Essenza

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In filosofia, la natura propria e immutabile delle cose.

Alla substantia, che è la realtà individuale nella sua autonoma esistenza e sussistenza, l’essentia si contrappone come la forma generale, come l’εἶδος platonico che ne costituisce la natura universale. All’e. viene quindi attribuita realtà oggettiva o realtà soltanto mentale a seconda del vario modo in cui è risolto il cosiddetto problema degli universali , se cioè all’e. si debba attribuire un’esistenza oggettiva, indipendentemente dalla mente umana, o soltanto natura di concetto. Di qui, anche, l’antitesi dell’e. all’esistenza.

Dizionario di Filosofia (2009)

La realtà propria e immutabile delle cose, intesa soprattutto come la forma generale, l’universale natura delle singole cose appartenenti allo stesso genere o specie.

Da Aristotele alla tarda antichità. Nella Metafisica Aristotele, trattando la questione generale della determinazione di cosa sia la sostanza , indica, in relazione a essa, l’e. come «τὸ τί ἦν εἶναι» (VII, 3, 1028 b 34), espressione traducibile con «che cos’era essere» e che i latini renderanno con la formula «quod quid erat esse». E. è ciò che la cosa è considerata «per sé» (καϑ᾿ αὑτό), al modo in cui per definire, rispetto a un uomo concreto, l’e. dell’uomo, non si può rispondere è musico o è bianco, poiché tali determinazioni sono ‘accidentali’. E. di una cosa è ciò che la definisce al di là dei suoi caratteri peculiari e accidentali (VII, 4, 1029 b 13-18). In tal senso l’e. indica quel particolare significato di οὐσία (di cui il termine italiano essenza costituisce il calco, ma non rende il significato) che coincide con la ‘quiddità’, la ‘forma’, ossia ciò che fa sì che una cosa sia quella e non un’altra. La connessione fra e. e definizione (qualcosa è e. in quanto è possibile definirla) riconduce l’e. ‘primariamente’ alla sostanza e ‘secondariamente’, in modo derivato, alle altre categorie (1030 a 7-b 3). Nei Topici, trattando la questione del rapporto fra predicabili e categorie, Aristotele afferma che «chi esprime l’e. talora significa una sostanza, talora una qualità, talora una delle altre categorie» (I, 9, 103 b 28-29). A partire dalla domanda su ‘cosa sia una cosa’ (τί ἐστι) la definizione può determinare l’e. come quello che essa è in sé (τὸ τί ἐστι) o come espressione di una delle categorie cui è riconducibile qualcosa. Nella logica proposizionale stoica il problema dello statuto ontologico degli elementi che concorrono alla definizione non ha luogo, mentre nel medio platonismo l’e. intesa come ‘forma’ viene a coincidere con l’εἶδος platonico, che ne costituisce l’universale natura, conferendo all’e. realtà oggettiva. Plotino, nelle Enneadi , parla dell’e. come ‘perché’ della cosa: «coloro che cercano in tal modo di conoscere l’e. di una cosa ci riescono in pieno. Infatti ciascuna cosa è in quanto è il suo ‘perché’» (VI, 7, 2). L’Uno genera l’e. intelligibile (e. prima o generale) di cui l’e. sensibile (e. seconda o particolare) partecipa (VI, 6, 13-18). L’Isagoge e le Sentenze sugli intelligibili di Porfirio potenziano e divulgano nel successivo pensiero medievale il concetto di e. come prima forma determinata dell’Uno che coincide con la seconda ipostasi, dunque con le idee e, in tal senso, con l’intelligibile. La nozione di e. considerata come forma (εἶδος) rientra in quella di specie «che si dice della forma di ogni realtà» (Isagoge 3) e si declina secondo il genere e la differenza.

Il Medioevo. In Agostino il concetto di e. viene esteso a Dio stesso. In Esodo (3, 14) è scritto «ego sum qui sum» (io sono colui che sono); ciò significa, per Agostino, che Dio è la sola vera e. e che il termine più appropriato per definirlo è: «e., termine giusto e proprio, al punto che forse solo Dio si deve chiamare essenza. Infatti lui solo ‘è’ veramente, perché è immutabile, e con questo nome ha designato sé stesso al suo servitore Mosè, quando gli disse: lo sono colui che sono» (De Trinitate, VII, 5). Nel definire Dio come e. Agostino modifica profondamente tesi platoniche come quelle di Plotino avviando, al tempo stesso, una riflessione sull’e. che involge anche il problema dell’essenzialità di Dio. Questo tema sarà ancora al centro del pensiero di Anselmo, che concepisce Dio come somma e. («Ergo summa essentia et summe esse et summe ens, id est summe existens sive summe subsistens, non dissimiliter sibi convenient, quam lux et lucere et lucens»; Monologion, 6), di Alessandro di Hales e di Bonaventura. In tale contesto, il problema della definizione dell’e. si rapporta direttamente a quello dell’esistenza, come avviene altresì nei dibattiti sviluppatisi a partire dalla distinzione posta da Boezio fra «esse» (essere) e «id quod est» (ciò che è): «diversum est esse et id quod est» (De Hebdomadibus). Boezio separa il quod est, soggetto sussistente, e l’esse, ciò in virtù di cui qualcosa è (ossia la forma), per poi distinguere ulteriormente, nell’esse, l’essere qualcosa in senso assoluto («tantum esse aliquid»), caratterizzazione della sostanza, dall’essere qualcosa in un ente («esse aliquid in eo quod est») che invece si rapporta all’accidente. Si tratta di un nucleo di problemi che avranno lungo corso nel pensiero medievale e dal cui insieme origina anche l’antitesi fra e. ed esistenza, centrale, per es., nella formulazione della prova anselmiana dell’esistenza di Dio del Proslogion. Tommaso d’Aquino, che raccoglie il lungo dibattito sviluppatosi da Aristotele in avanti, avendo presenti gli apporti delle tradizioni avviate da Boezio, Agostino e Anselmo, come anche tesi ricondotte ad Avicenna, Averroè, Avicebron, Maimonide, e problematiche legate alla questione del ‘realismo degli universali’, ridefinirà lo statuto dell’e. in rapporto a quello dell’ente nel De ente et essentia. L’e. è, come l’ente, una delle nozioni prime del nostro intelletto. Essendo l’e. quel che è espresso nella definizione, essa è la ‘quiddità’, oppure la ‘forma’, nell’accezione avicenniana di certezza concernente il contenuto oggettivo di ogni cosa, o ancora la ‘natura’, nel senso conferitole da Boezio di «tutto ciò che può essere conosciuto dall’intelletto». L’e. nelle sostanze composte coincide con il composto stesso, mentre nelle sostanze semplici è costituita dalla forma («L’e. della sostanza composta differisce dunque da quella della sostanza semplice per il fatto che la prima non è la sola forma, ma comprende la forma e la materia, mentre l’e. della sostanza semplice è soltanto la forma», cap. 4°). L’e. di Dio è invece l’essere stesso («Vi è infatti qualcosa, come Dio, la cui e. è il suo stesso essere», cap. 5°). Anche gli accidenti, allo stesso modo in cui posseggono una definizione, possiedono un’e., che risulta dal loro comporsi con un soggetto; poiché il soggetto cui l’accidente sopravviene è già completo e «può essere pensato senza questo», l’accidente «possiede un’e. in senso relativo» e non assoluto (cap. 6°). L’e. in senso assoluto non è né universale né particolare; quanto alla sua esistenza fisica è singolare, mentre in merito alla sua esistenza mentale è universale. Guglielmo di Occam, collocandosi lungo la tradizione nominalista avviata da Roscellino, nella sua logica (Summa totius logicae) risolve il problema dell’e. in modo profondamente rinnovato, escludendo dall’analisi dei termini che compongono le proposizioni le implicazioni ontologiche (come avviene nelle teorie ‘realiste’). In una proposizione il predicato non rinvia a un’e., per es. quella di uomo (o a un universale, quello di ‘umanità’); il soggetto come il predicato si connettono a ciò che significano mediante la ‘supposizione’ (suppositio), ossia essi non ‘sono’ qualcosa, ma ‘stanno per’ qualcosa, secondo le regole della logica.

Nella filosofia araba. La riflessione sull’e. e sostanza si intreccia nel pensiero arabo-islamico con quella sulla cosa (ar. shay’) e sull’essere o esistenza (ar. wuǧūd, anniyya). La distinzione, già logica, tra la domanda sulla cosa («che cosa è?» mā huwa) e sulla sua esistenza incontra questioni che in teologia interessano la creazione (Dio crea le cose in quanto non esistenti o in quanto possibili?). Una distinzione tra l’e. e l’esistenza, almeno sul piano logico, è ravvisabile già in autori precedenti (per es., in Alfarabi); è tuttavia con Avicenna che la distinzione tra l’e. o quiddità o realtà o cosalità della cosa (dhāt, māhiya, ḥaqīqa, shay’iyya) e la sua esistenza (wuǧūd, anniyya) assume un rilievo ontologico particolare: in ogni essere causato è ravvisabile un’e. (possibile in sé), distinta dalla sua esistenza (necessaria solo a partire da altro e cioè dalla causa); Dio, essere in sé necessario, è il solo in cui quiddità ed esistenza non vadano distinte (Dio non ha quiddità – māhiya – laddove i termini dhāt, ḥaqīqa e talvolta anche ǧawhar «sostanza» sono invece utilizzati da Avicenna anche per designare l’essere divino). Fondamentale è poi la dottrina avicenniana dell’indifferenza quidditativa dell’e., importante sia per la concezione metafisica sia per quella degli universali: come tale, l’e. non è né una né molteplice; ogni determinazione quantitativa è rispetto a essa ulteriore e riflette uno stato della sua esistenza (essa esiste come universale nella mente, e come particolare negli individui).

L’età moderna e contemporanea. Nella critica di Bacone al verbalismo e più decisamente in quella di Hobbes, l’e. attiene unicamente al discorso, al linguaggio, non alla realtà delle cose o alla metafisica, ché anzi è rifiutata. Per Hobbes l’‘e. separata’ o le espressioni derivate dal verbo essere quali ‘e.’, ‘essenzialità’, ‘quiddità’, non sono necessarie per la filosofia, ma derivano unicamente dai «grossolani errori di certi metafisici» (De corpore, 3, 4; cfr. Leviathan, IV, 46). I nomi non derivano dalle specie delle cose, ma dalla «volontà degli uomini» (5, 1); proposizioni quali l’essere è ente, l’e. è ente, τὸ τί ἦν εἶναι, cioè la quiddità è l’ente, e molte altre del genere che si trovano nella Metafisica di Aristotele sono false (5, 3). Nel Saggio sull’intelletto umano (1690) Locke sostiene che la filosofia può occuparsi unicamente dell’e. ‘nominale’ e non di quella ‘reale’, che è inconoscibile. L’e. è unicamente l’idea astratta cui è associato un nome: «tuttavia, scrive Locke, denomino ciò mediante il nome peculiare di e. nominale, per distinguerla dalla reale costituzione delle sostanze da cui dipendono questa e. nominale e tutte le proprietà di quei tipi: ed è questa, di conseguenza […] che può essere chiamata l’e. reale» (III, 6, 2). Conoscere l’e. reale di una sostanza attiene a una conoscenza «quale è possibile abbiano gli angeli e come è certo abbia il suo creatore», ma non al modo in cui si formano le idee astratte e complesse nell’uomo. È dall’e. nominale che prendono le mosse le indagini logiche di Mill, secondo il quale una proposizione essenziale «non dà nessuna informazione o ne dà solo rispetto al nome, non alla cosa» (Sistema di logica, 1843, I, 6, 4). Tale impostazione è centrale nella logica contemporanea; Lewis scrive: «non ha significato parlare dell’e. di una cosa nominata, tranne che relativamente al suo essere denominata da un termine particolare» (An analysis of knowledge and valuation,1946). Per Quine «Il significato è quello che l’e. diventa quando è divorziata dall’oggetto di riferimento e sposata con la parola» (From a logical point of view, 1953; trad. it. Il problema del significato, II, 1), dove si rileva il con­fluire della teoria dell’e. in quella del significato. Al di fuori della prevalente tendenza logico-linguistica è in Hegel e in Husserl che il concetto di e. conosce nuove formulazioni, che avviano prospettive di ricerca dialettiche o fenomenologiche ed esistenziali influenti nel pensiero dei secc. 19° e 20°. In Hegel il concetto di e. si ricolloca in un orizzonte ontologico; nella Scienza della logica (1812) essa è definita come «la verità dell’essere». L’e. (Wesen) è coinvolta in un processo dialettico di ‘riflessione’ che ne trasforma profondamente il significato. Il pensiero è considerato nella ‘mediazione’ ove l’e. dapprima appare in sé stessa (scheint), successivamente essa esce fuori di sé nell’esistenza in cui si manifesta (erscheint), che è il fenomeno (Erscheinung) e si rivela in seguito come unità di e. e fenomeno nella realtà effettiva. Tale processo dialettico si conclude con lo sviluppo del ‘concetto’. All’e. fa riferimento anche Husserl, parlando dell’‘intuizione eidetica’ (da εἶδος) in Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (I, 2-3). Accanto all’intuizione empirica di un oggetto individuale, la coscienza coglie anche, intuitivamente, un’essenza. Tale e. non è frutto di un processo di astrazione, né una costruzione della coscienza, ma l’oggetto appunto di un’intuizione diversa da quella sensibile, e senza la quale non sarebbe neppure possibile pensare: «L’e. (eidos) è un oggetto di nuova specie. Come ciò che è dato nell’intuizione di qualcosa di individuale o intuizione empirica è un oggetto individuale, così ciò che è dato nell’intuizione eidetica è un’e. pura» (I, 3). Dalla riproposizione fenomenologica del concetto di e. derivano le riflessioni polemiche di Heidegger circa il «Dasein», come modo di essere proprio dell’uomo, e le elaborazioni successive dell’esistenzialismo in cui l’accento è posto sulla tesi che l’esistenza precede l’e. e non viceversa, motivo centrale nell’‘esistenzialismo ateo’ di Sartre.