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Storia del pensiero economico
Gli albori del Pensiero economico moderno
Non è possibile indicare con esattezza quando, o ad opera di
chi, nacque l'economia politica in senso moderno.
Con la formazione degli Stati nazionali si ebbe infatti un graduale
affrancamento della politica dall'etica, ben espresso da
Niccolò Machiavelli (1469-1527) nella sua Opera Il Principe:
non ci si chiedeva più se l'agire politico fosse "giusto", ma
solo se fosse idoneo al conseguimento dell'unico fine politico, il
mantenimento dello Stato. Fu questo il contesto in cui presero forma
le prime riflessioni economiche in senso moderno, caratterizzate
dalla ricerca della via migliore per assicurare la floridezza degli
Stati.
I mercantilisti (XVI-XVIII secolo), ad esempio, sostennero che, per
conseguire potere economico e politico, lo Stato doveva agire in
modo da assicurarsi un saldo positivo della bilancia commerciale,
incentivando le esportazioni e limitando le importazioni, in quanto
ciò avrebbe provocato un aumento della disponibilità
dei metalli preziosi usati nei pagamenti internazionali. Tale
impostazione presupponeva una concezione della ricchezza come stock,
come un "fondo" dato e immutabile (incarnato dai metalli preziosi),
e che quindi la ricchezza di un Paese non potesse aumentare se non a
scapito di un altro.
Contestualmente, William Petty (1623-1687) contrapponeva al metodo
logico-deduttivo della Scolastica una «aritmetica
politica» basata sulla misurazione quantitativa dei fenomeni
rilevanti ai fini della potenza dell'Inghilterra (popolazione,
produzione, prelievo fiscale, spesa pubblica).
Le politiche mercantiliste vennero adottate in Francia da
Jean-Baptiste Colbert (1619-1683), con scarso successo.
François Quesnay(1694-1774), anticipato per molti aspetti da
Richard Cantillon (1680-1734), si contrappose espressamente a
Colbert e richiamò l'attenzione sui rapporti tra città
e campagna, tra commercio ed agricoltura; insieme ai suoi seguaci, i
fisiocratici, propose che la Francia privilegiasse l'agricoltura
rispetto al commercio internazionale. Ciò comportava anche
l'abolizione delle pratiche protezionistiche tipiche del
mercantilismo; i fisiocratici furono i primi a designare con
l'espressione laissez-faire il principio cardine del liberismo.
Soprattutto, Quesnay pose al centro della riflessione economica non
più una ricchezza (stock) data e immutabile, ma un reddito
(flusso) in grado di aumentare la ricchezza; sosteneva, inoltre, che
solo l'agricoltura (più in generale il settore primario)
può dare vita ad un surplus (l'eccedenza del raccolto sulle
sementi, i minerali estratti dalle miniere ecc.), mentre artigianato
e commercio possono solo trasformare e trasportare alimenti, materie
prime e prodotti finiti. Per illustrare le sue tesi, Quesnay
costruì un Tableau économique in cui esaminava la
circolazione del surplus (detto «prodotto netto») tra
tre classi sociali (la classe dei proprietari terrieri, la classe
degli addetti al settore primario, detta «produttiva»,
la classe di artigiani, commercianti e altri prestatori di servizi,
detta «sterile») che costituì il primo modello di
sistema economico ed ha poi ispirato gli schemi di riproduzione di
Karl Marx e le tavole input-output di Wassily Leontief.
L'economia politica classica
Con Adam Smith iniziò l'economia classica. In Smith, come poi
in Ricardo, rimaneva dominante il tema della prosperità dello
Stato, con particolare attenzione alla politica fiscale: il libro V
della Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni
di Smith è dedicato al «reddito del sovrano o della
repubblica» e si articola in tre capitoli sulle spese, le loro
fonti (imposte e tasse) e i debiti pubblici; l'opera principale di
Ricardo si intitola Principi dell'economia politica e della
tassazione. L'analisi economica, inoltre, si basava sull'esame degli
interessi e del comportamento di tre classi sociali: i proprietari
terrieri, i capitalisti (o imprenditori) ed i lavoratori.
Adam Smith
Adam Smith (1723-1790) completò la svolta inaugurata da
Quesnay (dalla ricchezza al reddito di una nazione) ponendo fin
dall'inizio al centro dell'attenzione il reddito procapite, che
faceva dipendere sia dalla produttività del lavoro, sia dalla
quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione. Per
Smith era produttivo il lavoro che produce beni, non erano
produttivi il commercio e gli altri servizi. Differenziandosi da
Quesnay, affermò che anche la trasformazione di materie prime
produce un surplus, in quanto crea «valori d'uso» prima
inesistenti. Cercò inoltre di determinare il «valore di
scambio» (il prezzo) di un bene sulla base del tempo di lavoro
necessario a produrlo; ciò sia nel senso più immediato
(«lavoro contenuto»), sia in un senso meno diretto (il
valore di un bene pari al «lavoro comandato»,
cioè al tempo di lavoro richiesto per produrre altri beni con
cui esso può essere scambiato).
Smith, inoltre, seguì e sviluppò le tesi di Quesnay in
materia di libero commercio; non solo criticò, come lui, le
posizioni mercantiliste, ma sostenne che il singolo, perseguendo
liberamente il proprio personale interesse, opera in modo utile
all'intera società come se fosse indotto a ciò da una
«mano invisibile». Pur affermando la necessità di
un intervento dello Stato in alcuni settori, quali l'istruzione
primaria, sostenne che, in generale, è preferibile la ricerca
privata dell'interesse personale a regolamentazioni quali premi alle
esportazioni o restrizioni alle importazioni.
Ricardo, Malthus e Say
David Ricardo (1772-1823) proseguì la ricerca di Smith in
un'epoca caratterizzata sia dal pieno affermarsi della rivoluzione
industriale, sia dalla scarsità e dal conseguente alto prezzo
del grano indotti dalle guerre napoleoniche. Ricardo sosteneva che
la necessità di produrre grano utilizzando terre via via meno
fertili ne avrebbe aumentato il prezzo e, con ciò, i salari a
detrimento dei profitti. All'epoca, infatti, i salari assicuravano
solo la semplice sussistenza dei lavoratori e non potevano quindi
scendere sotto un livello minimo, determinato in buona parte (circa
metà, secondo i calcoli di Ricardo) dal prezzo del grano.
Quando Ricardo scriveva, vigevano leggi che impedivano la libera
importazione di grano e ne tenevano alto il prezzo; emanate in tempo
di guerra, rimasero poi in vigore su pressione dei proprietari
terrieri. Ricardo sosteneva che l'abolizione di tali leggi (abrogate
poi nel 1846) avrebbe consentito di contenere la quota dei salari
sul surplus a vantaggio dei profitti e, quindi, dello sviluppo
economico. Per sostenere la necessità del provvedimento,
sottolineò che l'ammontare dei profitti può aumentare
solo se diminuiscono il prezzo del grano e, con esso, i salari, non
in altro modo, in particolare non grazie al commercio
internazionale; sviluppò a tale riguardo la teoria dei
vantaggi comparati, che trova ancora oggi posto nei manuali di
economia internazionale.
Thomas Robert Malthus (1766-1834), contemporaneo di Ricardo,
contribuì per aspetti importanti allo sviluppo del suo
pensiero (teoria della rendita differenziale, teoria del
valore-lavoro). Malthus è comunque ricordato soprattutto per
la sua teoria secondo la quale l'aumento della popolazione avrebbe
vanificato qualsiasi tentativo di aumentare il reddito procapite.
Nello stesso periodo, Jean-Baptiste Say (1767-1832) formulò
la legge che reca il suo nome, detta anche legge degli sbocchi, e
che venne ampiamente discussa da economisti successivi, secondo la
quale l'offerta crea sempre la propria domanda e, pertanto, non sono
possibili crisi di sovrapproduzione.
Karl Marx
Karl Marx (1818-1883) rielaborò le tesi di Smith e di
Ricardo, sostenendo che il valore di scambio delle merci dipende dal
tempo di lavoro necessario alla loro produzione e che è merce
anche la «forza lavoro», remunerata col salario. Il
capitalista, secondo Marx, impiega «capitale costante» e
«capitale variabile». Il primo è costituito dai
mezzi di produzione (impianti, macchinari, materie prime ecc.) e si
limita a trasferire il proprio valore nel prodotto finito; il
secondo è costituito dal lavoro umano, che genera valore. Ma
il lavoratore, secondo Marx, è occupato per un tempo di
lavoro superiore a quello necessario per riprodurre il valore dei
beni necessari alla sua sussistenza; il capitalista si appropria del
tempo di lavoro eccedente, del «pluslavoro», da cui
ricava un plusvalore che è all'origine del profitto. In
ciò, secondo Marx, consiste lo sfruttamento dei lavoratori da
parte dei capitalisti.
Al tempo stesso, Marx sosteneva che i continui investimenti in
capitale costante (impianti e macchinari), diminuendo la quota del
lavoro sul capitale complessivamente impiegato, avrebbero
determinato sia una sempre maggiore concentrazione industriale, sia
una riduzione del capitale variabile, quindi della base stessa dei
profitti. Da ciò dedusse una legge della «caduta
tendenziale del saggio di profitto». La concentrazione
industriale, inoltre, avrebbe favorito l'organizzazione dei
lavoratori come classe, al punto da consentire loro di appropriarsi
dei mezzi di produzione e di dar vita ad un nuovo sistema economico,
il comunismo.
La rivoluzione marginalista
Negli anni 1871-1874 vennero pubblicate le opere di tre economisti
(Carl Menger, William Stanley Jevons e Léon Walras) che
cambiarono radicalmente il corso della teoria economica.
L'attenzione si spostò dalle classi sociali al singolo
individuo (cosiddetto «individualismo metodologico»),
alla soddisfazione dei suoi bisogni procurata da beni che posseggono
un valore in quanto sia utili che scarsi. Concetto cardine della
nuova impostazione, detta marginalismo, è l'andamento
decrescente di tale soddisfazione all'aumentare della
quantità consumata. Il prezzo di un bene non viene più
ricondotto al suo costo di produzione, ma alla disponibilità
dei singoli a pagare per ottenerlo, una disponibilità che
diminuisce all'aumentare del consumo.
Walras e Pareto
Léon Walras (1834-1910) si propose di descrivere il
meccanismo di formazione dei prezzi mediante un sistema di equazioni
che esprimessero l'incontro di domanda e offerta in un sistema
economico nel suo complesso. Individuò a tale scopo:
n equazioni di offerta complessiva di
«servizi produttivi» (terra, lavoro, capitale), ognuna
dipendente dai prezzi sia dei servizi produttivi che dei beni di
consumo;
m equazioni di domanda complessiva per i beni
finiti, anch'esse dipendenti dai prezzi dei servizi produttivi e dei
beni finali;
n equazioni in cui la quantità di ciascun
servizio produttivo utilizzato nella produzione dei diversi beni
viene posta uguale all'offerta totale di quel servizio;
m equazioni in cui il prezzo di ciascun bene
viene posto uguale alla somma dei costi dei servizi produttivi
impiegati.
In totale, 2m+2n equazioni, che si riducono tuttavia a 2m+2n-1
equazioni indipendenti, in quanto la legge di Walras consente di
esprimere i prezzi in termini del prezzo di un unico bene, posto
pari a 1 (i prezzi, cioè, sono prezzi relativi), quindi di
eliminare una delle equazioni.
Le incognite sono anch'esse 2m+2n-1: m quantità di servizi
produttivi offerti, n quantità di beni finali domandati, n
prezzi dei servizi produttivi, m-1 prezzi dei beni finali. Sulla
base di tale uguaglianza, Walras sostenne che il suo sistema di
equazioni è compatibile e determinato, ovvero che è
possibile una situazione di equilibrio espressa da prezzi
determinati dall'uguaglianza tra domanda e offerta dei beni e dei
servizi produttivi.
Vilfredo Pareto (1848-1923) proseguì l'opera di Walras,
aggiungendovi una nuova definizione di benessere. Prima di lui
prevaleva la definizione di Jeremy Bentham, che si basava sulla
somma dei benesseri individuali, ben difficilmente misurabili.
Pareto definì invece «ottima», quindi
desiderabile, la situazione in cui è impossibile che un
individuo stia meglio senza che un altro stia peggio, dimostrando
che essa è conseguibile solo in regime di libera concorrenza.
Marshall e Pigou
Il lavoro di Walras e di Pareto non ricevette, inizialmente, grande
attenzione. Tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX
secolo risultò invece dominante l'insegnamento di Alfred
Marshall (1842-1924), che applicò sistematicamente i principi
del marginalismo sia alla teoria del consumatore, sia a quella
dell'impresa, preferendo la statica comparata (confronto tra diverse
situazioni di equilibrio) e l'analisi degli equilibri parziali
(domanda e offerta di un singolo bene) alla teoria dell'equilibrio
economico generale.
Definì i surplus del consumatore e del produttore; dette
inizio ad uno studio dell'equilibrio dell'impresa che, attraverso
suoi seguaci quali Arthur Cecil Pigou (1877-1959) e Jacob Viner
(1892-1970), assunse a fondamento l'ipotesi delle curve a U dei
costi medio e marginale; sottolineò l'importanza delle
esternalità. Pigou, inoltre, riformulò l'economia del
benessere nei termini del surplus del consumatore, mostrando che
esso è massimo in concorrenza perfetta; previde peraltro
apposite imposte (dette pigouviane) per correggere le
esternalità negative.
Per il primo terzo del XX secolo furono Marshall e Pigou, più
che Walras e Pareto, gli autori di riferimento di una scuola di
pensiero che, per distinguerla dall'economia classica, venne
definita neoclassica.
Va ricordata, per quanto seguì, la teoria di Pigou sulla
disoccupazione: egli sosteneva che in presenza di disoccupazione e
di un basso livello di prezzi e salari, si sarebbe avuto un aumento
del valore delle scorte monetarie (grazie al minor prezzo dei beni),
quindi un aumento della ricchezza ed una ripresa dei consumi, fino a
riassorbire la disoccupazione (cosiddetto "effetto Pigou", o
"effetto ricchezza reale").
La scuola austriaca
Carl Menger (1840-1921), per quanto iniziatore del marginalismo,
privilegiò l'aspetto soggettivo (secondo cui il valore di un
bene dipende dalla sua capacità di soddifare un bisogno) al
punto da rifiutare l'approccio matematico di Walras e di Marshall;
secondo Menger l'approccio matematico era errato in quanto "I dati
che gli economisti studiano - gli esseri umani - hanno scopi
individuali e quindi renderanno la realtà complessa e non
precisa. Tutte le scienze hanno gradi di precisione". L'approccio
matematico, adatto a descrivere fenomeni fisici e chimici, ipotizza
agenti economici che seguano regole fisse invece di perseguire scopi
individuali. Questo approccio non permette di distinguere tra causa
ed effetto (le equazioni sono atemporali) e nega la componente
temporale dell'azione umana/economica e quindi l'importanza
dell'incertezza e della conoscenza nell'azione economica. Fra i suoi
collaboratori e seguaci vanno ricordati Friedrich von Wieser
(1851-1926, il primo ad utilizzare l'espressione
«utilità marginale») e Eugen von Böhm-Bawerk
(1851-1914; a lui si deve, tra l'altro, un'originale teoria
dell'interesse). Con essi nacque la cosiddetta scuola austriaca, di
cui furono poi esponenti anche Ludwig von Mises (1881-1973) e
Friedrich von Hayek (1899-1992).
Tra gli allievi di Böhm-Bawerk va ricordato Joseph Schumpeter
(1883-1950), a sua volta maestro di Paul Samuelson (n. 1915), Paul
Sweezy (1910-2004), Paolo Sylos Labini (1920-2005). Schumpeter ha
proposto una teoria dello sviluppo economico basata sulle
innovazioni introdotte dagli imprenditori ed ha scritto una
fondamentale Storia dell'analisi economica.
La rivoluzione keynesiana
La Grande depressione del 1929 pose a dura prova la teoria economica
neoclassica, in quanto il suo perdurare sembrava smentire la
capacità di un'economia di mercato di ritrovare un equilibrio
di piena occupazione delle risorse e di benessere.
John Maynard Keynes (1883-1946), che ha dominato il pensiero
economico dagli anni '30 agli anni '60 del XX secolo, propose una
sostanziale deviazione dalla scuola neoclassica.
In una prima fase (fino alla crisi del 1929), affrontò il
problema dell'incertezza, distinguendo tra eventi per i quali
è possibile esprimere un giudizio probabilistico
(«probabilità conosciuta») e eventi per i quali
ciò non è possibile («probabilità
sconosciuta»); considerò il rischio insito
nell'attività imprenditoriale come elemento essenziale
dell'instabilità monetaria e rifiutò la prospettiva di
equilibrio automatico, nel lungo periodo, della teoria neoclassica,
obiettando che «nel lungo periodo siamo tutti morti»;
criticò il socialismo, ma considerò il liberismo una
risposta insufficiente.
In una seconda fase (fino alla seconda guerra mondiale),
argomentò che la crisi del 1929 era dovuta al fatto che la
domanda aggregata risente di vari fattori tra i quali non esiste un
meccanismo di equilibrio automatico: la propensione marginale al
consumo, dipendente dal livello del reddito, gli investimenti,
dipendenti sia dal tasso di interesse che dalle aspettative degli
imprenditori, il livello del tasso di interesse, fortemente
influenzato dalla preferenza per la liquidità. Sostenne
quindi che, in un'economia funestata da una debole domanda
aggregata, il settore pubblico ha la possibilità di
incrementare la domanda aggregata tramite la spesa pubblica per
l'acquisto di beni e servizi, rendendo così possibile un
aumento dell'occupazione. La sua opera principale, la Teoria
generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936),
pose i grandi aggregati economici (consumo, risparmio, investimenti
ecc.) al centro dell'analisi economica, dando vita ad una disciplina
detta "macroeconomia" per distinguerla dall'approccio individualista
dell'economia neoclassica ("microeconomia").
Dopo la seconda guerra mondiale, infine, partecipò
attivamente alla definizione di un nuovo assetto economico
internazionale, anche guidando la delegazione inglese nella
conferenza di Bretton Woods.
Gli anni dell'alta teoria
Nei decenni centrali del XX secolo si ebbero anche sia
approfondimenti notevoli dell'economia neoclassica, sia la proposta
di approcci alternativi che andavano oltre le critiche di Keynes.
La teoria dell'equilibrio economico generale
La teoria di Walras sull'equilibrio economico generale venne ripresa
negli anni '30 dal Mathematisches Kolloquium, un seminario periodico
organizzato dal matematico Karl Menger (figlio di Carl). Si
considerò che l'uguaglianza tra numero delle equazioni e
numero delle incognite non è sufficiente, come invece
riteneva Walras, a garantire l'esistenza di soluzioni economicamente
significative, in quanto potrebbero risultare quantità o
prezzi nulli o negativi. Si avviò quindi un intenso lavoro di
ricerca finalizzato a dimostrare in primo luogo l'esistenza di
soluzioni. Ai lavori iniziali di Abraham Wald (1902-1950), John von
Neumann (1903-1957) e Oskar Morgenstern (1902-1977), seguirono poi i
contributi di altri, soprattutto John Hicks (1904-1989), Kenneth
Arrow (n. 1921) e Gérard Debreu (1921-2004).
Una volta dimostrata l'esistenza, sotto alcune condizioni, si
trattò di dimostrare anche l'unicità e la
stabilità della soluzione, essenziali per le analisi di
statica comparata. Il compito si è rivelato più arduo,
al punto che alcuni ritengono che si sia dimostrato piuttosto che
l'equilibrio è instabile e che vi sono molteplici equilibri.
Si tratta di un argomento ancora dibattuto.
La teoria delle forme di mercato
Nel 1933 Joan Robinson (1903-1983), sviluppando alcune
considerazioni contenute in un articolo di Piero Sraffa (1898-1983)
del 1926, enunciò una teoria della «concorrenza
imperfetta»; nello stesso anno, Edward Chamberlin (1899-1967)
propose una teoria della «concorrenza monopolistica».
Entrambi gli autori, pur se in modo diverso, considerarono il caso
di imprese che si confrontino ognuna con curve di domanda
decrescenti, come avviene nel monopolio. In particolare, Chamberlin
sosteneva che le imprese non operano, in realtà, in un
mercato perfettamente concorrenziale, ma, come se fossero "piccoli
monopoli", possono imporre il prezzo ciascuna in un proprio mercato,
grazie alla differenziazione di prodotto ed alla pubblicità.
Nasceva così una teoria dei mercati che non sono né di
concorrenza perfetta né di monopolio.
Pochi anni dopo, nel 1939, venne pubblicata una ricerca condotta dal
gruppo di economisti di Oxford sul comportamento delle imprese. Da
essa risultava che le imprese non cercano di massimizzare i profitti
come supposto dalla teoria marginalista, tenendo conto di un prezzo
dato e del costo marginale, ma usano fissare il prezzo aggiungendo
al costo variabile una percentuale tale da coprire il costo fisso e
da garantire un profitto (cosiddetto principio del costo pieno).
Successivamente sono state formulate diverse teorie che tenessero
conto di tali risultati; da un lato una teoria dell'oligopolio (Joe
Bain, Paolo Sylos Labini), dall'altro teorie manageriali e
comportamentistiche dell'impresa (William Baumol, Robin Marris,
Herbert Simon).
La controversia sul capitale
Secondo la teoria neoclassica, i fattori produttivi (lavoro e
capitale) vengono remunerati secondo la loro produttività
marginale: il salario è posto uguale alla produttività
marginale del lavoro, il saggio del profitto uguale a quella del
capitale. Inoltre, se aumenta il costo di un fattore, gli viene
preferito l'altro; quindi, se aumentano i salari si ha meno impiego
del fattore lavoro (meno occupazione) e maggior impiego di capitale.
Joan Robinson e Piero Sraffa osservarono che risulta arduo misurare
il capitale come base di calcolo per il saggio del profitto e che
esso, in quanto aggregato di merci eterogenee, può essere
misurato solo nel suo valore monetario, ma ciò richiede che
sia noto il saggio del profitto. Nel suo Produzione di merci a mezzo
di merci, inoltre, Sraffa aveva mostrato che sono possibili
situazioni in cui l'aumento del salario comporta maggiore impiego di
lavoro invece che di capitale (cosiddetto "ritorno delle tecniche").
Ne nacque una vivace controversia tra le due Cambridge, ovvero tra
la Cambridge inglese (Robinson e Sraffa, poi Pierangelo Garegnani e
Luigi Pasinetti) e la Cambridge americana (Paul Samuelson e Robert
Solow). Vi fu una sorta di "vittoria anglo-italiana" sul piano
teorico, a cui i neoclassici reagirono sia costruendo modelli in cui
il capitale è un unico bene omogeneo (Samuelson), sia
proponendo modelli di equilibrio in cui compare espressamente la
moneta (Frank Hahn).
La controrivoluzione monetarista
In passato i periodi di stagnazione o di recessione erano
accompagnati da riduzioni del livello generale dei prezzi. A partire
dalla fine degli anni '60, tuttavia, inflazione e stagnazione
iniziarono a presentarsi congiuntamente, una novità tale che
per essa fu coniato il termine stagflazione.[14] Il nuovo scenario
si concretizzò mentre si stavano consolidando alcuni
risultati della teoria economica precedente, anche keynesiana, ma
dette vita a proposte di diverso segno.
La sintesi neoclassica
Fin dagli anni '30 si era cercato di reinterpretare la teoria
keynesiana nei termini della teoria neoclassica. Già nel
1937, John Hicks aveva proposto un modello, divenuto poi noto come
modello IS-LM, in cui individuava un meccanismo di equilibrio
simultaneo dei mercati dei beni e della moneta. Si astraeva dalle
aspettative degli imprenditori (gli investimenti venivano visti come
funzione solo del tasso d'interesse) e la teoria keynesiana diveniva
solo un'eccezione, riservata al caso di "trappola della
liquidità" (tasso d'interesse così basso che nessuno
presta denaro).
Successivamente Franco Modigliani (1918-2003) estese il modello
aggiungendovi il mercato del lavoro. Nel suo modello l'equilibrio
macroeconomico può essere raggiunto con qualsiasi livello
dell'occupazione e, come nella tradizione neoclassica, esiste un
livello dell'occupazione per ogni livello del salario. Ne seguiva
che l'intervento pubblico in economia si giustifica solo per
smorzare oscillazioni di breve periodo.
In tal modo si riconduceva Keynes nell'alveo neoclassico, secondo un
approccio denominato "sintesi neoclassica".
Milton Friedman
Milton Friedman (1912-2006) fu più radicale. Secondo la
teoria neoclassica i prezzi sono solo prezzi relativi, mentre il
livello generale dei prezzi dipende dalla quantità di moneta
(teoria quantitativa della moneta). Friedman ha sviluppato tale
tesi, sostenendo che un aumento dell'offerta di moneta può
influire sul reddito e sull'occupazione solo nel breve periodo,
mentre nel lungo il livello di equilibrio del reddito dipende da
fattori reali (risorse disponibili, tecnologia, preferenze ecc.) e
un aumento della quantità di moneta può produrre solo
inflazione.
Ha poi aggiunto che, in ogni caso, gli interventi di politica
monetaria e fiscale volti a sostenere la domanda aggregata sono
inefficaci, e rischiano di rivelarsi controproducenti, in quanto
soggetti nella pratica a ritardi e incertezze nella valutazione
della situazione, nel passaggio da tale valutazione alla scelta
degli interventi, nell'attuazione degli interventi e nel dispiegarsi
dei loro effetti. Da tutto ciò seguiva che le autorità
dovrebbero solo far crescere l'offerta di moneta al ritmo richiesto
dalla crescita economica reale, lasciando al mercato gli
aggiustamenti di breve periodo.
L'insegnamento di Friedman ha dato vita ad una vera e propria
scuola, detta scuola di Chicago, che ha esercitato notevole
influenza a partire dagli anni '70.
La nuova macroeconomia classica
Robert Lucas (n. 1937), prima studente poi docente a Chicago,
è andato ancora oltre, affermando che i soggetti economici
sono guidati da aspettative sostanzialmente uguali alle previsioni
ricavabili dalla teoria economica. Da ciò segue che le misure
di politica economica sono inefficaci, in quanto i singoli ne
scontano in anticipo gli effetti; ad esempio, una spesa pubblica in
disavanzo (non finanziata mediante un aumento delle imposte) viene
vanificata da una riduzione dei consumi, attuata per accantonare i
risparmi necessari a pagare le imposte che prima o poi verranno
richieste. Lucas, Prescott (n. 1940) ed altri hanno dato vita ad una
scuola detta nuova macroeconomia classica.
Da tale impostazione Arthur Laffer (n. 1940) ha dedotto che sono
ammissibili solo politiche dell'offerta (supply-side economics),
tese a ridurre gli ostacoli al libero funzionamento del mercato.
Il presente
La teoria neoclassica recava in sé una teoria del benessere
che, a partire dal 1951, è stata sottoposta ad una profonda
revisione. La diffusione delle teorie keynesiane e l'aumento del
ruolo dello Stato in economia portavano con sé il problema
della scelta, da parte dell'intera collettività, tra diverse
alternative di impiego delle risorse. In quell'anno Kenneth Arrow
pubblicò il libro Social Choice and Individual Values, in cui
dimostrava che non esiste alcuna funzione di scelta sociale in grado
di soddisfare un insieme di criteri di coerenza e moralità
(Teorema dell'impossibilità di Arrow). Amartya Sen (n. 1933),
prendendo spunto da tali conclusioni, ha dimostrato
l'impossibilità del liberismo paretiano.
Dalla sintesi neoclassica è invece scaturita una "nuova
economia keynesiana", che cerca di individuare le cause
microeconomiche delle rigidità che, a livello macro,
determinano i cosiddetti fallimenti del mercato, disoccupazione
compresa. Principale esponente è Joseph Stiglitz (n. 1943),
cui si deve la teoria delle asimmetrie informative.
Sono forse questi gli aspetti più interessanti, o almeno
più noti, degli sviluppi recenti della teoria economica.
Accanto ad essi potrebbero esserne ricordati altri
(neoistituzionalismo, scuola neo-austriaca, teorie del disequilibrio
ecc.) che, tuttavia, appartengono più allo studio
dell'economia nel suo stato attuale che a quello del suo passato.