Neocomunitarismo

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Enciclopedia online



Riproposizione di un sistema sociale e civile nel quale la storia e gli interessi di una comunità, locale o globale, prevalgono sulle singole individualità.


Dizionario di Filosofia (2009)


Corrente della filosofia morale e politica sviluppatasi prevalentemente nel mondo anglo-americano a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento. Sono considerati suoi principali esponenti lo scozzese MacIntyre , gli statunitensi M. Sandel (n. 1953), Walzer , R. Bellah (n. 1927) e A. Etzioni (n. 1929), il canadese C. Taylor (n. 1931) e il brasiliano Roberto M. Unger (n. 1947). Per quanto diversi tra loro, questi autori sono accomunati da un atteggiamento critico verso il liberalismo contemporaneo, sia nella versione ispirata al kantismo, sia in quella che si richiama all’utilitarismo: al primo rimproverano una concezione meramente procedurale della razionalità e una visione astorica e asociale dell’individuo; al secondo contestano una concezione economicistica della razionalità e una visione dell’individuo come semplice massimizzatore di utilità. A entrambi gli indirizzi i filosofi neocomunitari oppongono una concezione forte della razionalità (capace di valutare e deliberare norme e valori) e una visione storico-sociale dell’individuo, la cui identità morale e politica è inestricabilmente connessa alla comunità di appartenenza. La rivendicazione del primato logico e assiologico della dimensione comunitaria e storica ha portato taluni interpreti a vedere nel n. una forma di neoaristotelismo, di neohegelismo o (nel caso di MacIntyre) di neotomismo.

L’Io e i suoi fini.

Il libro di Sandel che secondo alcuni segna l’atto di nascita del n. – Liberalism and the limits of justice (1982; trad. it. Il liberalismo e i limiti della giustizia) – ha come suo principale bersaglio la teoria elaborata da Rawls in A theory of ­justice (1971; trad. it. Una teoria della giustizia). Gli individui che Rawls colloca nella ‘condizione originaria’ – eguali, liberi, razionali e spinti all’equità dal fatto di ignorare quale posizione occuperanno nel futuro assetto sociale – rappresentano per Sandel un esempio emblematico dell’inadeguatezza della concezione liberale della persona. Si tratta infatti di soggetti ‘vuoti e incorporei’, nei quali l’Io viene prima dei fini che persegue: gli individui sono in grado di esaminare con distacco razionale qualsiasi convinzione, legame o circostanza che coinvolga la loro identità. Una simile concezione, oltre a essere irrealistica sotto il profilo psicologico, è per Sandel pericolosa sotto il profilo morale e politico: esistono infatti appartenenze, valori e fini che sono avvertiti dalle persone come ‘costitutivi’ della loro identità (essere membri «di questa famiglia o comunità o nazione o popolo», essere portatori di «questa storia, come figli e figlie di quella rivoluzione, come cittadini di questa repubblica») e che quindi non possono essere messi tra parentesi quando si tratta di deliberare sull’assetto sociale e politico; ammesso che fosse possibile, ci troveremmo di fronte non a soggetti liberi e razionali, ma a persone completamente prive di carattere e profondità morale.

Nella prospettiva di Sandel la comunità ha quindi una funzione ‘costitutiva’: essa non indica solo ciò che i membri di una società hanno in comune come concittadini «ma anche ciò che essi sono, non una relazione che scelgono (come in un’associazione volontaria) ma un attaccamento che scoprono». Questo tipo di argomentazioni critiche – fondato sull’idea della natura costitutivamente sociale dell’uomo – viene rivolto da Taylor agli altri versanti della tradizione liberale, ossia ai libertarians alla Nozick o ai classical liberals alla Hayek. Taylor, inoltre, sottolinea quanto inadeguata sia la concezione del soggetto agente implicita nel «liberalismo del mercato»: e al «semplice soppesatore» di preferenze e desideri egli contrappone quindi la figura del «forte valutatore», ossia di un soggetto che non subisce passivamente i suoi desideri, bensì li soppesa e li valuta in relazione a beni più complessi, come per es. la «qualità della vita» o «il tipo di persone che siamo o vogliamo essere» (Human agency and language, 1985).

La priorità del giusto sul bene. Il primato dell’Io sui suoi fini (concezione atomistica dell’individuo) porta a una concezione strumentale della società, la quale a sua volta postula il primato del giusto sul bene (ossia, una concezione formale della giustizia). Secondo tale concezione, lo Stato liberale non si fonda su una determinata concezione del bene, ma su un insieme di principi e regole che permettono a ogni individuo di vivere secondo le sue particolari convinzioni; tali principi e regole trovano il loro fondamento nel concetto di giusto, che è prioritario e indipendente rispetto al concetto di bene. Secondo gli esponenti del n. tale priorità è falsa, illusoria e pericolosa. È falsa, perché ogni criterio di giustizia dipende, secondo Taylor, da una determinata concezione del bene: la giustizia di cui parla Rawls, per es., presuppone che si consideri come bene supremo l’autonomia morale dell’individuo. È illusoria, perché nessuna società potrebbe sussistere come semplice somma di interessi e di opinioni particolari, tenuti insieme dall’esigenza di autotutelarsi; è necessario il riferimento a una qualche forma di bene collettivo e condiviso, senza il quale non può prodursi alcun legame sociale autentico e duraturo. Infine, è pericolosa, perché non esistono istituzioni valide per ogni tempo e per ogni luogo e non esistono punti di vista neutrali: ogni soluzione istituzionale, secondo Walzer, ha un carattere storicamente e culturalmente determinato e ogni punto di vista, secondo MacIntyre, si situa in una tradizione e in un contesto morale specifici.

La concezione della comunità. Uniti nella critica al liberalismo, gli esponenti del n. si dividono nella proposta di modelli alternativi. Alcuni (Taylor, Walzer) si sono limitati a una critica di tipo filosofico, accettando – anche se con alcuni importanti distinguo – lo Stato di diritto della tradizione liberale; altri (Sandel, MacIntyre, il primo Unger) hanno elaborato dei modelli alternativi centrati sulla dimensione comunitaria, che tuttavia sono stati criticati per la loro vaghezza o per la loro scarsa praticabilità. Va infine osservato che lo stesso concetto di comunità ha assunto a volte i connotati della nazione o della patria, altre volte quelli del gruppo etnico o culturale, altre ancora quelli dei gruppi di piccole dimensioni (famiglia, Chiesa, associazioni): di qui le oscillazioni, persino nella stesso autore, tra un n. di tipo nazionalista e ‘repubblicano’, un n. pluralista e ‘multiculturalista’ e un n. ‘associativo’.

Enciclopedia del Novecento (1998)

di Maurizio Passerin d'Entrèves

Sommario: 1. Introduzione. 2. Concezione della persona. 3. Concezione della comunità. 4. Natura e scopo della giustizia distributiva. 5. Priorità del giusto sul bene. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il neocomunitarismo è una dottrina morale e politica secondo la quale l'individuo può realizzare pienamente le sue capacità morali e le sue virtù politiche solo nel contesto di una comunità. La dottrina può essere fatta risalire ad Aristotele e, per l'età moderna, a Hegel. Nell'Etica Nicomachea e nella Politica, Aristotele sostenne che le virtù morali e politiche dei cittadini potevano essere coltivate ed esercitate solo all'interno della polis. Nella Filosofia del diritto Hegel sottolineò l'importanza di varie forme di comunità, quali la famiglia, le corporazioni e lo Stato, per il pieno sviluppo delle capacità morali e politiche degli individui. In ambito sociologico, un importante precursore delle teorie neocomunitarie è Ferdinand Tönnies (1855-1936), che formulò nel suo lavoro Comunità e società la distinzione tra Gemeinschaft (comunità) e Gesellschaft (società) per distinguere forme di relazione sociale connotate, rispettivamente, dal principio di associazione organico-comunitario (prodotto della volontà naturale) e dal principio di associazione artificiale-contrattuale (prodotto della volontà razionale).

La dottrina del neocomunitarismo è stata di recente sviluppata nel mondo anglosassone in opposizione a due importanti tradizioni liberali della morale e della politica, l'utilitarismo e il kantismo. Gli esponenti del neocomunitarismo hanno criticato in particolare le concezioni della razionalità e del soggetto agente presenti in queste due tradizioni. A detta degli autori neocomunitari, l'utilitarismo ridurrebbe la razionalità al calcolo strumentale dei costi e dei benefici e vedrebbe nel soggetto agente solo un massimizzatore di utilità, mentre il kantismo avrebbe una concezione puramente formale e procedurale della razionalità e una visione assai astratta del soggetto, in quanto non lo situa in alcun contesto storico, politico o sociale. In risposta a queste due concezioni della razionalità e del soggetto agente, i pensatori neocomunitari hanno formulato una concezione della razionalità in cui viene privilegiato il ruolo della riflessione, della deliberazione e della valutazione razionale delle norme e dei valori, e una concezione del soggetto agente che lo situa in un concreto contesto storico e sociale, sottolineando, al contempo, il ruolo costitutivo dei fini e dei valori della comunità di appartenenza per l'identità politica e morale dell'individuo.

La dottrina del neocomunitarismo è stata formulata di recente da filosofi e teorici della politica operanti nell'area anglosassone, come Alasdair MacIntyre, Michael Sandel, Charles Taylor, Michael Walzer e Roberto Mangabeira Unger. Possiamo distinguere quattro punti principali su cui si è articolata la critica di questi autori alla tradizione liberale della morale e della politica: 1) la concezione della persona; 2) la concezione della comunità; 3) la natura e lo scopo della giustizia distributiva; 4) la priorità del giusto sul bene.

2. Concezione della persona

La critica della concezione della persona è stata formulata in modo particolare da Taylor, Sandel e MacIntyre. Taylor ha sostenuto che buona parte della teoria politica liberale è basata su una concezione atomistica della persona e su una visione volontaristica del soggetto agente. Nel suo saggio intitolato Atomism - pubblicato nel 1979 e ora incluso nel secondo volume dei suoi Philosophical papers - egli afferma che il termine ‛atomismo' si riferisce a quelle dottrine del contratto sociale che emersero nel XVII secolo e alle successive dottrine di stampo utilitaristico, nelle quali venne postulata una visione della società quale prodotto di un accordo per la soddisfazione di fini strettamente individuali. Il termine atomismo si riferisce, inoltre, a quelle dottrine contemporanee di tipo liberale (rinvenibili, ad esempio, negli scritti di Robert Nozick e Friedrich von Hayek) che difendono la priorità dell'individuo e dei suoi diritti nei confronti della comunità, e che si basano su una concezione puramente strumentale della società (v. Taylor, Philosophy and..., 1985, p. 187). Rispetto a queste dottrine, Taylor ha proposto una concezione intersoggettiva o ‛relazionale' della persona, nella quale vengono sottolineati gli aspetti storici, sociali, culturali e linguistici nella costituzione dell'identità personale. Per Taylor l'individuo non può ‟preoccuparsi esclusivamente delle sue scelte [...] a scapito della matrice sociale nella quale queste scelte possono essere realizzate o meno, essere molteplici o ristrette. È importante per l'individuo che certe attività e istituzioni fioriscano nella società. È altresì importante per lui il tipo di clima morale della società nel suo complesso [...] perché la libertà e l'individualità possono fiorire soltanto in una società dove ci sia un riconoscimento diffuso del loro valore" (ibid., p. 207). Pertanto, ‟le istituzioni politiche nelle quali viviamo hanno un ruolo cruciale nella realizzazione della nostra identità quali esseri liberi" (ibid., p. 208). L'individuo libero, soggetto di diritti, può acquisire questa sua identità solo grazie all'esistenza di una società liberale; è un'assurdità, dichiara Taylor, ‟situare questo soggetto in uno stato di natura dove non potrebbe mai acquisire questa identità e quindi mai creare mediante un contratto una società che la rispetti" (ibid., p. 209). La nostra identità di esseri autonomi e che si autodeterminano richiede piuttosto l'esistenza di un contesto istituzionale che ‟riconosca il diritto alla decisione autonoma e che permetta all'individuo di avere un ruolo nella formazione delle decisioni pubbliche" (ibid., p. 209).

Taylor ha poi formulato - in opposizione alla concezione volontaristica del soggetto agente - una concezione cognitiva, nella quale viene privilegiata non tanto la libertà di scelta, quanto l'autoriflessione, l'interpretazione e la valutazione razionale dei fini e dei valori. Nel suo saggio What is human agency? egli ha tracciato una distinzione tra una concezione del soggetto quale semplice soppesatore (simple weigher) di preferenze e desideri, e una concezione del soggetto quale forte valutatore (strong evaluator) delle proprie scelte riguardo a certe sue preferenze e desideri. La distinzione tra semplice soppesatore e forte valutatore riflette la differenza tra la concezione volontaristica e quella cognitiva del soggetto agente. Nella concezione cognitiva il soggetto, quale forte valutatore, usa un linguaggio qualitativo basato su distinzioni di valore che gli permette di giudicare le proprie preferenze e i propri desideri, come pure di decidere se siano degni di essere perseguiti o meno. Il soggetto che valuta le proprie preferenze in maniera ponderata e riflessiva esamina in profondità le sue scelte e le sue motivazioni. ‟Un valutatore forte - scrive Taylor -, ovvero un soggetto che valuta profondamente i desideri, va più a fondo, perché caratterizza le sue motivazioni a un livello più profondo. Caratterizzare un desiderio o inclinazione come più degno, o più nobile, o più integrato di altri, vuol dire descriverlo in rapporto al tipo o qualità di vita che esso esprime e sostiene [...]. Mentre per il semplice soppesatore ciò che conta è la desiderabilità di differenti gratificazioni, quelle definite dai suoi desideri de facto, per il forte valutatore la riflessione esamina anche i differenti modi possibili di essere dell'agente [...]. Mentre una riflessione su quello che preferiamo di più, che è tutto quello che un semplice soppesatore può fare nel considerare le motivazioni, ci fa rimanere, per così dire, alla periferia, una riflessione sul nostro tipo di essere ci porta al centro della nostra esistenza quali agenti. La valutazione forte non è semplicemente un modo di esprimere le preferenze, ma anche un modo di giudicare la qualità della vita, il tipo di persona che siamo o vogliamo essere. In questo senso essa è più profonda" (v. Taylor, Human agency..., 1985, pp. 25-26).

Sandel ha avanzato una serie di argomenti assai simili contro la concezione della persona che sta alla base della teoria di John Rawls. Egli ha mostrato le aporie cui va incontro una teoria della giustizia che astrae il soggetto da ogni contesto storico o sociale e che lo separa dai fini e valori della comunità di appartenenza, evidenziando al contempo il ruolo costitutivo della comunità nella formazione dell'identità personale e l'importanza delle facoltà cognitive di autoriflessione e di giudizio per una teoria dell'azione morale. A suo avviso, l'errore principale di Rawls è quello di concepire il soggetto come un essere individuato antecedentemente a ogni fine, valore o legame costitutivo. Questa concezione, egli afferma, ‟non riesce a rendere conto in maniera plausibile di alcuni aspetti essenziali della nostra esperienza morale. Essa infatti concepisce il soggetto come essere indipendente, nel senso che la nostra identità non è mai collegata ai nostri fini e attaccamenti [...]. Ma noi non possiamo considerarci indipendenti in questo modo senza pagare dei prezzi assai alti nei confronti di quei legami e convinzioni la cui forza morale consiste, in parte, nel fatto che sono inseparabili dal comprendere noi stessi come quelle particolari persone che siamo - come membri di questa famiglia o comunità o nazione o popolo, come portatori di questa storia, come figli e figlie di quella rivoluzione, come cittadini di questa repubblica [...]. Immaginare una persona incapace di legami costitutivi di questo tipo non è concepire un agente idealmente libero e razionale, ma immaginare una persona completamente priva di carattere e di profondità morale" (v. Sandel, 1982, p. 179).
Sandel ha inoltre osservato che questa concezione della persona non riconosce il ruolo della riflessione e del giudizio nei confronti dei fini e dei valori costitutivi della propria identità. La concezione volontaristica di Rawls presuppone un sé già definito, che sceglie i suoi fini in base a preferenze contingenti. L'assunzione di un fine non implica la riflessione sulla propria natura o identità, e pertanto non fornisce delle ragioni per le proprie scelte morali. Solo nell'ottica di una concezione cognitiva, in cui la riflessione e il giudizio conducono a una definizione del sé e dei suoi fini, è possibile fornire una giustificazione delle nostre azioni e delle nostre scelte morali (ibid., pp. 152-165, 172 e 179-181).

MacIntyre (v., 1981 e 1988) ha formulato, in due suoi recenti lavori, una critica assai netta alla concezione della persona tipica del liberalismo deontologico o neokantiano. A suo avviso, tale concezione non fornirebbe criteri soddisfacenti per orientare la condotta morale e non offrirebbe un contesto nel quale situare e valutare le azioni degli individui. Egli ha pertanto difeso una concezione teleologica della natura umana e una teoria contestuale del soggetto agente. Secondo la concezione teleologica, la condotta morale è caratterizzata non dall'adesione cosciente e rigorosa a dei principî o a delle regole, ma dall'esercizio e sviluppo costante delle virtù in vista del raggiungimento del bene. Tale bene può essere ottenuto solo all'interno di una comunità e si identifica nell'unità narrativa di una vita vissuta alla ricerca del bene. Secondo la teoria contestuale, nessun soggetto agente può identificare, interpretare e valutare le sue azioni se non all'interno di una tradizione morale e di una specifica comunità. Per MacIntyre l'errore principale del progetto kantiano e illuministico di fondare la morale e la politica su basi strettamente razionali è stato quello di rigettare sia la concezione teleologica della natura umana che la teoria contestuale del soggetto agente, poiché rigettando la prima ha privato l'individuo dei criteri coi quali valutare le sue scelte morali, e rigettando la seconda lo ha privato del contesto etico di una specifica comunità o tradizione all'interno della quale le azioni possono acquisire una certa coerenza e significato.

3. Concezione della comunità

Il principale sostenitore di una concezione forte della comunità è MacIntyre. Secondo questo autore, la morale e le virtù possono essere coltivate e sviluppate solo all'interno di forme locali di comunità che condividono una concezione comune del bene. Per MacIntyre uno dei difetti principali delle teorie liberali è la mancanza di una concezione della comunità quale luogo di formazione del carattere e di costituzione di pratiche morali. Sia la teoria morale kantiana sia quella utilitaristica sono inadeguate, la prima perché ha una concezione astratta e formale della comunità, la seconda perché concepisce la comunità in termini puramente strumentali. La sua proposta di rifondazione di comunità basate su principî etici condivisi viene esplicitata in termini assai drammatici. Egli infatti paragona la situazione contemporanea al periodo di declino e caduta dell'Impero romano, e sostiene che ‟una svolta cruciale" in quel periodo storico avvenne quando uomini e donne di buona volontà decisero di non sostenere più l'imperium romano e cessarono di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con il mantenimento di quell'imperium. Ciò che si prefissero di ottenere al suo posto - spesso senza essere pienamente coscienti del loro operato - era la costruzione di nuove forme di comunità, all'interno delle quali la vita morale potesse essere coltivata, e in questo modo la morale e la civiltà potessero sopravvivere al periodo delle barbarie e dei secoli bui. ‟Se la mia descrizione della nostra condizione morale è corretta, dovremmo concludere che da un po' di tempo ormai abbiamo anche noi raggiunto questa svolta. Ciò che importa a questo punto è la costruzione di forme locali di comunità nelle quali la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere coltivate durante i nuovi secoli bui che già ci sovrastano" (v. MacIntyre, 1981, pp. 244-245).

La proposta di Sandel è, rispetto a quella di MacIntyre, assai più modesta. Nella sua critica alla teoria della giustizia di Rawls egli ha tracciato una distinzione tra una concezione strumentale, una sentimentale, e una costitutiva della comunità, e ha difeso la tesi secondo cui solo quest'ultima può fornire la base per una politica incentrata sull'amicizia, sulla conoscenza di sé e sullo sviluppo del carattere morale. Soffermiamoci un attimo su queste tre concezioni della comunità. La prima, rintracciabile in molte versioni dell'utilitarismo e nelle teorie politiche di stampo libertario, concepisce la comunità in termini puramente strumentali e la cooperazione tra individui come una necessità imposta dal perseguimento di scopi esclusivamente privati. La seconda - quella che Sandel attribuisce a Rawls - riconosce che i membri di una comunità condividono certi scopi e giudicano la cooperazione come un bene in sé; essa viene definita sentimentale perché si riferisce soltanto ai sentimenti di solidarietà o benevolenza tra individui la cui identità è già data antecedentemente a ogni legame. La terza concezione, quella difesa da Sandel, si differenzia dalla precedente in quanto non si riferisce solo ai sentimenti di solidarietà e benevolenza, ma si estende anche all'autocomprensione di carattere cognitivo che i membri di una comunità possono raggiungere insieme. In questa concezione costitutiva, scrive Sandel, ‟affermare che i membri di una società sono legati da un senso di comunità non è affermare semplicemente che un gran numero di essi professa dei sentimenti comunitari e persegue degli scopi in comune, ma piuttosto che essi concepiscono la loro identità [...] come in parte definita dalla comunità di cui sono membri. Per essi la comunità non descrive solo quello che hanno in comune come cittadini, ma anche quello che sono, non una relazione che essi scelgono [...] ma un legame che essi scoprono, non semplicemente un attributo ma un elemento costitutivo della loro identità" (v. Sandel, 1982, p. 150). Ciò che distingue questo tipo di comunità è che gli individui raggiungono un grado di conoscenza di sé e degli altri maggiore di quello possibile all'interno di una comunità basata esclusivamente sui sentimenti. La concezione della comunità proposta da Sandel non è infatti caratterizzata da ‟un semplice spirito di benevolenza, o dalla prevalenza di valori comunitari, o perfino da certi scopi finali condivisi, ma da un vocabolario di discorso comune e da uno sfondo di pratiche e comprensioni tacite all'interno delle quali l'opacità [cognitiva] dei partecipanti è ridotta anche se mai totalmente dissolta" (ibid., pp. 172-173). Questa maggiore apertura cognitiva nei confronti del proprio sé e di quello degli altri membri di una comunità consentirebbe sia uno sviluppo più ricco della personalità, soprattutto dal punto di vista morale, sia una politica incentrata sull'amicizia e sul perseguimento del bene comune.

Walzer, da parte sua, ha argomentato che la comunità ha un ruolo costitutivo non solo rispetto allo sviluppo del carattere morale, ma anche rispetto alle nostre differenti concezioni della giustizia. Secondo Walzer, la giusta distribuzione dei beni dipende dal significato sociale che questi beni hanno per i membri di una comunità e questo significato, a sua volta, dipende dalle credenze e pratiche sociali condivise dai membri della comunità. La tesi portante del suo lavoro Spheres of justice, in difesa di una teoria pluralistica della giustizia, è che ‟beni sociali differenti devono essere distribuiti per ragioni differenti, secondo procedure differenti, da agenti differenti; e tutte queste differenze derivano dai significati differenti degli stessi beni sociali - il prodotto inevitabile della particolarità storica e culturale" (v. Walzer, 1983, p. 6). Per Walzer, infatti, ‟i beni sociali hanno significati sociali e perveniamo alla giustizia distributiva tramite una interpretazione di questi significati" (ibid., p. 19). L'unico contesto appropriato per pervenire a dei principî di giustizia distributiva è la comunità. Essa è ‟la miglior approssimazione a un mondo di significati comuni [...]. Quando argomentiamo noi dobbiamo fare appello a questi significati [...] poiché nelle questioni morali argomentare vuol dire semplicemente fare appello a significati comuni" (ibid., pp. 28-29). L'appartenenza alla comunità diventa pertanto il bene più importante, poiché tramite essa si viene a determinare il significato sociale dei beni da distribuire e le connesse differenti concezioni della giustizia.
Un altro importante teorico della comunità è Unger. Egli ne ha proposto due versioni, la prima nel 1975, in Knowledge and politics, la seconda nella sua recente trilogia intitolata Politics: a work in constructive social theory (v. Unger, 1975 e 1987). La prima versione, caratterizzata dall'idea dei ‛gruppi organici', si propone di superare le contraddizioni del pensiero liberale, come le opposizioni tra ragione e passione, fatti e valori, individuale e collettivo. La teoria dei gruppi organici propone, a tal fine, una riconciliazione del particolare e dell'universale all'interno di una comunità ugualitaria e aperta. Unger sottolinea, però, che questa teoria dei gruppi organici presuppone una metafisica adeguata, ovvero una concezione della natura umana come universale che esiste attraverso le sue incarnazioni particolari; questa riconciliazione di particolare e universale può realizzarsi solo parzialmente in una comunità, trovando il suo vero compimento in una situazione metastorica di tipo trascendente, ovvero ultraterrena (v. Unger, 1975, pp. 290-295).

La seconda versione della comunità proposta da Unger è caratterizzata, invece, dalla nozione di ‛contesto formativo', con la quale egli intende l'insieme delle ‟assunzioni immaginative" (imaginative assumptions) riguardanti sia le forme di associazione umana possibili e desiderabili, sia gli assetti istituzionali e le pratiche sociali non istituzionalizzate (v. Unger, 1987, vol. I, p. 89). L'espressione ‛contesto formativo' può essere assimilata alla nozione marxiana di struttura sociale, ma l'enfasi di Unger, a differenza di quanto avviene in Marx, cade sempre sulla plasticità (plasticity) o possibilità di modifica di tale contesto. Questa concezione della comunità incentrata sull'idea di contesto formativo viene offerta come soluzione alla tensione tra autonomia e dipendenza cui è sottoposto l'individuo nella società moderna e al contrasto tra riforme e rivoluzione che caratterizza i progetti di trasformazione istituzionale della società. Secondo Unger queste tensioni e questi contrasti possono essere superati mediante la costruzione di comunità democratiche che permettano la revisione costante dei propri contesti formativi (v. Unger, 1987, vol. II, pp. 246-277). Il vantaggio di questa concezione della comunità rispetto a quella incentrata sull'idea dei ‛gruppi organici' è indubbiamente il suo carattere secolarizzato, ovvero l'assenza di una dimensione trascendente o ultraterrena.

4. Natura e scopo della giustizia distributiva

La questione della giustizia è stata al centro di un importante dibattito tra teorici liberali e neocomunitari. Walzer, Taylor e Sandel hanno avanzato una serie di critiche alla concezione liberale della giustizia distributiva, in particolare alla versione elaborata da Rawls. Walzer ha sostenuto che non ci può essere un unico principio di giustizia distributiva applicabile a tutti i beni sociali. Egli ha efficacemente riassunto questa sua tesi nella formula: ‟beni diversi ad associazioni diverse di uomini e donne per ragioni diverse e secondo procedure diverse" (v. Walzer, 1983, p. 26). Egli ha inoltre sostenuto che il bene più importante da distribuire è l'appartenenza alla comunità politica. ‟La comunità è essa stessa un bene - probabilmente il bene più importante - che viene distribuito [...]. Il bene principale che noi distribuiamo l'un l'altro è l'appartenenza a qualche comunità umana. E quello che facciamo nei confronti dell'appartenenza determina tutte le nostre altre scelte distributive: determina con chi faremo quelle scelte, da chi richiederemo obbedienza e il pagamento delle tasse, a chi allocheremo beni e servizi" (ibid., pp. 29 e 31). Walzer ritiene, pertanto, che i principî di giustizia distributiva debbano essere formulati sulla base di una concezione di fondo che ricomprenda la natura e lo scopo della comunità assieme ai beni sociali che quest'ultima mette a disposizione dei suoi membri.

Taylor, da parte sua, ha sostenuto che nelle moderne società liberaldemocratiche vengono impiegati differenti e talvolta contrastanti principî di giustizia distributiva (per esempio, i diritti, il merito, il bisogno, il contributo) e che pertanto si dovrebbe abbandonare la ricerca di un singolo ed esclusivo principio di distribuzione. Gli assetti distributivi dovrebbero, piuttosto, essere regolati e giudicati sulla base di principî di giustizia distributiva indipendenti e non riducibili. ‟Noi dobbiamo abbandonare - egli scrive - la ricerca di un singolo insieme di principî di giustizia distributiva. Al contrario, una società moderna può essere considerata sotto prospettive differenti e mutualmente irriducibili, e pertanto può essere giudicata secondo principî di giustizia distributiva indipendenti e mutualmente irriducibili [...]. Se questo significa che non ci possa essere una cosa come ‛un singolo' insieme coerente di principî di giustizia distributiva per una società moderna, non dovremmo rammaricarcene. La stessa pluralità emerge nella discussione di Aristotele sulla giustizia nella Politica III e IV. Quelli che adottano un singolo ed esclusivo principio, dice Aristotele, ‛parlano di una sola parte della giustizia'" (v. Taylor, Philosophy and..., 1985, p. 312).

Sia Taylor che Walzer argomentano, inoltre, che la ricerca di un singolo principio di giustizia distributiva valido per tutti i beni sociali e applicabile a tutte le sfere distributive appare plausibile ai teorici liberali solo in quanto essi partono da una concezione individualistica della persona quale soggetto di diritti e sono, quindi, costretti a formulare la questione della giustizia nei termini di un conflitto tra soggetti autonomi aventi gli stessi diritti. Se lo schema adottato parte invece da una concezione sociale della persona e dalla priorità della comunità, è possibile sostenere che i principî di giustizia devono essere plurali e differenti a seconda dei beni da distribuire (v. Walzer, 1983) e che i differenti principî distributivi esprimono differenti concezioni del bene e differenti visioni del valore della comunità (v. Taylor, Philosophy and..., 1985).

Sandel, infine, ha messo in dubbio la priorità della giustizia sulla comunità e ha difeso una concezione della politica che privilegia i valori dell'amicizia, della conoscenza reciproca e del bene comune. Secondo Sandel la priorità accordata da Rawls alla giustizia rispetto al bene comune può essere accettata solo se si accetta la priorità del sé rispetto ai suoi fini, e Sandel sostiene che questa concezione del sé non è accettabile in quanto non tiene conto del ruolo costitutivo svolto dai fini e dai valori della comunità. Egli propone pertanto una concezione alternativa della persona, che accorda un ruolo primario ai fini della comunità e ne fa derivare una concezione della politica basata sul bene comune, piuttosto che sui diritti o sul primato della giustizia. In questa concezione neocomunitaria della politica la giustizia avrebbe sempre un ruolo importante, ma non sarebbe prioritaria rispetto ai valori della comunità o nei confronti del bene comune.

Nelle pagine finali del suo libro Liberalism and the limits of justice Sandel sostiene che, nella visione della società giusta di Rawls, i cittadini si comportano da stranieri, seppur talvolta benevoli. La giustizia ‟trova il suo motivo perché non possiamo conoscere noi stessi, o i nostri fini, in misura sufficiente da governarci secondo il bene comune. Questa condizione non potrà probabilmente essere superata del tutto, e fintanto che non lo sarà, la giustizia sarà necessaria. Ma non è detto che essa debba sempre prevalere e, nella misura in cui non prevarrà, la comunità sarà possibile e rappresenterà una presenza destabilizzante per la giustizia" (v. Sandel, 1982, p. 183). La critica di Sandel al liberalismo deontologico di Rawls si conclude con la seguente affermazione: ‟Nel porre l'io oltre il confine della politica [la concezione deontologica] trasforma il soggetto dell'azione in un articolo di fede piuttosto che in un oggetto di continua attenzione e cura, in una premessa della politica piuttosto che in un suo precario risultato. Facendo ciò essa perde il pathos della politica e anche le sue possibilità più nobili. Essa si dimentica che quando la politica degenera, si hanno non solo delusioni [individuali] ma anche traumi [sociali]. E si dimentica la possibilità che quando la politica va bene, possiamo conoscere un bene in comune che non possiamo conoscere da soli" (ibid.).

5. Priorità del giusto sul bene

Una delle tesi principali della teoria della giustizia di Rawls è che una società giusta non persegue, né cerca di imporre, una specifica concezione del bene, ma fornisce, piuttosto, una struttura neutrale di diritti e libertà fondamentali che permette agli individui di perseguire liberamente i propri fini e progetti di vita e di rispettare la libertà di scelta di tutti gli altri.

Una società giusta deve, pertanto, essere basata su principî che non presuppongano una particolare concezione del bene. Questi principî vengono giustificati in base alla loro conformità al concetto di giusto, concetto che è prioritario e indipendente dal concetto di bene. Il giusto ha pertanto priorità sul bene, e questo in due sensi: in quanto i diritti individuali non possono essere sacrificati a vantaggio del benessere o del bene comune; e in quanto i principî di giustizia che specificano questi diritti non possono essere basati su una particolare concezione del bene, ma devono essere giustificati indipendentemente, in base alla loro conformità al concetto di giusto (v. Rawls, 1971 e 1993; v. Dworkin, 1977 e 1985, cap. 8).

Questa priorità del giusto sul bene è stata criticata da Sandel, Taylor e MacIntyre. Sandel ha dimostrato che la priorità del giusto sul bene è fondata sulla priorità del sé rispetto ai suoi fini, valori e attaccamenti sociali, e ha sostenuto che questa concezione della persona non è accettabile in quanto non possiamo formare la nostra identità indipendentemente dai fini e valori della nostra comunità di appartenenza. Riconoscere il ruolo costitutivo della comunità comporta, pertanto, il rifiuto della priorità del giusto sul bene e la messa in questione della neutralità dei principî di giustizia nei confronti delle differenti concezioni del bene (v. Sandel, 1982, pp. 172-183). Nell'introduzione al volume Liberalism and its critics Sandel ha fornito una sintesi assai efficace di questa sua tesi nei seguenti termini: ‟La priorità del sé rispetto ai suoi fini significa che io non sono mai definito dai miei scopi e attaccamenti, ma sono sempre capace di prendere le distanze per ispezionarli, valutarli e, eventualmente, modificarli.

L'essere un soggetto libero e indipendente, capace di scelta, consiste proprio in questo. E questa è la visione del soggetto che trova la sua espressione nell'ideale dello Stato quale struttura neutrale. Dal punto di vista di un'etica basata sui diritti, è precisamente in quanto noi siamo soggetti essenzialmente separati e indipendenti che abbiamo bisogno di una struttura neutrale di diritti che non pregiudichi la scelta tra scopi e fini confliggenti. Se il sé è prioritario rispetto ai suoi fini, allora il giusto deve essere prioritario rispetto al bene. I critici comunitari del liberalismo basato sui diritti sostengono che non possiamo concepire noi stessi come esseri indipendenti in questo modo, ovvero come soggetti totalmente separati dai nostri scopi e legami. Essi affermano che certi nostri ruoli sono parzialmente costitutivi del nostro essere quelle persone che siamo - cittadini di un paese, o membri di un movimento, o sostenitori di una causa. Ma se noi siamo parzialmente definiti dalle comunità nelle quali viviamo, allora dobbiamo anche essere coinvolti negli scopi e fini di quelle comunità [...]. La mia biografia, per quanto essa sia aperta, è sempre inserita nella storia di quelle comunità dalle quali derivo la mia identità - siano esse la famiglia o la città, la tribù o la nazione, un partito o una causa" (v. Sandel, 1984, pp. 5-6). Pertanto, sottolinea Sandel, ‟i critici comunitari del liberalismo moderno, ispirandosi agli argomenti di Hegel contro Kant, mettono in dubbio l'asserita priorità del giusto sul bene, così come la concezione dell'individuo che sceglie liberamente a essa sottesa. Rifacendosi ad Aristotele, essi sostengono che non possiamo giustificare gli assetti politici senza far riferimento a scopi e fini comuni e non possiamo concepire la nostra identità senza far riferimento al nostro ruolo di cittadini e di partecipanti a una vita comune" (ibid., p. 5).

Taylor ha sostenuto che ogni concezione della giustizia e ogni concetto del giusto dipendono da una concezione del bene e da una visione del valore della comunità. La priorità accordata da Rawls al giusto non può essere mantenuta, poiché essa dipende a sua volta da una specifica concezione del bene (l'autonomia morale dell'individuo, concezione che Rawls mutua da Kant) e da una particolare visione del valore della comunità (quello di assicurare le condizioni per il pieno sviluppo delle capacità morali degli individui) (v. Taylor, Philosophy and..., 1985, pp. 289-317). Rawls non può, pertanto, sostenere che la sua teoria della giustizia sia neutrale rispetto a concezioni alternative del bene e della comunità (siano queste di tipo libertario, o anarchico, o socialista, o neocomunitario), e non può dimostrare in questo senso la priorità del giusto sul bene.

Per Taylor i principî di giustizia distributiva e la loro giustificazione derivano sempre da una concezione del bene, e questo per un duplice motivo, in quanto presuppongono sia una concezione del bene per l'uomo che una concezione della comunità e del suo ruolo nel realizzare il bene dell'uomo (ibid., pp. 291-292). Come egli stesso scrive: ‟I differenti principî di giustizia distributiva sono collegati a concezioni del bene umano e, in particolare, a differenti concezioni del grado di dipendenza degli uomini dalla società per realizzare il bene. Pertanto, i profondi disaccordi sulla giustizia possono essere chiariti solo se vengono formulate e confrontate le sottese concezioni dell'uomo e della società" (ibid., p. 291).
MacIntyre, infine, ha difeso la tesi che non ci può essere una giustificazione neutrale dei principî di giustizia, poiché ogni concezione della giustizia è situata in una specifica tradizione e deriva necessariamente dalla sua particolare concezione del bene.

Secondo MacIntyre l'ideale illuministico di trovare un punto di vista neutrale, distaccato e possibilmente universale, dal quale poter giudicare le differenti concezioni del bene e derivare dei principî di giustizia universalmente validi, si è rivelato illusorio, poiché non esiste un punto di vista che esuli da - o possa sottrarsi a - una tradizione e un contesto morale specifici. In questo senso il bene è sempre prioritario rispetto al giusto, e la questione principale per MacIntyre è se la concezione del bene che caratterizza la tradizione liberale sia razionalmente superiore a quella espressa da altre tradizioni (per esempio, quella aristotelica o neotomista da lui stesso difesa). MacIntyre è convinto che la tradizione liberale non sia in grado di dimostrare la sua superiorità nei confronti di altre tradizioni, e che essa vada rigettata a favore di tradizioni premoderne e preliberali (v. MacIntyre, 1981, 1987, 1988 e 1990).