Oggetto

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Ogni cosa che il soggetto percepisce come diversa da sé ed esterna, quindi tutto ciò che è pensato, in quanto si distingue sia dal soggetto pensante sia dall’atto con cui è pensato (per lo più contrapposto a soggetto). In senso concreto, ogni cosa che cada sotto i sensi dell’uomo, in particolare che abbia una forma definita e sia opera del lavoro umano.

Come termine filosofico, o. designa in generale la realtà in quanto contrapposta al pensiero che la conosce. Etimologicamente, il lat. mediev. obiectum corrisponde al gr. ἀντικείμενον («che giace contro») così come subiectum («soggetto») corrisponde a ὐποκείμενον («che giace sotto»). Ma ἀντικείμενον è per gli antichi l’‘opposto’, cioè il concetto in quanto si contrappone a un altro. La realtà delle cose, come ‘o.’ del pensiero, è designata invece dal termine ὐποκείμενον, subiectum, sia nel significato di materia ‘soggetta’ alla forma sia in quello di sostanza individuata. Dall’impostazione aristotelica, la scolastica sviluppa invece il problema dell’o. in senso autenticamente gnoseologico, elaborando una dottrina delle species, sensibili e intelligibili. Le species, frutto del processo di astrazione, rappresentano le caratteristiche formali, sia a livello dei sensi sia a livello dell’intelletto, colte dal soggetto conoscente; rappresentano dunque l’o. in quanto presente al soggetto. Per G. Duns Scoto le species sono considerate come ciò che fa le veci dell’o., mettendo chiaramente in luce la distinzione tra species da un lato e o. dall’altro. I successivi sviluppi della gnoseologia moderna sottolineano il carattere indipendente dell’o. rispetto alla conoscenza (ne sarebbe, per es., prova l’involontarietà delle sensazioni), onde nasce, a partire da Cartesio, il problema del raccordo di questo o., avvertito come esterno e indipendente, con la rappresentazione. Le difficoltà di questo tentativo sono riflesse nella critica di D. Hume al concetto di o., volta a dimostrare l’impossibilità di reperire un criterio adeguato a distinguere una doppia esistenza, quella dell’o., cioè, e delle percezioni corrispondenti. Una complessa concezione dell’o. tesa a superare le difficoltà gnoseologiche tradizionali è quella kantiana: l’o. diventa per I. Kant o. fenomenico , prodotto dall’interazione tra categorie e intuizioni sensibili, o. indipendente dalle oscillazioni soggettive dei singoli soggetti empirici, in quanto relativo a strutture conoscitive valide per tutti. Ma in contrapposto a questo o. fenomenico (Gegenstand), rimane per Kant, pur come concetto limite, la cosa in sé (Objekt), inattingibile dal processo conoscitivo. Nei postkantiani e nei filosofi idealisti si tende ad accettare la concezione kantiana dell’o., eliminando peraltro il concetto di cosa in sé; in J.G. Fichte, per es., l’o. è identificato con il non-Io e concepito come ciò che si oppone all’Io.

Un’articolata teoria dell’o. è stata fornita, nell’ambito del pensiero otto-novecentesco, da A. von Meinong, che coglie l’o. a un livello piuttosto ontologico che gnoseologico, essendo indifferente, rispetto a una classificazione degli o., l’esistenza reale degli stessi. Lo stesso rifiuto di concezioni psicologistiche, la stessa indipendenza dagli aspetti soggettivi dell’esperienza caratterizzano anche le posizioni husserliane. Per E. Husserl l’o. è semplicemente il correlato intenzionale di qualsiasi attività teoretica o pratica (in questo seguendo posizioni di F. Brentano). In una prospettiva logico-ontologica, anch’essa non lontana dalle tesi di Meinong e Brentano, si colloca infine la teoria dell’o. di G. Frege, secondo cui o. è qualsiasi entità che costituisce il referente di un nome proprio; dal momento che nome proprio è per Frege tutto ciò che non ha valore predicativo (valore riconosciuto invece al concetto in quanto referente di un predicato e nel cui ambito cadono gli o.), ne consegue l’estensione della qualifica di o. anche a entità astratte o ideali come i numeri.

Dizionario di Filosofia (2009)

Ogni cosa che il soggetto percepisce come diversa da sé, quindi tutto ciò che è pensato, in quanto si distingue sia dal soggetto pensante sia dall’atto con cui è pensato. In questo senso, la parola non implica necessariamente l’esistenza in sé della cosa pensata; in altri casi, invece, indica una realtà che possiede un’esistenza propria, indipendente dalla conoscenza o dall’idea che ne può avere il soggetto pensante.

Antichità e Medioevo. Come termine filosofico, o. designa in generale la realtà nell’aspetto per cui essa si contrappone al pensiero che la conosce. Etimologicamente, il lat. mediev. obiectum corrisponde al gr. ἀντικείμενον «che giace contro» così come subiectum «soggetto» corrisponde a ὐποκείμενον «che giace sotto». Ma ἀντικείμενον è per gli antichi l’«opposto», cioè il concetto in quanto si contrappone a un altro secondo un’antitesi o di contrarietà o di contraddizione. La realtà delle cose, come «oggetto» del pensiero, è designata invece dal termine ὐποκείμενον, subiectum, sia nel significato di materia «soggetta» alla forma, sia in quello di sostanza individuata, ossia «sottoposta» ai singoli attributi, e quindi giustificante la sintesi che il giudizio opera connettendo appunto il «soggetto» con il «predicato». Dall’impostazione aristotelica (contenuta soprattutto nel De anima), la scolastica sviluppa invece il problema dell’o. in senso autenticamente gnoseologico, elaborando una dottrina delle species, sensibili e intelligibili. Le species, frutto del processo di astrazione, rappresentano le caratteristiche formali, sia a livello dei sensi, sia a livello dell’intelletto, colte dal soggetto conoscente; rappresentano dunque l’o. in quanto presente al soggetto. E Tommaso d’Aquino, considerando la relazione tra o. come species e o. come realtà in sé, sottolinea che le species sono soltanto «id quo res cognoscitur» e non «id quod cognoscitur». Per Duns Scoto le species sono considerate come ciò che fa le veci dell’o., intendendosi con questa definizione mettere chiaramente in luce la distinzione netta tra species, da un lato, e o., dall’altro (ma si apre così la via a quelle concezioni dell’o. che, abolendo la distinzione, identificheranno la conoscenza dell’o. con le modificazioni, sensibili e intelligibili, presenti nel soggetto: da Occam a Berkeley).

Gli sviluppi della gnoseologia moderna. Successivamente si tenderà a sottolineare il carattere indipendente dell’o. rispetto alla nostra conoscenza (ne sarebbe prova, per es., l’involontarietà delle sensazioni), onde nascerà, a partire da Descartes, il problema del raccordo di questo o., avvertito come esterno e indipendente, con la rappresentazione (problema del rapporto res extensa-res cogitans). Le difficoltà insormontabili in cui s’imbatterà questo tentativo sono riflesse esemplarmente nella critica di Hume al concetto di o., critica in cui si dimostra l’impossibilità di reperire alcun criterio adeguato a distinguere una doppia esistenza, cioè quella dell’o. e delle percezioni corrispondenti. Una complessa concezione dell’o. che tende a superare le difficoltà gnoseologiche tradizionali è quella kantiana: l’o. diventa per Kant o. fenomenico, prodotto dall’interazione tra categorie e intuizioni sensibili, o. indipendente dalle oscillazioni soggettive dei singoli soggetti empirici, in quanto relativo a strutture conoscitive valide per tutti e proprie quindi di una soggettività trascendentale («Ciò che nel fenomeno contiene la condizione di regola necessaria dell’apprensione è l’o.»). Ma in contrapposizione a questo o. fenomenico (Gegenstand), rimane per Kant, pur come concetto limite, la cosa in sé (Objekt), inattingibile dal processo conoscitivo, costretto nei limiti di una sensibilità configurata secondo specifiche modalità. Nei postkantiani e nei filosofi idealisti (soprattutto in Fichte e Schelling) si tende ad accettare la concezione kantiana dell’o., eliminando peraltro il concetto di cosa in sé. Onde l’o. in senso etimologico è ciò che si contrappone alla sensibilità (Reinhold), mentre in Fichte è identificato con il non-Io concepito come ciò che si oppone all’Io e quindi a esso strettamente correlato (su questo tema della correlazione soggetto-o. insisterà largamente la gnoseologia ottocentesca). Un’articolata teoria dell’o. è stata fornita, nell’ambito del pensiero novecentesco, da Meinong. L’o. è qui colto a un livello piuttosto ontologico che gnoseologico, essendo indifferente, rispetto a una classificazione degli o., l’esistenza reale degli stessi: si distingue in generale un o. della rappresentazione (Objekt; colori, numeri, ecc.) da un o. del giudizio (Objektiv; «che non esista tra i razionali √−2»). Lo stesso rifiuto di concezioni ­psicologistiche, la stessa indipendenza dagli aspetti soggettivi dell’esperienza (e di quella conoscitiva in partic.) caratterizzano anche le posizioni husserliane. Per Husserl l’o. è semplicemente il correlato intenzionale di qualsiasi attività teoretica o pratica (in questo seguendo le posizioni di Brentano). Particolarmente importante si rivela la concezione dell’o. quale correlato di un’intuizione eidetica, essenza pura dunque, eidos. Di qui la possibilità di distinguere «regioni ontologiche» diverse, costituite da particolari tipi di o., e la proposta, su questa base (sempre nell’ambito della filosofia fenomenologica) di varie classificazioni degli oggetti.