Enciclopedia italiana - V Appendice (1995)

di Umberto Colombo-Giuseppe Lanzavecchia

SVILUPPO SOSTENIBILE

La straordinaria crescita numerica della specie umana (5 milioni di persone diecimila anni fa, quando iniziò l'agricoltura; oltre 5,5 miliardi oggi e probabilmente il doppio entro la fine del 21° secolo) e il contemporaneo forte aumento (oltre cento volte) delle risorse mediamente utilizzate da ogni individuo sono alla base della problematica di uno sviluppo compatibile con l'ambiente naturale. Man mano che lo sfruttamento delle risorse ambientali s'è fatto più pesante, si è allargato il concetto di risorsa, che ora comprende beni prima considerati gratuiti e illimitati: così sono diventate risorse il cibo, i materiali, l'energia, il territorio, l'acqua, l'aria, i beni non inquinati, il clima, la ricchezza del patrimonio genetico.

La presa di coscienza della problematica dello sfruttamento dell'ambiente naturale da parte della nostra specie ha origini remote, anche se negli ultimi decenni c'è stato il convergere su di essa di molte correnti di pensiero, movimenti, organismi spesso disparati, dai critici dell'eccessivo sviluppo scientifico-tecnologico e dei rischi materiali e spirituali che esso comporterebbe, ai fautori dell'arresto alla crescita, ai movimenti ambientalisti, alle analisi preoccupate del Club di Roma sui ''limiti dello sviluppo'', uno sviluppo inteso come continua crescita della produzione, dei consumi, dell'inquinamento ambientale. Le proposte che ne sono scaturite, pur se utili nell'individuare e caratterizzare tutta una serie di aspetti della problematica, hanno troppo spesso risvolti ideologici che le rendono poco adatte a risolvere concretamente la situazione, e ignorano la complessità estrema dei fatti e l'impossibilità di cancellare di punto in bianco un'evoluzione di millenni, che si traduce in un'inerzia fortissima. Basti pensare che, nei paesi industrializzati, è sufficiente un rallentamento della crescita economica per provocare fenomeni gravi di disoccupazione, mentre i paesi in via di sviluppo hanno un assoluto bisogno di tale crescita per attenuare situazioni spesso drammatiche, ulteriormente aggravate dalla pressione demografica. Questo significa che l'umanità ha ancora bisogno di un'economia globale in forte crescita.

Un altro aspetto, spesso implicito nelle proposte dei fautori della difesa dell'ambiente, è che ci sia un ambiente naturale di riferimento (un esempio sarebbero le foreste vergini equatoriali o i ghiacci dell'Antartide) da difendere a tutti i costi e alterare il meno possibile. A parte il fatto che oramai numero e bisogni degli esseri umani sono tali che, almeno allo stato attuale delle conoscenze, una soluzione del genere è impensabile, in realtà le cose, anche a prescindere dalla presenza della nostra specie, sono profondamente diverse. Gli ecosistemi naturali, e quello planetario, mutano continuamente per il cambiamento delle condizioni fisiche (composizione dell'atmosfera, clima, geologia) e per l'evoluzione delle specie viventi: si tratta di mutamenti graduali ma anche di cambiamenti catastrofici in tempi brevi. L'impronta dell'intervento umano, poi, anche passato, può essere presente nelle aree apparentemente incontaminate: così, i ghiacci della Groenlandia racchiudono pesanti tracce di inquinamento dovuto allo sfruttamento del piombo da parte delle antiche civiltà greca e romana. Infine, anche il rapporto uomo-ambiente muta in continuazione, sia perché l'uomo si trova costretto ad aumentare la sollecitazione sull'ambiente per ottenere più risorse, sia anche perché egli è in grado di aumentare l'efficacia dei propri interventi ottenendo dall'ambiente sempre di più, a parità di sollecitazione o addirittura riducendola (per es., nell'ottobre 1994 L. Brown, presidente del Worldwatch Institute, fece drammaticamente presente come la Cina, e altri paesi dell'Asia, fossero destinati in un decennio a soffrire la fame per mancanza di riso; appena un mese più tardi, l'Istituto internazionale di ricerca sul riso di Manila ha annunciato di aver messo a punto una nuova varietà di riso che, a parità di fabbisogno di energia, acqua, fertilizzanti, ha una resa del 25% superiore a quella delle specie note più produttive).

Lo s.s. dovrebbe essere quello capace di conciliare l'esigenza dell'umanità di trarre dall'ambiente le enormi risorse delle quali ha bisogno − moltissime di più di quelle che la pura raccolta in un qualsiasi ambiente incontaminato potrebbe fornire in condizioni di ecoequilibrio − e quella di conservare un ambiente ricco in tutti i sensi e in grado, per questo, di continuare a fornire in futuro le risorse necessarie, senza che tale prelievo porti a un degrado. Questa esigenza di conciliazione chiarisce il significato dell'espressione s.s., così come è stata enunciata per la prima volta nel rapporto Il futuro di noi tutti della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, presieduta da G.H. Brundtland (1987).

Esso afferma: "L'umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ai loro. Il concetto di s.s. comporta limiti, non assoluti, bensì imposti dall'attuale stato della tecnologia e dell'organizzazione sociale alle risorse economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane. La tecnologia e l'organizzazione sociale possono però essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica", e aggiunge che lo s.s., "lungi dall'essere una definita condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento di risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che attuali. Noi non affermiamo certo che il processo sia facile o rettilineo. Bisogna compiere difficili scelte. Sicché, a conti fatti, lo s.s. non può che fondarsi sulla volontà politica".

Al di là delle critiche che sono state rivolte all'enunciato e al modo di perseguire un tale sviluppo, si tratta di qualcosa di molto chiaro, senza preconcetti ideologici e basato su realtà concrete. L'obiettivo è attuare una strategia di utilizzo dell'ambiente e delle sue risorse in modo che tale utilizzo non riduca la possibilità di fornire, anche alle generazioni a venire, risorse intese nel senso più ampio, di alimenti e beni materiali, di estetica, di ricchezza e varietà di specie viventi e di territori, di stabilità e capacità di autodifesa. In particolare, l'accusa di antropocentrismo è fuori luogo, innanzitutto perché l'uomo ha il dovere di garantire per sé e per i suoi posteri condizioni agiate per quanto è possibile e le risorse per realizzarle, ma anche perché questo obiettivo si deve coniugare all'impegno preciso a mantenere, e anzi a migliorare, l'ambiente nel quale l'uomo deve vivere.

Il problema dello s.s. è innanzitutto, come ha appunto affermato la Commissione Brundtland, di natura politica, ma richiede precisi indirizzi economici, sicuri metodi per misurarne la sostenibilità, e forti implicazioni scientifiche e tecnologiche. Un gran numero di economisti, scienziati, tecnologi si sono perciò preoccupati per dare indicazioni e suggerimenti, e per trovare soluzioni, anche parziali, a tale problema. In termini economici si tratta di garantire uno sviluppo che faccia aumentare il benessere pro capite dell'umanità mediante un flusso regolare dei consumi, così che tale benessere non regredisca mai: questo richiede la valutazione delle risorse ambientali e del loro tasso di riproducibilità e la sostituzione del ''capitale naturale'' (territorio, risorse materiali, specie viventi) con ''capitale costruito'', cosa che, del resto, l'uomo ha fatto sin dai tempi più lontani. Naturalmente capitale costruito vuol sempre dire risorse naturali trasformate, ma con un moltiplicatore che dev'essere il più alto possibile, ossia sfruttando tecnologie sempre più efficienti.

Più alto è il tasso di crescita dell'economia mondiale, più difficile è perseguire condizioni di sostenibilità. Il tasso di crescita dipende da molti fattori, ma perché la crescita sia sostenibile esso, come ha sostenuto R.M. Solow, deve soddisfare certe condizioni: l'elasticità di sostituzione fra capitale naturale e capitale costruito dall'uomo dev'essere maggiore di uno, sicché il capitale naturale sia inessenziale alla produzione; il progresso tecnologico dev'essere in grado di aumentare la produttività dello stock di tutto il capitale naturale disponibile a un tasso superiore a quello di depauperamento dello stock stesso. Un'attenzione particolare va perciò data al capitale naturale per il quale in molti casi c'è una pressoché totale sostituibilità (effettiva o potenziale), come in quello delle materie prime e dell'energia, anche se permane il problema della quantità di rifiuti che un uso crescente delle risorse comporta. Per altri capitali naturali, come i territori quasi incontaminati, la diversità genetica, il clima, la situazione è assai meno chiara. Per es., circa il patrimonio genetico anche relativo a specie che l'intervento umano (o quello naturale) potrebbe far scomparire, si potrebbe immaginare di costruire genoteche e banche dati con la conservazione di ogni sequenza genetica nota e decifrata, ma rimarrebbe comunque il problema di conservare anche memoria delle strutture, assai complesse, degli ecosistemi su cui le specie sono (o erano) abituate a vivere.

Tutte le argomentazioni fin qui svolte indicano come il primo aspetto da tenere in considerazione per realizzare uno s.s. sia quello di usare con attenzione le risorse naturali. La sostenibilità implica di risparmiare le risorse non rinnovabili, come i combustibili fossili e le materie prime minerarie; e di limitare la quantità di rifiuti prodotti, in particolare di quelli che non possono essere riciclati e di quelli tossici o altrimenti pericolosi (per es. quelli che, anche in piccole quantità, modificano equilibri essenziali per la vita in generale o di singole specie nel pianeta, come il rame disciolto nelle acque, o i fluoroclorocarburi che distruggono lo strato protettivo d'ozono una volta immessi nell'atmosfera). Tutto l'ambiente è una risorsa finita, soltanto in parte rinnovabile: esso ha una limitata ''capacità di carico'', nel senso che riesce ad assorbire una quantità limitata di inquinanti risanando il danno subito, ma una volta superata una certa soglia, il danno non riesce a essere riassorbito e l'effetto è spesso irreversibile. Considerazioni analoghe valgono per la preservazione di ecosistemi e della biodiversità, così come per la stabilità del clima globale contro il riscaldamento dovuto all'accentuazione dell'effetto serra provocata dall'intervento dell'uomo, soprattutto con il ricorso ai combustibili fossili e l'immissione di biossido di carbonio nell'atmosfera.

Lo studio delle relazioni fra lo sfruttamento delle risorse e l'ambiente mette in evidenza come l'aumento della quantità di risorse impiegate dall'uomo è sempre accompagnato da un aumento nei rendimenti sia della loro produzione, sia ancor più della loro utilizzazione, attraverso accresciute efficienza e prestazioni di materiali e manufatti, processi di miniaturizzazione e in generale di dematerializzazione, individuazione di nuove soluzioni immateriali (v. risorse, in questa Appendice). Un uso più efficace delle risorse − in una visione globale del ciclo che parte dall'ambiente dal quale si prelevano le materie prime, per chiudersi con l'ambiente come ricettore sia dell'energia e di altre risorse materiali dissipate nella produzione e nell'utilizzo dei manufatti costituiti dalle materie prime stesse lavorate, sia degli scarti finali − porta allo sviluppo delle cosiddette ecotecnologie. La tendenza verso le ecotecnologie è in larga misura intrinseca al progresso delle società industriali avanzate verso un'economia della qualità invece che della quantità. Le nuove tecnologie usano meno materiali, e in particolare meno materiali scarsi.

La miniaturizzazione e la riduzione in peso dei manufatti consentita dai nuovi materiali e da una progettazione più efficace e scientifica è talvolta sensazionale: in quasi due secoli il rapporto peso/potenza di una locomotiva è diminuito di ben 80 volte; le nuove dighe a doppia curvatura richiedono 50 volte meno materiali (cemento, acciaio, altri materiali di costruzione), in termini di peso, rispetto a quelle a gravità; le automobili costruite con materiali compositi ultraleggeri e i motori con efficienza sempre più alta stanno portando ad aumenti del rapporto fra potenza e peso, anche se più contenuti, pur sempre impensabili soltanto un decennio fa. L'iperminiaturizzazione, o nanotecnologia, riguarda non soltanto la microelettronica, ma l'ingegneria (motori, giunti, cambi, ingranaggi) e anche la biotecnologia. In molti casi soluzioni tecnologiche del tutto nuove consentono di non ricorrere a materiali potenzialmente scarsi: le fibre ottiche a base di ossido di silicio sostituiscono nelle telecomunicazioni i cavi di rame, e inoltre esse pesano assai di meno e hanno una capacità di convogliare segnali enormemente superiore; ma quantità ancora minori di materiali servono per comunicare con le onde elettromagnetiche; infine, il trattamento matematico dei segnali (analisi di Fourier, analisi frattale) consente di arrivare a fattori di moltiplicazione fino a un milione in modo del tutto immateriale.

Le nuove tecnologie usano anche meno energia: direttamente perché riducono perdite non necessarie, comportano procedure più rigorose di governo, ricuperano il calore dissipato o portano a processi del tutto nuovi molto meno esigenti energeticamente; indirettamente perché impiegano quantità più piccole di materiali (per produrre i quali occorre energia). Tuttavia un'analisi matematica dell'energia minima richiesta per compiere una determinata operazione può mostrare quanto si sia oggi lontani dall'ottimo teorico, anche se non dice come vi si possa arrivare, e se questo sia davvero possibile.

La sfida per scienza e tecnologia è non solo quella d'individuare risorse, processi, soluzioni che riducano l'impatto dell'intervento umano sino a renderlo compatibile con la capacità dell'ambiente di autoregolarsi e di ripristinarsi, ma anche di fare conoscere sempre meglio l'ambiente e le leggi naturali che lo governano, da quelle dei singoli fenomeni, a quelle che regolano le interazioni fra i componenti dell'ambiente e degli ecosistemi e tra i fenomeni che vi accadono compresi quelli dovuti agli interventi dell'uomo, così da spiegare e quindi dominare la complessità della natura e delle attività umane. Questo consentirebbe di aiutare la natura a ripristinare condizioni di sostenibilità, se eventualmente si fosse andati oltre, ma consentirebbe pure di accettare sollecitazioni più spinte delle attività umane; le nuove conoscenze e le nuove soluzioni tecnologiche possono, come del resto è avvenuto in passato, aprire la strada per interventi atti a sviluppare nuove risorse (v. risorse, in questa Appendice). Insomma, se è vero che l'ambiente è finito e che gli ecosistemi sono vulnerabili, questo non significa che vi siano limiti prefissati allo sfruttamento dell'ambiente e agli interventi sugli ecosistemi; i limiti, che occorre comunque imporsi, possono essere via via allontanati con lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e della tecnologia.

Scienza e tecnologia stanno non solo comprendendo cosa è la ''complessità'', ma cominciano a dominarla e a dominare l'incertezza che da essa dipende. Tale incertezza è dovuta sia al fatto che i sistemi complessi, non rispondendo agli schematismi meccanicistici coi quali è uso ragionare l'uomo, si presentano indefiniti e perciò incerti rispetto a tali schemi, sia perché è impossibile disporre, con la dovuta precisione, dei dati inerenti alla molteplicità di parametri che caratterizzano un sistema complesso (e quindi molti dei dati disponibili sono imprecisi e molti ancora sono del tutto carenti). Tuttavia oggi sono disponibili nuovi potenti strumenti, materiali e concettuali − sistemi di monitoraggio dei fenomeni più disparati alle scale più diverse, strumenti di calcolo sempre più potenti, modellistica matematica rigorosa, scienza dei sistemi, fisica dei processi non lineari e caotici, nuove forme di organizzazione flessibile, e altri sviluppi ancora − che consentono di superare ogni forma di frammentazione, di tener conto di interazioni e interdipendenze, e di valutare, spesso con notevole precisione, anche il valore dei parametri mancanti.

Fino a non molti anni fa l'incertezza ha rappresentato per i decision-makers politici ed economici, e anche per la gente comune, un rischio incontrollabile. L'analisi dei sistemi, con la gestione di situazioni sempre più complesse, aveva anzi finito per esaltare il ruolo dell'incertezza. Oggi la comprensione dei sistemi caotici e non lineari consente invece di ridurre l'incertezza, anche senza eliminare l'indeterminazione, e di formulare previsioni attendibili a più o meno lungo termine, che prima erano impossibili. Nonostante l'indeterminazione dovuta alla complessità è possibile mandare con estrema precisione satelliti a posarsi sulla Luna o a esplorare il sistema solare, gestire nelle officine motori elettrici o macchine utensili in regime transitorio e porre sotto controllo nel corpo umano i fenomeni di fibrillazione cardiaca. Le conoscenze sui fenomeni aleatori, a rischio, ovvero catastrofici (nell'accezione di R. Thom, ossia nel senso che stravolgono il contesto precedente) ci permettono di fare previsioni, in passato inconcepibili, come quelle meteorologiche a distanza di settimane, quelle dell'approssimarsi di uragani, quelle di fenomeni come terremoti ed eruzioni vulcaniche, quelle dei cedimenti strutturali di manufatti, quelle relative alla competizione tecnologica, dei mercati e finanziaria. Insomma, mai come oggi operiamo in condizioni di certezza.

I nuovi chip e computer neurali consentono di affrontare il calcolo di situazioni e sistemi sui quali non si dispone di tutte le conoscenze, valutando l'affidabilità dei dati disponibili e il valore di quelli ignoti, con una precisione assai superiore a quella dei metodi validi sino a ieri, per es. le analisi di regressione. Ma, senza arrivare a strumenti così sofisticati, chip e computer basati sulla cosiddetta ''logica sfumata'' (fuzzy logic) permettono già di governare apparecchi come le lavatrici domestiche minimizzando l'uso delle risorse (energia, acqua, detergenti) per un lavaggio ottimale, o come gli ascensori di grandi edifici ottimizzandone il percorso. Un altro esempio, che tocca direttamente l'ambiente, è quello degli impianti d'incenerimento dei rifiuti che i chip fuzzy consentono di governare molto meglio che con le logiche binarie o con l'intervento continuo dell'uomo, in base a regole del tipo ''se-allora'' che accettano dati anche molto imprecisi.

Gestione della complessità e dell'incertezza portano a risparmi, spesso assai vistosi, di risorse di qualunque tipo. Siccome i singoli processi sono spesso, se non ottimizzati, molto vicini a esserlo, è proprio all'interfaccia di più processi presenti in un sistema complesso che c'è lo spazio per miglioramenti anche molto consistenti. Ma la gestione della complessità e dell'incertezza consente anche di capire, attraverso un approccio sempre più rigoroso, come le attività umane, via via più intense ed estese, stiano interferendo con i cicli geochimici (dell'ossigeno, del carbonio, dell'azoto) modificandoli; questo avviene per il clima locale (si pensi soltanto alle città), ma ormai, come si è già detto, anche per quello globale, per le correnti oceaniche, per la circolazione atmosferica, per componenti importanti alla vita come l'ozono nell'alta atmosfera. Tali interferenze e modifiche, assieme a tutte le altre conseguenze delle attività umane, contribuiscono a sollecitare l'ambiente e a incidere sugli equilibri dinamici che governano gli ecosistemi locali se non quello planetario, e ci fanno chiedere se ambiente ed ecosistema siano in grado di sopportarli.

Il problema essenziale per il clima rimane quello di comprendere davvero la sua dinamica, e se e come gli effetti antropici la influenzino. Non vi è infatti un accordo unanime fra gli scienziati sul riscaldamento globale, sulle cause che lo determinano e sulle conseguenze possibili, per es. il livello degli oceani che potrebbe alzarsi ma anche diminuire. Se i dati di concentrazione dei gas serra nell'atmosfera sono ben noti, il bilancio del biossido di carbonio (CO2) emesso e trasformato nel ciclo geochimico del carbonio, non lo è altrettanto. Altre incertezze riguardano l'andamento della temperatura media della Terra e la sua evoluzione; la quantità di particelle solide o liquide nell'atmosfera; la vita media del CO2 nell'atmosfera che, anziché di 50 anni come comunemente accettato, potrebbe essere di appena 10 anni; la complessità dei meccanismi di azione e reazione, compresi solo parzialmente, che possono portare a conseguenze divergenti a seconda di come vengono considerati. Non si deve infine dimenticare che esistono teorie che escludono l'origine antropica del riscaldamento globale, o anche terrestre, per attribuirlo all'attività magnetica alla superficie del Sole. Per uno s.s. e per la vita stessa dell'uomo è però importante poter stabilire quali siano le cause dell'incremento di CO2 nell'atmosfera e se questo provocherà un aumento della temperatura media del pianeta. Il problema di fondo − visto che in un passato lontano (si pensi all'ultima glaciazione di 20.000 anni fa) si sono avuti cambiamenti climatici naturali anche di molti gradi in più e in meno in tempi brevi, di pochi decenni − è però quello di capire perché avvengano i cambiamenti di clima dovuti a interventi antropici o naturali e come si possano prevedere, controllare e, al limite, contrastare. L'uomo infatti deve poter vivere in un ambiente a lui congeniale e non può accettare, come è avvenuto secoli, millenni e centinaia di migliaia d'anni fa per i suoi antenati, di essere in balia di eventi climatici catastrofici, anche se naturali. Egli ha sempre cercato di dominare la natura e di modellare l'ambiente a sua immagine, e oggi gli si pone il problema di controllare e dominare anche lo stesso clima globale.

In futuro l'uomo potrebbe, infatti, essere costretto a intervenire di fronte a possibili variazioni climatiche naturali, così come ci stiamo preoccupando oggi di trovare i modi per difenderci dalle cause negative delle nostre attività, o dalle catastrofi naturali quali terremoti, eruzioni vulcaniche, uragani, alluvioni e aridità. In questo mondo ove la popolazione cresce ed è sempre di più interdipendente, e ove occorre ridurre i rischi di deterioramento delle condizioni di vita se non di scomparsa della vita stessa, diventa un dovere preoccuparci di prevenire e controllare anche le variazioni naturali del clima globale e locale. Potrebbe infatti verificarsi un riscaldamento globale del pianeta o una nuova glaciazione, e questo richiederebbe, magari già nel prossimo secolo, l'attuazione di un programma globale di salvaguardia volto alla sopravvivenza dell'umanità. L'esperienza acquisita con la risposta mondiale al problema dello s.s., la realizzazione di tecnologie anche molto ambiziose, la conoscenza di meccanismi di regolazione di ecosistemi e clima, diventano allora strumenti indispensabili per imparare ad affrontare tempestivamente in futuro sfide globali che oggi abbiamo difficoltà persino a immaginare. Il controllo delle condizioni climatiche, e più in generale di quelle ambientali, è un aspetto significativo di cosa si deve intendere per s. sostenibile.

Molti dei mezzi per il governo della complessità sono dovuti agli sviluppi dell'informatica, particolarmente di quella più nuova, come le logiche sfumate e neurali. Ma si sta sviluppando un'altra informatica molto più simile a quella naturale: quella chimica e biochimica che D. Davies, allora responsabile delle ricerche della Imperial Chemical Industries, preconizzava già nella seconda metà degli anni Settanta. Essa opera con l'emissione e la ricezione di molecole così da simulare il comportamento degli organismi viventi, uomo compreso, con il DNA, gli ormoni, il sistema immunitario. Tale informatica consentirà (e in parte questo è già possibile oggi) di svolgere operazioni non ripetitive, ma che dipendono da certe condizioni specifiche, mutevoli nel tempo: per es. decidere la cessione o meno di un farmaco o di un ormone (come l'insulina) quando ce n'è bisogno, o l'irrigazione di un terreno che sta diventando arido, o la lubrificazione di un meccanismo, o la pulizia di un ambiente. Nel prossimo futuro la gestione integrata di ambienti ed ecosistemi specifici, così da renderli sostenibili, potrà essere fatta sfruttando questa informatica, associata a quella elettronica convenzionale.

Le biotecnologie rappresentano anch'esse mezzi straordinari per realizzare lo s. sostenibile. La padronanza acquisita nelle conoscenze biologiche, nell'ingegneria genetica, nei processi, nel trattamento e impiego dei prodotti, fa moltiplicare ogni giorno le applicazioni nei campi più svariati, dalla salute all'agricoltura e all'alimentazione, ma anche nella scienza dei materiali, e nei processi di trasformazione delle materie prime e di recupero delle risorse e dei rifiuti. Si pensi alle colture agricole ad altissima produttività, a quelle con specie resistenti e adatte a particolari climi e terreni; alla lotta biologica ai parassiti; all'allevamento di specie pregiate; alla trasformazione di vegetali e animali in vere e proprie fabbriche che producono farmaci, ormoni, molecole per la salute o l'alimentazione o l'industria; ai batteri capaci di ''mangiare'' certi metalli, come l'oro, oppure l'uranio, o altri ancora, anche se altamente dispersi (per es. nel Ghana l'oro è raccolto vantaggiosamente in questo modo). Batteri analoghi possono essere usati per eliminare inquinanti metallici o di altro tipo (derivati del petrolio, veleni e così via). In prospettiva, quindi, ci sono gli strumenti biologici per risanare l'ambiente dagli inquinanti. Di fronte al raddoppio della popolazione mondiale non sarà certo un'agricoltura che torna all'antico, con basse rese e scarsa possibilità di conservazione delle derrate, ma un'agroindustria biologica sofisticata, con altissime rese e senza bisogno di pesanti apporti di energia, acqua, fertilizzanti, pesticidi, a garantire sufficiente cibo per tutti. Senza di essa si rischierebbe o di dover trasformare in terreni agricoli estensioni crescenti di territori ancora vergini o di affidarsi a tecnologie magari altamente produttive, ma inquinanti, come quelle meccanochimiche convenzionali, che non sono certo le più adatte per uno s. sostenibile.

Gli sviluppi scientifici e tecnologici del passato, e tuttora in larga parte quelli di oggi, hanno ignorato la complessità dell'ambiente e delle situazioni nelle quali operavano, perché non esistevano strumenti per tenerne conto; essi hanno quindi portato a soluzioni che, in un modo o in un altro, contrastavano i meccanismi naturali, anche perché si trattava quasi sempre di modificare l'ambiente o per coltivarlo (distruggendo in un'area determinata tutte le specie salvo una), o per carpirne minerali, o per ridurre questi ultimi a metalli (opponendosi al processo naturale di ossidazione), e così via. Del resto i processi chimico-fisici di trasformazione della materia obbediscono al ben noto principio di Le Châtelier e Braun che afferma come la natura si opponga agli interventi dell'uomo: una sorta di principio di azione-reazione. Ma non è detto che sia sempre necessario contrastare i fenomeni naturali. Un sistema naturale è infatti assai complesso e caratterizzato da componenti in opposizione che finiscono per bilanciarsi: basta individuare quelli che ci possono essere favorevoli e sostenerli, come aveva già suggerito nell'Ottocento l'olandese J.H. van't Hoff. Un esempio interessante riguarda la funzione ''salute'', un campo in cui si sta passando dalla produzione di farmaci intesi a contrastare direttamente malattie e agenti patogeni, a quella di prodotti atti a rafforzare il sistema immunitario dell'organismo umano. Si tratta di un cambiamento di strategia che, mutatis mutandis, si può ritrovare in altri interventi, da quelli per la difesa anche genetica delle colture, a quelli per l'individuazione di meccanismi che, in ogni processo, facciano risparmiare risorse, a quelli per la tutela dell'ambiente, per es. sfruttando l'informatica chimica.

Si può allora affermare che il sistema scientifico-tecnologico e l'organizzazione economica si stanno attrezzando per soddisfare l'esigenza della sostenibilità dello sviluppo. Ma questo non è sufficiente, perché occorre innanzitutto la volontà politica per realizzarlo. Infatti le sole forze economiche non bastano perché il mercato è miope. Per es., la convenienza economica (ossia la massimizzazione del profitto) ha portato all'obsolescenza pianificata dei beni, in ovvio contrasto col concetto di sostenibilità. Occorre allora un intervento politico per correggere la visione a breve termine del mercato, con normative opportune, facendo rientrare nel prezzo dei prodotti i costi esterni che tutta la società sostiene per produrli, usarli ed eliminarli una volta che non servono più, rendendo cosciente la gente del problema e orientandola verso beni più validi per l'ambiente o che sono stati realizzati sfruttando ecotecnologie, ossia tecnologie più in armonia con il mantenimento di un'alta qualità dell'ambiente.

Si tratta comunque di un problema non banale. La materia che diventa manufatto, le risorse materiali ed energetiche necessarie per realizzare servizi utili, rappresentano ricchezza creata con il lavoro, ricchezza che deve perciò essere la massima possibile in relazione all'entropia prodotta e all'impatto sull'ambiente. Tale ''ordine organizzato'', che in linguaggio termodinamico viene detto neghentropia, alla fine della vita utile dei prodotti e dei servizi rappresenta una ricchezza dissipata. Questo è un percorso inevitabile, ma tuttavia è chiaro che non basta perseguire il massimo di efficienza termodinamica per poi buttarla via dopo breve tempo; occorre invece, nei limiti del possibile, usarla per tempi sufficientemente lunghi, così da trarne un beneficio, integrato nel tempo, molto consistente. La durata della neghentropia prodotta cozza tuttavia con l'obsolescenza dei beni e servizi, in parte perché oggettivamente essi si deteriorano e non rispondono più in modo adeguato alle esigenze del mercato, in parte perché questo è voluto dall'economia che può così sostituire tutto ciò che si scarta con nuove produzioni (obsolescenza pianificata), in parte ancora perché, anche se i vecchi beni e servizi potrebbero ancora servire, ne sono nel frattempo entrati sul mercato altri nuovi più efficaci e meglio rispondenti alle esigenze dei consumatori.

L'innovazione tecnologica è quindi responsabile di una parte del processo di obsolescenza dei beni e dei servizi prodotti dall'uomo. È possibile valutare, almeno in linea di principio, se una determinata innovazione porta o meno a un beneficio, confrontando, per i beni da sostituire, la perdita della neghentropia integrata residua (ossia il prodotto del valore della neghentropia per il presunto tempo residuo di possibile impiego) col guadagno derivante dal surplus di neghentropia dovuto alla maggiore efficacia del nuovo bene moltiplicato per il tempo presunto del suo impiego. Ma in realtà una valutazione strettamente termodinamica è insufficiente perché andrebbero considerate anche la ''qualità'' dell'impatto ambientale (scarti nocivi, natura degli inquinanti) e la sicurezza per l'uomo, atteso che i prodotti che si sostituiscono possono essere meno sicuri di quelli nuovi. D'altra parte è possibile utilizzare almeno una parte della neghentropia residua dei beni che si scartano e che è rappresentata da componenti e materiali riciclabili; a tale scopo il ricorso a processi di demanifattura e rimanifattura diventa una soluzione obbligata.

Queste considerazioni debbono far ripensare al ruolo dell'innovazione che, quando ha solo il compito di orientare la moda per forzare il mercato senza altri benefici, finisce per essere ambientalmente dannosa, ma può invece avere un ruolo essenziale nel rendere l'economia molto più compatibile con l'ambiente e con le sempre più sofisticate necessità della società. L'innovazione tecnologica diventa allora un ingrediente essenziale dello s. sostenibile. Quello appena ricordato è uno dei tanti esempi che evidenziano il ruolo attivo della politica per lo s. sostenibile. Ma non bastano le politiche nazionali o anche concentrate in grandi aree geopolitiche avanzate (Unione Europea, Nordamerica, Giappone e Sudest asiatico), perché lo s.s. non può che coinvolgere tutto il pianeta. Infatti, se nei paesi industriali avanzati la situazione presenta caratteristiche incoraggianti, il caso dei paesi in via di sviluppo è completamente diverso. La loro popolazione cresce ancora rapidamente e spesso (per fortuna) cresce anche il reddito pro capite, ma l'inefficienza delle tecnologie utilizzate (per es., in termini d'intensità di materiali e d'energia e di generazione di rifiuti per unità di PIL) è assai maggiore di quella dei paesi avanzati.

La maggior quantità di risorse richieste per creare reddito nei paesi in via di sviluppo è in parte fisiologica, perché il processo d'industrializzazione richiede all'inizio pesanti infrastrutture (fabbriche, strade, ponti, ferrovie, edifici, centrali elettriche), e perché occorre poi soddisfare una forte domanda di beni durevoli per tutti i cittadini; solo in seguito agiscono in modo determinante i processi di terziarizzazione e dematerializzazione. Tuttavia, quanto detto non basta per giustificare un così alto uso di risorse nei paesi in via di sviluppo, che è anche da attribuirsi alla non disponibilità delle tecnologie più avanzate ed efficienti, troppo onerose o protette da brevetti e da know-how esclusivi; inoltre, tali paesi hanno problemi talmente urgenti di sopravvivenza che quello della sostenibilità passa in seconda linea. Occorre allora mettere in atto politiche perché le tecnologie più efficienti, spesso oggetto di brevetto e quindi proprietà di imprese private, siano rese disponibili a condizioni eque anche a quei paesi, per es. con politiche di aiuto allo sviluppo assai più lungimiranti di quelle finora messe in atto. Questo richiede anche di avviare ricerche in comune, tra paesi industrializzati e in via di sviluppo, per ''rivisitare'' le tecnologie usate localmente e renderle più produttive e meno nocive per l'ambiente, con l'innesto di tecnologie e soluzioni avanzate. Del resto, molte delle nuove tecnologie, come quelle informatiche (ma anche le biotecnologie), sono assai più agevoli da comprendere e usare di quelle tradizionali che si rifanno alla meccanica o alla chimica; e questo perché tra l'altro non richiedono complesse infrastrutture ma possono essere pensate per soluzioni specifiche anche di modeste dimensioni.

Un discorso analogo deve valere per l'Europa centrale e dell'Est, e per l'ex Unione Sovietica, ove l'intensità energetica e di materiali del PIL è elevatissima e l'inquinamento ambientale drammatico. Ciò è dovuto alla troppo lunga assenza di meccanismi di mercato, all'assoluta priorità assegnata dai piani economici alla produzione, rispetto alla protezione ambientale, e in definitiva all'isolamento che ha impoverito la capacità d'ideare e attuare soluzioni competitive e quindi più efficienti. Tali paesi, tuttavia, dispongono di un notevole potenziale scientifico e tecnologico, e questo non può che facilitare un'evoluzione positiva verso modalità di s. più sostenibile dell'attuale.

In conclusione, sviluppo e diffusione, a livello mondiale, di tecnologie e strutture organizzative assai più efficienti per lo s.s. dovrebbero essere uno dei capisaldi della politica internazionale. Anche se si tratta di un obiettivo che coinvolge tutti i paesi, quelli industrializzati hanno le responsabilità maggiori, sia perché sono essi che più degli altri posseggono tali tecnologie e strumenti, e hanno mezzi e strutture per svilupparli, sia perché, pur rappresentando essi una quota modesta della popolazione mondiale, sono ancora quelli che utilizzano la maggior parte di risorse del pianeta. Uno sforzo mirato ad aiutare i paesi in via di sviluppo verso uno s.s. non sarebbe tanto un'espressione di altruismo quanto il modo per realizzare un futuro più sicuro per tutta l'umanità.