Innatismo


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In filosofia, concezione che considera l’uomo in possesso fin dalla nascita di determinate conoscenze, anteriori quindi all’esperienza. A questo significato se ne affianca talvolta un altro che rinvia all’esistenza nella mente di capacità ordinatrici e regole di conoscenza non derivate dall’esperienza e precedenti rispetto a essa.

La forma classica di i. è quella di Platone, che ritiene l’uomo in possesso di tutti i concetti prima dell’esperienza, la quale si limiterebbe a stimolarne il ricordo. Tracce di i. sono presenti in larga parte della filosofia antica e medievale: talora, come in Aristotele, l’i. si limita ai principi logici; talora, come nel caso degli stoici, si estende alle nozioni ritenute comuni; talora infine, come in s. Agostino, è collegato alla particolare funzione del Verbo come principio e fondamento della conoscenza vera.

Nel pensiero moderno, accanto alle riformulazioni di un i. contenutistico proprie di Cartesio e dei platonici inglesi del 17° sec., che ammettono la preesistenza di ben precise idee, prevale la tendenza a concepire come innate solo delle capacità di organizzazione dei dati di esperienza. Questa forma di i. coesiste ancora in Leibniz con quella classica, ma diverrà sempre più l’unica forma di i. dopo l’analisi delle condizioni trascendentali della conoscenza compiuta da Kant. Nel 19° sec. questo i. sarà proprio, per es., dell’idealismo filosofico, che insisterà sulla priorità gnoseologica della ragione.

Nella filosofia contemporanea, anche per la grande influenza delle correnti empiristiche e positivistiche, l’i. è stato raramente sostenuto o discusso. Una ripresa si è verificata da parte del linguista statunitense N. Chomsky: gli esiti mentalistici e le implicazioni filosofiche delle sue teorie linguistico-psicologiche poggiano infatti sulla tesi secondo cui la mente possiede dei principi universali in base ai quali è possibile il linguaggio ( generativismo).

Dizionario di Filosofia (2009)

Concezione che considera l’uomo in possesso fin dalla nascita di determinate conoscenze, anteriori quindi all’esperienza. A questo significato se ne affianca talvolta un altro, che rinvia all’esistenza nella mente dell’uomo di capacità ordinatrici e regole di conoscenza non derivate dall’esperienza e precedenti rispetto a essa.

La forma classica di i. è quella di Platone, secondo la quale l’uomo (intendendo per «uomo» l’essere umano maschile, perché l’incarnazione in una donna è considerata una punizione dell’anima; cfr. Timeo 42 b) dispone già di tutti i concetti prima dell’esperienza terrena. Il presupposto metafisico dell’i. platonico è il dualismo anima/corpo. Prima di incarnarsi l’anima vive una vita iperuranica a contatto con le idee, culminanti nell’idea del Bene. In seguito all’incarnazione dimentica tutto, ma se opportunamente stimolata (per es. attraverso l’eros), la parte razionale dell’anima è in grado di recuperare – tramite l’anamnesi – tutto il bagaglio di conoscenze acquisite nell’esistenza disincarnata. «Poiché l’anima – si legge nel Menone (81 c) – è immortale ed è nata molte volte e ha visto ogni cosa, sia qui che nell’ade, non c’è niente che essa non abbia appreso: sicché non fa meraviglia che possa ricordare, sia intorno alla virtù, sia intorno ad altre cose, ciò che prima sapeva».

L’i. vuole essere già in Platone un tentativo di rendere conto dell’apparente universalità dei concetti e dell’apparente impossibilità di derivare concetti come quelli di bene, utile, e in genere quelli matematici, dall’esperienza, in quanto sarebbero invece i presupposti dell’esperienza stessa. T

racce di i. sono presenti in larga parte della filosofia antica e medievale: talora, come in Aristotele, si limita l’i. ai principi logici; talora, come nel caso degli stoici, lo si estende alle nozioni ritenute comuni; talora infine, come in Agostino, si cerca di collegarlo alla particolare funzione del Verbo come principio e fondamento, attraverso l’illuminazione delle menti, della conoscenza vera.

Nel pensiero moderno, accanto alle riformulazioni di un i. proprie di Cartesio e dei platonici inglesi del 17° sec. (in primo luogo di Herbert di Cherbury), che ammettono la preesistenza di ben precise idee, prevale sempre di più la tendenza a concepire come innate solo determinate capacità di organizzazione dei dati dell’esperienza.

Questa forma di i. coesiste ancora in Leibniz con quella classica, ma diverrà sempre più l’unica forma di i. dopo l’analisi delle condizioni trascendentali della conoscenza compiuta da Kant nella Critica della ragion pura. In Kant possono essere considerate innate nella mente dell’uomo – accanto alle tradizionali funzioni della logica classica – una serie di funzioni logiche trascendentali di unificazione dei dati sensibili, ossia le categorie, considerate articolazioni di un’unica funzione, l’Io penso o appercezione trascendentale.