Cesarismo
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cesarismo Regime politico autoritario basato sul potere di un uomo
'forte', in genere appoggiato dalle forze armate e dotato di
consenso popolare (comunque sollecitato e ottenuto), perché dotato
di carisma e capace di porre termine a una situazione di disordine e
di conflitto sociale e politico. La sua origine storica sta nel
regime instaurato nella Roma antica da Gaio Giulio Cesare. In epoca
moderna il termine è stato applicato ai regimi instaurati dai due
Bonaparte e, in generale, ai regimi autoritari di destra.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1991)
di Angelo Panebianco
Sommario: 1. Definizione. 2. La teoria del bonapartismo. 3. La
teoria del carisma. 4. Cesarismo e democrazia: la democrazia
plebiscitaria. 5. Cesarismo e politica internazionale.
1. Definizione
Per cesarismo si intende, in prima approssimazione, un regime
politico il cui fondamento è costituito da un rapporto diretto,
veicolato da tecniche plebiscitarie di organizzazione del consenso,
fra un leader e gli appartenenti a una comunità politica. Nonostante
l'ispirazione provenga da due differenti epoche storiche e i termini
evochino due figure diverse di leader (Giulio Cesare e Napoleone
Bonaparte), nel lessico politico contemporaneo cesarismo e
bonapartismo sono termini intercambiabili e come sinonimi verranno
considerati anche in questo articolo. La definizione di cesarismo
sopra esposta corrisponde, grosso modo, alla definizione che ne dà
il senso comune.
A causa dell'eccessiva genericità, però, essa può servire solo per
una prima delimitazione del campo, in quanto consente di escludere
dall'ambito del fenomeno politico considerato tutti i casi in cui:
1) non esiste una leadership individuale, ossia al vertice del
regime, o dell'organizzazione politica, non c'è un solo leader ma
una élite e, pertanto, le funzioni di leadership sono esercitate
collettivamente da un gruppo più o meno ristretto;
2) i rapporti di potere fra il leader e i seguaci non dipendono
dall'impiego di tecniche plebiscitarie di organizzazione del
consenso.
Se ci si ferma alla definizione proposta, il concetto di cesarismo
risulta molto ricco sotto il profilo della denotazione (abbraccia
moltissimi casi storici, fra loro diversissimi), ma povero sotto il
profilo della connotazione. Per procedere oltre occorre però
considerare una difficoltà che pesa su qualunque analisi dei
fenomeni cesaristici e che consiste nel fatto che le scienze sociali
contemporanee, anche la scienza politica, concentrano
tradizionalmente la propria attenzione sulle dimensioni strutturali
dei rapporti sociali e politici ed evitano normalmente di trattare
le componenti personali, idiosincratiche, di quei rapporti.
Qualunque altra cosa sia il cesarismo, esso comporta in primo luogo
l'esistenza di un rapporto di potere fra un individuo (il leader) e
i suoi seguaci. Il cesarismo infatti appartiene al campo dei regimi
politici personalistici, ove ciò che conta sono, in primo luogo, le
caratteristiche personali e le scelte di un singolo individuo. La
svalutazione del ruolo degli individui che è tipica delle scienze
sociali (quanto meno nelle versioni strutturalista e
funzionalista-sistemica) ostacola quindi l'esame del fenomeno
cesaristico. Non è casuale che lo strumento interpretativo più utile
resti, come vedremo, la teoria weberiana del carisma; ma in Weber, a
differenza di altri scienziati sociali, era forte la convinzione
dell'importanza delle singole personalità nella storia, una
convinzione ispirata dalla visione romantica e dal pensiero
nietzschiano. Ciò spiega perché nella scienza politica contemporanea
non sia possibile reperire analisi persuasive del cesarismo (anche
se è possibile reperire indicazioni sulle condizioni politiche,
economiche, ecc., che conducono a esso). Il cesarismo non compare
con la statura e la dignità di un fenomeno politico autonomo in
nessuno dei molti tentativi di classificazione dei regimi politici
che la scienza politica ha fatto in questo secolo. Ad esempio, non
appare nelle classificazioni delle forme di dominio di Lasswell e
Kaplan (v., 1950): non in quella che, seguendo Aristotele,
differenzia i regimi politici a seconda del numero dei governanti
(autocrazie, oligarchie, repubbliche, nei termini di Lasswell e di
Kaplan), né in quella, più originale, che li distingue a seconda
delle modalità di esercizio del potere entro il corpo politico
(burocrazia, aristocrazia, etocrazia, demosocrazia, virocrazia,
plutocrazia, tecnocrazia, ideocrazia). Neppure la letteratura più
recente offre indicazioni (v. Linz, 1975; v. Morlino, 1986). Anche
gli studiosi che utilizzano la teoria marxiana del bonapartismo si
limitano a segnalare quasi esclusivamente le dimensioni strutturali
del fenomeno. Così, ad esempio, Rouquié, per il quale un regime
bonapartista "è il regime sostenuto da una burocrazia civile e
militare, relativamente indipendente dai gruppi sociali dominanti,
che si sforza di risolvere i conflitti che paralizzano la classe
dirigente depoliticizzando in modo non violento (o non terrorista)
l'insieme delle classi della società" (v. Rouquié, 1975, p. 1098).
Poiché la letteratura corrente non aiuta a decifrare il fenomeno, il
primo passo da fare è tentare di distinguere il cesarismo da altri
tipi di rapporti politici con cui potrebbe essere confuso. Se la
presenza della condizione leadership individuale è cruciale per
identificarlo, non è però sufficiente: occorre infatti ancora
distinguere il cesarismo da altri tipi di organizzazione politica
(cacichismo, caudillismo, sultanismo) in cui compare il fattore
leadership individuale e nei quali è anche presente la possibilità
del ricorso a tecniche plebiscitarie di organizzazione del consenso.
Per delimitare davvero il fenomeno occorre introdurre due
specificazioni:
a) il legame emozionale leader/seguaci è, nel cesarismo, preminente
rispetto ad altri tipi di legami (clientelari, ecc.).
Ciò consente di differenziare il cesarismo da altre forme di
organizzazione del potere (ad esempio il cacichismo) in cui il
legame leader/seguaci è fondato, prevalentemente, su una transazione
fra beni materiali e consenso;
b) l'organizzazione politica del cesarismo si afferma sempre a
seguito di un processo di deistituzionalizzazione (v. Huntington,
1968) delle organizzazioni e delle procedure politiche preesistenti.
In altri termini, parleremo di cesarismo se, e solo se, la
leadership individuale nasce sulle ceneri di un'organizzazione
politica istituzionalizzata che è stata colpita da un processo di
decadenza e di disorganizzazione.
Il cesarismo sorge in risposta alla crisi di un'organizzazione
politica, in virtù di una decomposizione del precedente ordine
politico. Ciò consente di differenziare questa forma politica da
altre, come ad esempio il caudillismo, in cui sono presenti tanto la
leadership personale quanto, talvolta, le tecniche plebiscitarie, ma
la cui genesi non è la risposta diretta e immediata a una crisi
politico-organizzativa. Quest'ultima specificazione aiuta a cogliere
un importante elemento distintivo del cesarismo nella sua forma
pura: la provvisorietà. Il cesarismo è un regime di transizione,
intrinsecamente instabile. Sorge per fronteggiare uno stato di
disorganizzazione e di crisi acute della comunità politica ed è
destinato a lasciare il posto a forme diverse e più stabili di
organizzazione del potere. I regimi di transizione fra una forma
stabile e l'altra possono assumere diverse fisionomie (v. Morlino,
1986; v. Linz e Stepan, 1978), e nell'interpretazione qui adottata
il cesarismo è una di esse. La definizione che proponiamo è allora
la seguente: un regime politico di transizione, che sorge in
risposta alla decadenza di istituzioni politiche preesistenti ed è
fondato su un rapporto diretto - ove la componente emozionale (così
come è descritta, ad esempio, da Freud) è preminente - fra un leader
e gli appartenenti alla comunità politica, veicolato da tecniche
plebiscitarie di organizzazione del consenso.
Due precisazioni sono necessarie. In primo luogo, non è ritenuto
essenziale, ai fini della definizione, che il leader sia in origine
un capo militare. In molti casi il cesare è effettivamente un
militare (e proprio questo ci ricordano i termini cesarismo e
bonapartismo): ciò accade perché spesso un capo militare di successo
è, al momento della crisi, nella posizione migliore per convertire
le risorse accumulate nella sua qualità di comandante (per esempio
il prestigio guadagnato sui campi di battaglia) nelle risorse
politiche necessarie a fondare l'organizzazione cesaristica.
Tuttavia questa caratteristica non è essenziale. Spesso l'origine
militare del leader è alla base della formazione di regimi militari
privi di componenti cesaristiche. E, simmetricamente, accade che il
leader che crea il regime cesaristico non sia un militare (è il caso
di Napoleone III).
La seconda precisazione è che la definizione che abbiamo adottata
non basta, normalmente, a definire compiutamente nessun regime
politico (neanche quelli che sono stati così catalogati nel corso
del tempo), per la ragione che nessun regime politico può basarsi
solo su legami emozionali diretti fra un leader e il suo seguito.
Anche in un regime cesaristico saranno sempre presenti gruppi
elitari di diversa estrazione (politica, economica, religiosa, ecc.)
e l'organizzazione cesaristica avrà connotati molto diversi a
seconda delle caratteristiche di queste élites e dei rapporti che
esse instaurano con il leader. Inoltre, sono possibili variazioni
forti fra un caso e l'altro a seconda dei rapporti che esistono fra
il capo e il 'cerchio interno' dei seguaci, il che dipende dalle
caratteristiche dell'organizzazione (militare, partitica, ecc.) che
il leader controlla. La definizione adottata lascia quindi del tutto
indeterminata (varierà da caso storico a caso storico)
l'organizzazione del regime cesaristico: la distinzione fra i
diversi tipi di cesarismo deve essere lasciata all'indagine
empirica.
Il cesarismo, inteso nel senso stretto della definizione, deve
essere inoltre distinto dai regimi politici in cui sono presenti, ma
non in posizione predominante, componenti cesaristiche (sono di
questo genere, come vedremo, le democrazie plebiscitarie esaminate
da Weber): in questi regimi manca l'elemento della provvisorietà. A
istituzioni politiche stabili si associano tecniche e procedure di
organizzazione del consenso che danno periodicamente luogo a
fenomeni, sia pure attenuati e diluiti, di cesarismo. Per spiegare
ciò che qui si intende ricorreremo a due esempi, entrambi tratti
dalla storia francese. Il primo esempio è per così dire obbligato:
riguarda il caso del regime di Napoleone Bonaparte, che è il punto
di riferimento inevitabile di tutte le analisi del cesarismo.
Un regime cesaristico 'puro' è quello che Napoleone instaura con il
colpo di Stato del 9 novembre 1799, ponendo fine al regime del
Direttorio. Questa fase, a cui appartengono alcune delle riforme (in
particolare quella amministrativa) mediante le quali Bonaparte pone
le basi per l'istituzionalizzazione del suo regime, termina con il
plebiscito del 1802, in virtù del quale Bonaparte consolida
definitivamente il suo potere diventando console a vita. Nella fase
successiva le caratteristiche plebiscitarie del regime non vengono
meno (ancora un plebiscito trasforma Bonaparte da console a
imperatore dei Francesi nel 1804), ma la dittatura napoleonica è
ormai consolidata.
Il secondo esempio riguarda il caso del gollismo, e anche qui è
possibile distinguere due diverse fasi. È un regime cesaristico puro
il regime di transizione che si afferma nella primavera del 1958,
quando il generale de Gaulle assume i pieni poteri, e termina con il
referendum dell'ottobre 1962 sulla modifica costituzionale che
sancisce l'elezione diretta del presidente della repubblica.
Da quella data il regime cesaristico puro lascia il posto a un
regime semipresidenziale, che contiene forti elementi cesaristici ma
non è più (o è sempre meno) cesaristico nel senso della definizione
adottata. Le elezioni presidenziali del 1965, ove de Gaulle deve
subire l''umiliazione' del ballottaggio con il candidato socialista
Mitterrand, segnano l'avvenuto consolidamento delle nuove
istituzioni (in termini weberiani, l'istituzionalizzazione del
carisma). Analogamente, il regime fascista italiano (per il quale,
soprattutto da parte di studiosi marxisti, è stato usato il termine
bonapartismo) non è, alla luce della definizione adottata, un regime
cesaristico. È invece, esaurita la fase del consolidamento, un
regime autocratico con elementi cesaristici.
Per usare termini schmittiani potremmo dire che il cesarismo è il
regime dello "stato d'eccezione" in cui però l'assunzione di pieni
poteri da parte del leader si sposa con un consenso plebiscitario, o
semiplebiscitario, della comunità politica (delle sue componenti
maggioritarie). In questa prospettiva si può spiegare facilmente
anche la scarsa attenzione che la scienza politica presta ai
fenomeni cesaristici. Trattandosi di regimi di transizione, i regimi
cesaristici hanno una vita effimera. Essi sorgono in risposta a una
crisi e si trasformano più o meno rapidamente in regimi diversi. A
parte la difficoltà di trattare il caso dei regimi personalistici,
anche la tipica provvisorietà e instabilità del fenomeno spiega la
disattenzione della letteratura. Ma si tratta di una disattenzione
ingiustificata, soprattutto perché i fenomeni cesaristici sono
spesso all'origine dei più duraturi regimi politici che li seguono.
E, in molti casi, sono proprio le decisioni del leader nella fase
cesaristica pura a forgiare il campo su cui si edificheranno le
istituzioni della fase successiva.
La disattenzione per il fenomeno fa sì che i principali punti di
riferimento restino tutt'ora le teorie di Marx e di Weber. 2. La
teoria del bonapartismo
Fra gli strumenti concettuali dell'analisi marxista la categoria
'bonapartismo' occupa una posizione particolare perché le è affidato
il compito di riassorbire una vistosa anomalia che la teoria si
trova a fronteggiare. L'anomalia consiste nell'esistenza di
situazioni politiche manifestamente caratterizzate dall'azione
autonoma dello Stato (rispetto alle classi sociali) e dalla presenza
di leaders i cui comportamenti non sono facilmente riconducibili
entro la categoria 'rappresentanza di interessi di classe'. Sotto il
profilo logico la teoria del bonapartismo assume, nel più vasto
corpo della teoria politica marxista, il ruolo di un'ipotesi ad hoc
introdotta per spiegare fatti altrimenti inspiegabili, la cui
esistenza rischia di falsificare il 'nucleo centrale' della teoria.
Nella versione originaria, formulata da Marx nel 18 Brumaio di Luigi
Bonaparte (e ripresa da Engels per il caso della Germania), la
teoria è caratterizzata dai punti seguenti.
1. Il bonapartismo si afferma in presenza di una situazione di
stallo nel conflitto fra le due principali classi sociali, la
borghesia e il proletariato.
2. Lo stallo fra le classi principali apre lo spazio a un'influenza
politica delle classi tradizionali, in particolare dei contadini.
3. I contadini però, a differenza della borghesia e del
proletariato, sono dispersi sul territorio e privi di legami
organizzativi che li rendano capaci di agire continuativamente e con
coerenza sulla scena politica. Incapaci di risolvere il problema del
free rider, sono impossibilitati a trasformarsi in soggetto
collettivo.
4. Sfruttando la forza rappresentata dagli apparati dello Stato
(burocrazia, forze armate, corpi di polizia, ecc.), il capo del
regime, il leader, è in condizioni di operare come forza autonoma.
Il regime bonapartista è intrinsecamente instabile. Nato da una
condizione di stallo fra le classi, è destinato a perire quando
l'una o l'altra delle classi in lotta riprenderà il sopravvento.
Sul solco di Marx molti studiosi hanno tentato di approfondire il
tema del bonapartismo, principalmente allo scopo, in questo secolo,
di spiegare il fascismo. Nelle Note sul Machiavelli Gramsci utilizza
il termine cesarismo per una breve analisi del fenomeno che
arricchisce su alcuni punti l'analisi di Marx. Il cesarismo, per
Gramsci, sorge in condizioni di "equilibrio catastrofico" fra le
classi e rappresenta una soluzione "arbitrale", volta a impedire che
le classi in lotta si distruggano a vicenda. Possono darsi due tipi
di cesarismo, l'uno progressivo (Cesare, Napoleone I), l'altro
regressivo (Napoleone III, Bismarck): "È progressivo il cesarismo,
quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia
pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria,
è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza
regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e
limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato
diversi che non nel caso precedente" (v. Gramsci, 1966⁴, p. 58).
Inoltre, per Gramsci, va considerata un'importante differenza fra i
cesarismi del passato e quelli dell'età contemporanea (ad esempio il
fascismo italiano). Nel passato il cesarismo era sempre associato
all'elemento militare, mentre i mutamenti delle tecniche e
dell'organizzazione politica rendono il cesarismo contemporaneo meno
legato al ruolo della forza militare. Nei termini di Gramsci, esso è
meno militare e più "poliziesco".
Una posizione a sé stante ha, fra le teorie marxiste del
bonapartismo, quella di Lev Trockij. Il problema di Trockij,
infatti, non è spiegare il fascismo ma lo stalinismo, l'evoluzione
politica russa postrivoluzionaria. Qui il punto di partenza non è
più lo stallo fra due classi sociali in lotta, bensì l'oppressione
esercitata dalla burocrazia ai danni del proletariato. Lo stalinismo
è un fenomeno collegato alla lotta fra burocrazia e proletariato ed
è, per Trockij, un regime cesaristico sui generis. È anch'esso
temporaneo, al pari dei cesarismi in ambito capitalistico-borghese,
ma la sua affermazione dipende dalle esigenze di predominio della
burocrazia ai danni della "classe generale".
Un altro autore marxista, Nicos Poulantzas, in quello che resta il
più articolato tentativo di elaborare una teoria marxista dello
Stato, Potere politico e classi sociali, prende le distanze dalla
tesi dello stallo o equilibrio catastrofico. Per Poulantzas il
bonapartismo è solo una manifestazione particolare di una più
generale autonomia dello Stato capitalista dalla classe dominante.
Egli polemizza con la tendenza di Engels ad accomunare fenomeni così
diversi come il bonapartismo, lo Stato assolutista e il
bismarckismo. Per Poulantzas è propria del capitalismo questa
circostanza: "lo Stato capitalistico fa suo l'interesse politico
della borghesia e realizza per suo conto la funzione egemonica
politica che quest'ultima non può assolvere. A tale scopo lo Stato
capitalistico è costretto ad assumere un'autonomia relativa nei
confronti della borghesia: sta qui il significato profondo delle
analisi di Marx sul bonapartismo come tipo capitalistico di Stato"
(v. Poulantzas, 1968; tr. it., p. 365). Questa impostazione apre la
strada a una classificazione delle forme politiche dello Stato
capitalistico. Il bonapartismo perde i caratteri di eccezionalità
che aveva nella teoria marxista tradizionale e diventa uno fra i
molti possibili modi di manifestarsi dell'autonomia relativa dello
Stato.
La valutazione della teoria del bonapartismo, nelle sue diverse
versioni, dipende ovviamente dal giudizio che si dà sull'utilità
degli strumenti di analisi offerti dalla più generale teoria
politica marxista. Lasciando da parte il caso di Poulantzas, il
quale, utilizzando uno schema di spiegazione funzionalistico, tenta
di gettare le basi di una teoria generale dello Stato ma al prezzo
di diluire le specificità del fenomeno bonapartista, l'utilità delle
categorie marxiste, per l'esame del fenomeno in questione, non
appare elevata. Il tentativo è viziato dal bisogno di evadere,
lasciando però intatto il nucleo della teoria, dalle insufficienze
proprie di una concezione che tratta le forze politiche come
'nomenclature' delle classi sociali, dalla necessità di affermare,
per difendere la teoria a fronte di evidenti anomalie empiriche, il
carattere eccezionale del fenomeno, la sua condizione di eccezione
che confermerebbe la regola. Resta tuttavia a suo merito il fatto
che quello marxista è uno dei pochissimi tentativi relativamente
sistematici di spiegare il cesarismo. 3. La teoria del carisma
La teoria weberiana del carisma è stata più volte ricostruita nei
suoi diversi aspetti (v., da ultimo, Cavalli, 1981) e quindi non è
il caso qui di rivisitarla compiutamente. Al fine dell'esame del
cesarismo la teoria del carisma ha il pregio, rispetto a qualsiasi
altra teoria delle scienze sociali, di spiegare le cause di
quell'ascendente personale in virtù del quale un individuo, al di
fuori della tradizione e senza la sanzione di norme legali, arriva a
essere acclamato come leader da una moltitudine dando vita a regimi
cesaristici.
Un regime cesaristico comporta invariabilmente la presenza del capo
carismatico nell'accezione weberiana. Il carisma è riconosciuto come
tale e si afferma in presenza di uno stato di crisi, di acuto stress
sociale. Comporta una 'chiamata' che, per essere efficace, necessita
di uno stato di disorganizzazione sociale, una situazione che si
ripercuote sugli individui incrinandone credenze, identità e abiti
mentali, e rendendoli disponibili alla mobilitazione carismatica.
Nella visione weberiana il carisma è il veicolo del cambiamento
sociale e istituzionale, l'energia che crea nuove istituzioni e/o
determina trasformazioni nelle istituzioni preesistenti. Perché
l'innovazione introdotta sia duratura occorre però che intervenga
l'istituzionalizzazione o 'routinizzazione' del carisma. La
routinizzazione comporta la transizione da un regime personale,
centrato sull'autorità carismatica del leader, a un regime
istituzionale, come esito di un processo che Weber definisce di
"legalizzazione".
Alla luce di questa teoria i fenomeni cesaristici possono essere
distinti a seconda dei loro differenti esiti storici. La differenza
principale corre fra i (pochi) regimi cesaristici che superano la
soglia della routinizzazione del carisma e quindi sopravvivono al
loro fondatore e quelli, storicamente assai più numerosi, che non la
superano. In questo caso la fine del regime cesaristico apre una
nuova fase di disorganizzazione sociale e politica simile a quella
che ne aveva favorito l'affermazione. 4. Cesarismo e democrazia: la
democrazia plebiscitaria
La grande concentrazione di potere nelle mani di un solo individuo,
che è propria del cesarismo, nonché il carattere plebiscitario del
conferimento della delega (nella forma pura l'acclamazione
sostituisce l'elezione del rappresentante) rendono apparentemente
inconciliabili cesarismo e democrazia. È certamente vero, peraltro,
che nella maggioranza dei casi storici (il gollismo è un'importante
eccezione) il cesarismo è all'origine di regimi autocratici. Occorre
però notare che, a dispetto del suo nome, il cesarismo è un fenomeno
squisitamente moderno, legato alla "democratizzazione fondamentale"
(Mannheim), all'ingresso delle masse nelle arene politiche. Come la
democrazia liberale e, sul versante opposto, il totalitarismo, il
cesarismo presuppone la 'società di massa'.
Seguendo una recente rilettura delle pagine weberiane (v. Cavalli,
1981, 1982 e 1987) è possibile distinguere due diversi tipi di
regime politico con componenti cesaristiche: le tirannie
carismatiche (la versione autocratica del cesarismo) e le democrazie
plebiscitarie. La democrazia plebiscitaria, o democrazia con un
leader, viene distinta, da Weber, dalle democrazie acefale. Essa si
fonda su istituti e procedure che favoriscono la periodica
apparizione di fenomeni, sia pure attenuati, di cesarismo.
Anche se gli arrangiamenti istituzionali possono essere i più
diversi, si può dire che la formazione di democrazie plebiscitarie è
favorita da sistemi elettorali maggioritari e/o dall'istituto
dell'elezione diretta del capo del governo, mentre le democrazie
acefale sono più facilmente associate a sistemi elettorali
proporzionali e/o a forme di elezione indiretta (parlamentare) del
capo del governo. Nell'analisi weberiana della democrazia
plebiscitaria erano presenti due componenti. In primo luogo,
l'influenza del classico studio di Mosei Ostrogorski (v., 1902) sui
partiti politici moderni: Ostrogorski aveva mostrato come e perché
le moderne macchine di partito favorissero l'affermazione di
tendenze cesaristiche nelle democrazie. In secondo luogo, e
indipendentemente dall'opera di Ostrogorski, l'attenzione per la
Gran Bretagna di Gladstone e di Disraeli - termine di riferimento
anche politico nella polemica weberiana contro l'"eredità negativa"
del bismarckismo - e per gli Stati Uniti. Nella più pura tradizione
del realismo politico, Weber vedeva nel moderno capo di partito del
mondo anglosassone un dittatore carismatico, e nelle elezioni il
momento del 'riconoscimento' e dell'acclamazione del capo anziché
della scelta.
La democrazia plebiscitaria ha una collocazione ambigua nella più
generale teoria politica weberiana (v. Beetham, 1985²): descrizione
e prescrizione si compenetrano. Per un verso la democrazia
plebiscitaria è per Weber la sola forma di democrazia congruente con
le esigenze della società occidentale contemporanea; per un altro
verso è anche l'unica strada per mantenere aperta la porta alla
periodica irruzione del carisma, inteso come la forza capace di
contrastare o controbilanciare, almeno in parte, gli effetti
negativi (la "gabbia d'acciaio") della razionalizzazione.
Dopo Weber molti autori hanno messo in luce l'esistenza, nelle
democrazie contemporanee, delle tendenze da lui indicate (v. AA.VV.,
1987). Essenzialmente due fenomeni, fra loro intrecciati, sembrano
favorire l'affermazione di tendenze plebiscitarie, e quindi
cesaristiche, nelle democrazie contemporanee. Il primo è
rappresentato dal ruolo dei mass media e, in particolare, della
televisione nella competizione politica; il secondo dalla 'crisi
degli intermediari', ossia la crisi delle strutture-ponte, o
cuscinetto, fra gli individui e il potere politico (un tema classico
della letteratura sulla società di massa). Quella che, sia pure con
una certa dose di esagerazione, è stata chiamata la "democrazia
elettronica" (v. Saldich, 1979) svolge un ruolo potentissimo nel
guidare in direzione cesaristica i processi politici poliarchici. La
'crisi degli intermediari' è in parte un effetto del ruolo assunto
dai media, ma in parte, e forse si tratta della parte preponderante,
deriva anche da modificazioni più profonde delle società
occidentali: dai mutamenti della struttura di classe,
dall'innalzamento dei livelli di istruzione, dai cambiamenti nel
ritmo della mobilità sociale, ecc.
La prima e fondamentale crisi, imputabile alla secolarizzazione, è
il declino dell'associazionismo religioso (anche la comparsa di
'minoranze intense' religiose è spiegabile alla luce dell'ipotesi
della secolarizzazione).
A quel declino si affianca la crisi dei vecchi partiti di massa,
dotati di solidi apparati burocratici, collocati al centro di
ramificate subculture politiche, forti del consenso di ampi settori
dell'elettorato di appartenenza. Questi partiti vanno
progressivamente trasformandosi in partiti 'pigliatutto' (v.
Kirchheimer, 1966), dotati di strutture tecnico-professionali
(esperti in mass media, tecnici dei sondaggi, pubblicitari, ecc.),
alla perenne caccia del consenso, volubile e aleatorio,
dell'elettorato di opinione. Questi fenomeni favoriscono la
cosiddetta 'personalizzazione del potere', lo spostamento della
lealtà dai partiti ai candidati e il conseguente rafforzamento del
ruolo pubblico del leader. Là dove, come negli Stati Uniti,
l'assetto istituzionale di per sé già premia la democrazia
plebiscitaria, le tendenze cesaristiche ne vengono esaltate. Ma il
fenomeno, sia pure in forma più attenuata, si manifesta anche in
quelle poliarchie dell'Europa continentale che, per il loro assetto
istituzionale, Weber definirebbe democrazie acefale. 5. Cesarismo e
politica internazionale
È una regola riconosciuta quella secondo cui, all'interno di
qualsiasi organizzazione, il potere decisionale si concentra al
vertice in presenza di sfide di origine esterna che minacciano la
sopravvivenza dell'organizzazione. In tutti gli ambiti organizzati
il potere è normalmente disperso: molti individui e molti gruppi, ai
diversi livelli gerarchici, detengono risorse utilizzabili per
accumulare potere e/o per esercitarlo. Quando interviene una crisi
organizzativa per effetto di una sfida esterna, il potere rifluisce
al vertice: emergono capi carismatici che prendono decisioni
'strategiche', di ristrutturazione dell'organizzazione, necessarie
per fronteggiare la sfida esterna e far uscire l'organizzazione dal
suo stato di crisi (v. Crozier, 1964).
La storia delle organizzazioni è spesso segnata da sequenze
alternate di improvvisi 'drammi sociali', dovuti, per lo più, a
sfide provenienti dall'ambiente esterno, e di lunghe fasi di
routine. Alle due fasi corrispondono metodi decisionali diversi: nei
periodi di routine (potere diffuso e frazionato) prevale il metodo
incrementale, il mutuo aggiustamento degli interessi (v. Lindblom,
1959); nei periodi di crisi (potere concentrato) prevalgono le
decisioni strategiche di riorganizzazione (del tipo mixed scanning,
nella terminologia di Etzioni, 1967). Il punto cruciale, comunque, è
che le crisi che scuotono le organizzazioni minacciandone la
sopravvivenza, e il cui effetto è quello di trasferire il potere
decisionale nelle mani di capi carismatici, sono normalmente
originate da mutamenti nell'ambiente esterno delle organizzazioni:
cambiamenti ambientali provocano sfide, pressioni che si scaricano
sulle organizzazioni determinando una ridistribuzione del potere
interno. Se dai contributi della teoria dell'organizzazione passiamo
a considerare le indicazioni della teoria delle relazioni
internazionali, scopriamo all'opera la stessa regola. I conflitti
internazionali hanno sempre l'effetto di determinare una forte
concentrazione del potere entro gli Stati (v. Wright, 1970³). Le
guerre rappresentano, per i sistemi politici, quelle sfide esterne
che favoriscono la concentrazione del potere. In tutte le epoche
storiche il grado di centralizzazione del potere entro gli
ordinamenti politici è stato influenzato dall'intensità delle sfide
militari (v. Andreski, 1971²). Uno degli effetti delle guerre sulle
democrazie rappresentative, in questo secolo, è stato quello di
rafforzare (temporaneamente, per la durata del conflitto) il potere
personale dei leaders (primo ministro, presidente) a fronte dei
membri del governo e del parlamento. In caso di guerra la normale
dialettica fra maggioranza e opposizione (nonché all'interno dei
partiti di governo) viene meno, e i capi di governo acquistano una
libertà d'azione che non possiedono in tempo di pace (v. Stein,
1980).
Ciò ha attinenza con il fenomeno del cesarismo. Si è detto che il
cesarismo si afferma in condizioni di crisi dell'ordinamento
politico preesistente. La crisi che apre la strada al regime
cesaristico è spesso conseguenza di una sfida internazionale (di
carattere militare, per lo più) che la classe politica non riesce a
fronteggiare. La disorganizzazione che la sfida provoca apre la
strada a una soluzione cesaristica, all'affermazione di una
'tirannia' carismatica. Che la sfida assuma sovente le sembianze
dello stato di guerra contribuisce a spiegare perché il fondatore
del regime cesaristico sia spesso (anche se non sempre) un capo
militare.
Anche l'affermazione di tendenze plebiscitarie nelle democrazie
occidentali può essere ricondotta, almeno in parte, a sfide che
hanno nelle pressioni esterne, di carattere internazionale, la loro
origine. È questo il caso francese: il regime cesaristico di de
Gaulle e la nascita della Quinta Repubblica furono l'effetto della
mancata soluzione del conflitto algerino da parte della classe
politica della Quarta Repubblica. Ma è anche, secondo diversi
studiosi, il caso degli Stati Uniti dove, nel corso del XX secolo,
l'istituto della presidenza si è rafforzato a spese degli altri
poteri istituzionali. Le cause sono molte (l'ampliamento dei compiti
del governo federale, la formazione di una burocrazia professionale
che ha lentamente sostituito, a partire dagli ultimi decenni del
secolo scorso, la precedente amministrazione basata sul sistema
delle spoglie: v. Wilson, 1978), ma l'elemento decisivo è stato il
mutamento di collocazione internazionale degli Stati Uniti. La
"presidenza imperiale" (v. Schlesinger, 1973) è, soprattutto, il
prodotto di un cambiamento radicale della posizione statunitense: da
paese periferico a superpotenza. Il rapporto fra sfide esterne,
affermazione di un'egemonia politica internazionale e rafforzamento
del potere esecutivo è così descritto da Franz Schurmann: "C'è un
legame fra guerra, impero e potere esecutivo.
Lo stesso tipo di legame può essere osservato tra crisi, politica
mondiale e potere presidenziale per i decenni successivi alla
seconda guerra mondiale. Essi si alimentano reciprocamente. La crisi
porta a una nuova politica mondiale dell'America, la quale a sua
volta aumenta il potere presidenziale e la centralizzazione. Ma
funzionano anche altre varianti di questa equazione. Una volta
aumentato il potere presidenziale, vengono annunciate nuove linee
politiche mondiali che a loro volta invariabilmente producono crisi.
Gli uni erano e sono reciprocamente causa ed effetto degli altri. La
decisione americana di svolgere un ruolo imperiale nel mondo ha reso
inevitabile un contesto di crisi continue, un maggiore
coinvolgimento in lontane parti del mondo, e una concentrazione del
potere senza precedenti alla Casa Bianca" (v. Schurmann, 1974; tr.
it., pp. 36-37).
Se fu la crisi economica degli anni trenta a dare la spinta iniziale
portando Roosevelt alla presidenza, furono però tre eventi, tutti e
tre attinenti ai rapporti internazionali, a consolidare
definitivamente il potere presidenziale. Il primo fu lo scoppio
della seconda guerra mondiale che, in accordo con una sequenza
ricorrente, rafforzò la posizione del presidente. Questo effetto è,
in genere, temporaneo: dura quanto durano le ostilità. Nel caso
statunitense non fu così perché la fine del conflitto coincise con
l'assunzione in via permanente, da parte degli Stati Uniti, del
ruolo di nazione-guida del mondo occidentale (il secondo evento). Il
terzo fu l'avvento dell'era nucleare. "Nessun'altra esigenza della
politica postbellica giustificò altrettanto il mantenimento di un
immenso potere statale esercitato da un vertice esecutivo forte,
come il bisogno di controllare l'energia atomica e le sue armi.
Nulla incoraggiò altrettanto il crescente potere di quel governo
come la richiesta universale di sicurezza dalla terribile
possibilità di un annientamento atomico" (ibid., p. 137). Leadership
mondiale e politica della deterrenza nucleare esaltarono il ruolo
del presidente entro il sistema politico; soprattutto, resero
definitivo il primato presidenziale. Senza questa evoluzione,
difficilmente il ruolo dei mass media, la crisi dei partiti
politici, ecc. sarebbero stati condizioni sufficienti per alimentare
la democrazia plebiscitaria.
Gli esempi della Francia e degli Stati Uniti suggeriscono che il
rapporto fra concentrazione del potere, tendenze
cesaristico-plebiscitarie e sfide internazionali è assai stretto
anche nel caso delle democrazie rappresentative. Per restare alla
terminologia weberiana, è possibile ipotizzare che le democrazie
acefale, ove il potere è diffuso e frazionato e ove è assente la
componente cesaristica, possono sopravvivere solo in condizioni di
sicurezza esterna. È il caso di alcune democrazie acefale
europeo-continentali dopo la seconda guerra mondiale, la cui
stabilità è dipesa soprattutto, probabilmente, dall'esistenza
dell''ombrello' politico-militare statunitense. È quindi lecito
ipotizzare che mutamenti delle condizioni internazionali e, in
particolare, un aumento della vulnerabilità di questi paesi a fronte
di sfide esterne, ne favorirebbero la transizione al 'tipo' della
democrazia plebiscitaria.
Il potere monocratico, o monocrazia (v. Miglio, 1988), è la forma
assunta da tutti gli ordinamenti politici del passato in presenza di
sfide militari. Il cesarismo è potere monocratico nelle condizioni
politiche proprie della società di massa. La democrazia
plebiscitaria, involucro di un cesarismo diluito, vincolato da norme
costituzionali, potrebbe essere, a sua volta, la versione
occidentale contemporanea, democratico-rappresentativa, di un
fenomeno antico e ricorrente.