Autoritarismo
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Enciclopedia delle Scienze Sociali (1991)
di Juan J. Linz
Sommario: 1. Definizione. 2. Per una tipologia dei regimi
autoritari. 3. Regimi autoritari burocratico-militari. 4. Lo
statalismo organico. 5. Regimi autoritari di mobilitazione nelle
società post-democratiche. 6. Regimi autoritari di mobilitazione
dopo l'indipendenza. 7. Il dominio personale. 8. I regimi autoritari
post-totalitari. 9. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Definizione
Definiamo autoritari diversi sistemi politici non democratici e non
totalitari, se sono: "sistemi a pluralismo politico limitato, la cui
classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono
basati su un'ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da
mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione politica
capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro
sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita
il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti
piuttosto prevedibili" (v. Linz, 1964, p. 225).
Questa definizione, elaborata contrapponendo i sistemi autoritari
alle democrazie competitive, da una parte, e al tipo ideale di
sistema totalitario, dall'altra (v. Linz, 1964, Opposition..., 1973,
The future..., 1973), opera una distinzione netta tra sistemi
autoritari e sistemi democratici, mentre non distingue altrettanto
nettamente i primi dai sistemi totalitari, in quanto può adattarsi
anche alle situazioni e ai regimi pre- e post-totalitari.
Un'ulteriore delimitazione consiste nell'esclusione dei regimi
tradizionali legittimi, delle monarchie semicostituzionali del XIX
secolo, liberali ma non democratiche, e delle democrazie censitarie,
in cui il suffragio ristretto rappresentò un passo avanti nel
processo evolutivo verso le moderne democrazie competitive basate
sul suffragio universale maschile. Le democrazie oligarchiche, che,
soprattutto in America Latina, hanno resistito alle spinte verso
un'ulteriore democratizzazione conservando limitazioni al suffragio
basate sull'analfabetismo, sul controllo o sulla manipolazione delle
elezioni, sul frequente ricorso al potere moderatore dell'esercito,
sull'esistenza di partiti non differenziati, si collocano in una
posizione di confine, più vicine alla democrazia per quel che
riguarda la concezione della costituzione e dell'ideologia, ma più
simili da un punto di vista sociologico ad alcuni regimi autoritari.
Il nostro concetto di autoritarismo è incentrato sul modo di
esercitare e organizzare il potere, sui suoi legami con la società,
sulla natura dei sistemi di credenze che lo sostengono e sul ruolo
dei cittadini nel processo politico, mentre non considera il
contenuto effettivo delle varie politiche, gli obiettivi perseguiti,
la raison d'être dei regimi autoritari.
Esso non ci dice molto sulle istituzioni, sui gruppi e sugli strati
sociali che fanno parte del pluralismo limitato, o su quelli che ne
sono esclusi. Il fatto che sottolinei gli aspetti più strettamente
politici espone questo concetto ad alcune di quelle stesse accuse di
formalismo mosse al concetto generale di totalitarismo, e peraltro
anche di democrazia. Noi caratterizziamo i regimi, indipendentemente
dalle politiche che perseguono, in base al particolare modo in cui
trattano problemi che tutti i sistemi politici si trovano ad
affrontare, per esempio i rapporti tra politica e religione, o tra
politica e intellettuali. Anche le condizioni in cui i regimi
emergono, si stabilizzano, si trasformano ed eventualmente crollano
sono piuttosto differenziate. Il carattere generale e astratto della
definizione proposta rende necessario abbandonare il piano
dell'astrazione per addentrarci nello studio dei vari sottotipi.
La caratteristica fondamentale rimane l'elemento pluralistico, ma
non si sottolineerà mai abbastanza che, al contrario di quanto
avviene nelle democrazie, con il loro pluralismo politico quasi
illimitato e istituzionalizzato, ci troviamo qui di fronte a un
pluralismo limitato. È stato suggerito che avremmo potuto definire
questi sistemi 'regimi a monismo limitato', termini che
suggerirebbero la sfera entro cui questi regimi operano. La
limitazione del pluralismo può essere de iure o de facto, attuata in
modo più o meno efficace, circoscritta a gruppi strettamente
politici o estesa a gruppi di interesse, purché si tratti di gruppi
non creati né dipendenti dallo Stato, che influenzano il processo
politico.
Alcuni regimi arrivano persino a istituzionalizzare la
partecipazione politica di un numero limitato di gruppi o di
istituzioni indipendenti e anche a incoraggiarne l'affermazione,
senza comunque lasciare alcun dubbio sul fatto che, in ultima
istanza, sono i governanti a determinare quali gruppi possano
esistere e a quali condizioni. Il potere politico non è tenuto, né
de iure né de facto, a rendere conto del proprio operato, attraverso
tali gruppi, ai cittadini, in contrasto con quanto avviene nei
governi democratici, dove le forze politiche dipendono formalmente
dal sostegno dei collegi elettorali. Nei regimi autoritari gli
uomini che salgono al potere come rappresentanti dei punti di vista
di diversi gruppi e istituzioni non devono la loro posizione solo al
sostegno di questi gruppi, ma anche alla fiducia riposta in loro dal
leader o dal gruppo dirigente, che tengono conto del loro prestigio
e della loro influenza. Grazie a un processo costante di cooptazione
dei leaders, diversi settori o istituzioni entrano a far parte del
sistema; questo meccanismo spiega le caratteristiche dell'élite: una
certa eterogeneità sotto il profilo della formazione culturale e dei
modelli di carriera e una prevalenza di burocrati, tecnici
specializzati, militari di carriera, rappresentanti di gruppi
d'interesse e, a volte, di gruppi religiosi rispetto ai politici di
professione.
In alcuni di questi regimi un partito - ufficiale, unico o
privilegiato - costituisce una componente più o meno importante del
pluralismo limitato. Sulla carta partiti del genere spesso
pretendono lo stesso potere monopolistico dei partiti totalitari e
presumibilmente svolgono le stesse funzioni, ma in realtà vanno
tenuti ben distinti. L'assenza, o la debolezza, di un partito
politico spesso fa sì che organizzazioni laiche legate alla Chiesa o
da essa patrocinate diventino un serbatoio di quadri dirigenti, con
una funzione non molto diversa da quella che svolgono nel
reclutamento delle élites dei partiti democratico-cristiani (v.
Hermet, 1973). Il partito unico è basato il più delle volte sulla
fusione di elementi diversi anziché su un corpo unico irreggimentato
ed è più una creazione di coloro che sono al potere che un partito
che ha conquistato il potere, come accade invece nei sistemi
totalitari.
Useremo il termine 'mentalità' anziché 'ideologia', seguendo la
distinzione fatta dal sociologo tedesco Theodor Geiger (v., 1932,
pp. 77-79). Secondo Geiger, le ideologie sono sistemi di pensiero
più o meno elaborati e strutturati, spesso in forma scritta, da
intellettuali o pseudointellettuali, o con il loro aiuto; le
mentalità sono modi di pensare e di sentire, più emotivi che
razionali, che influenzano il comportamento senza codificarlo.I
regimi autoritari burocratico-militari riflettono in misura maggiore
la mentalità dei loro governanti. In altri regimi troviamo un
consenso sul programma e in altri ancora un complesso di idee
mutuate da varie fonti e messe insieme alla rinfusa per dare
l'impressione che costituiscano un'ideologia nell'accezione valida
per i sistemi totalitari. I regimi autoritari che si trovano alla
periferia di centri ideologici si sentono costretti a imitare,
incorporare e manipolare gli stili ideologici dominanti, e ciò può
creare equivoci fra gli studiosi. La complessa coalizione di forze,
interessi, tradizioni politiche e istituzioni - che fanno parte del
pluralismo limitato - esige che i governanti usino come referente
simbolico il minimo comune denominatore. Valori generici quali il
patriottismo e il nazionalismo, lo sviluppo economico, la giustizia
sociale e l'ordine, oltre all'assimilazione cauta e pragmatica di
elementi ideologici mutuati dai centri politici dominanti, danno ai
governanti privi del sostegno di una mobilitazione di massa la
possibilità di neutralizzare gli oppositori, di cooptare una vasta
gamma di sostenitori, di decidere in modo pragmatico quali politiche
adottare. Le mentalità e le semi- o pseudoideologie diminuiscono la
tensione utopistica in politica e in tal modo riducono i conflitti,
che altrimenti richiederebbero o l'istituzionalizzazione o una
maggiore repressione.
La mancanza di ideologia limita la capacità di mobilitare la
popolazione, di creare l'identificazione psicologica ed emotiva
delle masse. L'assenza di un valore supremo, di obiettivi di lungo
respiro, di un modello di società ideale riduce l'attrattiva dei
regimi autoritari agli occhi di coloro che danno alle idee e ai
valori un'importanza centrale e può spiegare l'estraniazione degli
intellettuali, degli studenti, dei giovani e delle persone
profondamente religiose.
La scarsa e limitata mobilitazione politica è una caratteristica dei
regimi autoritari. In alcuni la spoliticizzazione delle masse
rientra nelle intenzioni dei governanti, in altri i governanti,
all'inizio, intendevano indurre i loro sostenitori e la popolazione
a un coinvolgimento attivo. La lotta per l'indipendenza da un potere
coloniale, il desiderio di integrare nel processo politico settori
della società trascurati da tutte le leaderships precedenti, o la
sconfitta di un oppositore con grande seguito popolare in società in
cui la democrazia aveva permesso e incoraggiato tale mobilitazione
fanno emergere regimi autoritari di mobilitazione, nazionalisti,
populisti o fascisti. La necessità di mantenere un equilibrio
all'interno del pluralismo limitato riduce l'efficacia della
mobilitazione di un partito unico e in ultima analisi conduce
all'apatia i membri e gli attivisti.Il pluralismo limitato dei
regimi autoritari genera modelli complessi di semiopposizione e di
pseudoopposizione (v. Linz, Opposition..., 1973). La semiopposizione
è propria di gruppi non dominanti né rappresentati nel gruppo di
governo, parzialmente critici, ma disposti a partecipare al potere
senza sfidare fino in fondo il regime. Essi distinguono tra il
governo e alcuni aspetti dell'ordinamento istituzionale e il leader
del regime, e accettano la legittimità storica o almeno la necessità
della formula autoritaria. Non è raro che la semiopposizione diventi
un'opposizione extralegale: essa ha perso la speranza di trasformare
il regime dall'interno, ma non è ancora pronta a intraprendere
attività illegali o sovversive e gode di una tolleranza
intermittente, a volte basata su legami personali. Anche la
debolezza dei tentativi di socializzazione politica spiega perché la
terza generazione, una volta scoperta la politica, opti per
un'opposizione extralegale.
L'autonomia di certe organizzazioni sociali, la tendenza a una
relativa liberalizzazione, una maggiore partecipazione alle
organizzazioni del regime e la parziale apertura verso altre società
creano i presupposti per l'emergere di un'opposizione extralegale,
che a volte serve da facciata per un'opposizione illegale, pronta a
infiltrarsi nelle organizzazioni del regime. L'opposizione spesso è
incanalata in organizzazioni formalmente apolitiche a carattere
culturale, religioso o professionale. La posizione particolare della
Chiesa cattolica sotto un governo autoritario le assicura una certa
autonomia, che serve a convogliare l'opposizione di classi sociali,
minoranze culturali, giovani ecc. e a far emergere nuovi leaders.
Poiché si tratta di un'istituzione destinata a sopravvivere a
qualsiasi regime, anche a quelli con cui si è identificata in un
particolare momento storico, è probabile che riacquisti la sua
autonomia quando compaiono segnali di crisi, allo stesso modo di
altre istituzioni, che potrebbero avere conservato una notevole
autonomia, come la magistratura, la categoria dei professionisti e
quella dei funzionari statali.I regimi autoritari sono difficili da
studiare, poiché non hanno mai, in nessun caso, acceso
l'immaginazione di intellettuali e attivisti, né hanno ispirato
un'internazionale fra i partiti sostenitori del loro modello, e i
loro leaders si sono sentiti obbligati a scimmiottare i più
attraenti modelli totalitari. Negli anni trenta, grazie alla
capacità dell'ideologia del corporativismo di combinare una grande
varietà di retaggi ideologici e di collegarsi alla dottrina sociale
cattolica conservatrice, sembrò che i regimi autoritari offrissero
un'alternativa, ma il loro evidente fallimento ha pregiudicato
questo terzo modello politico.
2. Per una tipologia dei regimi autoritari
Se la definizione astratta, sopra proposta, di regime autoritario è
utile, dovrebbe permetterci di delineare alcuni sottotipi. Il
pluralismo limitato, al contrario del monismo, produce tipologie che
tengono conto di quali istituzioni e quali gruppi siano ammessi a
partecipare alla vita politica, e in che modo, e quali ne siano
esclusi. Se è il rifiuto della mobilitazione a distinguere tali
regimi dal totalitarismo, le ragioni della mobilitazione limitata e
la sua natura dovrebbero fornire un ulteriore parametro.Il
pluralismo limitato assume una varietà di forme, a seconda della
posizione più o meno preminente dei diversi gruppi o istituzioni. I
regimi autoritari vanno da quelli dominati da un'élite
burocratico-tecnocratico-militare, preesistente al regime, ad altri
in cui la partecipazione politica viene mediata da un partito unico
o dominante che emerge dalla società. In altri regimi diversi gruppi
e istituzioni sociali vengono creati o ammessi a partecipare al
processo politico nella forma del cosiddetto statalismo organico,
spesso definito - in termini ideologici - 'corporativismo' o
'democrazia organica'.Se guardiamo invece all'aspetto della
partecipazione limitata e/o controllata, dell'apatia politica della
maggior parte dei cittadini, tollerata o incoraggiata che sia,
troviamo che nei regimi burocratico-tecnocratico-militari sono pochi
- seppure esistono - i canali che danno adito alla partecipazione e
che i governanti non hanno neppure interesse a manipolarla. Troviamo
anche regimi che tentano di mobilitare i cittadini attraverso canali
monopolistici ben precisi, soprattutto un partito unico o dominante
e le organizzazioni di massa e funzionali che ne dipendono. Nella
misura in cui un tale partito non viene concepito per escludere
altre organizzazioni e istituzioni da un pluralismo politico
limitato e non le invade completamente, ci troviamo di fronte a
regimi di mobilitazione, diversi sia da quelli
burocratico-tecnocratico-militari, sia da quelli che abbiamo
raggruppato sotto l'etichetta di statalismo organico.
A seconda delle circostanze in cui sono apparsi, questi regimi
rientrano in due categorie: a) i regimi retti da un partito di
mobilitazione, unico o dominante; b) le società post-democratiche.
Il partito unico (o dominante) emerge dalla società nel corso della
lotta per l'indipendenza, conquistandosi una posizione di dominio,
che proteggerà sia abolendo quelle libertà politiche che
porterebbero all'affermazione di altri partiti, sia cooptando o
persino corrompendo i potenziali concorrenti. All'inizio questi
regimi si basano su una notevole mobilitazione e potrebbero prendere
una direzione totalitaria, ma poi divengono regimi in cui il
partito, che in origine faceva affidamento sulla mobilitazione,
costituisce una componente importante della struttura del potere.
Nelle società post-democratiche un governo puramente
burocratico-militare o uno basato sulla rappresentanza, propria
dello statalismo organico, di un numero ben definito di gruppi
sociali e di interessi istituzionali non sono realizzabili, perché
gran parte della società conta su una qualche forma di
partecipazione. Regimi del genere si affermano quando la lotta per
l'esclusione di specifici settori della società ha richiesto una
certa mobilitazione e la creazione di un partito, di organizzazioni
di massa e persino di organizzazioni coercitive in aggiunta alle
strutture burocratiche della polizia e dell'esercito. Se questi
partiti e movimenti hanno mirato, senza ottenerlo, a un monopolio
totalitario del potere, possiamo parlare di sistemi totalitari
difettosi o bloccati. Dal momento che il processo di instaurazione
di un sistema totalitario vero e proprio non si conclude il giorno
stesso della presa del potere, possiamo includere tra le situazioni
autoritarie anche le fasi pre-totalitarie di certi sistemi politici.
Infine il modo in cui il pluralismo limitato si afferma dopo un
governo totalitario ci induce a parlare di regimi post-totalitari.
Le varie forme di pluralismo limitato corrispondono, più o meno, a
modi diversi di articolare le idee che legittimano il sistema. Nel
caso di governi burocratico-militari, le idee non sono molto
articolate in termini intellettuali; possiamo parlare più che altro
di mentalità, prestando scarsa attenzione alle formule ideologiche,
che tendono a essere semplicistiche e spesso di seconda mano.
È probabile invece che i regimi autoritari di mobilitazione,
soprattutto quando assegnano un ruolo importante al partito unico o
dominante e tentano di incoraggiare la partecipazione dei cittadini,
si affidino a formule ideologiche. La relativa mancanza di
articolazione e di complessità di queste formule e spesso il loro
carattere secondario contribuiscono a deteriorare la componente di
mobilitazione e quindi il partito e la partecipazione di massa. Ne
risulta un avvicinamento di molti regimi autoritari di mobilitazione
al tipo burocratico-militare o allo statalismo organico. Solo nel
caso di regimi autoritari di mobilitazione post-democratici,
dominati da un partito fascista che già prima di prendere il potere
era una forza politica rilevante, l'ideologia rimane in effetti un
importante fattore indipendente, non del tutto riducibile alla
nostra nozione di mentalità.I regimi autoritari
burocratico-militari, che non hanno elaborato né
un'istituzionalizzazione più complessa del pluralismo limitato sotto
forma di statalismo organico, né un partito unico, sono in qualche
modo i regimi autoritari paradigmatici, lontani dai sistemi politici
democratici, ma anche dal totalitarismo moderno.
Le occasioni di partecipazione alla vita politica e quindi di
accesso al potere, proprie dei regimi autoritari di mobilitazione,
avvicinano questi al tipo ideale di sistema democratico. Tuttavia
questi regimi rappresentano un ostacolo alla sopravvivenza e
all'influenza politica del pluralismo societario, e si
contrappongono alla libertà di organizzazione caratteristica dei
sistemi democratici. Lo statalismo organico, istituzionalizzando il
pluralismo esistente e incorporandolo nel processo politico, senza
accordare il monopolio a un'unica organizzazione politica, è più
vicino al pluralismo che si sviluppa spontaneamente nel quadro di
una società libera, ma sacrifica maggiori possibilità di
partecipazione del cittadino medio agli interessi di varie élites.
Lo statalismo organico è più distante dall'idea di partecipazione
dei cittadini di quanto non lo siano i regimi di maggiore
mobilitazione.Molti regimi si trovano a cavallo tra questi vari tipi
ideali e molti combinano elementi più o meno importanti in diverse
fasi della loro storia. Molti regimi si affermano come burocrazie
militari, ma, dopo essersi consolidati al potere, esplorano le altre
alternative e tentano di trasformarsi in statalismi organici e,
senza successo, in regimi di mobilitazione.
3. Regimi autoritari burocratico-militari
Il sottotipo più frequente è costituito da quei regimi in cui una
coalizione, controllata in modo prevalente ma non esclusivo da
ufficiali dell'esercito, burocrati e tecnocrati, assume il controllo
del governo ed esclude o include altri gruppi senza affidarsi a
un'ideologia specifica, agisce in modo pragmatico nei limiti della
mentalità burocratica e non crea un partito unico di massa, né gli
consente di svolgere un ruolo dominante. Questi regimi possono
operare senza partiti, ma spesso hanno creato un partito unico
ufficiale sostenuto dal governo, il quale, più che mirare a una
mobilitazione controllata della popolazione, tende a ridurne la
partecipazione politica. In diversi casi questi regimi permettono
l'esistenza di un sistema pluripartitico, assicurandosi però che le
elezioni non offrano, neppure ai partiti autorizzati, alcuna
possibilità di libera competizione per ottenere il sostegno
popolare, e, ricorrendo a manipolazioni, che vanno dalla cooptazione
e dalla corruzione alla repressione, tentano di assicurarsi la
collaborazione o la sottomissione dei partiti stessi, o di
neutralizzarne l'azione (v. Janos, 1970).La letteratura di stampo
più polemico tende a tacciare di fascismo i regimi di questo genere,
soprattutto perché - negli anni tra le due guerre mondiali - essi
adottarono slogan, simboli e uno stile fascisti, nonché alcuni degli
elementi più opportunistici dei movimenti fascisti.
Il ruolo dominante rivestito dall'esercito e il fatto che molti
ufficiali svolsero una funzione importante, anche dove l'esercito -
in quanto istituzione - non assunse il potere, hanno indotto a
classificare questi regimi come dittature militari; ma anche quando
essi nacquero come dittature militari, non si può ignorare la loro
struttura politica assai più complessa e il ruolo importante dei
leaders civili, soprattutto dei più alti funzionari statali, ma
anche dei professionisti e degli esperti, oltre che degli esponenti
politici dei partiti preesistenti al colpo di Stato (v. Janos, 1970
e 1982; v. Roberts, 1951; v. Tomasevich, 1955; v. Cohen, 1973; v.
Macartney, 1962; v. Payne, 1987). In molti di questi regimi le
istituzioni tradizionali, come la monarchia e, in misura minore, la
Chiesa, o le classi sociali premoderne, come quella dei grandi
proprietari terrieri, svolsero un ruolo importante, ma sarebbe
errato definire tradizionali tali sistemi. Tanto per cominciare, la
legittimazione tradizionale della monarchia nei paesi con regimi del
genere era, salvo qualche eccezione, relativamente debole (v. Clogg
e Yannopoulos, 1972).Nonostante un certo arbitrio nell'esercizio del
potere, questi regimi fecero un notevole sforzo per operare in un
quadro legalitario: promulgarono costituzioni modellate su quelle
delle democrazie liberali occidentali, conservarono il più a lungo
possibile forme parlamentari pseudocostituzionali, fecero uso delle
procedure legali e dei tribunali e, soprattutto, pretesero dai
funzionari e dagli ufficiali un'obbedienza basata non tanto
sull'accettazione delle loro politiche, dei loro programmi o del
loro carisma, quanto sull'autorità della legge.
Questo legalitarismo, inerente alla formazione di molti detentori
del potere - funzionari statali e politici di un precedente sistema
democratico più liberale -, porta spesso a curiose contraddizioni:
esso assicura sorprendentemente un certo spazio alla libertà
individuale, ma si rende responsabile di alcuni tra i più
oltraggiosi abusi di potere, quali l'assassinio politico,
l'esecuzione di oppositori "mentre cercavano di fuggire" (anziché
dopo un processo o, come nei sistemi totalitari, dopo un processo
farsa) e l'uso della violenza privata con la connivenza delle
autorità. In questi regimi, invece di una 'legalità rivoluzionaria',
si attua una distorsione o una perversione della legalità. In tempi
più recenti il fenomeno dei desaparecidos in Argentina, in Cile e in
altri paesi rappresenta una nuova forma di repressione messa in atto
da questo tipo di regimi.
Alcuni degli uomini che assumono il controllo sono alti funzionari
statali, spesso esperti in materia fiscale, incaricati di realizzare
riforme fiscali, di promuovere un certo grado di intervento
governativo nell'economia e di incoraggiare l'industrializzazione,
senza, comunque, creare un settore pubblico su vasta scala (v.
Janos, 1970, pp. 212-216). Le loro politiche sono pragmatiche,
attente ai cicli economici e al sistema economico internazionale, e
quindi tendono ad adottare una varietà di misure spesso non troppo
dissimili da quelle in vigore nei paesi con altri sistemi politici.
Questi regimi sono comparsi in società ancora poco industrializzate,
con un'agricoltura scarsamente modernizzata e con una popolazione
rurale numerosa, composta in genere di contadini poveri e/o di
braccianti agricoli o di affittuari; società caratterizzate,
nonostante lo scarso livello di sviluppo economico, da un processo
di urbanizzazione piuttosto avanzato, da una diffusione
dell'istruzione relativamente ampia e quindi dalla crescita di un
ceto medio di professionisti alla ricerca di un impiego statale o
parastatale. I sostenitori principali e i quadri di questi regimi
provengono da quella classe che gli studiosi delle società dell'Est
europeo hanno chiamato 'borghesia di Stato', anche se i maggiori
beneficiari delle politiche governative potrebbero essere altri
gruppi sociali: le classi rurali più ricche o gli appartenenti ai
pochi settori commerciali ben ammanicati.Nelle società più avanzate,
i disagi provocati dalla guerra e/o l'esempio di rivoluzioni
straniere crearono sacche di protesta e, nei momenti di crisi,
tentativi rivoluzionari condannati al fallimento, o ondate di
terrorismo e di controterrorismo. L'esperienza di una minaccia
rivoluzionaria diede a molti sistemi un forte carattere
controrivoluzionario e reazionario.L'obiettivo di questi regimi è di
impedire alle masse - soprattutto agli operai, ai braccianti
agricoli, ai contadini non privilegiati e, a volte, alle minoranze
religiose, etniche o culturali, che rivendicano una quota maggiore
delle risorse della società - di organizzarsi e di partecipare al
potere in modo indipendente e senza controlli. Questi regimi
permettono un maggiore o minore pluralismo all'interno di altri
settori della società e assicurano un ruolo importante ai militari e
ai burocrati capaci di tenere a freno le masse. È difficile che essi
introducano sostanziali cambiamenti strutturali nella società, ma
spesso limitano anche il potere, la capacità organizzativa e
l'autonomia delle élites privilegiate: i gruppi economici, le
categorie di professionisti, i capitalisti stranieri, persino le
organizzazioni religiose e, di rado, l'esercito.
Questi regimi si affermano in genere dopo che un periodo di
democrazia liberale ha permesso la mobilitazione delle classi non
privilegiate. Il grado di autonomia che essi sono disposti a
concedere alle classi socioeconomicamente più privilegiate può
variare in funzione della minaccia che il dominio di questi strati
potrebbe rappresentare per coloro che si sono assunti il compito di
proteggere il regime e se stessi dalle rivendicazioni radicali
rivoluzionarie dei non privilegiati. A seconda della forza del
regime, si concederà ai notabili tradizionali una parte del potere.
Sarà lo sviluppo economico a determinare fino a che punto si
concederà a coloro che controllano i mezzi di produzione di far
parte della coalizione al potere o di esercitare un'influenza
dominante. Sarà il livello di mobilitazione dei non privilegiati
prima dell'avvento del regime autoritario a determinare in gran
parte in quale misura i burocrati e i militari, impegnati a
difendere il sistema, svolgeranno un ruolo dominante e in quale
misura tenteranno di integrare nel sistema i non privilegiati
attraverso organizzazioni controllate, quali i sindacati ufficiali,
le organizzazioni corporative, o partiti di tipo populista o
fascista.
Come ha dimostrato Schmitter (v., Corporatist..., 1974, Still the
century..., 1974), riprendendo il modello bonapartista sviluppato da
Marx, questi regimi autoritari possono spingersi molto lontano nel
rendere indipendente lo Stato e nel logorare di giorno in giorno il
potere politico della borghesia, proprio mentre ne proteggono il
potere materiale. Quando esiste una popolazione contadina non
mobilitata politicamente, o sicura di sé e soddisfatta, tale classe
sociale fornisce un sostegno al regime. I limiti imposti alle classi
privilegiate e gli ostacoli alla libera attuazione degli interessi
della classe media, in particolare di quelli dei suoi settori più
sofisticati sul piano intellettuale, portano al paradosso per cui la
stabilità di questi regimi è minacciata più dalle classi che li
hanno portati al potere e che traggono i maggiori vantaggi dal loro
governo, che non da quelle escluse dal pluralismo limitato.
Un problema che molti regimi non sono riusciti a risolvere è quello
delle profonde divisioni etniche e nazionali, in particolare
nell'Europa dell'Est, con le sue minoranze più o meno oppresse a
volte leali a un paese confinante. Conflitti del genere hanno
rafforzato il nazionalismo sciovinista e il ruolo politico
dell'esercito. Janos (v., 1970) e Nagy-Talavera (v., 1970) hanno
dimostrato come la posizione sociale degli ebrei nell'Europa
orientale, in particolare la loro preponderanza tra i laureati in
società caratterizzate da una disoccupazione intellettuale su larga
scala, generò sentimenti antisemiti manipolati dai governanti.In
società più complesse, con livelli di mobilitazione sociale più alti
e una tradizione intellettuale cattolica, i regimi autoritari
consolidati di tipo militare-burocratico hanno rafforzato la propria
istituzionalizzazione, realizzando una rottura esplicita con le
forme costituzionali liberal-democratiche. Alcuni hanno optato per
forme di governo miste, ottenute combinando in varia misura lo
'statalismo organico' con sistemi basati su partiti unici di
mobilitazione di ispirazione fascista (la Spagna nel 1926, il
Portogallo nei primi anni trenta, l'Austria nel 1934, il Brasile di
Vargas dal 1937 al 1945 e la Spagna di Franco). Il modello
ottimistico secondo il quale lo sviluppo socioeconomico favorirebbe
la pluralizzazione politica e quindi l'avvento della democrazia è
stato smentito in due dei paesi più avanzati dell'America Latina.
Guillermo O'Donnell (v., 1973) ha proposto un modello alternativo,
che associa un grado più elevato di sviluppo economico e sociale
all'emergere di un autoritarismo burocratico volto a escludere dalla
vita politica settori popolari politicamente attivi, in particolare
le classi lavoratrici urbane, tramite la coalizione fra un nuovo
tipo di élite militare e i tecnocrati dei settori pubblico e
privato, con il sostegno delle classi sociali minacciate dalla
mobilitazione.
Come ha dimostrato Stepan (v., 1973 e 1978), i tecnocrati
dell'esercito, della burocrazia e delle imprese moderne condividono
la stessa concezione dei requisiti necessari allo sviluppo, fra cui
annoverano, in particolare, l'esclusione e la neutralizzazione delle
classi popolari, e mantengono collegamenti internazionali con élites
analoghe presenti in altre società industriali avanzate, che li
hanno portati a credere fermamente nelle proprie capacità di
risolvere i problemi sociali e di esercitare un maggiore controllo
sui settori cruciali delle loro società. La loro coalizione golpista
mirerà a rimodellare il contesto sociale in modo da favorire
l'applicazione delle conoscenze tecnocratiche e da ampliare
l'influenza dei settori sociali dove la loro presenza, a causa della
modernizzazione, è più massiccia.
A metà degli anni sessanta il Brasile e l'Argentina cominciarono a
escludere dall'arena politica la classe popolare urbana, già
politicizzata, rifiutando di soddisfarne le richieste, ricorrendo
alla coercizione diretta e/o bloccando i canali elettorali di
accesso alla politica. Questi tentativi sono destinati a un grado
maggiore o minore di successo. A un estremo si può ottenere la
completa neutralizzazione politica di un settore escluso attraverso
la distruzione delle sue risorse (soprattutto della sua base
organizzativa); all'estremo opposto è possibile che questa
neutralizzazione non si realizzi. Questi paesi sono passati da un
sistema politico coinvolgente, che tentava esplicitamente di
mobilitare la classe popolare e le permetteva di far sentire la sua
voce in una fase di populismo e di industrializzazione orizzontale,
all'esclusione. Si trattava di paesi in cui la crisi mondiale degli
anni trenta e la seconda guerra mondiale avevano accelerato
l'affermarsi dell'industria nazionale e di una classe operaia
urbana, e dove esisteva un'ampia coalizione populista, capeggiata da
leaders come Vargas e Perón, contro le vecchie oligarchie e le
imprese straniere. Queste coalizioni favorirono
l'industrializzazione; sul piano sociale ciò significò l'ampliarsi
delle funzioni dello Stato e procurò un'occupazione a molti
impiegati e tecnici della classe media. Nazionalismo e
industrializzazione incontrarono il favore dell'esercito, portarono
vantaggi ai lavoratori urbani, incoraggiarono l'inurbamento, fecero
salire i livelli di consumo, incrementarono la sindacalizzazione e
favorirono i settori agricoli i cui prodotti erano destinati al
consumo interno. Il governo destinò una quota significativa delle
sue entrate allo sviluppo e al consumo interni, a spese del
tradizionale settore dell'esportazione. Tuttavia l'importanza
economica delle esportazioni permise a questo settore di conservare
un'influenza politica sproporzionata rispetto al suo contributo,
decrescente, al prodotto nazionale lordo. Esaurita la fase più
semplice dell'industrializzazione, la politica della sostituzione
delle importazioni generò l'esigenza di nuove importazioni, in un
periodo in cui l'instabilità dei prezzi delle esportazioni aggravava
la scarsa produttività dei settori dediti all'esportazione, che
stavano pagando il prezzo delle politiche populiste.
Tutto ciò provocò carenze di valute estere. Vargas e Perón avevano
incoraggiato la sindacalizzazione dei lavoratori e concesso alla
classe popolare urbana la prima opportunità di avere un peso
politico effettivo. Emersero nuovi problemi, che portarono al crollo
dell'alleanza populista. Nei sistemi politici democratici più
aperti, come quelli che succedettero a Vargas, il peso elettorale,
la possibilità di indire scioperi e manifestazioni e la più intensa
attivazione politica vennero percepiti come una minaccia. In
Argentina e Brasile la maggior parte delle classi dei possidenti fu
d'accordo nel ritenere eccessive le richieste delle classi popolari,
sia in termini di consumi che di partecipazione al potere, e
impossibile l'accumulazione di capitale senza tenerle sotto
controllo. La componente classista di questa polarizzazione portò
all'adozione di una soluzione politica che avrebbe eliminato queste
minacce, rese più gravi dallo spettro della rivoluzione cubana. Il
cambiamento di mentalità del corpo ufficiali, in seguito
all'addestramento antisovversivo ricevuto negli Stati Uniti, e
l'impatto delle dottrine militari francesi in fatto di conflitto
politico e di guerra civile generarono la teoria della sicurezza
nazionale, che contemplava anche lo sviluppo socioeconomico come
risposta alla sovversione interna. La diminuzione del reddito
dell'ampia classe media salariata ne determinò una disaffezione nei
confronti di un sistema formalmente democratico e una pronta
risposta all'appello per la legge e l'ordine. Il divario tra
richieste e relative soddisfazioni e tra differenziazione e
integrazione portò a una situazione che è stata definita di
'pretorianesimo di massa' (v. Huntington, 1968).
Le istituzioni politiche e i parlamenti furono ulteriormente
indeboliti e l'esecutivo si trovò al centro di un'ondata di
richieste. I governi furono ingannati e collaborarono con il
'pretorianesimo'. La situazione arrivò a un punto morto, con elevati
livelli di conflitto incontrollato; la debolezza del governo, che
impediva l'attuazione di qualsiasi politica, e l'ansia di conservare
il potere portarono a una serie di politiche volte a placare i
personaggi politici più minacciosi, con scarso interesse per la
reale soluzione dei problemi. La competizione si avvicinava sempre
più a una situazione di stallo e i progressi erano precari. Si
arrivò così alla soglia di una crisi definitiva, quando la maggior
parte dei protagonisti politici si impegnò a cambiare completamente
le regole del gioco politico.La modernizzazione aveva fatto emergere
una classe di tecnocrati, che auspicavano la formazione di governi
disposti a garantire loro un potere decisionale. Queste élites si
trovarono a operare in un ambiente nuovo; nacquero nuove scuole
aziendali, accademie militari avanzate e nuove iniziative editoriali
capaci di orientare l'opinione pubblica. Come ha dimostrato Stepan
(v., 1973), apparve una nuova mentalità. Data la loro formazione,
queste élites privilegiavano la soluzione tecnica dei problemi,
respingevano gli aspetti emotivi, erano consapevoli delle ambiguità
insite nelle contrattazioni, consideravano la politica un ostacolo
alle soluzioni razionali e il conflitto una disfunzione.In contesti
altamente modernizzati, il tentativo di escludere e neutralizzare il
settore popolare, senza offrirgli contropartite psicologiche o
economiche, richiese misure coercitive decise e sistematiche.
La risposta fu l'autoritarismo burocratico, che soppresse i partiti
politici e le elezioni, addomesticò i sindacati attraverso la
cooptazione, se non la coercizione, e tentò di incapsulare con la
burocrazia la maggior parte dei settori sociali per massimizzarne il
controllo. O'Donnell collega il suo modello a quello presentato da
Barrington Moore (v., 1966), parlando però di una terza via storica
all'industrializzazione, accanto alla rivoluzione borghese e a
quella comunista. Questa terza via comporta la coalizione fra la
burocrazia statale e le classi dei possidenti (compresa una
borghesia industriale subalterna) contro i contadini e un
proletariato emergente. Questo modello non è rimasto esente da
critiche (v. Collier, 1979). Crisi politiche più specifiche, i
fallimenti della leadership, l'impatto del terrorismo, i conflitti
istituzionali fra presidenti e Congresso, l'alienazione
dell'esercito in seguito a iniziative presidenziali mal consigliate
sono stati tra i fattori che portarono al crollo della democrazia.
Dopo solo due decenni in America Latina gli autoritarismi
burocratico-militari entrarono in crisi e in Uruguay, in Argentina e
in Brasile ebbe luogo una transizione verso la democrazia. Questi
regimi, in un contesto culturale che identificava la legittimità con
i valori democratici, in un mondo largamente ostile alla loro
politica repressiva, resisi responsabili di una politica economica
fallimentare, sconfitti nella guerra delle Falkland-Malvinas,
delegittimati (soprattutto in Argentina) in quanto autori di una
repressione illegale, imprevedibile e crudele, incontrarono una
resistenza sempre maggiore. La rinascita della società civile
attraverso il ripristino delle associazioni, della stampa, dei
sindacati, la posizione critica della Chiesa (in Brasile), gli
errori di valutazione riguardo all'appoggio che potevano incontrare
i loro schemi costituzionali (in Uruguay), indussero alcuni leaders
a cercare forme di liberalizzazione - la distencão - e un processo
di transizione controllata - l'apertura - (in Brasile), un'uscita di
scena negoziata o un'abdicazione al potere. La transizione non è
ancora completa ed è minacciata di tanto in tanto dai retaggi del
passato, in particolare dalle violazioni dei diritti umani (in
Argentina) e dalla difficoltà di ridurre le prerogative
dell'esercito (v. O'Donnell, Schmitter e Whitehead, 1986; v. Stepan,
1988).
4. Lo statalismo organico
Alcuni regimi autoritari, che perseguono politiche molto diverse in
termini di interessi di classe e di organizzazione dell'economia,
hanno tentato di andare oltre il governo autoritario di tipo
burocratico-tecnocratico-militare controllando la partecipazione e
la mobilitazione della società mediante 'strutture organiche'. Il
rifiuto dei presupposti individualistici della democrazia liberale,
unito al desiderio di fornire un canale istituzionale attraverso cui
gli interessi eterogenei delle società moderne o in via di
modernizzazione potessero essere rappresentati evitando il modello
del conflitto di classe, ha prodotto una vasta gamma di formulazioni
teoriche e ideologiche e svariati tentativi di renderle operanti
attraverso istituzioni politiche.Il retaggio ideologico del
conservatorismo controrivoluzionario ottocentesco, che respingeva
sia il liberalismo individualista che l'assolutismo statale, e le
reazioni di settori pre-industriali - quali gli artigiani, i
contadini e, a volte, persino i professionisti - all'avanzata del
capitalismo industriale e finanziario hanno dato origine a un
insieme di ideologie corporative (v. Schmitter, Corporatist...,
1974, Still the century..., 1974). La risposta antiliberale,
anticapitalistica e antistatalista fornita dalla Chiesa cattolica in
encicliche come la Rerum Novarum ha contribuito alla fortuna di
queste ideologie.
La tradizione sindacalista del movimento operaio, che rifiutava
l'autoritarismo marxista, il persistere dello Stato come strumento
di oppressione e la cooptazione del movimento operaio
socialdemocratico dei lavoratori, tramite la sua partecipazione alle
elezioni e alla politica parlamentare, hanno contribuito alla
ricerca di forme di partecipazione da attuarsi tramite l'istituzione
di consigli indipendenti dei produttori a livello di fabbrica e di
comunità, destinati a creare di comune accordo organizzazioni più
estese. Persino alcuni liberali democratici, temendo l'accrescersi
del potere dello Stato e l'anomia di individui isolati, imputabile
alla divisione del lavoro e alla crisi delle istituzioni
tradizionali, si sono resi conto che le organizzazioni professionali
corporative sarebbero potute servire al controllo sociale (v.
Durkheim, 1902).
La disponibilità delle forze conservatrici antirivoluzionarie,
cattoliche, sindacaliste e liberalsolidariste ha dato i suoi frutti
sotto forma di formulazioni teoriche, leggi e commentari giuridici.
Perché il corporativismo si è andato identificando con i regimi
autoritari ed è diventato, come puntualmente lo caratterizza Stepan,
statalismo organico? Le ragioni sembrano tre: le difficoltà logiche
e pratiche di organizzare la vita politica come espressione
esclusiva di interessi 'corporativi'; l'obiettivo sociopolitico
perseguito nel determinato contesto storico-sociale in cui tali
soluzioni sono state messe in pratica; la natura della comunità
politica e dello Stato nonché le tradizioni intellettuali e
giuridiche su cui si basa l'idea di Stato.I teorici della democrazia
organica sottolineano che le persone fanno parte di numerosi gruppi
naturali, basati su relazioni sociali primarie - relazioni che si
instaurano sul luogo di lavoro, nelle associazioni professionali,
nelle università, nei quartieri, ecc. -, in contrasto con gruppi più
estesi creati artificialmente, come i partiti politici. La teoria
propone quindi elezioni su più livelli, cioè indirette, all'interno
di una serie di collegi elettorali basati sul raggruppamento di tali
unità primarie, fino ad arrivare a una camera nazionale di
corporazioni (v. Aquarone, 1965) o ad una serie di camere
specializzate, allo scopo di organizzare, sulla base di questa
democrazia indiretta, una politica democratica nazionale, anche
quando sembrerebbe difficile ottenere di rendere responsabile la
leadership nazionale nei confronti dei singoli cittadini.
Questo modello è inficiato da alcuni assunti falsi: il presupposto
che tali unità primarie rappresentino interessi comuni anziché
essere divise da conflitti interni; il presupposto che, a livello
nazionale, non esistano interessi più importanti di quelli
rappresentati dalle unità primarie e che tali interessi, di portata
più generale, non dividano la società e non meritino di essere
rappresentati. Se esistono interessi del genere, è lecito supporre
che i partiti, basati sull'aggregazione di un gran numero di
interessi generali, si affermerebbero comunque su scala nazionale,
mentre i rappresentanti eletti secondo il sistema corporativo non
disporrebbero di alcuna base su cui prendere decisioni circa tali
interessi e non sarebbero scelti per le loro opinioni in merito.Il
problema di delimitare i collegi elettorali è più serio. Limitarsi a
riconoscere le organizzazioni preesistenti, formatesi
spontaneamente, rivelerebbe quanto sia diseguale la mobilitazione
organizzativa di vari interessi; pertanto lo Stato si assume
inevitabilmente il compito di stabilire delle categorie non
competitive in modo funzionale, legalizzandole o autorizzandole e
concedendo loro un monopolio della rappresentanza. Risulta più
difficile scegliere quale peso assegnare, nel processo decisionale,
agli interessi organizzati e quale criterio adottare per conferire
una rappresentanza a interessi non economici e non professionali. Le
scelte sarebbero soggette a continue revisioni, con conseguenti
modifiche della struttura economica e sociale, al cui confronto i
conflitti concernenti la distribuzione dei collegi elettorali nelle
democrazie 'inorganiche' apparirebbero come un gioco da ragazzi. Le
decisioni autoritarie dei burocrati e/o dei gruppi politici al
governo predeterminerebbero la natura e la composizione dei corpi
decisionali, che quindi sarebbero tutt'altro che un prodotto
organico della società.
Da un punto di vista sociologico, come ha notato Max Weber, la
funzione latente di ogni sistema di questo tipo è di privare del
diritto di voto determinati strati sociali. Può trattarsi di un
sistema estremamente conservatore (quando concede mandati politici
alle categorie professionali, privando così, di fatto, del diritto
di voto le masse più numerose) o radicalmente rivoluzionario (quando
limita in modo formale e aperto il suffragio al proletariato,
privandone così quelle classi il cui potere si fonda sulla posizione
economica). È questo che ha indotto i regimi autoritari a preferire
la rappresentanza corporativa, soprattutto nelle società in cui le
masse di operai, braccianti e contadini potrebbero conferire la
maggioranza ai partiti classisti di massa. Tutto ciò, oltre alla
possibilità di manipolare i responsi elettorali facendo ricorso a
elezioni indirette e su più livelli, spiega l'esistenza di sistemi
politici basati su principî del genere.
Su molte questioni i rappresentanti di interessi finirebbero col non
avere un'opinione e sarebbero disposti a dare il loro voto in cambio
di misure che favorissero i loro interessi particolari. Il potere
finisce in mano a un gruppo dominante che organizza il sistema,
assegna le quote di rappresentanza, arbitra i conflitti tra
interessi e prende decisioni su tutte le questioni che esulano dagli
interessi dei rappresentanti. Anche a proposito di sistemi basati
sulla democrazia organica sarebbe meglio parlare di 'statalismo
organico': in tali sistemi le élites
burocratico-tecnocratico-militari e/o i leaders di un partito unico
detengono la quota maggiore del potere.
Le strutture corporative costituiscono uno dei tanti elementi di
questi sistemi, ma, anche se deboli, rappresentano, soprattutto a
livello di base, un limite alle ambizioni monistiche dell'élite
politica, che tenta di mobilitare una società per i propri scopi
utopistici.In nessun sistema politico è previsto che il governo
debba rendere conto a un'assemblea legislativa di tipo corporativo.
Anche se da un punto di vista puramente teorico la partecipazione
politica potrebbe essere organizzata attraverso collegi elettorali
corporativi ed elezioni corporative, non è mai esistita una
democrazia senza partiti politici.
Lo statalismo organico rappresenta una tentazione soprattutto per le
élites burocratiche, militari e tecnocratiche, che respingono l'idea
di un conflitto aperto e credono in soluzioni razionali, in ultima
analisi amministrative, dei conflitti d'interesse, e non sono
guidate da una visione utopistica della società, ma piuttosto da
considerazioni pragmatiche. Lo statalismo organico si addiceva a un
sistema economico che respingeva il capitalismo basato sul libero
mercato e sull'impresa, ma anche la proprietà pubblica di tutti i
mezzi di produzione e la pianificazione centralizzata. La
disillusione nei confronti della democrazia liberale e di un sistema
economico puramente capitalistico ha costituito un terreno fertile
per l'accettazione di soluzioni corporative.
Parecchi regimi autoritari hanno attinto alle idee della democrazia
organica per legittimare il proprio governo e per organizzare una
partecipazione limitata. L'Estado Novo portoghese costituito da
Salazar rappresenta, da un punto di vista teorico, il caso più puro
(v. Schmitter, Corporatist..., 1974, Still the century..., 1974; v.
Lucena, 1976). Come avvenne in Austria tra il 1934 e il 1938 con
Dollfuss e in Spagna con Franco, dopo un periodo fascista
pre-totalitario, i governanti, combinando un'eredità ideologica
cattolica con l'esperienza fascista italiana, crearono sistemi con
una componente di democrazia organica. Mussolini, collegandosi
all'inizio con la tradizione sindacalista, rafforzata dall'eredità
intellettuale del nazionalismo di destra, e cercando l'approvazione
dei cattolici, costruì una sovrastruttura corporativa, che serviva
gli interessi conservatori privando del diritto di rappresentanza
una classe operaia altamente mobilitata e fornendo un canale di
espressione ai molteplici interessi in gioco in una società
relativamente sviluppata.
Le forti tendenze pre-totalitarie di molti leaders fascisti e il
concetto di 'Stato etico', al di sopra degli interessi, mutuato
dalla tradizione idealistica, crearono, tuttavia, un equilibrio
instabile tra le due componenti del regime: quella corporativa e
quella di mobilitazione, propria del partito unico. In Perù
l'esercito tentò un esperimento analogo, creando il SINAMOS (Sistema
Nacional de Apoyo a la Mobilizacion Social) in campi diversi, quali
i pueblos jovenes, le periferie urbane più diseredate e le
organizzazioni rurali, giovanili, operaie, culturali, professionali
ed economiche.
In una fase iniziale l'idea dei soviet (consigli di operai, o di
operai, contadini e soldati) esercitò un fascino notevole sui
rivoluzionari avversi al partito socialdemocratico marxista
(disposto a far parte di regimi democratici parlamentari), in quanto
essi vedevano nei soviet un mezzo per espropriare del diritto di
rappresentanza altri settori della società e per fornire un efficace
terreno di scontro agli attivisti rivoluzionari, pronti a
soppiantare la leadership degli altri partiti di sinistra. Tuttavia
il partito d'avanguardia fece a meno di questa forma di
partecipazione. Anche la Jugoslavia, con la gestione operaia e
l'autogoverno locale, creò un sistema di camere a carattere
corporativo, complementari alla struttura politica basata sul
partito, sulle sue organizzazioni funzionali e sull'oligarchia
rivoluzionaria.
5. Regimi autoritari di mobilitazione nelle società
post-democratiche
La rivoluzione democratica dell'Europa occidentale si propagò in
società molto diverse fra loro sotto il profilo dello sviluppo
economico, culturale e istituzionale. In molte di esse la
successione delle crisi di sviluppo - costruzione dello Stato,
legittimazione, partecipazione, incorporazione di nuove forze
sociali, rappresentanza negli organi legislativi e infine
partecipazione al potere esecutivo - si concentrò in un breve
periodo di tempo. Nella maggior parte dei casi lo sviluppo economico
non procedette di pari passo con il mutamento politico. Si diffusero
ideologie di protesta elaborate in società più avanzate e sorsero
nuovi movimenti, che, oltre ad avanzare richieste di ridistribuzione
della ricchezza e di partecipazione, si fecero portavoce
dell'ostilità nei confronti dei mutamenti dovuti
all'industrializzazione incipiente e alla disgregazione dei modelli
economici e sociali tradizionali. L'accavallarsi di queste crisi
durante il periodo di democratizzazione politica, mentre le
istituzioni e le élites tradizionalmente legittime erano assenti o
troppo deboli, impedì l'istituzionalizzazione graduale e coronata da
successo di processi democratici capaci di assimilare le richieste
di nuovi gruppi sociali da poco consapevoli della propria identità
culturale o di classe. La crisi della democrazia avrebbe portato a
nuove formule politiche, compresa la componente plebiscitaria
pseudodemocratica: il partito unico di massa.
Quelle società, tuttavia, avevano raggiunto un livello di sviluppo e
di complessità tali da rendere difficile alla leadership del partito
unico spingersi in direzione totalitaria, tranne che nella Germania
nazista. Non è un caso che, essendo la Francia il paese in cui il
mutamento rivoluzionario aveva determinato la rottura maggiore con
l'autorità tradizionale, il primo manifestarsi di una soluzione
plebiscitaria, non liberale e autoritaria della crisi della
democrazia sia stato il bonapartismo. Non è sorprendente che alcuni
marxisti, come Thalheimer (v., 1930), si siano valsi dell'analisi di
Marx sul diciotto brumaio per comprendere i recenti regimi
autoritari creati dal fascismo.
Alla fine della prima guerra mondiale, la crisi delle società
europee fece emergere due movimenti politici che ruppero con i
sistemi liberaldemocratici: il leninismo e il fascismo. Erano
entrambi basati sul dominio di una minoranza, un'élite autoelettasi
a rappresentare la 'maggioranza', il proletariato o la nazione, al
servizio di una missione storica; un'élite definita non da
caratteristiche ascrittive né da successi professionali, ma dalla
volontà di conquistare il potere e utilizzarlo per rovesciare
condizioni storiche e sociali costrittive, ricorrendo all'appoggio
delle masse, ma senza alcuna intenzione di farle interferire nel
raggiungimento dei propri obiettivi. Il fascismo, in quanto risposta
nazionalista all'internazionalismo ideologico del marxismo,
collegandosi ad altre tradizioni ideologiche del XIX secolo -
l'irrazionalismo romantico, il darwinismo sociale, l'esaltazione
hegeliana dello Stato, le idee di Nietzsche, le concezioni soreliane
del ruolo del mito, l'immagine del grande uomo e del genio - diventò
esplicitamente antidemocratico (v. Gregor, 1969; v. Nolte, 1966,
1967 e 1968). In contrasto con altre concezioni dell'autoritarismo,
esso cercò una nuova e diversa forma di legittimazione democratica,
basata sull'identificazione emotiva dei seguaci con il leader, cioè
su quella forma di consenso plebiscitario che si era manifestata per
la prima volta nel cesarismo napoleonico.
Le circostanze eccezionali in cui si trovava la società italiana
dopo la prima guerra mondiale generarono un nuovo tipo di movimento,
non tradizionalista, popolare e antidemocratico, portato avanti
all'inizio da un numero ristretto di attivisti reclutati tra i
nazionalisti interventisti, i veterani di guerra, un certo tipo di
intelligencija, ebbra di nazionalismo, di futurismo e di ostilità
per il trasformismo giolittiano e per l'egoismo della borghesia, e i
sindacalisti rivoluzionari, che avevano scoperto la loro identità
nazionale (v. De Felice, 1966, 1969 e 1970; v. Gentile, 1985).
Tuttavia ciò che creò le condizioni favorevoli al successo del
movimento fu la mobilitazione della classe operaia italiana,
promossa da un movimento operaio socialista massimalista, incapace
di attuare una presa del potere rivoluzionaria e restio a seguire
una via riformista. Il predominio delle sinistre nelle campagne
settentrionali e l'occupazione delle fabbriche spinsero una
borghesia impaurita a sostenere il movimento nascente.
L'atteggiamento ambivalente dello Stato verso le azioni
terroristiche dello squadrismo, il mancato appoggio dei riformisti
allo Stato liberale democratico e le tensioni tra i vecchi partiti
liberali, da una parte, e i socialisti e il nuovo Partito popolare
dall'altra, insieme alla mancanza di scrupoli e all'opportunismo di
Mussolini, portarono il nuovo movimento al potere. Erano nati così
un'ideologia nuova e sfaccettata, una nuova forma di azione politica
e un nuovo stile, che avrebbero trovato eco in gran parte
dell'Europa (v. Nolte, 1966 e 1968; v. Laqueur, 1978; v. Rogger e
Weber, 1966; v. Payne, 1980; v. Larsen e altri, 1980) e persino in
America Latina e in Asia. In un primo momento si poteva pensare che
il fascismo fosse una conseguenza peculiare della crisi italiana (v.
De Felice, 1966, 1969 e 1970; v. Nolte, 1968), più tardi che fosse
una risposta a uno sviluppo economico e a una modernizzazione
tardivi e mal riusciti (v. Borkenau, 1933); ma in seguito al
successo di Hitler divenne necessario spiegarlo in termini di alcune
caratteristiche fondamentali della società occidentale.
Come ideologia e come movimento il fascismo può essere
caratterizzato in base a ciò che rifiuta, al suo nazionalismo
esasperato e alle nuove forme di azione e di stile politici che
introduce. Ciò a cui il fascismo si oppone è essenziale per
comprenderne la natura e il fascino, ma non basta a spiegarne il
successo. Il fascismo è antiliberale, antiparlamentare,
antimarxista, e soprattutto anticomunista, anticlericale, o
perlomeno non clericale, e, in un certo senso, antiborghese e
anticapitalista. Pur riallacciandosi alla tradizione storica
nazionale, reale o presunta, non propugna una continuità
conservatrice col passato recente o un ritorno ad esso puro e
semplice, ma è proiettato verso il futuro.
Quelle posizioni antagonistiche sono la conseguenza logica del suo
approdo tardivo sulla scena politica e del suo tentativo di prendere
il posto dei partiti di ispirazione liberale, marxista, socialista e
clericale. Esse sono anche il frutto del nazionalismo esasperato,
che rifiuta la solidarietà di classe al di là dei confini nazionali
e la sostituisce con la solidarietà tra tutti i produttori di una
nazione contro le altre, ricorrendo al concetto di nazione
proletaria: i paesi poveri contro le ricche plutocrazie, che si dà
il caso fossero anche potenti democrazie.
Queste posizioni negative avevano una specie di distorto complemento
positivo. L'antimarxismo è compensato da un'esaltazione del lavoro,
che fa appello alla crescente classe media impiegatizia, la quale
rifiuta di identificarsi con il proletariato secondo la richiesta
marxista. Il suo populismo induce il fascismo a sostenere politiche
da Stato assistenziale e a parlare di socialismo nazionale, di
socializzazione delle banche, ecc., giustificando così
l'interventismo economico e lo sviluppo di un importante settore
pubblico.
L'anticapitalismo, che fa presa sugli strati precapitalistici e
piccolo borghesi, è ridefinito come ostilità nei confronti della
borsa valori finanziaria internazionale e del capitalismo ebraico e
come esaltazione della borghesia imprenditoriale nazionale. L'enfasi
posta sul bene comune della nazione si combina facilmente con
l'ostilità per il libero gioco degli interessi del liberalismo
economico e trova espressione in scelte politiche protezionistiche e
autarchiche, che incontrano il favore degli industriali minacciati
dalla concorrenza internazionale. L'ostilità nei confronti delle
politiche clericali nutrita da un'intelligencija laica composta da
nazionalisti accaniti e la competizione tra forze laiche e partiti
democraticocristiani per la conquista della stessa base sociale sono
all'origine dell'anticlericalismo, che va di pari passo con la tesi
secondo cui la tradizione religiosa fa parte della tradizione
storico-culturale nazionale. La Guardia di Ferro, l'unico movimento
fascista che abbia avuto successo in un paese greco-ortodosso,
dovendo fronteggiare una borghesia laica non animata da sentimenti
nazionalisti e un'influente comunità ebraica, fece più direttamente
ricorso al simbolismo religioso.
In Germania le confuse dichiarazioni programmatiche a proposito del
cristianesimo positivo e l'appoggio dato da molti protestanti a una
religione di Stato conservatrice furono utilizzati dai nazisti, ma
alla fine l'ideologia razzista divenne incompatibile con qualsiasi
forma di impegno cristiano. Le prese di posizione antireligiose del
marxismo e del comunismo permisero ai fascisti di trarre vantaggio
dal rapporto ambivalente con l'eredità religiosa. Il loro
anticlericalismo fece presa sulle classi medie laiche, per nulla
intenzionate ad appoggiare i partiti clericali e
democraticocristiani, mentre le loro prese di posizione
antiliberali, antimassoniche e persino antisemite, insieme al loro
anticomunismo, facilitarono la collaborazione con le chiese, quando
giunsero al potere. L'atteggiamento antiborghese e l'esaltazione
romantica del contadino, dell'artigiano e del soldato si
contrapponevano al capitalismo impersonale e alla borghesia egoista,
richiamandosi alla critica della moderna società industriale e
urbana. Il rifiuto dell''egoismo di classe' del proletariato e
dell'egoismo individuale borghese e l'affermazione dei comuni
interessi nazionali al di sopra e al di là delle divisioni di classe
fecero leva sul desiderio di solidarietà interclassista sviluppatosi
tra i veterani di guerra.
Tutti questi appelli deliberatamente ambigui e in larga parte
contraddittori sarebbero rimasti, e rimasero, inascoltati in quelle
società in cui la guerra e la sconfitta non avevano provocato una
crisi seria. Nelle nazioni sconfitte o in quelle che, come l'Italia,
pur vittoriose, si sentivano private dei frutti della vittoria,
l'ondata nazionalista venne incanalata dai nuovi partiti.L'ideologia
fascista dovette respingere i presupposti della politica
liberaldemocratica basata sulla partecipazione pluralistica, sulla
libera espressione e sulla mediazione degli interessi, anziché
sull'affermazione degli interessi collettivi al di sopra degli
individui, delle classi e delle comunità culturali e religiose.
L'evidente deformazione dell'idea di democrazia nei primi anni del
XX secolo e l'incapacità della leadership democratica di
istituzionalizzare meccanismi di risoluzione dei conflitti crearono
un terreno favorevole alla fortuna del fascismo. Gli interessi
minacciati da un potente movimento operaio imbevuto di retorica
rivoluzionaria, soprattutto dopo alcuni tentativi rivoluzionari
falliti, sostennero le squadre fasciste in quanto paladine
dell'ordine sociale. L'ideologia fascista offrì una nuova
alternativa, che prometteva l'integrazione della classe operaia
nella comunità nazionale e l'affermazione dei suoi interessi contro
le altre nazioni, se necessario mediante una mobilitazione e persino
un'aggressione militare (v. Neumann, 1942).
Né i suoi richiami ideologici, né gli interessi che servì bastano a
spiegare il successo del fascismo. Il fascismo sviluppò nuove forme
di organizzazione politica, diverse tanto dai partiti basati sul
sostegno elettorale e da quelli socialisti di massa a base
sindacale, quanto dai partiti religiosi a guida clericale. Come la
controparte comunista, il fascismo offrì un'occasione di
partecipazione, che interrompeva la monotonia della vita quotidiana.
A una generazione che aveva vissuto azioni di guerra eroiche e
avventurose e - ancor più - a una che, data la giovane età, aveva
vissuto quell'esperienza indirettamente, lo squadrismo e le camicie
nere offrirono un buon surrogato. Molti di quelli le cui carriere e
i cui studi erano stati irrimediabilmente interrotti dalla guerra e
dalla crisi economica e alcuni disoccupati divennero attivisti del
partito; l'intervento diretto degli attivisti a sostegno di
specifiche rimostranze - come quelle dei contadini destinati a
essere sfrattati, degli agricoltori cui i sindacati stavano
imponendo l'impiego di manodopera, degli industriali minacciati
dagli scioperanti - procurò loro un appoggio che nessuna propaganda
elettorale avrebbe potuto ottenere. Questo nuovo stile politico
soddisfaceva, come nessun altro, alcuni bisogni psicologici ed
emotivi.Infine il fascismo era caratterizzato da uno stile
peculiare, che si rifletteva nelle uniformi - le camicie -, simbolo
della rottura con le convenzioni borghesi e con l'individualismo
dell'abbigliamento borghese, nelle dimostrazioni e nelle cerimonie
di massa, che permettevano agli individui di immergersi nel
collettivo e di sfuggire alla privatizzazione della società moderna.
Le ambiguità e le contraddizioni dell'utopia fascista, insieme agli
inevitabili compromessi raggiunti, sul piano pragmatico, con molte
delle forze dapprima criticate, spiegano il fallimento del modello,
tranne che in Italia (fino a un certo punto) e in Germania. Il
nucleo iniziale avrebbe dovuto conquistarsi un sostegno in tutti gli
strati sociali, e in particolare nella classe operaia, oltre che tra
i contadini, ma la penetrazione organizzativa dei movimenti operai
socialista, comunista e anarcosindacalista condannò tali speranze al
fallimento. In alcuni paesi i contadini cattolici, le classi medie e
persino molti operai avevano aderito ai partiti democratici
clericali e/o cristiani, impegnati nella difesa della religione, e
avevano trovato nella dottrina sociale della Chiesa una risposta a
molti dei problemi che il fascismo presumeva di poter risolvere. Le
classi medie e medio-alte, a meno che non fossero state terrorizzate
dai tentativi rivoluzionari abortiti, o rovinate dalle continue
crisi economiche o sradicate dalla guerra, rimasero fedeli ai vecchi
partiti.L'eterogeneità della base e l'incapacità di conquistare gli
strati sociali a cui si rivolgevano, che si spiegano con il loro
ingresso tardivo sulla scena politica, indussero i fascisti a
un'incessante lotta per conquistare il potere e a una politica di
alleanze opportunistiche con una serie di gruppi di potere e con
forze conservatrici non democratiche o antidemocratiche, che a loro
volta speravano di poter manipolare la loro popolarità e il loro
seguito di attivisti.
Tali gruppi, ben radicati nell'establishment e nello Stato, potevano
fornire uomini più capaci di governare. Il risultato fu
l'instaurazione di regimi autoritari - a pluralismo notevolmente
limitato - guidati da un partito unico, che, a seconda dei casi,
occupava una posizione abbastanza preminente e attiva o svolgeva un
ruolo minore all'interno della coalizione di forze. Solo in Germania
il partito unico sarebbe diventato dominante fino a fondare un
regime totalitario. Il fascismo introdusse una componente populista
di mobilitazione, un canale per un certo livello e un certo tipo di
partecipazione politica volontaria, una fonte di malcontento
ideologico verso lo status quo e di giustificazione del mutamento
sociale, che contraddistingue i regimi autoritari di mobilitazione.
Anche dove, come in Spagna (v. Linz, 1970), questa mobilitazione fu
alla fine annullata di proposito, il regime autoritario, per metà
statalismo organico e per metà sistema
burocratico-tecnocratico-militare, che si affermò dopo gli anni
quaranta, non sarebbe mai stato identico, per esempio, al regime di
Salazar, dove il fascismo non aveva mai messo radici.
I regimi autoritari fascisti di mobilitazione furono meno
pluralistici, più ideologici e a maggior partecipazione dei regimi
burocratico-militari o degli statalismi organici guidati da un
partito unico debole. Furono più vicini alla 'democrazia' che al
'liberalismo', più disposti a offrire ai cittadini la possibilità di
partecipare che la libertà individuale, più orientati al mutamento
che alla conservazione. La maggior legittimazione ideologica e la
maggior mobilitazione a loro sostegno li rese meno vulnerabili di
altri tipi di governo autoritario all'opposizione interna e al
rischio di esserne rovesciati, e solo la sconfitta esterna riuscì a
distruggerli.
6. Regimi autoritari di mobilitazione dopo l'indipendenza
Regimi autoritari di mobilitazione apparvero in alcuni Stati in
lotta per l'indipendenza dal dominio coloniale o in via di
emancipazione dalla dipendenza da una potenza straniera. Non molti
di questi regimi si sono dimostrati stabili: in alcuni casi colpi di
Stato militari hanno escluso i civili dal governo (v. Jackson e
Rosberg, 1982; v. Bienen, 1968 e 1974; v. Lee, 1969; v. Welch,
1970); in altri si è avviato un processo di decadenza, che spesso ha
dato origine a uno Stato senza partiti (v. Wallerstein, 1966; v.
Potholm, 1970; v. Bretton, 1973).
Regimi autoritari di mobilitazione a partito unico non creati
dall'alto da chi deteneva il potere, ma da leaders emersi dalla base
e capaci di mobilitarla, furono possibili in società a basso
sviluppo economico, con una struttura sociale contadina
relativamente egualitaria, in cui la moderna élite economica era
ristretta e spesso costituita da stranieri o da membri di un gruppo
etnico esterno e in cui le autorità coloniali non avevano permesso
né incoraggiato la crescita di una classe media di professionisti,
di funzionari statali dotati di un rango e di una dignità specifici
e di un esercito professionale. Il dominio coloniale aveva distrutto
o screditato le autorità tradizionali pre-coloniali, perlomeno agli
occhi dei settori urbani emergenti, istruiti e più modernizzati. In
questo contesto, tra coloro che si erano formati all'estero o nelle
poche scuole create dal potere coloniale, si affermò una nuova
leadership nazionalista, i cui membri venivano a volte incoraggiati
a diventare leaders sindacali o rappresentanti delle nuove
istituzioni di autogoverno dai partiti della sinistra e da qualche
intellettuale nazionalista (v. Wallerstein, 1961; v. Hodgkin, 1961;
v. Carter, 1962; v. Coleman e Rosberg, 1964).
Questi leaders si fecero portavoce delle rivendicazioni della
popolazione indigena, degli operai e dei contadini, colpiti dallo
sconvolgimento dell'ordine tradizionale, dovuto al mutamento
economico e all'introduzione di istituzioni giuridiche occidentali.
Le autorità coloniali alternavano la repressione alla cooptazione,
politiche che, soprattutto se applicate in modo incoerente,
contribuirono a rafforzare questa leadership emergente. In un primo
momento il desiderio d'indipendenza occultò l'importanza di altri
problemi; il sottosviluppo e il carattere straniero del settore
economico moderno limitarono l'importanza delle politiche classiste.
Nelle assemblee elette poco prima o subito dopo l'indipendenza, i
rappresentanti dei movimenti nazionalisti ottennero la maggioranza
relativa o assoluta, che spesso estesero cooptando i rappresentanti
di gruppi più particolaristici, quali i gruppi tribali, religiosi o
tradizionali. Si sperava che l'adozione degli ordinamenti
costituzionali inglesi o francesi avrebbe dato vita a nuove
democrazie, ma ben presto le azioni dell'opposizione, o la
percezione che ne ebbero i leaders del partito al governo, l'idea di
questi ultimi che una nazione andasse costruita ignorando le
richieste della periferia, di settori specifici, di particolari
gruppi etnici e tribali, i problemi economici e quelli creati da
nuove aspettative indussero i leaders a ostacolare, limitare o
eliminare la libera competizione politica ed elettorale.
In molti paesi l'indipendenza e l'assetto statuale vennero a
identificarsi simbolicamente con un leader, che spesso vantava
un'autorità carismatica. Il carattere artificiale dei confini, le
differenze etniche, linguistiche e religiose, il divario tra lo
sviluppo sociale dei pochi centri urbani e delle zone costiere e
quello della periferia rurale e la debolezza delle istituzioni
amministrative convinsero i leaders che il loro partito potesse
servire da strumento per la costruzione della nazione. Nel contesto
di una cultura politica che non aveva istituzionalizzato i valori
liberaldemocratici, il partito dominante, dovendo affrontare i
problemi dell'integrazione nazionale, un'opposizione non sempre
leale e la paura delle influenze straniere, divenne presto un
partito unico.
Alcuni leaders respinsero l'idea di un partito unico monolitico.
Così si espresse ad esempio Senghor: "siamo contrari al partito
unico (parti unique); siamo favorevoli a un partito unificato (parti
unifié)" (v. Foltz, 1965, p. 141). Molti leaders di partiti
dominanti incoraggiarono l'ingresso nei propri partiti di leaders
con un forte seguito regionale, comunale, tribale o settoriale, che
all'inizio avevano sostenuto i partiti d'opposizione sconfitti.I
regimi a partito unico non riuscirono a reperire risorse sufficienti
a sostenere la propria prospettiva di trasformare in modo radicale
la società mediante metodi organizzativi. I pochi leaders
politicamente consapevoli e istruiti servivano come personale di
governo e dei numerosi enti governativi, a detrimento
dell'organizzazione del partito. Rapporti clientelari primari e
personali distolsero l'organizzazione periferica del partito dai
compiti che il centro voleva assegnarle. Le discrepanze tra la
retorica ideologica (v. Friedland e Rosberg, 1964) e la realtà
politica e il malcontento delle nuove generazioni, che rientravano
dall'estero e non trovavano posizioni di potere adeguate alle loro
ambizioni, crearono tensioni con le organizzazioni giovanili, i
sindacati, ecc., evitabili ponendo meno l'accento sul partito. Le
formulazioni ideologiche erano in gran parte di seconda mano,
ambigue e in contraddizione con le politiche pragmatiche a cui la
leadership si sentiva vincolata dalla realtà sociale ed economica, e
quindi non offrivano agli iscritti obiettivi chiari e immediati.
Di conseguenza il partito unico, invece di diventare uno strumento
totalitario di mobilitazione, il centro monistico, divenne una
componente in più nella struttura del potere. Paradossalmente, è
stato sostenuto che i partiti unici avevano maggiori possibilità di
sopravvivenza nelle società meno mobilitate e più arretrate che nei
paesi con più risorse, dove, proprio per questo, tendeva a
svilupparsi un processo inflazionistico di formazione della domanda
(v. Zolberg, 1966) e dove i piani rivoluzionari contro il settore
moderno dell'economia non riuscivano a provocare un vero danno.In
alternativa il partito unico si trasformò da movimento di massa
disciplinato e ideologico in un meccanismo flessibile, che manteneva
viva la solidarietà tra i suoi membri facendo leva sui loro
interessi personali, tollerando l'esistenza di fazioni e confidando
più nell'attrattiva di ricompense materiali, ottenute anche tramite
la corruzione, che nell'entusiasmo per principî politici. La
coercizione avrebbe assunto la forma di una macchina politica (v.
Zolberg, 1966 e 1969; v. Bretton, 1973).
Solo pochi partiti unici di mobilitazione sono riusciti a conservare
una qualche funzione per alcuni anni dopo l'indipendenza. Quelli che
non sono stati scalzati da colpi di Stato militari hanno conosciuto
una notevole trasformazione. Le tipologie elaborate all'inizio sono
risultate fuorvianti, perché spesso basate sull'immagine che di sé i
partiti africani volevano trasmettere. La variabilità delle
politiche di consolidamento dello Stato e di conquista,
legittimazione e gestione del potere ha generato regimi difficili da
concettualizzare se non in termini di dominio personale.
7. Il dominio personale
A prescindere dai camuffamenti euromorfici (forme costituzionali,
partito unico, organizzazione burocratica) e dai tentativi simbolici
di collegarsi alla tradizione, i nuovi Stati africani possono essere
caratterizzati nel modo migliore come regimi di dominio personale.
Dal punto di vista organizzativo essi hanno alcune caratteristiche
in comune con il patrimonialismo descritto da Weber, benché il
contesto storico-culturale sia del tutto diverso da quello delle
monarchie assolute europee post-feudali, a capo di società
complesse, con una Chiesa potente, una tradizione di diritto romano,
governi municipali autonomi, gilde, ecc. Il concetto di
neopatrimonialismo - utilizzato dagli africanisti - andrebbe quindi
adoperato con cautela. Nei casi che Jackson e Rosberg (v., 1982)
definiscono 'tirannie' (Amin, Macias, Bokassa, Mobutu) il
patrimonialismo assume la forma definita da Weber 'sultanismo'.
Anziché descrivere i diversi casi di dominio personale in termini di
orientamenti ideologici e di politiche, distinguendo quelli ispirati
al pensiero marxista (Sekou Ture) da quelli più concilianti nei
confronti degli interessi occidentali (Houphouet-Boigny), studiosi
come Jackson e Rosberg hanno tentato di descriverne le differenze in
base ai rapporti tra i governanti e i loro collaboratori, da una
parte, e la società, dall'altra.
A loro avviso, nell'Africa subsahariana, la politica si occupa più
della gestione del potere che dell'attuazione di un qualche
indirizzo politico; Machiavelli e persino Hobbes ci offrono
paradigmi più efficaci, per comprenderla, di quanto non facciano
Marx e molte teorie contemporanee. Essi sottolineano la scarsa
differenza tra i governanti con una preparazione militare e i
civili, tra coloro che si sono serviti di un partito politico per
conquistare il potere e coloro che lo hanno creato una volta al
potere.Il dominio personale è un sistema di relazioni che non
collega (perlomeno non direttamente) i governanti al 'pubblico', né
ai sudditi, ma piuttosto ai notabili, agli alleati, ai clienti, ai
sostenitori e ai rivali che costituiscono il 'sistema'. Non sono le
istituzioni, ma gli stessi politici a strutturare il sistema; e
questa dipendenza dalle persone spiega la sua sostanziale
vulnerabilità. Esso è drasticamente restrittivo nei confronti delle
libertà politiche, mentre è in genere tollerante (salvo che nei
regimi tirannici) verso i diritti non politici.
I governanti dispongono di una competenza giuridica pressoché
illimitata. Utilizzano, combinandoli in vari modi: 1) la cooptazione
e la consultazione; 2) il clientelismo; 3) il patto e l'accordo; 4)
l'intimidazione e la coercizione. Dalla sorte del leader dipende
quella della classe politica che lo sostiene e spesso la solidità
dell'ordinamento politico. Se aggiungiamo le restrizioni e le
incertezze determinate da fattori politici ed economici esterni e la
povertà di cui soffrono i paesi dove vige questo tipo di regime,
paesi che dipendono da poche esportazioni di prodotti primari,
soggette a fluttuazioni dei raccolti dovute al clima, possiamo
comprendere l'instabilità del dominio personale.
Un altro fattore da considerare è l'assistenza militare ed economica
fornita dall'estero, anche da paesi confinanti, ai governanti o agli
esuli e ai ribelli. Il dominio personale è quindi caratterizzato dal
paradosso di un potere relativamente autonomo, e persino arbitrario,
ma soggetto a vincoli e incapace di realizzare politiche per la
mancanza di risorse e di funzionari esperti.
Jackson e Rosberg distinguono quattro tipi ideali di dominio
personale: il principesco, l'autocratico, il profetico e il
tirannico. Il tipo profetico caratterizza in misura maggiore alcuni
dei capi fondatori, come Nkruhma e Nyerere, e si avvicina agli
ideali, se non alla realtà, dei regimi di mobilitazione a partito
unico. La distinzione tra principi e autocrati getta luce su questo
tipo di regime autoritario. Il principe è un osservatore astuto e un
manipolatore di luogotenenti e di clienti; egli tende a governare
insieme con altri oligarchi e a coltivarne la lealtà, tenendo sotto
controllo la loro tendenza a sopraffarsi a vicenda. Alcuni principi,
come Kenyatta o Kaunda, sono stati artefici dell'indipendenza del
proprio paese; il loro più eminente rappresentante è stato Leopold
Senghor, il dotto presidente del Senegal. L'autocrate si distingue
per la maggior libertà di azione e per l'ostilità verso la politica
dei politici e verso il potere e l'autorità altrui; egli costringe
alla cospirazione o all'esilio coloro che rifiutano di diventare
suoi dipendenti. Il potere dell'autocrate è basato sulla sua abilità
e sulla sua esperienza personali, difficilmente trasferibili a un
altro leader. Questo fatto, unito alla minore probabilità che siano
disponibili politici capaci ed esperti, in grado di assicurare una
successione pacifica, fa nascere una condizione di instabilità,
finché qualcun altro non si impadronisce saldamente del potere e non
impara a esercitare un dominio personale.
Né il dominio personale di tipo principesco, né quello autocratico
trasformano la struttura sociale (come quello profetico tenta di
fare e quello tirannico fa tramite la coercizione e la corruzione),
ma la manipolano, la controllano e la subordinano a sé. Il
pluralismo sociale è ancora vivo, ma, dato il retaggio delle società
africane e del colonialismo, è fondamentalmente debole. D'altra
parte è pur vero che nei centri più moderni la stampa, i
professionisti, svariate associazioni, ecc. tentano di affermare la
propria autonomia, mentre in altre zone i governanti tradizionali, o
i loro discendenti, i capi di clan locali o di tribù e i notabili
religiosi non possono essere ignorati, persino quando, sotto il
dominio di un autocrate, non partecipano al potere. Strutture
moderne, quali l'esercito e la burocrazia, non vanno confuse con i
rispettivi modelli europei, perché prima del colonialismo in pratica
non esistevano, i loro vertici se ne andarono alla fine del dominio
coloniale e l'africanizzazione le ha del tutto trasformate. Il
dominio personale dunque è più imprevedibile, più paternalistico o
arbitrario, in potenza persino più oppressivo, tirannico e
corruttore, ma tutto sommato più debole e più instabile, degli altri
regimi autoritari più 'strutturati'.
Questo carattere informe (v. Sartori, 1976) ostacola gli sforzi
diretti a costruire istituzioni democratiche, in quanto i politici
eletti democraticamente non erediteranno strutture
istituzionalizzate operanti secondo procedure giuridiche formali. Il
fallimento, in situazioni di crisi, dei funzionari eletti
democraticamente, la loro inefficienza e la loro corruzione
legittimeranno i leaders militari a rovesciarli e a ricominciare il
ciclo del dominio personale illegale e, dopo breve tempo,
illegittimo. Nelle società più moderne, come la Nigeria o il Ghana,
le richieste di ritorno alla democrazia si riproporranno e il ciclo
potrebbe ricominciare da capo (v. Diamond, Linz e Lipset,
1988-1989). Sebbene coloro che esercitano un dominio personale
vantino, e a volte abbiano, un certo carisma che li circonda di
un'aura pseudoreligiosa, la loro legittimazione non è basata su
quella che è stata definita una 'religione politica', un'ideologia
politica sacralizzata, come nei sistemi totalitari, né può essere
confusa con la tradizionale autorità sacralizzata premoderna del
dispotismo orientale, incarnata dall'imperatore cinese, dai sultani
turchi, o persino dal cesaropapismo bizantino o russo. Con la
parziale eccezione di un autocrate tradizionale come Hailè Selassiè
in Etiopia e di alcuni governanti arabi, la religione non serve da
fonte di legittimazione del dominio personale.
Nell'autoritarismo africano non è facile separare gli elementi
derivati dall'Occidente, in particolare il partito unico di
mobilitazione ispirato al modello comunista, gli elementi di
patrimonialismo propri del governante e della sua famiglia, degli
amici e dei clienti, collegati alla corruzione in società dove il
controllo del potere statale e del settore pubblico è quasi l'unica
fonte di ricchezza e di status, gli elementi derivati dai tentativi
di richiamarsi a una cultura o a una tradizione indigene, spesso
inventate per dare un senso al potere, e infine la repressione e il
sospetto ai danni di nemici effettivi o potenziali, atteggiamenti
che allignano in Stati la cui integrazione attraverso fratture
etniche, tribali, cultural-religiose risulta incerta.
8. I regimi autoritari post-totalitari
Pochi problemi fanno discutere di più del modo di concettualizzare i
mutamenti verificatisi in Unione Sovietica e in alcuni paesi
comunisti dell'Est nella fase che precede l'era Gorbačëv: il periodo
successivo, caratterizzato dal passaggio alla democrazia competitiva
dei paesi dell'Europa centrale e dai contestuali rivolgimenti in
URSS, cade ovviamente fuori di questo articolo. Dopo alcuni
tentativi teorici risalenti al primo periodo post-staliniano, si
sono prodotti studi (v. Hough, 1977; v. Bialer, 1980), per lo più
descrittivi, che evitano i dibattiti sul totalitarismo, benché
respingano in modo esplicito o implicito l'applicabilità di quel
tipo ideale alle realtà presenti.
I regimi in questione si avvicinano o potrebbero avvicinarsi al
modello autoritario, ma, dato che se ne differenziano per alcuni
aspetti significativi, li definiamo 'post-totalitari'. Il fatto che
questi regimi siano sorti dopo la trasformazione della società da
parte del totalitarismo, il fatto che le istituzioni e le
organizzazioni che hanno sostenuto tale trasformazione, soprattutto
il partito unico, non siano state smantellate (eccettuati
l'imponente apparato del terrore e i gulag), il linguaggio rigido
dell''ideologia fredda' tuttora usato e il ricordo del recente
passato sono tutti fattori che rendono i sistemi post-totalitari
diversi dai sistemi autoritari propri di società che non hanno
subito gli stessi mutamenti. Si può affermare che il totalitarismo
abbia fallito nelle sue più ambiziose aspirazioni di cambiare l'uomo
dando uno scopo e un significato alla sua vita; ma è riuscito a
cambiare la società e a distruggere ampiamente le basi del
pluralismo socioculturale della società civile, l'autonomia e
l'autorevolezza delle chiese, l'etica specifica delle varie
professioni e delle loro associazioni e, nelle società socialiste,
l'indipendenza degli operatori economici, proprietari e managers,
trasformando tutti (tranne alcuni agricoltori e gli imprenditori
dell'economia sommersa) in dipendenti statali e impedendo qualsiasi
forma di organizzazione autonoma. Gli accademici, gli intellettuali
e forse gli artisti sfuggono in qualche modo a questa
Gleichschaltung, ma come individui, non come gruppi organizzati. Il
risultato è che il pluralismo sociale, che avrebbe potuto dare
origine a un pluralismo latente e forse, in condizioni di crisi,
politicamente rilevante, non è mai esistito. Inoltre, come accade
nella maggior parte dei regimi autoritari, la relativa chiusura di
queste società e il controllo esercitato su tutti i mass media
impedirono alla stragrande maggioranza della popolazione di pensare
a modelli politici alternativi.
Nei regimi post-totalitari si lascia spazio alla privatizzazione e
alla dissidenza su una scala intollerabile per il totalitarismo, ma
non all'ampia gamma di opposizioni extralegali (come nella maggior
parte dei regimi autoritari). D'altronde i potenziali oppositori non
trovano, se non lungo i confini occidentali dell'Unione Sovietica,
il sostegno protettivo e incoraggiante di una società civile. La
Polonia, anche prima dell'affermarsi di Solidarność come movimento
politico extralegale ma potente, era un regime autoritario, grazie
alla posizione particolare mantenuta dalla Chiesa cattolica (v.
Staniszkis, 1984). Perché considerare questi sistemi regimi
autoritari post-totalitari, anziché varianti del totalitarismo? Si
potrebbe sostenere che i cambiamenti, avvenuti all'interno di un
sistema totalitario, sono più quantitativi che qualitativi e non
rappresentano pertanto una 'vera' rottura con il passato; inoltre il
ritorno del totalitarismo è sempre possibile. Un'analisi del genere
può essere valida per alcuni paesi o alcune fasi di sviluppo dei
sistemi sovietici (trascurando quelli in cui la spinta totalitaria
non si è ancora esaurita, come nel Sudest asiatico e nella Corea del
Nord).
Tuttavia i seguenti mutamenti giustificano la nozione di
post-totalitarismo.
1. L'ossificazione dell'ideologia, l'idéologie froide, ripetuta
meccanicamente e utilizzata più per ostacolare il cambiamento delle
strutture sociali che per promuoverlo, la crescente accettazione,
nell'attività politica, di criteri pragmatici o razionali non
derivanti dai dogmi ideologici e addirittura incompatibili con essi,
la ritualizzazione dell'indottrinamento, il sempre più raro ricorso
al sostegno degli intellettuali e la tolleranza per espressioni
artistiche non soggette a dettami ideologici. Solo la formulazione e
la diffusione di idee pericolose viene ancora limitata. L'ideologia,
accettata in modo universale e acritico, può servire da 'mentalità'
all'apparatchikis, ma non occupa più la posizione centrale di un
tempo.
2. Il partito unico e il suo gruppo dirigente continuano a essere la
struttura decisionale centrale, tuttavia i cambiamenti nelle
attività delle organizzazioni di partito, nei criteri di
reclutamento e di promozione attraverso la nomenklatura e nella
composizione del gruppo dirigente non possono essere ignorati. La
burocratizzazione e un ininterrotto cursus honorum, uniti a tendenze
gerontocratiche, hanno caratterizzato il partito, sebbene Gorbačëv
abbia dimostrato che il gruppo dirigente può invertire questi
processi. Il partito è ancora un'élite, l'accesso alla quale viene
filtrato con attenzione, ma, anziché l'attivismo puro e semplice, il
fervore ideologico, le attività di propaganda o di controllo
coercitivo, diventano importanti e vengono premiate la competenza e
le prestazioni tecnico-professionali, nonché le reti clientelari. La
spiegazione dello stalinismo in termini di 'culto della personalità'
e il desiderio di sicurezza dell'élite hanno portato a una parvenza
di leadership collettiva e all'uso di qualche meccanismo formale,
come le votazioni e le elezioni negli organi di vertice del
sistema.All'interno del partito e del governo possono affermarsi
interessi funzionali e persino un certo pluralismo burocratico, ma
nessun pluralismo sociale si articola attraverso organizzazioni
indipendenti quali i sindacati, e i disaccordi politici, pur
tollerati, vengono dibattuti soprattutto dall'élite, anziché da
fazioni organizzate e coesive operanti sotto gli occhi di un
pubblico più vasto.
3. Fra i cambiamenti più significativi in direzione
dell'autoritarismo vi sono la diminuzione degli sforzi di
mobilitazione totale e di partecipazione all'attività politica e una
tolleranza crescente nei confronti della privatizzazione e degli
incentivi non ideali, inclusi gli interessi economici personali.
L'apatia e l'indifferenza politica sono tollerate. Le attività
parallele - compresa la corruzione - tese al conseguimento di fini
personali sono aumentate e sono diventate un problema serio. Si sta
sperimentando (Ungheria, Cina) o prendendo in considerazione la
possibilità di sfruttare le motivazioni più grette dell'interesse
personale e dell'avidità per ottenere migliori prestazioni
economiche, consentendo, in deroga al modello ideale della società,
qualche attività imprenditoriale, l'autonomia delle imprese e la
creazione di un'economia di mercato.
Questi mutamenti derivano dal riesame, compiuto dall'élite, di
quanto sia costato, anche alla stessa classe dirigente, il modello
totalitario, specie in termini di instabilità (le purghe, la
rivoluzione culturale, ecc.), e da valutazioni delle proprie
capacità economiche, tecnologiche e militari in un sistema mondiale
competitivo. Non c'è dubbio che la destalinizzazione, la
liquidazione del terrore massiccio e indiscriminato, l'introduzione
della legalità socialista (anche se per i dissidenti si tratta di
una legalità repressiva) abbiano contribuito a far accettare e
persino a legittimare il sistema.Qual è l'obiettivo, la raison
d'^étre ultima, del sistema che controlla e soffoca la società?
Secondo alcuni è il mantenimento dello status quo, e quindi dei
privilegi acquisiti dalla 'nuova classe', la prevedibilità di una
società burocratica e la difesa dell'ordine esistente, soprattutto
contro il pericolo di insurrezioni indipendentiste, promosse da
nazionalismi non assimilati o emergenti, che si sta profilando alla
periferia del sistema, nel Baltico e nella fascia sudasiatica
dell'Unione Sovietica.
Per Castoriades (v., 1982) lo 'stato di difesa' diventa il fine
ultimo, cui altri obiettivi, come una migliore qualità della vita,
sono subordinati, e conferisce uno status privilegiato ai militari,
ai tecnici e agli scienziati che operano nel settore militare
dell'economia. Questo nuovo tipo ideale è suggestivo, ma
discutibile. Poteva forse essere valido all'epoca di Breznev, ma non
oggi alla luce degli sviluppi più recenti.
È difficile avanzare ipotesi sul futuro. La riaffermazione della
società e, in particolare, della classe operaia, che in Polonia ha
dimostrato le sue potenzialità, la maggiore o minore sopravvivenza
di una classe contadina non integrata in un sistema di kolchozy e il
ruolo dei conflitti di nazionalità sono alcuni dei fattori che
potrebbero permettere alla leadership di seguire percorsi
alternativi in situazioni di crisi. Gli sviluppi saranno diversi in
Romania (dopo il governo personalizzato di Ceauçsescu), nei paesi
cattolici e in quelli greco-ortodossi, come la Bulgaria. I sistemi
post-totalitari - salvo quello polacco - dovranno subire molti
mutamenti prima che il loro autoritarismo (perlomeno a livello
politico) diventi paragonabile a quello della maggior parte dei
regimi autoritari capitalistici occidentali. L'assenza di
alternative realistiche, specialmente in Unione Sovietica,
l'isolamento dei dissidenti e il retaggio della repressione
diminuiscono le probabilità che quei regimi incontrino
un'opposizione attiva, militare e violenta, e quindi essi tendono a
essere meno repressivi dei regimi autoritari più 'liberali'.
9. Conclusione
Il nostro excursus attraverso il mondo dei regimi autoritari può
concludersi all'insegna di un moderato ottimismo. L'utopia di
un'élite autodesignata, intenzionata a riformare in modo totalitario
l'uomo e la società, che sembrava la tendenza del futuro negli anni
trenta con il fascismo e, in modo più specifico, con il nazismo, è
stata sconfitta e la versione stalinista del leninismo è stata
screditata e si trova ad affrontare una crisi profonda. Molte
formule politiche autoritarie hanno perso il loro puntello
ideologico e non esiste alcun paese importante che possa fungere da
modello. Negli anni settanta è tornata la democrazia in Grecia, in
Portogallo e in Spagna, e negli anni ottanta abbiamo assistito alla
restaurazione della democrazia in paesi latino-americani, nelle
Filippine, nella Corea del Sud e in Pakistan.
Tutto questo ha fatto nascere un'ampia e crescente letteratura sulle
transizioni dall'autoritarismo alla democrazia (v. O'Donnell,
Schmitter e Whitehead, 1986), complementare agli studi precedenti
volti a comprendere il crollo delle democrazie (v. Linz e Stepan,
1978). Le difficoltà che alcune di queste democrazie si trovano
ancora ad affrontare sollevano la questione delle condizioni
migliori per il loro pieno consolidamento. Come dimostrano la
transizione dal governo dello Scià a quello di Khomeini, le crisi a
Haiti e in Nicaragua e i travagli delle democrazie in Sudamerica,
questi sviluppi promettenti non sono però universali.