Razionalismo

www.treccani.it
Enciclopedia online

filosofia

Il termine r. entra nell’uso nel 17° sec. nell’ambiente del deismo inglese per indicare la tendenza ad accogliere le verità religiose non in quanto rivelate, ma solo in quanto possano essere fondate o giustificate dalla ragione. Forme di questo possono essere considerate le posizioni di alcuni indirizzi protestanti o di alcune correnti esegetiche del testo biblico o, anche, tesi sulla religione (I. Kant).

In un’altra accezione il termine si è storicamente consolidato nella storiografia filosofica per designare principalmente le filosofie di Cartesio, B. Spinoza e G.W. Leibniz, caratterizzate dalla tesi che la ragione, intesa come speculazione puramente intellettuale e deduttiva, sia lo strumento privilegiato per il conseguimento della verità. Il tentativo cartesiano di elaborare regole metodologiche modellate sul ragionamento deduttivo matematico e volte al conseguimento di un sapere certo e indubitabile rappresenta l’atto di nascita di questo tipo di razionalismo.

Più in generale, si definiscono razionalistiche tutte quelle concezioni filosofiche che, in sede di teoria della conoscenza, considerino la ragione come strumento essenziale per la conoscenza della realtà (sia naturale sia metafisica), contrapponendosi quindi a ogni forma di sensismo o empirismo. Si parla anche di un r. illuministico , fondato sul concetto di ragione, inteso come capacità critica e attitudine antidogmatica, finalizzate in particolare al progresso della conoscenza scientifica in tutti i campi e in generale al miglioramento della condizione umana. Di tipo diverso dai precedenti è il r. hegeliano , consistente nella tesi che lo sviluppo dialettico della realtà e soprattutto della storia presenti un intrinseco significato che gli deriva dall’essere lo sviluppo della stessa Ragione o Spirito.

Con l’espressione

r. critico

K.R. Popper ha anche definito la propria concezione epistemologica fallibilistica, intendendo così indicare la distanza sia dall’empirismo classico sia dall’empirisimo logico. Tale concezione comporta da un lato la rilevanza dei fattori teorici nell’impresa scientifica (ipotesi, teorie, concezioni generali), dall’altro la funzione critica dell’esperienza su tali fattori.

Dizionario di Filosofia (2009)

Termine utilizzato per designare indirizzi filosofici incentrati su teorie della realtà e del pensiero intesi, in quanto ‘razionali’ o ‘intelligibili’, come conoscibili in senso completo mediante la ragione. Si tratta, tuttavia, di un concetto abbastanza generico, che in senso proprio coincide con la ricerca filosofica stessa, ma il cui impiego nel corso dei secc. 17° e 18° indica filosofie incentrate su apparati dimostrativi rigorosi e razionali di tipo logico o logico-matematico, come avviene nel r. cartesiano o, in diversa prospettiva, spinoziano e leibniziano. È in tal senso che si può parlare di r. classico.

Dall’antichità all’età moderna. Storicamente è possibile individuare una preponderante impostazione razionalistica già nella teoria platonica delle idee, intese come modelli razionali della realtà, o nello stoicismo, ove è centrale il concetto di ragione (λόγος) come necessità causale e determinante (fatalismo). Si indica altresì come r. la tendenza verso le metafisiche e le teologie razionali (distinta da approcci o tendenze mistiche), quali iniziano a svilupparsi in Anselmo d’Aosta (credo ut intelligam) e in Alberto Magno per poi strutturarsi in Tommaso d’Aquino. È inoltre possibile indicare come r. aristotelico la filosofia sviluppatasi presso l’univ. di Padova e, per alcuni tratti, il naturalismo del Rinascimento, con l’eliminazione del miracoloso e del soprannaturale in autori quali Machiavelli, Pomponazzi o Vanini; in questi casi con il termine r. si intende sottolineare la differenza rispetto ad approcci nei quali componenti ‘irrazionalistiche’ simpatetiche o demoniche trovano maggior accoglienza, come il platonismo o le filosofie ermetiche rinascimentali.

Di r. si parla anche in relazione ad approcci fondati sulla ragione «naturale» (con il recupero della nozione morale antica e tardo antica di recta ratio), scevra da componenti o influssi soprannaturali, che invece caratterizzano il pensiero cristiano e, in partic., agostiniano, ove è presente la concezione di un «lume» della ragione (lumen naturalis) come derivato dal «lume» soprannaturale di origine divina (lumen supernaturalis). In tal senso in epoca moderna si strutturano forme di r. sia nel campo della riflessione giuridica e politica, con il giusnaturalismo (➔), che trova espressione nel De iure belli ac pacis (1625) di Grozio, nel quale si individuano norme di diritto naturale anteriori e fondanti rispetto a quelle positive e valide a prescindere dall’esistenza di Dio (Prolegomena), sia nel campo morale e religioso, con la proposta di una religione naturale più o meno congruente con quelle rivelate, come avviene nel De veritate di Herbert di Cherbury (1624) e più in generale nelle correnti deistiche fra Seicento e Settecento.

Da Kant a Popper. Kant parla di r., indicando con tale termine anche la propria filosofia trascendentale (Über die Fortschritte der Metaphysik, 1804; trad. it. Sui progressi della metafisica) e distinguendo il «noologismo», ossia la tendenza al r. ricondotta a pensatori quali Platone, Leibniz e Wolff, dall’empirismo di Aristotele, Locke e Hume (Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale del metodo, IV). Tale alternativa è delineata sullo sfondo di quella, più ampia, fra dogmatismo e scetticismo, successivamente accolta e sviluppata da Hegel (Storia della filosofia, III, 2). Nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (➔) il r. (Rationalismus) è definito come la «riflessione finita, che si è data il nome di ragione e di filosofia», ove la concezione dialettica della ragione ingloba le «antinomie» del r. (quali si presentavano in Kant) iscrivendole entro lo sviluppo dialettico del pensiero speculativo e del reale. Il quadro kantiano ed hegeliano, in gran parte accolto dai filosofi successivi, propone tuttavia una schematizzazione eccessiva; negli indirizzi filosofici dei secc. 17° e 18°, empirismo e razionalismo si combinano diversamente e variamente, originando un’ampia gamma di declinazioni della ragione identificata non soltanto con il rigido modello delle dimostrazioni scientifiche della fisica meccanicistica newtoniana, della logica cartesiana o geometrica (adottato per es. nell’esposizione ‘euclidea’ del De cive di Hobbes), ma improntato anche a un modello di «ragionevolezza», nelle materie morali e religiose, come avviene in Locke e in Hume. Il r. scientifico, riconducibile al modello euclideo o comunque a un r. per così dire ‘forte’ esemplato nei sistemi di Descartes, Spinoza e Leibiniz, ove il «principio di ragion sufficiente» (➔) ovvia alla contingenza delle «verità di fatto», viene depotenziato e coniugato con il probabilismo e con l’apertura alle «materie di fatto», già presente, sulla scia delle tesi lockiane del Saggio sull’intelletto umano (➔), nella Logica di Port-Royal (➔) (nella parte IV). Viene anche coniugato con la più precisa identificazione di una radice sentimentale («moral sense») della morale, della politica e della religione, che insieme alla fisica newtoniana costituiscono componenti essenziali del r. illuministico, di cui è espressione emblematica Rousseau. Di r. critico si parla nell’attuale dibattito epistemologico, sulla scorta dei dibattiti sorti intorno al neokantismo, sulla scorta delle tesi di Popper (La società aperta e i suoi nemici, 1945) con la presa in carico del criterio «fallibilista», entro un modello di r. non più inteso come autofondante e autosufficiente.