Alienazione

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FILOSOFIA

Processo per cui ciò che originariamente appartiene all’uomo ed è opera sua gli diviene alieno o estraneo, finendo, da ultimo, con il dominarlo e asservirlo. In Rousseau il tema è posto in rapporto con quello della sovranità. Se la sovranità è alienata, cioè ceduta dal popolo (titolare originario) ai suoi rappresentanti, si produce una duplice scissione: nella società, tra sfera pubblica e sfera privata, e nell’uomo, tra citoyen e bourgeois. La perdita o il trasferimento ad altri di qualcosa (la libertà), che è parte integrante della persona o del corpo sociale, determina una condizione dimidiata, cioè uno stato di interna separazione o lacerazione. 

Questo motivo dell’anormalità e infelicità, connessa alla scissione, è al centro anche degli sviluppi che l’idea di a. riceve nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel (1807). Anche qui l’a. si produce dalla divisione di un’unità originaria, ma quest’unità non è più il popolo o la comunità, bensì l’idea assoluta. L’idea si aliena, cioè si fa altra da sé, ponendosi od oggettivandosi come natura: l’assoluto si divide perché, per realizzarsi come spirito, ha bisogno di prender coscienza di sé, cioè di oggettivarsi e, così, conoscersi. Se il processo, pur implicando scissione, è globalmente positivo quando lo si consideri dal punto di vista dell’idea, non altrettanto può dirsi per l’ordinario intelletto umano. Prima che l’uomo arrivi ad adeguare la propria coscienza al processo dell’idea e, quindi, a innalzare il proprio punto di vista soggettivo a quello dell’assoluto o del sapere filosofico, è inevitabile che sperimenti l’a. come infelicità, come separazione tra io e mondo, soggetto e oggetto, intelletto e natura. Prigioniero di queste antitesi, l’uomo ha una rappresentazione capovolta della realtà: la natura gli appare come una realtà originaria e indipendente e il pensiero come un che di subordinato e condizionato. In questa prospettiva, il superamento dell’a. viene a coincidere, per Hegel, con l’abbandono del punto di vista ingenuamente materialistico del senso comune e con il passaggio alla filosofia o idealismo, che adegua finalmente la coscienza umana al processo attraverso cui si sviluppa l’idea. 

Una concezione opposta a quella di Hegel è offerta da Feuerbach, che individua il fenomeno dell’a. soprattutto nel campo della religione e, in particolare, del cristianesimo. Per Feuerbach, l’a. sorge dal fatto che l’uomo proietta e personifica (inconsapevolmente) nella figura di Dio gli attributi e le qualità umane più alte, per adorarle, poi, come virtù e requisiti di questa potenza estranea. Anche in questo caso si tratta di un processo di scissione: i predicati dell’uomo vengono separati dall’uomo e trasformati in entità indipendenti. 

Marx fuse alcuni aspetti delle teorie di Hegel e di Feuerbach, ma indicando il luogo di nascita dell’a. non più nella religione o nella filosofia, bensì nella società capitalistica moderna. Nella società del mercato, lo scambio dei prodotti richiede, di fatto, l’eguagliamento dei diversi lavori dei produttori. Ma il lavoro umano eguale o astratto, che è presupposto e risultato dello scambio, implica che la forza lavorativa umana sia considerata e calcolata a prescindere dagli individui reali. In tal modo, la forza lavorativa viene trasformata in un’entità a sé, diviene cioè valore delle merci, qualcosa d’indipendente dai produttori e che li fronteggia e li domina. Questo rapporto capovolto è chiamato da Marx il ‘feticismo’ delle merci. Il mondo delle cose appare animato di vita propria, cioè personificato; il mondo dei soggetti umani, viceversa, appare ‘reificato’, cioè ridotto a rapporti tra cose. L’a. culmina, per Marx, nel lavoro salariato, cioè nello scambio tra capitale e lavoro, dove il capitale, che è un prodotto del lavoro, appare assoggettare e soggiogare a sé ciò da cui deriva e il lavoratore diventa una semplice appendice di ciò che esso stesso ha prodotto. 

Una ripresa e uno sviluppo significativo della concezione marxiana dell’a. è contenuta nell’opera giovanile di Lukács Storia e coscienza di classe (1923), in cui, tuttavia, il concetto marxiano di a. è reinterpretato in termini hegeliani. Lo scandalo dell’a. non risiede più nel fatto che il lavoro si oggettivi in un prodotto che ha la forma di merce, bensì nel fatto che esista un’oggettività naturale, esterna e indipendente dalla soggettività pensante. Questa svolta segnata da Lukács ha influenzato profondamente molte concezioni contemporanee dell’alienazione. Nell’esistenzialismo, per es., dove pure il termine non compare espressamente, alcuni dei significati implicati da esso si trovano nell’analisi di quella che Heidegger ha chiamato ‘esistenza inautentica’: quel tipo di esistenza in cui l’uomo vive immerso nell’universo delle cose. È un mondo reificato: il mondo fisico-naturale che ci esibisce la scienza e in cui trova il suo appagamento sia la nostra propensione al dominio della natura sia il bisogno di sicurezza che caratterizza ciò che Heidegger chiama anche ‘quotidianità’. Quest’esistenza inautentica è il regno dell’anonimato. 

Un’analisi dell’a., incentrata sulla critica della scienza e della tecnica, s’incontra anche negli autori della cosiddetta scuola di Francoforte (M. Horkheimer, T.W. Adorno e H. Marcuse). Qui l’obiettivo della critica, più che il capitalismo in quanto tale, è la società industriale moderna, con la sua razionalità impersonale, integratrice e falsamente tollerante.

SCIENZE SOCIALI

Nel suo uso sociologico più generale il termine a. denota un estraniamento o una separazione della personalità individuale da alcuni aspetti del mondo dell’esperienza. Di qui l’a. dell’operaio alla catena di montaggio; l’a. del singolo in una società di massa spersonalizzante che distrugge le comunità locali, le associazioni volontarie, i gruppi primari; l’a. dell’individuo che interiorizza solo parzialmente le norme di comportamento richieste dalla cultura societaria e che quindi non è in grado di conformare i suoi bisogni-disposizioni alle aspettative di ruolo che essa sviluppa. Solo negli anni 1960 si è compiuto qualche serio tentativo di definire l’a. in termini univoci e in qualche modo operativi identificando cinque significati, o dimensioni, dell’a. (impotenza, mancanza di senso, mancanza di norme, isolamento, auto-estraniamento) misurabili con diverse scale di atteggiamento.


Enciclopedia di Scienze Sociali
(1991)

di Giuseppe Bedeschi e Alessandro Cavalli

Alienazione 

di Giuseppe Bedeschi  

Sommario: 1. Il concetto di alienazione in Hegel. 2. Il concetto di alienazione in Feuerbach e nel giovane Marx. 3. Il concetto di alienazione nell'opera matura di Marx. 4. Alienazione e reificazione in Lukács. 5. La Scuola di Francoforte. ? Bibliografia. 

1. Il concetto di alienazione in Hegel

Hegel è il primo pensatore moderno che abbia elaborato una vera e propria teoria dell'alienazione. Tale teoria presenta un duplice aspetto: per un verso essa è centrale nella complessiva articolazione logico-metafisica del sistema hegeliano, per un altro verso viene utilizzata dal filosofo tedesco nella sua rappresentazione dialettica della storia moderna. I due aspetti non sono affatto in contrasto tra loro, e tuttavia è opportuno tenerli distinti.

Fra le opere di Hegel, la Fenomenologia dello spirito (1807) è quella che svolge la più ampia e complessa teorizzazione del concetto di alienazione; essa ha esercitato, come vedremo, un influsso profondo sul pensiero di Marx e, attraverso Marx e il marxismo, su alcuni filoni della riflessione etico-politica e filosofico-sociale del nostro secolo. È quindi a quest'opera che occorre fare, in primo luogo, riferimento.In quanto categoria logico-metafisica l'alienazione è una categoria centrale della dialettica hegeliana: essa esprime infatti il momento della scissione, del divenir-altro dello spirito. Il sacrificio dello spirito, dice Hegel, "è l'alienazione [Entäusserung], in cui lo spirito presenta il suo farsi spirito nella forma del libero, accidentale accadere, intuendo fuori di lui il suo puro Sé come il tempo, e similmente il suo essere come spazio" (v. Hegel, 1807; tr. it., vol. II, p. 304). L'alienazione dello spirito nello spazio è la natura, nel tempo è la storia. 

Per Hegel, dunque, l'alienazione o estraniazione (Entäusserung, Entfremdung: due termini che egli usa indifferentemente, salvo alcune piccole sfumature) è costituita dall'oggettività naturale-materiale e storico-sociale, ed è qualcosa di transitorio, in quanto è destinata a essere superata dallo spirito. Infatti, se l'alienazione è "ciò che ha riferimento e determinatezza, l'esser-altro e l'esser-per-sé", tuttavia "in quella determinatezza o nel suo essere fuori di sé [lo spirito] resta in se stesso" (ibid., vol. I, p. 19).

La fondamentale ambiguità del concetto hegeliano di alienazione emerge assai bene nell'ultimo capitolo della Fenomenologia sul "sapere assoluto". L'alienazione, afferma qui Hegel, ha un significato "non solo negativo, ma anche positivo". Infatti nell'alienazione l'autocoscienza spirituale "pone sé come oggetto" ovvero "pone l'oggetto come se stessa". In questo modo, però, essa è "presso di sé nel suo esser-altro come tale", ed essa sa la "nullità dell'oggetto", perché l'oggetto storico-naturale è una sua autoalienazione, una sua figura. Ma allora "in quest'atto è contenuto [anche] l'altro momento onde essa ha anche tolto e ripreso in se medesima quell'alienazione e oggettività". In altre parole, l'autocoscienza si aliena sì nell'oggettività storico-naturale, ma, "in forza della inscindibile unità con se stessa", nel suo esser-altro è presso di sé, e quindi l'alienazione è implicitamente soppressa e superata.

Se l'alienazione è dunque per Hegel qualcosa di assolutamente necessario, in quanto lo spirito è essenzialmente scissione (l'Io, dice Hegel, non può irrigidirsi "nella forma dell'autocoscienza in contrasto alla forma della sostanzialità e dell'oggettività, quasi che abbia paura della sua alienazione"), essa contiene in sé anche la propria soppressione e il proprio superamento, poiché, se è vero che l'Io ha un contenuto ch'esso distingue da sé, è altrettanto vero che questo contenuto è spirituale, è un prodotto dell'Io, è quella medesima pura negatività che è l'Io (ibid., vol. II, p. 302).

Hegel dà la seguente caratterizzazione generale del processo di alienazione: "Ma a noi lo spirito ha mostrato di non essere né soltanto il ritrarsi dell'autocoscienza nella sua pura interiorità, né il mero calarsi di essa nella sostanza e il non-essere della sua differenza; anzi ha mostrato di essere questo movimento del Sé il quale aliena se stesso e si cala nella sua sostanza e come soggetto tanto è andato da essa in sé e l'ha resa oggetto e contenuto, quanto toglie questa differenza dell'oggettività e del contenuto" (ibid., p. 301).

Senonché, come abbiamo detto, Hegel non si è limitato a questa generale elaborazione logico-metafisica della categoria di alienazione, bensì si è servito di tale concetto per dare una rappresentazione dialettica della storia antica e moderna. Un'intera sezione della Fenomenologia dello spirito (Lo spirito a sé estraniato; la cultura) ricostruisce i principali avvenimenti della civiltà occidentale sotto il segno e mediante la categoria dell'alienazione.

La condizione di alienazione o di estraniazione inizia storicamente nell'epoca del tramonto della polis, in seguito al venir meno di quell'armonioso rapporto individuo-comunità che costituiva la caratteristica fondamentale dell'eticità greca. La polis era un tutto armonico, coeso e compatto, in cui gli individui non facevano valere le loro volontà e i loro interessi particolari, ma agivano e si sacrificavano per la cosa pubblica, per l'interesse generale o comune. "Nel suo sussistere - dice Hegel - il regno etico è un mondo non macchiato di scissione alcuna" (ibid., p. 21); qui "lo spirito è la forza dell'intiero, la quale riconduce insieme quelle parti nell'uno negativo, dà loro il sentimento della loro dipendenza e le mantiene nella consapevolezza di avere la loro vita soltanto nell'intiero" (ibid., p. 14).

La situazione storica successiva, che Hegel chiama dello "spirito etraniatosi", è invece radicalmente diversa. Qui l'intero è divenuto qualcosa di scisso e di duplice, perché l'autocoscienza non si riconosce più nel mondo sociale circostante - benché esso sia un suo prodotto - che le si contrappone come una realtà estranea. Qui l'estraniazione dell'autocoscienza costituisce una vera e propria frattura fra l'autocoscienza e ciò che essa ha prodotto: ovvero costituisce, come Hegel dice, una Entwesung, una perdita dell'essenza da parte dell'autocoscienza.
Questa lacerazione o scissione si articola in varie opposizioni dialettiche, alle quali faremo qui soltanto qualche accenno sommario.

La prima opposizione è fra Stato e Ricchezza. Entrambe queste potenze spirituali esprimono la sostanza dell'autocoscienza, il suo contenuto e il suo fine: lo Stato costituisce infatti l'essenza degli individui ed esprime la loro universalità; la Ricchezza, a sua volta, è il risultato, che incessantemente diviene, del lavoro e del fare di tutti, che promuove il godimento di tutti e si risolve in esso. In un primo tempo, quindi, l'autocoscienza si riconosce tanto nello Stato quanto nella Ricchezza. Ma l'autocoscienza non può fermarsi qui, e deve rapportarsi dialetticamente a quelle due potenze o determinazioni, ora riconoscendosi nella prima e negando la seconda, ora riconoscendosi nella seconda e negando la prima. E infatti l'autocoscienza trova disuguale a sé e quindi cattivo lo Stato, poiché in esso trova "negato e soggiogato" l'operare come operare singolo; e trova uguale a sé e quindi buona la Ricchezza, poiché è un universale che può essere goduto da tutti gli individui. Ma al tempo stesso l'autocoscienza trova buono lo Stato, poiché esso "ordina i singoli momenti dell'operare universale", e trova cattiva la Ricchezza, che non ha universalità perché essa rende possibile soltanto "il godimento di sé come singolarità" (ibid., pp. 54-55).

Si è così di fronte "a un duplice trovar uguale e a un duplice trovar disuguale": ora lo Stato è il cattivo e la Ricchezza il buono, ora lo Stato è il buono e la Ricchezza il cattivo. Ciò realizza il passaggio alla Coscienza nobile e alla Coscienza ignobile. La prima è soddisfatta dell'ordine sociopolitico esistente, e quindi è conservatrice; essa si riconosce nel potere pubblico, trova nello Stato la propria essenza e ubbidisce a esso, così come si riconosce nella Ricchezza e "riconosce come benefattore colui che gliene ha procurato il godimento, ritenendosi obbligata a gratitudine".

La Coscienza ignobile, al contrario, è insoddisfatta dell'ordine sociopolitico esistente ed è sovvertitrice; essa vede nel potere statale una catena e un'oppressione, e "obbedisce con malizia sempre pronta alla ribellione ', così come non si riconosce nella Ricchezza, che ama ma che disprezza (ibid., pp. 56-57).

La Ricchezza appare sempre più come l'essenza alienata della coscienza, la quale trova in essa "estraniato il suo Stesso come tale". La Ricchezza produce infatti rivolta in chi non la possiede (poiché la coscienza vede così "la sua personalità come tale dipendente dalla personalità accidentale di un altro, dal caso di un istante, di un arbitrio, o, comunque sia, della più indifferente circostanza" [ibid.]); e produce tracotanza in chi la possiede: la tracotanza di chi "crede di aver conquistato con un pezzo di pane un altrui Io stesso e che opina di aver con ciò ottenuto l'assoggettamento dell'essenza più intima di lui"; ma "in questa superbia la Ricchezza non tiene conto dell'intima indignazione dell'altro, non tiene conto del pieno rifiuto di tutte le catene" (ibid., p. 70). La Ricchezza, insomma, è una delle categorie centrali della condizione estraniata del mondo moderno, e coinvolge sia chi la riceve sia chi la dà, sia chi la possiede sia chi non la possiede.

Queste pagine di Hegel hanno esercitato un profondo fascino sul giovane Marx. Infatti nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx scriverà che la Fenomenologia di Hegel, "nella misura in cui essa tien ferma l'estraniazione dell'uomo (anche se l'uomo vi appare soltanto nella forma dello spirito)", contiene "tutti gli elementi della critica", certo "nascosti" e tuttavia "spesso già preparati ed elaborati in un modo che va assai al di là del punto di vista di Hegel". E Marx aggiungerà che "la"coscienza infelice', la 'coscienza nobile', la lotta tra la coscienza nobile e quella ignobile, ecc., questi singoli capitoli contengono gli elementi critici - se pure in una forma ancora estraniata - di interi settori, come la religione, lo Stato, la vita civile [bürgerlich], ecc. ' (v. Marx, 1932; tr. it., p. 166). 

2. Il concetto di alienazione in Feuerbach e nel giovane Marx

Il concetto di alienazione (in quanto scissione ed estraniazione della coscienza) viene ampiamente ripreso da Feuerbach, che ne fa lo strumento fondamentale di una profonda critica della religione cristiana e della stessa filosofia di Hegel.

Secondo Feuerbach, il cristianesimo separa dall'uomo i suoi predicati essenziali e li attribuisce a un ente fantastico, Dio, che in questo modo diventa il vero soggetto, dal quale l'uomo viene a dipendere (in quanto egli si concepisce come posto o creato da Dio). La religione si fonda dunque su una scissione che è astrazione: l'essenza dell'uomo (l'intelligenza, la spiritualità, la volontà, ecc.) viene separata dall'uomo sensibile e finito e concepita come un ente per sé stante, mentre l'uomo sensibile e finito scade a prodotto o a creatura della propria essenza ipostatizzata o sostantificata, cioè scade a predicato del proprio predicato. Questo capovolgimento o inversione, dove ciò che è primo diventa secondo e ciò che è secondo diventa primo, costituisce appunto l'alienazione religiosa. Il compito principale della filosofia è dunque quello di mostrare il carattere puramente umano della religione e di restituire all'uomo ciò che egli ha alienato in Dio. D'altra parte, secondo Feuerbach, la filosofia idealistica si fonda sulla stessa alienazione o scissione. 

Anche la filosofia idealistica, infatti, ha fissato teoreticamente la scissione delle qualità essenziali dell'uomo dall'uomo stesso e le ha divinizzate come essenze per sé stanti: il pensiero è divenuto così un soggetto universale da cui tutto il resto viene a dipendere; è divenuto, anzi, la trama metafisica di tutta la realtà. In questo senso anche la logica di Hegel è una teologia, sia pure razionalizzata: perché, come l'essere della teologia è l'essere trascendente, l'essere dell'uomo posto al di fuori dell'uomo, così l'essere della logica di Hegel è il pensiero trascendente, il pensiero dell'uomo posto al di fuori dell'uomo. Filosofia speculativa e religione si fondano dunque, secondo Feuerbach, sullo stesso processo di astrazione, sulla stessa alienazione. "Astrarre - dice Feuerbach - vuol dire porre l'essenza della natura al di fuori della natura, l'essenza dell'uomo al di fuori dell'uomo, l'essenza del pensiero al di fuori dell'atto del pensiero. La filosofia di Hegel ha estraniato l'uomo da se stesso, avendo fatto poggiare tutto il sistema su questi atti di astrazione" (v. Feuerbach, 1843; tr. it., p. 53).La posizione teorica di Feuerbach è certo composita e singolare. 

Per un verso, infatti, egli riprende da Hegel un importante concetto dialettico, in quanto anche per lui l'alienazione è separazione e scissione, la quale postula quindi una riappropriazione (Wiederaneignung), cioè l'uomo deve riprendere in sé ciò che ha alienato ovvero separato da sé (tanto nella religione cristiana quanto nella filosofia speculativa). Per un altro verso Feuerbach utilizza il concetto di alienazione all'interno di una filosofia sensistico-materialistica, per la quale l'uomo è un ente finito, prodotto dalla natura e iscritto interamente in essa.

La posizione teorica elaborata da Feuerbach ha esercitato un influsso profondo sul giovane Marx, che nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 la fa interamente propria. Anche per Marx l'uomo è in primo luogo un ente sensibile-finito, un ente naturale impegnato in un continuo ricambio con la natura; anche per Marx la religione cristiana e la filosofia speculativa costituiscono alienazioni dell'ente umano.

E tuttavia, già nelle sue opere giovanili, Marx mostra, rispetto a Feuerbach, un interesse più spiccato per il mondo economico-sociale e politico. Per Marx l'uomo è un ente naturale e sociale a un tempo, e se è vero che l'uomo è un prodotto della natura, è altrettanto vero che la natura è in certa misura un prodotto dell'uomo, in quanto essa viene continuamente trasformata dall'attività umana (e lo sarà sempre più quanto più progredirà l'industria). 

Marx è portato quindi ad applicare il concetto di alienazione al mondo sociale e politico prodotto dagli uomini. Ciò appare evidente già in uno scritto marxiano del 1843, La questione ebraica, dove troviamo un uso essenzialmente sociopolitico del concetto di alienazione (espresso terminologicamente in modi diversi: Veräusserung, Entfremdung, Entäusserung). Qui Marx dice che la democrazia politica moderna, prodotta dalla rivoluzione borghese, è "cristiana" perché realizza l'emancipazione soltanto nel cielo dello "Stato politico" (dove tutti gli uomini sono uguali e ogni uomo vale come sovrano), e non nella realtà terrena della "società civile" (bürgerliche Gesellschaft), dove tutti gli uomini sono disuguali. L'emancipazione politica, certo importantissima, diventa così un involucro esterno che ha come contenuto reale la società borghese; il citoyen ha come proprio presupposto e contenuto l'homme. Ma si tratta - aggiunge subito Marx- dell'uomo nella sua manifestazione selvaggia e insociale, "come si è guastato, perduto, alienato [veräussert] attraverso l'intera organizzazione della nostra società, sotto il dominio di rapporti ed elementi inumani". "La rappresentazione fantastica, - continua Marx- il sogno, il postulato del cristianesimo, l'uomo sovrano, ma in quanto ente estraneo [als fremden Wesen], distinto dall'uomo effettivo, diventa nella democrazia la realtà sensibile, il presente, la norma mondana" (v. Marx, 1844; tr. it., p. 373).

Qui Marx presenta dunque come 'alienati', come situazioni di alienazione, entrambi i lati che risultano dalla scissione o dualismo che lacera l'uomo moderno. Se questi in quanto membro della società civile è l'uomo nella sua manifestazione selvaggia e insociale, come si è perduto e alienato attraverso l'intera organizzazione della società, altrettanto alienato è l'uomo 'sovrano', il cittadino, perché in questa determinazione è un ente estraneo, distinto e separato, in una parola scisso dall'uomo effettivo, reale. 

Alienato, insomma, è l'uomo sia in quanto membro della società civile, sia in quanto membro dello Stato politico. Il superamento di questa alienazione si avrà col superamento del dualismo o della scissione che ne costituisce il fondamento: quando cioè l'uomo reale avrà riaccolto in sé l'astratto cittadino e organizzato le proprie forze come forze sociali. Soltanto allora, dice Marx, l'uomo non separerà più da sé la forza sociale nella figura della forza politica.

Individuata in questo modo l'alienazione nel mondo sociale e politico, Marx ne individua anche l'espressione ideologica: la religione cristiana che, a suo avviso, ha portato a termine teoricamente l'autoestraniazione umana. Nel cristianesimo, infatti, l'uomo così com'è, nella miseria della sua situazione effettiva, l'uomo alienato, vien fatto valere nel cielo religioso come un ente sovrano: ma ciò è strettamente funzionale alla società borghese moderna, cioè a una società in cui a un'uguaglianza formale corrisponde una disuguaglianza reale. Nella società borghese l'uomo è libero solo in contraddizione con se stesso, solo in modo astratto, limitato, parziale: per trasferirsi nella sfera dell'universalità politica, dello Stato, deve prescindere dalla sua condizione reale, sociale, dal suo posto nella società civile. 

Con l'emancipazione soltanto politica, l'uomo "si libera facendo un giro vizioso e con l'aiuto di un mezzo", cioè attraverso lo Stato; ma in questo modo l'uomo è "religiosamente vincolato", perché, proprio come nella religione, egli riconosce se stesso solo con un giro vizioso, solo con l'aiuto di un mezzo. Come Cristo è il mediatore a cui l'uomo attribuisce tutta la propria divinità, così lo Stato politico è il mediatore in cui l'uomo trasferisce la sovranità e l'uguaglianza. I membri dello Stato politico sono quindi intrinsecamente religiosi (anche se proclamano laico lo Stato) "per il dualismo fra la vita individuale e quella del genere, fra la vita della società civile [bürgerlich] e la vita politica; religiosi, in quanto l'uomo si rapporta come a sua vera vita alla vita statale, al di là della sua individualità di fatto" (ibid., pp. 372-373). Da ciò Marx conclude che il cristianesimo è l'espressione ideologica dell'alienazione individuata a livello sociopolitico.

Ma è nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 che il concetto marxiano di alienazione o estraniazione trova l'articolazione più ampia e più ricca, in un contesto non più soltanto sociopolitico ma essenzialmente socioeconomico, che è quello della società capitalistica.

Nei Manoscritti la teoria del lavoro alienato si articola in quattro punti principali, strettamente connessi fra loro e implicantisi l'un l'altro. 
1) Il lavoratore è estraniato dal prodotto della propria attività, poiché "l'oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce" (v. Marx, 1932; tr. it., p. 71). 
2) L'estraniazione del lavoratore dal prodotto della sua attività costituisce un'estraniazione dalla stessa attività produttiva. Quest'ultima non è più una manifestazione essenziale dell'uomo, bensì "lavoro forzato", determinato soltanto dalla necessità esterna. Il lavoro non è più autoconferma e sviluppo di una libera energia fisica e spirituale, bensì sacrificio di sé e mortificazione. 
3) In quanto si estrania dall'attività produttiva, il lavoratore si estrania anche dal genere umano. Infatti la libera attività consapevole è il carattere specifico del genere umano; la vita produttiva è la vita "generica". Ma nel lavoro alienato la vita produttiva diventa soltanto mezzo per la sussistenza fisica. 
4) La conseguenza immediata di questa estraniazione del lavoratore dalla vita "generica", dall'umanità, è l'estraniazione dell'uomo dall'uomo. Questa reciproca estraniazione degli uomini trova la sua manifestazione più tangibile nel rapporto operaio-capitalista. Infatti, se il prodotto del lavoro non appartiene all'operaio, ciò avviene perché esso appartiene a un altro uomo estraneo all'operaio; se l'attività dell'operaio è per lui un tormento, essa è godimento e gioia per un altro.


In questa analisi del lavoro alienato è evidente l'uso di categorie e di strumenti teorici di origine hegeliano-feuerbachiana. Lo schema feuerbachiano dell'alienazione religiosa viene ripreso da Marx e applicato alla situazione dell'operaio nella società borghese moderna. L'operaio trasforma la natura, mette negli oggetti il proprio lavoro, la propria intelligenza, le proprie capacità essenziali. Ma più produce oggetti e meno ne possiede, e questi sorgono di fronte a lui come enti estranei, come potenze indipendenti, che lo dominano invece di essere da lui posseduti e dominati. Marx ritrova così nella realtà socioeconomica lo stesso meccanismo dell'alienazione religiosa. L'uomo oggettiva nei prodotti del lavoro, nelle cose, le proprie forze essenziali, ma in quanto i prodotti del lavoro diventano soggetti indipendenti, incontrollabili, che dominano l'operaio invece di essere da lui posseduti e dominati, questi è divenuto o piuttosto è scaduto a predicato dei propri predicati.


Del resto, Marx sottolinea esplicitamente l'analogia fra l'alienazione del lavoro e l'alienazione religiosa analizzata da Feuerbach: "Quanto più l'operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene. 

Lo stesso accade nella religione. Quante più cose l'uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso" (ibid., p. 72). E ancora: "Come nella religione l'attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull'individuo indipendentemente dall'individuo, come un'attività estranea, divina o diabolica, così l'attività dell'operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé" (ibid., p. 75).

È evidente quindi che la teoria feuerbachiana dell'alienazione religiosa e la teoria marxiana del lavoro alienato ricostruiscono un processo che presenta lo stesso 'movimento', la stessa struttura formale: separazione del predicato e sua trasformazione in soggetto; scadere del soggetto reale a predicato del proprio predicato. Ed è altrettanto evidente quanto la teoria feuerbachiana e quella marxiana dell'alienazione debbano a Hegel, al suo concetto di scissione/estraniazione dell'autocoscienza.

È vero che nei Manoscritti economico-filosofici Marx non manca di criticare in più punti la concezione hegeliana, rimproverandole di avere identificato l'alienazione (in quanto categoria logico-metafisica) con l'oggettività: da un punto di vista logico-metafisico, infatti, l'alienazione costituisce per Hegel, come abbiamo visto, il momento del divenir-altro dello spirito, del suo alienarsi nella natura e nella storia. E tuttavia resta il fatto che sia l'alienazione religiosa analizzata da Feuerbach, sia l'alienazione socioeconomica analizzata da Marx presuppongono quel meccanismo di scissione/riappropriazione che è stato teorizzato per la prima volta da Hegel, e che è stato da lui applicato anche a importanti fenomeni storici (si ricordi la dialettica della 'coscienza infelice', o quella fra Stato e Ricchezza, o quella fra Coscienza nobile e Coscienza ignobile, tanto apprezzate da Marx).

D'altro canto, se è evidente quanto Marx debba allo strumento dialettico hegeliano-feuerbachiano dell'alienazione, è altrettanto evidente quanto di nuovo e di originale egli vi immetta, applicandolo alla struttura della società borghese moderna. L'alienazione, l'inversione (feuerbachiana) di soggetto e predicato, diventa in Marx il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo, del capitale sull'operaio. E d'altra parte è proprio l'inversione reale, sociale, operata dalla società borghese moderna, il suo essere un mondo capovolto, a spiegare anche, secondo Marx, l'inversione ideologica analizzata da Feuerbach.

Di qui il fatto che lo sforzo di Marx nei Manoscritti economico-filosofici è sempre teso a mettere in luce la base oggettiva, sociale (ovvero strutturale) dell'alienazione rilevata nella religione e nelle ideologie. Per lui la religione e la filosofia speculativa non sono soltanto, feuerbachianamente, alienazioni di tipo ideologico e teorico, ovvero non sono meri errori o illusioni, bensì sono espressioni di un'alienazione reale, sociale. Se l'uomo della religione cristiana e della filosofia speculativa è soggetto astratto perché scisso da se stesso, estraniato, egli è tale perché l'uomo della società borghese è realmente scisso da se stesso, estraniato. Quando, con la soppressione positiva della proprietà privata e del capitale, l'uomo si approprierà la propria essenza divenutagli estranea, egli supererà anche, secondo Marx, tutte le estraniazioni che a livello del pensiero scindono l'uomo, lo alienano a se stesso. E si avrà questo superamento perché l'uomo produrrà l'uomo, produrrà se stesso e l'altro uomo; perché sopprimerà a tutti i livelli la propria autoestraniazione, e quindi si approprierà a tutti i livelli la propria essenza; perché sarà risolto ogni antagonismo tra l'essenza e l'esistenza. La soluzione degli enigmi teorici, dice Marx, è un compito della pratica, e la vera pratica è una condizione di una teoria reale positiva. 

3. Il concetto di alienazione nell'opera matura di Marx

In tutta l'opera matura di Marx, dai Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica al Capitale, alle Teorie sul plusvalore, il concetto di alienazione/estraniazione ricorre molte volte e ha una funzione teorico-critica decisiva.

Nei Lineamenti fondamentali (il primo grande abbozzo del Capitale) Marx afferma che nell'economia politica borghese, e nell'epoca della produzione cui essa corrisponde (cioè nel capitalismo), quella che appare come una "completa estrinsecazione dell'interiorità umana si presenta come un completo svuotamento, questa universale oggettivazione [si presenta] come estraniazione [Entfremdung] totale" (v. Marx, 1857-1858; tr. it., p. 466). Affermazioni come questa sono numerosissime nei Lineamenti fondamentali. Inoltre, in un gruppo di pagine dedicate all'analisi del tipo di connessione sociale che si realizza per la prima volta nella società borghese moderna, il concetto di alienazione viene sviluppato da Marx nella direzione del feticismo delle merci (ibid., pp. 88 ss.).

La dipendenza reciproca e universale degli individui, mentre poi essi sono indifferenti gli uni agli altri, e anzi in concorrenza gli uni con gli altri, è, dice Marx, la caratteristica dei legami sociali nella società borghese moderna. Tali legami hanno la loro espressione nel valore di scambio, poiché è solo grazie a esso che l'attività, e il prodotto del lavoro di ogni individuo, diventano per lui un'attività e un prodotto; l'individuo deve creare valore di scambio, che ha la sua espressione materiale e determinata nel denaro. Solo in quanto è proprietario di denaro, un uomo esercita il suo potere sull'attività di un altro o sulla ricchezza sociale. "Esso porta con sé, in tasca, il proprio potere sociale, così come la sua connessione con la società" (ibid., p. 88). Il carattere sociale del lavoro e la forma sociale del prodotto appaiono qui come qualcosa di estraneo (Fremdes), di oggettuale-materiale (Sachliches). I rapporti sociali fra gli uomini esistono indipendentemente da essi e sorgono dall'urto fra individui indifferenti fra loro e in concorrenza fra loro. Lo scambio universale delle attività e dei prodotti si presenta a essi come una cosa, estranea e indipendente.

Rispetto alle società preborghesi, caratterizzate da rapporti di dipendenza personale, la società borghese costituisce certo un enorme progresso, poiché essa realizza per la prima volta l'indipendenza delle persone; senonché tale indipendenza è fondata, secondo Marx, sulla dipendenza dalle cose. Infatti, lo scambio mediato dal valore di scambio e dal denaro presuppone una divisione del lavoro assai avanzata e una dipendenza universale tra i produttori, e al tempo stesso il completo isolamento dei loro interessi privati, la cui unità e la cui integrazione reciproca esistono come un rapporto naturale al di fuori degli individui, indipendente da loro.

La necessità di trasformare il prodotto del lavoro in valore di scambio, in denaro, è dovuta al fatto che la produzione non è ancora direttamente sociale, né frutto dell'associazione, e che il lavoro non è ripartito in modo comunitario. Gli individui sono sussunti sotto il lavoro sociale, che pesa su di essi come una fatalità e un potere estraneo; la produzione sociale non è ancora subordinata a essi, che non possono trattarla come una forza e una capacità comuni. Gli uomini si rapportano gli uni agli altri solo attraverso lo scambio delle merci: cioè non si rapportano immediatamente, bensì mediatamente, poiché sono separati e divisi, atomi di una società intimamente scissa e dilacerata - e l'espressione tangibile di ciò è il denaro, che rende manifesta l'estraniazione degli uomini fra loro e la reificazione (Versachlichung, Verdinglichung) dei rapporti sociali.

Già nei Lineamenti fondamentali, dunque, Marx sviluppa la sua teoria dell'alienazione nella direzione del feticismo delle merci. Il feticismo delle merci è per Marx un fenomeno tipico della società borghese moderna e di essa soltanto. In questa società, infatti, il presupposto della produzione non è più la comunità, che organizza la divisione del lavoro e ne distribuisce direttamente i prodotti fra i suoi membri. Ciò avveniva, per esempio, nella comunità contadina patriarcale, dove filatura e tessitura erano in funzione dei bisogni della comunità, e tela e filato venivano ripartiti a seconda di tali bisogni: qui sia i lavori che i loro prodotti erano immediatamente sociali. 

Nella società borghese moderna, al contrario, la connessione sociale si realizza alle spalle degli individui, senza che essi la guidino consapevolmente. Qui gli uomini sono indipendenti, separati gli uni dagli altri, e si rapportano fra loro solo in quanto possessori di merci (sia come possessori dei prodotti del lavoro, sia come possessori del lavoro stesso, divenuto merce): si rapportano cioè non immediatamente, bensì mediatamente, attraverso lo scambio o il mercato. Qui dunque i rapporti fra gli individui appaiono per quel che sono: non come rapporti immediatamente sociali fra persone, ma come rapporti 'cosali', reificati, fra persone, anzi come rapporti sociali fra cose. Il concetto di feticismo è quindi esprimibile anche con la parola 'reificazione': e infatti Marx parla spesso di Versachlichung o di Verdinglichung.

Appare evidente la profonda affinità (che pure è stata contestata da alcuni interpreti) fra il concetto di feticismo delle merci, sviluppato nel Capitale, e il concetto di alienazione sviluppato nei giovanili Manoscritti economico-filosofici. Feticismo o reificazione significa infatti che il rapporto sociale fra i produttori è divenuto "un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori dei produttori". Ma poiché le merci si scambiano sulla base di una uguale quantità di sostanza valorante o lavoro astratto contenuto in esse, e d'altra parte le grandezze di valore variano continuamente, "indipendentemente dalla volontà, dalla prescienza e dall'azione dei permutanti", per questi ultimi "il loro proprio movimento sociale assume la forma di un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo" (v. Marx, 1867-1894; tr. it., vol. I, pp. 88 e 91).

Gli uomini, dunque, sono dominati dai propri prodotti, sono schiavi di ciò che hanno creato, sono sopraffatti da un mondo sociale che è loro estraneo, anche se è frutto della loro attività. Come nei Manoscritti economico-filosofici, anche nel Capitale l'alienazione o reificazione è il dominio del prodotto del lavoro sull'uomo, sicché questi è schiavo di se stesso, della propria attività. L'oggettività sociale è sfuggita al controllo consapevole degli uomini ed è divenuta un soggetto autonomo, che li domina e li asservisce.

Del resto, che la teoria del feticismo delle merci sia una teoria dell'alienazione è dimostrato anche dalle implicazioni che essa ha nel campo dell'ideologia, in quanto essa spiega il persistere della religione nella società moderna. Dice infatti Marx a proposito della "forma fantasmagorica di un rapporto fra cose" che i rapporti fra gli uomini assumono in questa società: "Quindi, per trovare un'analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana" (ibid., p. 88).

Proprio perché il feticismo delle merci è dominio della cosa sull'uomo, in quanto questi viene a dipendere da un movimento di cose, di oggetti che ha prodotto lui stesso, tale feticismo costituisce il fondamento dell'ideologia religiosa; anche nella religione, infatti, l'uomo viene a dipendere dai propri attributi sostantificati, dalle proprie energie essenziali concepite come enti per sé stanti. In questo senso quella 'falsa coscienza' o 'coscienza rovesciata' della realtà che è la religione, non è mera illusione, perché ha un saldo fondamento nella realtà sociale capitalistica, dove l'uomo è costantemente schiavo di se stesso, delle proprie forze oggettivate e incorporate al capitale. La religione è quindi il riflesso religioso del mondo reale, e tale riflesso religioso può scomparire "soltanto quando i rapporti della vita pratica quotidiana presentano agli uomini giorno per giorno relazioni chiaramente razionali fra di loro e fra loro e la natura. 

La figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano" (ibid., p. 97).

Ma il feticismo delle merci è per Marx solo un aspetto dell'alienazione propria della società capitalistica. Esso ha il proprio fondamento anche e soprattutto nel fatto che in tale società il processo lavorativo è diventato mezzo del processo di valorizzazione del capitale. Si tratta, secondo Marx, di un completo capovolgimento o di una completa inversione. Il processo lavorativo crea valori d'uso, cioè trasforma i materiali in prodotti utili, adatti a soddisfare determinati bisogni umani; il processo di valorizzazione, invece, produce valore e plusvalore, valorizza il valore che costituisce il capitale. Nella misura in cui, nella società capitalistica, il processo lavorativo è diventato interno al processo di valorizzazione, cioè è diventato suo mezzo e strumento, il suo significato e il suo ruolo nell'ambito della riproduzione sociale cambiano interamente. Infatti, mentre nel processo lavorativo l'operaio, dice Marx, entra in un normale rapporto attivo con i mezzi di produzione, determinato dalla natura e dal fine del lavoro, cioè l'operaio fa propri i mezzi di produzione e li tratta come puri e semplici materia e mezzo del proprio lavoro, ed essi appaiono quali semplici strumenti della sua attività creatrice, la situazione cambia radicalmente quando il processo lavorativo è diventato mezzo del processo di valorizzazione. Qui non è più l'operaio che consuma i mezzi di produzione come puri e semplici mezzi di vita del lavoro, bensì è la materia prima, l'oggetto del lavoro in generale, che assorbe il lavoro dell'operaio, e lo strumento di lavoro serve solo da conduttore, da veicolo, per questo processo di assorbimento. Il capitale consuma la capacità lavorativa dell'operaio, ovvero si appropria il lavoro vivo come proprio sangue vitale, e quindi diventa, dice Marx, un mostro animato, e comincia ad agire come se "avesse l'amore in corpo" (v. Marx, 1863-1866; tr. it., p. 39). 

Questo dominio del capitale sull'operaio è dominio della cosa sull'uomo, del prodotto sul produttore: non è l'operaio che acquista mezzi di sussistenza e mezzi di produzione, bensì sono i mezzi di sussistenza che acquistano l'operaio per incorporarlo ai mezzi di produzione. I prodotti dell'operaio sono così diventati potenze autonome, "estraniate all'operaio", "feticci dotati di volontà e d'anima proprie" (ibid., p. 35). Si tratta dunque di un completo capovolgimento o di una completa inversione. Come si vede, nel Capitale teoria dell'alienazione e teoria del feticismo si saldano intimamente.

Il concetto di alienazione è dunque centrale non solo nell'opera giovanile di Marx, ma anche nell'opera della maturità.

Se ora, alla luce di tutto quello che si è visto, ritorniamo al rapporto Marx-Hegel, appaiono evidenti sia la trasformazione sia la continuità che caratterizzano il concetto hegeliano e quello marxiano di alienazione. Mentre in Hegel l'alienazione ha in primo luogo un significato logico-metafisico, in quanto è separazione tra soggetto e oggetto, fra coscienza e oggettività storico-empirica, sicché la critica dell'alienazione si configura per Hegel come critica dell'intelletto (che divide e separa rigidamente soggetto e oggetto, pensiero e cosa, coscienza e mondo empirico), e quindi anche come critica dell'illuminismo e della scienza; per Marx, invece, l'alienazione ha in primo luogo un significato storico-sociologico, in quanto denota la separazione dei produttori dai mezzi di produzione, la scissione tra lavoro salariato e capitale, sicché la critica dell'alienazione si configura per lui come critica della società capitalistica e della sua espressione teorica, l'economia politica.

E tuttavia, nonostante questo mutamento di contenuti e di prospettiva, è evidente la profonda continuità fra Marx e Hegel, costituita dal fatto che per entrambi l'alienazione è separazione, scissione di qualcosa che originariamente era unito, e che si è poi diviso, ma che, proprio per ciò, postula la propria riunificazione, sia pure a un livello più alto. (D'altro canto, come sappiamo, anche in Hegel è presente un uso storico-politico del concetto di alienazione: nella sezione della Fenomenologia sullo "spirito estraniato", l'alienazione consiste nel fatto che la coscienza non si riconosce più nel mondo sociopolitico e ideologico da essa prodotto).Ma la connessione fra Hegel e Marx su questo punto non finisce qui. 

C'è un altro elemento di continuità, assai importante, che può essere espresso così: sia per Hegel che per Marx l'alienazione è una categoria centrale e necessaria della storia, qualcosa che non può non verificarsi e che, una volta verificatosi, non può non essere superato (per Hegel tale superamento avviene nel "sapere assoluto", per Marx nel comunismo), in quanto ha in sé le condizioni che renderanno inevitabile il suo superamento. 

Per Hegel l'autocoscienza deve alienarsi, cioè deve farsi mondo e storia; ma, una volta che ha riconosciuto la natura spirituale del mondo e della storia, in quanto questi sono suoi prodotti e quindi hanno la sua stessa struttura categoriale, l'autocoscienza ritorna presso di sé e sopprime l'alienazione.Allo stesso modo, in Marx, l'alienazione è qualcosa di assolutamente necessario, qualcosa che non può non manifestarsi nel corso della storia umana. "Dal punto di vista storico - egli dice- questa inversione appare come il punto di passaggio obbligatorio per ottenere, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, l'inesorabile sviluppo di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono fornire la base materiale di una libera società umana. Passare attraverso questa forma contraddittoria è necessario [...]. È il processo di alienazione del lavoro" (v. Marx, 1863-1866; tr. it., p. 21).

D'altra parte se, come per Hegel, l'alienazione è per Marx qualcosa di necessario, essa è anche, come in Hegel, qualcosa che, una volta posto, contiene in sé tutte le condizioni per il proprio superamento, che è dunque altrettanto inevitabile. Dice infatti Marx a proposito del processo di alienazione del lavoro: "E qui l'operaio si eleva fin dall'inizio al di sopra del capitalista, perché quest'ultimo è radicato in un processo di alienazione nel quale trova il suo appagamento assoluto, mentre l'operaio, in quanto ne è la vittima, è a priori con esso in un rapporto di ribellione, lo sente come processo di riduzione in schiavitù" (ibid., p. 21). 

Senonché, non è solo questione di mancanza di appagamento e quindi di ribellione da parte dell'operaio; questa è solo la premessa soggettiva per il rovesciamento pratico di un modo di produzione che ha in sé contraddizioni oggettive insuperabili, che porteranno inevitabilmente al suo superamento: come Marx si sforza di dimostrare con la sua analisi della caduta tendenziale del saggio del profitto e con la sua previsione della polarizzazione della società capitalistica in due classi sociali, una numerosissima di proletari e una ristretta di capitalisti, sicché, in questa prospettiva, diverrà inevitabile l'espropriazione degli espropriatori. Che Marx abbia sempre tenuto fermo all'una e all'altra tesi (caduta tendenziale del saggio del profitto e polarizzazione sociale), benché avesse individuato anche le controtendenze che avrebbero potuto annullare la caduta tendenziale del saggio del profitto e avesse previsto il sorgere di nuove, numerose classi intermedie con l'avvento del capitalismo delle società per azioni - tutto ciò è un riflesso di quello storicismo provvidenzialistico di tipo hegeliano, di cui Marx ha subito profondamente l'influsso, come dimostra appunto la persistenza nel suo concetto di alienazione di tratti essenziali mutuati da Hegel (nonostante tutte le differenze). 

4. Alienazione e reificazione in Lukács

Il concetto di alienazione è sostanzialmente assente nel marxismo della Seconda Internazionale. Nelle grandi opere economico-sociologiche di Kautsky, di Rosa Luxemburg, di Hilferding, tale concetto, quando compare, ha un ruolo del tutto marginale nell'impianto complessivo dell'analisi.

Il primo teorico marxista che riprende con grande vigore la tematica dell'alienazione e del feticismo, così come essa è svolta nel Capitale di Marx (soprattutto nelle pagine del primo volume, dedicate al "carattere di feticcio della merce e il suo arcano"), è György Lukács, nel suo libro Storia e coscienza di classe (1923). La riproposizione da parte di Lukács del concetto di alienazione, e il fatto che egli lo collochi al centro del marxismo, sono tanto più significativi se si considera che all'epoca della stesura dei saggi raccolti in Storia e coscienza di classe i Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx erano ancora inediti.

Ungherese di nascita, ma formatosi culturalmente in Germania, Lukács immette nella problematica marxiana dell'alienazione, della reificazione e del feticismo elementi mutuati da Rickert, da Simmel e da Max Weber.

Secondo Lukács, il carattere fondamentale della società capitalistica è costituito dalla frantumazione della realtà sociale in innumerevoli sistemi parziali, isolati l'uno dall'altro, che al loro interno sono sempre più 'razionali' e 'razionalizzati', ma che nei loro rapporti vengono a trovarsi sempre più in una condizione di accidentalità. Gli uomini sono impotenti di fronte a questa realtà sociale frantumata, e sono inseriti nei suoi astratti sistemi parziali, ovvero sono coinvolti in un processo nel quale, tanto nella realtà quanto nel pensiero che la riflette, va sempre più perduta la totalità. Il processo lavorativo, a sua volta, è caratterizzato, nell'industria, da una meccanizzazione sempre crescente, e viene sempre più frazionato in operazioni parziali astrattamente razionali. Così il legame del lavoratore col prodotto in quanto intero va perduto, e il lavoro si riduce a una funzione specialistica che si ripete meccanicamente. Questa divisione e meccanizzazione del lavoro penetrano profondamente nella coscienza del lavoratore, con il frazionamento moderno, 'psicologico', del processo lavorativo (taylorismo, ecc.).
Per Lukács è estremamente importante il principio generale che si afferma con la crescente meccanizzazione e divisione del lavoro all'interno dei singoli settori sempre più autonomi e razionali: il principio della razionalizzazione fondata sul calcolo, sulla calcolabilità. La crescente divisione e razionalizzazione del processo lavorativo comporta, da un lato, una crescente scissione del soggetto, e, dall'altro lato, un atteggiamento contemplativo del soggetto stesso verso il processo lavorativo. Accade così che la peculiarità e le qualità umane del lavoratore appaiano sempre più come mere fonti di errore di fronte al funzionamento calcolato in anticipo dei processi produttivi. Il lavoratore non è più l'autentico tramite del rapporto tra se stesso e il processo lavorativo: egli viene inserito come una parte meccanica in un sistema meccanizzato, che trova già pronto di fronte a sé e che funziona in piena indipendenza da lui secondo leggi alle quali egli deve soltanto adeguarsi.
Da tutto ciò consegue una crescente scissione e opposizione fra l'uomo e il suo mondo sociale. L'oggettivazione della forza-lavoro di fronte alla personalità complessiva del lavoratore (oggettivazione che si è già compiuta mediante la vendita della forza-lavoro come merce) si trasforma in realtà quotidiana permanente e insuperabile, cosicché l'uomo diventa uno spettatore incapace di influire su ciò che accade nella sua esistenza, una particella isolata e inserita in un sistema estraneo.Nella forma organizzativa dell'azienda industriale si manifesta in modo concentrato, secondo Lukács, la struttura dell'intera società capitalistica. Egli si ispira su questo punto a Max Weber, il quale aveva scritto: "L'azienda capitalistica è anzitutto ed intimamente fondata sul calcolo. Essa ha bisogno per esistere di un apparato giudiziario ed amministrativo il cui funzionamento possa essere, almeno in linea di principio, calcolato razionalmente sulla base di norme generali stabili, così come si calcolano le prevedibili prestazioni di una macchina [...]. L'elemento specifico del capitalismo moderno di fronte alle più antiche forme di attività capitalistica è l'organizzazione rigorosamente razionale del lavoro sul terreno della tecnica razionale" (cit. in Lukács, 1923; tr. it., pp. 124125). Anche per Lukács il calcolo razionale, l'organizzazione creata sulla base di tale calcolo e la prevedibilità caratterizzano la società capitalistica a tutti i livelli.
Ciò si manifesta in modo particolarmente chiaro, secondo Lukács, nel diritto, dove si ha una sistemazione razionale di tutte le regole giuridiche, che formano un sistema completo, riferibile a tutti i casi possibili. Tale sistema sorge sulla base delle esigenze della 'razionalizzazione', della prevedibilità e del calcolo razionale, che sono divenuti la quintessenza della realtà sociale: sostanzialmente identico, infatti, è l'atteggiamento dell'operaio di fronte alla macchina, dell'imprenditore di fronte al funzionamento dell'azienda, del tecnico di fronte alla scienza e alla redditività della sua applicazione industriale.Senonché questa 'razionalizzazione', che è propria della società capitalistica a tutti i livelli, trova il proprio limite essenziale, secondo Lukács, nella irrazionalità dell'insieme, cioè nella reciproca accidentalità in cui stanno i vari settori della società capitalistica. Anzi, proprio questo è, secondo il pensatore ungherese, il carattere peculiare della società borghese moderna: la razionalità delle parti differisce radicalmente dall'irrazionalità dell'intero. La razionalizzazione che domina nei singoli settori, e che caratterizza anche l'essere psichico dell'uomo, appare come una razionalità monca e parziale, che ha il proprio pendant nella irrazionalità del processo complessivo. Tale irrazionalità si mostra nell'autonomia relativamente grande che i singoli sistemi parziali hanno gli uni rispetto agli altri e nella reciproca accidentalità, che si acuisce drammaticamente nei momenti di crisi. Nelle crisi diventa evidente a tutti che la razionalità formale della razionalizzazione capitalistica non solo priva l'uomo di ogni creatività, di ogni autentico controllo dei processi produttivi, ma che essa ha inoltre come proprio rovescio una profonda irrazionalità del processo complessivo.In questa caratterizzazione lukácsiana del fenomeno dell'alienazione e della reificazione confluiscono, come abbiamo già detto, elementi ricavati non solo da Marx, ma anche da Rickert, da Weber e da Simmel, in una sintesi sofisticata e complessa, ma anche notevolmente semplificata rispetto alla posizione di Marx. Infatti per Lukács il fenomeno dell'alienazione e della reificazione sembra risolversi interamente nella divisione e parcellizzazione del lavoro, nell'organizzazione razionale della produzione moderna, nell'applicazione della scienza e della tecnica ai processi produttivi. 
Rispetto alla concezione marxiana dell'alienazione e della reificazione sembra quindi evidente, in Lukács, una Stimmung diversa. E infatti nella caratterizzazione lukácsiana risuonano, chiarissimi, accenti spiritualistici: la fabbrica, egli dice, "riduce il tempo e lo spazio ad un unico denominatore", "porta il tempo al livello dello spazio", "il tempo perde così il suo carattere qualitativo, mutevole, fluido", si "irrigidisce in un continuum esattamente delimitato, quantitativamente misurabile, riempito di 'cose' quantitativamente misurabili"; il tempo è divenuto un "tempo astratto, esattamente misurabile", "si è trasformato in uno spazio fisicalistico, come mondo circostante", ecc. (v. Lukács, 1923; tr. it., pp. 116-117). 
Accenti simmeliani, come è stato rilevato, essendo un tema centrale della riflessione di Simmel quello del contrasto tra il processo creativo della vita che si esprime in forme e le forme che si consolidano in prodotti fissati e irrigiditi.Del resto, in Storia e coscienza di classe di Lukács emerge anche una tesi che non è dato trovare nell'opera di Marx: che il metodo delle scienze naturali sia la manifestazione per eccellenza dell'alienazione e della reificazione capitalistiche. Ciò che più colpisce, dice infatti Lukács, nel metodo delle scienze della natura, nel modo in cui esse indagano i fatti, è che lo sviluppo capitalistico tende a produrre una struttura della società che asseconda quell'impostazione concettuale. I fatti 'puri' delle scienze naturali sorgono in quanto certi fenomeni della vita vengono trasposti realmente o idealmente in circostanze nelle quali i loro caratteri conformi a legge possono essere indagati senza l'intervento perturbatore di altri fenomeni. Questo processo tende a ridurre i fenomeni alla loro essenza puramente quantitativa, espressa in numeri e in rapporti numerici. Senonché, secondo Lukács, è proprio dell'essenza del capitalismo produrre i fenomeni in questa forma. Il carattere feticistico delle forme economiche, la reificazione di tutti i rapporti umani, la crescente divisione del lavoro che scompone il processo produttivo in modo astrattamente razionale, tutto ciò incide profondamente sui processi sociali e modifica la loro appercezione. Sorgono fatti 'isolati', complessi isolati di fatti, settori parziali (economia, diritto, ecc.), dotati di leggi proprie, che sembrano essere già ampiamente predisposti nelle loro forme fenomeniche immediate a un'indagine secondo il metodo delle scienze naturali. Sicché, dice Lukács, assume un valore 'scientifico' sviluppare coerentemente questa tendenza, insita nelle cose stesse, elevandola a scienza. Ci sarebbe, insomma, un'affinità profonda fra la struttura della società capitalistica e il metodo delle scienze naturali, in quanto la scienza lacera la totalità della realtà in singoli settori e processi, perdendo di vista l'intero al di là dei propri campi specialistici. 
Quanto più una scienza si sviluppa, tanto più prescinde dai problemi ontologici della sua sfera; quanto più essa si perfeziona, quanto più diventa 'scientifica', tanto più essa si trasforma in un sistema formalmente completo di leggi parziali, per il quale tutto ciò che si trova al di fuori del suo campo, e persino la 'materia' che esso dovrebbe proporsi di conoscere, diventa inafferrabile sia per ragioni di metodo che di principio. Non a caso Lukács vede nella filosofia di Bergson, che contesta il valore della conoscenza scientifica di fronte alla "vita vivente", un tentativo di opposizione all'alienazione e alla reificazione capitalistiche. Con ciò il pensatore ungherese ha identificato completamente la critica dell'alienazione e della reificazione con la critica dell'intelletto e della scienza. Questa impostazione avrà una grande fortuna, soprattutto nella filosofia e nella sociologia della Scuola di Francoforte. 

5. La Scuola di Francoforte

Nel 1941 Herbert Marcuse pubblicò sugli "Studies in philosophy and social sciences" (la rivista dell'Istituto per la ricerca sociale) un saggio, Alcune implicazioni della moderna tecnologia, che contiene una rapida sintesi di molti temi sviluppati più tardi dall'autore.
La tecnica, dice Marcuse all'inizio del suo saggio, può promuovere libertà come autoritarismo, abbondanza come scarsità, abolizione come intensificazione del lavoro. Senonché, nel corso della sua analisi Marcuse non solo attenua, ma addirittura nega questo carattere 'neutrale' della tecnica, per vedere nella 'società tecnologica' la società alienata per eccellenza.Nel XVI e nel XVII secolo, egli dice, l'individuo esprimeva alcuni valori fondamentali (religiosi, politici ed economici) che nessuna autorità esterna poteva conculcare. Tali valori ispiravano forme di vita, sociale oltre che personale, adatte al pieno sviluppo delle facoltà e delle capacità dell'uomo: perciò esse rappresentavano la 'verità' della sua esistenza. L'individuo si riteneva capace, in quanto essere razionale, di scoprire queste forme col proprio pensiero, e di tradurle nella realtà. Il compito del potere politico era soltanto quello di garantire al singolo questa libertà e di rimuovere tutte le restrizioni all'esercizio della razionalità umana. Ciò avveniva nell'ambito di una struttura economico-sociale costituita da una miriade di piccoli imprenditori indipendenti in concorrenza fra loro. Di fronte a essi lo Stato si limitava a tutelare le regole del gioco, e l'individuo manifestava, per così dire, la propria individualità attraverso la propria capacità di intrapresa, che gli permetteva di provvedere ai propri bisogni personali e a quelli di una parte della società.
Nel corso del tempo, però, il processo di produzione delle merci sgretolò la base economica su cui si era costruita la razionalità individualistica. La meccanizzazione e la razionalizzazione dei processi produttivi costrinsero i concorrenti più deboli a subire il predominio dei grandi colossi industriali. Questa nuova situazione trasformò la razionalità individualistica in razionalità tecnologica, la quale non limitò il proprio influsso ai soggetti operanti nelle imprese giganti, bensì plasmò la società a tutti i livelli. Ne nacque il tipo di razionalità tecnologica che predomina ancor oggi, la quale stabilisce criteri di giudizio e incoraggia atteggiamenti che predispongono l'uomo ad accettare e persino a interiorizzare i Diktat del sistema. Il 'libero' soggetto economico è divenuto oggetto di un'organizzazione e di una pianificazione su larga scala, e la conquista individuale si è trasformata in efficienza standardizzata. Il nuovo atteggiamento dell'individuo è caratterizzato da una completa acquiescenza (sia pure 'altamente razionale') ai processi sociali, da una totale perdita di spontaneità e di creatività, con relativa cancellazione di tutte le potenzialità umane.
Manovrando la macchina, l'uomo impara che l'obbedienza alle direttive per il funzionamento della macchina medesima è il solo modo di ottenere i risultati desiderati. Sotto questo profilo, l'adattamento al sistema non ha alternative e non c'è spazio per iniziative autonome. I rapporti tra gli uomini sono sempre più mediati dal processo meccanico, il quale funziona secondo le leggi della fisica ed è finalizzato alla produzione di massa. La razionalità si trasforma così da forza critica in razionalità tecnologica, cioè in un atteggiamento di adeguamento e di acquiescenza. L'autonomia della ragione perde di significato nella stessa misura in cui pensieri, sentimenti e azioni dell'uomo vengono plasmati dalle esigenze tecniche del sistema che lui stesso ha creato. L'individuo diventa così un accessorio di un apparato o di un complesso di apparati che gli impone le proprie regole e la propria legalità.Questo saggio di Marcuse anticipa in modo sorprendente molti dei temi che saranno poi al centro di una sua celebre opera: L'uomo a una dimensione (1964). E infatti nel saggio di cui abbiamo parlato, nonostante alcuni spunti critici (più rituali che sostanziali) verso la società capitalistica e la concentrazione monopolistica, l'attenzione si incentra sulla macchina, sul suo funzionamento (che ubbidisce alle leggi della fisica e non alla 'libertà' dell'uomo), sull'organizzazione industriale, sull' 'apparato' che ne deriva, la cui razionalità formale ingabbia e stritola l'uomo, e via dicendo.
Del resto, questa concezione dell'alienazione e dell'estraniazione era già stata espressa da Marcuse in un saggio del 1933, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica. Qui l'autore aveva insistito sul carattere di 'peso' del lavoro, poiché esso sottomette il fare umano a una legge estranea, alla legge della 'cosa' che deve essere realizzata, e che rimane sempre una 'cosa', un alcunché che è altro dalla vita. Nel lavoro, chi domina è sempre la 'cosa', sia che l'uomo stia dietro una macchina, sia che progetti dei piani tecnici, sia che prenda delle misure organizzative, sia che studi dei problemi scientifici. Nel suo fare l'uomo si lascia guidare dalla cosa, si assoggetta e ubbidisce alle sue leggi, anche quando sembra dominarla o disporne a piacimento. "Questa alienazione ed estraniazione dell'esistenza, - aveva affermato Marcuse - questo prendere su di sé la legge della cosa invece di lasciar accadere la propria esistenza, è, per principio, ineliminabile, anche se può sparire durante e dopo il lavoro fino all'oblio completo, e non coincide affatto con la resistenza della 'materia', né cessa con la conclusione del singolo atto lavorativo; l'esistenza è in se stessa rivolta a questa cosalità" (v. Marcuse, 1965; tr. it., p. 170). 
Questa critica del lavoro in quanto tale, ovvero in quanto processo di alienazione e di estraniazione, è rivolta in primo luogo ed essenzialmente, come è evidente, al lavoro industriale, cioè al lavoro ad alto contenuto tecnologico. Tale concezione marcusiana troverà la sua espressione più esplicita in L'uomo a una dimensione. "La tecnologia - si legge in questo libro - è diventata il maggior veicolo di reificazione, di reificazione nella sua forma più matura ed efficace. Non soltanto la posizione sociale dell'individuo e la sua relazione con gli altri appaiono determinate da qualità e da leggi oggettive, ma queste sembrano perdere il loro carattere misterioso e incontrollabile, e appaiono come manifestazioni calcolabili della razionalità (scientifica). Il mondo tende a diventare materia di amministrazione totale, che assorbe in sé anche gli amministratori. La tela di ragno del dominio è diventata la tela della Ragione stessa, e la società presente è fatalmente invischiata in essa" (v. Marcuse, 1964; tr. it., p. 181).
La concezione del lavoro e dell'industria come veicoli di alienazione e di reificazione è al centro di un'altra celebre opera della Scuola di Francoforte: Dialettica dell'illuminismo di Horkheimer e Adorno (1947). Qui illuminismo ha un significato assai ampio e non denota un'epoca o una corrente culturale delimitata e precisa. Scrivono infatti gli autori: "L'illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l'obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura. [...] Gli uomini pagano l'accrescimento del loro potere con l'estraniazione da ciò su cui lo esercitano. L'illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli. [...] Ogni tentativo di spezzare la costrizione naturale spezzando la natura cade tanto più profondamente nella coazione naturale. È questo il corso della civiltà europea" (v. Horkheimer e Adorno, 1947; tr. it., pp. 11, 17, 21).
Si noti: la radice dell'illuminismo è da cercare in un preciso atteggiamento dell'uomo verso la natura, ovvero nella pretesa di conoscerla per trasformarla e plasmarla ai propri fini. In ciò l'uomo vuole rendersi simile a Dio, e ci riesce pienamente: "Come signori della natura, Dio creatore e spirito ordinatore si assomigliano. La somiglianza dell'uomo con Dio consiste nella sovranità sull'esistente, nello sguardo padronale, nel comando" (ibid., p. 17). Sguardo padronale, comando, dominio della ragione strumentale sulle cose: tutto ciò determina la sventura dell'uomo occidentale, la cui pretesa 'civiltà' è in realtà un progresso inarrestabile di decadenza e di imbarbarimento, che va da Odisseo a Hitler.Se all'origine della sventura dell'Occidente c'è la manipolazione della natura, cioè la sua dissacrazione scientifica e tecnica, allora la critica non può non indirizzarsi, in primo luogo ed essenzialmente, verso quel pensiero "nella sua forma reificata" che si esprime "come matematica, macchina, organizzazione". Il grande avversario, insomma, è la scienza, sia nella sua forma teorico-astratta, sia nelle sue concrete applicazioni tecniche e industriali. Il culmine dell'illuminismo è costituito infatti dall'industrialismo, il quale "reifica le anime", a differenza dell'animismo, che "aveva vivificato le cose".
Alla luce di queste indicazioni, sembra evidente che nella Scuola di Francoforte il concetto di alienazione/estraniazione (nonché quello di reificazione) subisce una trasformazione profonda rispetto all'elaborazione che ne aveva dato Marx. Per gli esponenti della Scuola, infatti, non si tratta più soltanto del rapporto lavoro salariato/capitale, e della 'cosificazione' dei rapporti sociali in una società interamente mercificata, bensì del lavoro e dei suoi caratteri tecnico-industriali.

Studi sociologici sull'alienazione 
di Alessandro Cavalli

Il riferimento al concetto marxiano di alienazione è assai frequente nella sociologia contemporanea, sia da parte di coloro che si riconoscono in una qualche variante del marxismo, sia da parte di coloro che si collocano al di fuori di questa tradizione di pensiero. Per i primi si tratta per lo più di elaborare criticamente le varie accezioni del concetto marxiano di alienazione mediante un lavoro di ricostruzione filologica e di interpretazione, al fine di costruire una teoria unitaria. Un esempio di questo tipo è fornito dall'opera di A. Schaff, L'alienazione come fenomeno sociale, nella quale l'autore distingue tra alienazione oggettiva e alienazione soggettiva. 
Per alienazione oggettiva Schaff intende un processo mediante il quale "i prodotti dell'uomo si trasformano [...] in una forza estranea all'uomo, una forza che si oppone alla sua volontà, contrasta i suoi progetti, anzi minaccia la sua stessa esistenza e finisce per dominarlo" (v. Schaff, 1977; tr. it., p. 167). Tali prodotti possono essere sia i prodotti del lavoro umano (in questo caso si parla di alienazione economica), sia le istituzioni politico-sociali, sia, infine, i prodotti dello spirito. Per alienazione soggettiva, o autoalienazione, Schaff intende l'alienazione dell'individuo dalla società e dagli altri esseri umani, così come l'alienazione dal proprio Io, dalla propria vita e dal proprio operare. Tra le due forme di alienazione vi è sia un nesso causale (nel senso che l'alienazione oggettiva "si rispecchia nella coscienza degli uomini assumendo la forma delle specie più diverse di alienazione soggettiva": ibid., p. 311), sia un nesso di retroazione, o di feedback: l'alienazione soggettiva (ad esempio il senso di impotenza dell'operaio di fronte al processo produttivo) contribuisce a mantenere e rafforzare l'alienazione oggettiva.
Anche J. Israel (v., 1971), riprendendo più da vicino l'impostazione di Lukács, distingue tra "processi di estraniamento" (cioè le condizioni materiali sul luogo di lavoro che inducono alienazione) e "stati di estraniazione" per indicare le disposizioni psicologiche che si generano in tali condizioni.
La distinzione operata da Schaff, da Israel e da altri è utile per cogliere non solo gli sviluppi che il concetto di alienazione ha avuto nell'ambito della sociologia di ispirazione marxista, ma anche il modo in cui il concetto è stato recepito dalla sociologia del lavoro che non segue tale impostazione. In quest'ambito, infatti, si tende a privilegiare fortemente l'analisi dei risvolti soggettivi dell'alienazione. Che il lavoratore sia separato dai prodotti del suo lavoro e dai mezzi di produzione è un fatto che, nella moderna economia costituita da grandi organizzazioni produttive e burocratiche, viene dato per scontato. Non sembra infatti di grande utilità un concetto che si applichi a tutte le forme di lavoro dipendente. Ci si interroga, invece, su quali siano le forme di divisione del lavoro e di controllo sulle prestazioni lavorative alle quali far risalire la genesi dell'alienazione intesa come condizione riscontrabile nella mente e nel comportamento dei lavoratori. 
L'alienazione cessa così di essere un fenomeno intrinsecamente connesso al modo di produzione capitalistico o, più in generale, alla condizione dell'uomo moderno, per diventare una variabile che si presenta ora in forme più accentuate ora in forme più attenuate a seconda del modo in cui il lavoro è organizzato. Il concetto di alienazione viene così a perdere le sue connotazioni filosofiche per tradursi in uno strumento concettuale in base al quale orientare la ricerca empirica sul modo in cui i lavoratori vivono soggettivamente le condizioni nelle quali si trovano a operare.
Il lavoro pionieristico di M. Seeman (v., 1959) si colloca esattamente in questa prospettiva. In esso, come vedremo, gli echi del concetto marxiano non sono certo perduti, ma vengono per così dire declinati in termini di dimensioni empiriche dell'alienazione. Seeman enumera cinque di tali dimensioni: il senso di impotenza derivante dallo scarso o nullo potere di decisione del lavoratore in merito a che cosa e come produrre; l'assenza di significato legata all'incapacità del lavoratore di cogliere il nesso complessivo nel quale la sua prestazione si inserisce come una parte; l'assenza di norme interiorizzate in base alle quali il lavoratore possa orientare il suo comportamento in senso conforme o deviante; l'isolamento del lavoratore dai suoi compagni e, più in generale, dalla comunità umana in cui vive; infine, l'autoestraniamento in base al quale il lavoratore percepisce se stesso come una persona estranea e che si coglie assai bene quando gli operai dichiarano che la loro vita incomincia soltanto quando escono dai cancelli della fabbrica.
Da questa semplice elencazione risulta tuttavia chiaro come Seeman combini tra loro dimensioni di inconfondibile derivazione marxiana con altre che rimandano piuttosto ad autori come Durkheim e Fromm. Il suo intento, tuttavia, non è quello di costruire sul concetto di alienazione un'impianto teorico capace di dar conto di aspetti fondamentali delle moderne società industriali, quanto piuttosto quello di ricavare strumenti per la ricerca empirica. L'articolazione del concetto di alienazione in dimensioni 'osservabili' (ad esempio mediante le dichiarazioni dei lavoratori nel corso di interviste), operata da Seeman, ha infatti stimolato una serie di importanti ricerche che sono diventate dei classici della moderna sociologia del lavoro.Tra queste merita di essere ricordata la ricerca condotta da R. Blauner (v., 1964) in quattro industrie caratterizzate da un diverso apparato tecnologico e organizzativo: le industrie automobilistica, tessile, chimica e tipografica. Nella prima prevale l'organizzazione del lavoro alla catena di montaggio, l'operaio non ha alcun potere nel determinare le modalità della sua prestazione, deve seguire rigorosamente i ritmi di lavoro imposti dalla macchina, opera in modo isolato rispetto agli operai che si collocano a monte e a valle della sua postazione e non è in grado di ricondurre mentalmente a unità il processo complessivo nel quale è coattivamente inserito. 
Anche nell'industria tessile altamente meccanizzata prevale una condizione di esclusiva dipendenza del lavoro umano dal lavoro meccanico. L'operaio addetto a una serie di telai meccanici, ad esempio, deve intervenire prontamente per rimettere in funzione le macchine dove si è verificato qualche inconveniente (la rottura del filo, o altro) senza che ciò comporti l'esercizio di un minimo di potere discrezionale e di rapporto comunicativo con i compagni di lavoro. Nell'industria chimica, invece, prevale un tipo di lavoro di squadra altamente qualificato che richiede competenze tecniche, potere discrezionale e capacità di comunicare e cooperare con altri. Nell'industria tipografica di tipo tradizionale, infine, il lavoro è altamente qualificato, comporta un elevato grado di discrezionalità e di controllo individuale sulla qualità della prestazione e si accompagna in genere all'acquisizione da parte del lavoratore di uno spiccato orgoglio professionale.
Queste ricerche mettono in luce come l'alienazione sia una variabile dipendente dall'organizzazione del lavoro e come questa, a sua volta, dipenda dal tipo di tecnologia utilizzata. L'alienazione quindi risulta massima in quelle lavorazioni a catena dove si applicano nel modo più integrale i principî organizzativi del cosiddetto taylorismo-fordismo, mentre tende a ridursi là dove l'organizzazione del lavoro utilizza tecnologie che lasciano maggiore discrezionalità al singolo operaio o al singolo gruppo di lavoro. La catena di montaggio, in particolare la catena di montaggio dell'automobile, è stata per lungo tempo il simbolo culturale del lavoro alienato e un oggetto privilegiato di ricerca da parte della sociologia del lavoro, sia in America sia in Europa, soprattutto negli anni cinquanta (v. le ricerche di Walker e Guest, 1952, e di Touraine, 1955). Bisogna tuttavia ricordare che, anche nel periodo della massima diffusione, la quota di operai che lavoravano alla catena di montaggio non ha mai superato negli Stati Uniti il 5% del complesso dei lavoratori manuali.
Negli ultimi trent'anni si è aperto un ampio dibattito, sia in sede di ricerca scientifica sia nell'ambito delle relazioni industriali, alimentato dalla speranza che l'avvento dell'automazione industriale avrebbe grandemente ridotto la quota di lavoro alienato nelle fabbriche, sostituendo le operazioni più meccaniche e meno qualificate con attività a più alto contenuto tecnico-professionale. Questo dibattito, tuttavia, non ha condotto a conclusioni incontrovertibili e a un consenso generalizzato sugli effetti dell'automazione sulla qualità del lavoro umano. Se da un lato, infatti, l'automazione dei processi produttivi fa scomparire le mansioni manuali più ripetitive e prive di contenuto professionale, dall'altro essa stessa produce nuove mansioni che non necessariamente richiedono prestazioni e capacità mentali più ricche di contenuto. 
Il dibattito si è in particolare soffermato sui punti seguenti: 1) i processi automatizzati richiedono soprattutto capacità di vigilanza, attenzione nel percepire segnali e prontezza di riflessi nel rispondere con atti preordinati e prescritti (ad esempio schiacciare determinati pulsanti di una tastiera quando sullo schermo compaiono determinati segnali); 2) i calcolatori che governano i processi automatizzati sono in grado di incorporare nella loro memoria un sapere che un tempo risiedeva nel cervello dei lavoratori; 3) il controllo esercitato dalla macchina automatizzata sul lavoro umano non è meno pressante di quanto non succedesse in stadi precedenti del processo di meccanizzazione; 4) la ripetitività delle operazioni viene sostituita da lunghi tempi di attesa che non consentono tuttavia di allentare l'attenzione; 5) l'automazione del lavoro d'ufficio impoverisce di contenuto molte mansioni impiegatizie che precedentemente comportavano l'esercizio di un'autonoma capacità di giudizio e di decisione; 6) l'automazione favorisce l'introduzione di processi di produzione continui (24 ore su 24) e quindi costringe una quota di lavoratori a orari di lavoro che li isolano dalle attività extralavorative del resto della società.
Dal dibattito e dalle ricerche non è quindi possibile ricavare una risposta univoca all'interrogativo se l'automazione contribuisca a restringere o ad allargare l'ambito delle capacità e la sfera di autonomia dei lavoratori in generale. Si può dire però che gli effetti dell'automazione si manifestano in modo molto diseguale non solo in settori e attività diverse, ma anche all'interno di ogni singolo luogo di lavoro tra mansioni diverse.L'alienazione quindi, anche nel senso ristretto in cui il concetto viene utilizzato nella sociologia del lavoro contemporanea, non sembra comunque un fenomeno destinato a scomparire. Ogniqualvolta una persona avverte, più o meno consapevolmente, che le mansioni lavorative svolte utilizzano solo una quota limitata delle proprie capacità, oppure che il lavoro svolto impedisce alle proprie capacità potenziali di svilupparsi ed esprimersi, possiamo ritenere di essere in presenza di una condizione di alienazione. Tale condizione può non risultare tuttavia del tutto trasparente alla stessa persona che la sperimenta, ma può esprimersi in comportamenti e stati soggettivi che la manifestano indirettamente. 
La frequenza degli infortuni sul lavoro, l'assenteismo, la propensione al licenziamento volontario, ma anche l'alcolismo, l'assunzione di droghe e gli stati depressivi, sono tutti fenomeni correlati a condizioni lavorative che comportano alienazione. Quanto più la sfera lavorativa occupa una posizione centrale nell'esistenza sociale e individuale, tanto più il lavoro alienato e alienante tende a produrre situazioni patologiche per l'individuo e per la società.

Enciclopedia Italiana (1978)

di Lucio Colletti

Nel linguaggio giuridico, il termine indica il trasferimento del diritto di proprietà su un determinato bene da un soggetto a un altro. In questo senso, l'a. può essere compiuta in vista di un corrispettivo, come nella vendita, oppure a titolo gratuito, come nella donazione. Un significato più largo, il termine ha acquistato in filosofia e in sociologia, dove sta a indicare un processo nel corso del quale ciò che originariamente appartiene all'uomo ed è opera sua, gli diviene alieno o estraneo, finendo, da ultimo, col dominarlo e asservirlo.

Il punto d'incontro tra il significato giuridico, originario, e quello etico-filosofico, ora accennato, può essere individuato in Rousseau, nella cui opera il tema dell'a. è posto in rapporto con quello della sovranità (Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, Amsterdam 1755; Du Contrat social ou Principes du droit politique, ivi 1762). Rousseau nega che la sovranità possa essere alienata, cioè trasferita dal popolo (che ne è il titolare originario) ai suoi rappresentanti (i deputati in parlamento); perché - afferma - se la sovranità è alienata, cioè ceduta (sia pure temporaneamente), si produce una duplice scissione: una scissione, interna alla società, tra sfera pubblica e sfera privata, e una scissione, interna all'uomo, tra citoyen e bourgeois.

L'idea che affiora, in questo contesto, è che l'a. non sia da intendersi come la semplice cessione di qualcosa di estrinseco o d'indifferente, quanto, piuttosto, come la perdita o il trasferimento ad altri di qualcosa (la libertà) che, essendo parte integrante e perciò inseparabile, della persona o del corpo sociale, determina in entrambi (quando venga alienata) una condizione dimidiata, cioè uno stato di interna separazione o lacerazione. In questo senso è significativo che, nell'opera di Rousseau, il tema dell'a., oltre che con la sfera della rappresentanza politica, risulti connesso col tema della divisione del lavoro e, più in generale, con quella sorta di perdita dell'identità che Rousseau vede realizzarsi nella società civile moderna, dove - dice - l'uomo non sa vivere che nell'opinione degli altri ed è per così dire unicamente dal loro giudizio che deriva il sentimento della propria esistenza.

Questo motivo dell'anormalità e infelicità, che è connessa alla separazione o scissione, è al centro anche degli sviluppi che l'idea di a. riceve nella filosofia di Hegel (Die Phänomenologie des Geistes, Würzburg-Bamberga 1807). Anche qui l'a. si produce dalla divisione di un'unità originaria. Ma quest'unità non è più il popolo o la comunità, di cui parla Rousseau, bensì è l'Idea assoluta o Logos cristiano. Hegel, in altre parole, trasferisce il concetto di a. nel campo della teologia cristiana, connettendolo all'idea della creazione del mondo da parte di Dio. L'Idea si aliena, cioè si fa "altra" da sé, ponendosi od oggettivandosi come Natura. Il mondo naturale, quindi, non è una realtà indipendente, a sé stante, bensì è un che di "posto" o creato. È un risultato della scissione dell'unità originaria, cioè dell'assoluto, il quale si divide perché - per realizzarsi come Spirito - esso ha bisogno di prender coscienza di sé, cioè di oggettivarsi a sé stesso e, così, conoscersi.

Essendo strumento e mezzo di un processo positivo, è evidente che l'a. - sebbene implichi scissione, opposizione e, perciò, negazione - ha conclusivamente, per Hegel, valore positivo essa stessa. Infatti, la scissione che l'Idea compie di sé, opponendosi a sé stessa come natura, è un momento necessario e inevitabile, perché - riconoscendosi nell'"altro" e, quindi, negando la sua negazione - l'Idea possa ristabilire l'unità originaria e attuarsi come autocoscienza. In questo senso, parrebbe improprio collegare il tema della scissione o a. a quello dell'infelicità. Senonché, se il processo è globalmente positivo quando lo si consideri dal punto di vista dell'Idea, non altrettanto può dirsi per l'ordinario intelletto umano.

Prima che l'uomo infatti arrivi ad adeguare la propria coscienza al processo dell'Idea e, quindi, a innalzare il proprio punto di vista soggettivo a quello dell'assoluto o del sapere filosofico, è inevitabile che egli sperimenti l'a. come infelicità. Non a caso Hegel parla, a questo proposito, della "coscienza infelice". Si tratta del fatto che, vivendo all'interno della scissione, senza sapere donde essa origini né come preluda al ristabilimento dell'unità, l'uomo si trova nello stato della più completa separazione: della separazione di sé dalla comunità sociale di cui è parte, nonché della separazione tra Io e mondo, tra soggetto e oggetto, tra intelletto e natura. Prigioniero di queste antitesi, l'uomo ha una rappresentazione capovolta della realtà. La natura, che è in effetti qualcosa di creato o di "posto", gli appare come una realtà originaria e indipendente; mentre il pensiero (l'idea), che in realtà è il "prius", gli appare come un che di subordinato e condizionato. Ciò che è il primo diventa, così, il secondo, e viceversa.

Domina, in breve, il punto di vista del senso comune e dell'ordinario intelletto umano; il quale, essendo incapace di attingere l'unità degli opposti, percepisce la realtà in termini di antitesi irrisolte e, perciò, nella forma di una scissione lacerante. In questa prospettiva, il superamento dell'a. viene a coincidere, per Hegel, con l'abbandono del punto di vista ingenuamente materialistico del senso comune e col passaggio alla filosofia o idealismo, il quale adegua finalmente la coscienza umana al processo stesso attraverso cui si sviluppa l'Idea.

Una concezione dell'a., opposta a quella di Hegel, è offerta dall'opera di L. Feuerbach, che individua il fenomeno dell'a. soprattutto nel campo della religione e, in particolare, del cristianesimo, che egli considera la forma di religione più completa ed evoluta (Das Wesen des Christenthums, Lipsia 1841; Grundsaetze der Philosophie der zukunft, Zurigo 1843). Per Feuerbach, l'a. sorge dal fatto che l'uomo proietta e personifica (inconsapevolmente) nella figura di Dio tutti gli attributi e le qualità umane più alte (intelligenza, amore, bontà, ecc.), per adorarle, poi, come virtù e requisiti di questa potenza estranea. Anche in questo caso si tratta di un processo di scissione. I predicati dell'uomo vengono separati dall'uomo stesso e trasformati in entità indipendenti. Il risultato è che ciò che originariamente era una caratteristica e, perciò, un predicato dell'uomo, si trasforma in soggetto a sé; mentre l'uomo, che era il soggetto reale, diventa un predicato del suo predicato, cioè una creatura dipendente e subordinata rispetto alle sue proprie qualità personificate e divinizzate. In questo senso il Dio cristiano - che è Logos, Spirito, Ragione - non è altro che la ragione o lo spirito umano stesso, separato dall'uomo e trasformato in soggetto a sé. Altrettanto può dirsi, secondo Feuerbach, dell'Idea di cui parla Hegel nella sua filosofia.

Anche attraverso quest'analisi, quindi, si conferma che l'a. è innanzitutto scissione, divisione di un'unità originaria: la quale, nel caso di Feuerbach, è l'unità, realizzata nell'uomo, di natura e pensiero. Contemporaneamente, insieme a questa prima caratteristica, che è la scissione, l'a. presenta un capovolgimento dell'ordine reale. In Hegel, il capovolgimento è rappresentato dal fatto che la natura, che è un prodotto dell'Idea, viene scambiata dalla coscienza alienata per un "prius" o un che di originario. In Feuerbach, viceversa, il capovolgimento è espresso dall'inversione di soggetto e predicato: onde, come si è visto, il predicato diventa Dio e l'uomo si trasforma in un'entità subordinata a ciò che, in effetti, dipende da lui.

La concezione dell'a., sviluppata da K. Marx, fonde alcuni aspetti della teoria di Hegel e di Feuerbach. Cambia, tuttavia, il luogo di nascita dell'a., che non è più la religione o la filosofia, bensì la società degli scambi mercantili e, in particolare, la sua forma più sviluppata: cioè la società capitalistica moderna (Das Kapital.Kritik der politischen Oekonomie, I vol., Libro I: Der Produktionprocess des Kapitals, Amburgo 1867). Riaffiora qui un tema, già elaborato in parte da Rousseau e anche da Hegel: la connessione tra a. e divisione del lavoro. Nella società dello scambio e del mercato, i produttori sono produttori privati e indipendenti. Lo scambio dei loro prodotti richiede, di fatto, l'eguagliamento dei loro diversi lavori. Ma il lavoro umano eguale o astratto, che è presupposto e risultato dello scambio, implica che la forza lavorativa umana - che è, in effetti, diversa da soggetto a soggetto - sia considerata e calcolata a prescindere dagl'individui reali. In tal modo, la forza lavorativa, erogata nei diversi lavori, viene trasformata in un'entità a sé, diviene cioè valore delle merci, qualcosa d'indipendente dai produttori stessi e che li fronteggia e li domina. Questo rapporto capovolto, per cui il prodotto del lavoro appare dotato di un valore proprio, che subordina e comanda il lavoro, è chiamato da Marx il "feticismo" delle merci. Il mondo delle cose appare animato di vita propria, cioè personificato; il mondo dei soggetti umani, viceversa, appare "reificato", cioè ridotto a rapporti tra cose.

L'a. culmina, per Marx, nel lavoro salariato, cioè nello scambio tra capitale e lavoro. E infatti il capitale - che è null'altro che valore e, quindi, un prodotto del lavoro - qui appare assoggettare e soggiogare a sé ciò da cui deriva. Il prodotto domina il produttore (proprio come gli dèi, secondo Feuerbach, dominano gli uomini che, pure, li hanno creati). Mentre il lavoratore, a sua volta, diventa una semplice appendice di ciò che esso stesso ha prodotto. Il luogo dove questo capovolgimento reale diventa tangibile e perspicuo è, secondo Marx, la grande industria moderna. Il capitale s'incarna qui nel sistema delle macchine semoventi; la forza-lavoro è annessa al macchinario come una sua semplice escrescenza. Il tempo del lavoro, l'intensità della sua prestazione, ecc., sono comandati e imposti, ormai, dalla velocità e dal ritmo delle macchine.

Una ripresa e uno sviluppo significativo della concezione marxiana dell'a. è contenuta nell'opera giovanile di G. Lukács e, in particolare, nel suo celebre libro Storia e coscienza di classe (Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien über marxistische Dialektik, Berlino 1923). In questo scritto, tuttavia, il concetto di a., sviluppato da Marx, è reinterpretato in termini hegeliani. La scissione tra forza-lavoro e valore, ovvero tra lavoro salariato e capitale, che è il nocciolo della concezione di Marx, è così assimilata all'idea, tipica di Hegel, secondo cui l'a. è da ricondurre alla contrapposizione o separazione tra Io e mondo, tra soggetto e oggetto, di cui restano prigionieri il senso comune e l'ordinario intelletto umano. Il risultato di questo scambio, operato da Lukács, è che l'a. viene ora identificata non tanto con la produzione di merci e, quindi, con una particolare forma storica della società (il capitalismo), bensì con il punto di vista dualistico del materialismo e della scienza, cioè con la distinzione tra pensiero ed essere, tra coscienza soggettiva e mondo. Da questo punto di vista, lo scandalo dell'a. non risiede più nel fatto che il lavoro si oggettivi in un prodotto che ha la forma di merce, bensì nel fatto che esista un'oggettività naturale, esterna e indipendente dalla soggettività pensante.

È importante tener conto di questa svolta, segnata da Lukács, perché essa ha influenzato profondamente molte concezioni contemporanee dell'alienazione. Nell'esistenzialismo, per esempio, dove pure il termine non compare espressamente, alcuni dei significati implicati da esso si ritrovano nell'analisi di quella che M. Heidegger ha chiamato l'"esistenza inautentica" (Sein und zeit, Halle 1927). Si tratta di quel tipo di esistenza, peculiare soprattutto della produzione, della tecnica e, quindi, anche della scienza, in cui l'uomo vive immerso nell'universo delle cose. Qui l'essere delle cose è di essere utilizzate dall'uomo, di stargli a portata di mano come strumenti e mezzi di lavoro. E' un mondo reificato: il mondo fisico-naturale che ci esibisce la scienza. È una realtà solida e tuttavia inconsistente, in cui trova il suo appagamento, sia la nostra propensione al dominio della natura, cioè a disporre delle cose, sia il bisogno di sicurezza che caratterizza ciò che Heidegger chiama anche la "quotidianità", in quanto esistenza immersa e versata tutta negli oggetti, e sperduta dietro le cure del mondo. Quest'esistenza "inautentica" è il regno dell'anonimato. Domina in essa il pronome impersonale man. Il soggetto sovrano qui è il "si dice", il "si fa". Tutto è livellato, convenzionale. L'uomo, spersonalizzato, è tutti e nessuno.

Un'analisi dell'a., essenzialmente incentrata sulla critica della scienza e della tecnica, è anche quella che s'incontra negli autori della cosiddetta Scuola di Francoforte (M. Horkheimer, Th. W. Adorno e H. Marcuse). L'obiettivo della critica è qui soprattutto - più che il capitalismo come tale - la società industriale moderna, con la sua razionalità impersonale, integratrice e falsamente tollerante. La ragione tecnico-scientifica è qui denunciata come la sorgente da cui ha preso vita l'"universo totalitario" delle società moderne più progredite: società che sono dominate dal principio dell'efficienza, cioè dello sviluppo sempre maggiore (e, alla fine, irrazionale), della produzione e del dominio sempre più esteso sulla natura.

Connesso all'analisi di questi fenomeni è anche il concetto di a. che si è sviluppato in alcune branche della moderna sociologia del lavoro. Ai temi tradizionalmente legati alla critica della divisione del lavoro, si aggiunge, in questo caso, l'analisi delle forme estreme di parcellizzazione che caratterizzano il lavoro industriale moderno e, in particolare, quello prestato alla catena di montaggio. Emergono qui due temi fondamentali. Da una parte, la monotonia e la ripetitività ossessiva che si accompagnano a molte forme di lavoro, legate alla reiterazione di un'operazione parziale, sempre eguale a sé stessa. E, dall'altra, l'estraneazione in cui si trova il lavoratore rispetto al processo produttivo globale (e, quindi, anche rispetto alle potenze scientifiche e intellettuali incorporate in esso), processo del quale egli ignora sia il piano complessivo, sia le finalità.