Rappresentazione

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L’attività e l’operazione di rappresentare con figure, segni e simboli sensibili, o con processi vari, anche non materiali, oggetti o aspetti della realtà, fatti e valori astratti, e quanto viene così rappresentato.

Processo mediante il quale un contenuto di percezioni, di immaginazioni, di concetti, si presenta alla coscienza, e lo stesso contenuto rappresentativo. La fortuna del termine r. è stata principalmente determinata, in filosofia, dal largo uso che ne fece G.W. Leibniz. Per Leibniz, l’attività ‘rappresentativa’ è quella della monade, in quanto riflette soggettivamente l’intero universo, con una consapevolezza che man mano si evolve dallo stadio virtuale allo stadio attuale. Il mondo della r. è perciò costituito dal complesso della conoscenza soggettivamente considerato, cioè in quanto si presenta come puro spettacolo del soggetto. In esso si distinguono r. oscure che sono le sensazioni, le che sono le immagini, e che sono i concetti. Il termine successivamente viene usato con significato generico a indicare qualunque forma di conoscenza (è la Vorstellung di Kant sulla cui linea di sviluppo si pongono le concezioni di Reinhold, Schopenhauer e Herbart). Nel corso del 19° e 20° sec. lo studio della r. è divenuto tema specifico di altre discipline come l’estetica e, soprattutto, la psicologia.

Dizionario di Filosofia (2009)

Il processo mediante il quale un contenuto di percezioni, immaginazioni, giudizi e concetti, si presenta alla coscienza, e quanto viene così rappresentato. Per quanto se ne possano trovare dei corrispondenti nel pensiero antico, in partic. nell’accezione platonica e aristotelica della φαντασία («fantasma», immagine rassomigliante alla sensazione, ma priva della sua materia), l’uso dell’espressione rimonta alla filosofia medievale. Si deve infatti a Tommaso d’Aquino la prima, compiuta definizione della repraesentatio come facoltà propria dell’intelletto di contenere al proprio interno, per similitudine, l’immagine di una cosa qualsiasi, assente o presente alla mente, esistente al di fuori di essa o solamente al suo interno, immagine che si realizza compiutamente attraverso l’assimilazione della specie intellegibile espressa, cioè del concetto della cosa. Variamente ripreso dal pensiero medievale, tale significato si conserva anche nelle correnti nominalistiche, che tendono però a svincolarlo dal riferimento alla specie, e a intendere quindi la r. come equivalente del segno, o simbolo. La fortuna filosofica del termine è tuttavia legata al largo uso che ne ha fatto il pensiero moderno, a partire da Descartes, il quale, identificando le idee con le r. insite nell’animo umano, pose, senza risolverla, la problematica del rapporto tra r. e realtà. A tale significato si rifaranno sia gli esponenti della tradizione empiristica, da Locke a Hume, i quali rimarcheranno il rapporto di dipendenza della r. dalle impressioni sensibili, sia gli interpreti della corrente razionalista, che tenderanno invece a porre in rilievo l’indipendenza della r. dal momento empirico. Così Leibniz considera la répresentation come l’attività propria della monade, in quanto riflette soggettivamente l’intero Universo, distinguendo dalle r. oscure e confuse che sono le sensazioni, le r. chiare e confuse che sono le immagini, e quelle chiare e distinte che sono i concetti. In un’accezione più generica, il termine (Vorstellung) ritorna nella filosofia di Kant, che lo usa per riferirsi alla classe suprema sotto cui vengono a riassumersi i tipi gnoseologici dell’intuizione, del concetto e dell’idea, aprendo la strada alle interpretazioni speculari del rappresentazionalismo, da un lato, e dell’idealismo postkantiano, dall’altro. Così, se Schopenhauer, sulla scia di Reinhold, arriva a risolvere l’intera realtà empirica del mondo nella r., Fichte (specialmente nei suoi ultimi scritti) inizia a concepire la r. come una forma dell’attività razionale. La seconda linea interpretativa culminerà nella sistemazione di Hegel, il quale farà della r. uno stadio dello Spirito soggettivo (intermedio tra l’intuizione e il pensiero), e più precisamente l’attività mediante la quale esso rielabora ed estrinseca (attraverso il linguaggio) il mondo delle immagini che l’intelligenza racchiude dentro di sé (come un «pozzo notturno»). Di contro, la prima linea interpretativa troverà sviluppo in Herbart, e successivamente in Nietzsche, e riaffiorerà perfino nella teorizzazione del primo Wittgenstein, sia pure all’interno di una teoria logicistica del linguaggio (la r. come raffigurazione dei fatti, fondata sulla struttura logica del linguaggio). Nel Novecento, mentre la r. diviene oggetto di studio privilegiato della psicologia sperimentale, si assiste, in partic. con Bolzano, Brentano, Herbart, Cassirer, Frege e Husserl, a diversi tentativi di ridefinirne il contenuto in senso antispicologistico, in chiave ora logica, ora fenomenologica, ora neocriticistica. Tra le rielaborazioni più influenti del 20° sec., vanno soprattutto ricordate quelle elaborate da Heidegger dopo la cosiddetta Kehre, e da Wittgenstein nell’ultima fase della sua ricerca. Il primo, ricollegandosi alla linea Schopenhauer-Nietzsche, scorge infatti nel concetto di Vor-stellung – che nei suoi scritti è spesso trascritto con l’evidenziazione del trattino, a sottolinearne l’imparentamento etimologico con termini quali Fest-stellung, «accertamento, osservazione, dimostrazione», e Auf-stellung, «installazione, presentazione» – la chiave di lettura privilegiata dell’ultima fase della metafisica occidentale (quella che comincia con Descartes), ossia della concezione che riduce l’Essere alla presenza e che culmina nel dominio della tecnica; il secondo tenta invece di risolvere la r. in un particolare gioco linguistico, conformemente alla sua nozione di significato come uso e alla sua concezione terapeutica dell’attività filosofica.