe operaia. La democrazia diventava così non soltanto
compatibile con il socialismo, ma la forma stessa della sua
realizzazione; e venivano al tempo stesso recuperati i valori del
liberalismo, non più considerati esclusivi della borghesia
capitalistica. Diversa era la posizione di Kautsky, ai cui occhi la
rivoluzione si presentava come l'esito di un processo evolutivo
retto da leggi necessarie. Per instaurare il comunismo occorre che
il proletariato conquisti il potere, e che lo conquisti da solo,
trasformando lo Stato anziché proponendosi di sopprimerlo:
l'esistenza di un ordinamento coercitivo è indispensabile per
realizzare il "comunismo nella produzione materiale", anche se
coniugato con l'"anarchismo in quella intellettuale".L'estinzione
dello Stato diventava così una prospettiva remota;
contemporaneamente veniva in primo piano, come soggetto del
movimento politico, il partito in quanto strumento di organizzazione
del movimento operaio. Non il proletariato in quanto tale, ma il
proletariato organizzato in partito diventa il soggetto dell'azione
politica e, di conseguenza, l'oggetto centrale della teoria politica
marxistica. Allo Stato borghese, "macchina" della borghesia, si
contrappone il partito di classe dei lavoratori. E se il
revisionismo cerca di conciliare i due termini, spogliando lo Stato
del suo carattere borghese e il partito del suo carattere
rivoluzionario, nel marxismo della Terza Internazionale la
contrapposizione si traduce in un conflitto insanabile.
Sarà Lenin, e con lui il movimento bolscevico, a compiere questo
passo. Il partito è l'avanguardia della classe operaia, che immette
in essa la "coscienza" rivoluzionaria: la rivoluzione non può essere
il prodotto del movimento spontaneo delle masse, ma dev'essere
diretta e realizzata dal partito. Questa concezione del partito sarà
largamente condivisa anche da autori che non accoglievano invece il
materialismo dialettico, come György Lukács e Gramsci. Entrambi
hanno sottolineato il ruolo decisivo della coscienza di classe nel
processo di costituzione del proletariato, additando nel partito il
soggetto in cui essa si realizza. Se Lukács definiva la funzione
storica del proletariato sulla base della coincidenza tra teoria e
prassi, Gramsci faceva valere l'importanza decisiva del fattore
soggettivo per la prassi rivoluzionaria, e lo vedeva incarnato nel
"moderno Principe", ossia nel partito. Non una presunta necessità
storica, ma la volontà dell'uomo rende possibile la rivoluzione.Il
successo della Rivoluzione sovietica rendeva però necessaria
un'integrazione della teoria politica marxistica, riproponendo il
problema dello Stato, anche se di uno Stato differente da quello
borghese: sorto in antitesi allo Stato, il partito del proletariato
doveva creare anch'esso una sua "macchina", e insieme un diritto non
finalizzato alla garanzia della proprietà borghese. Già Marx ed
Engels avevano parlato - dopo l'esperienza storica della Comune - di
una dittatura del proletariato come fase di transizione dal
capitalismo al comunismo, nel corso della quale il proletariato
organizzato avrebbe consolidato il suo potere prima che si
realizzassero le condizioni per la scomparsa delle classi. Lenin
trasformava questa fase in una struttura di lunga durata,
caratterizzante "un intero periodo storico": una volta pervenuta al
potere, la classe operaia avrebbe dovuto difendersi dalle spinte
controrivoluzionarie della borghesia, e a tale scopo diventava
necessario creare una nuova struttura statale, lo "Stato dei
soviet".
La democrazia consiliare prendeva il posto della democrazia
rappresentativa propria dello Stato borghese. Ma da essa, e quindi
dalla partecipazione al potere, erano esclusi gli "oppressori del
popolo", vale a dire i rappresentanti della borghesia capitalistica
sconfitta ma pur sempre minacciosa. La dittatura del proletariato si
avviava a diventare - Kautsky lo denunciava già nel 1918 - una
dittatura tout court, una dittatura esercitata dal partito e
dall'apparato statale controllato dal partito. L'unificazione di
potere economico e potere politico, di direzione della produzione e
controllo della "macchina" statale nelle mani di un nuovo apparato
burocratico avrebbe reso possibile un regime tirannico che avrebbe
fatto del terrore e della repressione del dissenso il proprio
strumento quotidiano. L'esito della teoria politica marxistica
sarebbe così stato non l'estinzione dello Stato ma uno Stato
dispotico, non la democrazia socialista ma la soppressione della
democrazia mascherata da democrazia "popolare".
8. Marxismo e scienza economica: dalla critica della teoria del
valore-lavoro alle teorie dello sviluppo
In larga misura Il capitale è un'opera di economia politica, che
riprende e sviluppa il corpus teorico elaborato a partire da Smith e
da Ricardo. Anche la teoria del valore-lavoro affonda le sue radici,
come si è visto, in questa tradizione. Ma essa segna al tempo stesso
la differenza tra la posizione di Marx e la dottrina economica
classica; poiché è proprio quella teoria che gli consente di dare
una giustificazione scientifica alla tesi dello sfruttamento della
classe lavoratrice da parte della classe capitalistica. Mentre la
distinzione tra rendita, profitto e salario serviva a Smith e
soprattutto a Ricardo come strumento analitico per determinare le
componenti del valore delle merci, e quindi del loro prezzo, la
teoria del plusvalore permetteva in primo luogo di mostrare come
parte - e una parte crescente, almeno nel passaggio dalla
manifattura all'industria - del prodotto del lavoro venisse
sottratta al lavoratore, trasformandosi in profitto. Veniva così in
luce la "connessione intima" tra salario e profitto capitalistico,
cioè il fatto che il salario può aumentare soltanto a spese del
profitto e viceversa, oscurata dalla "connessione apparente" secondo
cui il meccanismo dei prezzi sarebbe in grado di accrescere il monte
dei salari lasciando immutato il saggio di profitto.
La teoria del valore-lavoro costituiva infatti la base tanto
dell'analisi della produzione e dello scambio in condizioni di
economia capitalistica quanto del meccanismo di formazione dei
prezzi. E proprio sulla validità della teoria, sulla sua capacità di
render conto sia del rapporto tra valore e prezzo sia della tendenza
a un saggio di profitto uniforme nei diversi settori produttivi si
accese, a fine secolo, un'aspra polemica. Già da parte marxistica
erano stati sollevati dubbi su alcune argomentazioni contenute nel
Capitale, e si era cercato di riformularle in maniera da evitare le
contraddizioni, vere o presunte, che emergevano dal testo marxiano.
Lo stesso Engels aveva sostenuto che, mentre la tesi
dell'eguaglianza tra lavoro e valore di scambio vale per il periodo
iniziale dello sviluppo capitalistico, in seguito viene in primo
piano il prezzo di produzione delle merci, cioè un elemento che, per
quanto riconducibile al valore-lavoro, sembra discostarsene in
misura rilevante. Ma una critica frontale ai presupposti della
teoria giungeva, all'indomani della pubblicazione del terzo libro
del Capitale, da un economista austriaco, Eugen von Böhm-Bawerk, che
già una decina di anni prima, in un'opera dedicata alle teorie
dell'interesse, ne aveva posto in luce le aporie.Böhm-Bawerk partiva
dall'osservazione che, mentre il plusvalore è proporzionale al
capitale variabile, cioè alla parte del capitale investito in
salario, Marx istituisce poi una relazione di proporzionalità tra il
profitto e l'intero capitale. Questa contraddizione era stata
rilevata dallo stesso Marx, che l'aveva tuttavia ritenuta
suscettibile di essere risolta. Per Böhm-Bawerk, invece, quella
contraddizione doveva condurre a mettere in discussione i
presupposti della teoria del valore-lavoro. Egli muoveva
dall'analisi del saggio di profitto condotta nel terzo libro del
Capitale, in cui Marx aveva asserito che, in virtù della diversa
composizione organica del capitale nei diversi settori produttivi,
parte delle merci viene venduta al di sopra e parte al di sotto del
loro valore, e che questa diversità del saggio di profitto nei vari
settori si componeva, in virtù della concorrenza, in un saggio
generale del profitto che esprime il profitto medio del capitale
investito. In tal modo, però, il rapporto di scambio tra le diverse
merci risulta determinato non dal loro valore, ossia dal lavoro in
esse incorporato, ma dai prezzi di produzione; tanto è vero che Marx
affermava, un po' enigmaticamente, che "i valori si trasformano in
prezzi di produzione". Laddove Marx vedeva un processo di
trasformazione, Böhm-Bawerk coglieva invece una contraddizione:
lungi dall'essere l'espressione del valore inerente a ogni merce,
cioè della quantità di lavoro socialmente necessario per produrla, i
prezzi si formano indipendentemente da tale quantità, a causa della
tendenza dei capitali a spostarsi dai settori in cui il saggio di
profitto è minore ai settori più vantaggiosi.
La teoria del saggio generale del profitto, enunciata da Marx nel
terzo libro del Capitale, costituisce perciò non la conferma o lo
sviluppo, bensì la smentita della teoria del valore-lavoro esposta
all'inizio del primo. E, delle due teorie, quella corretta è
indubbiamente l'ultima, non la teoria del valore-lavoro. Böhm-Bawerk
riconosceva sì che il plusvalore complessivo "regola" il saggio
medio del profitto, ma nel senso che è una causa determinante di
tale saggio accanto a un'altra, indipendente da esso, che è la
grandezza del capitale. Il prezzo di produzione risulta perciò
composto di due elementi, la spesa in salari (determinata, come
aveva affermato Marx, dalla quantità di lavoro) e la somma del
profitto medio.Attraverso questa serie di argomentazioni Böhm-Bawerk
perveniva a individuare quello che, a suo parere, costituiva
l'"errore" del sistema economico marxiano: il carattere puramente
logico-dialettico della dimostrazione che esso fornisce
dell'equivalenza tra valore di scambio e lavoro incorporato, a cui
fa riscontro l'indebita limitazione dell'ambito di tale valore alle
merci, ossia al prodotto del lavoro umano. Secondo Böhm-Bawerk,
infatti, le merci costituiscono una categoria specifica di beni,
accanto a cui ne sussiste un'altra, quella dei beni naturali,
anch'essi componente della ricchezza nazionale e oggetto di scambio.
Una teoria del valore dev'essere perciò formulata in termini più
generali, validi sia per i beni naturali che per le merci, facendo
riferimento alla proprietà comune che li rende, appunto, dei "beni":
la scarsità rispetto al fabbisogno. Ciò consente di prendere in
considerazione, accanto al valore di scambio, anche quel valore
d'uso che Marx aveva spinto al margine della propria costruzione
teorica.In tale maniera Böhm-Bawerk contrapponeva alla teoria del
valore-lavoro una teoria del valore alternativa, che era stata
formulata dal suo maestro Carl Menger e che costituiva il nucleo del
nuovo paradigma marginalistico.
Pochi anni dopo la pubblicazione del primo libro del Capitale,
infatti, Menger aveva esposto nei Grundsätze der
Volkswirtschaftslehre (1871) una teoria generale dei beni in termini
di bisogni e di capacità di soddisfarli, e aveva proposto una
"misura" di entrambi, determinando l'economia reale sia da un punto
di vista soggettivo, rappresentato dall'attività che dispone
dell'impiego dei beni, sia da un punto di vista oggettivo,
rappresentato invece dall'insieme dei beni e del lavoro a
disposizione in base alle condizioni naturali e sociali di esistenza
dell'individuo o del gruppo. L'impostazione di Menger trovava
riscontro - al di fuori dell'ambiente austro-tedesco - nelle
formulazioni di economisti inglesi come William Stanley Jevons,
autore nel 1871 della Theory of political economy, e francesi come
Léon Walras, autore nel 1874 degli Eléments d'économie politique
pure, per poi confluire, nei decenni successivi, nel tentativo di
sintesi di Alfred Marshall. La scienza economica si distaccava ormai
dalla tradizione classica, a cui Marx aveva fatto riferimento, per
costituirsi come una disciplina a sé stante, con un proprio apparato
concettuale distinto da quello delle altre scienze sociali.E proprio
su questa differenza d'impostazione faceva leva Hilferding nella sua
replica (1904) a Böhm-Bawerk.
Alla critica alla nozione marxiana di merce egli rispondeva
affermando che un bene diventa merce soltanto se viene posto in
relazione con altri beni, e quindi dotato di un valore di scambio,
cioè se viene considerato espressione di rapporti tra produttori
indipendenti. Nella merce egli distingueva due aspetti, un aspetto
naturale e un aspetto sociale, che sono oggetto rispettivamente
della scienza naturale e dell'economia politica: in questa seconda
prospettiva la merce è un prodotto della società, vale a dire un
prodotto del lavoro che in essa si incorpora. Hilferding faceva
quindi valere, contro Böhm-Bawerk, il principio che la teoria del
valore deve partire non dal valore d'uso, cioè dalle qualità
naturali delle cose e dalla loro capacità di soddisfare certi
bisogni, ma dal valore di scambio, che riveste carattere sociale e,
in quanto tale, può fornire ad essa un fondamento oggettivo.
L'impostazione di Menger e di Böhm-Bawerk appariva quindi a
Hilferding basata su un metodo "astorico" e "asociale", cioè su
categorie "naturali" incapaci di cogliere le leggi di movimento
della società borghese-capitalistica e le tendenze dello sviluppo
capitalistico. Ma nella sua replica egli ricorreva anche a un altro
argomento, vale a dire alla connessione tra la teoria del
valore-lavoro e la concezione materialistica della storia.
Contro la concezione della scienza economica come scienza autonoma,
fondata su un proprio corpus teorico, egli faceva valere il
principio che "la vita economica non è che una parte della vita
storica", e che le leggi economiche devono essere conformi alle
leggi generali dello sviluppo storico. L'antitesi tra la teoria del
valore-lavoro e la teoria soggettivistica del valore, formulata da
Menger e da Böhm-Bawerk, era perciò ricondotta a una differenza di
concezioni del mondo.Hilferding coglieva così un punto di importanza
decisiva. La teoria del valore-lavoro s'inseriva, nel Capitale, in
un'analisi storico-sociologica della società borghese-capitalistica,
senza che fosse possibile isolare al suo interno un discorso
specificamente economico. Le leggi che Marx e il marxismo posteriore
si proponevano di scoprire erano leggi di sviluppo, tendenze
evolutive che emergono dal processo storico e che consentono di
spiegarlo. In questo l'impostazione marxiana era - al di là di
differenze tutt'altro che secondarie - affine a quella della scuola
storica di economia, qual era stata definita da Wilhelm Roscher nel
1843, nel Grundriss zu Vorlesungen über die Staatswirtschaft nach
geschichtlicher Methode, e poi ripresa da Bruno Hildebrand e da Karl
Knies: la distanza tra Marx e Roscher non era, tutto sommato,
diversa da quella che aveva polemicamente contrapposto, su un altro
terreno, Hegel a Savigny. Perciò la critica rivolta da Menger alla
scuola storica investiva pure, sebbene implicitamente, l'approccio
marxiano all'analisi dello sviluppo capitalistico.
Nelle Untersuchungen über die Methode der Sozialwissenschaften und
der politischen Oekonomie insbesondere (1883) Menger respingeva
infatti la riduzione dell'economia politica a scienza storica, cioè
a "parte organica di una scienza universale della società",
rivendicando la legittimità di un procedimento diretto a "isolare" i
fattori che stanno a base del comportamento economico. Egli
distingueva così tre approcci allo studio dei fenomeni economici: un
approccio teorico, inteso a determinare leggi generali e a spiegare
ogni fenomeno come caso specifico di una certa regolarità; un
approccio storico, inteso a descriverlo nella sua individualità e
nella sua posizione nello spazio e nel tempo; infine un approccio
"pratico", che doveva offrire regole per il governo dell'economia.
Economia politica, storia economica e politica economica si
presentavano quindi - in netto contrasto con l'impostazione della
scuola storica, ma anche di Marx - come discipline distinte anche se
interdipendenti. E le leggi economiche non erano concepite come
leggi di sviluppo, bensì come l'enunciazione di una regolarità nella
successione o nella coesistenza dei fenomeni che prescinde dal
riferimento a un contesto storico specifico. Quando Hilferding, al
termine della replica a Böhm-Bawerk, rimproverava alla scuola
storica di aver ignorato la teoria, sostituendola con la storia
economica, dimostrava di non saperne cogliere la parentela
metodologica con la teoria marxistica; e quando accusava il
marginalismo di condurre all'autodistruzione dell'economia politica
non si avvedeva che esso proponeva un paradigma teorico alternativo,
destinato a diventare dominante nella scienza economica tra Otto e
Novecento.
Dopo la polemica tra Böhm-Bawerk e Hilferding la teoria del
valore-lavoro conobbe infatti un duraturo declino, tanto che nel
1942 Schumpeter poté tranquillamente dichiararla "morta e sepolta".
L'economia marxistica - che proprio negli anni novanta aveva
ottenuto, soprattutto ad opera di Werner Sombart, una legittimazione
accademica - si contrappose a quella "borghese", senza produrre
contributi innovativi. Anche quando si metterà in questione la
validità del paradigma marginalistico, come nel complesso tentativo
di riformulazione della teoria del valore compiuto da Piero Sraffa
nel 1960 sulla base di un richiamo diretto a Ricardo, il risultato
non sarà la conferma della teoria del valore-lavoro, ma la proposta
di una teoria ad essa alternativa. E, infatti, per Sraffa
l'equivalenza tra valore e prezzo si ha soltanto nel caso di un
profitto pari a zero, cioè in un'ipotesi irreale dal punto di vista
marxiano.Tuttavia non per questo il riferimento al marxismo verrà
meno nelle complicate vicende della scienza economica di questo
secolo. La scuola neoclassica aveva privilegiato l'approccio
microeconomico rispetto a quello macroeconomico; le leggi che essa
ha enunciato concernevano infatti il comportamento degli individui o
di aggregati da essi derivati. E formulando una teoria
dell'equilibrio economico - sia questa una teoria dell'equilibrio
generale, come nel caso di Walras e poi di Pareto, oppure una teoria
degli equilibri parziali, come nel caso di Marshall - essa adottava
un modello statico, che doveva servire per spiegare il funzionamento
di un sistema economico nel quale la domanda e l'offerta tendono a
eguagliarsi. Ma questa duplice scelta si traduceva anche in un
limite, cioè nell'incapacità di spiegare le trasformazioni in atto
nell'economia capitalistica o - dopo la Rivoluzione sovietica - il
funzionamento di un sistema economico non capitalistico. Del resto,
anche al di fuori del marxismo il problema del capitalismo, della
sua origine, delle sue caratteristiche differenzianti si era
prepotentemente imposto all'attenzione degli studiosi nei primi anni
del secolo: lo comprovano i tentativi di interpretazione compiuti,
in quel periodo, da Sombart e da Max Weber. La risposta della
scienza economica all'esigenza di costruire un modello di sviluppo
compatibile con il paradigma marginalistico arrivò nel 1912, con la
Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung di Joseph Schumpeter.
Schumpeter prendeva le mosse dalla teoria dell'equilibrio generale
di Walras, che egli riteneva in grado di offrire un modello
interpretativo valido per un sistema considerato allo stato
stazionario, contrassegnato cioè da una crescita puramente
quantitativa. Ma tale teoria gli pareva del tutto inadeguata a
render conto della dinamica del sistema, cioè della trasformazione
provocata dall'introduzione di un nuovo bene o di un nuovo metodo di
produzione, o ancora dall'apertura di un nuovo mercato o dalla
conquista di una nuova fonte di risorse. Ed egli s'impegnava appunto
a elaborare un modello capace di spiegare l'insorgere di
innovazioni, e ne indicava la base nel comportamento
dell'imprenditore capitalistico. In questa prospettiva lo sviluppo
economico diventava il risultato di "grappoli" di innovazioni
concentrati in un certo periodo di tempo, che traggono origine dalla
rottura dell'equilibrio preesistente operata dall'agire
imprenditoriale. Esso assumeva così anche un carattere ciclico, in
quanto la diffusione delle innovazioni è destinata a sfociare in uno
nuovo stato di equilibrio, che dovrà a sua volta lasciare il posto a
una nuova fase innovativa. La teoria dello sviluppo si saldava con
il riconoscimento dell'esistenza di cicli economici, offrendo il
quadro teorico indispensabile per l'analisi delle crisi ricorrenti
nell'economia capitalistica.
Schumpeter elaborava in tal modo una visione che faceva leva non
sulle condizioni di realizzazione (e di mantenimento)
dell'equilibrio, ma sul venir meno di queste condizioni per effetto
del comportamento innovativo dell'imprenditore. Anche per lui, come
per Marx, il capitalismo si configurava come un sistema dinamico, il
cui sviluppo si fonda sulla ricerca del profitto e comporta
strutturalmente il ripetersi di crisi di diversa portata, prodotte
da elementi interni alla produzione capitalistica. Tra tale visione
e la concezione marxistica dello sviluppo capitalistico vi erano
però anche delle differenze sostanziali. Fedele all'"individualismo"
metodologico della scuola neoclassica Schumpeter riconduceva il
processo di innovazione al comportamento degli imprenditori
capitalistici, e non scorgeva in esso il prodotto dell'azione
determinante di leggi di mutamento. Perciò l'andamento ciclico
dell'economica capitalistica non implicava affatto, per lui, la
necessità di un esito fatale: anche quando più tardi, in Capitalism,
socialism and democracy (1942), Schumpeter sosterrà che la
progressiva meccanizzazione della funzione imprenditoriale avrebbe
condotto al declino del capitalismo, la sua prospettiva non sarà
quella del "crollo" ma piuttosto quella di una trasformazione in
un'economia pianificata, conseguente all'aumento degli investimenti
pubblici e alle politiche redistributive dello Stato.
Pure nelle teorie formulate, a partire da Oskar Lange e da Maurice
Dobb, per analizzare il funzionamento dell'economia pianificata nei
paesi socialisti, come del resto nelle teorie del sottosviluppo
economico, largamente diffuse soprattutto nel secondo dopoguerra, il
riferimento al marxismo e alle teorie economiche del Capitale è
stato per lo più indiretto, spesso puramente programmatico. Né è
difficile comprenderne i motivi. Il marxismo aveva offerto un
modello esplicativo globale del capitalismo e del suo sviluppo, ma
non si era mai preoccupato di delineare la struttura economica (o
anche politica) della futura società socialista. In quanto alle
teorie del sottosviluppo, e all'indicazione delle modalità di
passaggio da un'economia sottosviluppata a un sistema industriale,
Marx aveva escluso la possibilità di pervenire al comunismo
"saltando" il modo di produzione capitalistico. Anche su questo
terreno, se il marxismo fu prodigo di parole d'ordine di vasta
risonanza, non offrì alla scienza economica strumenti adatti per
interpretare una realtà profondamente mutata.
9. Marxismo e sociologia: la critica del materialismo storico e
l'eredità della teoria delle classi
Pur nascendo da una matrice differente dalla neonata sociologia
positivistica, il marxismo conteneva senza dubbio una sociologia
implicita. E rispetto all'edificio comtiamo esso aveva un triplice
vantaggio. Il primo era quello di dare una spiegazione di più lungo
periodo del sistema sociale che era emerso dal processo di
industrializzazione e dalla Rivoluzione francese, una spiegazione,
cioè, in termini di società borghese-capitalistica anziché di
società industriale, la quale riconduceva l'avvento dell'industria
al processo di sviluppo capitalistico. Il secondo era quello di
assumere la società moderna non come il sistema sociale definitivo,
ma come una formazione storica al pari di quelle che l'avevano
preceduta (anche se poi quel carattere di definitività, che Comte
attribuiva al sistema industriale, veniva escatologicamente
trasposto al comunismo). Il terzo era quello di dare
un'interpretazione conflittuale, e non 'armonicistica', sia della
società borghese-capitalistica sia delle società del passato. Il
nucleo teorico di questa interpretazione fu la teoria delle classi,
anzi - come si è visto - della lotta di classe.In verità Marx non ha
mai dato una teoria compiuta delle classi sociali: com'è noto, il
terzo libro del Capitale s'interrompe proprio a questo punto. Non
c'è dubbio, però, che il concetto marxiano di classe sociale si
salda strettamente con la concezione materialistica della storia. La
nozione di classe viene infatti sempre definita su base economica,
sulla base cioè della posizione che un gruppo sociale occupa
all'interno della struttura economica, e dalla quale dipendono anche
la sua politica e la sua cultura. Più precisamente, essa è definita
con riferimento al tipo di proprietà che caratterizza una
determinata formazione della società.
La funzione determinante delle classi e della lotta di classe nel
corso della storia risulta quindi strettamente legata con il primato
assegnato all'economia, in quanto struttura della società, rispetto
alle manifestazioni della sovrastruttura. Ma proprio questo primato
veniva messo in questione negli ultimi anni dell'Ottocento, e
all'interno stesso del marxismo. Bernstein aveva denunciato le
implicazioni deterministiche del materialismo storico, e soprattutto
la sua tendenza a ricondurre la molteplicità dei "fattori" operanti
nella vita sociale a un unico fattore, concepito come "fondamento"
rispetto agli altri. E aveva lucidamente osservato che proprio lo
sviluppo capitalistico tende ad accrescere l'autonomia della sfera
politica e di quella culturale, in ciò incontrandosi con l'esigenza
di determinare i "limiti" della concezione materialistica della
storia, avanzata da Kautsky. Negli stessi anni Benedetto Croce,
negando che il materialismo storico potesse esser considerato una
filosofia della storia alla stessa stregua, per esempio, di quella
di Hegel, lo riduceva a un "canone di interpretazione storica" che
ha avuto il merito di porre in luce "una somma di nuovi dati, di
nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico". Ma una
critica radicale della distinzione tra struttura e sovrastruttura
verrà, pochi anni dopo, da Max Weber, che in un celebre saggio
sull'"oggettività" delle scienze sociali pubblicato nel 1904
riprendeva la revisione di Bernstein all'interno di un quadro
epistemologico formulato in riferimento da un lato al neocriticismo
della scuola del Baden, dall'altro alla critica formulata da Menger
nei confronti degli "errori dello storicismo".
Qualsiasi tentativo di far valere, nella spiegazione storica, il
condizionamento univoco di un certo "fattore", come per esempio il
modo di produzione o la struttura di classe, o anche gli interessi
"materiali" in antitesi a quelli "ideali", urta contro le
caratteristiche metodologiche del procedimento esplicativo delle
scienze storico-sociali. La riduzione esclusiva a cause economiche
appare quindi a Weber del tutto insufficiente a spiegare non
soltanto i processi politici o culturali, ma gli stessi processi
economici. E contro di essa fa valere l'esigenza di tener conto del
condizionamento reciproco che si ha, per esempio, nel rapporto tra
struttura di classe, organizzazione politico-sociale, forme di
produzione e vita religiosa: un rapporto di cui egli mostrava il
punto d'incontro nell'etica economica delle religioni "universali",
sia essa quella orientata verso la fuga dal mondo che è prevalsa
nelle religioni della redenzione asiatiche, sia invece quella
dell'ascesi intramondana delle sette puritane.
La critica "positiva" del materialismo storico sviluppata da Weber
(com'egli stesso la definì) colpiva però altri due aspetti decisivi
della nozione marxiana di classe. Il primo era l'immagine di una
struttura dicotomica comune a qualsiasi società, in quanto risultato
dalla forma specifica di proprietà in essa vigente. Nei saggi
dedicati alla Wirtschaftsethik der Weltreligionen Weber poneva in
luce come alla base delle religioni della redenzione vi siano, al
momento della loro nascita, strati insoddisfatti del loro destino
terreno, strati artigianali o guerrieri o d'altra specie; ma
mostrava pure che la prospettiva di salvezza di cui esse sono
portatrici si diffonde ben presto al di là di questi strati,
indipendentemente dai loro interessi "materiali". E l'esito di
questo processo può essere storicamente quanto mai diverso, andando
dal sanzionamento religioso dell'ordinamento mondano alla sua
contestazione, cioè al tentativo di subordinare il "mondo" a
imperativi etico-religiosi. Il secondo aspetto era l'identità
postulata tra struttura sociale e struttura di classe. Anche
prescindendo dall'esistenza delle caste (di fronte a cui la dottrina
marxistica si era sempre trovata in imbarazzo), non tutti i gruppi
sociali sono definiti da una situazione di classe, ossia dal
possesso di determinati beni o dalla possibilità di acquisire
guadagno sul mercato dei beni; accanto ad essi vi sono gruppi
caratterizzati dalla considerazione sociale derivante dalla condotta
di vita, dall'educazione, dal prestigio dei loro membri. Classi e
ceti sono quindi modi di organizzazione sociale non certo
alternativi, ma che devono esser tenuti analiticamente distinti.
La critica di Weber, proprio perché formulata in termini di
condizionamento reciproco e non sulla base della tradizionale
alternativa tra "materialismo" e "spiritualismo" (come aveva fatto
nel 1896 Rudolf Stammler in Wirtschaft und Recht nach der
materialistichen Geschichtsauffassung), rendeva insostenibile una
concezione della storia fondata sul primato del "fattore" economico.
Essa portava la discussione su un nuovo terreno. Del resto,
l'importanza del ruolo degli intellettuali come guida
nell'organizzazione del partito e nell'azione rivoluzionaria veniva
sottolineata dallo stesso Lenin, soprattutto in Che fare? (1902). Ma
rivendicare il ruolo dell'intelligencija voleva dire,
implicitamente, ammettere l'esistenza, almeno in una particolare
situazione della lotta di classe, di un gruppo sociale non
condizionato dall'appartenenza dei suoi membri a una classe in senso
propriamente economico. Ciò portava in primo piano un elemento della
definizione di classe che in Marx (ma soprattutto nel Capitale) era
rimasto piuttosto in ombra: quello della "coscienza di classe". Marx
aveva distinto tra proletariato in sé e proletariato per sé,
riservando a quest'ultimo, cioè alla classe lavoratrice ormai unita
dalla consapevolezza dei propri interessi, la capacità di esprimere
il proprio potenziale rivoluzionario. Egli si era servito della
terminologia hegeliana; e a Hegel, non soltanto al suo linguaggio,
si rifaceva all'indomani della Rivoluzione sovietica Lukács, in una
raccolta di saggi dal titolo Geschichte und Klassenbewußtsein
(1923).
Contro Engels e il marxismo "volgare", rivestito di formule
positivistiche, Lukács faceva valere quello che riteneva essere il
marxismo "ortodosso", hegelianamente connotato dal metodo della
dialettica. E metodo dialettico voleva dire, per lui, l'assunzione a
categoria interpretativa fondamentale della categoria di totalità,
la quale sola consente di ricondurre tutti gli avvenimenti a un
processo unitario e di determinare in tal modo il "senso immanente"
della storia. Richiamandosi alla teoria marxiana dell'alienazione
Lukács respingeva come estraneo al marxismo ortodosso il presupposto
della specificità dell'economia come struttura del processo storico
e come elemento caratterizzante delle diverse forme di oggettività.
In tal modo Lukács non soltanto lasciava cadere la distinzione tra
struttura e sovrastruttura, ma poteva riprendere da Weber
l'interpretazione del capitalismo come razionalismo economico e
ritradurla in termini hegeliani. Mentre nei modi di produzione
precedenti la struttura sociale è una struttura politico-giuridica,
il capitalismo segna l'affermazione, e al tempo stesso la presa di
coscienza, del ruolo centrale che ha assunto l'economia. Nel
capitalismo, in altri termini, l'economia perviene all'esistenza per
sé, consentendo il sorgere di una coscienza di classe. Ma questa
possibilità non è esclusiva della borghesia; è comune ad essa e al
proletariato. Anzi, tra la coscienza di classe della borghesia e
quella del proletariato c'è una differenza essenziale: che la prima
non è in grado di rendersi conto dei limiti del sistema economico
capitalistico, cosicché si ha un'antitesi ineliminabile tra
l'ideologia e il fondamento economico, cioè una "falsa coscienza",
mentre la seconda è in grado di cogliere la direzione del processo
storico e il compito che la storia assegna al proletariato. Con ciò
il proletariato diventa il "soggetto" della storia, liberandosi (e
liberando l'umanità) dal processo di reificazione che ha
contrassegnato le epoche precedenti.
Lukács esprimeva in linguaggio hegeliano una prospettiva
rivoluzionaria svincolata dal materialismo storico. Anche da altre
parti, però, questo entrava in crisi. Non soltanto Karl Korsch, ma
anche Gramsci - largamente influenzato dalla critica di Croce, come
Lukács lo era da quella weberiana - sottolineava il ruolo degli
intellettuali nella direzione della vita sociale, e soprattutto nel
processo di conquista dell'"egemonia" da parte della classe
lavoratrice. Sia per costituirsi come classe, sia per affrontare la
lotta per l'egemonia e quindi per assumere la guida della società,
il proletariato ha bisogno dell'apporto degli intellettuali in
quanto categoria specializzata; più precisamente, esso ha bisogno
del lavoro di un intellettuale che sia "organico" ad esso, e che
rechi le proprie competenze di specialista al servizio della causa
rivoluzionaria. Da ciò un'interpretazione del marxismo come
filosofia della prassi, che coniugava il richiamo alla concezione
leniniana del partito con la ripresa della visione immanentistica
della storia formulata dall'idealismo.Così, già nel periodo tra le
due guerre la concezione materialistica della storia risultava
sostanzialmente abbandonata all'interno stesso del marxismo, mentre
la teoria delle classi sociali andava in cerca di formulazioni più
flessibili. La nozione di classe si avviava infatti a far parte del
patrimonio concettuale della sociologia, così come aveva ispirato,
in sede storiografica, un nuovo approccio alla ricostruzione delle
società del passato. In base ad essa Theodor Geiger intraprendeva,
nel periodo tra le due guerre, l'analisi della divisione di classe
nella società industriale avanzata, mostrando quanto l'impostazione
dicotomica del marxismo fosse inadeguata a renderne conto.
E a partire dagli anni cinquanta il suo impiego diventerà corrente
in sociologia, soprattutto nella sociologia europea. Mentre il
legame della teoria delle classi con il marxismo si affievoliva fin
quasi a scomparire, un altro filone di ricerca si affermava nella
cultura americana: quello che si richiamava alla teoria della
stratificazione. Questa strada era stata imboccata già nel 1927 da
un sociologo russo emigrato dopo la Rivoluzione, Pitirim Sorokin,
che in Social mobility formula un insieme di categorie analitiche
per determinare la collocazione dell'individuo all'interno della
società organizzata gerarchicamente per strati sovrapposti e le
modalità di passaggio da uno strato all'altro. In questa
impostazione la stratificazione economica, che Marx aveva collegato
alla nozione di classe, appariva una delle tre forme fondamentali di
stratificazione accanto a quella politica e a quella professionale;
e la rigidità attribuita alla società borghese-capitalistica cedeva
il posto all'immagine di una società dotata, più delle altre, di
prospettive di ascesa per l'individuo. Con Sorokin e con le
successive ricerche condotte da W.L. Warner nel secondo dopoguerra
l'analisi della struttura sociale poteva ormai prescindere dalla
teoria delle classi, o considerare la divisione in classi come uno
schema classificatorio al quale contribuiscono, combinandosi tra
loro, differenti criteri di determinazione del posto e del ruolo
dell'individuo.
La distinzione tra classe, status e potere esprimeva proprio questa
esigenza di definire la collocazione sociale dell'individuo in
riferimento a una pluralità di gruppi di appartenenza.La teoria
della stratificazione era stata elaborata con riferimento a una
società come quella nordamericana, dove le distinzioni di classe si
intrecciavano con distinzione di altra specie, soprattutto di
carattere etnico, e dove il tasso di mobilità era molto più elevato
che nella società europea. Qui, invece, il conflitto di classe era
più marcato, e anche più visibile; e la nozione di classe si
prestava meglio di altre a definire il posto della classe operaia,
del proletariato industriale. Ma lo sviluppo di quest'ultimo era
anch'esso avvenuto in una direzione assai diversa, addirittura
opposta a quella che Marx aveva previsto. Le riforme di fine
Ottocento ne avevano migliorato i livelli retributivi e le
condizioni di vita, la concessione del suffragio universale e
l'organizzazione dei partiti di massa ne avevano aumentato il peso
politico, mentre il Welfare State stava garantendo la sicurezza dal
bisogno. Soprattutto, però, i gruppi intermedi tra classe
capitalistica e classe lavoratrice, lungi dal venir meno, si erano
accresciuti e moltiplicati; la borghesia non si era proletarizzata
e, caso mai, era la classe lavoratrice a far propri i modelli e le
abitudini di consumo della borghesia. Anche concesso che la società
industriale mantenesse una struttura di classe, e che le divisioni
in classi fossero pur sempre quelle fondamentali, l'impostazione
dicotomica di Marx non reggeva più.
Da tale constatazione presero le mosse i tentativi di riformulare la
teoria delle classi sociali, che fiorirono numerosi nel corso degli
anni sessanta e settanta. Già nel 1957 Ralph Dahrendorf, in Soziale
Klassen und Klassenkonflikt in der industriellen Gesellschaft,
metteva in questione i criteri con cui il marxismo aveva definito
l'esistenza delle classi, e soprattutto il ruolo determinante
assegnato ai rapporti di proprietà, che egli tendeva piuttosto a
ricondurre a rapporti più generali di dominio e di subordinazione.
Alla base della divisione in classi vi è per Dahrendorf una
struttura di potere, non la struttura economica; mentre la divisione
in ceti poggia sul prestigio attribuito ai diversi gruppi che
costituiscono una società. Dahrendorf si collocava nel solco della
distinzione weberiana tra classi e ceti, collegandola con un'altra
nozione chiave della sociologia weberiana, quella di Herrschaft; e
di essa si serviva per analizzare la nuova configurazione che il
conflitto sociale aveva assunto nelle società industriali avanzate.
Ma il processo di revisione investiva anche i teorici del marxismo.
Nel 1963 un sociologo marxista polacco, Stanislaw Ossowski, fornì
un'analisi critica di quella che chiamava la "sintesi marxiana",
mostrando come in Marx confluissero schemi interpretativi diversi e
come a base della stessa impostazione dicotomica vi fosse, in
realtà, l'incrocio di criteri di divisione eterogenei. Egli
manteneva sì la tesi del ruolo fondamentale della nozione di classe
nel definire la struttura sociale, ma mostrava al tempo stesso come
l'interferenza di questi criteri mettesse capo a un'immagine della
società molto più articolata, e "gradualistica", di quella che ne
aveva offerto Marx. Pochi anni dopo Nicolas Poulantzas tentava di
innestare sulla teoria delle classi due distinzioni estranee alla
tradizione del marxismo, quella tra lavoro produttivo e lavoro
improduttivo e quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.
Anch'egli attribuiva alla posizione economica un ruolo centrale nel
determinare l'esistenza delle classi e l'appartenenza ad esse; ma
rivendicava l'autonomia di quella che Marx aveva considerato la
sovrastruttura, e quindi il ruolo dei fattori politici e culturali
nel configurare la struttura di classe di una società.
A differenza di quanto è avvenuto per la teoria del valore-lavoro,
la teoria delle classi è divenuta parte integrante della sociologia
contemporanea. Ma, più che la teoria, lo è diventata il
riconoscimento del ruolo che le classi - accanto a gruppi sociali di
altro tipo - rivestono nel determinare la struttura di una società.
In tale processo la nozione di classe è profondamente mutata; essa
si è per così dire 'pluralizzata' sia per quanto riguarda i criteri
che possono definirla, sia per quanto riguarda i soggetti a cui può
essere essere applicata. E proprio in questo netto distacco dalla
tradizione marxistica sta, forse, la ragione della sua permanente
fecondità.
10. Marxismo e antropologia: le 'rivoluzioni' produttive e la natura
dell'economia primitiva
Si è visto come l'interesse per la società primitiva sia, in Marx,
un interesse tardivo suscitato dalla lettura dei testi
dell'antropologia evoluzionistica, e in particolare di Morgan. Né,
d'altra parte, il volume di Engels contiene aggiunte sostanziali
all'impianto di Ancient society, e la sua maggiore originalità
consiste nel mostrare l'origine storica di istituzioni che, proprio
per il fatto di esser nate in un certo periodo dello sviluppo
dell'umanità, sono destinate a scomparire nella futura società senza
classi. Engels integrava nel marxismo la visione morganiana di
un'evoluzione socioculturale scandita secondo fasi predeterminate,
rintracciabili presso ogni popolo; ma si trattava di un rapporto a
senso unico, senza che i presupposti del marxismo incidessero sulla
nascente teoria antropologica. Anche il metodo comparativo, che
sembrava comune all'antropologia evoluzionistica e al marxismo,
celava un equivoco: poiché l'antropologia evoluzionistica andava in
cerca di regolarità di sviluppo, postulando una specie di scala
evolutiva indipendente dal tempo cronologico, sulla quale si
disponevano gruppi sociali lontani e privi di relazioni tra loro,
mentre al marxismo interessava cogliere all'opera leggi di mutamento
in grado di spiegare il processo plurisecolare che ha condotto alla
società borghese-capitalistica.
Non deve quindi sorprendere che la grande stagione dell'antropologia
novecentesca, inaugurata dall'opera di Franz Boas e della scuola
boasiana negli Stati Uniti, e parallelamente da quella di Bronislaw
Malinowski e di A.R. Radcliffe-Brown nel mondo inglese, non rechi
traccia rilevante di rapporti con il marxismo. I presupposti a cui
essa si è richiamata sono stati piuttosto quelli dell'idiografismo
della ricerca sul campo, che Boas trasferiva dallo studio delle
società storiche allo studio delle culture preletterate, oppure
quelli del funzionalismo antropologico, inteso a concepire la
cultura come un complesso di relazioni funzionali in vista del
soddisfacimento di certi bisogni. Dovrà trascorrere quasi mezzo
secolo perché il metodo comparativo impiegato dall'antropologia
evoluzionistica ritorni a essere praticato come strumento di
analisi, e si cerchi di delineare le fasi dello sviluppo umano nel
corso della preistoria. Questa svolta ha inizio con l'opera di V.
Gordon Childe e dà luogo, nel secondo dopoguerra, a quella composita
corrente antropologica che va sotto il nome di neoevoluzionismo.
Utilizzando schemi divenuti correnti nella ricerca archeologica, ma
con una documentazione molto più ricca di quella disponibile ai
tempi di Morgan, Childe si è proposto, intorno alla metà del secolo,
di delineare le modalità del passaggio dal Paleolitico al Neolitico,
e quindi all'età del bronzo e a quella del ferro. Il termine di
riferimento della sua analisi è, ancora una volta, Morgan,
reinterpretato in chiave marxistica - ma sulla base non tanto del
volume di Engels, quanto delle prospettive d'indagine elaborate
dall'archeologia sovietica degli anni trenta. Childe riconduce
infatti le periodizzazioni usate in sede archeologica alla
tripartizione morganiana, facendo coincidere il Paleolitico con lo
stato selvaggio, il Neolitico con la barbarie e il passaggio all'età
del bronzo con la nascita della civiltà. L'impostazione
evoluzionistica subisce però una correzione importante. Il passaggio
dal Paleolitico al Neolitico, e da questo all'età dal bronzo e poi
all'età del ferro, non costituisce per Childe il risultato di un
processo evolutivo continuo, ma comporta una rivoluzione nel modo di
produrre che investe anche l'organizzazione della società. Il
passaggio dal Paleolitico al Neolitico è reso possibile dalla
rivoluzione agricola, cioè dal passaggio da un'economia di raccolta
a un'economia fondata sulla produzione del cibo. Analogamente, il
passaggio dal Neolitico all'età del bronzo coincide con la nascita
delle città, e rappresenta quella che egli chiama la rivoluzione
urbana: l'eccedenza produttiva, resa possibile dal controllo delle
acque a scopi agricoli, rende possibile la formazione di gruppi
sociali che non si dedicano direttamente alla produzione del cibo o
alla fabbricazione degli strumenti per la coltivazione dei campi, ma
si impegnano in attività intellettuali.
Con la rivoluzione urbana nascono la divisione del lavoro, la
distinzione tra lavoro manuale e intellettuale, l'amministrazione
statale, ma anche un ceto sacerdotale e un ceto di scribi spesso
coincidente o subordinato a quello. Questo processo ha il suo centro
di irradiazione in Mesopotamia e nelle regioni circostanti,
anch'esse caratterizzate dalla presenza di grandi fiumi, cioè nelle
valli del Nilo e dell'Indo; e di qui va gradualmente irradiandosi in
regioni sempre più lontane. Viene così in luce un altro elemento
distintivo della posizione di Childe rispetto a Morgan e a Engels:
il rilievo che egli attribuisce ai processi di diffusione. La
rivoluzione urbana è un fenomeno in qualche senso unico,
geograficamente localizzato, che a partire dal 3000 a.C. si estende
progressivamente verso oriente fino alla Cina e verso occidente nel
bacino del Mediterraneo. Questo processo di diffusione comporta
anche un adattamento ad ambienti nuovi, e quindi una progressiva
differenziazione tra gruppi pervenuti a uno stesso livello di
civiltà. Se la società del Paleolitico è ancora largamente uniforme,
e si differenzia soltanto per il tipo di cibo che l'ambiente offre
alla raccolta o alle attività di caccia e di pesca, già nel
Neolitico non esiste una sola cultura, ma una varietà di culture con
caratteri ben distinti. La tendenza alla differenziazione crescente
è il correttivo metodologico che Childe introduce nella visione
morganiana di un processo evolutivo uniforme.
L'evoluzione socioculturale è dunque un processo che si compie per
"salti", per grandi trasformazioni che hanno la loro base nel modo
di produzione. Anche per Childe, dunque, l'economia è il "motore"
della storia, o più precisamente della preistoria; e dal mutamento
produttivo deriva quello dell'organizzazione sociale. Ma il
mutamento produttivo è in primo luogo progresso tecnologico. E
infatti, dopo Childe, il neoevoluzionismo verrà sempre più
sottolineando - soprattutto ad opera di Leslie H. White, e poi anche
di Marvis Harris - il ruolo decisivo della tecnologia come fattore
di trasformazione. Accanto a questo, però, ne emergeva un altro non
meno importante, di cui la scuola boasiana (e non soltanto essa)
aveva mostrato la portata: l'adattamento o, meglio, la risposta
all'ambiente. Se il progresso tecnologico è un elemento di
uniformità, il rapporto con l'ambiente è invece un elemento di
differenziazione culturale. Privilegiando l'uno oppure l'altro ne
derivano due diverse immagini dell'evoluzione, quella di
un'evoluzione unilineare per stadi universali comuni a tutti i
popoli - che Engels condivideva con Morgan, e che White riprendeva
da quest'ultimo - e quella di un'evoluzione multilineare, diversa da
ambiente ad ambiente. Lo sforzo di Julius H. Stewart è stato appunto
quello di riformulare la teoria evoluzionistica in questo secondo
senso, correlando le variabili tecnologiche con le differenze
ecologiche; e sulla sua scia si sono mossi molti altri antropologi
di orientamento neo-evoluzionistico, da Marshall Sahlins a Elman R.
Service e a Robert Mc. C. Adams. La teoria dell'evoluzione
multilineare veniva così staccandosi nettamente dalla matrice
morganiana, e lasciava cadere quel primato della struttura economica
che Engels vi aveva innestato.Anche per un'altra via, però, il
marxismo ha agito nel dibattito antropologico contemporaneo:
attraverso lo studio dei sistemi economici non capitalistici
sviluppatisi al di fuori dell'ambito europeo.
Nel 1944 Karl Polanyi pubblicava The great transformation, un'opera
a cavallo tra antropologia ed economia, nella quale il sorgere
dell'economia di mercato connessa al capitalismo ottocentesco era
visto come una svolta epocale che ha prodotto un sistema sociale
eterogeneo rispetto a tutti i precedenti. Nel passato l'economia è
sempre stata inserita in istituzioni economiche, ma soprattutto non
economiche, che l'hanno regolata facendo valere i principî della
reciprocità nello scambio e della ridistribuzione delle ricchezze;
il comportamento economico e lo stesso mercato erano condizionati da
imperativi di carattere religioso o politico. Anche il capitalismo,
nella sua fase mercantilistica, si è sviluppato sotto la spinta e il
controllo dello Stato moderno. Nel secolo XIX si è invece affermato
il mercato autoregolato, sottratto a ogni controllo esterno, e con
esso un sistema che tendeva ad "annullare la sostanza umana e
naturale della società". Come già per Max Weber, anche per Polanyi
il capitalismo moderno è un sistema economico-sociale unico nella
storia, che però, diversamente da Weber, Polanyi considera
profondamente innaturale. Di questo sistema l'economia politica ha
formulato le leggi, proiettandole poi sull'intera storia
dell'umanità e pretendendo che valessero per qualsiasi sistema
società.
Riprendendo in forma originale la "critica" dell'economia politica
di Marx, Polanyi ha sottolineato la necessità di studiare le
economie del passato - e, in particolare, quelle primitive -
prescindendo dalle categorie dell'economia di mercato.
L'antropologia economica diventava perciò l'alternativa metodologica
all'economia politica. Come questa ha posto in luce il funzionamento
dell'economia poggiante sul mercato autoregolato, così
l'antropologia economica permette la comprensione degli altri
sistemi economico-sociali.L'interesse di Karl A. Wittfogel va invece
a un capitolo poco sviluppato del marxismo: il modo di produzione
asiatico e il suo rapporto con quello che Marx aveva chiamato il
"dispotismo orientale" (da cui prende il titolo la sua opera
maggiore, apparsa nel 1957). Per Wittfogel il modo di produzione
asiatico non rappresenta però uno stadio universale nello sviluppo
che dalla comunità tribale conduce al capitalismo; al contrario,
esso designa una formazione complessa, un'organizzazione
dell'economia e della società che si è venuta stabilizzando nel
corso dei millenni. Mentre Marx aveva caratterizzato il modo di
produzione asiatico con la coesistenza della comunità di villaggio e
di un potere dispotico ad essa esterno, detentore della proprietà
del terreno, Wittfogel ne indica il fondamento nella società
idraulica, ossia in una società che realizza uno sfruttamento
intensivo del suolo attraverso la regolazione delle acque. Ma perché
una società del genere possa funzionare non basta l'esistenza di un
potere centrale al quale affluisca, sotto forma di tributi,
l'eccedenza produttiva dei villaggi sottoposti al suo controllo;
occorre un'organizzazione del lavoro che può essere garantita
soltanto da un'efficiente burocrazia centralizzata. Lungi dall'avere
il suo centro nella comunità di villaggio, la società idraulica
richiede un'economia manageriale e una direzione burocratica;
richiede l'esistenza di uno Stato controllore più che proprietario.
Già in essa, quindi, compare una divisione in classi contrapposte:
da una parte la burocrazia detentrice del potere, e di un potere
totale, dall'altra il resto della popolazione, costretto a prestare
la propria forza-lavoro per la costruzione delle opere di
regolazione.
La società di classe, con la sua struttura tipicamente dicotomica,
viene così rintracciata anche in seno alla società idraulica. Nello
stesso tempo Wittfogel - studioso del mondo cinese e, più in
generale, orientale - identifica in maniera esplicita l'ambito
geografico di questa formazione con il continente asiatico. Ma il
continente asiatico comprende per lui anche la Russia, sia quella
tradizionale sia quella sovietica. Il regime instaurato dalla
Rivoluzione non ha nulla a che fare con il comunismo preconizzato da
Marx; è invece una riedizione ammodernata del dispotismo
orientale.Se Polanyi ha contribuito in maniera decisiva al sorgere
dell'antropologia economica, l'analisi di Wittfogel ha un più
spiccato intento ideologico. Né l'uno né l'altro si sono proposti di
sviluppare un'antropologia marxistica; e, del resto, per entrambi il
marxismo è uno solo dei termini di riferimento del loro discorso.
Questo proposito è invece centrale nel lavoro di Maurice Godelier,
sviluppatosi negli anni sessanta e settanta in un ambiente dominato
dalla presenza dello strutturalismo lévi-straussiano e
dall'importanza da esso attribuita alle strutture della parentela.
Godelier intende mostrare la fecondità della nozione di modo di
produzione asiatico, ma svincolata - contrariamente a quanto aveva
fatto Wittfogel - dal concetto di dispotismo orientale: essa non
designa un'economia di tipo schiavistico, bensì il passaggio da
un'organizzazione comunitaria a una società di classe, in cui si
afferma la diseguaglianza tra gruppi sociali differenti. Questo
passaggio è caratterizzato per un verso dal sorgere di rapporti
sociali indipendenti dai rapporti di parentela fin allora dominanti,
per l'altro verso da quel progresso delle tecniche produttive già
posto in rilievo da Childe.
Lungi dall'essere condannate alla stagnazione, come voleva
Wittfogel, le società in cui domina il modo di produzione asiatico
segnano il superamento della forma comunitaria di organizzazione:
mentre i rapporti di parentela erano insieme struttura e
sovrastruttura, ora i due termini vengono a separarsi e nascono
istituzioni specifiche di carattere politico o religioso. Ma
Godelier si differenzia da Wittfogel (e dallo stesso Marx) su un
altro punto decisivo: nel rifiuto della delimitazione geografica del
modo di produzione asiatico. Questo è rintracciabile non soltanto
nel continente asiatico, ma anche in Africa e nell'America
precolombiana. Una rilettura corretta del testo di Marx, svincolata
dalla commistione con l'evoluzionismo di Morgan, offre la chiave
interpretativa per l'analisi delle società extraeuropee, in cui lo
sviluppo delle forze produttive ha preso una direzione diversa da
quella che ha condotto al capitalismo. Anzi, proprio il riferimento
a Marx permette di correggere lo schema di un'evoluzione unilineare,
e di considerare la successione dei modi di produzione indicati nei
Grundrisse come riferita in modo specifico al processo storico
dell'Occidente.
11. Il marxismo tra concezione del mondo, critica delle ideologie e
ideologia
Negli ultimi anni di vita Engels aveva cercato di completare il
marxismo con una filosofia della natura entro cui sistemare le più
importanti acquisizioni della scienza ottocentesca, dalla teoria
dell'elettricità alla teoria dell'evoluzione. Anche se il testo
della Dialektik der Natur verrà pubblicato soltanto nel 1925, le
linee del suo progetto erano note, soprattutto dall'esposizione
divulgativa che Engels ne aveva dato nell'Antidühring, e diventarono
uno degli elementi della koiné dottrinale marxistica. Il marxismo
cessava di essere in primo luogo scienza della società per assumere
la veste di una concezione generale del mondo, in grado di
determinare i principî della conoscenza scientifica della realtà
intera. Il "movimento operaio tedesco" diventava - secondo la
formulazione di Engels - "l'erede della filosofia classica tedesca".
Si compiva in tal modo il primo passo verso una sistematizzazione
del pensiero di Marx e di Engels, in virtù della quale il
materialismo dialettico si affiancava al materialismo storico e
veniva a costituirne, in qualche maniera, la base filosofica. Questo
processo fu proseguito soprattutto in ambiente russo, da Plechanov e
dal Lenin dei Quaderni filosofici - apparsi nel 1929-1930 ma
scritti, per la maggior parte, nel periodo iniziale della guerra - e
mise capo alla filosofia ufficiale della Russia staliniana, il
Diamat. In virtù di esso il marxismo veniva interpretato come una
filosofia materialistica, che aveva le sue premesse nel materialismo
settecentesco ma che se ne differenziava per la sua interpretazione
dialettica della natura e della storia. La dialettica hegeliana,
riletta con lo sguardo rivolto più alla scienza della logica che
alla filosofia dello spirito oggettivo, si presentava come la
struttura del movimento e, nello stesso tempo, come il fondamento
della sua intelligibilità. In conformità a una chiave interpretativa
largamente diffusa nella letteratura hegeliana, si conservava il
metodo dialettico lasciando cadere il "sistema" di Hegel, e
sostituendolo con una metafisica materialistica in cui l'economia
diventava la "materia" del processo storico.Questa concezione del
mondo ha trovato nel 1909 il suo corollario gnoseologico, nel corso
della polemica di Lenin contro l'empiriocriticismo, nella teoria
della conoscenza come "rispecchiamento". Essa serviva a Lenin, e
servirà a Stalin, per difendere il carattere oggettivo delle leggi
storiche come di quelle naturali, evitando il pericolo
soggettivistico che essi vedevano nella teoria "economica" della
conoscenza così come in quella neokantiana, spesso accolta dai
teorici dell'austro-marxismo.
La vecchia formula dell'adaequatio rei et intellectus veniva
combinata, senza troppe preoccupazioni di coerenza, con una
metafisica materialistica riformulata in linguaggio hegeliano. Il
risultato fu una scolastica filosofica fortemente ripetitiva, che
non si stancava di proclamare la superiore verità della concezione
marxistica del mondo nei confronti non soltanto delle filosofie
"borghesi" ma anche di molti orientamenti della scienza novecentesca
- a partire, ovviamente, dalla teoria della relatività e dal
principio di indeterminazione, che sembravano mettere in questione
l'oggettività delle leggi naturali.Accanto a questo filone venne
tuttavia affermandosi, già nel corso degli anni venti, una diversa
interpretazione del marxismo che ne rivendicava anch'essa il
significato filosofico, ma andando a cercarlo altrove, fuori della
proclamata discendenza del materialismo dialettico da quello
settecentesco. Piuttosto paradossalmente, però, anche il marxismo
"occidentale" - come lo denominerà ne Les aventures de la
dialectique (1955), con un'espressione fortunata, Maurice
Merleau-Ponty - rivendicava il ruolo centrale del rapporto di Marx
con Hegel, offrendo una lettura hegeliana di Marx prima ancora che
vedesse la luce il testo dei manoscritti parigini del 1844.
Si trattava però non di materialismo dialettico, bensì di dialettica
senza materialismo, di una dialettica il cui campo di azione veniva
limitato al mondo storico, con il conseguente rifiuto della
dialettica della natura enunciata da Engels. Anche Lukács separava
il metodo dalla costruzione sistematica di Hegel, assumendo la
dialettica come il metodo del marxismo "ortodosso"; ma lo Hegel a
cui faceva riferimento era il teorico dell'alienazione (e della
reificazione), non quello della logica e della filosofia della
natura. Da ciò è derivata una concezione della conoscenza che
respingeva la teoria del rispecchiamento, per richiamarsi piuttosto
alla polemica hegeliana contro l'intelletto astratto. Alla
razionalità del sapere scientifico, anch'esso visto come un prodotto
della reificazione propria della coscienza borghese, Lukács
contrapponeva la razionalità dialettica del materialismo storico,
l'unica capace di cogliere la totalità del processo. Tra le scienze
e la concezione marxistica s'instaura così un rapporto analogo a
quello che per Hegel sussisteva tra l'intelletto astratto e la
ragione concreta; solo che la distinzione veniva ora fatta
corrispondere a quella tra la coscienza reificata della borghesia e
la coscienza "vera" del proletariato. Analoga è la posizione di Karl
Korsch allorché, in Marxismus und Philosophie (1923), interpreta il
marxismo come una "critica" non soltanto dell'economia politica, ma
della filosofia e delle scienze borghesi, capace di superare il
punto di vista particolare di queste ultime.
Anche se su una piattaforma differente da quella dell'ultimo Engels
e di Lenin, il marxismo si presentava come una concezione generale
del mondo, che doveva determinare il quadro di riferimento delle
singole discipline scientifiche.Questo orientamento apparenta, pur
nella diversità tutt'altro che secondaria della tradizione
filosofica a cui si richiamano e delle formulazioni a cui
pervengono, la maggior parte degli indirizzi del marxismo del
Novecento. Man mano che veniva in luce la problematicità
dell'analisi dello sviluppo capitalistico compiuta dalla marxiana
scienza della società, il marxismo approdava ai lidi più
rassicuranti della filosofia. Se nei Quaderni del carcere di Gramsci
la presenza dell'idealismo di Croce (e di Gentile) è corretta dallo
sforzo di utilizzare gli strumenti del marxismo per comprendere la
società italiana e le sue condizioni di arretratezza, a partire
dalla metà del secolo il marxismo diventa, specialmente nei paesi
latini, una corrente filosofica variamente intrecciantesi con
dottrine di diversa origine. Alla lettura hegeliana di Marx fa
spesso riscontro, soprattutto nella cultura francese, una lettura in
chiave marxistica degli scritti giovanili di Hegel e della
Fenomenologia dello spirito, propiziata dai corsi di Alexandre
Kojève. Così, per esempio, nella Critique de la raison dialectique
(1960) Jean-Paul Sartre combinava il marxismo con l'eredità della
fenomenologia husserliana e dell'esistenzialismo, mentre negli anni
immediatamente successivi Louis Althusser ne forniva
un'interpretazione strutturalistica, andando in cerca di una
"frattura" gnoseologica all'interno dello sviluppo del pensiero
marxiano, coincidente con il passaggio dall'umanesimo del giovane
Marx all'analisi del Capitale.
Nacque in tal modo, attraverso un'accumulazione dottrinale che
espungeva sia le prospettive riformistiche sia il massimalismo
rivoluzionario, il marxismo-leninismo e poi - come variante
dogmatizzata di esso - il marxismo dell'età staliniana; e ad esso si
contrapposero, spesso combinando la presa di posizione teorica con
l'adesione al partito comunista, le non poche varianti del marxismo
"occidentale". Ma la tendenza a tradurre il marxismo in una
concezione generale del mondo si accompagnava anche a un diverso
rapporto con l'ideologia. Marxismo e ideologia erano, agli occhi di
Marx, termini antitetici: l'"ideologia tedesca" era per lui non
soltanto una teorizzazione estranea alla realtà, ma anche una
mistificazione della realtà, una forma di "falsa coscienza". Anche
se nei testi marxiani si trova non tanto una teoria quanto l'impiego
del concetto di ideologia, non c'è dubbio che questo rivesta
costantemente, fin dalla polemica contro Feuerbach, una valenza
negativa: in quanto pretende di "innalzarsi al di sopra del mondo",
e quindi di essere svincolata dalle condizioni reali di esistenza
degli uomini, che sono appunto condizioni materiali, l'ideologia
comporta un rovesciamento del rapporto tra coscienza e realtà. Le
dottrine che la cultura borghese ha formulato sono perciò
inevitabilmente "ideologiche", mentre non lo è, né può esserlo, il
materialismo storico. Anzi, il compito della critica marxistica
consiste precisamente nello svelare il carattere fittizio della
pretesa di autonomia di quelle dottrine, cioè nel mostrare il loro
rapporto con il fondamento economico dell'esistenza.
E infatti il marxismo promosse - con il contributo decisivo offerto
da Marx negli scritti storici successivi al 1848 - la critica delle
ideologie, ponendo in luce il legame di dottrine politiche, di
credenze religiose, di posizioni filosofiche con gli interessi di
determinati gruppi sociali. Anche se nella forma schematica - e
spesso anche schematicamente applicata, perfino da parte di autori
come il Kautsky di Der Ursprung des Christentums (1920) o il Lukács
della Zerstörung der Vernunft (1953) - rappresentata
dall'affermazione del carattere sovrastrutturale delle
manifestazioni intellettuali, esso aprì nuove prospettive alla
comprensione storica. Certamente il marxismo non fu solo ad agire in
questa direzione; anzi, il suo apporto si coniugò variamente con la
teoria paretiana dei "residui" e delle "derivazioni", e anche con la
ricerca delle radici "profonde" del pensiero intrapresa da Freud.
Ma il riconoscimento del condizionamento sociale delle idee è
all'origine di un filone di analisi che, attraverso Weber, conduce
fino alla sociologia del sapere di Mannheim.In Ideologie und Utopie
(1929) Mannheim allargava e al tempo stesso correggeva la nozione
marxiana di ideologia, attribuendo ad essa un significato non più
negativo ma neutrale. Egli muoveva dalla distinzione di due concetti
di ideologia: un concetto "particolare" di ideologia, in virtù del
quale vengono qualificate come ideologiche determinate posizioni
dottrinali che si ritengono false e che si vogliono perciò
confutare, e un concetto "totale", che si riferisce all'intera
intuizione del mondo dell'avversario, con l'intento di renderne
possibile un'analisi storico-sociologica. Ed egli attribuiva appunto
al marxismo il merito di aver formulato per la prima volta,
attraverso l'affermazione di una coscienza di classe condizionata
dal grado di sviluppo delle forze produttive, questo secondo
concetto. Il marxismo lo aveva però impiegato in maniera "speciale",
sottraendosi al tipo di analisi che applicava alle altre dottrine.
Occorreva quindi compiere il passaggio a una concezione "generale"
dell'ideologia, il che vuol dire applicare al marxismo stesso la
critica da esso rivolta alle altre posizioni. Si compiva così, nella
critica delle ideologie, una svolta rappresentata dal riconoscimento
del condizionamento sociale di qualsiasi forma di pensiero, o per lo
meno di quello che Mannheim - escludendo la conoscenza scientifica
della natura - chiamava il "pensiero storico-politico". Entro questo
quadro egli distingueva tra ideologia e utopia, considerate come
orientamenti di pensiero alternativi tra loro, l'una intesa a
giustificare l'assetto sociale esistente e l'altra rivolta al
futuro, in uno sforzo di trasformazione della realtà; e le
riconduceva al conflitto tra gruppi sociali dominanti e gruppi
oppressi. Anche il materialismo storico, nonostante le sue pretese
di scientificità, veniva fatto rientrare in questo schema
interpretativo.Sulla necessità di riconoscere il condizionamento
sociale anche della teoria marxistica la sociologia del sapere
s'incontrava, in realtà, con le posizioni del marxismo
"occidentale".
Anche Lukács, in Geschichte und Klassenbewußtsein, l'aveva
proclamata esplicitamente. Il materialismo storico, in quanto
"autoconoscenza della società capitalistica", dev'essere
interpretato in base ai propri principî; ma ciò non conduce alla sua
relativizzazione, poiché esso rimane pur sempre, secondo Lukács, "il
vero metodo storico", in quanto la comprensione della totalità del
processo storico e della sua direzione di sviluppo è riservata alla
coscienza di classe del proletariato. Più complessa è la teoria
delle ideologie elaborata, nella prima metà degli anni trenta, da
Gramsci. Egli riprendeva il tema del ruolo degli intellettuali
affrontato da Mannheim, ma pervenendo a una conclusione opposta.
Mannheim aveva attribuito all'intelligencija una funzione
mediatrice, anzi di "sintesi", nei confronti delle ideologie (e
delle utopie) in conflitto, resa possibile dal carattere
freischwebend proprio degli intellettuali. Gramsci, invece, vedeva
gli intellettuali coinvolti anch'essi nella lotta di classe, e
quindi "organici" al partito e alla classe da esso rappresentata. Il
loro compito risultava perciò duplice: da un lato un compito
positivo, quello di contribuire all'elaborazione di una concezione
del mondo rispondente agli interessi e alle aspirazioni della
propria classe, dall'altro un compito negativo, quello di criticare
le concezioni del mondo che esprimono gli interessi delle classi
avversarie. All'intellettuale spettava così non soltanto
l'organizzazione del consenso, ma anche la critica delle ideologie
concorrenti. Anche il marxismo è infatti, per Gramsci, un'ideologia;
ma, a differenza delle ideologie borghesi, è un'ideologia
scientifica, intrinsecamente dotata di una capacità demistificante
nei loro confronti.
Mentre il marxismo "occidentale" cercava variamente di far
coesistere la "verità" del marxismo con il riconoscimento del suo
carattere ideologico, il marxismo sovietico tendeva a presentarsi
come una costruzione compatta e non suscettibile di essere scalfita;
lo scostamento dai suoi principî era bollato come deviazionismo.
Esso diventava perciò sempre più un'ideologia in senso negativo. Il
potenziale critico del marxismo fu lasciato cadere; e alla ricerca
economica o sociologica fu assegnato, quasi sempre, il compito di
dare una conferma a posteriori della validità di una concezione del
mondo che, in quanto tale, pretendeva di collocarsi su un piano
gnoseologico superiore al sapere scientifico.
Da critica delle ideologie il marxismo venne così degradandosi in
un'ideologia al servizio del paese-guida del comunismo mondiale. E
se la capacità di attrazione dell'Unione Sovietica - ancora assai
forte negli anni cinquanta e sessanta, come mostra emblematicamente
il caso di Sartre - venne gradualmente scemando, per cedere il posto
alla rivendicazione di una pluralità di "vie nazionali" al
socialismo, il richiamo della rivoluzione trovò alimento nel '68.
Solo che questa rivoluzione era assai lontana dal modello teorico
che ne aveva dato Marx. Il Welfare State aveva privato la classe
lavoratrice della sua carica rivoluzionaria: il soggetto della lotta
contro il capitalismo doveva quindi esser cercato non più nel
proletariato imborghesito, ma in ceti sociali emarginati o devianti,
non assimilabili a una classe in senso marxistico. Ma, soprattutto,
il successo della Rivoluzione cinese e il diffondersi di regimi
socialisti da Cuba al continente africano mostravano che la
rivoluzione era diventata - in netto contrasto con quanto aveva
presagito Marx - merce di esportazione per paesi economicamente
arretrati. Così alla visione dello sfruttamento di classe subentrò
quella dello sfruttamento del Terzo Mondo da parte dei paesi
capitalistici, reso possibile dalla divisione internazionale del
lavoro. A questa prospettiva fornì una base teorica la ripresa della
teoria dell'imperialismo, sovente combinata con la contrapposizione
tra la politica colonialistica del capitalismo e l'appoggio prestato
dal mondo comunista alle lotte di liberazione dei popoli oppressi.
L'ideologia marxistica diventava così, il più delle volte,
un'ideologia terzo-mondistica che trasferiva le prospettive di
emancipazione al di fuori del mondo capitalistico.
12. Conclusione
Sorto in un'epoca nella quale soltanto l'economia politica aveva
conseguito un grado soddisfacente di autonomia disciplinare,
costituendo un proprio corpus teorico, il marxismo si era proposto
di offrirne una "critica" capace di liberare le sue categorie
dall'assolutezza che presentavano in Smith e in Ricardo. Il
risultato era stato, come si è visto, la storicizzazione sia
dell'economia politica sia del suo oggetto. A questa operazione si
era accompagnato il tentativo di costruire, coniugando le categorie
economiche con una concezione della storia come progresso, una
scienza della società che ne determinasse le leggi oggettive di
sviluppo e permettesse quindi, oltre che di spiegarne i processi,
anche di predire la direzione del suo sviluppo futuro. Questo
programma era analogo a quello della sociologia positivistica, anche
se presupposti e risultati erano divergenti: anch'essa proponeva
infatti una critica delle dottrine dell'economia politica, anch'essa
assorbiva in sé la scienza politica, anch'essa non ammetteva la
legittimità di discipline rivolte a studiare singoli aspetti o
settori della vita sociale.
Marx si richiamava alla dialettica hegeliana, mentre Comte innestava
il modello di una società organica ereditato dall'ideologia della
Restaurazione sui tentativi tardosettecenteschi di una scienza
dell'uomo ispirata alla fisiologia; ma il modello epistemologico di
una scienza unitaria della società, coincidente con la filosofia
della storia, era comune. Il parallelo tra Hegel e Comte, proposto
da Oskar Negt, è probabilmente più appropriato nel caso di
Marx.Questo modello ha dominato la sociologia come, in qualche
misura, anche l'antropologia evoluzionistica ottocentesca, mentre è
stato sostanzialmente estraneo (già in Smith e in Ricardo) allo
sviluppo della scienza economica. Ma anche in sociologia e in
antropologia esso è ben presto entrato in crisi. Già all'indomani
del compimento del grandioso edificio del Capitale esso appariva
difficilmente sostenibile. Con Tönnies e Durkheim aveva inizio,
nella sociologia europea, il processo di distacco dal positivismo; e
se la prima generazione dei sociologi d'oltreoceano - quella di
Lester F. Ward, di William Graham Sumner (l'autore di Folkways), di
Albion A. Small - si muove ancora in un orizzonte che ha come
termini di riferimento principali Darwin e soprattutto Spencer, già
nei primi decenni del Novecento anche la sociologia americana
imbocca strade nuove.
E in antropologia le prospettive evoluzionistiche vengono sottoposte
a una critica radicale fin dai primi anni del nuovo secolo. Al
modello di una scienza onnicomprensiva della società o
dell'evoluzione umana si sostituisce - e, sul terreno
epistemologico, si contrappone - la realtà di molteplici discipline
indipendenti, che rinunciano all'ambizione di un'interpretazione
"globale" della società. Le scienze sociali si separano dalla
filosofia della storia; anzi, ne respingono la stessa possibilità, o
per lo meno negano ad essa qualsiasi rilevanza scientifica.Lo
sviluppo delle scienze sociali ha così percorso vie divergenti da
quella indicata da Marx. Ciò che è venuto meno, nel corso del secolo
e mezzo che ci separa ormai dagli anni in cui Marx elaborò il suo
progetto di analisi della società borghese-capitalistica, è proprio
il nesso tra scienza della società e concezione generale della
storia, da cui discendeva la pretesa di determinare la direzione
dello sviluppo storico nel futuro prossimo o remoto.
Le scienze sociali sono oggi diventate un universo disciplinare
composito, caratterizzato dalla compresenza di teorie e di metodi
differenti, non riconducibili a una matrice unitaria. Ciò non vuol
dire che tra queste discipline e i loro apparati teorico-concettuali
non siano frequenti gli scambi, che i concetti da esse formulati non
possano essere trasferiti in contesti disciplinari diversi da quello
originario. Ma l'interdisciplinarità della ricerca non significa
affatto - com'è stata talvolta intesa - riducibilità a una base
teorica comune; meno che mai può significare, oggi, la
subordinazione a una teoria generale della società che stabilisca le
direttrici d'indagine delle singole scienze o ne irrigidisca i
rapporti in un quadro sistematico.Questo processo ha finito per
"spiazzare" il progetto marxiano (e marxistico) di una scienza della
società; anzi, ha finito per renderlo improponibile. Esso è
soggiaciuto alla critica metodologica dapprima di Max Weber, poi
dell'epistemologia di derivazione neopositivistica. Anche Karl
Popper, in The open society and its enemies, ne ha denunciato il
peccato originale, la pretesa "olistica", e il conseguente trapasso
dalla predizione scientifica alla profezia. Ma questo peccato
rappresenta anche, paradossalmente, il motivo di forza del marxismo,
la sua capacità di attrazione. Come ogni costruzione scientifica di
ampia portata, esso è in grado di offrire suggestioni e ipotesi
interpretative; lo è stato ieri, e può esserlo anche oggi. Non deve
quindi sorprendere che, in determinate congiunture storiche, non
soltanto intellettuali impegnati ma anche scienziati sociali possano
richiamarsi a Marx e al marxismo, traendone spunti per il loro
lavoro. Purché sia chiaro che le suggestioni non possono esser
assunte come direttrici vincolanti della ricerca, e che le ipotesi
interpretative non possono esser scambiate per verità acquisite.