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Enciclopedia online
Dottrina che, sulla base delle formulazioni teoriche di K. Marx e
F. Engels, propugna un sistema sociale nel quale sia i mezzi di
produzione sia i mezzi di consumo sono sottratti alla
proprietà privata e trasformati in proprietà comune,
e la gestione e distribuzione di essi viene esercitata
collettivamente dall’intera società nell’interesse e con la
piena partecipazione di tutti i suoi membri.
1. Evoluzione del concetto
1.1 C. primitivo e c. religiosoIl mito di un’originaria
comunità dei beni, variamente svolto nell’ambito di
dottrine religiose, utopistiche, giusnaturalistiche
dell’antichità e dell’età moderna, si è
trasformato nel 19° sec. a opera degli etnologi evoluzionisti
in un’ipotesi scientifica, il cosiddetto c. primitivo . Sulla base
di ricerche etnografiche e storiche non è tuttavia
possibile dimostrare l’esistenza di società in cui ognuno
possiede gli stessi diritti su ogni cosa. Nella cerchia delle
antiche civiltà mediterranee, il c. appare limitato
nell’applicazione a particolari esigenze religiose, sociali o
militari (sissizi o fidizi di Creta, Sparta, Cartagine), o
sussiste, anche in epoca tarda come proprietà agricola
comune (ager publicus, almenda, township ecc.). Di un c. in atto
negli istituti della polis greca o degli Stati della Magna Grecia
governati dai Pitagorici non è possibile parlare,
nonostante l’elaborazione nel campo dottrinale di programmi
comunistici.
Accanto ai motivi politico-sociali, esigenze prevalentemente
religiose e ispirate a un ideale di distacco dai beni terreni si
fanno valere dapprima nelle comunità pitagoriche,
più tardi in quelle ascetiche palestinesi degli Esseni,
dove si può parlare di un c. religioso . La speranza
escatologica e la legge di carità cristiana concorrono a
produrre la comunione dei beni in atto nella Chiesa del periodo
apostolico. Anche nel Medioevo non sono poche le sette che
precisano la loro esigenza sociale nella rivendicazione,
attraverso lotte anche violente, di una proprietà che deve
essere comune anziché a beneficio di una casta
privilegiata. Più tardi chiaro significato sociale assumono
i movimenti di rinascita religiosa in Inghilterra con Wycliffe, in
Boemia con Hus e i Taboriti (14° sec.), in Germania con lo
Schuhbund (1431): finché la guerra dei contadini (1524-25)
vede vaste masse impegnate a lungo in una lotta per i vasti
interessi politico-economici in gioco, nelle campagne di Germania,
Svizzera, Austria e Trentino. Significativo a questo proposito il
moto anabattista. Discusso invece il carattere comunistico delle
colonie dei gesuiti del Paraguay. Nel 18°-19° sec. le
comunità dei Rappisti, degli Shakers e altre, fondate in
America Settentrionale dai nuclei dei Pietisti tedeschi e dei
Quaccheri inglesi ivi emigrati, mostrano il carattere extrastorico
di quel c. da esse professato come rifugio dal tumulto degli
interessi concreti del mondo capitalistico.
1.2 C. utopistico e c. rivoluzionario fino al 1848Su un piano
astrattamente dottrinale sono da porsi quelle opere che, pur
partendo da una polemica osservazione della realtà
politico-sociale contemporanea, si traducono però, nella
loro parte costruttiva, in fantasie letterarie o millenaristiche.
Così Tommaso Moro nell’Utopia (1516) individua, per la
risoluzione del problema sociale, il principio etico ispiratore
nella dignità e nel dovere del lavoro per tutti: e tale
principio torna in numerose opere, dai Mondi celesti del Doni
(1552-53) alla Città del sole di T. Campanella,
all’Histoire des Sevarambes di D. Vairasse (1677), alle Îles
flottantes di E.G. Morelly ecc.
L’istanza critica si precisa invece, nell’età
dell’Illuminismo, con la denuncia della proprietà privata
della terra come usurpazione violenta ai danni della naturale
uguaglianza, libertà e bontà dell’uomo da parte di
J.-J.Rousseau e con le discussioni etico-giuridiche sugli stessi
temi dell’uguaglianza e della proprietà svolte nelle opere
di G.-B. de Mably, S.-N.-H. Linguet e Morelly. La rivendicazione
del diritto al lavoro dedotta dall’equazione proprietà
privata-usurpazione viene ripresa dalla Rivoluzione francese e
inclusa dalla Convenzione nella Dichiarazione dei diritti del
1793. Nel Manifeste des plèbéiens (1795) e nella
Congiura degli Eguali promossa da F.-N. Babeuf, si ritrovano
quelle più radicali esigenze di redistribuzione della
ricchezza, attraverso la lotta politica del popolo sotto la guida
di una minoranza illuminata. Esigenze che dopo il fallimento della
congiura saranno riprese dalle numerose società segrete che
l’attività di F. Buonarroti creerà in tutta Europa.
Notevole pure l’influenza che in questo periodo esercitano le
formulazioni del socialismo utopistico di C.-H. Saint-Simon, di C.
Fourier e di R. Owen i quali, con la critica di taluni aspetti
della società capitalistica favoriscono il formarsi di
tendenze più radicali. Così la crescente coscienza
di classe portò in primo piano il tema della conquista del
potere politico quale strumento per la realizzazione delle
esigenze della classe lavoratrice. Conclusioni comunistiche
affermano però decisamente solo C. Pecqueur ed E. Cabet.
2. Il c. storico
2.1 Il ManifestoDurante gli anni che precedono la crisi del 1848,
si svilupparono, in Francia, Svizzera, Belgio, Inghilterra, vari
centri di origine babuvista, in col;legamento con altri gruppi
ispirati da capi rivoluzionari come L.-A. Blanqui e A.
Barbès. Tra questi un rilievo particolare assunse la Lega
dei giusti , fondata da profughi tedeschi e poi trasferitasi a
Londra, dove, nel congresso del 1847, sotto l’influenza di Marx ed
Engels, cambiò il suo nome in Lega dei comunisti . Gli
stessi Marx ed Engels furono incaricati di redigere il documento
programmatico del nuovo movimento, che fu pubblicato l’anno
successivo (Manifesto del partito comunista). La scelta del
termine ‘comunista’, oltre a indicare lo stadio finale della
società cui punta il movimento rivoluzionario, voleva anche
sottolineare la rottura con le correnti socialiste del tempo, in
nome di una concezione politica fondata su un’organizzazione
militante e rivoluzionaria.
Questo nuovo metodo di lotta politica cui è chiamato il
proletariato rivoluzionario trova la sua giustificazione storica
nell’analisi che Marx ed Engels compiono della nuova situazione
sociale connessa al modo di produzione capitalistico. Al centro
della loro analisi è il ruolo della borghesia. Attraverso
un sistema produttivo che il meccanismo della concorrenza
costringe a espandersi e a rinnovarsi continuamente, il
capitalismo rivoluziona la produzione, incrementandola
quantitativamente e qualitativamente, e occupando sempre nuovi
mercati, anche in paesi precedentemente lontani dal progresso
storico. Per fare ciò, il capitalismo deve trasformare ogni
società a sua immagine con uno sfruttamento crescente del
proletariato, fondato sul concetto del plusvalore, ovverosia
sull’idea, in termini semplificati, che una quota di lavoro sia
prestata ma non retribuita. In questa ottica, il meccanismo della
concorrenza obbliga a contenere al massimo i salari e dunque le
condizioni di vita del proletariato sono ridotte al minimo vitale.
Le crisi economiche capitalistiche sono il segno tangibile delle
difficoltà del sistema a espandersi ulteriormente: in esse
esplode la contraddizione tra la sovrapproduzione capitalistica e
la povertà del proletariato. In questo modo, il sistema di
produzione capitalistico ha dato origine a livello mondiale alla
classe sociale del proletariato, chiamata a rovesciare il sistema
stesso in nome della stragrande maggioranza della popolazione e a
ridistribuire la ricchezza prodotta. Nell’analisi di Marx ed
Engels questo processo assume un carattere di necessità
oggettiva e non può avvenire che al culmine della parabola
ascendente dello sviluppo capitalistico. La ‘dittatura del
proletariato’ avrà solo il compito di distruggere
l’apparato dello Stato, espressione del potere della borghesia.
Questo schema, che trovò poi nelle opere successive al
Manifesto numerose varianti e integrazioni, già conteneva
tutti i nodi delle polemiche successive tra gli epigoni: in primo
luogo il rapporto tra sviluppo oggettivo delle crisi
capitalistiche (crollo) e azione soggettiva del movimento
rivoluzionario; in secondo luogo il rapporto tra dittatura
rivoluzionaria e democrazia diretta esercitata dall’intera
società.
2.2 La prospettiva riformista europeaIl progressivo declino delle
problematiche del c. nella seconda metà del 19° sec. si
lega all’incessante sviluppo delle organizzazioni sindacali e
politiche del movimento operaio nei principali paesi dell’Europa
occidentale, cui si accompagnarono un allargamento della loro
partecipazione alla vita politica e un netto miglioramento delle
condizioni di vita dei lavoratori. Queste mutate condizioni
trovarono la loro espressione nella Seconda internazionale , e in
particolare nel partito socialdemocratico tedesco. Allargamento
del suffragio politico e miglioramenti economici rappresentavano
ormai la strada maestra dei nuovi partiti socialisti. Secondo E.
Bernstein la democrazia politica costituiva il quadro in cui si
sviluppano le conquiste del proletariato. ‘Crollo del capitalismo’
e ‘dittatura del proletariato’ erano quindi giudicate parole
d’ordine del passato. Una linea più vicina al pensiero di
Marx si sviluppa nell’analisi di K. Kautsky, che vede nello
sviluppo del capitalismo e della democrazia la strada obbligata
per la lotta della classe operaia, pur tenendo ferma la meta della
società socialista e comunista.
2.3 Il c. rivoluzionario in RussiaLa polemica contro la versione
di Bernstein (poi anche di Kautsky) del marxismo, che portava al
rifiuto del metodo rivoluzionario e, di fatto, anche del fine
comunista, trovò un terreno particolarmente fertile in
Russia, dove l’arretratezza politica e sociale rendeva lontana e
inaccettabile la prospettiva riformista. La situazione russa era
bene espressa dal movimento populista, formato da intellettuali
rivoluzionari, non alieni dal terrorismo, che vedevano
nell’arretratezza russa e nelle sue sopravvivenze di
comunità agricole tradizionali le premesse per una
rivoluzione sociale attuata evitando il passaggio attraverso la
fase storica del capitalismo.
Il rifiuto di una legge universale e uniforme della evoluzione
sociale costituisce uno degli elementi caratteristici delle
posizioni politiche del leader socialista rivoluzionario russo
V.I. Lenin. In polemica con le altre componenti della
socialdemocrazia russa, egli affermava che la coscienza di classe
non si sviluppa spontaneamente tra gli operai, ma dall’esterno, a
opera del partito rivoluzionario: un’avanguardia di militanti di
professione capace di alternare propaganda legale e illegale,
partecipazione alla vita parlamentare e lotta rivoluzionaria, per
impadronirsi del potere, instaurare la dittatura del proletariato
e avviare la trasformazione della società. Il partito di
Lenin, i bolscevichi , erano appunto l’espressione di questa
concezione politica.
Fino alla Prima guerra mondiale non furono chiare le differenze
tra le concezioni di Lenin e quelle del socialismo europeo. Con lo
scoppio del conflitto, invece, i contrasti esplosero. I
bolscevichi e altre minoranze socialiste, nei diversi paesi,
rifiutarono l’appoggio ai rispettivi governi nello scontro
militare in atto. Lenin teorizzò allora che il capitalismo
poteva sopravvivere solo attraverso gli imperi coloniali e che lo
scontro in atto rifletteva la lotta per il controllo mondiale. A
tale scontro il proletariato doveva rispondere con la lotta
rivoluzionaria.
3. Il movimento comunista internazionale
3.1 Dalla Rivoluzione d’ottobre alla Seconda guerra
mondialeAll’indomani della rivoluzione russa dell’ottobre 1917, la
prospettiva della rivoluzione mondiale e la gravissima situazione
in cui si trovava allora lo Stato sovietico determinarono la
decisione dei dirigenti bolscevichi di potenziare e organizzare
l’adesione suscitata dalla rivoluzione. D’altronde, la rivoluzione
d’Ottobre era stata interpretata da gran parte del proletariato
europeo come l’inizio della rivoluzione mondiale e i moti popolari
del dopoguerra (1919-20) in Ungheria, in Italia, in Germania e in
altri paesi furono le condizioni preliminari per la nascita dei
partiti comunisti. Nel marzo 1919 veniva così fondata a
Mosca la Terza Internazionale (Internazionale Comunista o
Komintern), come partito rivoluzionario mondiale (➔
Internazionale). Tra il 1919 e il 1921 si costituirono partiti
comunisti in tutti i paesi d’Europa, ma anche in Asia, in America
e in Australia, organizzazioni talora ristrette a gruppi di
intellettuali, ma più spesso rappresentanti di settori
consistenti del proletariato e degli strati popolari.
L’Internazionale dai primi anni 1920 fino al 1943 fu il centro
propulsore dell’intero movimento comunista mondiale.
Nessuno dei moti rivoluzionari del dopoguerra ebbe esito positivo
e con la crisi del movimento rivoluzionario si interruppe anche
l’espansione del movimento comunista. I nuovi partiti, soprattutto
in Europa, presero comunque a esercitare un ruolo talora rilevante
come in Germania e in Francia. Dopo la morte di Lenin (gennaio
1924) lo scontro tra J. Stalin e L. Trockij si riflesse
pesantemente sul movimento comunista internazionale: la vittoria
di Stalin fece prevalere l’orientamento alla bolscevizzazione;
l’espulsione di Trockij dal partito (1927) e dall’URSS (1929) fu
invece all’origine, nell’area comunista mondiale, del più
importante dei movimenti politici antistalinisti. Si manifestava
intanto fin dal 1923 un rinnovato interesse dell’Internazionale
per i movimenti contadini e per le realtà extra-europee,
ciò che diede impulso al formarsi di nuovi partiti
comunisti in Asia e America Latina. Rilevanti le vicende dei
comunisti cinesi che, rotta nel 1927 l’alleanza con il partito
nazionalista (Guomindang), facendo leva proprio sui contadini
poveri (secondo la strategia elaborata da Mao Zedong), contesero
aspramente, regione per regione, al Guomindang la guida della
politica cinese, concludendo con esso un provvisorio patto di
alleanza (1937) in funzione dell’unità antigiapponese.
Nella seconda metà degli anni 1920 l’Internazionale
rilanciò (1928) la lotta contro il socialismo riformista
(ridefinito ‘socialfascismo’), mentre, a partire dal 1934, si ebbe
in URSS un’accentuazione dell’autoritarismo del partito e quindi
anche del carattere di monolitismo e di dipendenza da Mosca di
tutto il movimento comunista. La crisi generale dell’Occidente non
solo non ebbe sbocchi rivoluzionari, ma portò i nazisti al
potere in Germania (1933): di qui la linea adottata
dall’Internazionale (agosto 1935), che favorì la formazione
di governi di sinistra in Francia e Spagna. La situazione mondiale
creatasi con la guerra civile spagnola, il patto anti-Komintern
tra Germania, Giappone e Italia (1936-37), le mire tedesche in
Europa, orientarono il movimento comunista sempre più in
direzione antifascista. Lo schieramento creatosi nel 1941 di USA,
URSS e Gran Bretagna contro Germania, Italia e Giappone, abilitava
i comunisti a muoversi in una vasta alleanza politico-militare
antifascista e permise loro di dare un contributo decisivo alla
liberazione dell’Europa, anche se nel 1943, per motivi funzionali
alla politica di alleanze dell’URSS, veniva sciolta
l’Internazionale.
3.2 L’esportazione del c. sovieticoGli accordi che già
prima della sconfitta dell’Asse avevano delimitato le zone
d’influenza delle potenze vincitrici, trovarono rapida
applicazione alla fine del conflitto, pur con delle forzature da
parte dei sovietici; già occupate Polonia, Romania e
Bulgaria durante l’avanzata verso Berlino, vennero lì
costituiti governi di democrazia popolare che importavano di fatto
il sistema economico-sociale dell’URSS. Analoghi processi
intervennero nella Germania orientale (1945) e in Ungheria e
Cecoslovacchia (1948), mentre in Iugoslavia e in Albania i partiti
comunisti, guidati rispettivamente da J. Tito e E. Hoxha, giunsero
al potere per il ruolo da essi sostenuto nella Resistenza; infine
nel 1949 i comunisti cinesi vincevano finalmente la battaglia con
il Guomindang e proclamavano la Repubblica Popolare di Cina.
Nel dopoguerra, dunque, un blocco di paesi socialisti si
affiancava all’URSS. Il momento di massimo sviluppo del movimento
comunista segnò peraltro l’inizio dei contrasti interni.
Dopo la morte di Stalin (marzo 1953), la ricerca di un nuovo
sistema di rapporti tra paesi socialisti e fra questi e
l’Occidente, la necessità di rivalutare i consumi, le
aperture politiche ed economiche verso il Terzo Mondo, trovarono
una prima formulazione nella relazione di N. Chruščëv al XX
congresso del partito comunista dell’URSS (1956). I segnali
politici furono però contradditori: se la crisi polacca fu
superata con l’avvento in funzione antistalinista di W. Gomulka,
la sollevazione ungherese fu soffocata sanguinosamente da parte
delle truppe sovietiche. Nel 1955 con il patto di Varsavia era
intanto stata costituita l’alleanza militare tra URSS, Polonia,
Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica
Tedesca, Albania e Romania. Era ormai evidente la crisi del
monolitismo staliniano, e la nascita del cosiddetto
‘policentrismo’, posizione con cui si teorizzava la fine di un
centro unico della rivoluzione comunista mondiale e l’esistenza di
una pluralità di linee politiche espressioni delle diverse
realtà nazionali.
Se la politica estera sovietica del periodo di L. Brežnev (che
aveva sostituito Chruščëv nel 1964) aveva riportato alcuni
successi, di diverso segno apparivano le vicende del movimento
comunista in Europa dalla fine degli anni 1950, all’Est come
all’Ovest alle prese con il problema di ripensare la tradizione e
l’esperienza rivoluzionaria. Cessata la ‘guerra fredda’ e
avviatosi un processo di distensione internazionale, il modello
sovietico, con le sue caratteristiche di autoritarismo e
stagnazione economica, appariva incapace di suscitare speranze
rivoluzionarie o ragionevole fiducia in un avvenire di progresso e
libertà. Esemplare di questa fase la scelta dei comunisti
cecoslovacchi che, guidati da A. Dubcek, inaugurarono nel 1968 un
nuovo corso politico aperto a esigenze di democrazia e consenso
popolare. L’intervento militare del patto di Varsavia, che
nell’agosto 1968 pose fine alla ‘primavera di Praga’, da una parte
scoraggiò le spinte riformatrici negli altri paesi
socialisti, dall’altra spinse i partiti comunisti occidentali, in
specie l’italiano, a differenziare le proprie posizioni da quelle
dei sovietici.
Gli anni 1970 e 1980 fecero registrare importanti novità in
Cina: alla morte di Mao (1976), il nuovo gruppo dirigente guidato
da Deng Xiaoping liquidò l’eredità ideologica del
periodo maoista e orientò la politica interna verso il
conseguimento di importanti risultati economici.
Nell’URSS le spinte al rinnovamento determinarono l’ascesa alla
segreteria del partito di M. Gorbačëv (1985), che subito
impostava una politica tendente a invertire la pericolosa e
costosa corsa agli armamenti nucleari con gli USA, compiva il
disimpegno militare in Afghānistān e, all’interno, affermava la
riformabilità dell’organizzazione sociale a partire dalle
esigenze di sviluppo economico e di partecipazione, aprendo
altresì, per la prima volta nell’URSS, la
possibilità di una riconsiderazione complessiva della
propria storia. Questo processo riattivava sensibilmente il
dialogo politico, culturale ed economico con i paesi occidentali e
si estendeva rapidamente agli altri paesi dell’Est europeo,
determinando vistose crisi politiche che venivano a maturazione a
partire dal 1989: in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica
Democratica Tedesca, Bulgaria, Romania, Albania e Iugoslavia
cadevano in modo più o meno traumatico i regimi comunisti,
mentre mutamenti costituzionali e nuove consultazioni elettorali
sancivano l’affermazione del pluripartitismo. Nel 1991 la crisi
del potere comunista in URSS determinava la disgregazione dello
stesso Stato sovietico, che comportava una fondamentale modifica
dell’assetto politico mondiale.
Pur sancita la fine dell’internazionalismo comunista, e fra i vari
dibattiti sul bilancio storico di un’esperienza, va comunque
rilevata la permanenza di partiti comunisti al potere in alcuni
paesi, come Cina, Corea del Nord, Cuba, Vietnam e la presenza di
movimenti e partiti di tradizione o ispirazione comunisti in molte
regioni del pianeta.
4. Il Partito Comunista Italiano
Il 21 gennaio 1921, a Livorno, dalla corrente di sinistra del
Partito socialista italiano nacque il Partito comunista d’Italia -
Sezione italiana dell’Internazionale comunista (PCd’I ), che
avrebbe mantenuto tale denominazione fino al giugno 1943
(scioglimento dell’Internazionale) quando prese il nuovo nome di
Partito Comunista Italiano (PCI ).
Fondato dagli esponenti della corrente astensionista di A. Bordiga
e dal gruppo torinese dell’Ordine nuovo, periodico diretto da A.
Gramsci, il PCd’I fu costituito in polemica con la politica
socialista e allo scopo di organizzare e dirigere lo sbocco
rivoluzionario della crisi italiana. I primi anni furono
caratterizzati da un lato dalla sconfitta del movimento operaio e
dalla reazione statuale e fascista, dall’altro dal rapido
spostarsi del gruppo dirigente sulle posizioni dell’ala sinistra
dell’Internazionale. Ciò determinò il diversificarsi
delle posizioni all’interno del partito e la decisione
dell’Internazionale (giugno 1923) di sostituire la direzione
bordighiana con un esecutivo che includesse l’opposizione di
destra. Protagonista della bolscevizzazione fu Gramsci che diede
avvio a un nuovo corso perseguendo il consolidamento della
presenza del partito nella società. Con la promulgazione
delle ‘leggi speciali’ e l’arresto di Gramsci (novembre 1926), il
PCd’I entrò nella fase di azione clandestina. Nel 1927 la
direzione venne di fatto trasferita a Mosca e, a contatto con la
complessa situazione dell’Internazionale e del Partito comunista
dell’URSS, emerse il nuovo gruppo dirigente attorno a P.
Togliatti.
In condizioni completamente nuove il PCI tornò sulla scena
politica nazionale nel 1943. Acquisì un ruolo dirigente
nella lotta armata contro i nazifascisti e un posto di rilievo nel
Comitato di liberazione nazionale. Ma la ridefinizione della linea
del partito ebbe luogo a partire dal ritorno di Togliatti in
Italia (marzo 1944). La sua idea guida era che la trasformazione
socialista dell’Italia non dovesse avvenire per via rivoluzionaria
bensì attraverso la progressiva ascesa delle masse popolari
al governo della cosa pubblica. Escluso dal governo (maggio 1947),
il PCI venne a costituire da allora la maggiore forza politica di
opposizione, impegnata nel primo dopoguerra in un duro confronto
su temi di politica sia interna sia internazionale. Momenti
particolarmente aspri furono le manifestazioni che seguirono
l’attentato a Togliatti (luglio 1948) e la campagna elettorale per
le politiche del 1953. In questo periodo si delineò anche
lo scontro interno che avviò il ricambio generazionale alla
guida del partito. Nell’VIII congresso (dicembre 1956) il partito
fece propri i temi della coesistenza pacifica e iniziò a
prendere le distanze dall’unitarismo di stampo sovietico
prevalente nel movimento c. mondiale. Alla morte di Togliatti
(agosto 1964) venne eletto alla segreteria L. Longo.
Nei primi anni 1970 si delinearono nuove aspettative verso la
politica del PCI, alle quali il nuovo segretario E. Berlinguer
rispose nel 1973 con il compromesso storico . La delicata fase di
‘solidarietà nazionale’ ebbe termine nel marzo 1979 con la
decisione comunista di uscire da una maggioranza giudicata non
positiva, mentre iniziavano da un lato un trend elettorale
negativo e dall’altro la ricerca di una strategia di ‘alternativa
democratica’. Il relativo isolamento del PCI fu confermato dal
risultato elettorale del 1983. Durante la campagna per le elezioni
europee del 1984, Berlinguer morì. Gli subentrò
nella carica di segretario generale A. Natta, seguito nel 1988 da
A. Occhetto con il quale il PCI accentuò la ricerca e
l’impegno sulle riforme istituzionali.
Nel febbraio 1991 il PCI, nel quadro del riassetto globale dei
partiti comunisti determinato dalla dissoluzione dell’URSS, si
sciolse e il XX congresso diede vita al Partito Democratico della
Sinistra (PDS); contrari all’iniziativa si dichiararono i
militanti dell’ala sinistra che avviarono la costituzione del
Partito della Rifondazione Comunista (PRS). In seguito a una
divisione interna, guidata da A. Cossutta, da questo si scisse nel
1998 il Partito dei Comunisti Italiani (PdCI), di cui è
segretario dall’aprile 2000 O. Diliberto, fautore, dopo la
sconfitta elettorale del 2006 e l'esclusione delle sinistre
radicali dal governo per aver mancato la soglia di sbarramento, di
una riunificazione tra i due maggiori partiti comunisti (Comunisti
Italiani e Rifondazione). Il 14 ottobre 2007 nasceva il Partito
democratico (PD), di centro-sinistra, coalizione di forze
riformiste che vuole essere una sintesi delle tradizioni
socialista-socialdemocratica, cattolico-democratica e
liberal-democratica: in questo, l'erede de L'Ulivo, al governo
negli anni 1996-2001 e 2006-2008.
di Massimo L. Salvadori
Sommario: 1. Significato del termine. 2. Il comunismo come critica
degli 'interessi particolari'. 3. I diversi tipi di comunismo. 4.
Forme e modelli del comunismo antico. 5. Cristianesimo e
comunismo. 6. Le correnti del comunismo millenaristico e utopico
nell'età moderna. 7. Socialismo e comunismo 'utopistici'
nell'età della prima industrializzazione. 8. Il comunismo
marx-engelsiano. 9. Il rovesciamento dell'ipotesi marxiana: lo
sviluppo senza rivoluzione e la rivoluzione senza sviluppo. 10. Il
bolscevismo dalla sua formazione al 1917. 11. Il comunismo al
potere. La nascita dello Stato bolscevico e la Terza
Internazionale. 12. Totalitarismo e industrializzazione accelerata
nell'URSS staliniana. 13. Dall'apogeo del comunismo staliniano e
dalla formazione del 'campo' socialista alla 'destalinizzazione'
ad opera di Chruščëv. 14. L'URSS e l'Europa dell'Est dalla
'restaurazione' brezneviana alla perestrojka di Gorbačëv e al
collasso dei regimi comunisti. 15. Il comunismo cinese e la sua
evoluzione. 16. Il comunismo nei paesi capitalistici fra le due
guerre mondiali. I rivoluzionari senza rivoluzione. 17. Il
comunismo occidentale dalla seconda guerra mondiale al suo
esaurimento. □ Bibliografia.
1. Significato del termine
Il termine comunismo ha un duplice significato: per un verso
designa un progetto di riorganizzazione radicale della
società, fondato sull'abolizione della proprietà
privata e sulla sua sostituzione con la proprietà
collettiva dei mezzi di produzione, o quantomeno dei beni
prodotti, e culminante nella costituzione di rapporti sociali
armonici tali da portare alla definitiva soppressione dei
conflitti economici, politici ed etici; per altro verso indica
l'insieme dei movimenti che si sono organizzati in vista
dell'attuazione di questo progetto, e che in età
contemporanea, nel quadro delle lotte del movimento operaio, hanno
rivendicato una posizione di avanguardia combattendo le posizioni
dei partiti socialdemocratici e socialisti giudicate rinunciatarie
e devianti.
2. Il comunismo come critica degli 'interessi particolari'
L'idea centrale del comunismo è che i meccanismi economici
determinati dalla proprietà privata, i rapporti sociali che
ne derivano, le istituzioni politiche che li regolano e gli
ordinamenti giuridici che li tutelano, producano necessariamente
una strutturale diseguaglianza fra gli uomini, l'oppressione dei
molti e il privilegio dei pochi; che l'eguaglianza costituisca il
valore e lo scopo supremo; che per realizzare quest'ultimo occorra
un sovvertimento totale delle basi della società, il quale
introduca la proprietà collettiva. La lotta per il
comunismo è dunque finalizzata all'abolizione del mondo
degli 'interessi particolari', frutto della divisione tra
proprietari e non proprietari, e alla costituzione di un ordine
sociale in grado di sopprimere una volta per sempre i meccanismi
che, mediante un processo di alienazione, separano l'uomo storico
dalla sua natura.
3. I diversi tipi di comunismo
Se tutte le forme di comunismo hanno il loro comun denominatore
nella convinzione che la proprietà privata costituisca la
matrice di tutti i mali sociali, esse vanno però distinte
in relazione a due elementi principali: 1) i mezzi per attuare la
nuova società; 2) i 'soggetti' preposti a guidare il
processo di trasformazione.
Esiste un comunismo che fa leva in primo luogo sulla riforma etica
e/o religiosa dell'uomo, e invece un comunismo politico e
materialistico, il quale ritiene che l'arma per eccellenza sia la
mobilitazione degli interessi materiali degli strati sociali
oppressi. Si dà poi un comunismo che delega a élites
di 'coscienti' la guida delle masse, sfruttate ma ideologicamente
arretrate, nella lotta per la nuova società; e un comunismo
che invece vede nelle masse, rese consapevoli dei loro interessi
dal meccanismo stesso dello sfruttamento, il soggetto principale
della trasformazione e perciò respinge ogni tutela e guida
autoritaria dall'alto.Quanto ai tempi storici in cui i tipi di
comunismo si sono affermati, possiamo dire che il comunismo etico
e/o religioso si è prevalentemente sviluppato prima della
Rivoluzione francese e dell'avvento della società
industrialistica, laddove il comunismo politico dopo di esse. Per
contro comunismo autoritario e comunismo democratico attraversano
l'intera storia di questa teoria e dei movimenti a essa legati.
Prima della Rivoluzione francese e della trasformazione
industrialistica, i comunisti concepivano la società
esistente come una realtà 'ingiusta', contraria ai precetti
della morale umana o della religione oppure all'ideale politico di
un ordine non conflittuale. Essi non avevano l'idea, la quale
invece caratterizza prevalentemente il secondo tipo di comunismo,
che la società fosse un organismo in sviluppo; che questo
sviluppo creasse le condizioni per la realizzazione dei progetti
comunistici favorendo la crescita di certi gruppi sociali a
scapito di altri; che il nuovo ordine potesse essere costituito
solo una volta raggiunto un determinato grado di sviluppo e non
prima. Le armi fondamentali della loro battaglia, in conseguenza,
erano la denuncia dell''ingiustizia' in termini etici e/o
religiosi, l'appello all'autoriforma della società,
l'elaborazione di progetti di rigenerazione e di rifondazione
generale. Questi progetti si esprimevano in disegni utopici,
diretti spesso in primo luogo ai governanti e alle classi alte,
richiamati ai loro doveri umani. Le vie di siffatti utopismi erano
fondamentalmente due: da un lato la stesura ad opera di esponenti
delle élites politiche e culturali di testi teorici al fine
di persuadere della superiorità razionale e umana
dell'ordine comunistico; dall'altro la mobilitazione eversiva di
certi strati sociali, guidata da esponenti di correnti del
cristianesimo radicale ispirati dal mito dell'eguaglianza
evangelica, al fine di costituire una società
autenticamente cristiana.Per contro, la convinzione che il
comunismo avesse le sue radici nella dinamica dei conflitti di
classe e il suo soggetto privilegiato in una specifica classe ha
caratterizzato il comunismo contemporaneo: il quale ha affidato la
realizzazione dei propri fini in primo luogo non più alla
denuncia etica e/o religiosa, bensì alla mobilitazione
mondana degli interessi, all'organizzazione politica e alla
rivoluzione come rovesciamento dei rapporti di classe, nel quadro
di un'analisi scientifica dello sviluppo delle forme di
società.
4. Forme e modelli del comunismo antico
In tutte le forme di comunismo premoderno è presente il
mito di una felicità perduta a cui si vuole ritornare. Si
tratta del mito della cosiddetta 'età dell'oro', che ha una
storia millenaria e arriva sino all'epoca moderna. Due soli
esempi. Nel Liji (Memorie sui riti), testo che costituisce
un'espressione classica dell'utopismo sociale cinese antico e
comprende parti che risalgono probabilmente sino al IV-III secolo
a.C., si favoleggia di un "periodo della Grande Unità", in
cui si lavorava "senza cercare un profitto privato" e "le
ambizioni personali non potevano svilupparsi". Nella Spagna del
XVI secolo, Cervantes faceva risuonare l'elogio del tempo in cui
si ignoravano "queste due parole: tuo e mio" e "tutto era pace,
tutto amicizia, tutto concordia".
Nel pensiero antico greco e cinese troviamo fissati due opposti
modelli di comunismo, che possiamo definire l'uno
gerarchico-organizzativo e l'altro democratico-spontaneistico. Il
primo trova la sua classica espressione nella Repubblica di
Platone (427-347 a.C.) e il secondo nella scuola taoista (V-IV
secolo a.C.). Platone solo con opportune riserve può essere
considerato un teorico comunista. Il suo scopo primario era
infatti quello di porre fine alla conflittualità
all'interno della società greca. Egli elabora un tipo di
Stato basato su diverse 'classi' - governanti, guerrieri e
produttori -, aristocratico e gerarchico, teso ad assicurare il
predominio della minoranza dei 'migliori'. Per assicurare l'ordine
politico, vuole che i governanti operino in vista del bene comune
e non di quello privato. E allo scopo di ottenere governanti e
anche guerrieri lontani dal perseguimento di interessi privati,
sostiene la necessità di abolire per gli uni e per gli
altri la proprietà privata sia dei beni materiali sia delle
donne, in quanto fonte di divisioni e conflitti. L'elemento
comunistico resta così limitato al vertice e alla parte
centrale della piramide sociale, è funzionale al
perseguimento dell'ordine politico, non dell'eguaglianza in quanto
valore universale, e viene collocato in una struttura sociale e
politica fortemente gerarchica.
Un modello opposto è presentato nella stessa epoca storica
dai testi taoisti, dove si parla di "un solo corpo sociale" e di
un ordine nel quale "non esistono capi e tutto si svolge in modo
spontaneo", senza divisioni fra governanti e governati. Altro
interessante tipo di comunismo antico è quello praticato
dalla setta ebraica degli Esseni (II secolo a.C.-I secolo d.C.),
dove una rigida organizzazione gerarchica, al cui vertice era
collocata la casta dei sacerdoti, poggiava sulla comunione dei
beni.
5. Cristianesimo e comunismo
Aspetti di radicalismo sociale, che in taluni casi assume un volto
comunistico, è inoltre dato rintracciare nel cristianesimo.
È naturalmente importante sottolineare come qui il problema
della produzione, della distribuzione e del consumo dei beni
risulti del tutto subordinato alla dimensione religiosa. Il
cristianesimo sociale ha il suo fondamento nel comandamento
dell'amore del prossimo e nella condanna della ricchezza in quanto
fonte di egoismo. Da ciò derivano due diverse espressioni
dell'amore cristiano: l'una moderata e l'altra radicale. Nella
forma moderata, lo spirito di carità porta l'abbiente a
dare al povero una parte dei propri beni; in quella estrema, a
rinunciare integralmente alle ricchezze e a stabilire una
comunità dei beni, in modo che tutti possano riconoscersi
realmente fratelli in Cristo realizzando la comunione dei santi in
attesa della vita eterna. Nel cristianesimo sociale radicale
l'attaccamento alla proprietà privata è visto come
una conseguenza del peccato originale, che porta l'uomo
all'egoismo. Nei Vangeli si trovano passi che giustificano sia la
concezione moderata che quella radicale. Quest'ultima ha trovato
una sua espressione in un celebre passo degli Atti degli Apostoli,
in cui si descrive la comunità dei credenti come quella in
cui "tutto era comune".
Il mito dell'età dell'oro trovò nel pensiero
cristiano una formulazione tipica. Nel De civitate Dei
sant'Agostino (354-430) parla di una prima età in cui gli
uomini vivevano senza leggi e proprietà privata, prodotti
le une e l'altra dal peccato originale. Dal canto suo
sant'Ambrogio (340-397) denuncia la proprietà come
"usurpazione".
Nel periodo tardo antico e nel Medioevo si diedero movimenti di
ribellione sociale, correnti ereticali, singole
personalità, che attaccarono le istituzioni legate alla
proprietà in nome di una completa rigenerazione umana e
religiosa. Fra i primi possiamo ricordare il movimento dei
Circoncellioni, braccianti cristiani poverissimi in lotta contro i
grandi proprietari romani dell'Africa settentrionale del IV
secolo, e i movimenti millenaristici medievali, tra i quali fece
spicco quello dei Taboriti; fra le seconde i Patarini, i Catari, i
Valdesi, le correnti estreme del movimento francescano; fra le
singole personalità, Gioacchino da Fiore (c. 1130-c. 1202),
fra Dolcino (c. 1250-1307), che predicò la comunione dei
beni e delle stesse donne, i seguaci dalle tendenze radicali
dell'inglese John Wycliffe (c. 1320-1384) e del boemo Jan Hus (c.
1369-1415). Un particolare significato va attribuito al movimento
rivoluzionario dei Taboriti, i quali nella prima metà del
XV secolo organizzarono, in una località della Boemia
settentrionale da essi denominata Tabor (dal monte della Galilea),
una società teocratico-comunistica volta a costituire una
'nuova Gerusalemme', la quale venne stroncata dalla repressione
nel 1434.
Non è agevole attribuire precise basi sociali alle correnti
di radicalismo ereticale e al comunismo tardo antico e medievale;
ma in termini generali è possibile dire che i movimenti
come quello dei Circoncellioni e dei Taboriti ebbero una base
formata prevalentemente da strati inferiori (braccianti, contadini
poveri, piccoli artigiani, emarginati); laddove le altre tendenze
sopra menzionate misero radici anche negli strati intermedi
(artigiani, commercianti, contadini, basso clero) e in taluni casi
coinvolsero persino esponenti delle classi superiori. Grande
importanza, infine, ebbe nel Medioevo la rivolta contro le
istituzioni feudali e la Chiesa ufficiale, considerata un puntello
non già del regno di Dio ma di quello di Mammona.
6. Le correnti del comunismo millenaristico e utopico
nell'età moderna
Nell'età moderna il comunismo fa il suo ingresso per un
verso con le tendenze estremistiche manifestatesi in Germania nel
corso della guerra dei contadini (1524-1526), che vide emergere la
figura di Thomas Müntzer (c. 1467-1525), e con il movimento
degli anabattisti di Münster, e per l'altro verso con il
progetto di integrale ristrutturazione della società
elaborato da Tommaso Moro (1478-1535) in Inghilterra.
Il movimento esploso con la guerra dei contadini, a carattere
nettamente antifeudale, agitò solo in maniera confusa il
Leitmotiv della comunione evangelica dei beni. Gli elementi
comunistici emersero invece in primo piano nel movimento
anabattista che, in congiunta ostilità ai cattolici e ai
luterani, portò alla fondazione nel 1534 di una repubblica
teocratica nella città di Münster, dove - si diceva
nel suo programma - tutti attingono "in base ai bisogni" ai beni
messi in comune. È importante notare tanto nel movimento
dei contadini quanto nel tentativo di Münster un aspetto di
'sociologia della rivoluzione', vale a dire l'alleanza tra
elemento popolare da un lato e leaders intellettuali radicali ed
elementi declassati delle classi superiori, come i nobili
impoveriti, dall'altro: un aspetto che, in un quadro ammodernato
delle figure sociali, verrà poi teorizzato dal comunismo
contemporaneo come fattore centrale dell'azione rivoluzionaria.
È nel pensiero di Moro che il comunismo moderno trova la
sua prima elaborazione teorica. Egli reagì non solo contro
l'ordine feudale, ma anche contro le enclosures - che in
Inghilterra allargavano la grande proprietà privata a
scapito della piccola proprietà contadina oppure delle
terre comuni nell'ambito del processo di modernizzazione agraria -
e contro gli sviluppi del capitalismo manifatturiero. Il suo
saggio Utopia (1516) deve la propria importanza a tre elementi
principali. In primo luogo esce dalla penna di uno dei maggiori
esponenti della classe dirigente inglese, lord cancelliere e
grande intellettuale; in secondo luogo è il frutto di una
conoscenza quanto mai realistica dei meccanismi del sistema di
potere; in terzo luogo è l'espressione di una concezione
comunistica radicale, secondo cui la società esistente
richiede una rifondazione ab imis. Di qui il significato del
titolo del saggio: "utopia", vale a dire progetto di una
società che non sta ancora in nessun luogo. Per Moro le
istituzioni economiche e politiche vigenti sono state tutte
costruite in funzione dello sfruttamento e per la sua difesa; lo
Stato è uno strumento diretto delle classi privilegiate; la
proprietà privata è la fonte dei mali della
società e dei suoi conflitti. "Il solo mezzo - scrive - per
organizzare la pubblica felicità consiste nell'applicare il
principio dell'eguaglianza. Ora l'eguaglianza è impossibile
in uno Stato nel quale la proprietà sia individuale e
assoluta". Moro, inoltre, introduce un'altra idea-forza del
comunismo moderno: la necessità di elaborare un 'piano'
generale onde regolare secondo modalità razionali e ai fini
della pubblica felicità la produzione, e di abolire il
danaro come mezzo di accumulazione e di scambio. Per lui il
comunismo rappresenta il mezzo necessario per stabilire l'armonia
fra tutti e consentire a ciascuno di sviluppare le proprie
facoltà spirituali liberamente. Emerge qui chiaramente
un'analisi che distingue fra 'struttura' materiale e
'sovrastrutture' istituzionali e culturali.
Al Moro cattolico e utopista, il quale analizza la società
inglese agli albori dei processi di modernizzazione, rimane
estranea l'idea che per la realizzazione del comunismo occorra una
mobilitazione sociale e politica degli interessi. Egli resta
altresì in un orizzonte entro il quale il mezzo è
essenzialmente la persuasione filosofica, etica e religiosa delle
classi alte. E rimane nella scia platonica nell'affidare ai
migliori la guida politica della nuova società. Quasi un
secolo dopo il calabrese Tommaso Campanella (1568-1639) nella
Città del sole (1602) dava un'altra formulazione di
utopismo comunista, immaginando una teocrazia senza
proprietà privata, sottoposta a criteri di programmazione
(degli stessi accoppiamenti, essendo poste in comune anche le
donne), retta da un'élite sapiente, tesa alla rigenerazione
etico-religiosa universale.
Nel XVII e XVIII secolo il comunismo ebbe tre principali direzioni
di sviluppo. In primo luogo trovò una sua significativa
espressione in quello che venne detto 'lo Stato comunistico' dei
gesuiti del Paraguay; in secondo luogo diventò la bandiera
delle correnti più radicali della prima Rivoluzione inglese
e della Rivoluzione francese; in terzo luogo fu il prodotto del
pensiero di intellettuali. Nel Paraguay, con l'intento di
sottrarre gli Indios alla schiavitù, i gesuiti costituirono
nel corso del XVII secolo delle comunità nelle quali il
lavoro era obbligatorio, i beni distribuiti secondo i bisogni
delle famiglie, la proprietà individuale e il danaro
vietati, l'istruzione organizzata, il sistema di governo
costituito affiancando principî gerarchici e forme di
autogoverno. Questo esperimento di 'teocrazia sociale' venne
travolto in conseguenza dell'espulsione dell'ordine dei gesuiti
avvenuta nel XVIII secolo ad opera delle monarchie assolute.
Nel corso delle due maggiori rivoluzioni europee dell'età
moderna, il comunismo assunse una nuova specificità. Esso
si manifestò come critica non soltanto della
proprietà in generale ma in specie della proprietà
borghese in sviluppo, introducendo l'idea che la società
comunista avrebbe potuto nascere unicamente dalla mobilitazione in
senso rivoluzionario degli strati oppressi. Il comunismo
subì in tal modo un mutamento qualitativo, diventò
un'ideologia politica in senso moderno, finalizzata a una lotta
fra gruppi e classi sociali e alla creazione di un ordine politico
atto a garantire il successo del potere rivoluzionario nella fase
di transizione dalla vecchia alla nuova società.
Durante la prima Rivoluzione inglese il comunismo emerse, intorno
alla metà del XVII secolo, con il movimento degli Zappatori
(così detti per aver preso a zappare terreni pubblici in
nome del lavoro libero e della proprietà comune), i quali,
legando comunismo agrario e cristianesimo primitivo, chiesero la
formazione di un settore collettivizzato dell'economia e
denunciarono il sistema legale e le istituzioni religiose come
baluardi della proprietà privata.
Nella cultura francese settecentesca gli ideali comunistici
vennero ripresi da alcuni intellettuali radicali, che, in diretta
opposizione alla concezione lockiana secondo cui la
proprietà privata costituisce un diritto di natura
inviolabile, definirono la proprietà come il più
negativo degli artifici sociali, e cioè contro natura. Del
pari, fu posta in primo piano la tesi, che collegava comunismo e
materialismo, secondo cui non solo le chiese ma la religione
stessa andava respinta, essendo un ostacolo alla libertà
spirituale e uno strumento del potere dei privilegiati. Si
trattò di una svolta che poneva fine al connubio fra
comunismo e cristianesimo millenaristico. Jean Meslier
(1664-1729), povero e solitario parroco, sostiene che Dio non
esiste e che la proprietà è la fonte di tutte le
ingiustizie. Nel suo Testamento afferma solennemente che "tutti
gli uomini sono uguali per natura". E Morelly (nome di un
personaggio sconosciuto) nel suo Codice della natura stabilisce
l'equivalenza di natura, ragione, comunanza dei beni,
felicità. Gabriel Bonnot de Mably (1709-1785) ritiene che
la proprietà sia la radice dell'oppressione e
dell'ingiustizia. L'originalità di Léger-Marie
Deschamps (1716-1774) sta nel concepire il comunismo come "una
società dei costumi", retta da spontanei vincoli di
adesione, in cui non si danno più "né ordini
né obbedienza".
Perché il radicalismo teorico di questi pensatori trovi una
sua espressione concretamente politica, occorre attendere
l'iniziativa rivoluzionaria coagulatasi durante la Rivoluzione
francese intorno a François-Noël Babeuf, detto Gracco
(1760-1797). Il babuvismo rappresenta insieme l'ultima espressione
del comunismo preindustriale e la prima forma di comunismo
contemporaneo. Esso resta nell'alveo del comunismo preindustriale,
in quanto guarda ancora anzitutto al mondo delle campagne, alla
produzione artigianale e al comunismo in termini prevalentemente
di comunione dei beni prodotti; sennonché apre un capitolo
del tutto nuovo, in quanto prodotto delle lotte politiche e
sociali della Rivoluzione francese. Questa diede ai babuvisti la
convinzione che la dinamica dei conflitti politici avesse le
radici nei diversi interessi di classe, che l'eguaglianza
perseguita dalla borghesia mantenesse un carattere 'formale', che
per emanciparsi il Quarto stato, formato dalle masse dei
lavoratori subalterni, degli artigiani, dei contadini poveri,
degli emarginati, dovesse compiere - come affermava il Manifesto
degli Eguali (1797) - "l'ultima rivoluzione", quella cioè
che avrebbe introdotto il comunismo. L'originalità del
babuvismo consistette in particolare nell'elaborare una specifica
teoria della transizione rivoluzionaria, secondo la quale: 1) la
lotta per il comunismo poteva essere diretta solo da una minoranza
cosciente e organizzata; 2) nel corso di questa lotta era
inevitabile l'uso della violenza; 3) il potere postrivoluzionario
preposto al consolidamento della rivoluzione sarebbe stato una
'dittatura' avente quale scopo di preparare la transizione al
comunismo. Questi i principî della congiura degli Eguali,
conclusasi nel maggio del 1797, allorché Babeuf venne
ghigliottinato.
7. Socialismo e comunismo 'utopistici' nell'età della prima
industrializzazione
La rivoluzione industriale e i suoi sviluppi da un lato e la
Rivoluzione francese dall'altro diedero al comunismo tre nuove
componenti di cruciale importanza, tali da costituire uno
spartiacque fra il comunismo moderno e quello contemporaneo: 1) la
convinzione che, grazie agli effetti dell'industrializzazione, il
comunismo sarebbe scaturito primariamente dalla crescita di una
ricchezza sociale inaudita messa a disposizione di
un'umanità liberata dai conflitti di classe; 2)
l'identificazione del 'soggetto' portatore della lotta per il
comunismo nella moderna classe operaia organizzata in funzione dei
propri interessi rivoluzionari; 3) l'identificazione della guida
delle masse rivoluzionarie nella minoranza di quanti sono
'coscienti' delle leggi di sviluppo della società e quindi,
oltre che della desiderabilità, anche della
necessità storica del comunismo.
Occorre, a questo punto, notare che il comunismo otto-novecentesco
si è sviluppato in stretto rapporto con ciò che
è stato e viene chiamato 'socialismo'. Si tratta di un
rapporto che per un verso risulta inscindibile e per un altro non
solo richiede una distinzione ma comporta altresì una
contrapposizione. Anzitutto vanno chiariti la distinzione
terminologica e il suo significato. Il comunismo fa primariamente
riferimento al fine della comunione dei beni, insomma a un
obiettivo di radicale mutamento delle basi della società;
il socialismo, invece, è da correlarsi all'assunzione dei
problemi posti dall'emergere nella società industriale
della 'questione sociale' come dimensione oggettiva della
società, e a progetti diversi, anche del tutto
contraddittori fra loro, volti ad affrontarla. Vi è un
socialismo che si collega in linea diretta al comunismo, del quale
si considera fase preliminare. Vi sono forme di socialismo
rivoluzionario e altre che respingono la rivoluzione in nome di un
riformismo gradualistico, pur mantenendo come fine l'abolizione
della proprietà privata. Vi sono forme che intendono
affermare il primato del momento sociale e solidaristico, senza
abolire la proprietà privata ma solo limitandola e
controllandone l'esercizio (come il socialismo di Stato tedesco,
il socialismo cristiano, il socialismo cooperativo, le forme di
socialismo favorevoli a un'economia 'mista' pubblico-privata
regolata dallo Stato, ecc.). Vi sono le diverse correnti di
socialismo anarchico, avverse allo statalismo politico ed
economico. Vi è il socialismo liberale, che considera
necessario porre in relazione feconda mercato, iniziativa
individuale e diritti sociali.
Nella prima metà dell'Ottocento la rivoluzione industriale
dall'Inghilterra si estese all'Europa occidentale. Gruppi di
intellettuali socialisti e comunisti ed esponenti delle frange
radicali degli strati sociali inferiori, fra cui numerosi
artigiani, giunsero alla conclusione che il capitalismo
industriale individualistico e concorrenziale non fosse
strutturalmente in grado di risolvere la questione sociale, e
andasse perciò abolito. Circa i modi in cui ricostruire la
società e con quali mezzi, socialisti e comunisti si
divisero in diverse scuole. Accanto agli esponenti del socialismo
che progettavano nuove forme di società, quali Claude-Henri
conte di Saint-Simon, Robert Owen, Charles Fourier, Pierre-Joseph
Proudhon e Louis Blanc, si collocavano teorici e agitatori che si
ponevano quale scopo non tanto di analizzare la nuova
società capitalistica e di innestare su questa analisi i
loro progetti socialistici, quanto piuttosto di predicare un
neomillenarismo comunistico guidato da profeti e capi carismatici
o volto a stabilire una dittatura rivoluzionaria. Étienne
Cabet (1788-1856), assai popolare fra gli operai francesi, mentre
riprendeva i modelli dell'utopismo comunista di Moro e Campanella,
vedeva nell'unione fra comunisti moderni e un dittatore, nuovo
Gesù, il mezzo del sovvertimento della società
esistente. Il tedesco Wilhelm Weitling (1808-1871) nelle Garanzie
dell'armonia e della libertà (1842) teorizzò la
conquista del potere da parte delle masse sotto la guida di un
capo provvidenziale. Il contributo di questi pensatori era
importante in quanto poneva in primo piano il problema della
leadership politica nel processo rivoluzionario. Circa il cruciale
nodo se si rendesse o meno necessario il ricorso alla violenza,
mentre ad esempio Cabet lo respingeva, essendo convinto della
forza di persuasione esercitata dall'evangelismo comunista,
Louis-Auguste Blanqui (1805-1881) riprese l'impostazione di Babeuf
e del suo seguace Filippo Buonarroti, sostenendo la via della
cospirazione, l'obiettivo della 'dittatura del proletariato',
elevando così questa classe a soggetto primario del
processo rivoluzionario, e un ruolo privilegiato delle minoranze
coscienti e attive nella lotta di classe e nel potere
dittatoriale.
8. Il comunismo marx-engelsiano
Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) sono i
maggiori teorici del comunismo contemporaneo, e da essi prese
origine il 'marxismo' (così chiamato dal riconoscimento del
maggior contributo dato dal primo). Nel comunismo marxistico
giunsero a maturazione due elementi essenziali: un'analisi e una
critica della società esistente che ne fecero una presenza
teorica e politica centrale nel mondo contemporaneo; un legame
organico fra teoria comunistica e movimento organizzato dei
lavoratori.
Il marxismo riprese dalle utopie comunistiche e socialistiche
l'idea che la proprietà privata e le istituzioni che da
essa derivavano fossero da abolire integralmente; e dalle correnti
del materialismo settecentesco e dal pensiero di Ludwig Feuerbach
ricavò la concezione che la libertà spirituale
richiedesse la piena liberazione dall''alienazione' religiosa. Ma,
figlio della rivoluzione industriale e delle lotte politiche e
sociali che avevano avuto la loro matrice nella Rivoluzione
francese, il marxismo si distaccò completamente da quelle
utopie nel modo di intendere il fondamento sociale del movimento
comunista. Esso, dando all''utopismo' un carattere negativo per la
sua astrattezza e mancanza di senso della concretezza nel
considerare le varie formazioni storico-sociali e il carattere
necessario della loro successione, affermò che il comunismo
poteva derivare soltanto dallo sviluppo e quindi dal superamento
della società esistente, non dalla sua negazione
ideologica; che in assenza dello sviluppo capitalistico il
comunismo era destinato a restare un'utopia per mancanza di un
adeguato presupposto materiale; che solo il capitalismo poteva
portare a maturazione i conflitti di classe fra le due moderne
classi sociali: la borghesia, agente storico della
modernizzazione, e il proletariato, chiamato a essere l'agente del
superamento della formazione economico-sociale capitalistica; che,
giunto al potere, il proletariato avrebbe stabilito la propria
dittatura politica, servendosi del potere statale per stroncare
l'opposizione delle vecchie classi, eliminare il meccanismo dello
sfruttamento economico, assicurare il passaggio alla fase
socialista in cui ciascuno avrebbe ricevuto secondo il proprio
lavoro; che, infine, sarebbe stata raggiunta la fase della
realizzazione del comunismo, contrassegnata da un'enorme
disponibilità di beni - tanto da consentire a ciascuno di
ricevere secondo i propri bisogni -, dalla fine dei conflitti
sociali e dal regno dell'armonia, da un umanesimo integrale ignaro
dell'alienazione religiosa, dal libero sviluppo della
personalità di ciascuno, dall'eliminazione della divisione
del lavoro e della distinzione fra funzioni manuali e funzioni
intellettuali, dall'abolizione del danaro, dalla fine del dominio
dell'uomo sull'uomo (e quindi insieme di ogni sfruttamento
economico, della politica e dello Stato in quanto mezzo del potere
delle classi superiori su quelle inferiori), dalla scomparsa della
divisione fra città e campagna in conseguenza di un
uniforme grado di sviluppo, dal passaggio alla sola
'amministrazione delle cose' essendo ormai priva di senso
'l'amministrazione degli uomini'. Il Manifesto del Partito
comunista (1848) fu l'opera in cui Marx ed Engels esposero i
principî della loro dottrina e sostennero la tesi che ai
comunisti spettava il ruolo di rappresentare l'"interesse del
movimento complessivo" dei lavoratori; che la lotta per il
socialismo e il comunismo avrebbe richiesto un'organizzazione;
che, infine, la rivoluzione stessa avrebbe dovuto essere
internazionale per poter porre fine a quel capitalismo che aveva
ormai superato tutti i confini nazionali. Accanto al Manifesto,
nella ricchissima produzione intellettuale di Marx un posto
preminente spetta a Per la critica dell'economia politica (1859) e
a Il capitale, l'opera in tre volumi di cui solo il primo venne
pubblicato nel corso della sua vita, nel 1867. Nella prima opera
Marx, inteso a descrivere l'anatomia della società
borghese, tracciava la distinzione fra due piani: la 'struttura
economica', ossia 'la base reale' costituita dalle forze
produttive materiali e dai rapporti di produzione e sede dei
meccanismi dello sfruttamento capitalistico, e la 'sovrastruttura
giuridica e politica', che dava espressione alle forme,
condizionate dalla struttura economica, della 'coscienza sociale'
e delle istituzioni intese a regolare il piano delle relazioni
materiali. La stabilità di una formazione economico-sociale
è data da una relazione di equilibrio e di
funzionalità fra struttura e sovrastruttura. Quando invece,
in conseguenza dello sviluppo, si crea una condizione di
contraddittorietà crescente fra la prima e la seconda,
"allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale".
L'idea del primato dell'economia nello sviluppo sociale
caratterizza il marxismo come una concezione 'materialistica'
della storia; laddove l'idea che il conflitto fra classi dagli
interessi incompatibili costituisca il motore della rivoluzione ne
fa una concezione 'dialettica' (Marx aveva subito l'influenza
profonda del pensiero dialettico di Hegel). Il capitale fu il
testo nel quale Marx analizzò, piegando alle esigenze della
propria analisi l'eredità teorica di pensatori classici
come Smith e soprattutto Ricardo, le leggi che regolavano lo
sviluppo del capitalismo. Intendendo segnare una cesura rispetto
al comunismo da lui considerato utopistico in quanto concepiva
l'avvento della nuova società come il prodotto della
rivendicazione di diritti umani violati, Marx affermò: "Il
mio punto di vista [...] concepisce lo sviluppo della formazione
economica della società come un processo di storia
naturale". Da questa impostazione venivano le seguenti
conclusioni: 1) che il meccanismo di sfruttamento capitalistico
(avente il suo cardine nell'appropriazione del 'plusvalore' da
parte del capitalista) rappresentava una fase necessaria dello
sviluppo sociale; 2) che tutti i paesi nel corso della loro
modernizzazione avrebbero seguito fondamentalmente la via inglese;
3) che la rivoluzione socialista internazionale avrebbe potuto
avvenire solo una volta che il capitalismo avesse raggiunto la sua
maturità; 4) che lo sviluppo del capitalismo giunto alla
fase della piena maturità avrebbe prodotto prima la
scomparsa dei ceti intermedi e poi lo scontro risolutivo fra una
minoranza di grandi capitalisti e la grande massa dei proletari,
sulla base di un processo gigantesco di concentrazione delle
attività produttive; 5) che siffatta concentrazione avrebbe
costituito la base materiale, una volta realizzatosi il processo
di espropriazione dei capitalisti, della produzione
collettivistica sottoposta alle regole del piano socialista.
La lotta rivoluzionaria, secondo Marx ed Engels, doveva avere
quindi il suo fondamento nella conoscenza scientifica dello
sviluppo economico-sociale, nell'organizzazione del proletariato e
nella guida esercitata su quest'ultimo dai comunisti.Un aspetto
importante era altresì quello del ruolo che la violenza e
le sue forme avrebbero esercitato nel processo rivoluzionario.
Marx ed Engels considerarono la dittatura del proletariato come un
inevitabile atto di violenza sociale e istituzionale. Per quanto
riguardava invece la violenza fisica, quale quella esercitata dai
giacobini, essi oscillarono: in taluni momenti la condannarono, in
altri la definirono una necessità politica. Certo per essi
maggiormente contava la violenza istituzionale. E nel 1871 Marx,
commentando i fatti della Comune di Parigi, affermò che "la
forma politica" con cui "si poteva compiere l'emancipazione
economica del lavoro" non era il parlamentarismo liberale,
bensì una dittatura del proletariato fondata su istituti di
democrazia di classe e diretta, tale da impedire la ripresa
politica delle classi dirigenti sconfitte e da spezzare lo Stato
burocratico e centralistico.
9. Il rovesciamento dell'ipotesi marxiana: lo sviluppo senza
rivoluzione e la rivoluzione senza sviluppo
La formazione nel 1864 della Prima Internazionale dei partiti
socialisti e operai, la crescente diffusione del marxismo nelle
sue file, l'inizio nel 1873 di un lungo e vasto ciclo depressivo
del capitalismo parvero dare un credibile fondamento alle analisi
di Marx ed Engels. Sennonché il periodo fra l'ultimo
decennio del secolo e lo scoppio della prima guerra mondiale
scompaginò profondamente lo status teorico e pratico del
marxismo. Si assistette, infatti, a un evolversi del processo
storico che rovesciava i nessi 'logici' stabiliti dall'analisi
marxiana. Assumendo come parametri dello sviluppo capitalismo e
democrazia politica, si vide che, dove si consolidavano l'uno e
l'altra insieme, i movimenti rivoluzionari socialisti non
assumevano alcun ruolo significativo (Stati Uniti e Inghilterra);
dove il capitalismo metteva salde radici, ma il quadro
istituzionale restava fortemente autoritario, i conflitti politici
e sociali tendevano nella sostanza sempre più alla
conquista della democrazia e sempre meno all'abbattimento del
capitalismo (Germania); dove, invece, il capitalismo moderno era
ancora in una fase iniziale e contemporaneamente mancava la
democrazia, lì allora lo spirito e la pratica
rivoluzionaria si rafforzavano costantemente, e il marxismo
diventava una componente fondamentale della lotta contro il
sistema dominante (Russia zarista). In tal modo il marxismo
subì un drastico mutamento di funzione: in luogo di essere
l'ideologia di una classe operaia maggioritaria in un capitalismo
maturo per la transizione al socialismo, diventò di fatto
l'ideologia di élites intellettuali e di gruppi di
minoranza della classe operaia, aventi di fronte quale unico
compito possibile una rivoluzione diretta contro un ordine
politico-istituzionale autoritario, in una società
debolmente borghese e capitalistica, e finalizzata alla
modernizzazione. Alla vigilia della prima guerra mondiale questo
processo di differenziazione nella 'geografia' del movimento
operaio internazionale appariva completamente delineato. Ed
è particolarmente significativo che in Germania, dove
esisteva il più forte partito socialdemocratico del mondo,
la forza dello sviluppo capitalistico avesse portato alla nascita
di una corrente di radicale revisione del marxismo (il
'revisionismo', di cui fu promotore Eduard Bernstein, divenuto poi
una corrente internazionale), che criticava frontalmente l'analisi
dello sviluppo economico di Marx e la prospettiva rivoluzionaria,
indicando quali compiti essenziali la lotta per le riforme sociali
e per la piena democrazia politica. La maggioranza del partito
restava sì fedele alla lettera del marxismo, ma nella
pratica era orientata fondamentalmente a seguire la linea
revisionistica. Il marxismo - e qui notiamo un aspetto largamente
anticipatorio di un processo destinato a diffondersi nei partiti
politici legati al movimento operaio dell'Europa capitalistica
sviluppata - non esprimeva una funzione rivoluzionaria attiva,
bensì quella di una ideologia della protesta, per lo
più passiva, diretta contro gli aspetti autoritari dello
Stato e il conservatorismo sociale delle classi dirigenti.
10. Il bolscevismo dalla sua formazione al 1917
Fu in Russia, dove nel 1898 era sorto il Partito Operaio
Socialdemocratico Russo, che la rivoluzione tornò a
diventare prassi concreta e il marxismo una delle sue componenti
attive, avendo però, come si è detto, le sue radici
non nella maturità, ma all'opposto nell'immaturità
del capitalismo.
Ben presto, nel 1903, al suo II Congresso il Partito si divise, in
relazione sia ai criteri di organizzazione interna, sia alle
prospettive strategiche, in una corrente minoritaria
('menscevica') e in una maggioritaria ('bolscevica'). I
menscevichi erano favorevoli a un'organizzazione aperta non solo
agli elementi impegnati attivamente nel lavoro di partito ma anche
ai simpatizzanti che ne condividessero i fini; erano ostili
all'idea di qualsiasi primato degli intellettuali e consideravano
il proletariato il vero soggetto del processo rivoluzionario, in
quanto lo ritenevano pienamente in grado di acquisire la
necessaria 'coscienza' socialista, in conseguenza della posizione
sociale tenuta nella struttura di classe e nel processo produttivo
dominato dai meccanismi dello sfruttamento. Per contro, in diretta
opposizione al leader del menscevismo Julij Osipovič Cederbaum,
detto Martov (1873-1923), il leader del bolscevismo Vladimir
Il´ič Ul´janov, detto Lenin (1870-1924), sostenne un
punto di vista rovesciato, illustrato soprattutto negli opuscoli
Che fare? (1903) e Un passo avanti e due indietro (1904). Qui
Lenin operò una vera e propria rivoluzione copernicana in
relazione al modo, consolidatosi nel marxismo occidentale e nella
sua variante menscevica, di considerare il rapporto fra 'coscienza
socialista' da un lato e minoranze attive e massa proletaria
dall'altro.
Anche Lenin non nutriva il minimo dubbio che le contraddizioni
oggettive dello sviluppo capitalistico avrebbero spianato la
strada alla rivoluzione socialista; ma interpretò il
meccanismo di queste contraddizioni in maniera del tutto inedita.
Egli mise al centro la tesi che lo sfruttamento per propria natura
spingeva le masse alla lotta per miglioramenti immediati,
producendo quindi spontaneamente in esse non una coscienza
socialista bensì 'tradeunionista', favorevole ad accogliere
le istanze riformistiche del liberalismo borghese e del
'revisionismo'. La coscienza socialista-rivoluzionaria era un
prodotto dell'elaborazione degli intellettuali marxisti e la sede
della sua preservazione e diffusione poteva essere unicamente il
partito. Membri del partito dovevano essere solo coloro che
fossero disposti a trasformarsi in 'rivoluzionari di professione'.
Quindi niente simpatizzanti, inclini al disimpegno e
all'opportunismo attendistico. Principio vitale del partito era
un'organizzazione in cui regnasse la più rigida disciplina,
avente una struttura gerarchica, che connettesse in maniera
funzionale il vertice dei capi ideologi, lo strato intermedio
composto da quadri selezionati, la base costituita dai membri. Il
modello di Lenin era la struttura verticistico-burocratica della
fabbrica moderna. Il partito nel suo insieme aveva il compito di
educare ideologicamente e guidare le masse proletarie nel corso
delle lotte di classe. La teoria leniniana si caratterizzava
così in modo da delineare il ruolo privilegiato di tre
élites gerarchicamente strutturate: i capi del partito
costituivano l'élite interna; il partito era l'élite
preposta a dirigere il proletariato; il partito insieme con il
proletariato da esso guidato formavano a loro volta una più
vasta élite, avente quale compito di mettere in atto la
rivoluzione nell'intero corpo sociale, in Russia dominato dalle
grandi masse contadine arretrate. Una simile teoria svincolava il
leninismo dalle teorie democratiche ottocentesche, collegandolo
alle varie teorie elitistiche che si svilupparono a cavallo fra
Otto e Novecento. Nel Che fare? Lenin affermò
significativamente: "La coscienza politica di classe può
essere portata all'operaio solo dall'esterno"; e in Un passo
avanti e due indietro che "il principio organizzativo della
socialdemocrazia rivoluzionaria" recitava: "burocratismo versus
democrazia e centralismo versus autonomia".
A riguardo della strategia rivoluzionaria nella situazione russa,
Lenin sostenne che, data la debolezza della borghesia come classe,
era da escludersi che l'abbattimento dello zarismo avrebbe
introdotto, come invece ritenevano i menscevichi, una fase stabile
di capitalismo liberale. La debolezza borghese spingeva il partito
a farsi leader di un blocco sociale operaio-contadino con lo scopo
di instaurare una 'dittatura democratica' guidata dai partiti
rivoluzionari, fra cui la socialdemocrazia, e diretta a una
modernizzazione ancora capitalistica nei rapporti di produzione ma
non politicamente egemonizzata dalla borghesia liberale. La
dittatura democratica degli operai e contadini, una volta
scoppiata la rivoluzione socialista nei paesi capitalistici
sviluppati e grazie all'aiuto economico fornito alla Russia
arretrata dai nuovi Stati socialisti, si sarebbe trasformata in
dittatura del proletariato. Così la Russia si sarebbe
congiunta all'Occidente nel quadro della rivoluzione
internazionale socialista.
La Rivoluzione russa del 1905, conclusasi con la riaffermazione
dell'autocrazia, anche se attenuata, vide lo scacco tanto della
strategia bolscevica quanto di quella menscevica. Ma la
Rivoluzione fece maturare nuove importanti tendenze teoriche e
pratiche, che dovevano produrre decisive influenze e conseguenze
sul comunismo contemporaneo. Due gli elementi centrali: la
comparsa dei soviet (consigli), sorti a Pietroburgo e a Mosca e in
altre località per iniziativa spontanea delle masse a fini
di auto-organizzazione in assenza di sindacati e in conseguenza
delle difficoltà d'azione dei partiti clandestini
rivoluzionari; la questione del rapporto tra Rivoluzione russa e
rivoluzione socialista internazionale. Di contro ai menscevichi
che videro nei soviet una inequivocabile prova della 'coscienza'
delle masse, Lenin riaffermò il primato assoluto del
partito.
Accanto alle posizioni di menscevichi e bolscevichi emerse nella
socialdemocrazia russa una terza posizione, di cui furono
esponenti Alexander Helphand (1869-1924), detto Parvus, e Lev D.
Bronštein, detto Trockij (1879-1940). I due elaborarono la teoria
della 'rivoluzione permanente', secondo la quale non solo non ci
si poteva attendere in Russia un ruolo rivoluzionario della
borghesia, ma era da considerarsi altresì irrealizzabile
una dittatura democratica secondo la concezione leniniana.
L'abbattimento dello zarismo avrebbe infatti visto il proletariato
passare direttamente alla lotta contro i rapporti capitalistici
con finalità apertamente socialiste. Data l'arretratezza
russa, un simile processo avrebbe potuto però raggiungere i
suoi scopi solo se la Rivoluzione nell'Impero si fosse saldata con
le rivoluzioni socialiste nei paesi capitalistici sviluppati, le
quali dalla Rivoluzione russa avrebbero ricevuto un impulso
essenziale. In conseguenza, la rivoluzione in Russia e in Europa
avrebbe assunto il carattere di un processo 'ininterrotto'.
Parvus, in particolare, giunse allora a vedere nei soviet i nuclei
espansivi di una 'democrazia proletaria' opposta per
principî e interessi alla democrazia di tipo liberale e
parlamentare, in quanto in essi vigeva il principio della
democrazia diretta. Una simile prospettiva si collocava in piena
antitesi rispetto all'elitismo leniniano.
11. Il comunismo al potere. La nascita dello Stato bolscevico e la
Terza Internazionale
L'adesione nel 1914 dei partiti socialisti ai governi di guerra
nell'Europa centro-occidentale aveva portato il bolscevismo ad
affermare che essi avevano completamente tradito i propri compiti
rivoluzionari, cedendo all'influenza corruttrice delle classi
dirigenti. D'altra parte esso aveva tratto dalla guerra la
conclusione che il capitalismo internazionale fosse giunto alla
crisi definitiva, che fossero mature le condizioni 'oggettive' per
la rivoluzione, che fosse compito storico delle forze
autenticamente rivoluzionarie, di cui il bolscevismo stesso
costituiva una delle componenti fondamentali, di assicurare al
proletariato quella guida 'soggettiva' senza la quale la
rivoluzione non era in grado di passare dalla potenza all'atto.
Nel 1916 Lenin diede una compiuta base teorica a questo
orientamento ne L'imperialismo, fase suprema del capitalismo. Egli
teorizzò che occorreva creare una nuova Internazionale,
escludendo i falsi socialisti, e trasformare la guerra
imperialistica in 'guerra civile', avendo quale obiettivo la lotta
per il potere su scala internazionale. Per quanto riguardava la
Russia, facendo ormai propria l'essenza della teoria della
rivoluzione permanente, il leader del bolscevismo riteneva che la
rivoluzione socialista nei paesi sviluppati avrebbe favorito il
rapido passaggio dalla 'dittatura democratica' alla rivoluzione
socialista.
Nel febbraio del 1917 (marzo secondo il calendario occidentale) lo
zarismo venne abbattuto in Russia e in ottobre (novembre) i
bolscevichi presero il potere sotto la guida di Lenin e di
Trockij. Nella crescente disgregazione istituzionale, sociale e
militare, il discredito dei governi costituitisi dopo il collasso
dello zarismo, il raggruppamento crescente intorno ai bolscevichi
degli operai radicalizzati in senso anticapitalistico, dei soldati
ostili al proseguimento della guerra e delle masse contadine
spinte da Lenin a impadronirsi della terra costituirono il
presupposto del successo bolscevico. Questo fu favorito in maniera
risolutiva dal fatto che, di fronte alla crescente
disorganizzazione delle forze avversarie, i bolscevichi avevano a
disposizione un partito fortemente disciplinato e gerarchizzato,
dotato altresì di una sua forza militare (è da
tenersi presente che fin dal 1912 la corrente bolscevica, pur
formalmente ancora parte del Partito Operaio Socialdemocratico, si
era trasformata di fatto in un partito autonomo). La lotta per il
potere trovò un'ulteriore condizione favorevole nella
leadership congiunta di Lenin, che aveva ormai fatto propria la
posizione di Trockij sulla rivoluzione permanente, e di questi, il
quale, già tenace avversario menscevico della teoria
leniniana dell'organizzazione, ne era ora divenuto un convinto
sostenitore e nell'agosto del 1917 era entrato nel Partito
bolscevico.
Nel gennaio 1918, dopo che le elezioni per la prima Assemblea
Costituente della storia russa (aspirazione tradizionale di tutte
le forze antizariste) avevano dato un esito nettamente sfavorevole
ai bolscevichi nel suo insieme (175 seggi su 707), ma la
maggioranza del consenso nelle zone proletarie, il governo
bolscevico fece sciogliere con la forza l'Assemblea stessa,
affermando che il partito più progressivo, avente
l'appoggio della classe sociale più avanzata della
società, non poteva e non doveva cedere il potere a una
maggioranza arretrata. Lenin - che nel 1917 aveva steso un saggio,
non terminato, Stato e rivoluzione, dove delineava i tratti di una
'democrazia proletaria', in cui lo Stato centralistico e
burocratico sarebbe stato completamente distrutto, ogni
autorità si sarebbe trovata sottoposta al controllo
costante delle masse e sarebbe stato abolito "qualsiasi carattere
di privilegio e di 'gerarchia'" - operò un'irrimediabile
rottura con il parlamentarismo 'borghese', sostenendo che il
consenso della maggioranza del popolo non sarebbe mancato ai
bolscevichi non appena il nuovo potere avesse avuto modo di far
sentire i propri benefici effetti. A sottolineare il divorzio con
i partiti e le correnti socialdemocratiche o socialiste - che
condannavano il bolscevismo come antidemocratico e la Rivoluzione
di ottobre come un 'colpo di Stato' che aveva costituito un potere
socialista in un paese economicamente del tutto immaturo per il
socialismo -, i bolscevichi assunsero nel marzo del 1918 il nome
di Partito Comunista. E nel marzo del 1919 diedero vita alla Terza
Internazionale, destinata a organizzare i partiti comunisti al
fine di guidare al successo una rivoluzione mondiale giudicata
ormai matura.
Nel periodo tra il 1918 e il 1921 il bolscevismo russo
registrò una vittoria decisiva per un verso e una
catastrofica disfatta per l'altro. Contro ogni previsione, il
potere bolscevico riuscì a consolidarsi nell'ex Impero
zarista, ottenendo un pieno successo nella guerra civile
(1918-1920), ma la rivoluzione internazionale si dimostrò
un mito senza fondamento. La realtà storica operò,
rispetto alle aspettative ideologiche dei comunisti russi, una
serie di 'rovesciamenti': i paesi sviluppati restarono
capitalistici e la Russia arretrata l'unico paese ad avere un
potere comunista; la prospettiva della democrazia diretta,
antiburocratica ed egualitaria, fondata sui soviet, risultò
un'utopia e lasciò ben presto il posto alla dittatura del
Partito bolscevico, che assunse un carattere accentuatamente
burocratico e poliziesco; il bolscevismo russo, che aveva in un
primo tempo considerato se stesso come un centro provvisorio in
attesa di cedere la leadership al comunismo più maturo
vittorioso nel cuore del capitalismo mondiale (il paese a cui
soprattutto si guardava era la Germania), in quanto unica forza
che aveva fatto la rivoluzione finì per trasformarsi in un
modello obbligatorio per tutti i partiti che la rivoluzione ancora
dovevano compiere.
La consacrazione del bolscevismo russo a modello rivoluzionario
universale ebbe luogo nel 1920 al II Congresso
dell'Internazionale, dove furono adottati 21 punti o criteri di
'bolscevizzazione' che ogni partito aderente doveva fare propri.
La trasformazione del Partito bolscevico in una struttura
completamente verticistica fu completata al X Congresso del marzo
1921.
Qui, dopo che il partito aveva eliminato dalla scena tutti gli
altri partiti, per opporre un potere compatto agli stessi strati
insoddisfatti del proletariato, ai contrasti interni agli stessi
bolscevichi divisi in diverse correnti, alle minacce
insurrezionali quali quelle dei marinai di Kronstadt, fu
sanzionato il carattere monolitico del partito e vietata
l'esistenza di qualsiasi corrente. Si sanzionò
altresì la regola interna del 'centralismo democratico',
adottata da tutti i partiti comunisti, secondo cui, una volta
presa una decisione, questa sarebbe stata vincolante per tutti,
compresi coloro che l'avevano avversata e continuavano ad
avversarla. Così, dopo che già la dittatura del
proletariato si era trasformata in dittatura del partito,
quest'ultima diede luogo alla dittatura dei soli vertici. Poco
dopo la dittatura dei vertici avrebbe ceduto alla dittatura di un
solo capo.
La dittatura bolscevica diede altresì una risposta precisa
alla questione riguardante il ruolo della violenza nel nuovo
ordine. Lenin, poco dopo la presa del potere, aveva affermato che
i bolscevichi non sarebbero ricorsi a un terrore sistematico di
tipo giacobino, poiché la violenza socialista sarebbe stata
diretta essenzialmente contro le istituzioni sociali e non le
persone fisiche. La guerra civile fece da incubatrice di un corso
opposto. La violenza fisica diventò generalizzata.
Toccò a Trockij, in polemica con il socialdemocratico
Kautsky, di teorizzare in Terrorismo e comunismo (1920) che il
terrorismo giacobino e il regno della ghigliottina costituivano un
modello 'classico' per qualsiasi autentico potere
rivoluzionario.All'inizio degli anni venti il comunismo al potere
in Russia si configurava come la prima delle dittature totalitarie
contemporanee.
12. Totalitarismo e industrializzazione accelerata nell'URSS
staliniana
La morte di Lenin nel 1924 lasciò il gruppo dirigente
sovietico in preda ai più gravi contrasti. Fra il 1923 e il
1927 esso si trovò profondamente lacerato in relazione ai
fondamenti del potere politico, al rapporto fra la costruzione del
socialismo nell'URSS e la rivoluzione internazionale, alla
strategia dello sviluppo economico. A rappresentare i due poli del
contrasto furono Trockij e Josif Vissarionovič Džugašvili, detto
Stalin (1879-1953), eletto nel 1922 segretario generale del
partito; attorno a loro ruotarono G.E. Zinov´ev, L.B.
Kamenev e N.I. Bucharin. Trockij era convinto che, senza il
rilancio della rivoluzione internazionale, il potere bolscevico, a
causa dell'arretratezza della Russia, sarebbe degenerato; in
politica interna egli auspicava la ripresa del dibattito
democratico per impedire il consolidamento della burocrazia,
dotata di un sempre maggior potere. Per contro, Stalin esortava a
prendere atto che la rivoluzione internazionale non era più
attuale e difendeva il ruolo della burocrazia come indispensabile
ai fini della costruzione dello Stato socialista nella Russia
isolata. Terreno centrale dei contrasti fu altresì la
strategia economica. Nel 1921 Lenin aveva fatto approvare la NEP
(nuova politica economica), la quale aveva posto fine al
'comunismo di guerra', un regime basato sul prelevamento con mezzi
militari delle scarsissime risorse agrarie nelle campagne e sulla
distribuzione delle merci secondo rigidi criteri di
discriminazione sociale e politica, che aveva finito per provocare
il collasso della produzione. La NEP aveva reintrodotto
l'iniziativa capitalistica nelle campagne, nella piccola e media
industria e nel commercio, lasciando però nelle mani dello
Stato la finanza, la grande industria e il commercio estero. La
ripresa era stata rapida. Ma essa sollevò l'interrogativo
se non ne sarebbe risultato il rafforzamento dei ceti
capitalistici così da creare un pericolo politico per il
potere sovietico. Trockij rispondeva positivamente, e
perciò richiedeva un rapido rafforzamento della base
industriale e del proletariato come classe rispetto alla
produzione contadina e soprattutto allo strato dei contadini
ricchi (i kulaki); laddove Stalin, appoggiato da Bucharin,
sosteneva che la NEP costituiva una strategia non solo economica
ma anche politica irrinunciabile, in quanto fondata sull'alleanza
fra operai e contadini: alleanza che la linea trockijana avrebbe
distrutto mettendo in pericolo l'esistenza stessa dello Stato
bolscevico.
Stalin, considerando ormai irrealistica la rivoluzione
internazionale, era intento a rafforzare il potere statale
bolscevico facendo appello alle risorse interne e quindi
denunciò la concezione di Trockij, secondo cui senza la
rivoluzione internazionale quella russa era condannata alla
degenerazione, come fonte di sfiducia nelle forze autonome del
paese. Così Stalin trasformò il bolscevismo russo in
una ideologia nazionalistica. Al fine di dare al potere sovietico
postleniniano, di cui era sempre più il perno, una piena
legittimazione, in due opere destinate a diventare il 'credo' di
ciò che è poi stato chiamato 'stalinismo', i
Principî del leninismo (1924) e le Questioni del leninismo
(1926), Stalin si proclamò fedele discepolo del comune
maestro Lenin e definì il 'leninismo' - elevato attraverso
un processo di sacralizzazione a ortodossia del comunismo
sovietico e internazionale, di cui unico interprete autentico
sarebbe diventato lui stesso - quale "il marxismo dell'epoca
dell'imperialismo e della rivoluzione proletaria". Nelle
Questioni, in esplicito contrasto con la teoria della rivoluzione
permanente, accusata di essere antileninista, egli proclamò
che l'URSS avrebbe potuto costruire il socialismo unicamente con
le sue forze (teoria del 'socialismo in un paese solo').Divenuto
incontrastato padrone del partito e dello Stato, alla fine degli
anni venti Stalin operò una drammatica svolta in politica
interna, che pose fine alla NEP. Egli riteneva ormai prioritario
creare a ogni costo una grande base industriale, in grado di
consentire al paese di far fronte a ogni pericolo di guerra.
Bucharin, favorevole alla prosecuzione della NEP, venne emarginato
in quanto deviazionista di destra. Le linee essenziali della nuova
politica staliniana, quali ebbero a svilupparsi nel corso degli
anni trenta legando in un indissolubile intreccio economia,
istituzioni, ideologia, furono le seguenti: 1) la sottomissione
dell'economia a una rigida pianificazione statale, che
esaltò più che mai il ruolo della burocrazia (nel
1928 venne varato il primo piano quinquennale); 2) la
collettivizzazione forzata delle terre, con la formazione di
fattorie cooperative (kolchozy) e statali (sovchozy), che ebbe il
prezzo di scatenare una vera e propria guerra civile sanguinosa
contro i contadini ma consentì allo Stato di acquistare il
diretto controllo sulle risorse alimentari da mettere a
disposizione dei nuovi strati operai; 3) una repressione
poliziesca generalizzata nei confronti di tutti gli oppositori e
la formazione di un vasto settore di manodopera in campi di
concentramento impegnata per lo più nella costruzione di
infrastrutture (sistema del gulag); 4) un'accentuata
militarizzazione dell'industria finalizzata alla potenza dello
Stato; 5) la mobilitazione del consenso mediante le organizzazioni
di partito, sindacali, statali, culturali; 6) l'accentramento di
tutti i poteri nelle mani di Stalin, fatto oggetto di un culto
sfrenato, secondo un processo che conferiva al sistema di potere
un carattere totalitario-cesaristico. Dopo le drammatiche lotte
per il potere all'interno del gruppo dirigente sovietico, il culto
del vincitore da parte del partito unico era un mezzo per dare
stabilità al potere.
La combinazione del terrorismo repressivo e del consenso
plebiscitario divenne affatto evidente nella seconda metà
degli anni trenta, allorché per un verso una serie di
processi di Stato eliminarono anche fisicamente tutti i maggiori
oppositori reali o immaginari (le 'grandi purghe' del 1936-1938) e
per l'altro venne varata nel 1936 una nuova Costituzione, la
quale, con intenti chiaramente plebiscitari, stabiliva il
suffragio universale (naturalmente a favore del solo partito
unico) - suffragio che dalle precedenti Costituzioni del 1918 e
del 1924 era stato negato ai nemici di classe - e proclamava la
realizzazione del socialismo nell'URSS. Trockij, in esilio, in
quello stesso 1936 pubblicò La rivoluzione tradita, in cui
definiva il regime staliniano un sistema di dominazione
burocratica, chiamando il proletariato sovietico a una rivoluzione
politica, che abbattesse il cesarismo e ristabilisse la democrazia
sovietica.Dal punto di vista teorico, lo stalinismo introdusse nel
comunismo marxistico due innovazioni fondamentali. In primo luogo,
con l'intento di legittimare il ruolo cruciale che lo Stato aveva
assunto nel sistema sovietico, Stalin - contro l'idea che era
stata di Marx ed Engels e anche di Lenin, secondo cui la
costruzione del socialismo avrebbe portato al sempre maggiore
indebolimento dello Stato a favore degli istituti dell'autogoverno
sociale - dichiarò nel 1933 e ribadì nel 1939 che la
costruzione del socialismo andava invece di pari passo con il
massimo rafforzamento dello Stato: mezzo necessario sia per
l'edificazione economica che per l'annientamento dei 'nemici del
popolo', interni ed esterni. In secondo luogo, collegandosi a
elementi poco elaborati dell'ultimo Lenin e in pieno contrasto con
la tesi centrale di Marx, che aveva ritenuto possibile la
costruzione del socialismo unicamente sulla base della avvenuta
modernizzazione capitalistica, Stalin teorizzò che il
socialismo di tipo sovietico era lo strumento migliore a
disposizione dei paesi di cui l'imperialismo aveva soffocato lo
sviluppo per conseguire una modernizzazione economica che non
poteva più assumere il carattere capitalistico. Lo
stalinismo volle così dire per un verso la 'statizzazione'
(o prussianizzazione) del marxismo e per l'altro la completa
alterazione dei nessi stabiliti da Marx nel rapporto fra
modernizzazione, capitalismo e socialismo.
La formula staliniana di modernizzazione industrialistica ebbe un
rilevante successo. Per quanto la pianificazione
centralistico-burocratica e l'impiego nelle nuove fabbriche di una
manodopera scarsamente preparata e sottoposta a una disciplina
largamente militarizzata favorissero lo spreco e la produzione
quantitativa a scapito della qualità, la tecnologia
centrata sulla 'catena di montaggio' rese possibile un enorme
allargamento della base industriale, che fu finalizzata anzitutto
alle esigenze militari.
13. Dall'apogeo del comunismo staliniano e dalla formazione del
'campo' socialista alla 'destalinizzazione' ad opera di
Chruščëv
La vittoria dell'URSS nella seconda guerra mondiale, la formazione
nell'Europa orientale fra il 1945 e il 1948 di un sistema di Stati
soggetti alla dominazione sovietica e a regimi improntati al
modello staliniano, il trionfo nel 1949 della Rivoluzione maoista
in Cina, il rafforzamento dei partiti comunisti in paesi
occidentali come la Francia e l'Italia segnarono una nuova tappa
nella storia del comunismo internazionale. Ancora una volta si
ebbe quella che possiamo chiamare innovazione mediante
rovesciamento dell'ortodossia marxiana. Laddove quest'ultima aveva
teorizzato un'espansione delle frontiere del socialismo come
risultato dei conflitti di classe originati nella sfera della
produzione capitalistica, il comunismo si estese per effetto della
conquista militare esterna, come nell'Est europeo, oppure della
vittoria dell'esercito comunista nel corso di una guerra civile,
come in Cina. La via staliniana al socialismo venne presentata
dall'URSS come 'scientifica' e quindi obbligatoria per tutti i
paesi, salvo possibili varianti tattiche ma non strategiche. Ed
è da notare che, con la sola eccezione della piccola
Cecoslovacchia, nessuno degli Stati a 'democrazia popolare' (tale
era la formula che definiva i regimi di transizione verso il
socialismo nei paesi dove i comunisti erano saliti al potere con
l'appoggio di partiti alleati fantoccio e in cui era stata avviata
la collettivizzazione dell'economia) era stato in precedenza un
paese capitalistico sviluppato. Il che contribuì a
rafforzare la convinzione che la dittatura comunista fosse
anzitutto la strada dei paesi arretrati prima per svilupparsi e
poi per superare il confronto con il mondo capitalistico.
Il periodo fra il 1945 e il 1953, anno in cui Stalin morì,
segnò l'apogeo dello stalinismo: l'URSS era diventata la
seconda potenza mondiale e aveva creato un 'campo' socialista
immenso. Unico scacco nel corso della sua vita fu la secessione
della Iugoslavia nel 1948. Qui il capo dei comunisti, Josip Broz,
detto Tito (1892-1980), che aveva preso il potere con le proprie
forze (unico caso dell'Europa dell'Est) aveva rotto clamorosamente
con l'URSS, essendo fermamente deciso a salvaguardare la propria
indipendenza nazionale.Dopo la morte di Stalin, Nikita Sergeevič
Chruščëv (1894-1971) fu il protagonista di una svolta tesa a
modificare in aspetti sostanziali la linea staliniana.
Quest'ultima aveva bensì ottenuto un vero e proprio
trionfo, ma a giudizio di Chruščëv, giunto nel 1955 a una
posizione di preminenza al vertice del potere, sottoponeva la
società sovietica, con il suo sistema troppo rigido e
violentemente repressivo, a tensioni che comprimevano le energie
collettive a scapito delle loro potenzialità di sviluppo.
Era ora di far uscire il sistema dal regime di
'eccezionalità' a cui lo aveva sottoposto Stalin. Egli
quindi avviò in politica interna un'opera di
'destalinizzazione', e in primo luogo di smantellamento del
sistema del terrore permanente; mentre in politica estera si
propose da un lato di stabilire rapporti di 'eguaglianza' tra il
paese guida e gli altri Stati socialisti e dall'altro di aprire
un'era di 'coesistenza pacifica' tra il campo socialista e il
campo capitalistico. Era convinto che così il campo
socialista avrebbe potuto liberare energie mai viste, vincere la
competizione con il capitalismo e favorire la conquista del potere
in una serie di paesi capitalistici evitando la via della guerra
civile.Al XX Congresso del PCUS del febbraio 1956 Chruščëv
denunciò il sistema di potere personalistico di Stalin, il
'culto' di cui questi era stato fatto oggetto, il ricorso al
terrorismo sistematico, e affermò la necessità di
stabilire il primato della legge socialista ('ritorno alla
legalità leninista'). Il sistema terroristico venne in
effetti in parte smantellato, furono allargati i margini della
libertà di espressione (soprattutto per lo strato superiore
degli intellettuali) e furono avviate, in maniera contraddittoria
e disordinata, riforme economiche. Al XXII Congresso del 1962 il
leader allargò il processo di destalinizzazione e in un
clima di trionfalismo proclamò che entro il 1980 l'URSS
avrebbe superato gli Stati Uniti nella produzione industriale e
agricola. Inoltre, a sottolineare la fine del regime di
eccezionalità e il definitivo consolidamento del
socialismo, affermò che lo Stato sovietico non era
più espressione della dittatura del proletariato ma 'Stato
di tutto il popolo'.Il trionfalismo chrusceviano andò
incontro a gravi scacchi. Nel 1956 la destalinizzazione
provocò una gravissima crisi nell'Europa dell'Est, e in
specie in Polonia e in Ungheria, dove la critica a Stalin diede
luogo, invece che a un rinnovamento del sistema, a un attacco
contro di esso. In Ungheria si giunse a una rivoluzione popolare
anticomunista, conclusasi con una sanguinosa repressione ad opera
dei Sovietici e una restaurazione sulla punta delle baionette. In
politica interna il chruscevismo subì una parabola
involutiva, con l'arresto del processo di 'liberalizzazione' e
l'accentramento dei poteri nelle mani del solo Chruščëv,
già paladino della 'direzione collegiale'.
In campo internazionale il maggior successo dell'espansionismo
sovietico nell'epoca di Chruščëv fu la creazione a Cuba di un
regime comunista sotto la leadership di Fidel Castro. Questo
successo ebbe però come rovescio della medaglia assai grave
la frattura del campo socialista, in seguito allo scontro sempre
più aspro fra l'URSS e la Cina, che, nella sua posizione di
isolamento internazionale, considerava la strategia della
coesistenza pacifica un cedimento all'imperialismo e la
destalinizzazione un atto di 'revisionismo' che indeboliva il
potere comunista.Nell'ottobre del 1964 Chruščëv venne
esautorato. Il suo 'riformismo dall'alto' non aveva raggiunto
alcuno dei suoi obiettivi.
14. L'URSS e l'Europa dell'Est dalla 'restaurazione' brezneviana
alla perestrojka di Gorbačëv e al collasso dei regimi
comunisti
Dopo un nuovo periodo di 'direzione collegiale', il potere
sovietico subì ancora una volta un processo di
concentrazione nelle mani di Leonid I.Brežnev (1906-1982). Il
fenomeno era quanto mai significativo sotto il profilo della
sociologia del potere sovietico. Dopo la morte di Lenin e di
Stalin e l'esautorazione di Chruščëv si era avuto ogni volta
un periodo di direzione collegiale, a cui era poi seguito
l'accentramento del potere nelle mani di una sola persona.
Ciò stava a indicare che la collegialità, nel
sistema totalitario, aveva un carattere transitorio di
assestamento, laddove l'accentramento dei poteri in una sola
persona rappresentava la normalità istituzionale.
Il chruscevismo venne cancellato, in quanto considerato fonte di
pericolose tensioni e instabilità, e lo stalinismo
parzialmente riabilitato per non delegittimare il meccanismo di
potere, che rimaneva nelle linee fondamentali quello creato da
Stalin. Il breznevismo rappresentò l'estremo tentativo del
comunismo sovietico di 'congelare' il sistema di tipo sovietico
nell'URSS e nell'Europa orientale stabilendo una sorta di pax
totalitaria.Nell'agosto del 1968 un intervento militare
stroncò la 'primavera di Praga', ovvero il tentativo
guidato dal segretario comunista cecoslovacco Alexander Dubček di
dar vita a un 'socialismo dal volto umano' con prospettive di
pluralismo politico e sociale. Come reazione a esso, Brežnev
affermò il principio della 'sovranità limitata' di
ciascun paese socialista, secondo cui il limite della
sovranità di ciascun paese del campo socialista era di non
poter mettere in pericolo i fondamenti dell'ordine politico e
sociale. Del pari, in risposta alle critiche, egli proclamò
la dottrina del 'socialismo reale', vale a dire che non si dava
altro socialismo possibile se non quello realizzato nell'URSS e
che questo sistema era l'unico che "non conosce crisi" e assicura
una "autentica libertà". Il dissenso ideologico venne
combattuto come una forma di devianza mentale. Una nuova
Costituzione, approvata nel 1977, dava una perfetta formulazione
ideologica della pax totalitaria, asserendo che il socialismo
ormai pienamente sviluppato assicurava la più armonica
"unità sociopolitica e ideale della società
sovietica" e la più "totale democrazia".
Nell'era brezneviana l'URSS esasperò il suo carattere di
superpotenza militare. Il sistema poté vantare importanti
successi nell'espansionismo diretto verso il Terzo Mondo. In
particolare, nel 1975 il Vietnam venne unificato sotto un regime
comunista decisamente prosovietico e in tensione con quello
cinese; si formarono regimi filosovietici in Etiopia, Angola,
Mozambico e altri paesi; in Nicaragua la guerriglia che si
appoggiava a Cuba e all'URSS conquistò il potere. Nel 1979
truppe sovietiche intervennero in Afghanistan a sostegno dei
comunisti locali.Sotto l'immagine di forza trasmessa dal
breznevismo stava però una realtà diversa. La
società sovietica era gravata dal peso di un enorme
apparato militare, che esauriva le risorse del paese; la bassa
produttività e l'inefficienza restavano un male costante
(anche Brežnev tentò il varo di riforme economiche che
però il sistema finì per respingere in quanto
incompatibili con se stesso); il dissenso si rafforzava e
ramificava. Inoltre, nei paesi dell'Est persisteva una
instabilità di fondo, che l'invasione della Cecoslovacchia
non era certo valsa a eliminare. In Polonia, il maggiore dei paesi
soggetti, il regime si trovava in uno stato di crescente
deterioramento.
Dopo la morte di Brežnev, nel 1982, al vertice sovietico si
succedettero nel giro di soli tre anni Jurij Andropov e Konstantin
Černenko, rappresentanti di opposte tendenze in una situazione di
crescente crisi. I fattori di questa crisi erano essenzialmente
tre: il peggioramento della situazione polacca; l'acuta tensione
con gli Stati Uniti guidati da Ronald Reagan, deciso a
fronteggiare l'espansionismo sovietico con una mobilitazione di
risorse a cui l'URSS non era in grado di far fronte; il ritardo
tecnologico, e quindi le difficoltà produttive. Applicando
al caso sovietico le categorie marxiane, si può dire che
nell'URSS la sovrastruttura soffocava le condizioni dello sviluppo
della società, creando una situazione di crisi organica del
sistema. Diventava a mano a mano più evidente, infatti, che
la rigidità pianificatrice burocratico-centralistica, la
quale aveva potuto ottenere sostanziali successi nell'ambito di
una modernizzazione ritardata basata sull'industria pesante, sulla
catena di montaggio, sul controllo autoritario della manodopera,
sulla compressione dei consumi a vantaggio degli investimenti nei
settori giudicati strategici, in primo luogo militari, non era
strutturalmente in grado di compiere il salto di qualità
indispensabile al fine di portare il sistema stesso nell'era della
telematica diffusa e di produzioni soggette a rapida obsolescenza
e quindi attrezzarlo alla necessità di rapide
riconversioni, messe in atto da una pluralità di centri
decisionali sensibili alle esigenze dell'innovazione permanente.
Il connubio fra burocratismo autoritario, produzione senza
controllo di qualità, bassa produttività era tale da
spingere il sistema verso una crisi generale. Per entrare nell'era
postindustriale la società sovietica mancava di tutte le
componenti essenziali: materiali, organizzative e culturali. Per
una sorta di ironia della storia, il mondo sovietico stava
così avviandosi verso quella crisi strutturale che il
comunismo aveva creduto si sarebbe realizzata nel mondo
capitalistico.
L'elezione nel 1985 a segretario generale del PCUS di Michail
Gorbačëv ebbe il significato di una volontà di deciso
rinnovamento. Questi ha proclamato l'urgenza di una 'rivoluzione
dall'alto' in grado di incontrarsi con la rivitalizzazione delle
energie della società. Due concetti chiave sono stati
significativamente messi da lui al centro di questa rivoluzione:
la perestrojka (ristrutturazione) e la glasnost (trasparenza). Nel
suo libro-manifesto, Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro
paese e per il mondo (1987), Gorbačëv pose come obiettivo di
fondo "un rinnovamento totale della vita sovietica", teso a "dare
al socialismo le forme più progressive di organizzazione
sociale".Sennonché il tentativo di rivitalizzare il sistema
sociale entro il quadro del socialismo secondo una linea di
rinnovamento nella continuità è andato incontro a
una impasse di proporzioni sempre maggiori. Il sistema ha
dimostrato di non essere rinnovabile a causa della sua
rigidità, per cui il movimento di riforma, che ha investito
l'economia e le istituzioni politiche, ha avuto effetti
dirompenti, tali da scardinare la macchina precedente e dar luogo
a un vero e proprio processo di 'scollamento'. Ne è
risultata una situazione economica che nel 1990 ha acquistato il
carattere di una catastrofe. Le riforme politiche che hanno
smantellato il sistema totalitario, introdotto il pluralismo
partitico e ideologico, creato istituzioni parlamentari, hanno
provocato una situazione fortemente contraddittoria: da un lato
un'accentuata frammentazione delle organizzazioni politiche e
dall'altro un accentramento progressivo dei poteri nelle mani di
Gorbačëv, eletto nel 1989 presidente dell'URSS per far fronte
alla disgregazione interna.Che si trattasse di una crisi
strutturale di carattere organico è stato mostrato anche da
due altri elementi di eccezionale importanza. Il primo è
stato, nel corso del 1989-1990, il collasso dell''impero'
sovietico nell'Est europeo, che ha prodotto l'abbattimento dei
vecchi regimi comunisti e il formarsi di nuovi regimi. Il secondo
elemento, che va visto in relazione al primo, è stato
l'inizio di un processo di sfaldamento dell'Unione Sovietica, in
seguito all'acutizzarsi di conflitti nazionali ed etnici, alle
proclamazioni di secessione da parte di varie Repubbliche, alla
formazione di un governo della Repubblica russa guidato dall'ex
dirigente comunista Boris El´cin, che ha fatto approvare la
supremazia della Costituzione russa su quella federale.
Nell'agosto del 1991 un fallito colpo di Stato, volto a esautorare
Gorbačëv con fini di restaurazione e diretto da esponenti
dello stesso vertice gorbacioviano, da militari e dal capo del
KGB, ha da un lato provocato il crollo politico del PCUS, le cui
attività sono state sospese, e dall'altro ha accelerato lo
sfaldamento dell'Unione Sovietica. Ne è così
risultata la crisi irreversibile della perestrojka, ovvero del
riformismo imperniato sulla persona di Gorbačëv, che ha dato
le dimissioni da segretario generale del PCUS; successivamente
egli si è dimesso anche da presidente dell'URSS, in seguito
alla disgregazione di quest'ultima.
La crisi sovietica è di un tipo storicamente inedito, e
genera contraddizioni nuove. La caduta delle istituzioni
totalitarie ha fatto emergere una 'società politica'
democratico-pluralistica quanto mai frammentata e conflittuale, la
quale però, a differenza che nei paesi capitalistici,
è priva di radici in una 'società civile' che sia
sede di pluralismo economico-sociale, proprio perché uno
degli effetti fondamentali del collettivismo
burocratico-statalistico sovietico è stato quello di
disseccare gli elementi, tradizionalmente molto deboli già
prima della Rivoluzione di ottobre, della società civile
stessa.
15. Il comunismo cinese e la sua evoluzione
La variante più importante del comunismo internazionale
accanto a quella sovietica è stata quella cinese. È
un esempio significativo dell'inversione del rapporto fra sviluppo
capitalistico e rivoluzione comunista stabilita dalla
realtà storica rispetto all'ipotesi marxiana il fatto che
la Cina, quando il Partito Comunista, fondato nel 1921,
andò al potere nel 1949, fosse un paese fortemente
arretrato, ancor più che non la Russia nel 1917, con una
debolissima base industriale e proletaria. Tanto che il comunismo
vi ha più che mai assunto il carattere di una forza
organizzata tesa alla modernizzazione economica.
Fra gli anni venti e gli anni settanta il comunismo cinese
è stato interamente dominato dal suo capo carismatico, Mao
Zedong (1893-1976). L'essenza del 'maoismo' è stata quella
di operare un capovolgimento dell'ortodossia marxiana assai
più radicale di quello operato dai bolscevichi russi.
Questi ultimi non avevano mai messo in dubbio che, anche in un
paese poco sviluppato, solo il proletariato industriale potesse e
dovesse costituire l'agente sociale fondamentale del processo
rivoluzionario. Mao affermò che in un paese arretrato come
la Cina la forza sociale rivoluzionaria per eccellenza era
costituita dai contadini poveri e che l'influenza del
proletariato, certo irrinunciabile in quanto bussola politica, si
faceva sentire non direttamente ma attraverso la mediazione del
Partito Comunista. In un testo del 1927 destinato a diventare
celebre, il Rapporto di inchiesta sul movimento contadino, Mao
condannò il marxismo 'dogmatico' che non sapeva uscire
dalla sua matrice industrialistica, affermando che in Cina "senza
i contadini poveri non ci sarebbe la rivoluzione". Una simile
impostazione conferì al comunismo cinese un carattere
superideologico, che esaltava in maniera estrema la funzione
soggettivistica e pedagogica del partito organizzatore ed
educatore.
Dopo un ventennio di lotte contro il Guomindang, il Partito
Nazionalista, e contro gli invasori giapponesi, Mao, vincitore
nella conclusiva guerra civile infuriata tra il 1945 e il 1949,
fondò in Cina una 'repubblica popolare', avente quale scopo
non solo la modernizzazione economica ma anche il consolidamento
dello Stato unitario. Per circa un decennio il comunismo cinese
seguì il modello sovietico, conseguendo risultati
importanti nel campo industriale, meno soddisfacenti invece in
quello agricolo. Per porre rimedio a ciò, Mao promosse nel
1958 il "grande balzo in avanti", che comportò una drastica
spinta verso la collettivizzazione nelle campagne, avente il suo
centro nella formazione di 'comuni' destinate sia a riorganizzare
la produzione agraria, sia a diventare sedi autonome di produzione
industriale su piccola scala, così da ridurre il ruolo
della pianificazione centralistico-burocratica. Mao portò
all'eccesso l'esaltazione dello sforzo soggettivo delle masse
educate dal partito quale chiave dello sviluppo delle forze
produttive, in polemica frontale con il meccanismo negativo degli
incentivi materiali di tipo individuale. Il 'balzo' risultò
un fallimento di proporzioni colossali e determinò una
rottura profonda con i Sovietici, i quali ritirarono i loro
tecnici e consiglieri dal paese, accusando i dirigenti cinesi di
'avventurismo' e irrazionalismo. La rottura si approfondì
ulteriormente a causa degli interessi di potenza dei due grandi
Stati comunisti, in quanto l'URSS chrusceviana non intese aiutare
la Cina a fabbricare la bomba atomica, tanto più che Mao
non esitava a minimizzare i costi di uno scontro globale, anche
atomico, con il mondo capitalistico, da lui definito una "tigre di
carta". Così emerse una frattura che spezzò
l'unità del 'campo socialista' e in seguito provocò
anche scontri armati alle frontiere fra URSS e Cina per contese
territoriali. Questa frattura radicale era stata preceduta da
forti tensioni ideologiche, dopo che la Cina, in cui Mao aveva
acquisito una posizione per tanti aspetti analoga a quella di
Stalin nell'URSS, aveva criticato la destalinizzazione e la
politica chrusceviana di coesistenza pacifica, considerata quale
un cedimento all'imperialismo.
Il fallimento catastrofico del 'grande balzo' aveva causato il
ritorno a pratiche economiche 'moderate', in un quadro di
rafforzamento del centralismo burocratico, di ritorno nelle
campagne alla produzione su scala familiare e di ripristino degli
incentivi materiali. Il che provocò un inasprimento del
confronto fra la 'destra' e la 'sinistra' nel partito. La sinistra
maoista denunciò il pericolo di degenerazione 'borghese', e
Mao dotò il proprio soggettivismo volontaristico di un
braccio armato, dopo che elevò Lin Biao, capo dell'esercito
dal 1959, a proprio "primo compagno d'arme", facendo dell'esercito
un mezzo di indottrinamento ideologico e di controllo sociale al
servizio della sua linea.
Fra il 1966 e il 1971 la Cina piombò in un periodo di
convulsioni interne, che hanno finito per portare il paese in un
vero e proprio caos. Si è trattato della "rivoluzione
culturale", così chiamata in quanto Mao mise in primo piano
la tesi che la 'via capitalistica' potesse venire sconfitta
unicamente mutando radicalmente l'orientamento spirituale,
cioè la mentalità collettiva, verso i problemi della
produzione. Più che mai il maoismo assunse il volto di un
'rivoluzionarismo volontaristico', i cui agenti privilegiati
secondo Mao dovevano essere le giovani 'guardie rosse', in specie
studenti, svincolate dal mondo produttivo e quindi vergini
rispetto alla contaminazione revisionistica penetrata nel mondo
del lavoro e nei quadri medi e alti burocratizzati del partito. In
questo modo Mao svincolò del tutto il proprio 'marxismo'
dalla sua base materialistica e lo vincolò a una concezione
iperidealistica. La rivoluzione culturale alimentò
altresì una chiusura isolazionistica della Cina, che si
espresse nella proclamazione del maoismo come unica manifestazione
dello spirito rivoluzionario dell'epoca in totale contrapposizione
al revisionismo dell'URSS e all'imperialismo mondiale guidato
dagli Stati Uniti.Reagendo al crescente caos interno, che
minacciava di travolgere il paese, Zhou Enlai (1898-1976) ebbe un
ruolo decisivo nell'iniziare tra il 1971 e il 1973 la liquidazione
dell'estremismo di sinistra. Ne derivò la sconfitta non
soltanto delle correnti più radicali della sinistra, ma
anche della strategia di Mao. Dopo la morte di questi, nel 1976,
interprete dell'eredità politica di Zhou, morto poco prima
nello stesso anno, è stato Deng Xiaoping, che, riuscito ad
assestarsi al potere nel 1978, ha sostenuto la linea, già
elaborata dall'ultimo Zhou, delle 'quattro modernizzazioni'
(dell'agricoltura, dell'industria, della difesa nazionale, della
scienza e della tecnica). Deng ha riabilitato la burocrazia, la
competenza professionale, la politica degli incentivi individuali
nella produzione, portando così alla ribalta proprio quei
ceti e quelle concezioni contro cui era stata diretta la
rivoluzione culturale, e ha ristrutturato il partito lacerato.
Inoltre, Deng ha avviato una politica di 'porta aperta' verso
l'Occidente, favorita dalla normalizzazione nel 1979 dei rapporti
fra la Cina e gli Stati Uniti e tesa a utilizzare il sapere e la
tecnologia del mondo capitalistico in maniera funzionale agli
interessi dello sviluppo e della potenza nazionale della Cina
Comunista.
È significativo che, allorché a Pechino, con centro
nella piazza Tienanmen, hanno avuto luogo nella primavera del 1989
prolungate agitazioni giovanili aventi la loro bandiera nella
democratizzazione politica, il regime di Deng, contraddistinto da
un ampio movimento di riforma economica, ha proceduto a una
spietata repressione militare, intesa a salvaguardare il monopolio
politico del Partito Comunista. Sicché, proprio nel periodo
in cui i regimi comunisti sparivano nell'Europa orientale e
nell'URSS si passava dal monopolio politico comunista al
pluripartitismo, in Cina si aveva una piena riaffermazione del
monocratismo comunista.Per quanto riguarda l'Asia, accanto al
comunismo cinese sono da menzionare, a causa delle loro
caratteristiche tipologiche, il comunismo nordcoreano e quello
cambogiano. Nella Corea del Nord, dove i comunisti sono saliti al
potere nel 1948 in seguito all'occupazione sovietica, il regime si
è evoluto nella direzione di una 'monarchia' retta da Kim
Il Sung, che ha distribuito il potere su base accentuatamente
familiare e ha predisposto la successione a favore del figlio. In
Cambogia, dopo il loro avvento al potere nel 1975, i khmer rossi
guidati da Pol Pot hanno stabilito un regime terroristico
antimodernista, il quale, introducendo una variante del tutto
inedita nel comunismo, si è mostrato apertamente ostile
alla modernizzazione e alla civiltà urbana, considerate
fonti di corruzione etica e politica, e favorevole a un ruralismo
egualitario primitivo.
Si può così concludere che il comun denominatore di
tutti i comunismi al potere, nella varietà delle concezioni
economiche e sociali è stato offerto dalla concezione
elitaria del partito, dalla subordinazione delle masse e dal
monocratismo.
16. Il comunismo nei paesi capitalistici fra le due guerre
mondiali. I rivoluzionari senza rivoluzione
I partiti comunisti nei paesi occidentali si sono costituiti nel
primo dopoguerra per un processo di scissione dai partiti
socialisti o socialdemocratici, trovando la loro organizzazione
comune nella Terza Internazionale, costituitasi nel marzo del 1919
a Mosca e diretta dai bolscevichi russi. Essi si sono formati
passando attraverso un processo di 'bolscevizzazione', vale a dire
di conformazione al modello russo e di obbedienza al gruppo
dirigente sovietico, basando la loro identità sulla lotta
contro i 'traditori' revisionisti socialdemocratici e i
socialisti, rivoluzionari a parole ma rinunciatari nei fatti.
L'ipotesi che inizialmente orientava il comunismo occidentale era
che la costituzione di autentici partiti rivoluzionari avrebbe
reso possibile, grazie a una giusta guida 'soggettiva', quella
rivoluzione che, ormai 'oggettivamente' del tutto matura nei paesi
capitalistici sviluppati, non era ancora avvenuta per
responsabilità dei falsi partiti proletari. I comunisti
avrebbero finalmente assicurato la leadership ideologica al
'blocco' sociale rivoluzionario, avente il suo perno nel
proletariato industriale-agricolo e la sua base espansiva nei
contadini poveri, negli strati intermedi rovinati e negli
intellettuali 'transfughi' della loro classe.
Questa ipotesi si mostrò completamente errata. Gli acuti
conflitti sociali del primo dopoguerra non portarono i comunisti
al potere in nessun paese, salvo che in Ungheria nel 1919 per
pochi mesi. In Germania, verso cui si dirigevano anzitutto le
speranze dei comunisti russi ed europei, data la combinazione in
essa di un elevato grado di sviluppo economico e di una crisi
sconvolgente, il Partito Comunista, che mise radici fra i
disoccupati e gli emarginati, non riuscì a strappare la
maggioranza del consenso operaio ai socialdemocratici; nel 1923 un
ultimo tentativo rivoluzionario da esso compiuto risultò un
aborto. In Italia il 'biennio rosso' (1919-1920) aprì le
porte a un 'biennio nero', che si concluse con la costituzione
nell'ottobre del 1922 di un governo presieduto dal fascista Benito
Mussolini. Il Partito Comunista, sorto nel 1921, andò
incontro a una disfatta strategica.
La fiducia in un rilancio rivoluzionario mondiale riemerse in
conseguenza della grande crisi economica, scoppiata negli Stati
Uniti nel 1929 e diffusasi in Europa. L'Internazionale comunista
diede allora per moribondo il capitalismo mondiale. I comunisti
occidentali intensificarono la lotta contro la socialdemocrazia,
definita come l'ostacolo soggettivo maggiore alla liberazione
della coscienza delle masse in una situazione ritornata a essere
'oggettivamente' rivoluzionaria. La socialdemocrazia venne
definita come 'socialfascismo', in quanto rappresentava l'ala
moderata di uno schieramento controrivoluzionario di cui il
fascismo era l'ala estrema. Socialdemocratici e fascisti -
recitava un documento dell'Internazionale nel 1932 - "sostengono
la causa della conservazione e del rafforzamento del capitalismo e
della dittatura borghese". Sennonché in Germania, dove la
crisi aveva raggiunto il suo apice, si ebbe la totale vittoria
della forza più duramente anticomunista, e cioè del
nazismo, e in vari paesi europei la costituzione di regimi
autoritari apertamente filofascisti.
A metà degli anni trenta l'idea che la rivoluzione
proletario-comunista nei paesi capitalistici sviluppati fosse una
realtà latente destinata a una realizzazione vicina
subì una sorta di congelamento, anche se rimase una
componente imprescindibile dell'ideologia comunista. In una
situazione in cui il rafforzamento dell'URSS staliniana faceva da
contrasto con il totale insuccesso dei partiti comunisti
occidentali, quell'idea venne sostituita da un'altra, secondo cui
le fortune della rivoluzione internazionale sarebbero state
più che mai legate alla superiorità del sistema
incarnato nell'Unione Sovietica, elevata a "patria dei lavoratori
di tutto il mondo": superiorità divenuta essa stessa il
motore del comunismo mondiale in luogo di quello costituito dalle
contraddizioni interne ai rapporti di produzione capitalistici
secondo l'originaria concezione marxiana. Il comunismo teorico si
trovava a essere completamente scompaginato da due dati
essenziali: 1) che nei paesi capitalistici democratico-liberali
come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna i comunisti non mettevano
radici; 2) che nei paesi dell'Europa continentale maggiormente
segnati da aspri conflitti di classe le crisi portavano alla
vittoria non delle forze guidate dai comunisti ma di quelle non
comuniste, vuoi democratiche vuoi autoritarie. In questo quadro i
comunisti occidentali sentirono quale loro massimo compito quello
di operare a difesa dell'URSS, cittadella della rivoluzione
mondiale.Dopo il consolidamento al potere del nazismo, che
l'Internazionale inizialmente non aveva ritenuto possibile, nella
convinzione che Hitler avrebbe presto lasciato il posto ai
comunisti, la leadership del comunismo mondiale si trovò
dominata dal timore di un'ulteriore espansione dei regimi fascisti
o autoritari in Europa; il che avrebbe gravemente peggiorato la
posizione dell'URSS. Ne derivò che nel 1935 il VII
Congresso dell'Internazionale attuò una spettacolare svolta
strategica, avente come obiettivo primario la costituzione,
dovunque possibile, di 'fronti popolari' impegnati nella lotta
antifascista, nella salvaguardia della pace "di fronte al pericolo
imminente dello scoppio di una guerra controrivoluzionaria", che
in caso di vittoria avrebbe distrutto l'URSS, e nella difesa delle
istituzioni 'democratiche' parlamentari - già combattute
come terreno di coltura della controrivoluzione ed espressione di
una democrazia completamente falsa -, il cui mantenimento
garantiva la lotta delle organizzazioni del movimento operaio,
laddove il fascismo la rendeva impossibile. I democratici borghesi
e i socialdemocratici vennero ora considerati quali alleati e
componenti del 'popolo'.La strategia dei fronti ottenne i suoi
successi maggiori nel 1936 in Francia e in Spagna, dove si
formarono governi che ne furono l'emanazione. Ma il Fronte in
Spagna venne travolto in seguito a una guerra civile conclusasi
nel 1939 con la vittoria del clerico-fascismo franchista, e in
Francia perse il suo slancio nel giro di un anno. Le ipotesi
peggiori andavano così realizzandosi.
Nel periodo fra le due guerre mondiali il comunismo occidentale
aveva espresso importanti figure di teorici, specie in Germania e
in Italia. La maggiore personalità del comunismo tedesco,
Rosa Luxemburg (1870-1919) - che nel 1904 aveva avversato la
teoria leniniana del partito e dopo la Rivoluzione di ottobre
aveva duramente criticato la dittatura del Partito bolscevico, in
quanto contraria ai principî della 'democrazia proletaria' e
negatrice del ruolo delle masse, e aveva avuto un ruolo di primo
piano nella fondazione del Partito Comunista in Germania -, era
stata assassinata da controrivoluzionari a Berlino nel gennaio del
1919. Teorici come il tedesco Karl Korsch (1886-1961), l'olandese
Anton Pannekoek (1873-1960) e l'italiano Antonio Gramsci
(1891-1937), pur con accenti diversi, avevano tentato di dare al
comunismo occidentale nei primi anni del dopoguerra, quando ancora
non era consolidato il primato indiscusso del partito russo nel
comunismo internazionale, un carattere ancorato anzitutto
all'iniziativa rivoluzionaria delle masse operaie. Essi avevano
elaborato strategie che facevano perno sui 'consigli dei
produttori' quali organi di una lotta radicata nelle fabbriche e
tesa alla creazione di uno Stato proletario in grado di affrontare
i problemi posti dall'eredità del capitalismo sviluppato,
nel quadro di una concezione che vedeva il partito come guida
ideologica delle masse stesse e non incarnazione di un potere
elitistico. Una simile prospettiva restò però
sostanzialmente teorica e venne comunque svuotata dal fallimento
della rivoluzione in Occidente: fallimento che creò le
condizioni per la progressiva emarginazione del 'consiliarismo',
la 'bolscevizzazione' di tutti i partiti comunisti e la loro
subordinazione al modello sovietico.
Mentre Korsch e Pannekoek finirono per respingere come fonte di
passività rivoluzionaria la bolscevizzazione dei partiti
comunisti occidentali e il 'modello' russo, da essi considerato un
contromodello, Gramsci ebbe una parabola diversa. Egli, uno dei
fondatori del Partito Comunista Italiano, si convertì alla
concezione 'giacobino-bolscevica', diventando nel 1924 il capo dei
comunisti italiani. Sennonché nel 1926, pur appoggiando la
linea staliniana, denunciò la degenerazione dei metodi con
cui Stalin conduceva la lotta per il potere assoluto nell'URSS, in
contrasto con la diversa posizione assunta da un altro dirigente
di primo piano del partito italiano, Palmiro Togliatti
(1893-1964). Arrestato dopo la svolta totalitaria del fascismo nel
novembre di quello stesso anno, in carcere Gramsci respinse, come
frutto di un rivoluzionarismo avventuristico, la linea del
'socialfascismo' sostenuta dall'Internazionale.
Durante la prigionia Gramsci prese a stendere una serie di note,
poi pubblicate postume tra il 1948 e il 1951 sotto il titolo
Quaderni del carcere. Il tema politicamente dominante era
costituito dalla riflessione sulle cause che avevano determinato
la sconfitta della rivoluzione comunista in Occidente. Mentre
ribadiva la comune convinzione dei comunisti che la rivoluzione
fosse fallita per l'insufficienza 'soggettiva' delle forze
rivoluzionarie, egli criticava d'altra parte l'idea che fosse
sufficiente applicare in Occidente il modello bolscevico.
Ciò perché le condizioni sociali in Russia e in
Occidente erano profondamente diverse: nella prima, la
'società civile' borghese si trovava in una condizione
embrionale ed era assai debole, per cui, conquistato lo Stato, il
partito rivoluzionario aveva potuto d'un colpo impadronirsi del
potere con una rapida 'guerra di movimento'; nel secondo, la
conquista del potere e la guida del nuovo ordine potevano essere
assicurate unicamente dopo un lungo periodo di 'guerra di
posizione', nel corso della quale il partito - da lui definito il
"moderno Principe" - e il proletariato rivoluzionari dovevano
costruire un vasto e articolato schieramento di forze sociali e
ottenere il consenso politico e culturale necessario per prima
conquistare e poi esercitare il potere in società
complesse. Era questo il nucleo della teoria gramsciana
dell''egemonia', ovvero della direzione esercitata dal
proletariato e dal suo partito sulle forze alleate, e del
'dominio', ovvero della dittatura messa in atto contro le forze
avverse: aventi l'una e l'altro quale prospettiva ultima la
costruzione di una società totalitariamente comunistica. La
peculiarità del pensiero gramsciano maturo era di voler
rappresentare un arricchimento del leninismo in relazione alle
condizioni sociali delle società capitalistiche sviluppate.
17. Il comunismo occidentale dalla seconda guerra mondiale al suo
esaurimento
Lo scoppio della seconda guerra mondiale nel settembre 1939
trovò i partiti comunisti occidentali completamente
allineati alla politica estera dell'Unione Sovietica, la quale in
agosto aveva firmato quel patto di intesa con la Germania nazista
che aveva lasciato quest'ultima libera di attaccare la Polonia e
le potenze occidentali. L'Internazionale giunse al punto di
denunciare l'imperialismo anglo-francese come responsabile dello
scatenamento della guerra.Una simile politica era tale da
conferire ai partiti comunisti europei una fisionomia
accentuatamente antinazionale. L'attacco nazista all'URSS nel 1941
portò a un ribaltamento della loro linea e a un ritorno, in
un certo senso, alla linea del fronte popolare antifascista. In
tutti i paesi dominati dalle potenze fasciste i comunisti
assunsero dopo di allora un ruolo di primo piano nella lotta a
sostegno dell'URSS e per la liberazione nazionale. Nel corso di
questa lotta il carattere rigidamente centralistico e gerarchico
dell'organizzazione dei partiti comunisti, che costituiva
un'anomalia rispetto ai partiti di tipo occidentale,
diventò nelle circostanze della guerra un fattore di grande
forza, rivelandosi straordinariamente idoneo all'azione
clandestina e militare contro gli occupanti.
Nel maggio del 1943 Stalin sciolse l'Internazionale comunista, sia
per fare cosa grata ai suoi alleati occidentali, sia per la
convinzione che dopo la vittoria di Stalingrado l'URSS fosse
pienamente in grado di salvaguardare se stessa e sia infine
perché in questo modo veniva favorita l'immagine
dell'autonomia dei singoli partiti nazionali, pur restando intatta
la sostanziale subordinazione a Mosca di ciascun partito
comunista.Alla fine del conflitto in Francia e in Italia i
comunisti avevano conquistato un forte insediamento sociale e
politico. I motivi erano molteplici: il prestigio immenso
acquistato dall'URSS, che pareva con la vittoria sulla Germania
aver dato la 'prova' definitiva del successo dell'edificazione
socialista; l'espansione delle frontiere del socialismo prima
nell'Europa orientale e poi in Cina; il ruolo fondamentale da essi
avuto nella lotta antifascista e nella Resistenza; la convinzione,
largamente diffusasi in ampi strati sociali, che i fascismi e i
loro imperialismi costituissero la 'rivelazione' della definitiva
degenerazione del capitalismo; la diffusa aspirazione a profonde e
persino radicali riforme sociali. È indicativo che, nella
valutazione dei comunisti intorno al destino del capitalismo, gli
Stati Uniti occupassero ancora un posto secondario.Per circa un
decennio dopo la fine della guerra, il comunismo occidentale visse
nell'attesa del compimento di un duplice processo: da un lato la
crisi strutturale del sistema capitalistico e dall'altro la
definitiva affermazione della superiorità del sistema
internazionale costituito dagli Stati retti dai comunisti. Nel
caso che la 'guerra fredda' degenerasse in terza guerra mondiale i
partiti comunisti erano pronti a sostenere come propria la causa
sovietica e a scatenare l'insurrezione armata. Nelle condizioni di
pace ma al contempo di frontale scontro politico e sociale fra i
due 'campi', i due più forti partiti comunisti occidentali,
l'italiano e il francese, agivano nel quadro delle istituzioni
democratiche parlamentari col fine di allargare il loro consenso,
mentre persisteva pur sempre nelle loro file l'attesa indefinita
di un'azione rivoluzionaria che aprisse le porte alla dittatura
del proletariato. In conseguenza del decisivo ruolo avuto durante
la guerra, i due partiti erano persino entrati in governi di
coalizione, da cui però vennero esclusi nel 1947 in seguito
all'inasprirsi della guerra fredda.
Una posizione unica di forza e prestigio nel quadro del comunismo
occidentale aveva assunto il Partito Comunista Italiano; il quale,
se pure aveva visto deluse le proprie speranze di vincere le
elezioni nel 1948, alle quali si era presentato unito al Partito
Socialista in un Fronte popolare, non solo era diventato il
partito più forte della sinistra italiana, ma poteva
altresì contare sulla piena subordinazione dei socialisti:
caso unico nell'Europa capitalistica. Il partito italiano era
diretto da Palmiro Togliatti, già influentissimo segretario
dell'Internazionale comunista e personalità di grande
rilievo. Egli, fin dal suo ritorno in Italia dall'esilio moscovita
nel 1944, aveva operato in due direzioni: la prima attinente al
tipo di organizzazione del partito e la seconda riguardante la
strategia diretta alla conquista del potere. Per quanto riguardava
il partito, egli conferì a esso il carattere di
un'organizzazione per un verso aperta a tutti coloro che
aderissero al suo programma e per l'altro sottoposta al controllo
dei 'quadri' formati dai 'rivoluzionari di professione';
combinando così in maniera funzionale la struttura di tipo
bolscevico con quella dei partiti di massa di tipo socialista
occidentale, nell'ambito però di un netto primato del
nucleo 'stretto' sulla base 'larga'. Lo scopo era di dare
all'élite rivoluzionaria uno strumento di vasta influenza
nelle lotte elettorali nel contesto democratico-parlamentare che
seguì la fine del fascismo. Circa la strategia, Togliatti
diede un contributo fondamentale all'elaborazione della linea
detta di 'democrazia progressiva'. Essa comportava: il pieno
appoggio alla politica estera sovietica; la formazione di un vasto
blocco sociale, costituito da operai, contadini, ceti medi
progressisti, intellettuali rivoluzionari e 'democratici', e di un
fronte politico costituito da comunisti, socialisti, democratici
'progressisti' cattolici e laici, e guidato dai primi. La
democrazia progressiva stava a indicare una strategia di
transizione verso il socialismo condotta in un quadro
istituzionale ancora democratico-borghese e intesa ad assicurare
l'egemonia sociale e politica alle forze di 'progresso'; una volta
conseguito il successo, allora sarebbe iniziata la fase del
passaggio a una forma di potere riconducibile da ultimo al modello
di tipo sovietico, che i comunisti persistevano a esaltare ai fini
di una necessaria e obbligatoria preparazione ideologica. Una
simile strategia aveva quale fondamento la convinzione che il
sistema capitalistico andasse e sempre più sarebbe andato
incontro a un deterioramento strutturale.
Le aspettative del comunismo occidentale circa questo
deterioramento cozzarono, ancora una volta, contro la
realtà di una rapida e forte ripresa del capitalismo e
della democrazia di matrice liberale nell'Europa occidentale con
l'aiuto risolutivo degli Stati Uniti. Sicché i comunisti
italiani e francesi si trovarono a operare in una situazione per
essi di crescente perturbazione ideologica, oscillando fra il
mantenimento del leninismo, ridotto però a cultura politica
astratta, e la pratica di un'opposizione nutrita per un verso di
una negazione antisistema e per l'altro di un rivendicazionismo
sociale non molto diverso da quello dei partiti socialisti
tradizionali. In conseguenza di queste difficoltà, i
comunisti occidentali mantenevano vivo il mito dell'URSS, sia come
strumento di compattamento interno 'sostitutivo' della perdita di
prospettive all'interno dei loro paesi, sia per la convinzione che
il campo socialista avrebbe immancabilmente dimostrato la propria
superiorità sul campo capitalistico, così creando,
per forza trainante, le condizioni per il finale successo del
comunismo internazionale in un momento indefinito.
La destalinizzazione e la rivoluzione ungherese ebbero un forte
impatto sul comunismo occidentale, determinando una crisi interna
che però fu largamente riassorbita, salvo che in alcune
frange di intellettuali. Il crollo del mito staliniano non
colpì dunque sostanzialmente il mito sovietico; che venne
rinverdito dai successi della tecnologia spaziale sovietica, dal
trionfalismo economico di Chruščëv, dalle sue promesse di
avviare un nuovo corso nelle relazioni fra i paesi socialisti
'fratelli', e dal trionfo, con l'aiuto sovietico, del comunismo a
Cuba. Era significativo del persistente, organico filosovietismo
il fatto che i partiti comunisti dell'Europa occidentale
avversassero il processo di integrazione europea, da essi
denunciato come orientato verso la formazione di un nuovo polo
imperialistico diretto contro l'URSS. Gli anni sessanta e settanta
segnarono un'alterazione irreversibile del quadro ideologico
fondato sull'idea dell'unità del comunismo internazionale e
della capacità del campo socialista di vincere la
competizione internazionale con il capitalismo. All'inizio del
primo decennio si consolidò la frattura fra la Cina e
l'URSS e nel 1968 si ebbe l'invasione della Cecoslovacchia. Per
quanto riguardava la situazione interna dei paesi socialisti
diventava ormai inequivocabile che essa era lungi dalla
stabilità e dalla 'democrazia socialista'. Nell'URSS
Chruščëv era stato brutalmente destituito nel 1964; in Cina
la 'rivoluzione culturale' aveva messo a nudo drammatici contrasti
affrontati con grande violenza; la Polonia era in preda a una
crisi in pieno sviluppo. E i promessi successi economici
apparivano più che mai evanescenti e mera propaganda di
regime.La critica rivolta dai comunisti italiani e francesi
all'invasione della Cecoslovacchia, considerata come un 'errore',
segnò l'inizio di un progressivo, anche se non lineare,
distacco dalla solidarietà di principio con ogni aspetto
della politica sovietica. In questa azione critica un ruolo
preminente ebbe il partito italiano, che manifestò infine
la sua insoddisfazione per la dottrina brezneviana del 'socialismo
reale' e della 'sovranità limitata' e per gli aspetti
autoritari dei regimi comunisti, di cui pure continuava ad
auspicare il rinnovamento nel senso di una democrazia socialista
dal volto però indeterminato.
A metà degli anni settanta il comunismo occidentale
compì il tentativo di assumere in proprio l'iniziativa del
rilancio degli ideali comunisti. Fra il 1975 e il 1977 i partiti
italiano, francese e spagnolo diedero vita a un orientamento
ideologico (non però a una comune organizzazione) i cui
cardini erano da un lato l'ormai esplicita critica della
realtà sovietica e dall'altro la dichiarazione di voler
procedere nei paesi capitalistici sviluppati alla costruzione del
socialismo respingendo la dittatura del proletariato e adottando
in maniera definitiva i metodi e i valori della democrazia
politica. Questa tendenza, detta 'eurocomunismo', trovò la
sua più compiuta elaborazione ideologica nel libro del
segretario comunista spagnolo Santiago Carrillo, L'eurocomunismo e
lo Stato (1977). L'ambizione dell'eurocomunismo, coltivata con
particolare forza dal leader comunista italiano Enrico Berlinguer,
era quella di costruire una 'terza via' fra il socialismo di tipo
sovietico senza democrazia e la socialdemocrazia che aveva
rinunciato a voler costruire il socialismo superando il
capitalismo.
L'eurocomunismo ebbe a rivelarsi una tendenza ideologica priva di
prospettive politiche concrete. I partiti comunisti spagnolo e
francese si sono infatti sempre più avvitati in una crisi
profonda, che li ha ridotti a una presenza sempre più
trascurabile all'interno dei loro sistemi politici nazionali. Il
partito italiano è riuscito a mantenere più salde
radici. Ma alla fine degli anni ottanta, in seguito al collasso
dei regimi dell'Europa occidentale, alla crisi strutturale dello
stesso regime sovietico, alla perdita di significato
dell'eurocomunismo, il PCI, il più forte dei partiti
comunisti d'Occidente, ha messo all'ordine del giorno la propria
cessazione in quanto partito comunista e la propria trasformazione
in partito della sinistra europea occidentale. Nel 1991 il PCI,
nel corso del suo XX congresso, si è autosciolto e ha dato
vita al Partito Democratico della Sinistra.