Individuo

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Ogni singolo ente in quanto distinto da altri della stessa specie; in particolare, l’uomo considerato nella sua singolarità.

Filosofia

Il termine i. ha una corrispondenza etimologica nel termine gr. ἄτομος (comp. di - privativo e tema di τέμνω «tagliare», quindi indivisibile) e con questo etimo è entrata nel linguaggio filosofico dell’antichità con Leucippo e, soprattutto, con il suo scolaro Democrito, che la usarono per indicare ciascuno dei componenti ultimi, indivisibili e inalterabili, del reale, dalla cui aggregazione e separazione dipendono rispettivamente la generazione e la distruzione. Aristotele notò che l’atomo democriteo, per quanto piccolo, è pur sempre ulteriormente divisibile in quanto realtà materiale, estesa, senza un interiore principio di unità. Il vero i. doveva piuttosto trarre il suo esser tale da un principio d’intelligibilità, la forma: già Platone aveva parlato di εἶδος ἄτομον in quanto l’idea, esprimendo la realtà vera oggetto di pensiero, è un tutto non ulteriormente divisibile; approfondendo questo concetto nella polemica contro gli atomisti, Aristotele affermò che l’individualità concreta è il sinolo, veramente i. non perché inesteso ma perché dotato di un principio intelligibile d’interiore unità che è la forma. Per Aristotele tutte le sostanze (sinoli) sono i.: di qui sorse la tradizionale concezione dell’individualità come carattere essenziale della sostanza, indipendente nella sua esistenza e non predicabile, bensì soggetto di predicati.

Nel linguaggio della scolastica si disse principium individuationis il principio determinante dell’individualità. Poiché nella concezione aristotelica l’individualità risultava dal confluire della materia e della forma, nella controversia circa il principio d’ si discusse se tale fosse la materia, in quanto determinatrice dell’universalità della forma, o la forma, in quanto determinatrice dell’indefinitezza della materia. La seconda tesi fu sostenuta da Giovanni Duns Scoto, la prima da Tommaso d’Aquino. Queste due tesi divennero le tipiche soluzioni date al problema dagli ordini domenicano e francescano, e dettero luogo a interminabili discussioni. Delle soluzioni moderne del problema meritano un particolare rilievo quella cartesiana, che pone l’individuazione nel pensiero (se penso, sono), e quella rosminiana, che la pone nel sentimento fondamentale.

Con significato più generale, individualismo è ogni dottrina che accentui l’autonomia e la differenziazione delle realtà singole, in contrasto con la loro inserzione in un quadro totalizzante. In senso più specifico, si dice individualismo ogni dottrina che rivendichi i diritti della singola persona contro la sua subordinazione a un sistema che lo trascenda. Questa rivendicazione ha informato soprattutto il pensiero politico e quello economico. Dottrine politiche ispirate all’individualismo sono quelle secondo le quali le leggi, lo Stato e la società debbono in ultima analisi servire al benessere degli i., traendo da ciò ogni giustificazione; l’individualismo così concepito è alla base di varie forme di contrattualismo e di liberalismo. Nelle teorie economiche l’individualismo ha avuto la sua manifestazione più importante nella dottrina del liberismo, che insiste sulla libertà del mercato, cioè sulla libera iniziativa economica dei singoli non soggetta a interferenze da parte dello Stato, come principale fattore di progresso. Oltre che in questi significati, il termine è stato frequentemente utilizzato anche per indicare l’affermazione dell’individualità egoistica o anarchica.

pedagogia

Metodi d’individualizzazione sono quelli volti a promuovere lo svolgimento dell’attività scolastica adattandola all’individualità del singolo scolaro, cioè alla sua struttura psicologica, alle sue attitudini, alle sue vocazioni.

psicologia

Nella psicologia di C.G. Jung, l’individuazione è il processo che conduce il soggetto alla maturità psichica, creando un suo nuovo rapporto con la psiche collettiva e conciliando in lui le opposizioni primordiali (maschio-femmina, cosciente-incosciente ecc.) prima solo antitetiche e non complementari. Il fallimento lungo tale processo sarebbe espresso dalle nevrosi.

A. Adler nel 1911 chiamò la sua dottrina, per distinguerla dalla psicanalisi di S. Freud. La parola intendeva sottolineare la considerazione dell’i. come unità inscindibile sia in sé sia nei rapporti con la società. Particolare rilievo assume in questa prospettiva il ruolo dei meccanismi compensatori, attivati nel soggetto sia da fattori ereditari (per es., inferiorità organiche) sia da pressioni ambientali. L’insieme di tali meccanismi determina quello che Adler chiama lo stile di vita dell’i. (concetto che sottolinea il finalismo, cosciente o incosciente, degli atti psichici, compresi i processi psiconevrotici). Nel corso dello sviluppo psichico normale la loro azione permette un processo di compensazione che porta al superamento dei sentimenti d’inferiorità originatisi in età infantile. Un esito negativo di questo processo ha invece come risultato lo stabilirsi di quel complesso di inferiorità che, soffocando le capacità di autorealizzazione dell’i. e inibendone le possibilità creative, costituisce un fattore primario nell’insorgere dei disturbi nevrotici. L’i. è così impossibilitato ad abbandonare la posizione egocentrica per passare allo stadio più maturo della cooperazione con gli altri (amore, lavoro, società) e in questo consiste essenzialmente la nevrosi. Sul piano terapeutico scopo precipuo è quindi quello di effettuare una correzione delle erronee impostazioni derivanti nell’i. da uno stile di vita inadeguato. L’indirizzo adleriano, che si configura, contrariamente alla psicanalisi freudiana, come direttivo-educativo, ha esercitato un certo influsso sulla pedagogia.


Dizionario di Filosofia (2009)

Termine che significa «indiviso», o che non può essere diviso, e viene riferito a ogni singolo ente in quanto distinto da altri della stessa specie. Come termine filosofico esso compare per la prima volta in Cicerone (individuum) per tradurre la parola greca ἄτομον. Boezio usa il termine i. attribuendogli sia la determinazione della indivisibilità, sia quella della impredicabilità: «Si dice i. ciò che non si può dividere per nulla, come l’unità o la mente o ciò che non si può dividere per la sua solidità, come il diamante; o ciò che non si può predicare di altre cose simili, come Socrate» (Ad Isagogen Porphyrii, II). Nell’ambito della filosofia medievale questa determinazione della impredicabilità con riferimento all’i. venne ripresa da Pietro Ispano («I. è ciò che si predica di una sola cosa, come Socrate e Platone», Summulae Logicales). Tommaso d’Aquino distingue fra i. vago, corrispondente alla specie («l’i. vago, per es. l’uomo, significa una natura comune con un determinato modo d’essere, che compete alle cose singole, cioè che sia sussistente per sé e distinto dagli altri»), e i. singolo («l’i. singolo significa invece qualcosa di determinato e che distingue; così il nome Socrate significa questa carne e questo volto», Summa theologiae, I, q. 30, a. 4). Per Guglielmo di Occam, in quanto egli nega l’esistenza di una realtà universale, realtà significa essenzialmente individualità. Una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire l’i. avviene nella filosofia moderna, a opera di Hegel. Egli introduce infatti la nozione di «i. universale», il quale altro non è che «lo spirito autocosciente nel suo processo di formazione», mentre «l’i. particolare è lo spirito non compiuto: una figura concreta […] il cui essere determinato domina una sola determinatezza e nella quale le altre sono presenti solo di scorcio» (Fenomenologia dello Spirito, prefazione).

Enciclopedia del Novecento (1978)

di Wilhelm Wengler

Sommario: 1. Introduzione. 2. I vari modi di considerare e valutare l'individuo: a) l'altro individuo come cospecifico; b) l'individuo come elemento costitutivo di masse o di gruppi umani; c) l'individuo in quanto caratterizzato dall'appartenenza a una delle possibili suddivisioni dell'umanità; d) valutazione dell'essere umano in base alla sua utilità per la realizzazione degli interessi del soggetto valutante; e) valutazione degli individui in base al bene comune. 3. I diritti dell'uomo come mezzo per garantire la coesistenza degli individui: a) individuo e diritto; b) il diritto alla vita; c) il diritto a un trattamento umano e a un'esistenza dignitosa; d) il diritto alla sfera privata; e) i diritti dell'uomo nei rapporti sociali esterni alla sfera privata; f) il diritto all'uguaglianza di trattamento; g) esiste un diritto dell'uomo all'equità? □ Bibliografia.

1. Introduzione

La coscienza del singolo di essere solo un esemplare concreto della specie umana e la consapevolezza del fatto che ogni altro individuo è anch'egli un essere umano dotato di una coscienza analoga sono riscontrabili nel bambino solo a partire da una certa età; d'altra parte, la mancanza di tale coscienza nell'adulto è considerata come un sintomo di totale o parziale infermità di mente.

È comunemente riconosciuto che l'individuo umano, nella sua singolarità corporea e nella costanza dei suoi caratteri ereditari, rimane uguale a se stesso dalla nascita alla morte, e ciò anche se le singole cellule che lo costituiscono si rinnovano tutte nel corso di un certo numero di anni, anche se in lui si sviluppano nuove facoltà e cambiano, in relazione alle disposizioni ereditarie o agli influssi ambientali, i suoi interessi e le sue opinioni.
Qualora però nelle condizioni mentali di un individuo intervenga un mutamento particolarmente profondo, sia pur riconducibile a modificazioni fisiche, sorge, ad esempio nel diritto penale, il problema se l'autore di un delitto, sano di mente all'epoca del fatto, colpito in seguito da infermità mentale e infine guarito, debba scontare, essendo ancora lo ‛stesso' individuo, la pena inflittagli per il crimine a suo tempo commesso.

Ove sussista questa coscienza della propria e dell'altrui umanità, gli altri individui, il loro comportamento e i loro interessi diventano in vario modo oggetto di valutazioni, in base agli interessi sia innati che acquisiti dell'individuo valutante, intendendo qui il termine ‛interesse' nel suo si- gnificato più ampio, comprendente non solo l'interesse ‛egoistico' per il proprio benessere, ma anche gli interessi ‛morali' o ‛altruistici' per il mutuo comportamento degli altri (v. il mio Völkerrecht, 1964, pp. 4 ss.). Alla coscienza della propria e dell'altrui umanità è associata la coscienza che l'individuo è solo un uomo tra gli uomini e che deve quindi vivere, anche come individuo, a contatto con gli altri.


2. I vari modi di considerare e valutare l'indi- viduo

Le principali forme in cui si articolano la considerazione e la valutazione di un individuo umano da parte di un altro sono le seguenti.

a) L'altro individuo come cospecifico

Analogamente alla maggior parte degli animali, che distinguono i propri cospecifici dagli altri esseri viventi, anche l'uomo distingue in primo luogo tutti gli altri uomini - ossia coloro che secondo le scienze naturali rientrano nella specie Homo sapiens - dai rimanenti esseri, e in particolare da quelli animati, e associa a questa semplice distinzione tra ‛uomo', ‛animale' ecc., certe regole elementari di comportamento della morale individuale. Tra queste vi sono anzitutto le inibizioni a sopprimere arbitrariamente, ossia senza un motivo razionale, un altro individuo, sia pur consenziente. È probabile anche che vi siano inibizioni, prevalentemente istintive, a compiere, senza una specifica giustificazione, atti le cui conseguenze verrebbero presumibilmente risentite dall'altro individuo come dannose (e in particolare gli atti che provocano un dolore fisico), per quanto di norma tali inibizioni debbano ritenersi acquisite con l'educazione.

A questo riconoscimento di ogni altro individuo come proprio cospecifico, dotato dei medesimi interessi per l'esistenza e per l'indisturbato perseguimento dei propri fini, vengono tuttavia a sostituirsi e a sovrapporsi, come vedremo in seguito, prospettive diverse. Forse solo l'uomo ha la capacità di modificare il rispetto istintivo per i suoi simili in quanto cospecifici: il desiderio di uccidere un individuo odiato, o addirittura un qualsiasi altro essere umano, può essere un sintomo d'infermità mentale, ma può essere suscitato anche in un individuo mentalmente sano dall'influsso di altre persone, dall'uso di droghe, ecc. La mancata considerazione degli altri individui umani come cospecifici può spingersi fino a negare l'umanità del ‛selvaggio' che appartiene a un'altra razza o del malato di mente che si comporta in modo animalesco, e quindi a sopprimere l'istintivo rispetto verso di essi in quanto nostri ‛simili'.

Un caso limite di una siffatta alterazione della coscienza di una comune umanità è dato dall'idea che un uomo possa essere equiparato a una cosa (ad esempio ridotto in schiavitù) per semplice decisione di altri uomini. Rimane aperta la questione se le inibizioni psicologiche innate nei riguardi di un attentato arbitrario all'esistenza di un altro uomo possano effettivamente venir meno nei confronti dell'‛emarginato' o dello schiavo nella stessa misura che nei confronti di un animale.

b) L'individuo come elemento costitutivo di masse o di gruppi umani

La mente umana è anche capace di considerare gli individui come meri ‛elementi' di una pluralità di uomini concepita come un'unità. Come il tecnico forestale non bada ai singoli alberi del bosco e non pensa a essi come a esemplari concreti della loro specie, ma vede in un tratto di bosco solo un certo numero di metri cubi di legname, così l'ingegnere concepisce il carico gravante su un ascensore o su un ponte come una massa umana dotata di un certo peso, senza interessarsi affatto dei singoli individui che la compongono. Anche riguardo ai provvedimenti di politica demografica o annonaria il numero degli individui compresi in una popolazione è solo un elemento per il calcolo, per esempio del fabbisogno alimentare.

Le ideologie ‛nazionali' (völkisch), del tipo di quelle coltivate dai regimi fascisti, tendono per loro natura a concepire l'uomo, almeno sotto certi aspetti, come semplice ‛elemento' di un ‛popolo' (Volk); di conseguenza il comportamento degli individui, considerati come appartenenti al ‛proprio' popolo, viene valutato di preferenza in relazione al mantenimento o al miglioramento dello status che il popolo (o lo Stato in cui esso è organizzato) ha nei confronti degli altri popoli (o Stati). Ma non di rado nelle ideologie collettivistiche la collettività - specialmente in quanto ha la proprietà dei mezzi di produzione e dà lavoro ai singoli - viene presentata come preminente rispetto all'individuo al solo scopo di mascherare l'interesse individuale dei pubblici funzionari per le loro cariche.
Anche le azioni umane attribuite ai popoli, agli Stati, ecc., in tanto hanno luogo in quanto l'individuo intende sempre e soltanto soddisfare col suo agire un ‛proprio' interesse, e cioè un interesse da lui sentito come tale; e ciò anche quando chi agisce voglia di proposito operare ciò che egli ritiene utile all'interesse della collettività, anteponendolo magari alla realizzazione di altri interessi con esso incompatibili. Motivo dell'agire umano può essere dunque solo un interesse sentito dall'individuo stesso, ovvero un compromesso tra interessi propri che non sia possibile realizzare contemporaneamente.

La concezione in cui l'individuo è considerato e valutato non come un singolo, ma solo come elemento di un gruppo umano inteso come unità primaria, non va confusa con quella in cui, nel valutare gli uomini come individui, viene prestata maggior attenzione a coloro che, per affinità di caratteristiche e di interessi, formano una ‛massa' particolarmente numerosa, anziché agli isolati che da tale massa si differenziano (spesso intenzionalmente). La valutazione degli individui a seconda che corrispondano o no all'immagine tipica degli appartenenti a una società di massa - valutazione che può essere importante, ad esempio, per i produttori di merci nel momento di determinare l'offerta, oppure per gli uomini politici in una democrazia a suffragio universale - non implica di per sé l'attribuzione di un valore intrinseco alle organizzazioni formate in prevalenza da ‛uomini-massa', come invece accade quando, in un'ideologia ‛nazionale' (völkisch), l'individuo viene valutato in base al suo ruolo nei riguardi dell'organizzazione.

c) L'individuo in quanto caratterizzato dall'appartenenza a una tra le possibili suddivisioni dell'umanità

Il modo più frequente in cui il singolo diviene consapevole dell'esistenza di altri individui umani non corrisponde a nessuno dei due angoli visuali finora esaminati. Spesso infatti non si vede nell'altro uno tra gli esemplari concreti, tutti di eguale valore, dell'intera specie umana, bensì un esemplare concreto di una suddivisione dell'umanità, definita per lo più in base a certi caratteri presenti in una pluralità di esseri umani e mancanti negli altri. Se nei giornali si parla di un delitto, esso non sarà stato commesso da un ‛essere umano', bensì da un uomo, o da una donna, o da un giovane, o da uno straniero, ecc. La comprensione dell'altro nella sua qualità di appartenente a un dato sottogruppo umano costituisce spesso il punto di partenza (anche se non necessariamente l'unico motivo) per valutare l'individuo stesso. L'interesse erotico di un uomo per una donna da lui incontrata si riferisce inizialmente all'altro in quanto ‛essere umano di sesso femminile'; il sentimento d'amore per l'individuo singolo è fondato invece su un'ulteriore preferenza, per lo più priva di fondamento razionale, per quell'individuo rispetto ad altri simili.

Spesso il semplice fatto che l'individuo soggetto e quello oggetto della valutazione appartengano o no allo stesso gruppo diventa il criterio determinante della valutazione, e in alcuni casi anche di una valutazione avente effetti giuridici. L'appartenenza dell'altro allo stesso gruppo del valutante è allora per lo più (ma non sempre) motivo di una valutazione positiva, e viceversa. Non ha importanza a tal fine che si tratti di un gruppo organizzato o semplicemente di una suddivisione umana definita da certi caratteri differenzianti: il singolo individuo dà spesso la preferenza ai consanguinei, ai membri della propria stirpe, ai connazionali, ai correligionari ma anche agli appartenenti alla propria razza e in alcuni casi alle persone del proprio sesso per il solo fatto che sono, come suol dirsi, ‛dei nostri' anziché ‛estranei'. Nei casi estremi, certi individui sono visti come membri di un popolo eletto da Dio sopra tutti gli altri, oppure il proprio popolo e gli altri vengono messi a priori in un rapporto di amicizia o di ostilità per cui i singoli individui sono considerati senz'altro come amici se appartengono al proprio popolo e come nemici se appartengono agli altri. Anche il riferire le prestazioni fisiche di un individuo al popolo o allo Stato a cui appartiene - idea che è alla base dei giochi olimpici - costituisce un caso estremo di questo modo di concepire l'individuo.

Tuttavia, non sempre gli individui sono consapevoli della propria oggettiva appartenenza a un gruppo umano, organizzato o no; e ancor meno tale consapevolezza implica necessariamente un interesse alla conservazione o al rafforzamento dello status del gruppo stesso rispetto ad altri gruppi, anche se per molti, ad esempio, l'idea di ‛coscienza nazionale' comporta fra l'altro questa conseguenza. La valutazione positiva dell'appartenenza al proprio gruppo da parte dell'individuo deriva non di rado dalla semplice suggestione esercitata dall'altrui valutazione positiva: spesso l'individuo ha il timore angoscioso di non condividere la coscienza di gruppo di chi lo circonda. L'individuo umano, però, è anche in grado di imparare a verificare se queste appartenenze risultino per lui - in quanto singolo - vantaggiose o nocive; la ‛coscienza di gruppo' priva di fondamento razionale, con le conseguenze che ne derivano, può infatti essere allora sostituita da una valutazione utilitaristica.

D'altra parte, non sempre l'assegnazione degli individui a un gruppo umano è fondata su qualità preesistenti: talvolta la mente dell'uomo crea essa stessa contrassegni d'appartenenza del tutto arbitrari. Se tra ventidue persone si formano mediante sorteggio due squadre col fine concordato di disputare una partita di calcio, ciò è sufficiente perché in ogni singolo individuo assegnato a una delle squadre nasca un interesse per la vittoria della ‛propria' squadra, e quindi per un idoneo comportamento di gioco dei propri compagni.

d) Valutazione dell'essere umano in base alla sua utilità per la realizzazione degli interessi del soggetto valutante

Quando, nel valutare l'altro, non si veda semplicemente in lui un proprio simile, né si ricorra al criterio ‛arcaico' della sua appartenenza o non appartenenza allo stesso gruppo del valutante, l'attenzione si sposta sulle qualità da lui eventualmente possedute e che occorrerà determinare anche da un punto di vista quantitativo: si valuta allora l'altro individuo in base all'utilità o al danno che, con tali qualità, egli può arrecare alla realizzazione di un interesse proprio del valutante, e in base alla maggiore o minore utilità (o danno) rispetto a ciò che il valutante può aspettarsi da altri individui dotati di qualità analoghe. Ad esempio, il proprietario di beni coi quali è possibile produrre altri beni mediante lavoro umano è interessato ad altri uomini idonei e disposti a compiere tale lavoro, nonché alla possibilità di accordarsi, alle condizioni relativamente più favorevoli, coi lavoratori relativamente più capaci e volenterosi.
Il bambino interessato a che il genitore rimasto vedovo trovi un nuovo coniuge ‛adatto', il committente di un prodotto interessato a che l'imprenditore trovi e utilizzi buoni operai, il singolo cittadino interessato a che i suoi connazionali eleggano i migliori capi politici, sono tutti esempi di un possibile interesse individuale all'attuazione di scelte positive da parte di altri individui.

e) Valutazione degli individui in base al bene comune

Nella sua forma più sofisticata, il modo di concepire gli altri individui ora descritto consisterebbe nell'esaminare ogni altro individuo, sulla scorta di tutte le sue qualità, allo scopo di accertarne l'utilità diretta o indiretta rispetto al complesso di tutti gli interessi propri del valutante: in tal modo ciascun individuo verrebbe considerato e valutato, nella sua unicità, accanto a tutti gli altri. Molte religioni attribuiscono a un dio personale una simile valutazione di tutti gli individui, ma è ovvio che per l'uomo singolo essa risulta praticamente irrealizzabile. Nella maggior parte delle società umane, l'Eros operante nelle relazioni interumane porta invece a preferenze non razionalmente fondate, e quindi arbitrarie, per determinati individui rispetto a tutti gli altri.

Questi modi così diversi di considerare e valutare l'individuo, e in particolare l'‛altro' individuo, si riflettono soprattutto nel diritto, e cioè nel tentativo di dirigere il comportamento umano - mediante l'emanazione di norme astratte e la minaccia di sanzioni - verso beni giuridici in modo rispondente agli interessi di coloro che si adoperano per l'attuazione delle norme giuridiche stesse. Nel diritto prodotto dagli uomini si pone spesso l'esigenza che il legislatore valuti ogni individuo in base all'utilità del suo comportamento nei riguardi di ciò che costituisce il ‛bene comune'. A questo proposito, è di fondamentale importanza lo stabilire se, nel tentativo d'identificare il bene comune di una pluralità d'individui, come criterio di valutazione del comportamento - ed eventualmente della stessa esistenza del singolo - si debbano mettere in conto i soli interessi effettivamente esistenti (o supposti allo stato latente) di tutti gli individui in questione, o se invece si debba considerare, come ulteriore o addirittura come unico fattore per il conseguimento di ciò che deve valere come bene comune di un gruppo umano, anche lo status del gruppo in quanto tale rispetto agli altri gruppi. Come già si è accennato, le ideologie ‛nazionali' (völkisch) tendono a identificare il bene comune di una pluralità d'individui, soprattutto se organizzata in uno Stato, con la preminenza dello Stato nella sua totalità rispetto agli altri; invece in una concezione ‛umanistica' o ‛individualistica', orientata cioè a considerare gli uomini come individui, il gruppo umano - organizzato o no - è oggetto, in quanto gruppo, di una valutazione positiva solo se la sua esistenza e il suo funzionamento giovano agli interessi sentiti come propri dagli individui appartenenti al gruppo, ovvero se questi ultimi sentono essi stessi un interesse ‛morale' per la preminenza del proprio gruppo.

Secondo questa concezione del bene comune, la salvaguardia dell'esistenza e del potere di uno Stato al quale i cittadini appartengano contro la propria volontà e il cui perpetuarsi sia dannoso per gli interessi individuali della maggioranza di essi, non può essere considerata come un fattore determinante nel calcolo del bene comune. Ciò nonostante trovano sostenitori, soprattutto tra coloro che hanno personalmente interesse a continuare ad agire come organi di uno Stato siffatto, le ideologie secondo cui una ‛rinuncia volontaria' dello Stato non può essere compito dei suoi legislatori. Analoghe concezioni circa un diritto autonomo all'esistenza da parte di associazioni e istituzioni, in contrasto con gli effettivi interessi personali degli individui interessati, vengono sostenute anche a proposito di Chiese, forme statali democratiche, ecc.; tali concezioni non possono che essere rifiutate da chi consideri il bene comune da un punto di vista individualistico.

Connessa con quanto si è detto è la questione se, nella determinazione del bene comune, le eventuali concezioni erronee degli individui associati circa i mezzi atti a realizzare i propri interessi (supposti in armonia tra loro) possano essere ignorate dal legislatore che sia convinto della loro erroneità. In altri termini, si tratta di stabilire se il ‛diritto di autodeterminazione' degli individui giuridicamente associati al fine di realizzare i propri interessi includa anche il diritto di seguire strade sbagliate, e se l'interesse degli associati a seguire strade sbagliate possa essere assunto come elemento nella determinazione del bene comune. Un modo errato di attuare gli interessi ultimi, tra loro in armonia, di una pluralità d'individui potrebbe consistere ad esempio nel rifiuto di una determinata istituzione collettiva da parte dei singoli. L'espediente pragmatistico secondo cui l'opinione dei pochi circa la strada giusta per l'attuazione degli interessi comuni dovrebbe sempre cedere di fronte all'opinione della maggioranza non tiene conto soprattutto del fatto, largamente riconosciuto, che nella società odierna alcuni individui, grazie a qualificazioni personali fondate sulla ricerca scientifica, sono meglio informati di altri circa le vie da seguire per realizzare quegli interessi. È singolare che proprio i sistemi di governo che fondano la propria legittimità su una base razionale non abbiano trovato il modo di far sì che, nella promozione del bene comune, la parola decisiva spetti all'opinione, libera da influssi, degli individui scientificamente qualificati. Tuttavia, anche se le decisioni sulle vie da seguire per realizzare gli interessi comuni degli individui associati fossero riservate unicamente agli scienziati competenti, in una visione individualistica del bene comune l'obiettivo finale sarebbe pur sempre costituito dai concordi interessi degli individui alla propria ‛felicità terrena', interessi che non sarebbe possibile liquidare come ‛non scientifici'.

Pertanto, quali che siano gli individui da annoverare nella pluralità il cui bene comune costituisce il punto di riferimento nella produzione del diritto o in altre attività statali, ciò che conta sono sempre gli interessi realmente presenti nei singoli. Ora, questi interessi possono essere molto diversi tra loro: ad esempio, un individuo può desiderare che il bene comune venga determinato unicamente per il complesso dei cittadini del proprio Stato, mentre un altro può sentire come oggetto del suo interesse morale il bene comune dell'umanità intera e pretendere che il legislatore ne tenga conto. Un simile dissidio si manifesta oggi quando vi siano da prendere decisioni di politica economica internazionale che riguardino i cittadini dei paesi ‛ricchi' e di quelli ‛poveri'.
Difficoltà assai gravi presenta per i filosofi del diritto il problema d'identificare il bene comune nel caso che la maggioranza dei membri di una comunità giuridicamente organizzata persegua la realizzazione dei propri interessi a scapito di quelli della minoranza, posto che non vi sia in effetti altro modo per realizzare gli interessi della maggioranza. In tal caso si ripiega per lo più su una soluzione di compromesso: a certi interessi della minoranza - garantiti da quei diritti dell'uomo che ci riserviamo di trattare più a fondo qui appresso - viene attribuito nella determinazione del bene comune un peso così forte da far sì che essi non possano essere sopraffatti (a meno di casi eccezionali) dai contrapposti interessi della maggioranza. Che poi gli stessi diritti dell'uomo spettino anche ai membri della maggioranza è cosa ovvia.


3. I diritti dell'uomo come mezzo per garantire la coesistenza degli individui

a) Individuo e diritto.

Indipendentemente dal fatto che si consideri il bene comune da un punto di vista individualistico o collettivistico, o che addirittura si prescinda completamente da esso, ogni norma giuridica di comportamento nasce dal fatto che il singolo individuo ha certi interessi; che si sforza di realizzarli nello ‛sviluppo della propria personalità'; che di fronte ai suoi interessi tra loro divergenti egli tende a conseguire, mediante compromessi, la massima soddisfazione possibile; e infine dal fatto che egli si sente toccato nei suoi interessi dalle norme giuridiche e può vedere in un comportamento conforme a esse il modo relativamente più vantaggioso per realizzarli. Un comportamento del tutto sciolto da regole da parte di individui non completamente isolati tra loro ha come risultato che i tentativi del singolo di attuare i propri interessi si traducano troppo spesso in un ostacolo allo ‛sviluppo della personalità' altrui, mentre una disciplina giuridica del comportamento rappresenta in primo luogo un mezzo per garantire la coesistenza degli individui. La protezione di un minimo di sviluppo individuale per tutti dagli impedimenti frapposti da altri è ottenuta mediante quei principi giuridici che, nel diritto pubblico come in quello internazionale, sono alla base dei cosiddettti diritti umani dell'individuo. Fra tali diritti assumono particolare importanza non soltanto quelli destinati a impedire le violazioni dei ‛diritti fondamentali' dell'individuo da parte di organi pubblici (compreso il legislatore stesso), ma anche quei diritti umani soggettivi che trovano il loro riflesso o la loro attuazione in obblighi di comportamento a carico di tutti gli altri individui. A ciò è associata peraltro l'idea che esistono certi doveri umani elementari dell'individuo verso la totalità degli altri individui, doveri cui però non corrisponde, negli ‛altri' in quanto singoli, un diritto rivendicabile in giudizio. Se poi la pretesa violazione di un diritto umano debba essere denunciata dall'individuo che si ritiene danneggiato mediante un normale procedimento giudiziario dinanzi al giudice competente, o se invece ciò debba avvenire con una particolare procedura dinanzi a tribunali speciali, è una questione di elaborazione tecnica del diritto positivo sulla quale non insisteremo oltre.

In numerose carte costituzionali si trovano, accanto a diritti fondamentali dell'individuo rivendicabili giudizialmente, direttive programmatiche per l'elaborazione delle leggi, la cui violazione non può dare origine a rivendicazioni di singoli, anche se tali direttive si presentano come disposizioni per la salvaguardia di certi diritti fondamentali o umani dell'individuo. Ai fini delle applicazioni pratiche è importante esaminare, accanto al complesso di diritti fondamentali o diritti dell'uomo attualmente recepiti nel diritto positivo, alcune questioni: se cioè in certi casi questi diritti, nel loro attuarsi, non vengano a essere in contrasto reciproco, se nella comune opinione giuridica non esistano, allo stato latente, altri diritti dell'uomo oltre a quelli già codificati, e infine se non sia necessario, per garantire nelle attuali condizioni la coesistenza degli individui, integrare con altri diritti dell'uomo quelli fondamentali già riconosciuti dal diritto positivo.

b) Il diritto alla vita

Il primo e più importante diritto di ogni individuo umano venuto alla luce è il diritto alla vita, ossia a proseguire senza impedimenti la propria esistenza fino alla morte naturale. Nell'ordinamento giuridico questo diritto viene tutelato innanzi tutto mediante il divieto (in condizioni normali, salve cioè alcune eccezioni) dell'omicidio sia volontario che colposo. Tale divieto si rivolge, oltre che ai privati, anche agli organi pubblici; è previsto inoltre che questi ultimi intervengano immediatamente contro ogni tentativo di violare il divieto stesso. Il diritto alla vita si traduce in primo luogo in un impegno programmatico del legislatore a elaborare provvedimenti di legge per proteggere la vita dalle azioni nocive di altri; per lungo tempo è rimasto peraltro ignorato il fatto che tale diritto implica anche un impegno programmatico da parte dello Stato a prendere provvedimenti per evitare le perdite di vite umane provocate da eventi naturali (per es., epidemie), fronteggiabili solo mediante un'azione collettiva.

Anche nelle società organizzate statualmente che praticavano la schiavitù era spesso vietata l'uccisione arbitraria dello schiavo da parte del padrone, in quanto anche lo schiavo era ‛un essere umano'. Con maggiore difficoltà s'è affermata nella storia l'idea che l'ordinamento giuridico di un determinato gruppo umano debba proteggere dall'uccisione arbitraria lo ‛straniero' con la stessa forza con cui protegge i propri membri; comunque anche le comunità fondate su una fede religiosa avente la pretesa esclusiva alla verità hanno riconosciuto il diritto del ‛miscredente' di veder tutelata - in particolare nei confronti del ‛credente' - la propria vita, anche se in un primo tempo a ciò non ha corrisposto un egual trattamento del miscredente per quanto riguarda altri diritti dell'uomo.

Il divieto dell'omicidio volontario si presenta come riflesso di un diritto dell'uomo specialmente là dove sia legalmente ammessa l'uccisione di esseri viventi diversi dall'uomo. È singolare che solo presso qualche religione (ad es. nel jainismo) i dubbi circa la legittimità di limitare il divieto d'uccidere all'omicidio abbiano portato a estendere tale divieto agli animali in cui sia evidente una volontà istintiva di difendere la propria vita.

Le società che ammettono l'uccisione di animali si limitano a proibire la crudeltà e a vietare lo sterminio di specie rare, sempreché vi sia un certo numero di persone autorevoli a ciò interessate per ragioni morali o utilitarie. Anche la conservazione della specie umana, nel suo complesso o in una determinata sottospecie, può essere oggetto di un interesse umano, eventualmente sostenuto dalla legislazione; in ogni caso, ovviamente, il diritto che ciascun individuo ha di vivere indisturbato agisce indirettamente a favore della protezione dell'intera specie. Solo in seguito agli avvenimenti della storia più recente il divieto di uccidere volontariamente altri individui è stato rafforzato nel caso che l'intenzione omicida si riferisca a tutti gli appartenenti a un dato ‛popolo' (divieto del ‛genocidio' sancito dalla Convenzione del 9 dicembre 1948; v. genocidio).

La proibizione dell'omicidio volontario ha trovato per lungo tempo un'eccezione nella pena di morte inflitta per la trasgressione di determinate norme giuridiche: pena che, a differenza di altre, non è certamente rivolta alla correzione del colpevole. Altrettanto importante è l'eccezione costituita dall'ammissibilità dell'uccisione di individui ‛nemici' nel corso di una guerra regolare tra gruppi umani legittimati a combattere. A ciò si aggiunge, in quasi tutti gli ordinamenti giuridici, il diritto di uccidere per difendere da un'aggressione illecita una vita umana o anche altri beni giuridici; tale diritto, richiamandosi allo stato di necessità derivante da un pericolo di vita per sé o per i propri congiunti, viene talvolta ammesso anche in circostanze diverse da un'aggressione da parte dell'ucciso.

Dappertutto è caduto in desuetudine il ‛diritto' - fondato su una concezione magica del mondo - all'omicidio connesso col cannibalismo o con sacrifici religiosi, ‛giustificati' non di rado in passato col perseguimento del bene comune. Solo in qualche ordinamento penale è ammessa la possibilità di legittimare con lo stato di necessità l'omicidio volontario diretto a salvare chi uccide o una terza persona - la cui vita venga giudicata, in base a una ponderazione di valori, più preziosa di quella dell'ucciso - da un pericolo mortale ‛non' causato dall'uccisore. È discutibile poi se e in quali circostanze sia lecito predisporre intenzionalmente pericoli letali allo scopo d'identificare o fermare l'autore di un atto illecito o d'impedire aggressioni contro beni giuridici diversi dalla vita di terzi. Ad esempio, alcuni ordinamenti considerano punibile (specialmente in caso di ‛successo') l'installazione di congegni automatici da sparo contro ladri o altri intrusi, quando non ne venga segnalata l'esistenza e talvolta anche quando tale segnalazione sussista. È da notare che nelle convenzioni sui diritti dell'uomo non viene stabilito espressamente se il diritto alla vita sia violato o no da analoghi dispositivi destinati a impedire l'espatrio clandestino: le posizioni assunte in proposito dai vari Stati sono tra loro discordi.

L'omicidio volontario viene oggi considerato dappertutto come lecito quando esso rappresenti l'unico mezzo disponibile per respingere un'aggressione illecita alla vita altrui. Quest'azione di legittima difesa è ammessa anche nei confronti di chi sia incapace d'intendere e volere, così come non è punibile l'omicidio risultante da una legittima difesa putativa. Per contro, in molti paesi la pena di morte viene oggi rifiutata, anche nel caso di omicidio, come un tipo di punizione indegno dell'uomo.

Analogamente, nel moderno diritto internazionale una condotta militare implicante l'uccisione di uomini è considerata lecita solo se rappresenta la difesa da una guerra d'attacco; a tale proposito spesso si richiede che la guerra difensiva sia diretta soltanto a impedire ulteriori aggressioni ed eventualmente a ristabilire lo status quo. È discussa la liceità di un inizio preventivo delle operazioni belliche in seguito a semplici preparativi d'aggressione messi in atto dalla controparte, come pure la liceità di una guerra originata da violazioni del diritto internazionale i cui effetti su un determinato Stato siano assimilabili a quelli di un attacco armato. È ugualmente dubbio se il divieto di far ricorso per primi alla forza delle armi debba considerarsi sospeso allorché in uno Stato non sia più garantito il di- ritto umano alla vita. Il diritto ‛umano' del singolo alla vita vige anche in caso di guerra, nel senso che l'uso intenzionale della forza contro la vita dei non combattenti, dei combattenti disarmati e di quelli disposti ad arrendersi è vietato dalle prescrizioni ‛umanitarie' del diritto internazionale di guerra. Il divieto di arrecare al nemico - col pretesto che si tratta di conseguenze inevitabili di atti bellici - perdite di vite umane militarmente ‛superflue' deriva non tanto dalla volontà di tutelare gli individui interessati quanto dal divieto, che ricade, come caso particolare, nel divieto di genocidio, di condurre una guerra di sterminio contro la nazione nemica.

La disciplina legislativa del diritto umano alla vita incontra alcune difficoltà nel caso in cui, di fronte a una vita umana in pericolo, chi ne abbia la possibilità ometta di prestare soccorso. L'obbligo di aiutare chi versi in imminente pericolo di vita in seguito a incidenti o a eventi naturali, come pure per atti illeciti di terzi, viene in genere imposto a chi esercita determinate attività (medici, agenti di polizia, ecc.). Alcuni ordinamenti, peraltro, considerano punibile chiunque ometta di salvare un altro individuo da un imminente pericolo di vita, quando ciò sia possibile senza compromettere importanti beni giuridici del soccorritore (cfr. il È 330 c del Codice penale della Repubblica Federale Tedesca).

La maggior parte degli ordinamenti giuridici obbligano inoltre genitori, figli e talvolta anche altri consanguinei, nonché i coniugi, a fornire il necessario ed eventualmente a prestare assistenza personale al congiunto che non sia in grado di sostentarsi con le proprie forze. È singolare il fatto che in molte elencazioni di diritti fondamentali non sia espressamente menzionato il diritto umano a un analogo aiuto da parte dello Stato, sia pure come semplice intervento sussidiario; e ciò anche nei paesi in cui in effetti questo soccorso statale viene di regola prestato, in particolare nei casi di estrema indigenza. In alcune costituzioni, ad esempio in quella italiana, il diritto dell'ammalato privo di mezzi a essere assistito a spese dello Stato vien fatto derivare da un diritto fondamentale dell'individuo e dall'interesse della collettività alla salute di tutti. La mancanza di un accordo internazionale in proposito non consente peraltro d'ipotizzare l'esistenza di un obbligo giuridico degli Stati di soccorrere gli abitanti di un altro paese colpito da carestia o da analoghe calamità. Nel caso delle costituzioni che prevedono un diritto fondamentale al lavoro, a esso deve intendersi associato, anche in mancanza di un'esplicita disposizione, il diritto di chi è privo di mezzi - in quanto sia inabile al lavoro ovvero, pur essendo abile e volenteroso, non riesca a trovare lavoro - all'assistenza statale (cfr. l'art. 38 della Costituzione italiana). Un'altra specie d'integrazione del diritto umano alla ‛vita mediante il lavoro' consiste nella norma, prevista da numerosi ordinamenti giuridici, per cui al lavoratore dipendente a tempo pieno dev'essere corrisposto un salario minimo sufficiente al sostentamento.

Si discute tuttora se, accanto al diritto umano alla conservazione della vita, vi sia anche quello di anticipare volontariamente la propria morte. Mentre è scomparsa quasi dappertutto la punibilità del tentato suicidio contemplata nei vecchi codici penali, l'omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio sono considerati tuttora punibili; d'altra parte, sembra che negli ultimi tempi si vada affermando l'opinione che gli atti rivolti a prolungare, contro il volere espresso o presunto dell'interessato, una vita che sta ormai per spegnersi non siano ammissibili e in ogni caso non facciano parte dei doveri professionali del medico.

Per lungo tempo, il problema di definire quali comportamenti umani debbano essere vietati dal legislatore in quanto provocano colposamente un'abbreviazione della vita altrui non è stato visto sotto l'aspetto del diritto dell'individuo alla vita. I pericoli per l'uomo creati dalla tecnica moderna e la riduzione della durata media della vita dovuta ad altre conseguenze della civiltà contemporanea sono stati accettati in larga misura in quanto ritenuti ‛compatibili con l'interesse sociale': si è argomentato cioè che nel conseguimento del bene comune vada accettata come inevitabile la possibilità di un abbreviamento della vita di singoli individui, scelti dal caso: la giustificazione sarebbe data dal concorde interesse di tutti gli altri o anche soltanto della grande maggioranza. Solo negli ultimi tempi si è affermata, come corollario del diritto dell'individuo alla vita, l'esigenza di un più rigoroso controllo dello Stato sui pericoli letali a cui un gran numero di persone è esposto in caso di ‛incidenti', per esempio nelle centrali nucleari.

c) Il diritto a un trattamento umano e a un'esistenza dignitosa

Una volta affermato il diritto dell'individuo di essere aiutato a sopravvivere, è comprensibile che specialmente chi si richiama a tale diritto non veda in esso un puro e semplice diritto alla vita, bensì il diritto di condurre un'esistenza ‛degna dell'uomo'. Stranamente, nelle elencazioni di diritti fondamentali previsti dalle leggi questo diritto di vedersi assicurato un livello minimo del tenore di vita e d'istruzione passa in secondo piano rispetto ai numerosi diritti di libertà nei confronti di interventi statali lesivi della dignità umana. Tali diritti comprendono in particolare il diritto di circolare liberamente in ogni parte del territorio statale aperto alla generalità dei cittadini, il diritto all'integrità fisica (salvo il consenso dell'interessato), il diritto di formarsi un'opinione indipendente e di esprimerla liberamente, il diritto di costituire una famiglia, ecc. Tuttavia accade spesso che, attraverso leggi generali, parecchie di queste libertà siano esposte a violazione da parte sia della pubblica amministrazione che del legislatore. In altri casi, i vari aspetti che questi diritti fondamentali presentano sono trattati, nella pratica, in modo differente: ad esempio, il diritto del singolo di non essere costretto ad abbandonare il luogo di residenza è stato violato su larghissima scala negli scorsi decenni, nonostante che il diritto alla libera scelta della residenza comprenda, oltre al diritto di trasferirsi, anche il ‛diritto al proprio luogo natio'.

Specialmente nei paesi economicamente sviluppati dell'Occidente, si fa consistere la dignità dell'esistenza individuale nel godimento del maggior numero possibile di questi diritti di libertà. In tali paesi, spesso l'unico sforzo compiuto dallo Stato per rendere operante il diritto a un tenore di vita dignitoso consiste nel vietare ai datori di lavoro l'impiego di lavoratori (anche se consenzienti) in condizioni lesive della dignità umana, oppure nel vietare ai proprietari di case di affittare alloggi il cui stato offenda la dignità degli inquilini. D'altra parte, l'impostazione da parte del legislatore di una politica economica tendente ad accrescere il reddito nazionale in misura tale da garantire a ogni cittadino un livello minimo di vita non può certo essere oggetto di una pretesa rivendicabile dai singoli in giudizio; così pure il diritto umano a un livello minimo d'istruzione riesce raramente a concretarsi nell'istituzione di scuole pubbliche nelle zone in cui esse manchino.

Come abbiamo visto, l'idea che il diritto umano a un'esistenza dignitosa comprenda anche il diritto alla garanzia di un livello minimo di vita è passata in secondo piano rispetto alla rivendicazione dei ‛diritti di libertà'; ciò ha avuto come consegnenza l'offuscamento di un'altra rivendicazione potenziale nel campo dei diritti dell'uomo, e cioè la presumibile esigenza di non venire al mondo senza un minimo di opportunità di condurre un'esistenza dignitosa. A una pianificazione demografica statale che reagisca al pericolo della sovrappopolazione favorendo la contraccezione ed eventualmente l'aborto volontario spesso si contrappone ancora l'affermazione di un diritto umano alla piena ‛libertà' di procreazione.

Ma non appena, in un futuro più o meno vicino, il diritto a un dignitoso tenore minimo di vita verrà a essere minacciato e i provvedimenti di politica demografica diventeranno inevitabili, non si potrà più eludere la questione se quei provvedimenti debbano tendere a garantire al massimo numero possibile di persone un tenore minimo di vita o se invece si debba cercare di ottimizzare sia il numero degli abitanti che la composizione della popolazione in funzione di un tenore di vita che sia il più elevato possibile. Poiché questa problematica è divenuta d'attualità solo negli ultimi tempi, senza che la maggior parte degli individui ne abbia preso ancora coscienza, non s'è ancora potuta formare un'opinione prevalente al riguardo.

Un'analoga arretratezza si può constatare del resto a proposito di un diritto dell'individuo che pure è sancito come fondamentale dalla maggior parte delle costituzioni, e cioè del diritto di formarsi liberamente un'opinione. In effetti, quanto più viene assicurata agli individui la possibilità di mantenere un tenore di vita minimo, tanto più diventa forte nei singoli la tendenza - quando occorra opporsi agli sforzi compiuti da altri per realizzare i loro interessi, che siano in contrasto con i propri - a ricorrere a mezzi ‛diversi' dai tentativi di pregiudicare la vita e la libertà di movimento altrui. In tal caso si cercherà soprattutto di modificare, mediante l'imposizione di opinioni, il contenuto degli interessi che gli altri individui avvertono come propri. Si pone allora il problema di un ulteriore diritto dell'individuo, consistente nella libertà di sottrarsi a simili pressioni, ed eventualmente il problema di un diritto del singolo di essere aiutato a valutare criticamente quei tentativi d'influenzarlo. Per lo più l'idea di questi diritti dell'uomo rimane oggi soffocata dall'importanza attribuita all'universale diritto alla libertà non solo di esprimere la propria opinione, ma d'influenzare mediante tale espressione l'opinione altrui. Ciò nonostante da questo diritto, pur chiaramente subordinato, dell'individuo di non vedersi trasformato in uomo-massa da una propaganda non richiesta si è potuta già trarre la conseguenza che non è lecito sottoporre contro la loro volontà gli utenti dei mezzi pubblici di trasporto all'invadenza della pubblicità radiofonica. Di difficile realizzazione appare anche il proposito di tutelare l'individuo dai tentativi indesiderati d'influenzarlo compiuti nell'ambito di istituzioni semipubbliche o durante il lavoro.

Ci si può chiedere poi se non si debba ammettere, accanto agli altri, un diritto dell'individuo di non essere disorientato da informazioni false nella formazione delle proprie opinioni. Accanto a quest'aspetto difensivo del diritto umano alla verità occorre peraltro considerare, come corollario dello stesso diritto, un obbligo programmatico, a carico dello Stato, di favorire la ricerca scientifica e di diffondere fra tutti gli interessati le conoscenze così acquisite. Per ora, anche questo diritto umano rimane in subordine rispetto al diritto ‛fondamentale' del singolo di non incontrare ostacoli nel diffondere le proprie opinioni con lo scopo d'influenzare l'opinione altrui.

Mentre sono ancora largamente diffuse le concezioni che negano alla donna il diritto di decidere se continuare o interrompere la gravidanza, al dovere dei genitori di allevare il bambino fino a quando abbia raggiunto l'autonomia viene per lo più associato un loro diritto - recepito talvolta nella costituzione come diritto fondamentale - d'influenzare unilateralmente la formazione delle opinioni del figlio e la sua visione del mondo. D'altra parte, l'obbligo di frequentare le scuole pubbliche spesso non è diretto a correggere mediante un'informazione pluralistica l'influsso unilaterale dei genitori, ma viene strumentalizzato dai partiti e dalle organizzazioni dominanti, che si avvalgono della loro posizione di datori di lavoro degli insegnanti per esercitare influssi altrettanto unilaterali. È anche raro che di fronte al diritto dei genitori di decidere circa l'educazione del figlio riesca ad affermarsi un diritto di quest'ultimo a una formazione il più possibile adeguata alle sue doti individuali.

Dal diritto dell'individuo di veder tutelata la libera formazione delle proprie opinioni viene oggi tratta in alcuni paesi la conseguenza che i mass media pubblici come la stampa, la radio e la televisione non devono essere sfruttati da monopoli - di diritto o di fatto - per esercitare influssi unilaterali. Da parte loro, i dittatori che in vari paesi sono stati innalzati al potere dagli ‛uomini-massa' si sforzano di modellare l'opinione di tutti i sudditi su quella di coloro da cui dipende la conservazione di tale potere; ma anche nelle ‛libere' democrazie i governanti considerano il proprio diritto d'influire unilateralmente sulla formazione dell'opinione degli adulti come preminente rispetto al diritto a un'informazione pluralistica che consenta la ‛libera' formazione di opinioni individuali.

Idee alquanto vaghe si hanno sulla possibilità di dedurre dal diritto a un trattamento umano del singolo l'inammissibilità di certe forme ‛inumane' di rapporti interpersonali e la conseguente necessità di reprimerle. Ci si riferisce qui a forme d'‛inumanità' nelle punizioni, nella condotta della guerra (non condannata a priori), nei trattamenti medici, ma anche nel comportamento verso gli animali e verso l'ambiente naturale. Le valutazioni di questo genere sono esposte alle continue modificazioni dell'opinione pubblica; il tentativo di tradurre il diritto a un trattamento umano in un diritto fondamentale, rivendicabile in giudizio, alla repressione dell'inumanità (si pensi ad esempio alle proteste popolari contro le costruzioni che compromettono l'ambiente) obbliga di solito i giudici competenti ad adeguare di volta in volta il loro giudizio alle tendenze in atto nell'opinione pubblica.

d) Il diritto alla sfera privata

Forse mai nella storia dell'umanità ha avuto significato pratico la questione se l'individuo possa rivendicare come un diritto umano irrecusabile il diritto di condurre un'esistenza da eremita, ossia libera da qualsiasi contatto con gli altri uomini. Ma nella società moderna uno dei diritti umani più importanti è quello dell'individuo di decidere egli stesso, in un determinato ambito, se stabilire o no rapporti con altri e, in caso affermativo, quale forma dare, d'intesa con gli interessati, a questi rapporti. Al diritto, già da lungo tempo riconosciuto all'individuo, di pensare da sé e di non dover rendere conto ad alcuno circa i risultati delle proprie riflessioni (in particolare, circa le proprie ‛opinioni' e la propria ‛coscienza') s'è affiancato negli ultimi tempi il diritto dell'individuo alla segretezza e alla libera determinazione della propria ‛vita privata'.

Tuttavia, accade spesso che sia insufficientemente garantito il diritto di tenere segreti i propri pensieri di fronte alle sollecitazioni provenienti dagli organi pubblici o da altri organi. Supposto che vi siano persone sospettate di abusare della posizione occupata nell'apparato statale per svolgere attività illegali (in particolare, attività lesive dei diritti fondamentali), e che agli organi pubblici competenti spetti l'obbligo d'impedire l'attuazione di questi abusi, non è facile decidere se sia lecito richiedere a queste persone sospette non solo di manifestare il proprio atteggiamento interiore ma anche, eventualmente, di provare l'attendibilità delle proprie dichiarazioni.

Mentre in molte costituzioni la volontaria manifestazione del proprio atteggiamento interiore - specialmente allo scopo d'influenzare l'opinione altrui - si configura come un diritto fondamentale, rimane in gran parte non chiarito in che modo si possa garantire un ‛diritto fondamentale di non rivelare' la propria opinione quando si sia sollecitati a farlo dalla manifestazione dell'opinione altrui, o quando taluno faccia dipendere la propria libera decisione di avere o no rapporti con altri dal fatto che questi ultimi esprimano la loro intima opinione.

Del resto anche il diritto alla libera determinazione della propria sfera privata (o ‛intima') ha dei limiti: nell'ambito della sfera privata i rapporti consensuali pericolosi per la vita o per la salute non possono andare molto più in là dei corrispondenti rapporti in pubblico (ad esempio nello sport), mentre per quanto riguarda certi rapporti sessuali volontari attuati nella sfera intima la punibilità che un tempo trovava così spesso applicazione oggi è diventata per lo più inoperante. I perduranti impedimenti al matrimonio non sono però considerati incompatibili con il diritto umano di contrarre liberamente matrimonio, né sono caduti i corrispondenti divieti delle relazioni sessuali - anche se consensuali - al difuori del matrimonio. Non è nemmeno accettata la possibilità di ridursi, con l'uso di droghe o anche solo con un modo di vivere evidentemente nocivo alla salute, in condizioni tali da dover far valere il proprio diritto all'assistenza altrui per mantenersi in vita: le implicazioni pratiche di ciò sono ancora oggetto di discussione.
Un importante complemento del diritto umano alla libertà di rapporti con gli altri nella sfera privata è costituito poi dal diritto di non essere obbligati a tali rapporti né con mezzi legali né con pressioni d'altro genere. Ne deriva, come nel caso del diritto alla vita, l'inammissibilità sia della costituzione di obblighi giuridici che impongano tali rapporti contro la volontà degli interessati, sia della costrizione, per esempio al matrimonio, da parte di privati (cfr. in proposito la Convenzione del 10 dicembre 1962); ne consegue inoltre la penalizzazione dell'uso della forza nella sfera privata e dell'istigazione a tale uso.

e) I diritti dell'uomo nei rapporti sociali esterni alla sfera privata

Una volta che all'individuo siano stati assicurati, come diritti dell'uomo, un tenore minimo di vita, un minimo di diritti di libertà e l'inviolabilità della sfera privata, il fatto che nello Stato di diritto esista un ‛generale diritto di libertà' implica che i tentativi dei singoli di realizzare i propri interessi possano provocare, in mancanza di una disciplina giuridica del comportamento, conflitti di vario genere. La libertà goduta dal singolo gli consente di adottare un comportamento idoneo alla realizzazione degli interessi degli altri individui nella misura in cui costoro contribuiscano col proprio comportamento alla realizzazione dei suoi propri interessi; in tal modo, nello Stato di diritto possono essere esercitati tra gli individui pressioni legittime di varia natura. È compito del legislatore, nella sua sollecitudine per il bene comune, mitigare i conflitti tra gli individui e contenere l'esercizio di tali pressioni mediante restrizioni della libertà generale di comportamento. Non vi è quindi nessun diritto umano che metta assolutamente al sicuro l'individuo cittadino di uno Stato da pressioni esercitate da altri; né d'altra parte è riconosciuto all'individuo il diritto di astenersi da ogni rapporto con gli altri per evitare le suddette pressioni, o di pretendere che ogni singolo rapporto debba stabilirsi col pieno e libero consenso di tutti.

Viceversa, viene spesso ipotizzato un dovere dell'individuo di sfruttare nel modo migliore le proprie capacità in un'attività utile al bene comune ed esercitata a contatto con gli altri al difuori della sfera privata, indipendentemente dal fatto che in tal modo l'individuo possa o no soddisfare anche i propri interessi. Ma anche quando tale dovere sia espressamente formulato in alcune carte costituzionali (cfr. ad es. l'art. 4, comma 2, della Costituzione italiana), non può trattarsi di un principio giuridico direttamente applicabile, la cui inosservanza possa considerarsi punibile o comunque accertabile nel corso di un procedimento giudiziario.

Se il suddetto principio fosse coerentemente applicato, verrebbero meno ogni libera scelta della professione o del mestiere e ogni libera scelta dell'altro contraente in un qualsiasi negozio, come pure ogni libertà di decisione riguardo all'esercitare - pur potendo provvedere altrimenti al proprio mantenimento - un lavoro libero o un lavoro dipendente, come anche riguardo all'eventualità e al modo d'impiegare economicamente le proprie sostanze.

La maggior parte dei governanti fuggono la tentazione di imporre dall'esterno a ciascun individuo quest'ipotetico dovere di usare nel modo ottimale le proprie capacità, per il semplice fatto che una simile imposizione presupporrebbe l'esistenza di metodi per determinare le capacità latenti degli individui, metodi di cui allo stato attuale le scienze umane non dispongono ancora. Evitando di tradurre in un obbligo giuridico coercibile il dovere di svolgere un'attività adeguata alle capacità individuali, il legislatore evita anche di affrontare due problemi: in primo luogo, se e in che modo lo Stato debba garantire al singolo la possibilità di un pieno sviluppo e sfruttamento delle sue capacità individuali, e in secondo luogo se e in che modo lo Stato debba assicurare a ciascuno, in cambio delle sue prestazioni socialmente utili, un salario corrispondente, caso per caso, all'utilità di quelle prestazioni per il bene comune.
Al diritto dell'individuo di sviluppare la propria persosonalità entro i limiti delle leggi fa dunque riscontro - data la mancanza di un vero e proprio obbligo giuridico di orientare tale sviluppo in senso ottimale rispetto al bene comune - la libertà di ‛non' sviluppare le proprie capacità; tuttavia ciò non esclude la possibilità d'imporre, mediante norme giuridiche astratte, singoli obblighi di partecipazione attiva. Pertanto il diritto fondamentale dell'individuo - esplicitamente previsto da alcune costituzioni - di non essere adibito a ‛lavori forzati' ammette sempre come eccezione l'eventualità che vengano disposti servizi d'emergenza in caso di necessità sociali o prestazioni obbligatorie ‟nel quadro dei normali doveri civici" (cfr. l'art. 8 del Patto sui diritti politici e civili del 19 dicembre 1966). Il diritto umano, oggi universalmente riconosciuto, di non essere tenuti in ‛schiavitù' significa quindi essenzialmente che non può essere imposto al singolo uno status giuridico in base al quale altri privati possano costringerlo a loro piacimento a prestazioni d'opera.

Posto che all'individuo spetta il diritto alla libertà d'opinione, la libertà di ‛coscienza' in esso inclusa implica che le norme giuridiche statali non possano vietare all'individuo di ‛riconoscere' ad altre norme extragiuridiche un carattere vincolante per il suo comportamento: nella sfera esterna alle norme giuridiche, cioè, gli individui possono sempre farsi guidare, tramite la propria ‛coscienza', da norme etiche o religiose. Si parla anche talvolta di un diritto dell'individuo di non essere costretto dalle norme giuridiche dello Stato a comportarsi in modo ‛contrario alla propria coscienza' ed eventualmente alle proprie convinzioni religiose: ma è un diritto che non viene mai riconosciuto in tutte le sue implicazioni. Alcune costituzioni prevedono, con riferimento al servizio militare armato in tempo di guerra, un diritto fondamentale dell'individuo di non essere obbligato dal legislatore, sotto minaccia di pena, a compiere atti - giuridicamente ammessi - contro la vita o anche solo contro l'integrità fisica di altri uomini, quando ciò risulti inconciliabile con la propria ‛coscienza'. Questo diritto fondamentale andrebbe logicamente esteso ai servizi di polizia e a quelli sanitari: è diventato ad esempio d'attualità il problema se il collaborare a un procurato aborto consentito dalla legge rientri nei doveri d'ufficio del medico dipendente da un ente pubblico. Il vero problema di questo diritto fondamentale di essere esonerato su richiesa dal comportarsi in modo contrario alla propria coscienza consiste da un lato nel fatto che esso implica una sollecitazione a palesare la propria coscienza, e quindi una violazione del diritto umano di mantenerla segreta, e dall'altro nel fatto che non è possibile accertare nei casi singoli la sincerità di un simile appello alla coscienza.

Ancor meno approfondito sembra essere in generale il problema se, una volta escluso un diritto di non partecipare alla vita sociale, non si debba almeno riconoscere un diritto dell'individuo di rimanere esente da coercizioni giuridiche o da pressioni sociali che lo costringano, contro la propria coscienza, a esercitare pressioni su altri o a partecipare ad attività di pressione sociale (sciopero, boicottaggio, ecc.). Anche in questo caso il diritto costituzionale positivo contempla solo alcuni aspetti della questione, come ad esempio la ‛libertà di non associazione', ossia il diritto di non essere costretti a far parte di un sindacato, ecc.; in pratica, neppure questi diritti fondamentali sono sempre pienamente garantiti da pressioni da parte di privati.

Maggior attenzione è stata dedicata a un altro diritto umano, derivante in ultima analisi dalla libertà d'opinione, e cioè al diritto dell'individuo di non essere oggetto di coercizioni giuridiche o di pressioni sociali che lo costringano a partecipare alla diffusione di opinioni o a sostenere finanziariamente attività di tal genere. Sebbene nella maggior parte degli Stati sia assicurato all'individuo il diritto di non essere inserito dallo Stato o da altri, contro la propria volontà, in comunità organizzate su basi religiose o ideologiche, spesso non viene garantita a questo riguardo una piena tutela dalle pressioni private; e probabilmente ciò non potrà accadere finché tra le libertà fondamentali dell'individuo sarà inclusa quella d'informare gli altri circa la propria e l'altrui appartenenza a una data comunità religiosa o ideologica.
Non esiste evidentemente un diritto generale dell'individuo di non entrare contro la propria volontà a far parte di un'organizzazione, quando ciò non tocchi la sua libertà d'opinione e di coscienza. Finché l'umanità sarà divisa in una moltitudine di Stati, si porrà peraltro l'importante questione di un eventuale diritto dell'individuo di appartenere o non appartenere a uno di essi. La disposizione contenuta nell'art. 24 del Patto sui diritti politici e civili, secondo cui ogni nato ha ‛diritto' di acquisire la cittadinanza di uno Stato, rimane tuttora inefficace. A essa si associa un diritto dell'individuo di rinunziare per volontaria dichiarazione a una cittadinanza da lui comunque acquisita, e quindi anche un diritto di emigrare liberamente dallo Stato di cui era cittadino; questo diritto viene però a essere praticamente svuotato quando se ne impedisca l'esercizio con la motivazione che esso potrebbe compromettere la sicurezza dello Stato d'origine (cfr. l'art. 12 del Patto sui diritti politici e civili). Sempre nel caso di rinunzia volontaria alla cittadinanza, è stata fra l'altro sollevata la questione se il diritto all'espatrio sussista solo dopo che lo Stato da cui si emigra sia stato risarcito delle spese sostenute per l'educazione dell'emigrante.

Mentre vengono riconosciuti, in linea di principio, il diritto di rinunziare a una cittadinanza e quello di emigrare, non vi è attualmente nessun diritto umano dell'emigrante di scegliersi liberamente una nuova patria. Pressoché nessuno Stato concede la cittadinanza in base a una semplice dichiarazione spontanea di adesione, ma tutti conferiscono ai propri organi un maggiore o minore potere discrezionale di rifiutare la naturalizzazione. Spesso, anzi, le limitazioni legali poste a tale discrezionalità sono fondate su criteri che possono per altro verso - e cioè dal punto di vista dei diritti dell'uomo - apparire sconcertanti, come ad esempio l'appartenenza a una determinata razza o nazione.
Molto delicato è oggi il problema del diritto all'‛autodeterminazione' in quanto diritto dell'uomo. Da un lato il diritto dell'individuo di rinunziare alla propria cittadinanza è incompleto senza un diritto all'espatrio, e dall'altro esso non è considerato sostanzialmente leso qualora ne discenda un obbligo di espatriare. Dal cosiddetto diritto di autodeterminazione ‛dei popoli' si deduce invece che gli individui che compongono la popolazione di un ‛territorio' dovrebbero poter abbandonare collettivamente la comunità statale a cui appartengono, con la consenguenza che anche il territorio da essi abitato si separerebbe da quello dello Stato in questione. I problemi pratici che quest'aspetto del diritto di autodeterminazione presenta riguardano le modalità di delimitazione dei territori per la popolazione dei quali si chiede l'esercizio del diritto, l'eventuale discriminazione fra antichi residenti e immigrati, e infine la possibilità di costringere a emigrare, in seguito all'esercizio del diritto d'opzione, la minoranza di coloro che sarebbero soddisfatti dallo status quo.

Se il diritto di autodeterminazione non viene concepito come il diritto di una maggioranza che si separa dagli altri, bensì come il diritto dei singoli individui di costituire uno Stato d'accordo con tutti coloro che intendono formare insieme una comunità nazionale, non si potrà negare a questi individui, qualora essi non rappresentino già la maggioranza degli abitanti di un territorio, la disponibilità di un territorio statale. Si è ancora molto lontani dal trovare le modalità pratiche per realizzare un diritto di autodeterminazione siffatto, inteso cioè in senso individualistico. Nei Patti dell'ONU sui diritti umani, le formulazioni con cui viene attribuito ai ‛popoli' il diritto di autodeterminazione possono anzi interpretarsi nel senso che sono in definitiva altri Stati a decidere quali collettività umane debbano o non debbano considerarsi come un ‛popolo' avente diritto all'autodeterminazione, e a quale popolo ‛appartenga' ciascun individuo.

f) Il diritto all'uguaglianza di trattamento

Può considerarsi come un contrassegno delle culture primitive il fatto che molto spesso, nel valutare giuridicamente il comportamento umano, esse tendono ad attribuire un'importanza decisiva alla pura e semplice appartenenza o non appartenenza degli individui al gruppo che effettua la valutazione: nell'imposizione di obblighi o nella concessione di diritti e di opportunità il ‛forestiero' è quindi svantaggiato rispetto ai membri del gruppo per il solo fatto di essere un forestiero.

Per contro, il diritto dell'individuo all'‛uguaglianza di trattamento', oggi riconosciuto in linea di principio, significa che, nella valutazione giuridica del comportamento individuale in base a norme di legge astratte, l'appartenenza a un dato gruppo umano non può essere usata come criterio di differenziazione quando da essa non dipenda (o addirittura non possa dipendere) la capacità dell'individuo di comportarsi in un dato modo. Pertanto, ogni individuo ha lo stesso diritto alla vita (nel senso già indicato) indipendentemente dalla razza, dal sesso, dall'età, dalla religione, dalla cittadinanza, dalla discendenza, ecc., e inoltre gli attentati a questo diritto sono vietati con la stessa forza a ogni altro individuo, a prescindere anche in questo caso dalle ‛appartenenze' sopra elencate. Il diritto all'uguaglianza di trattamento - nel senso che viene esclusa, in quanto irrilevante per la definizione della questione, ogni discriminazione dipendente dall'appartenenza a un gruppo - è solo un aspetto di un principio più comprensivo, recepito in parecchie costituzioni: il principio di equità, per cui condizioni uguali non possono essere trattate in modo differente.

Analogamente a quanto avviene per il principio di uguaglianza, inteso in questa formulazione più ampia, anche la pratica attuazione dell'idea che l'individuo non possa essere legalmente favorito o svantaggiato semplicemente a causa dell'appartenenza o non appartenenza a un gruppo umano solleva numerosi problemi, che la dottrina dei diritti dell'uomo non ha ancora risolto. Ci si può chiedere, ad esempio, se violi o non violi il principio sopra espresso lo Stato che dia al suo diritto privato una forma non unitaria, facendo dipendere l'applicazione dell'una o dell'altra norma particolare dalla semplice appartenenza degli interessati a un gruppo umano caratterizzato da uno dei criteri sopra esposti, nel caso che risulti con certezza che tutti gli individui in questione sono unanimi nel volere essi stessi una tale differenziazione. Posto che in uno Stato coesistano aderenti a varie confessioni, tutti concordi nel ritenere che i rapporti familiari fra gli appartenenti a ciascuna comunità religiosa debbano essere regolati da un diverso diritto religioso in quanto sono diverse ad esempio le esigenze religiose relative all'istituto del matrimonio, nessuno potrà sostenere che il diritto umano all'uguaglianza di trattamento sia leso da una simile differenziazione. Ciò vale soprattutto quando le varie confessioni disapprovino concordemente la celebrazione di matrimoni misti o quando la disciplina di tali matrimoni venga ripartita pariteticamente fra i vari diritti religiosi, e purché il singolo abbia piena libertà di passare da una comunità religiosa all'altra. Analogamente, non costituisce una violazione del diritto all'uguaglianza di trattamento un'apartheid su basi razziali o su altre basi che sia voluta da tutti gli individui.

È sufficiente però che vi sia un ristretto numero di individui che, pur professando una religione, non approvino (almeno per quanto li riguarda) questa differenziazione su basi confessionali del diritto di famiglia statuale, perché si ponga la questione di come si possa tener conto del loro diritto all'uguaglianza di trattamento, e se basti costituire solo per essi un diritto di famiglia confessionalmente neutro.

Con questo problema ne è connesso un altro: se cioè si possa consentire anche al ‛singolo' - nell'esercizio delle libertà riconosciutegli dal diritto, tra le quali vi è anche quella di concludere contratti - di trattare altre persone in modo differenziato in base a quegli stessi criteri di cui il legislatore non può valersi (almeno non contro la volontà degli interessati) senza ledere il diritto all'uguaglianza di trattamento. Attualmente tale possibilità viene spesso esclusa, cosicché è considerata inammissibile, ad esempio, l'assunzione preferenziale di lavoratori di una determinata razza. Se però esiste un diritto dell'individuo di stabilire o no liberamente rapporti consensuali con altri nonché un diritto di non fornire informazioni sui propri convincimenti intimi e sulle motivazioni del proprio agire, l'intervento statale può essere tutt'al più giustificato qualora sia stata volontariamente manifestata l'intenzione di procedere, nell'esercizio della propria libertà, a discriminazioni fondate su criteri inammissibili. Ma una volta ammesso ciò, si pone l'ulteriore problema se non si debba almeno garantire all'individuo il diritto di tener nascoste alle altre persone (in quanto non si tratti - come nel caso dell'appartenenza a una data razza - di caratteristiche di per sé evidenti) quelle caratteristiche che non possono dar motivo a una discriminazione legale. Soprattutto, è diventato d'attualità il problema di tenere segreti i dati caratteristici individuali memorizzati presso gli organi pubblici, cosicché possano essere usati solo per scopi consentiti dalla legge. Ma un diritto alla segretezza dei dati (ad es. circa la religione professata) richiederebbe in pratica anche un divieto dell'altrui sollecitazione a rendere noti volontariamente i dati stessi, o addirittura un divieto della loro spontanea rivelazione.

Supponiamo che i membri di un determinato gruppo umano, contrassegnato da un carattere inammissibile ai fini di una differenziazione legislativa (come per es. l'appartenenza a una casta), siano stati sottoposti per lungo tempo a un trattamento discriminatorio da parte di una precedente legislazione lesiva dei diritti dell'uomo o da parte della società: può darsi che in tal caso, per attuare l'uguaglianza di trattamento, sia necessario accordare temporaneamente un'esplicita preferenza ai membri del gruppo finora svantaggiato. Può sorgere però la questione se una tale preferenza sia ammissibile anche quando, in sostanza, siano rilevanti ai fini del bene comune le sole differenze quantitative fra le prestazioni dei vari individui, come ad esempio nel caso di valutazioni date a prove d'esame. Analogamente, certi provvedimenti con cui s'intende garantire che nelle scuole pubbliche bambini di razze diverse vengano educati insieme - come il cosiddetto busing degli scolari negli Stati Uniti - possono risolversi in un'altra discriminazione, a danno di quei bambini che sono costretti a compiere un percorso più lungo per recarsi a scuola.

Il diritto dell'individuo di non essere trattato in base all'inammissibile criterio dell'appartenenza a un dato gruppo umano diviene più che mai evidente quando si tratti di dar attuazione a certi diritti spettanti a tutti gli uomini: posto che fra questi diritti vi sia ad esempio la libertà di emigrare dallo Stato in cui si risiede, si ha una duplice violazione di un diritto fondamentale allorché l'emigrazione è vietata - ovvero è consentita unicamente - agli appartenenti ad alcune razze o religioni.

Finché l'umanità sarà divisa in una moltitudine di Stati, sara tuttavia impossibile eliminare del tutto il criterio di discriminazione legale costituito dalla cittadinanza, o anche dalla residenza in un determinato Stato. È vero che la giustizia penale di uno Stato dev'essere amministrata in modo che l'entità della pena sia commisurata alle sole circostanze del caso concreto, e non al fatto che il colpevole o la parte lesa siano o non siano cittadini di quello Stato; è però altrettanto vero che il singolo può rivendicare in giudizio per esempio un diritto all'assistenza in caso di indigenza o un diritto all'istruzione solo nei riguardi dello Stato di cui è cittadino (o eventualmente, in via provvisoria, di quello in cui risiede), ma non nei riguardi di un altro Stato. Così pure non vi è alcun diritto umano universale in virtù del quale il singolo possa immigrare, cercare lavoro o svolgere un'attività economica in uno Stato di cui non sia cittadino contro la volontà di quello Stato, nonostante che oggi si riconosca all'individuo il diritto fondamentale di stabilirsi nello Stato d'origine e di emigrare da esso (o dallo Stato in cui risiede). Né costituisce una violazione del diritto all'uguaglianza di trattamento il fatto che nel diritto internazionale privato, come pure in quello penale, l'ordinamento applicabile sia spesso definito assumendo come criterio di collegamento la cittadinanza: un uso ‛discriminatorio' della cittadinanza nel diritto internazionale privato potrebbe scorgersi solo nel fatto che, mentre il cittadino dello Stato sede del foro ha la facoltà di scegliere se appellarsi al proprio ordinamento o a quello dell'altro Stato, tale facoltà è preclusa alla parte straniera. La dottrina, sostenuta dagli autori americani, del governmental interest nel campo del diritto internazionale privato si risolve nell'applicazione da parte del giudice della lex fori ogni volta che essa risulti, nel caso concreto, più vantaggiosa per il concittadino; e se a molti manca la sensazione che in tal modo venga violato il principio fondamentale dell'uguaglianza di trattamento, ciò accade evidentemente perché in numerosi paesi chi richieda l'applicazione di un ordinamento diverso dalla lex fori (anche se si tratta di quello del proprio paese) deve poter dimostrare che tra i due ordinamenti sussiste una differenza sostanziale.

La suddivisione dell'umanità in vari Stati implica poi altre conseguenze per la tutela dei diritti dell'uomo. Anche quando, infatti, l'ordinamento giuridico di uno Stato garantisca a ogni individuo, indipendentemente dalla sua appartenenza allo Stato medesimo, certi diritti fondamentali, esso può però influire sull'altrui comportamento - necessario per l'attuazione di quei diritti - solo entro i limiti che il diritto internazionale pone all'esercizio della sovranità statale. Anche se gli accordi internazionali prevedono che certi diritti umani debbano essere garantiti a ogni uomo e non soltanto ai cittadini degli Stati contraenti, nessuno di questi può intraprendere atti sovrani di forza a sostegno di quei diritti al difuori dei propri limiti territoriali. Secondo l'attuale opinione giuridica, uno Stato è attivamente legittimato a pretendere che ogni altro Stato garantisca, nell'ambito della propria sovranità, i diritti umani universali riconosciuti dal diritto internazionale e la loro osservanza da parte dei propri organi; si è però concordi nel ritenere che la parte lesa (cioè l'individuo) non possa pretendere giudizialmente che uno Stato di cui egli non è cittadino faccia uso della legittimazione attiva conferitagli dal diritto internazionale. Ciò vale anche nel caso che la violazione dei diritti dell'uomo internazionalmente garantiti venga accertata, su denunzia del singolo, da un tribunale internazionale, ad esempio mediante la Commissione europea per i diritti dell'uomo. Anche il diritto del cittadino di uno Stato di essere tutelato dal medesimo, a norma del diritto internazionale, contro le violazioni dei diritti dell'uomo compiute da altri Stati viene spesso discusso o rimesso al giudizio discrezionale delle autontà di governo dello Stato d'origine.

Come già si è accennato, dal punto di vista dei diritti dell'uomo il singolo non può pretendere da uno Stato diverso dal proprio un aiuto economico per la propria sussistenza, così come non ha alcun diritto d'immigrare in un altro Stato che non sia disposto ad accoglierlo. Ciò premesso, il diritto d'asilo che alcune costituzioni prevedono a favore di singoli stranieri vittime di persecuzioni politiche rappresenta non tanto un diritto dell'uomo quanto un'occasione per lo Stato che dà asilo di pronunziarsi su fatti di politica interna di un altro Stato, il che sarebbe altrimenti impedito dal divieto d'ingerenza.

Il diritto dell'individuo di usare a proprio piacimento dei beni riconosciuti di sua proprietà - e nel possesso dei quali egli è tutelato dall'ordinamento giuridico - non viene più concepito come un diritto esente da limitazioni. Analogamente al bene comune, anche il ‛vincolo di utilità sociale' della proprietà messo in evidenza da alcune costituzioni può essere inteso in senso collettivistico o individualistico. Le ideologie degli Stati collettivistici giustificano l'espropriazione dei beni privati per pubblica utilità con l'argomento, ad esempio, che il bene espropriato serve a scopi militari. Il fatto che il socialismo ponga alla proprietà un vincolo di utilità sociale particolarmente drastico, che porta ad abolire in generale la proprietà privata dei mezzi di produzione, rappresenta - come già notava Oscar Wilde - una forma d'‛individualismo', in quanto s'intende così favorire gli interessi degli appartenenti alla classe non proprietaria. Dal vincolo di utilità sociale della proprietà deriva, anche quando sia consentito alle persone fisiche di essere proprietarie, il divieto di tenere sfitte le abitazioni quando sussista un bisogno di alloggi, di sottrarre al commercio generi alimentari, ecc. Tuttavia anche questo vincolo è ben lontano dall'essere inteso come un vincolo a favore di tutta l'umanità, in quanto esso è operante solo nei riguardi dei cittadini dello Stato in cui si trova il bene in questione. Analogamente, certe risoluzioni dell'ONU si richiamano al diritto dei popoli di disporre autonomamente e a proprio vantaggio delle ‛risorse naturali' del loro territorio, ma evitano di formulare per questi popoli un obbligo di usare le risorse stesse a vantaggio del bene comune di tutti gli abitanti della Terra.

g) Esiste un diritto dell'uomo all'equità?

Non può esservi un diritto dell'individuo, rivendicabile davanti a giudici umani, ad avere un ordinamento statale così conformato che, invece di stabilire regole astratte di comportamento e schemi per l'esecuzione delle sanzioni comminate, dia a ogni singola situazione di conflitto d'interessi tra individui una soluzione d'autorità la quale sia fondata su una valutazione degli individui in questione tale da tener conto di tutti gli aspetti rilevanti per il bene comune. Né è possibile parlare di un diritto a un ordinamento umano della coesistenza degli individui fondato su una valutazione dell'individuo quale ci si può attendere, in definitiva, solo da un essere divino. Non può esservi dunque un diritto dell'uomo, rivendicabile dinanzi a giudici umani, a un ordinamento ‛equo' sotto forma di norme astratte, e neppure un diritto a che la cosa pubblica sia affidata alle persone più qualificate; e ciò anche quando una carta costituzionale affermi esplicitamente che la legislazione dev'essere rivolta solo al bene comune e che gli incarichi pubblici vanno riservati agli individui più capaci.

Se poi nella produzione del diritto il legislatore non è orientato verso il bene comune, ma tende in definitiva a favorire gli interessi di determinati individui, è meno che mai possibile parlare di un diritto di questi ultimi all'effettiva attuazione di un ordinamento siffatto.

Le minuziose prescrizioni sull'organizzazione dello Stato e sul modo di costituirsi e di funzionare dei suoi organi, spesso contenute negli accordi internazionali e nelle disposizioni costituzionali sui diritti umani, si spiegano in genere col fatto che gli istituti così previsti possono considerarsi - in base alle esperienze compiute e all'attuale grado di civiltà della maggior parte delle nazioni - come il modo più funzionale per attuare il diritto. Ora ciò ha poco a che vedere con i diritti umani dell'individuo. Ad esempio, il fatto che il diritto positivo debba essere applicato in modo equo e obiettivo da giudici imparziali consegue dalla natura stessa del diritto e non ha bisogno di trovare fondamento in un diritto degli individui coinvolti in un dato procedimento giudiziario. Non è infondato il sospetto che le suddette prescrizioni - spesso svuotate di contenuto a causa del permanere di certi principi generali - vengano presentate come corollari dei diritti dell'uomo per mascherare il fatto che alcuni ditali diritti, già da noi denunziati come insufficientemente garantiti, non sono in realtà stati recepiti in quei documenti.

Analogamente, il ricorso alla tortura va rifiutato non solo perché essa costituisce una violazione dei diritti umani nei riguardi di chi sia effettivamente colpevole, ma soprattutto perché porta a risultati erronei nell'applicazione del diritto allorché viene inflitta a persone indiziate, ma oggettivamente innocenti. La punizione di un comportamento senza la preventiva pubblicizzazione della sua illiceità e punibilità è inammissibile non solo perché lede un diritto umano, ma per il semplice fatto che, senza la pubblicità delle sue norme, il diritto non può adempiere la sua funzione di guida del comportamento umano.

Va invece intesa come derivante da un vero e proprio diritto umano l'inammissibilità del fatto che il legislatore, per dissuadere dal compiere atti illeciti, commini pene a carico di innocenti che non siano in grado di ostacolare il colpevole nel compimento di tali atti; la capacità di dissuasione nei riguardi del colpevole potenziale nascerebbe in questo caso dalla sua solidarietà con coloro che verrebbero colpiti dalla pena collettiva. Tuttavia, solo in poche costituzioni (ad esempio in quella italiana, al comma 1 dell'art. 27) le pene collettive vengono esplicitamente dichiarate contrarie ai diritti dell'uomo. Attualmente, di fronte all'‛inumanità' dei sequesti di persona compiuti da privati - che del resto già configurano le fattispecie di vari reati - numerosi governi sostengono la necessità di accordi internazionali per reprimere queste attività.

Non può invece considerarsi come applicazione di una pena collettiva contraria ai diritti dell'uomo il fatto che chi conosce l'identità del colpevole sia punito per esser venuto meno all'obbligo giuridico di denunziarlo o sia passibile di pena in caso di ulteriore favoreggiamento; non vi è infatti nessun diritto dell'uomo che esima dall'obbligo di tutelare gli altri o di denunziare i reati compiuti da terzi.

Ancor oggi le rappresaglie conseguenti a violazioni del diritto internazionale colpiscono per lo più individui che non sono gli effettivi autori delle violazioni stesse, e in particolare nella legittima condotta di una guerra vengono colpiti, oltre agli autori dell'atto contrario al diritto delle genti - atto che giustifica la guerra difensiva - anche degli innocenti; ma tutto ciò non può considerarsi come una violazione del diritto umano che condanna le pene collettive, in quanto le rappresaglie di pertinenza del diritto internazionale e la guerra difensiva non sono ‛pene'. Per contro, la cattura di ostaggi, specialmente fra gli abitanti di un territorio occupato, è dichiarata esplicitamente inammissibile, così come non è lecito attuare rappresaglie contro la popolazione civile di un paese occupato o contro prigionieri di guerra.

Secondo l'opinione oggi prevalente, il diritto dell'individuo innocente di non essere punito per atti altrui che egli non sia in grado d'impedire non giustifica in nessun caso la pretesa del singolo di non essere chiamato a contribuire al risarcimento delle vittime di atti illegali, e ciò nonostante che l'onere economico di tale contributo possa risultare equivalente a quello di una pena pecuniaria. In particolare, non può considerarsi come lesivo di un diritto umano l'aggravio arrecato al contribuente da eventuali oneri derivanti da illegalità compiute da organi pubblici. Si sostiene a tale proposito che, specialmente in una democrazia, la corresponsabilità finanziaria del contribuente nelle illegalità e in altri comportamenti errati dei governanti può costituire un incentivo affinché il singolo, nell'esercizio dei propri diritti politici, vigili che ai pubblici uffici siano preposte le persone più adatte; ma si tratta invero di un'aspettativa ancora lontana dalla realtà. Inoltre, la responsabilità dei membri di una comunità giuridicamente organizzata riguardo ai danni provocati da illegalità di organi pubblici non si estende al caso in cui il legislatore abbia l'obbligo programmatico di produrre un diritto non conforme all'equità. Anche l'idea, spesso riproposta, di un diritto umano dei meno istruiti di essere tutelati da sopraffazioni attuate mediante provvedimenti legislativi non può dar luogo a pretese giudizialmente rivendicabili a risarcimenti di danni, che in ultima analisi andrebbero a gravare sul gettito fiscale di una generazione successiva di individui incolpevoli.

Mentre si parla spesso di un ‛diritto umano' del colpevole di essere punito solo in base a una legge penale emanata anteriormente al delitto, è raro che nelle società di massa e nelle democrazie si ravvisi una possibile violazione di un diritto umano dei cittadini nel fatto che questi siano chiamati a sostenere gli oneri derivanti da illegalità commesse dagli organi pubblici, mentre i funzionari responsabili rimangono del tutto impuniti. Solo pochi vedono ancora nella mancata punizione di gravi illegalità dei massimi organi pubblici la violazione di un diritto umano di coloro che direttamente o indirettamente sono colpiti da quegli atti e dagli oneri che ne derivano. Il ‛diritto' dell'individuo d'impegnarsi personalmente - con mezzi legali, ed eventualmente anche con mezzi considerati illegali dal diritto positivo - per l'attuazione di un ordine ‛equo' tra gli uomini appartiene in effetti a un ambito normativo diverso da quello giuridico. A un obbligo morale in tal senso dovrebbe corrispondere un impegno dell'individuo a verificare di quali capacità egli possa disporre in questa lotta per l'equità. In pratica, l'attività svolta dall'individuo per l'avvento di un ordinamento equo in una pluralità di persone può aver successo solo grazie alla collaborazione con altri individui animati dagli stessi intenti; pertanto, sono pur sempre certi diritti fondamentali, spesso garantiti dall'ordinamento giuridico dello Stato, a fornire all'individuo gli strumenti per realizzare la sua aspirazione all'equità: così il diritto di partecipare all'elezione dei più importanti organi pubblici, quello di associarsi liberamente e, in certi casi, il diritto costituzionale alla resistenza collettiva contro un potere statale illegittimo.

Per la natura stessa dell'uomo, uno sviluppo e un'estrinsecazione della personalità individuale al difuori della società rappresentano un'utopia. Posto quindi che vi sia un interesse razionale dell'individuo a partecipare mediante istituzioni collettive all'attuazione del bene comune, da un lato egli non potrà evitare che sia messo talvolta in pericolo il libero dispiegarsi delle sue doti individuali e dall'altro non potrà aspettarsi che le leggi umane siano sufficienti ad assicurare la piena attuazione del bene comune. Si comprende allora come molte religioni antropocentriche - intendendo per tali quelle che rifiutano di vedere nell'individuo umano solo uno fra i tanti elementi costitutivi dell'universo - si aspettino da un'esistenza ‛oltremondana' dell'individuo, pensato come capace di sopravvivere alla perdita della sua corporeità, anche una liberazione del singolo dalle illibertà insite nella sua vita terrena di uomo tra gli uomini, vita terrena esplicantesi in una coesistenza retta da un ordinamento più o meno imperfetto.