Diplomazia
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L’insieme dei procedimenti attraverso cui uno Stato mantiene le
normali relazioni con altri soggetti di diritto internazionale
(Stati esteri e altri enti con personalità internazionale), per
contemperarne gli interessi in contrasto e favorire la reciproca
collaborazione per la soddisfazione di comuni bisogni. Nel Novecento
è invalso l’uso di distinguere fra d. segreta , quella tradizionale,
e che, propugnata soprattutto dagli Stati Uniti a partire dagli anni
della Prima guerra mondiale, è caratterizzata dalla tendenza a
informare, almeno in parte, la pubblica opinione sulle trattative e
sugli orientamenti di politica estera.
Il complesso degli organi con cui uno Stato mantiene tali relazioni
sono, oltre gli permanenti o speciali (➔ agente), il capo dello
Stato in alcune sue funzioni, il presidente del Consiglio cui
competono le decisioni collegiali della politica estera, il ministro
degli Affari esteri, coadiuvato dagli uffici del suo dicastero.
Enciclopedia delle Scienze sociali (1992)
di Sergio Romano
Diplomazia
Sommario: 1. Introduzione. 2. Dall'antichità all'età moderna. 3. Dai
trattati di Vestfalia all'era dei congressi. 4. Le funzioni della
diplomazia. 5. Diplomazia 'aperta' e diplomazia segreta. 6.
Diplomazia bilaterale, diplomazia multilaterale. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Secondo il Dizionario Enciclopedico Italiano, 'diplomazia' è "l'arte
di trattare, per conto dello Stato, affari di politica
internazionale. Più concretamente, l'insieme dei procedimenti
attraverso i quali uno Stato mantiene le normali relazioni con altri
soggetti di diritto internazionale (Stati esteri e altri enti aventi
personalità internazionale), al fine di contemperarne gli interessi
in contrasto e di favorire la reciproca collaborazione per la
soddisfazione di comuni bisogni". Secondo l'Oxford English
Dictionary, 'diplomazia' è la "condotta delle relazioni
internazionali attraverso negoziati: il metodo grazie al quale tali
relazioni vengono equilibrate (adjusted) e condotte da ambasciatori
e inviati; il mestiere e arte del diplomatico".
In ambedue le definizioni è nascosta una possibile contraddizione.
Ciascuna di esse sostiene che la diplomazia è un mestiere o una
tecnica, da non confondersi con la politica estera. Ma ambedue - e
l'italiana in particolare - mettono l'accento sul carattere
negoziale e pacifico dell'attività diplomatica. Il diplomatico
sarebbe quindi un avvocato a disposizione dello Stato, titolare di
alcune conoscenze ed esperienze che possono facilitare il
perseguimento dell'interesse statale. Ma non sarebbe privo al tempo
stesso di una propria particolare vocazione alla pacifica
composizione dei conflitti d'interesse nella vita internazionale.
Mette la propria tecnica al servizio dello Stato e applica le
direttive di coloro a cui spetta definirne gli interessi e gli
obiettivi; ma la tecnica tende a trasformarsi in politica e a
condizionare il suo atteggiamento. Egli sarebbe quindi il volto
pacifico e conciliante dell'attività internazionale d'uno Stato, il
suo modo d'essere nelle circostanze in cui esso ritiene possibile
armonizzare i propri interessi con quelli degli altri Stati, e si
trarrebbe in disparte ogniqualvolta l'armonizzazione degli interessi
diventa impossibile.
Nonostante questa potenziale contraddizione, le due definizioni
circoscrivono con sufficiente precisione l'argomento di questo
articolo. Converrà tenere presente sin d'ora, comunque, che la
differenza tra diplomazia e politica estera è meno facile e netta di
quanto non si creda, e rischia di dar luogo, se condotta sino alle
sue estreme conseguenze, a una di quelle oziose distinzioni tra
forma e contenuto che hanno lungamente viziato i dibattiti estetici.
Come nell'arte anche in diplomazia il mezzo espressivo e il
messaggio che esso trasmette sono una stessa realtà, difficilmente
scindibile. Vedremo infatti più in là che i modi, i tempi e le forme
della diplomazia sono direttamente collegati alla natura degli
Stati, al concetto che essi hanno dei loro interessi e agli
obiettivi che si propongono di raggiungere. Al tempo stesso sarà
bene tener presente che non sempre l'attività diplomatica è diretta
alla composizione delle vertenze e alla conciliazione degli
interessi nazionali. Vi sono circostanze in cui essa prepara
l'affermazione della potenza e mette le sue tecniche al servizio di
un disegno egemonico o violento. Con queste necessarie distinzioni
possiamo entrare in argomento.
2. Dall'antichità all'età moderna
L'invio di messi e legati presso sovrani o governi stranieri per
concludere alleanze, stringere rapporti commerciali o comporre
litigi, risale certamente all'antichità. Vi ricorsero con grande
frequenza i Greci, costretti dalle dimensioni dei loro Stati a
ricercare modi d'intesa e convivenza con i loro vicini, meno
frequentemente i Romani, che potevano far sentire sugli altri il
peso della loro forza. Il diplomatico, in questa fase, è spesso un
retore, inviato a perorare con argomenti politici e persuasiva
eleganza l'interesse del suo paese presso uno Stato straniero. Ha
uno specifico mandato e si trattiene all'estero per il tempo
necessario ad assolverlo. Sin d'ora, tuttavia, cominciano a porsi i
caratteristici problemi delle missioni diplomatiche: libertà di
passaggio attraverso il territorio straniero, salvacondotti,
immunità. Per tutelare la persona del diplomatico si ricorre spesso
a impegni formali, talora sanciti con giuramenti di carattere
religioso. Si delinea al tempo stesso un altro aspetto dell'attività
diplomatica: il carattere solenne e rituale delle cerimonie che
accompagnano l'arrivo, l'accoglienza e la partenza. Perché tutti
siano consapevoli della forza e della ricchezza del paese che egli
rappresenta, il diplomatico deve vestire solennemente, avere un
largo seguito, portare doni lussuosi; e deve essere accolto con la
solennità dovuta al suo rango e all'importanza del suo paese.
Sin dalle sue prime manifestazioni la diplomazia comincia a parlare
un linguaggio apparentemente futile e vacuo, in realtà traslato e
simbolico.Il passaggio da una diplomazia occasionale, motivata dalla
necessità d'affrontare e risolvere problemi specifici, a una
diplomazia residente, in cui il diplomatico è titolare di un
generale mandato per la rappresentanza del suo Stato presso uno
Stato straniero, avviene in Italia nel corso del Quattrocento e
riflette le nuove esigenze degli Stati italiani. Con la pace di Lodi
(1454) e la costituzione di una 'santissima lega' - la Lega italica
- che comprendeva tutti gli Stati della penisola, cominciò, dopo le
guerre dei decenni precedenti, una fase di assestamento, nel corso
della quale gli Stati regionali badarono soprattutto a consolidare
la loro autorità e a perfezionare gli strumenti necessari per
l'esercizio del loro nuovo potere. Occorreva quindi evitare che
l'equilibrio così faticosamente raggiunto a Lodi venisse turbato
dalle ambizioni egemoniche di questo o quello Stato. A tale generale
obiettivo, che tutti dichiaravano di condividere, anche se ogni
Stato diffidava della sincerità e delle reali intenzioni degli
altri, la diplomazia dette un contributo determinante. Grazie a essa
gli Stati italiani poterono meglio controllarsi e sorvegliarsi,
evitare sorprese, dissipare malintesi, mantenere intatto con
continui aggiustamenti di rotta l'equilibrio di Lodi.
Nasce quindi in Italia nella seconda metà del Quattrocento la
diplomazia moderna, ma è lecito chiedersi se gli Italiani abbiano
motivo per esserne orgogliosi, giacché la sua prima missione fu
quella d'impedire che nella penisola, a differenza di quanto era
accaduto in Francia, Inghilterra e Spagna, uno degli Stati avesse il
sopravvento sugli altri. Essa raggiunse perfettamente il suo scopo:
ne fu prova la facilità con cui Carlo VIII, re di Francia, invase la
penisola nel 1494. Da allora l'Italia cessò d'essere un centro di
potere autonomo e i suoi Stati dovettero generalmente, per
sopravvivere o soddisfare le loro ambizioni locali, adeguarsi alla
politica di un potente protettore. Con gli spazi della sovranità si
restrinsero di conseguenza anche quelli dell'attività diplomatica,
che divenne da allora conforme al ruolo riflesso della penisola
italiana nella storia europea. Ma gli anni del declino furono
ancora, dal punto di vista diplomatico, molto fecondi. Basta
ricordare le numerose missioni di Machiavelli in rappresentanza
della Repubblica fiorentina agli inizi del Cinquecento. Di quelle
missioni rimangono fra l'altro due grandi relazioni, modelli di
scrittura diplomatica per le generazioni successive: il Ritratto di
cose di Francia e il Rapporto di cose della Magna.
Non tutti gli Stati della penisola furono abbassati a un livello
regionale. Gli Stati della Chiesa, per l'influenza che il papato
esercitava direttamente o indirettamente sugli Stati europei, e la
Repubblica di Venezia, per l'importanza dei suoi interessi nel
Levante, non erano esclusivamente regionali ed ebbero una parte
nelle vicende europee dei secoli seguenti. Sono questi per l'appunto
gli Stati italiani che dedicano maggiore attenzione alla diplomazia
e che maggiormente contribuiscono a fissarne i caratteri, le norme,
le tradizioni. Venezia, in particolare, è troppo consapevole della
propria vulnerabilità internazionale e della fragilità del proprio
potere per non dedicare particolare attenzione agli avvenimenti
mondiali. Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 e il
consolidamento dell'Impero ottomano sulle frontiere meridionali
dell'Europa, essa è ormai uno Stato di frontiera, in continuo
contatto per terra e per mare con un potenziale nemico.
Mentre le prospettive di una grande crociata dei principi cristiani
contro l'avversario comune divengono, col passare del tempo, sempre
più remote, la Repubblica presta una crescente attenzione alla
politica internazionale ed è sempre più interessata a carpirne per
tempo ogni più piccolo segnale. Non basta quindi seguire
attentamente la politica estera delle maggiori potenze. Occorre
valutarne l'importanza economica, la forza militare e la stabilità
politica per meglio pesare il loro ruolo, analizzare l'importanza
delle forze in campo, anticipare per quanto possibile l'esito di un
confronto. Con un provvedimento del 1425, che ribadiva un obbligo
più antico, la Repubblica prescrisse a tutti i diplomatici che
rientravano da una missione straniera l'obbligo di riferire,
inizialmente a voce poi per iscritto, il risultato delle loro
osservazioni ai Consigli di governo. Relazioni esemplari furono
quelle di Zaccaria Contarini dopo la missione in Francia del 1492,
di Andrea Gritti dopo la missione a Costantinopoli del 1503 e di
Vincenzo Quirini, dopo la missione in Germania del 1507. Vi si
leggono notizie politiche, geografiche, economiche, religiose,
insieme a penetranti ritratti del sovrano straniero, dei suoi
ministri e dei maggiori esponenti della sua corte. L'ampiezza delle
informazioni fornite è tale da rendere queste relazioni importanti
anche per avvenimenti che non avevano diretta incidenza sulla
politica e sugli interessi della Repubblica Veneta. Quando la
Hugeunot Society di Londra si mise alla ricerca di testimonianze
sulle lotte religiose che precedettero in Francia il massacro della
notte di san Bartolomeo, constatò che una delle fonti più obiettive
e documentate era rappresentata dai dispacci che due ambasciatori
veneziani, Michele Soriano e Marc'Antonio Barbaro, inviarono da
Parigi fra il 1° novembre 1560 e il 10 novembre 1561.
Il sistema italiano della diplomazia residente si era gradualmente
esteso nel frattempo al resto d'Europa, dove ebbe subito per molti
aspetti una funzione analoga a quella che aveva svolto nella
penisola durante la seconda metà del Quattrocento. In un sistema
caratterizzato dall'apparizione di grandi Stati, che avevano
consolidato il loro potere sul territorio originale e si
contendevano il dominio dell'Europa continentale, la diplomazia
residente ebbe una funzione equilibrante. Permise ai governi di
tenersi d'occhio, raccogliere notizie sulle loro reciproche
intenzioni, sventare sorprese. Di qui certamente l'ambivalenza che
caratterizza sin da allora il trattamento riservato agli inviati
d'uno Stato straniero. Da un lato essi rappresentano un sovrano o,
come nel caso di Venezia, il patriziato che regge le sorti di una
repubblica oligarchica: hanno quindi diritto a essere accolti con
gli omaggi formali che verrebbero riservati al loro padrone.
Numerose stampe del Cinquecento e del Seicento ci descrivono
minuziosamente le cerimonie che accompagnano l'introduzione del
bailo veneziano alla corte del sultano e quelle meno appariscenti,
ma altrettanto solenni, con cui gli ambasciatori stranieri vengono
accolti nelle corti europee.
Proprio perché rappresentanti di una potenza straniera, gli
ambasciatori, tuttavia, suscitano diffidenza e sospetto, soprattutto
là dove si teme che essi possano complottare contro lo Stato di cui
sono ospiti o attentare, in nome di una diversa lealtà, ai vincoli
che uniscono i sudditi al loro legittimo sovrano. In Stati che si
reggono sul principio della fedeltà dinastica è questo il pericolo
da cui ogni principe si guarda continuamente le spalle, ed è
pericolo particolarmente avvertito dopo le grandi riforme religiose
agli inizi del Cinquecento. Il rispetto dovuto allo Stato straniero
vuole che a un ambasciatore sia permesso di seguire i precetti della
sua religione, avere al seguito un ministro della sua fede, disporre
di un luogo in cui questi possa celebrare i servizi religiosi. Ma
come impedire che egli divenga in tal modo un punto di attrazione
per i ribelli, siano essi nostalgici o innovatori? In alcune città
europee e nella loro toponomastica rimangono ancora tracce della
extraterritorialità spirituale che gli ambasciatori pretesero e
ottennero nell'esercizio delle loro funzioni. A Londra la chiesa
portoghese nei pressi di Regent Street era la cappella
dell'ambasciatore del Portogallo e l'albergo Savoy, fra lo Strand e
il Tamigi, occupa lo spazio su cui sorgevano un tempo la casa e la
cappella del duca di Savoia. A Roma il cimitero detto degli
stranieri, accanto alla piramide di Caio Cestio, è tuttora
amministrato da un consiglio in cui siedono i rappresentanti degli
Stati protestanti che ottennero dalla Santa Sede il diritto di
seppellirvi i loro connazionali.
Dell'ambivalenza con cui gli ambasciatori vengono accolti nelle
corti europee fra il 1500 e il 1600 troviamo traccia nella
pubblicistica dell'epoca. A Londra, nel 1651, apparve postumo il
libro di un grande erudito, Robert Cotton (1571-1631), che aveva
dedicato la sua vita alla raccolta di antichi manoscritti, ora
conservati al British Museum. Nel suo trattato, intitolato A
relation of the proceedings against ambassadors who have miscarried
themselves, Cotton prendeva in considerazione il caso
dell'ambasciatore spagnolo, sospettato di avere seminato zizzania
fra il re e il Parlamento. Ammetteva che egli non potesse venir
processato per alto tradimento, ma proponeva come rimedio due
misure: occorreva confinarlo nella sua casa, affinché non potesse
avere alcun contatto con cittadini inglesi, e denunciare il suo
comportamento con una lettera al re di Spagna. Cotton proponeva in
altre parole che l'ambasciatore straniero venisse dichiarato persona
non grata e che gli fosse impedito di esercitare le sue funzioni.
Nel secolo seguente la materia fu trattata con maggiore rigore da un
giurista olandese, Cornelius van Bynkershoek, in un libro che
apparve nel 1721 sotto il titolo De foro legatorum. Van Bynkershoek
chiarì che gli ambasciatori dovevano considerarsi immuni perché
continuamente soggetti, nel corso delle loro missioni, alla
giurisdizione del sovrano di cui erano i rappresentanti. Non erano
al di sopra della legge; erano semplicemente sottoposti a una legge
diversa. Se lo Stato ricevente avesse cercato di assoggettarli alla
propria legge, avrebbe inevitabilmente provocato le rappresaglie del
sovrano offeso e impedito di fatto qualsiasi rapporto diplomatico.
Fu subito chiaro in altre parole che il criterio fondamentale con
cui regolare la materia delle relazioni diplomatiche era quello
della reciprocità.
Prima del trattato di van Bynkershoek altre opere avevano definito i
compiti, i privilegi e le immunità degli ambasciatori. Alberico
Gentili (1552-1608), autore di un importante trattato De iure belli,
pubblicò a Londra nel 1585 il De legationibus. Un contemporaneo
francese di Cotton, Charles Paschal (1547-1625), pubblicò il
Legatus, e sullo stesso argomento apparve a Strasburgo nel 1624
un'opera di Christoph Besold (1577-1638), convertito dal
protestantesimo al cattolicesimo, professore alle Università di
Tubinga e Ingolstadt. A Padova, quasi contemporaneamente (1627),
apparve L'ambasciatore di Gaspare Bragaccia Piacentino. Nasceva in
tal modo una dottrina a cui gli Stati potevano fare riferimento per
dirimere conflitti e risolvere punti controversi.
3. Dai trattati di Vestfalia all'era dei congressi
Abbiamo accennato più sopra all'influenza dei conflitti religiosi
sullo sviluppo dell'attività diplomatica. Furono i negoziati di pace
con cui si concluse una guerra di religione, la guerra dei
Trent'anni, che marcarono una svolta nella storia della diplomazia.
Il primo successo dei diplomatici consistette nella soluzione di uno
spinoso problema di cui la storia delle relazioni internazionali
contiene altri esempi, sino ai nostri giorni. Poiché i
rappresentanti del papa non potevano incontrare i messi protestanti,
fu deciso che le trattative si sarebbero svolte in due città della
Vestfalia: a Münster, dove l'imperatore avrebbe negoziato con gli
inviati delle potenze cattoliche, e a Osnabrück, dove egli avrebbe
negoziato con quelli delle potenze protestanti. Iniziati il 23
novembre 1644 e conclusi con la pace di Vestfalia il 24 ottobre
1648, i negoziati dovettero affrontare un complicato intreccio di
questioni politiche e religiose: i rapporti dell'imperatore con i
suoi sudditi protestanti e di conseguenza il suo effettivo potere
nell'ambito del Sacro Romano Impero, la libertà di culto nei
territori dell'Impero, la sorte del demanio ecclesiastico negli
Stati protestanti, lo status internazionale della Svizzera e
dell'Olanda, le ambizioni territoriali della Francia e della Svezia.
Ne uscì un complesso di decisioni che modificò profondamente la
carta politico-religiosa del continente e definì equilibri che
sopravvissero, con qualche aggiustamento, sino alla Rivoluzione
francese.
Furono la lunga guerra, la tenacia dei protestanti, l'intervento
della Francia e della Svezia, l'abilità di Mazzarino e, alla fine,
la stanchezza dei combattenti che gettarono le basi del negoziato e
fissarono le grandi linee entro le quali esso si sarebbe svolto. Ma
furono i diplomatici che dovettero sciogliere nodi, inventare
soluzioni, mutuare dal diritto privato le formule più adatte a
conciliare i contrastanti interessi delle parti. Nel lavorare
pazientemente ai trattati, essi dovettero affrontare e risolvere
altri problemi d'ordine formale e procedurale che concernevano lo
svolgimento delle loro funzioni: credenziali, immunità, precedenze,
libertà di transito e di comunicazione. Come spesso accade, il
lavoro costringeva lo strumento ad affinare se stesso.
Due diplomatici, ambedue italiani, dettero alla pace di Vestfalia il
contributo della loro straordinaria competenza professionale: il
nunzio pontificio a Colonia, Fabio Chigi (1599-1667), che divenne
poi papa col nome di Alessandro VII, e l'ambasciatore veneziano,
Alvise Contarini (m. 1684), che divenne doge nel 1676.
Rappresentavano le più antiche diplomazie europee, ma né l'uno né
l'altro ricavarono dai trattati, per la Chiesa e per la Repubblica
di Venezia, i vantaggi sperati, al punto che Chigi si astenne
dall'apporre su di essi la propria firma. Per quanto abile ed
esperta, la diplomazia non bastava a modificare i rapporti di forza.
Mentre si combatteva la guerra dei Trent'anni, un grande umanista e
giurista olandese, Huig van Groot (in italiano Ugo Grozio:
1583-1645) scriveva un'opera che apparve a Parigi nel 1625 sotto il
titolo De iure belli ac pacis. Fortemente colpito dagli orrori di un
conflitto che aveva devastato la Germania e che si combatteva ormai
senza pietà, con spaventose sofferenze per la popolazione civile,
van Groot si dedicò allo studio e all'elaborazione delle norme che
dovevano a suo giudizio regolare la condotta degli Stati nei loro
rapporti di pace e di guerra.
Nasce così una disciplina - il diritto internazionale - la cui
storia tende d'ora in poi a intrecciarsi e a confondersi con quella
della diplomazia. Per due ragioni. In primo luogo perché una parte
del diritto internazionale concerne l'insieme degli obblighi che gli
Stati assumono per disciplinare e facilitare l'attività dei
diplomatici. In secondo luogo perché il diritto internazionale è per
i diplomatici uno strumento analogo, per certi aspetti, alle
raccolte di leggi per gli avvocati. Con una fondamentale differenza:
mentre la società nazionale è soggetta a un potere che può imporre
la propria volontà ai singoli, la società internazionale ne è priva
e i suoi membri si conformano al 'diritto delle genti' soltanto
quando la sua osservanza non appare a essi incompatibile con la
difesa dei loro interessi nazionali. I diplomatici sono quindi
custodi di una legge evanescente e mutevole che essi stessi
contribuiscono a modificare per adattarla ai rapporti di forza e
alle nuove circostanze della vita internazionale.
Abbiamo accennato al modo in cui i diplomatici di Vestfalia
dovettero risolvere il problema dei negoziati fra i rappresentanti
della Santa Sede e quelli delle potenze protestanti. Col senno di
poi, le puntigliose resistenze dei primi a qualsiasi contatto
diretto col nemico possono apparire dettate da una testarda
arroganza. In effetti il problema si presenta ogniqualvolta un
potere costituito è costretto a negoziare con un potere ribelle che
cerca di affermare il proprio diritto all'indipendenza. La
madrepatria - e a Vestfalia la Chiesa di Roma era certamente la
patria originale dei cristiani riformati - rifiuta generalmente di
accordare ai ribelli, nella fase negoziale, il riconoscimento
formale della loro legittima esistenza, perché il riconoscimento è
per l'appunto il principale oggetto del negoziato. È assurdo in
altre parole dare all'avversario, sin dall'inizio d'una trattativa
diplomatica, ciò che egli maggiormente desidera; ed è
particolarmente assurdo quando l'inizio del negoziato, come accadde
a Vestfalia e spesso accade in queste circostanze, non interrompe le
ostilità.
Nel caso della guerra americana d'indipendenza, tuttavia, gli
Inglesi dettero prova di una maggiore spregiudicatezza. Quando i
7.000 uomini di Cornwallis dovettero deporre le armi in Virginia, il
19 ottobre 1781, di fronte all'offensiva congiunta delle forze
americane e francesi, gli Inglesi si adattarono rapidamente alla
prospettiva di un negoziato diretto e Giorgio III tollerò che un
emissario andasse a Parigi per trattare con Benjamin Franklin, il
quale divenne poi, con John Jay e John Adams, membro della
delegazione americana ai negoziati di pace. La Gran Bretagna
accantonò qualsiasi scrupolo formale perché comprese che in tal modo
avrebbe meglio frustrato le ambizioni francesi e impedito che gli
Stati Uniti divenissero il satellite della Francia nel continente
americano. Sfruttò il desiderio d'indipendenza degli Americani per
meglio rompere l'isolamento di cui aveva sofferto in Europa e
altrove dopo lo scoppio della rivolta. Mette conto segnalare come
singolare esempio di realismo politico il fatto che i rapporti
'speciali' fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti nascano, quasi
senza soluzione di continuità, nel momento stesso in cui le due
parti cessano di farsi la guerra.
Ma il trattato preliminare di pace che gli Inglesi e gli Americani
firmarono alle spalle dei Francesi, il 30 novembre 1782, merita
d'essere registrato anche per un'altra ragione: perché segna
l'ingresso ufficiale nella vita internazionale d'una diplomazia di
stile nuovo. Lo stile si manifestò anzitutto nella scelta degli
abiti con cui i nuovi diplomatici vollero comunicare al mondo la
sobrietà, il rigore, l'altero disprezzo della loro patria per le
frivole convenzioni della società europea. L'apparizione nei salotti
parigini, durante gli anni settanta del XVIII secolo, di Benjamin
Franklin, severamente vestito d'una redingote confezionata con un
rozzo tessuto marrone, dovette avere sull'opinione francese del
tempo un impatto analogo a quello dell'apparizione a Ginevra,
nell'aprile del 1954, di Chou En-lai, primo ministro della
Repubblica Popolare di Cina, vestito con una giacca di foggia
militare. In ambedue i casi l'abito era nuovo, ma la sua funzione
restava tradizionale e lasciava intravedere un uso accorto,
volutamente spregiudicato e provocatorio, della simbologia
diplomatica.
A confronto i rivoluzionari che presero il potere in Russia dopo la
Rivoluzione d'ottobre, e adottarono rapidamente, per i loro contatti
con l'estero, le convenzioni vestimentarie della diplomazia
'borghese', dettero prova di minore immaginazione e
spregiudicatezza.
Conviene aggiungere che il nuovo stile della diplomazia americana
non si limitò agli aspetti esteriori. Quando decise di non
ripresentare la sua candidatura per la terza volta alla presidenza
degli Stati Uniti, Washington pronunciò un discorso d'addio con cui
esortò i suoi connazionali a "non stringere alleanze permanenti con
nazioni straniere". Con quelle parole il fondatore della repubblica
esprimeva diffidenza per la diplomazia delle potenze europee e
proclamava la diversità, anche in questo campo, della nazione
americana. Su questa diversità degli Stati Uniti e sul modo in cui
essa si manifestò nel concepire l'attività diplomatica torneremo
parlando del contributo americano alla prima guerra mondiale.
Il maggior convegno diplomatico europeo dopo la pace di Vestfalia fu
quello di Utrecht con cui si mise fine, nel 1713, alla guerra di
successione spagnola. Anche in questo caso le trattative
diplomatiche cominciarono mentre ancora durava la guerra e dettero
luogo a un generale 'rimpasto' della carta politica europea.
L'Austria divenne la potenza egemone della penisola italiana,
l'Inghilterra ebbe Gibilterra e il controllo dei mari, il Piemonte e
la Prussia cominciarono a emergere dai ranghi delle piccole potenze,
la Francia rinunciò alla corona di Spagna e a una parte dei suoi
possedimenti americani. Come a Vestfalia, la diplomazia dovette
risolvere intricate questioni formali e sostanziali. Occorrerà
attendere cento anni per un'occasione analoga, su scala maggiore.
A Vienna, nel novembre del 1814, dopo la pace di Parigi del 30
maggio, convennero i rappresentanti di tutti gli Stati europei.
Interrotti durante la ripresa delle operazioni militari, dopo il
ritorno di Napoleone dall'Elba, i negoziati si conclusero con
numerosi trattati e un atto finale, sottoscritto il 9 giugno 1815.
Benché tutta l'Europa fosse presente a Vienna in quei mesi, furono i
quattro vincitori - Austria, Russia, Prussia e Inghilterra - che
negoziarono con la Francia e definirono i nuovi equilibri politici e
territoriali del continente europeo. Ma fu il rappresentante della
potenza sconfitta, Talleyrand, che suggerì alla diplomazia delle
grandi potenze un principio - la legittimità - a cui ispirare la
ricostruzione politica dell'Europa sconvolta. Il principio non
impedì che alcuni vecchi sovrani perdessero il trono e alcune
province passassero di mano in omaggio ad altre esigenze, ma esso
rappresentò pur sempre, insieme al diritto dei vincitori, una sorta
di stella polare su cui la diplomazia europea poté orientare la sua
navigazione sino al 1848.
Il Congresso di Vienna ebbe un'altra, importante conseguenza
diplomatica. Ancor più di quelli di Vestfalia e di Utrecht, sancì il
principio che la pace d'Europa dipendeva dal suo equilibrio e che
ogni mutamento chiamava in causa la responsabilità collettiva dei
suoi membri o per meglio dire di quelli a cui la potenza attribuiva
maggiori diritti e responsabilità. Gli Stati si accorsero ben presto
che l'equilibrio non poteva essere preservato con l'immobilità, ma
con pazienti, continui aggiustamenti di rotta diretti a ricostruire,
ogni volta su basi diverse, l'equilibrio perduto. La diplomazia
divenne così, per certi aspetti, una professione metanazionale. Per
una parte il diplomatico era l'avvocato del proprio paese, pronto a
tramare e a complottare, se necessario, per la sua sicurezza e le
sue ambizioni; per l'altra era il custode delle norme di un ordine
superiore, di una 'legge' che non era propria di un solo Stato, ma
di tutti i membri della famiglia europea nel suo complesso.
L'invocazione dell'equilibrio europeo si prestò in molte circostanze
a una più ipocrita politica nazionale, e Bismarck poté dichiarare un
giorno sarcasticamente, non senza ragione: "Ho sempre udito la
parola Europa sulla bocca di coloro che volevano qualcosa da un
altro e non osavano chiedere in nome dei propri interessi". Ma
l'asserita virtù dell'equilibrio faceva dei diplomatici, quale che
fosse l'ordine nazionale a cui essi appartenevano, gli adepti d'una
stessa 'religione', i membri di uno stesso club. Non sorprende
quindi che nel corso dell'Ottocento essi sviluppino e rafforzino
comuni caratteristiche.
Parlano una stessa lingua - il francese, che il secolo dei Lumi ha
trasmesso all'Europa del concerto delle nazioni come veicolo di
comunicazione internazionale -, usano gli stessi strumenti di lavoro
- trattati, convenzioni, protocolli, note verbali, promemoria,
memorandum -, frequentano gli stessi luoghi, adottano le medesime
convenzioni sociali e rivestono le loro peculiarità nazionali con
gli abiti di uno stesso cosmopolitismo. Vedremo fra poco quali
fossero i loro compiti e come il secolo XIX abbia fortemente
contribuito a definire i contorni della loro professione. Qui
conviene accennare brevemente ai congressi, vale a dire alle
circostanze in cui la diplomazia spiegò il massimo delle sue
energie, perfezionò le sue tecniche, sviluppò quel sentimento di
identità corporativa che accomuna i suoi membri, a qualsiasi paese
essi appartengano.
Il primo congresso, dopo quello di Vienna, si tenne ad Aquisgrana
(Aix-la-Chapelle) nel settembre del 1818: decise il ritiro delle
truppe alleate dal territorio francese, chiuse le pendenze relative
all'indennità di guerra che era stata imposta al governo francese,
ammise la Francia all'alleanza dei vincitori. Il secondo si tenne a
Troppau (oggi Opava in Moravia), dal 23 ottobre al 17 dicembre 1820,
e a Laibach (oggi Lubiana in Slovenia) dall'11 gennaio al 25
febbraio 1821: prese in considerazione i moti rivoluzionari in
Spagna e Italia, avallò, con riserve inglesi, la politica di
Metternich per la restaurazione dell'ordine nel Regno di Napoli. Il
terzo si tenne a Verona nell'ottobre del 1822: creò le condizioni,
nonostante l'opposizione inglese, per l'intervento francese in
Spagna nell'aprile dell'anno seguente. Con quello di Verona la serie
dei congressi che discendono direttamente da Vienna e appartengono
al clima politico della Santa Alleanza può considerarsi conclusa.
Sopravvive tuttavia la concezione dell'equilibrio come
responsabilità collettiva delle maggiori potenze ed esse continuano
quindi a incontrarsi collegialmente per riparare i danni causati da
una guerra, da un'insurrezione o da un moto nazionale.
A Londra, nel 1829, gli ambasciatori di Russia, Gran Bretagna e
Francia si riuniscono ripetutamente in conferenza per esaminare gli
sviluppi della situazione greca e dare un principe al nuovo Stato. A
Parigi, nel febbraio e nel marzo del 1856, si riuniscono i
rappresentanti delle potenze che hanno partecipato alla guerra di
Crimea, ma affrontano al tempo stesso altri problemi: l'autonomia
dei principati danubiani, la questione italiana, la navigazione sul
Danubio, la pirateria, il commercio di navi neutrali in tempo di
guerra, le modalità del blocco marittimo.
A Berlino, nell'estate del 1878, le potenze riprendono in esame i
risultati della guerra russo-turca, ma colgono l'occasione per
rimaneggiare da capo a fondo la carta politica della penisola
balcanica e per concedere alcune compensazioni alle potenze, Francia
e Austria, maggiormente danneggiate dall'unità italiana e tedesca.
A Berlino, fra il novembre 1884 e il febbraio 1885, quattordici
Stati, fra cui gli Stati Uniti, fissano le regole della loro
espansione coloniale, decidono di adoperarsi per la soppressione
della schiavitù, proclamano la libertà di navigazione sul Congo e
sul Niger.
All'Aia, fra il maggio e il luglio del 1899, si tiene, per
iniziativa dello zar Nicola II, una conferenza della pace nel corso
della quale le potenze si accordano genericamente sulla composizione
pacifica delle vertenze internazionali, sulla proibizione di alcune
armi, sul trattamento dei prigionieri di guerra.
Ad Algeciras, in Spagna, fra il gennaio e l'aprile 1906, si tiene
una conferenza sullo status internazionale dell'Impero marocchino.
All'Aia, fra il giugno e l'ottobre del 1907, si tiene, per
iniziativa di Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, una
seconda conferenza della pace: vi si discutono i problemi
dell'arbitrato, dei debiti internazionali, dei diritti e doveri
degli Stati neutrali.
A Londra, nel dicembre del 1912, si riunisce una conferenza degli
ambasciatori delle maggiori potenze per discutere alcuni problemi
territoriali - confini dell'Albania, isole dell'Egeo - sorti in
relazione alla prima guerra balcanica.
4. Le funzioni della diplomazia
L'espansione della potenza europea nel mondo diffonde la prassi e le
convenzioni della diplomazia occidentale anche in paesi lontani,
dove l'attività diplomatica era ancora occasionale e diretta al
raggiungimento di particolari risultati. La crescente importanza
della diplomazia, d'altro canto, costringe le potenze ad ampliare e
a meglio organizzare i loro servizi in patria e all'estero. Nei
paesi in cui la politica estera resta per molti aspetti una gelosa
prerogativa del sovrano e in cui la scelta degli ambasciatori
dipende dal suo beneplacito, la diplomazia è tuttora in buona parte
riservata a ceti nobiliari che concorrono spesso con la fortuna
personale alle spese della loro missione. In regimi 'borghesi' o in
cui la pubblica opinione assume durante il secolo un'importanza
crescente, la diplomazia si apre gradualmente ai rappresentanti di
altri ceti sociali. Ovunque occorre fissare modalità di
reclutamento, gradi, diritti e doveri dell'impiegato nel corso della
sua carriera. Alcuni paesi dividono la professione in due grandi
categorie: i funzionari che rimangono in patria e prestano il loro
servizio presso il Ministero degli Affari Esteri; i funzionari che
prestano servizio presso consolati, legazioni e ambasciate
all'estero. In molti casi la carriera si scinde inoltre in
'diplomatica' e 'consolare'. In Italia un tentativo di regolare la
materia, dopo i primi concorsi indetti prima della Restaurazione dai
regimi d'obbedienza napoleonica, fu fatto dal Regno di Sardegna con
il 'Regolamento per l'ammissione degli aspiranti alla carriera della
R. Segreteria di Stato per gli Affari Esteri', riformato nel 1856.
Ovunque nel corso del secolo assistiamo a una progressiva
burocratizzazione della funzione diplomatica. Anche là dove il
sovrano o il governo si riservano il diritto di scegliere gli
ambasciatori fra coloro che godono della loro personale fiducia, il
diplomatico diventa un impiegato dello Stato, dotato di particolari
competenze professionali. Si precisano meglio in tal modo le sue
funzioni. Un diplomatico inglese, Adam Watson, che ha dedicato una
parte della sua vita agli studi ed è autore di un pregevole trattato
sulla diplomazia, ne ha identificate quattro. Vediamo rapidamente di
che cosa si tratta.Il primo compito, secondo Watson, consiste nel
fornire al proprio governo ogni possibile informazione sulle
condizioni morali e materiali, sulle vicende politiche e sulle
intenzioni del paese presso cui il diplomatico è accreditato. È una
delle funzioni più antiche della diplomazia veneziana ed è quella
che in molti casi maggiormente indispettisce e insospettisce il
paese ospitante. Se la funzione è rimasta col passare del tempo
sostanzialmente la stessa, i metodi di lavoro sono notevolmente
cambiati.
Negli Stati dell'ancien régime e per certi aspetti anche in quelli
della Restaurazione, dove le responsabilità della politica estera
risalgono direttamente al sovrano o a coloro che godono della sua
personale fiducia, l'ambasciatore straniero deve conquistare la
fiducia di pochi interlocutori e da essi cercar di apprendere
orientamenti, intenzioni, ambizioni segrete. Nelle democrazie, dove
la politica estera è oggetto di frequenti dibattiti parlamentari e
di continue discussioni in seno alla pubblica opinione, il suo
lavoro è al tempo stesso più facile e più difficile. Più facile
perché egli può attingere a una larga messe di informazioni,
analisi, indiscrezioni, ipotesi. Più difficile perché egli deve,
ancor più di quanto non accadesse negli Stati d'ancien régime,
distinguere le notizie attendibili da quelle che vengono diffuse ad
arte per meglio disorientare la pubblica opinione e gli osservatori
stranieri, pesare attentamente le forze di tutti coloro che
concorrono a definire la posizione internazionale del paese presso
cui è accreditato. Egli non può svolgere il suo compito se non
conosce il regime politico, la composizione culturale, le strutture
amministrative, la vita sociale e le condizioni economiche dello
Stato che è oggetto della sua osservazione. Ogni valutazione
diplomatica è quindi la punta emergente di una conoscenza più
profonda e diffusa che non ha apparentemente alcun rapporto con la
politica internazionale. Particolarmente difficile è stato il lavoro
diplomatico dopo la prima guerra mondiale nei paesi caratterizzati
da regimi totalitari, come l'Unione Sovietica, dove nulla di ciò che
attiene alla politica estera veniva discusso, ufficialmente o
confidenzialmente, soprattutto con stranieri. In questi casi il
lavoro di una missione diplomatica consiste in gran parte nella
lettura comparata di testi ufficiali e nella paziente ricomposizione
del quadro con la raccolta di numerosi frammenti politici,
economici, sociali, culturali.
La seconda funzione compete principalmente al Ministero degli Esteri
e consiste nel vaglio del materiale informativo che esso riceve
soprattutto dalle proprie rappresentanze diplomatiche e consolari, o
desume dalla lettura della stampa internazionale. Mentre
l'ambasciatore o il console cercano d'interpretare le intenzioni e
gli orientamenti di un singolo paese, il Ministero può confrontare
le informazioni, promuoverne la verifica, collocarle in una più
larga prospettiva e fornire al governo in tal modo una più sicura
base d'appoggio per le sue decisioni.
La terza funzione consiste nel suggerire al governo il da farsi in
una particolare circostanza internazionale. Essa è di gran lunga la
più delicata e quella che maggiormente mette in rilievo
l'ambivalenza della professione diplomatica. L'ambasciatore è un
tecnico delle relazioni internazionali e può quindi apprezzare le
conseguenze internazionali di una qualsivoglia iniziativa. Meglio di
altri egli è in grado di dire al suo governo che cosa accadrebbe sul
più vasto scacchiere internazionale se esso riconoscesse lo Stato A,
accedesse a una richiesta dello Stato B, concludesse un particolare
accordo con lo Stato C. Ma nell'apparente tecnicità e neutralità
delle diverse opzioni s'inseriscono sempre giudizi e preferenze
personali, valutazioni etico-politiche, percezioni dell'interesse
nazionale. Pensare che l'ambasciatore sia semplicemente un ingegnere
della diplomazia, fornitore di progetti a cui egli è moralmente
indifferente, e che egli possa mettersi all'opera con lo stesso
zelo, quale che sia il progetto prescelto fra quelli di cui ha
prospettato l'adozione, non è realistico. Il disagio e le tensioni
che derivano da tale ambivalenza sono per molti aspetti il risultato
di quella burocratizzazione della carriera diplomatica a cui abbiamo
fatto cenno più sopra. Quando apparteneva alla cerchia dirigente del
suo paese ed esercitava le sue funzioni sulla base di un rapporto di
fiducia con le autorità che lo avevano nominato, egli era
necessariamente in sintonia con la politica estera del suo governo o
tenuto a dimettersi se mai questa sintonia avesse cessato di
esistere. Divenuto funzionario dello Stato egli è fra i suoi
colleghi delle altre amministrazioni quello che talora avverte
maggiormente il disagio della sua posizione. Alcuni governi sfuggono
a questa possibile contraddizione adottando, in un contesto
democratico, il criterio a cui si ispiravano i regimi autoritari e
scelgono i loro maggiori ambasciatori al di fuori della burocrazia,
fra coloro che condividono gli orientamenti del governo o gli
interessi della parte politica che esso rappresenta. È il caso degli
Stati Uniti. Altri governi, soprattutto europei, scelgono i loro
ambasciatori nell'ambito della burocrazia, ma fra coloro che hanno
rapporti di simpatia, consonanza, dimestichezza con i partiti al
governo.
La quarta funzione di un ambasciatore consiste da un lato nel
comunicare, illustrare e motivare ai governi stranieri i giudizi, le
valutazioni e le posizioni negoziali del proprio, dall'altro nel
ricevere analoghe illustrazioni e valutazioni dal governo presso cui
è accreditato. Nello svolgimento di questa missione l'ambasciatore è
spesso chiamato a negoziare, vale a dire a impegnarsi in una
discussione da cui dovrebbe emergere in ultima analisi una posizione
comune: un comunicato congiunto, un'azione coordinata, un passo da
compiersi insieme, un accordo, un trattato. È questo probabilmente
l'aspetto dell'attività diplomatica che ha subito nel corso di
questo secolo la maggiore evoluzione. La lentezza delle
comunicazioni e la particolare autorità di cui un ambasciatore
godeva, per l'appartenenza alla classe dirigente del suo paese, gli
conferivano nelle varie fasi del negoziato una certa autonomia di
giudizio e un certo margine di libertà. Oggi la rapidità delle
comunicazioni e la burocratizzazione della carriera diplomatica
hanno considerevolmente ridotto questo margine. Accade spesso quindi
che i negoziati diplomatici di maggiore importanza vengano condotti
direttamente dal ministro degli Esteri e che egli tenga a tal fine
contatti diretti con i suoi interlocutori, talvolta all'insaputa
della sua ambasciata o senza chiederne l'avviso.
5. Diplomazia 'aperta' e diplomazia segreta
Una svolta importante nella storia della diplomazia fu rappresentata
dalla crescente partecipazione degli Stati Uniti alle vicende
politiche internazionali nell'ultima parte della prima guerra
mondiale. Qualche mese dopo l'ingresso dell'America nel conflitto,
il presidente, Woodrow Wilson, indirizzò al Congresso un programma
nel quale egli elencava le condizioni necessarie per una pace giusta
e durevole. Fra queste condizioni la prima - "open covenants openly
arrived at": accordi pubblici, pubblicamente negoziati - concerneva
direttamente l'esercizio dell'attività diplomatica. Con quella
implicita condanna della diplomazia segreta, Wilson formulava in
termini diversi lo stesso giudizio negativo che Washington aveva
espresso sulla diplomazia europea nel discorso con cui aveva preso
congedo dalla nazione. Ma rappresentava al tempo stesso un
sentimento fortemente diffuso nell'Europa d'allora.
A Pietrogrado i bolscevichi, verso la fine del 1917, presero a
pubblicare nelle "Izvestja" gli accordi segreti di cui avevano
trovato copia negli archivi imperiali al momento della conquista del
potere, e più tardi insistettero affinché i negoziati con la
Germania e i suoi alleati, a Brest Litovsk, si svolgessero
pubblicamente sotto gli occhi della stampa.
In Germania, dopo la fine della guerra, il governo tedesco promosse
la pubblicazione dei documenti relativi al periodo fra il 1871 e il
1914 (Die grosse Politik der europäischen Kabinette) e il suo
esempio fu seguito negli anni successivi da molti paesi.
In Italia Giolitti non aveva mai nascosto la sua disapprovazione per
la segretezza con cui il governo Salandra e la corte avevano
condotto le trattative di Londra prima dell'intervento. Quando
annunciò il suo ritorno alla lotta politica con il discorso di
Dronero del 12 ottobre 1919, propose di modificare la Costituzione
affinché il Parlamento avesse in materia di politica estera gli
stessi poteri di cui disponeva in materia di politica finanziaria.
Queste pubblicazioni, riforme costituzionali e prese di posizione
erano l'inevitabile conseguenza di una guerra che aveva sconvolto
l'Europa, ucciso milioni di combattenti, assoggettato le popolazioni
civili a sofferenze che ricordavano la guerra dei Trent'anni.
Comprensibile e giustificabile quando le guerre erano brevi o
condotte prevalentemente da eserciti di professione, la diplomazia
segreta diventava inammissibile quando i suoi effetti precipitavano
intere nazioni, come era testé accaduto, nell'abisso d'un conflitto
mondiale, combattuto per cinque anni senza esclusione di colpi.
Quella diffusa richiesta di pubblicità, d'informazione e di consenso
ebbe una grande influenza sulla prassi diplomatica degli anni
immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Mentre molti
governi, prima del 1914, potevano impunemente sottrarsi, invocando
il superiore interesse dello Stato, a qualsiasi interrogazione
parlamentare sulla loro politica internazionale, dopo il 1918 quasi
tutti dovettero rendere conto pubblicamente della loro azione. Ben
presto, tuttavia, fu chiaro che la pubblicità prescritta da Wilson
come supremo rimedio per i mali del mondo, si sarebbe scontrata con
alcuni limiti e avrebbe provocato, se adottata integralmente, alcuni
inconvenienti. Per comprendere limiti e inconvenienti converrà fare
qualche osservazione sulla natura del segreto diplomatico e sulla
sua funzione.
Molti pensano che l'attività diplomatica sia oscura e misteriosa
perché ammantata di segreto. Ma, ogni qualvolta viene rimosso il
velo del segreto, essi constatano con sorpresa che il fatto nascosto
agli occhi del mondo è assai meno 'chiaro' di quanto essi non
immaginassero. Certo vi sono circostanze in cui il segreto serve a
mascherare le intenzioni di una potenza sino al giorno in cui essa
non ritenga giunto il momento di agire: a questo, per l'appunto
servì il protocollo segreto che Ribbentrop e Molotov firmarono a
Mosca nell'agosto del 1939 per la spartizione della Polonia e del
Baltico. Ma nella maggior parte dei casi, soprattutto nel corso di
un negoziato, la funzione del segreto non è quella di nascondere
vicende e documenti chiari, ma di coprire vicende e documenti
oscuri. E l'oscurità del documento dipende a sua volta dal carattere
conflittuale e policentrico delle relazioni internazionali.
Ogni Stato deve tener conto dei rapporti di relazione in cui è
inserito e seguire attentamente l'incessante evoluzione del sistema.
Costretto a modificare continuamente la sua rotta in funzione dei
mutamenti altrui, esso non può limitarsi ad avere una sola politica.
Deve avere politiche alternative che gli consentano di garantire
comunque, in circostanze mutevoli, il massimo d'indipendenza e di
sicurezza. La diplomazia è raramente fortunata quando persegue un
solo obiettivo. È abile e fortunata quando all'obiettivo iniziale
può sostituire un secondo o terzo obiettivo, quando ogni sua
iniziativa si presta potenzialmente a raggiungere finalità diverse.
Di qui la necessaria ambiguità del linguaggio diplomatico che non
può e non deve prestarsi a interpretazioni univoche. Di qui la
necessità di sottrarre l'attività diplomatica, soprattutto nelle
fasi negoziali, allo sguardo indiscreto e inquisitivo della pubblica
opinione. Un governo che deve chiarire la propria posizione è
necessariamente un governo dimezzato, costretto a ridurre
drasticamente il ventaglio delle proprie opzioni e i suoi margini di
libertà sulla scena internazionale. Dopo lo scompiglio iniziale
provocato dalle rivoluzionarie proposte di Wilson e dalle
provocatorie iniziative di Lenin, tutte le diplomazie, comprese
quelle degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, si resero
rapidamente conto di questa realtà.
L'appello alla pubblicità della diplomazia, così vigorosamente
lanciato da Wilson e da Lenin alla fine della prima guerra mondiale,
produsse tuttavia effetti durevoli. Come si è detto, nessun governo,
da allora, poté interamente sfuggire all'obbligo di render conto
periodicamente, in parlamento o di fronte alla pubblica opinione,
delle proprie iniziative diplomatiche e del loro sviluppo. I
risultati non furono sempre e necessariamente quelli che i fautori
della pubblicità avevano auspicato, giacché i governi appresero
rapidamente a servirsi della pubblicità come di un'arma in più per
meglio dissimulare le loro intenzioni, saggiare gli orientamenti
dell'opinione pubblica, disorientare l'avversario, costringerlo a
reagire e a palesare le sue intenzioni. Non v'è governo che non
abbia fatto uso di indiscrezioni strumentali, e non v'è negoziato
diplomatico che non sia accompagnato da un continuo flusso di voci,
regolato ad arte dai protagonisti, una sorta di duello recitato alla
luce del sole per meglio vincere quello vero, combattuto nell'ombra.
Di questo scaltro uso della pubblicità i giornali si fanno spesso
involontario strumento e megafono.
6. Diplomazia bilaterale, diplomazia multilaterale
Abbiamo detto che il mondo delle relazioni internazionali è
policentrico e conflittuale. Ma dal Projet de paix perpetuelle entre
les souverains chrétiens di Charles-Irenée Castel, abate di
Saint-Pierre (1717) al Zum ewigen Frieden di Immanuel Kant (1796),
dal progetto wilsoniano per una Società delle Nazioni al patto
contro il ricorso alla guerra stipulato nel 1928 a Parigi dal
ministro degli Esteri francese, Aristide Briand, e dal segretario di
Stato americano, Frank B. Kellogg, gli studiosi e gli uomini
politici non hanno mai rinunciato alla speranza di una radicale
riforma della società internazionale. A un mondo lacerato da
conflitti di potere si vorrebbe sostituire, sia pure gradualmente,
un mondo in cui gli Stati rinunciano all'uso della forza e accettano
di delegare a un superiore potere arbitrale la soluzione pacifica
delle loro controversie. Non è questa la sede per rendere conto di
tali tentativi e dei loro progressi, ma è questa bensì l'occasione
per accennare all'influenza che essi hanno avuto sull'esercizio
dell'attività diplomatica.
Dopo il fallimento della Società delle Nazioni i vincitori della
seconda guerra mondiale si accordarono sulla necessità di fondare
una Organizzazione delle Nazioni Unite in cui le maggiori potenze
avrebbero svolto una funzione direttiva per il mantenimento
dell'ordine e della pace. Se i cinque 'Grandi' - Stati Uniti, Unione
Sovietica, Gran Bretagna, Francia, Cina - si fossero accordati sul
modo in cui governare il mondo avremmo probabilmente assistito al
lento emergere di una nuova società internazionale, al tempo stesso
unitaria e gerarchica, in cui le potenze minori avrebbero perduto
gran parte della loro sovranità e quindi le necessarie premesse di
una diplomazia nazionale. Di fatto lo scoppio della guerra fredda ha
impedito la realizzazione di questo disegno e ha svuotato le Nazioni
Unite del loro significato originale. Esiste tuttavia, dall'epoca
della Società delle Nazioni e ancor più dalla fine della seconda
guerra mondiale, una pluralità di organizzazioni, talora mondiali,
talora regionali, in cui gli Stati cercano di affrontare
congiuntamente i problemi della loro convivenza o si adoperano per
raggiungere collegialmente obiettivi comuni.
Benché diverse per materia - cultura, commercio internazionale,
sanità, cooperazione finanziaria, assistenza al Terzo Mondo,
sfruttamento delle risorse marittime, navigazione aerea, brevetti
industriali, regime delle zone polari, esplorazione spaziale -
queste organizzazioni presentano una caratteristica comune: creano
consuetudini o norme convenzionali a cui gli Stati accettano di
subordinare l'indiscriminato esercizio della sovranità nazionale e
restringono, in prospettiva, il terreno d'azione della diplomazia
nazionale. E poiché tale risultato può essere raggiunto, in mancanza
di un'autorità supernazionale, soltanto con il necessario consenso
delle parti interessate, ha preso corpo una diplomazia multilaterale
di carattere permanente. Ciò non significa che la diplomazia
bilaterale abbia perduto tutta la sua importanza originale. Anzi,
non v'è negoziato multilaterale che non sia preceduto e accompagnato
da contatti bilaterali nel corso dei quali gli Stati maggiormente
interessati o più influenti si accordano per meglio imporre il loro
punto di vista. E non v'è trattativa multilaterale che possa
prescindere da quella reciproca conoscenza a cui la diplomazia
bilaterale dedica, come abbiamo visto, una larga parte della sua
attività. Ma il negoziato permanente a più voci in cui ogni Stato
deve confrontare la propria posizione con quella di altri e
ricercare, per quanto possibile, un denominatore comune ha ormai
creato nuove prassi e nuove tecniche diplomatiche. Vi è oggi,
accanto alla più tradizionale diplomazia bilaterale, una diplomazia
multilaterale che richiede spesso una specifica esperienza.
Anche la diplomazia bilaterale ha subito nello stesso periodo
notevoli trasformazioni. Mentre i rapporti fra gli Stati erano,
prima del 1914, prevalentemente politico-militari e commerciali, da
allora l'arco delle loro relazioni si è andato continuamente
allargando, sino a includere questioni attinenti all'emigrazione,
alla cultura, alla criminalità internazionale, all'assistenza ai
paesi in via di sviluppo, e soprattutto una gamma sempre più vasta
di problemi economico-finanziari. All'origine di questo ampliamento
dell'attività diplomatica vi sono le grandi trasformazioni degli
Stati moderni soprattutto dopo il 1848, le conseguenze economiche e
sociali della rivoluzione industriale, i due grandi conflitti
mondiali. A questi mutamenti qualitativi nei rapporti fra gli Stati,
la diplomazia ha dovuto adeguarsi rinnovando le proprie strutture e
le proprie competenze. I Ministeri degli Esteri hanno creato
direzioni e servizi per gli affari sociali, culturali, economici e
per la cooperazione con i paesi in via di sviluppo. Alla figura del
diplomatico dotato di competenze generali si sono andati
gradualmente sostituendo diplomatici con funzioni particolari:
addetto economico e commerciale, finanziario, culturale, per
l'emigrazione, per la cooperazione allo sviluppo. È inutile
aggiungere che sia i Ministeri degli Esteri sia le rappresentanze
diplomatiche e consolari all'estero hanno considerevolmente ampliato
i loro organici. È stato quindi necessario rivedere alcune delle
norme e consuetudini che avevano regolato in precedenza i rapporti
diplomatici fra gli Stati. A Vienna, dove nel 1815 era stato
stipulato un primo accordo sulla materia, sono state concluse nel
1961 e nel 1963 due convenzioni, di cui la prima concerne le
relazioni diplomatiche, la seconda le relazioni consolari.
Abbiamo detto che lo scoppio della guerra fredda ha impedito
all'Organizzazione delle Nazioni Unite di svilupparsi secondo il
disegno originale dei suoi fondatori. Al tempo stesso le tensioni
della guerra fredda e le particolari condizioni dell'Europa dopo la
fine del conflitto hanno dato luogo alla nascita di organizzazioni
che non si propongono di modificare l'intera società internazionale,
ma di rafforzare la difesa, migliorare la collaborazione o
addirittura promuovere l'integrazione di Stati che hanno affinità
politiche e interessi comuni. Fra quelle che hanno avuto maggiore
influenza sulla diplomazia occorre menzionare brevemente la Comunità
Economica Europea, sorta a seguito della firma dei Trattati di Roma,
il 25 marzo 1957. Poiché essa si propone, per l'appunto,
l'integrazione dei paesi membri, la sua esistenza ha dato luogo a
una complessa diplomazia multilaterale in cui i rappresentanti dei
Ministeri degli Esteri dei singoli Stati sono affiancati dai
rappresentanti dei ministeri nazionali - Tesoro, Finanze, Industria,
Agricoltura, Sanità, Lavoro ecc. - le cui materie di competenza
vengono gradualmente assoggettate a una normativa comune. Questo
processo ha avuto due conseguenze. In primo luogo ha enormemente
ampliato, in questa fase, la dimensione del lavoro diplomatico e il
numero degli attori in esso coinvolti. In secondo luogo ha ristretto
la sovranità degli Stati membri e ridotto il numero delle questioni
che possono formare oggetto di trattativa diplomatica bilaterale. In
altre parole ha prodotto un 'sovraccarico' di diplomazia il cui
risultato finale potrebbe essere la soppressione di qualsiasi
attività diplomatica fra i paesi membri. È accaduto infatti che
l'estensione del processo unitario e in particolar modo l'inizio,
negli anni settanta, di una sistematica consultazione politica fra
gli Stati della Comunità (Cooperazione Politica Europea) erodesse
gradualmente le competenze delle ambasciate 'bilaterali'.
Anche queste ultime osservazioni ci sembrano confermare quanto
dicevamo all'inizio. La diplomazia è lo strumento di cui gli Stati
si servono per i loro rapporti, ma non può essere isolata dal
contesto storico e politico in cui essa svolge le sue funzioni. Lo
strumento si è continuamente adattato agli scopi che esso doveva
raggiungere e in alcuni casi, in particolare quello della Comunità
Economica Europea, ha messo ogni sua risorsa al servizio di un fine
che comporterebbe, una volta raggiunto, la sua scomparsa