Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
di Renato Brunetta
Salari e stipendi
sommario: 1. Definizione. 2. Il salario
nella teoria economica. 3. Salari e distribuzione del reddito. 4. I
parametri della politica retributiva. 5. I differenziali
salariali. 6. I fringe benefits. 7. Retribuzione, incentivi e
partecipazione. 8. I sistemi di indicizzazione dei salari. 9. Salari
e politica dei redditi. 10. Salari e contrattazione nell'esperienza
italiana. □ Bibliografia.
1. Definizione
Con il termine salario, normalmente, si indica la remunerazione del
lavoro dipendente operaio (i cosiddetti colletti blu); con il
termine stipendio si indica la retribuzione sempre del lavoro
dipendente, però di natura impiegatizia o funzionariale (i
cosiddetti colletti bianchi); infine con i termini onorario,
parcella, ecc. si intende la remunerazione mista del lavoro
indipendente di tipo professionale (avvocato, medico,
commercialista) che non derivi da attività di
impresa.Ciò detto, uno degli aspetti di maggiore rilievo che
occorre tener presente quando si parla di salari e di stipendi (e
cioè di lavoro dipendente) è la differenza tra la
'retribuzione' percepita dal lavoratore e il 'costo del lavoro'
sostenuto dal datore di lavoro. Quel che interessa al lavoratore
infatti è il potere d'acquisto del suo salario o del suo
stipendio (d'ora in poi, nella nostra trattazione, solo salario),
cioè il confronto tra il suo reddito al netto del prelievo
fiscale e il prezzo dei beni e servizi con esso acquistati; mentre
quel che interessa al datore di lavoro è il confronto tra il
costo del lavoro per unità di prodotto, inclusivo di tutti
gli oneri accessori (contributi sociali accantonati per le
prestazioni previdenziali e altri oneri), e il prezzo del prodotto
venduto dall'impresa.Ne consegue che retribuzione e costo del lavoro
possono presentare andamenti anche notevolmente difformi. Le cause
sono da ascrivere principalmente a tre gruppi di fattori: 1) la
presenza e l'ammontare del prelievo fiscale e degli oneri sociali;
2) l'esistenza di diverse produttività del lavoro; 3) l'uso
di indici di prezzo differenti (indice dei prezzi al consumo per i
lavoratori e indice dei prezzi all'ingrosso per i datori di lavoro)
con cui generalmente vengono confrontati retribuzione e costo del
lavoro.
A seconda delle modalità con cui viene determinato, il
salario può essere a tempo, a cottimo, a incentivo. Nel primo
caso la retribuzione è correlata al tempo durante il quale il
lavoratore ha prestato la propria opera, nel secondo caso è
proporzionale alla quantità di lavoro eseguito, nel terzo
è calcolata in modo da premiare il lavoratore che produce
'quantità' e 'qualità' superiori a quelle ritenute
medie o minime (tuttavia anche il cottimo può essere
considerato una forma di retribuzione a incentivo: v. cap. 7). Prima
di passare a esaminare in dettaglio le caratteristiche e le
determinanti della remunerazione del fattore lavoro, occorre
soffermarsi sulle definizioni che hanno una diretta corrispondenza
con le informazioni statistiche disponibili.
Salario unitario o tasso salariale. È il valore della
retribuzione calcolata per unità di lavoro.
Costo del lavoro e retribuzione (lorda o netta) monetaria. La
retribuzione monetaria è la quantità di moneta
percepita dal lavoratore quale compenso per il lavoro prestato. Per
costo del lavoro si intende la somma tra la retribuzione lorda
monetaria e gli oneri sociali (contributi per sanità,
infortuni, malattie, pensioni, disoccupazione, e altri oneri) a
carico del datore di lavoro. Per ottenere la retribuzione netta
monetaria è necessario sottrarre alla retribuzione lorda
monetaria i contributi sociali a carico del lavoratore (ritenute
assistenziali e previdenziali) e l'IRPEF corrisposta per trattenuta.
Costo del lavoro e retribuzione (lorda o netta) reale. La variabile
reale si ottiene depurando la grandezza monetaria dell'aumento dei
prezzi. La retribuzione netta reale è la quantità di
beni e servizi che il lavoratore può acquistare con la
quantità di moneta ricevuta come compenso per il lavoro
prestato. Essa rappresenta la misura più vicina al potere
d'acquisto degli individui e il suo andamento, in periodi di elevata
inflazione, si discosta notevolmente dal corrispondente della
retribuzione monetaria.
Tenore di vita. È un'altra misura che permette di ottenere
una proxy (con questo termine si intende una variabile economica in
grado di fornire indicazioni su un'altra variabile) del potere
d'acquisto dei lavoratori e quindi della loro qualità di
vita, soprattutto in rapporto al nucleo familiare. Si ricava dal
rapporto tra la retribuzione lorda e il consumo pro capite diviso
per il numero medio di persone a carico di ciascun
occupato.Indennità accessorie. Sono tutti quei compensi che
il lavoratore generalmente riceve oltre al salario monetario e che
comprendono i congedi, le ferie pagate, le assicurazioni e altri
contributi più specifici (v. cap. 6).
Il ricorso al concetto di costo del lavoro implica la
necessità di distinguere tra due diversi elementi di
riferimento cui è associato tale termine (v. Costa, 1989): 1)
costo del lavoro per unità di tempo (CLUT), influenzato da
due tipi di variabili, quelle che agiscono sul costo del lavoro
totale annuo per addetto (retribuzione diretta, indiretta e
differita, benefici addizionali) e quelle che, dato il costo totale
annuo, influenzano il costo orario del lavoro (orario contrattuale,
ferie, scioperi, straordinari, permessi, assenteismo); 2) costo del
lavoro per unità di prodotto (CLUP), definibile attraverso il
rapporto tra costo del lavoro dipendente e valore aggiunto per
occupato. Il CLUP totale dipende dalla proporzione tra CLUP diretto,
che riflette le condizioni dell'organizzazione della produzione e il
tipo di prestazione lavorativa, e CLUP indiretto, che riflette
invece le scelte di carattere tecnico e le scelte relative
all'organizzazione del lavoro.L'indice che fa riferimento al CLUP
valutato in termini di moneta nazionale prende il nome di CLUPI.
Essendo l'Italia un paese fortemente legato al commercio
internazionale, un elevato costo del lavoro ne riduce la
competitività, per cui operazioni sul tasso di cambio,
cioè svalutazioni, possono aiutare la nostra produzione sui
mercati mondiali. Il valore del CLUPI, però, essendo ottenuto
in termini di moneta nazionale, non fornisce alcuna informazione
rispetto alla competitività all'estero. Occorre allora
calcolare il CLUPE, ossia il costo del lavoro per unità di
prodotto espresso nei termini della moneta di riferimento che
più interessa (dollaro, marco o ECU), il quale permette di
catturare le variazioni del costo del lavoro in relazione a quelle
dei mercati mondiali.
La fase definitoria può essere conclusa analizzando la
composizione della busta paga del lavoratore nell'industria
italiana, che fino al 1992 risultava composta da: a) paga base
contrattuale; b) superminimo aziendale (che insieme al punto sub a
costituisce la paga base aziendale); c) elemento variabile
(contingenza individuale); d) parte individuale (superminimo
individuale, cottimo, prestazioni straordinarie, indennità
particolari).
2. Il salario nella teoria economica
Storicamente l'analisi dei salari si è sviluppata
seguendo due filoni principali: il primo fa riferimento al concetto
di salario naturale, cioè a quella remunerazione che riflette
i costi per la sussistenza della forza lavoro, ma non le condizioni
della produttività e del mercato; il secondo fa riferimento
al salario di mercato, determinato dalle forze di domanda e offerta
e, dunque, dipendente dalla produttività del lavoro.Nella
teoria economica questi filoni si sono variamente intrecciati, con
la prevalenza del primo, nel caso dell'analisi classica, e del
secondo, nell'analisi dei marginalisti. Del resto anche nelle
economie più moderne, nelle quali si determina un salario di
mercato, esistono istituzioni e norme atte a garantire comunque il
sostegno dei redditi così da evitare che siano fissate
retribuzioni talmente basse da menomare le capacità
produttive dei lavoratori (ci riferiamo ai cosiddetti salari minimi,
v. cap. 4).
Le prime formulazioni nell'analisi del salario si devono agli
economisti classici (v. Smith, 1776; v. Ricardo, 1817; v. Malthus,
1820; v. Mill, 1848). Partendo dal ruolo centrale del processo di
accumulazione nel determinare il livello della domanda di lavoro e,
quindi, il salario offerto dalle imprese, si delinea una forma di
netto condizionamento della domanda sull'offerta di lavoro. Del
resto gli autori classici, e in particolare Ricardo e Malthus,
evidenziano la presenza di condizioni oggettive tali da ridurre la
capacità contrattuale della manodopera: da una parte il
legame inverso tra andamento dei salari e crescita demografica,
dall'altra parte la tendenza del salario a riportarsi al livello di
sussistenza (tale da consentire solo il mantenimento e la
riproduzione della forza lavoro) indipendentemente dalle momentanee
oscillazioni dovute a particolari situazioni di mercato.Tuttavia la
rigidità di questa impostazione e la presenza di elementi di
carattere conflittuale vengono in parte attenuate dalla
constatazione dell'esistenza di un livello del salario definito da
Ricardo naturale, il quale non solo garantisce un livello salariale
compatibile con l'accumulazione, ma anche attenua i meccanismi di
mercato, in modo da evitare la fissazione di un salario così
basso da compromettere le capacità produttive del lavoro.Marx
(v., 1867-1894), nella sua ottica volta a individuare il contenuto
dei rapporti economici nel loro significato sociopolitico ai fini di
un superamento del sistema di mercato, approfondisce l'analisi degli
elementi conflittuali presenti nei classici. Egli sostiene che la
determinazione del salario non è il prodotto di un rapporto
di mercato, ma risulta da una serie di vincoli imposti dai
capitalisti al fine di realizzare il plusvalore. Infatti il processo
di valorizzazione del capitale può essere portato a
compimento solo a condizione di mantenere il prezzo della forza
lavoro al di sotto del suo valore effettivo, per cui emergono alcuni
elementi che concorrono a determinare il livello effettivo del
salario al di là dei rapporti di mercato. Tra essi, oltre
alla durata della giornata lavorativa e alle prestazioni richieste
alla manodopera, assume importanza decisiva il livello della
disoccupazione in quanto effetto diretto dello stesso processo di
accumulazione. Se tale processo può produrre un momentaneo
accrescimento dei salari, ben più rilevante è
l'effetto di riduzione delle opportunità occupazionali nei
settori extracapitalistici: da qui trae origine l'"esercito
industriale di riserva" cioè quella massa di disoccupati
attraverso la quale i capitalisti controllano la forza lavoro e
impediscono spinte rivendicative in direzione di una crescita dei
salari.
Dall'analisi marxiana si discosta l'impostazione marginalista (v.
Marshall, 1890; v. Clark, 1899; v. Pigou, 1920), la cui teoria del
salario tende a individuare leggi oggettive di determinazione della
remunerazione, cancellando ogni traccia di carattere conflittuale
dai rapporti tra domanda e offerta di lavoro. Si afferma infatti il
concetto di eguaglianza dei fattori produttivi, i quali percepiscono
una remunerazione pari alle rispettive produttività marginali
(dunque viene negata la posizione di inferiorità contrattuale
del lavoro).Inoltre, dato l'obiettivo di massimizzazione del
profitto da parte delle imprese, la domanda di lavoro è
determinata dalla produttività marginale del lavoro, per cui
essa aumenta al ridursi del salario reale (si considerano dati il
capitale e le tecniche produttive). Dal lato dei lavoratori, invece,
l'offerta di lavoro (espressa individualmente) dipende dalla
massimizzazione dell'utilità e quindi è funzione
diretta del salario reale, oltre che del grado di disutilità
del lavoro e dell'entità degli effetti di reddito e
sostituzione nella definizione del rapporto tra tempo libero e tempo
di lavoro. In questa situazione esiste sempre un livello salariale
di equilibrio che garantisce la piena occupazione.
Dall'analisi marginalista emerge che, in un mercato competitivo in
equilibrio, se la forza lavoro è omogenea non esistono
differenziali salariali e ogni lavoratore viene remunerato secondo
il valore della sua produttività marginale. Se consideriamo
invece una forza lavoro non omogenea, in cui i lavoratori si
distinguono per livelli di istruzione ed esperienza lavorativa che,
arricchendo il capitale umano di ciascuno, ne influenzano la
produttività, la presenza di differenziali salariali risponde
esclusivamente alla necessità di mantenere l'uguaglianza tra
remunerazione e produttività. L'eccessiva semplificazione di
alcune ipotesi della teoria neoclassica del salario e le mutate
caratteristiche del rapporto tra imprese e lavoratori hanno
determinato l'esigenza, a partire dagli anni trenta, di una
riconsiderazione della visione microeconomica degli equilibri tra
domanda e offerta di lavoro. Da qui l'importanza della 'rivoluzione
keynesiana', tradottasi nelle fondamentali assunzioni
dell'esogeneità del salario monetario (che scaturisce dai
rapporti conflittuali imprese-sindacati), della non
omogeneità dell'offerta di lavoro, della rigidità
verso il basso dei salari (monetari) e dell'inserimento della teoria
della remunerazione del fattore lavoro nella concezione
dell'equilibrio macroeconomico generale.In particolare, se la
ricostruzione della domanda di lavoro viene effettuata nell'analisi
keynesiana seguendo in gran parte l'impostazione neoclassica,
l'offerta presenta delle novità sostanziali. Mentre i
neoclassici ipotizzano la capacità dei lavoratori di
contrattare il salario in termini reali e di renderlo conforme alle
esigenze della domanda, Keynes nega questa possibilità
sostenendo che dalla contrattazione scaturisce un saggio di salario
monetario che, dato il livello di occupazione, consente di
individuare il salario reale di equilibrio. Inoltre Keynes individua
due tipologie di lavoratori: la prima è costituita da tutti
quei lavoratori per i quali l'unica fonte di reddito è data
dal lavoro salariato, per cui sono presenti sul mercato a qualsiasi
livello del salario reale (offerta di lavoro permanente); il secondo
gruppo è costituito da quei lavoratori la cui decisione di
impiego dipende da varie considerazioni, tra cui il livello del
salario monetario in rapporto al livello dei prezzi (offerta di
lavoro fluttuante).
In entrambi i filoni di pensiero, neoclassico e keynesiano, è
attribuito particolare rilievo alla rigidità dei salari quale
causa della persistenza della disoccupazione. L'importanza della
flessibilità del salario deriva dalla considerazione che
esiste una relazione inversa tra remunerazione del lavoro e
occupazione. Poiché la disoccupazione è associata ai
salari in eccesso rispetto al livello di pieno impiego, la sua
persistenza dipende da quanto velocemente la retribuzione si
aggiusta rispetto alla situazione del mercato del lavoro: se i
salari fossero molto flessibili, attraverso la loro riduzione la
manodopera in eccesso verrebbe rapidamente assorbita. In questa
accezione la rigidità del salario, sebbene per motivi
differenti, gioca un ruolo cruciale nello spiegare la disoccupazione
sia nel modello neoclassico che in quello keynesiano.La
disoccupazione, secondo i neoclassici, si ha quando il salario reale
eccede la produttività marginale del lavoro al livello di
pieno impiego (per la presenza di organizzazioni sindacali),
così che non c'è vantaggio per le imprese a impiegare
l'intera forza lavoro. In questo caso il meccanismo di aggiustamento
verso il salario di equilibrio, potenzialmente sempre operante,
è ostacolato da fattori esterni e non consente la piena
occupazione.
La disoccupazione keynesiana invece è causata dal livello
troppo basso della domanda globale. Poiché tale domanda
è presentata in termini nominali, una riduzione nei salari
monetari e, quindi, nei prezzi è in grado di generare una
crescita della domanda a livello aggregato. Dopo la pubblicazione
della Teoria generale (1936) si è manifestata la tendenza a
considerare la teoria keynesiana sull'inesistenza di un salario di
equilibrio come un caso particolare del modello neoclassico. In tal
senso, gli analisti della 'sintesi neoclassica' spiegano
l'equilibrio keynesiano di sottoccupazione come la risultante di
rigidità e inelasticità delle variabili del sistema e
di carenza informativa.Negli anni settanta e ottanta, infine,
l'attenzione degli economisti si è rivolta all'indagine delle
cause responsabili dello stabilirsi di un salario superiore a quello
di equilibrio. In altri termini, l'analisi economica della
'disoccupazione involontaria' ha tentato di spiegare perché
non intervenga una contrazione del prezzo dei servizi del lavoro
quando c'è un eccesso di offerta di lavoro. In questa
direzione i principali approcci analitici fanno riferimento a una
struttura del mercato del lavoro non perfettamente competitiva
attraverso le seguenti teorie.
1. Teoria dei contratti impliciti, secondo la quale il salario non
è l'unico bene che un'impresa offre ai propri dipendenti:
esistono altre condizioni che danno al lavoratore la massima
utilità compatibile con i profitti dell'impresa. Tale
utilità, per esempio, dipende in gran parte dalla
stabilità dell'occupazione. In presenza di un rischio di
disoccupazione particolarmente elevato, i lavoratori (che
generalmente sono avversi al rischio più di quanto lo siano
le imprese) offrono lavoro soltanto a un salario durevolmente alto e
hanno una spiccata preferenza per il rimanere a lungo
volontariamente disoccupati se il livello della retribuzione non
è considerato accettabile in tale prospettiva (v. Azariadis,
1975).
2. Teoria dei salari di efficienza, secondo cui la
produttività dei lavoratori cresce al crescere della
remunerazione ricevuta. Ciò significa che, se
l'abilità è correlata al salario, i lavoratori
migliori saranno impiegati nei posti meglio pagati per effetto
dell'autoselezione. Il salario di efficienza si attesta dunque a
quel livello in cui l'elasticità della produttività
rispetto alla remunerazione diventa unitaria. Tale legame
'salario-produttività' generalmente è spiegato
dall'influenza di vari fattori, tra cui i più importanti
sembrano essere: il clima delle relazioni industriali più
sfavorevole; il ruolo punitivo della disoccupazione rappresentato
dalla perdita di una remunerazione elevata; la possibilità da
parte dei datori di lavoro di attirare i lavoratori più
preparati e di ridurre la loro propensione ad abbandonare l'impiego,
il che consentirebbe di evitare i costi legati alla sostituzione di
questi con nuovi lavoratori da addestrare (v. Yellen, 1984; v.
Akerlof e Yellen, 1986).
3. Teoria degli insiders-outsiders, secondo cui i dipendenti di
un'impresa (insiders) sono poco attenti alle sorti dei lavoratori
disoccupati (outsiders) e rispetto a questi hanno a disposizione una
forza contrattuale notevolmente superiore. Così, sfruttando
la conoscenza dei costi associati alla propria sostituzione (si
tratta dei costi di addestramento e di integrazione
nell'organizzazione produttiva, oltre che dei costi legati a
inevitabili conflitti sindacali), riescono a ottenere salari
più elevati di quelli che un equilibrio di piena occupazione
richiederebbe (v. Lindbeck e Snower, 1984).
4. Teoria dell'isteresi, che incorpora l'idea che la disoccupazione
di equilibrio (determinata dalle istituzioni del mercato del lavoro
e quindi piuttosto stabile) dipenda dalla storia passata della
disoccupazione effettiva (influenzata da movimenti imprevisti della
domanda e dell'offerta). Le ricerche in questa direzione sono
dirette prevalentemente a spiegare la difficoltà incontrata
dai disoccupati nell'esercitare una pressione verso il basso dei
salari mentre permane la loro condizione di inattività, che
non solo ne impoverisce il capitale umano, ma rafforza anche il
potere di mercato di coloro che già possiedono
un'occupazione, cioè gli insiders (v. Blanchard e Summers,
1987).
5. Teoria dei salari di accettazione (reservation wages), che
individua per ogni soggetto in cerca di occupazione un livello di
remunerazione al di sotto del quale egli è ancora disposto a
proseguire nella ricerca di lavoro, dal momento che il costo di
un'ulteriore ricerca è minore o uguale al profitto marginale
conseguibile.In definitiva, ognuna di queste famiglie analitiche
arriva a conclusioni in contrasto con il modello neoclassico
standard, attribuendo ai soggetti coinvolti (imprese e lavoratori o
sindacato) un certo grado di potere di mercato nella determinazione
dei prezzi (il salario) e delle quantità (l'occupazione).
Secondo un ulteriore filone di pensiero, che porta avanti l'analisi
dinamica della fissazione del salario, un mercato del lavoro
competitivo è in equilibrio, dato il livello generale dei
prezzi, al salario che eguaglia la domanda con l'offerta di lavoro
desiderata. Dunque l'incontro tra le curve di domanda e di offerta
determina simultaneamente il salario di equilibrio e l'ammontare di
utilizzazione effettiva della forza lavoro.
L'offerta aggregata di lavoro, tuttavia, può variare per la
variazione delle offerte individuali, influenzate dalle variazioni
del reddito non da lavoro, dalle variazioni del salario o dei
redditi degli altri componenti della famiglia, o dalle variazioni
della produttività nelle attività svolte in casa.
L'aumento di queste variabili, indipendentemente da altri
cambiamenti, fa ridurre l'offerta di ore lavoro, spostando quindi
verso sinistra la curva, con un effetto di riduzione
dell'occupazione e un aumento del salario di equilibrio. Una loro
riduzione invece produce l'effetto opposto, espandendo l'offerta di
ore lavoro, aumentando quindi l'occupazione e riducendo il salario
di equilibrio
Anche la domanda di lavoro può subire variazioni al variare
del prezzo dell'output, del prezzo e della quantità degli
inputs e, soprattutto, al variare della tecnologia. Una tecnologia
che rende il lavoro più produttivo fa crescere la domanda di
lavoro dell'azienda; l'aumento del prezzo dell'output porta a
un'espansione della produzione, spostando la curva di domanda verso
destra, fino a eguagliare il valore marginale del lavoro con il
salario, implicando un aumento dell'occupazione e del salario
monetario; l'aumento del prezzo degli inputs, fermo restando il
livello tecnologico utilizzato, innesca un processo di revisione dei
livelli produttivi e, di conseguenza, di riduzione dell'occupazione.
Passando all'esame del salario di equilibrio in più mercati,
occorre sottolineare che un salario di equilibrio resterà
tale solo in mancanza di opportunità più favorevoli
per l'azienda o per i lavoratori. Ad esempio, nel caso di un singolo
mercato in cui viene pagato per un lavoro standard un salario
standard superiore al salario pagato dalle imprese negli altri
mercati per lo stesso lavoro, in mancanza di barriere alla
mobilità dei lavoratori, si assisterà a una
emigrazione dei lavoratori dagli altri mercati (settori) a salari
inferiori verso quello a salario superiore. L'aumento dell'offerta
di lavoro spingerà le imprese nel settore ad alti salari a
offrire salari più bassi e a espandere la domanda di lavoro
fino a un nuovo livello di equilibrio tra la produttività
marginale del lavoro e il salario pagato. E questo nuovo livello
sarà stabile solo se accompagnato da situazioni di equilibrio
nei singoli mercati, ossia in assenza di eccesso di offerta e di
domanda di lavoro.
L'equilibrio tra i diversi mercati contribuisce inoltre al
raggiungimento della migliore allocazione delle risorse, di una
produzione maggiore e di un reddito totale maggiore. Il fatto che
ogni lavoratore sia retribuito in modo uguale al valore del suo
prodotto marginale è garanzia di un'allocazione efficiente
del lavoro. Tuttavia, affinché ciò sia possibile,
è necessaria una completa mobilità della forza lavoro.
Questo implica che qualsiasi barriera alla mobilità dei
lavoratori, sia di origine sindacale, aziendale o istituzionale,
riduce l'efficienza dell'allocazione delle risorse e il reddito
nazionale prodotto dall'economia. Dunque requisito fondamentale
perché un certo salario rappresenti il livello di equilibrio
in tutti i mercati è che ci sia perfetta informazione e che
la manodopera sia libera di muoversi senza alcun costo o perdita di
produttività da un mercato all'altro.
3. Salari e distribuzione del reddito
L'andamento storico del salario nelle economie occidentali
è stato oggetto di indagini statistiche sulla distribuzione
del reddito (v. Ricossa, 1982) dalle quali risulta: 1) prima della
rivoluzione industriale, in presenza di salari nominali poco
variabili, il potere d'acquisto dei lavoratori era inversamente
correlato all'andamento dei prezzi dei beni di consumo e allo
sviluppo demografico; 2) dopo la rivoluzione industriale si assiste
per la prima volta al simultaneo incremento di popolazione e salario
reale, in quanto il salario unitario reale tende a evolvere
parallelamente alla produttività del lavoro. Questo significa
che i lavoratori nel loro complesso percepiscono una quota fissa del
prodotto totale: se rimane costante il rapporto tra salario reale
(w/p) e produttività del lavoro (Q/L), necessariamente rimane
costante anche il rapporto tra redditi da lavoro (wL) e reddito
totale (pQ):
formula;
3) dopo la seconda guerra mondiale, anche a causa dell'estensione e
del rafforzamento dei movimenti sindacali, il salario reale comincia
a crescere più della produttività del lavoro, con
varie oscillazioni dovute a successivi cicli di introduzione di
nuove tecnologie; 4) negli anni novanta, in seguito alla crisi che
investe molte economie industrializzate e, in Europa, ai vincoli
imposti dagli accordi di Maastricht e ai più generali
processi di globalizzazione delle economie, si assiste generalmente
a un riallineamento tra produttività e salari reali, con una
tendenziale riduzione della quota del lavoro sul reddito.
L'Italia non si è molto discostata da tali tendenze
internazionali. Dall'esame della struttura retributiva negli ultimi
quarant'anni si riscontra però più in particolare
quale sia stato l'andamento del salario e del costo del lavoro
rispetto alla produttività dello stesso.
Gli anni cinquanta si caratterizzano per una crescita dei salari
reali inferiore a quella della produttività, che pure risulta
particolarmente elevata per effetto dei processi di ristrutturazione
produttiva nel dopoguerra. Il contenimento dei livelli salariali si
ottiene, da un lato, per effetto della ridotta pressione sul mercato
del lavoro della domanda delle imprese, conseguenza di una
contrazione della domanda globale, dall'altro a causa della limitata
capacità contrattuale del sindacato, dovuta sia al mutato
clima politico che alle condizioni oggettive del mercato del lavoro.
Nel decennio successivo l'accresciuta pressione della domanda di
lavoro produce come effetto immediato l'incremento della
retribuzione di fatto (superiore all'incremento della
produttività) e una contemporanea riduzione della
disoccupazione (al 3%) almeno per il periodo 1960-1963. La tendenza
all'aumento della retribuzione di fatto prosegue anche negli anni
successivi, con la conseguenza che, dopo il 1964, si assiste a un
incremento progressivo della disoccupazione (oltre il 4%).Negli anni
settanta, manifestandosi la necessità di ridurre i costi del
fattore lavoro a seguito della crisi petrolifera del 1973, si
verifica una reazione da parte delle imprese al fine di recuperare
il controllo sulla dinamica retributiva. Ciò avviene
principalmente attraverso processi di ristrutturazione tendenti a
ridurre i livelli di occupazione e attraverso la ricostituzione dei
margini di profitto con manovre sui prezzi. Il risultato di questa
strategia si traduce nella perdita di controllo sul salario netto da
parte del sindacato e, parallelamente, in una progressiva
segmentazione del mercato del lavoro, con il rafforzamento della
posizione contrattuale dei lavoratori delle classi centrali di
età occupati nelle grandi imprese, e la marginalizzazione
delle quote meno produttive e meno protette sindacalmente. Gli
accordi del febbraio 1975 sull'unificazione del punto unico di
contingenza determinano un ulteriore irrigidimento della struttura
salariale, con il crescente prevalere della quota di retribuzione
legata agli automatismi contrattuali (il cosiddetto appiattimento
salariale).
L'andamento salariale negli anni ottanta si caratterizza per la
concomitante presenza di due fenomeni: inflazione in rapida ascesa,
dopo il secondo aumento del prezzo del petrolio (1981), e poi in
discesa dal 1984, e tasso di disoccupazione in costante aumento. Il
primo di questi due fenomeni, unito all'indicizzazione delle
retribuzioni senza una revisione delle aliquote fiscali, ha prodotto
la crescita della retribuzione lorda ma non ugualmente di quella
netta (con il prodursi quindi del fenomeno del fiscal drag o
drenaggio fiscale), rendendo i lavoratori e i sindacati
insoddisfatti dell'accordo in vigore. È solo con le intese
del 22 gennaio 1983 e del 14 febbraio 1984, attraverso le quali
è stato rivisto e attenuato il meccanismo di indicizzazione,
che riprende il processo di riapertura dello 'sventagliamento'
salariale e comincia a realizzarsi un rapido rientro dall'inflazione
che proseguirà per tutti gli anni ottanta.
4. I parametri della politica retributiva
La politica retributiva può essere considerata come la
risultante di un complesso di situazioni relative ai rapporti
contrattuali (ai vari livelli in cui essi si esplicano)
stratificatesi nel tempo, e contemporaneamente come l'effetto di
scelte contingenti operate da imprese e organizzazioni dei
lavoratori.I principali parametri della politica retributiva fanno
riferimento al livello, alla struttura e alla dinamica della
retribuzione (v. Costa, 1989).
I. Quando si parla di 'livello della retribuzione' ci si riferisce
al saggio salariale medio pagato dall'impresa e determinato
dall'esistenza di un saggio minimo risultante da accordi
contrattuali o da norme di legge e dalla fissazione di un saggio
medio derivante dalle condizioni di mercato (relativamente a uno
stesso tipo di unità produttiva).
Il salario minimo, che è uno degli elementi caratteristici
della struttura salariale, rappresenta il tipico esempio di
intervento pubblico nella fissazione di livelli minimi retributivi
per i lavoratori occupati in quei settori dove non esiste un regime
efficace per la determinazione delle remunerazioni tramite i
contratti collettivi e qualora i salari risultino eccezionalmente
bassi. In questa accezione il concetto di salario minimo,
così come è inteso dagli organismi internazionali, non
coincide puntualmente con la definizione data dal sistema francese,
secondo la quale con l'espressione 'salario minimo garantito' ci si
riferisce a diverse ipotesi di garanzia e sostegno dei redditi da
parte dello Stato (v. Franciosi, 1983).
I primi sistemi di salario minimo, sviluppatisi all'inizio del
secolo in alcuni paesi (Austria, Nuova Zelanda, Gran Bretagna) con
l'obiettivo di contenere lo sfruttamento dei lavoratori impiegati
nei settori meno protetti, si sono poi diffusi in molti sistemi
industrializzati e hanno visto aumentare le loro finalità:
protezione delle categorie di lavoratori con minor forza
contrattuale; garanzia di salari equi per tutti i lavoratori;
riduzione del pericolo della povertà; intervento sul sistema
economico per il raggiungimento di obiettivi di carattere generale.
L'introduzione di un salario minimo comporta, come è ovvio,
degli effetti economici sul mercato del lavoro. In un mercato in
concorrenza perfetta, ad esempio, l'imposizione di un salario
superiore a quello di equilibrio certamente riduce la domanda di
lavoro, cioè l'occupazione, e mentre stimola una maggiore
offerta di lavoro (effetto di addizionalità),
contemporaneamente induce i lavoratori a più bassa
qualificazione ad abbandonare il mercato del lavoro data la ridotta
probabilità di ottenere un'occupazione (effetto di
scoraggiamento). Il prevalere dell'uno o dell'altro effetto
determina l'impatto del salario minimo sulla disoccupazione.
II. Con 'struttura della retribuzione' si intende l'ammontare
salariale pagato per diverse posizioni lavorative e diversi livelli
di inquadramento e qualifiche. Schematicamente la struttura
retributiva è definibile attraverso tre parametri: 1) il
grado di differenziazione verticale, dipendente dalle varie
posizioni e qualifiche; 2) il grado di differenziazione orizzontale
che, a parità di mansione, è influenzato da
automatismi, anzianità e premi; 3) il grado di
differenziazione rispetto alle altre aziende, dato che le
posizioni/qualifiche prevalenti sul mercato definiscono il livello
standard di equità e razionalità del sistema
retributivo.Posto il ruolo della struttura retributiva
nell'influenzare produttività e mobilità interne
all'impresa, nella definizione di tale struttura devono essere
tenuti presenti vincoli di natura sia contrattuale che gestionale. I
primi dipendono dall'impostazione della politica sindacale e sono
parzialmente influenzabili dall'impresa. I secondi invece comportano
che la razionalità e la legittimità della struttura
retributiva possono essere alterate da spinte esterne
(rigidità nel mercato del lavoro) che costringono a
modificare la struttura reale dei livelli professionali.
III. La 'dinamica retributiva' è la parte della politica
retributiva che definisce le variazioni salariali nel tempo.
Attraverso la contrattazione collettiva (a livello generale,
settoriale e aziendale) i sindacati negoziano le modifiche
retributive atte a redistribuire gli incrementi di
produttività, riequilibrare la distribuzione del reddito,
compensare le conseguenze dell'inflazione. Alcune di queste
variazioni salariali sono negoziate una tantum nella fase di rinnovo
dei contratti, altre dipendono direttamente dalle politiche
retributive aziendali, altre infine sono definite con una certa
stabilità e operano nel periodo di vigenza contrattuale sotto
forma di automatismi (scatti di anzianità e indicizzazioni).
Se tali automatismi sono stabiliti in misura percentuale lasciano
inalterata la struttura retributiva; se sono stabiliti in maniera
assoluta (uguale per tutti o differenziata) la alterano.
5. I differenziali salariali
L'esame della struttura retributiva si collega direttamente a
quello dei differenziali salariali, per spiegare i quali l'analisi
neoclassica ha dato vita a quattro diverse teorie: a) la teoria
della discriminazione, secondo la quale il differenziale salariale
è determinato dalla preferenza degli imprenditori ad assumere
alcuni lavoratori piuttosto che altri; b) la teoria del capitale
umano, per cui le differenze createsi attraverso la preparazione
scolastica prima e fuori del lavoro sono la causa principale dei
differenziali salariali; c) la teoria della ricerca di lavoro
(job-search), in base alla quale ogni individuo arresta la ricerca
di lavoro nel momento in cui si trova di fronte a opportunità
di impiego compatibili con il suo 'salario di accettazione',
cioè con quel livello di remunerazione rispetto al quale il
costo di una ulteriore ricerca è maggiore o uguale al
profitto marginale conseguibile (tuttavia, tale livello di
accettazione è condizionato dalle informazioni disponibili,
le quali difficilmente sono piene e complete: la diversa
distribuzione delle informazioni sul mercato contribuisce a
determinare i differenziali salariali); d) la teoria dei
differenziali salariali compensativi, secondo la quale per tipi di
lavoro simili, che richiedono cioè lo stesso livello di
specializzazione, le imprese che offrono condizioni di lavoro
peggiori (ambiente insalubre, rischiosità, lontananza
dall'abitazione, instabilità dell'occupazione) sono
costrette, per attirare i lavoratori, a offrire una remunerazione
superiore a quella erogata altrove. Questo differenziale svolge due
ruoli: il primo, per così dire 'sociale', costituisce
l'incentivo necessario a reperire a livello aggregato i lavoratori
disposti a svolgere lavori pericolosi; il secondo, 'individuale',
rappresenta il compenso che il lavoratore riceve per il fatto di
svolgere un lavoro spiacevole (v. Brunetta e Venturini, 1987).
Dunque, mantenendo costanti le altre caratteristiche (età,
sesso, regione, tasso di sindacalizzazione, specializzazione), le
occupazioni che implicano condizioni di lavoro sfavorevoli
presentano un differenziale salariale positivo, mentre le
occupazioni con condizioni di lavoro gradevoli presentano un
differenziale salariale negativo per uguagliare, al margine, il
vantaggio netto del lavoro.
Ancora, l'esistenza dei differenziali salariali può essere
spiegata ipotizzando che la forza lavoro sia suddivisa in numerosi
'gruppi non in competizione tra loro', individuati sulla base delle
occupazioni per le quali i membri di ciascun gruppo possiedono i
requisiti necessari: caratteristiche fisiche, capacità di
apprendimento, addestramento ricevuto, doti e abilità innate.
All'interno dei gruppi sono le imperfezioni del mercato (scarsa
mobilità, mancanza di informazione, rigidità
istituzionali e sociologiche) a causare l'erogazione di salari
diversi per uno stesso tipo di lavoro.
Altre ipotesi esplicative dei differenziali salariali sono state
avanzate seguendo direttrici di analisi diverse che, nelle loro
linee generali, possono essere riassunte come segue. Partendo dalla
constatazione dell'esistenza di situazioni in cui i differenziali
salariali non riflettono le tradizionali ipotesi neoclassiche, la
spiegazione della loro presenza si deve rintracciare nel rapporto
tra struttura retributiva e dinamica della domanda di lavoro, per
cui assumono importanza determinante le tipologie di organizzazione
del lavoro e il potere di mercato delle singole imprese (in
quest'ultimo caso si assisterebbe a una distribuzione dei guadagni
di monopolio tra gli stessi lavoratori).
Secondo un'altra analisi, è necessario evidenziare gli
effetti della segmentazione dell'offerta di lavoro, specie là
dove il formarsi di mercati interni dà luogo a strutture
retributive sganciate dai meccanismi tradizionali, mentre prevalgono
per contro consuetudini e atteggiamenti che, nel momento in cui si
fissa la retribuzione, prescindono spesso da valutazioni di
carattere strettamente economico e sono legati a una logica propria
ed esclusiva del mercato interno. Su questa linea interpretativa si
sono sviluppate successivamente indagini empiriche che ne hanno
allargato la portata, richiamando l'attenzione su altri fenomeni di
non minore importanza, quali il ruolo giocato dall'informazione
imperfetta e dal fenomeno della discriminazione (nelle sue varie
forme) o le differenziazioni prodotte da particolari condizioni
geografiche, settoriali o d'impresa.Infine, nel contesto di
un'analisi dei differenziali retributivi può essere inserito
il problema dello slittamento salariale (divario tra retribuzione di
fatto e retribuzione contrattuale) che individua quella parte della
retribuzione che sfugge alla contrattazione nazionale o settoriale
tra partners sociali e che deriva da negoziazioni dirette con le
aziende o da concessioni unilaterali. Due sono gli indici
rappresentativi dello slittamento salariale. Il primo, wage drift,
è costituito dalla differenza percentuale tra l'incremento
della retribuzione di fatto (rf) e l'incremento di quella
contrattuale (rc):
Wage drift = ∆rf − ∆rc
Il secondo, wagw gap, è pari all'accedenza percentuale della
retribuzione di fatto rispetto alla retribuzione contrattuale:
Wage gap = (rf − rc)/rc.
Il wage drift individua la dinamica annuale del fenomeno, il wage
gap ne misura la dimensione.
6. I fringe benefits
Il salario non esaurisce la remunerazione che il lavoratore
riceve: esistono delle indennità accessorie, spesso
denominate usando la dizione inglese fringe benefits. Esse
generalmente comprendono le ferie pagate, i permessi di
maternità, i congedi pagati per malattia, le assicurazioni
sugli infortuni e sulla vita, l'assicurazione sanitaria, la
pensione, l'indennità di disoccupazione e altri contributi
più specifici (buoni pasto, spacci, permessi per istruzione
superiore, accesso privilegiato a fondi di investimento o ad azioni
dell'impresa). Alcune di queste indennità sono imposte per
legge, come nel caso dell'indennità di disoccupazione, della
sicurezza sociale e delle pensioni, mentre altre sono concesse
esclusivamente su iniziativa delle singole aziende.
La ricompensa che il lavoratore riceve oltre al contante del salario
monetario può essere scomposta secondo due grosse categorie:
una che comprende i contributi in natura, e un'altra costituita dai
contributi differiti.Possono essere considerati parte del primo
gruppo non solo i contributi che il lavoratore riceve letteralmente
in termini di beni, ma anche altri compensi come le ferie pagate e i
permessi di maternità o di studio, che equivalgono al bene
tempo libero. Caratteristica di questo tipo di contributi è
l'aumento di utilità del lavoratore pari circa all'ammontare
monetario che egli sarebbe disposto a pagare per ottenere tali
beni.Per quanto riguarda il secondo tipo di indennità, ossia
i contributi differiti, con essi si intende un tipo di remunerazione
guadagnata sul momento, ma che verrà goduta successivamente.
L'esempio più tipico è costituito dalla pensione.
Anche questo tipo di compenso gode di un trattamento fiscale
particolare, in quanto non è tassato fino al momento in cui
il lavoratore non lo percepisce: ogni individuo, una volta terminata
la sua carriera lavorativa, paga sulla pensione che riceve l'imposta
dovuta (la quale, tra le altre cose, generalmente presenta un
trattamento fiscale agevolato).
Per il datore di lavoro le spese in fringe benefits e le spese
salariali sono egualmente deducibili come costi di produzione. Di
conseguenza nessuna di queste spese possiede un incentivo fiscale e
allora, dato il costo monetario per lavoratore determinato dalla
concorrenza del mercato, al datore di lavoro è indifferente
offrire al lavoratore tutto in remunerazione contante o allocarlo in
qualsiasi combinazione di salario e indennità
accessorie.Esistono tuttavia dei vantaggi nella concessione di
fringe benefits. Infatti il datore di lavoro di fatto è
obbligato a pagare una quota proporzionale al salario come
contributi per la sicurezza sociale e la pensione, e questi costi
riducono la sua propensione a fornire lo stesso valore di fringe
benefits in aumenti del salario. Inoltre il datore di lavoro
acquistando in larga scala beni o contratti di assicurazione o altri
servizi, potrà strappare condizioni e prezzi vantaggiosi e,
in questo modo, ridurre i costi e offrire un ammontare di
indennità accessorie di valore superiore a quello
individualmente raggiungibile con l'equivalente contante. Infine,
l'utilizzazione di compensazioni non salariali permette al datore di
lavoro di ottenere un ulteriore vantaggio: egli, scegliendo di
fornire un certo tipo di agevolazione mirata a soddisfare un gruppo
di lavoratori, riesce a discriminare tra la forza lavoro e a
reclutare coloro che presentano le caratteristiche da lui
desiderate.
Le compensazioni con fringe benefits sono molto utilizzate dalle
grandi aziende che, non potendo offrire (per contratti nazionali o
per non attirare l'attenzione pubblica) remunerazioni superiori alla
media, integrano i salari con una vasta gamma di indennità.
Tuttavia esistono imprese che valutano negativamente l'effetto di
alcune indennità le quali, non essendo commisurate
all'effettivo tempo di lavoro, agevolerebbero l'assenteismo e
ridurrebbero il differenziale retributivo tra lavoratori
specializzati e non.
7. Retribuzione, incentivi e partecipazione
Dal momento che gli schemi retributivi sono spesso studiati
per incentivare la produttività dei lavoratori, un discorso a
parte merita il rapporto tra salario e incentivazione, al cui
interno vanno inseriti il problema dell'individuazione di elementi
atti a stimolare l'efficienza e la ricerca dei parametri di
valutazione del lavoro. Tra i sistemi di incentivazione più
diffusi rientrano la retribuzione a cottimo, le provvigioni e le
royalties, i premi e la partecipazione agli utili (v. Brue e
McConnell, 1990).Nel caso del cottimo il legame tra retribuzione e
rendimento è diretto in quanto il compenso viene calcolato
direttamente in base al numero di unità prodotte. Quando si
utilizza il cottimo devono essere prese in considerazione le varie
circostanze che possono condurre all'adozione di questo metodo
unitamente ai vantaggi e agli svantaggi che esso presenta. Tra i
vantaggi vanno ricordati: un minore livello di supervisione per la
sorveglianza dei lavoratori, la contrazione dei costi per
assenteismo, la riduzione dei tempi morti per un migliore utilizzo
delle macchine. Tra i possibili svantaggi ci sono: il deterioramento
della produzione a causa dell'incentivazione al risparmio di tempo e
per la ripetitività del lavoro, l'eventualità di
errori di calcolo nella definizione degli standard produttivi, la
rigidità della forza lavoro rispetto ai cambiamenti
tecnologici. A queste considerazioni vanno aggiunte le riserve poste
sia da parte sindacale che imprenditoriale rispetto a tale schema di
remunerazione, tutti motivi che, unitamente alle sempre meno diffuse
caratteristiche di produzione di massa nei paesi industriali, hanno
fatto quasi scomparire l'utilizzazione del cottimo come forma di
produzione e remunerazione.Le provvigioni vengono calcolate in base
all'ammontare delle vendite e sono generalmente corrisposte ad
agenti e intermediari in percentuale del valore monetario dei beni o
servizi venduti.I premi sono somme di denaro che vengono pagate ai
lavoratori in aggiunta allo stipendio, in seguito al raggiungimento
di particolari risultati o al superamento di determinati obiettivi.
Quando si fa riferimento alla partecipazione economico-finanziaria
invece si possono individuare gli accordi con i quali i lavoratori
partecipano ai risultati di impresa in termini di flusso, oppure gli
schemi di partecipazioni azionarie alla proprietà delle
imprese (v. Brunetta, 1994). Le due categorie di schemi di
partecipazione interagiscono in vario modo tra loro e sono da
considerarsi complementari ai sistemi di determinazione del salario
in quanto, normalmente, retribuzione e partecipazione assolvono alla
funzione di remunerazione del fattore lavoro. Esistono tuttavia casi
in cui il profit sharing si trasforma in una vera e propria
partecipazione azionaria, per cui i lavoratori diventano titolari di
azioni con diritto a remunerazioni in ogni caso differite. Le
evidenze empiriche dell'applicazione degli schemi di partecipazione
nei paesi industrializzati (il profit-related pay inglese, i premi
di intéressement francesi, i premi di produttività
italiani) non forniscono prove significative e univoche della
contrazione degli squilibri nel mercato del lavoro e della riduzione
di inflazione e disoccupazione, ma mostrano un generale
miglioramento della qualità delle relazioni industriali.
Sempre nell'ambito del rapporto tra retribuzione e incentivazione,
sono piuttosto diffusi gli 'incentivi di carattere collettivo', che
generalmente assumono la forma di cottimi di squadra oppure di premi
sulla base degli indici di risultato, e che vengono corrisposti a
più lavoratori contemporaneamente per gli obiettivi raggiunti
nel comune svolgimento di un compito loro assegnato.Le forme di
incentivi appena viste mirano, attraverso la partecipazione, il
coinvolgimento e la consapevolezza, a migliorare le motivazioni
nella prestazione lavorativa in una sorta di 'controllo di
qualità continuo', perché continuamente correlato alle
performances dell'impresa. Del resto sono le ineludibili esigenze di
qualità totale nei processi produttivi a mal sopportare modi
di remunerazione del lavoro rigidi: la qualità totale
comporta l'immissione nell'organizzazione aziendale di gerarchie
flessibili, autoregolamentazione dei lavoratori, utilizzo di sistemi
e tecniche per quantificare il successo e per realizzare un costante
miglioramento dei compiti. In questa situazione gli schemi di
partecipazione si rivelano superiori agli altri modelli di incentivi
i quali, se pur differenziati per singoli gruppi di lavoro o isole
produttive, alla lunga si rivelano inefficienti a causa degli alti
costi di monitoraggio e controllo.
La contrattazione flessibile e decentrata degli schemi
partecipativi, inoltre, può rivelarsi la risposta più
adeguata nelle fasi di ristrutturazione e riconversione, potendosi
individuare in ogni area i cambiamenti nei mix produttivi e, quindi,
le relative esigenze di mobilità aziendale e settoriale. Il
rapporto tra valutazione dei meriti, progressione della carriera e
retribuzione viene sintetizzato nell'individuazione dei possibili
metodi di valutazione. Se l'aggancio con la retribuzione avviene in
base a una valutazione globale della prestazione corrente, la
considerazione dello sviluppo della carriera tende a privilegiare
una proiezione in senso temporale del valore della prestazione. In
questo caso avranno importanza determinante la strutturazione del
mercato interno del lavoro e gli investimenti nello sviluppo del
capitale umano aziendale (derivante da esperienze sociali e
tecniche).
8. I sistemi di indicizzazione dei salari
L'analisi delle procedure di indicizzazione dei salari
utilizzate nei paesi industriali a economia di mercato comporta
l'individuazione del tipo di copertura, delle variabili in gioco
(remunerazione del lavoro e costo della vita), dei meccanismi in
base ai quali esse prendono corpo (indicizzazione flessibile e
indicizzazione automatica), e delle possibili implicazioni positive
e negative connesse all'indicizzazione dei salari nell'ottica
rispettivamente delle imprese, delle organizzazioni sindacali e
dell'autorità pubblica.
È possibile considerare due tipi di copertura: a)
l'indicizzazione interessa l'intera retribuzione, da cui deriva che
questa è interamente coperta relativamente alle variazioni
dei prezzi e quindi è garantito il mantenimento del potere
d'acquisto dei salari (il che però può implicare
maggiori oneri per le imprese); b) l'aggiustamento rispetto alla
dinamica dei prezzi interessa solo una parte della remunerazione,
per cui il potere d'acquisto dei salari è conservato
parzialmente (il che, d'altro lato, si traduce in minori oneri per
le imprese).Il secondo aspetto che va affrontato, in una definizione
generale dei processi di indicizzazione, si riferisce alla
necessità di individuare un indice del costo della vita
sufficientemente rappresentativo delle variazioni dei prezzi. A tal
fine viene assunto in quasi tutti i paesi un indice dei prezzi al
consumo costruito sulla base di un paniere di beni e servizi che
riflette le abitudini di consumo per un dato livello salariale
medio.Le procedure di indicizzazione possono essere automatiche
oppure flessibili, nel qual caso l'aspetto contrattuale assume un
rilievo fondamentale.
Le questioni che emergono dalla pratica di legare i salari ai prezzi
attraverso indicizzazioni e automatismi sono fondamentalmente tre.
Si tratta di stabilire quali sono: 1) l'efficacia delle
indicizzazioni nel mantenimento del potere d'acquisto delle
retribuzioni, efficacia che dipenderà non solo
dall'entità della compensazione rispetto alle variazioni dei
prezzi, ma anche dalla possibilità di utilizzare la
contrattazione collettiva in funzione redistributiva; 2) il rapporto
tra indicizzazione e contrattazione, posto che numerose esperienze
indicano che le clausole di indicizzazione facilitano la conclusione
di contratti collettivi di lunga durata; 3) il ruolo
dell'indicizzazione nell'alimentare il processo inflazionistico.
Di recente, specie in situazioni caratterizzate da una maggiore
automaticità dei meccanismi di adeguamento dei salari, sono
stati realizzati in vari paesi interventi diretti a limitare
l'impatto inflazionistico dell'indicizzazione, quali le norme
relative all'istituzione di vincoli all'entità della
ricostruzione del potere d'acquisto, all'allargamento degli
orizzonti temporali entro cui hanno luogo le rilevazioni dei dati,
alla revisione delle formule di aggiustamento. Ma il dibattito
sull'efficacia delle clausole di indicizzazione e, per contro, sulla
necessità di imporre regole alla crescita dei salari resta
sempre aperto. Infatti, l'imposizione di una regola all'evoluzione
delle retribuzioni, se è in grado di frenare il processo
inflazionistico, non è bene accolta quando c'è grande
incertezza circa la dinamica futura dei prezzi. Se la politica di
controllo dei salari viene affiancata da forme di indicizzazione, si
assicura ai lavoratori il mantenimento del valore reale delle
retribuzioni e al tempo stesso si rende più facile la loro
negoziazione in termini monetari. Una soluzione del genere
però fa basare le regole per l'evoluzione dei redditi sulla
dinamica dell'indice dei prezzi oltre che su quella della
produttività. In altri termini, può essere vero che
un'indicizzazione dei redditi è favorevole alla pace sociale,
ma non è detto che lo sia alla lotta all'inflazione.
Indicizzare le retribuzioni ai prezzi, in effetti, può
tradursi in una spinta verso un eventuale processo inflazionistico
già in atto attraverso la cosiddetta spirale
prezzi-salari-costi di produzione-prezzi. Inoltre i lavoratori
oppongono all'inflazione una resistenza minore se il potere
d'acquisto delle loro retribuzioni è tutelato dalla scala
mobile. Ancora, il costo del lavoro cresce per il cumularsi degli
effetti derivanti dai vari livelli di determinazione dei salari
(contratti collettivi di settore, negoziazione aziendale,
indicizzazione automatica). Infine l'appiattimento retributivo
derivante da alcuni meccanismi di adeguamento delle retribuzioni al
costo della vita mette in moto pressioni tendenti al recupero dei
differenziali salariali da parte dei lavoratori più
qualificati e ciò porta a ulteriori spinte verso un aumento
del costo del lavoro. Per tutte queste ragioni nella gran parte dei
paesi industrializzati non esistono più, ormai da tempo,
forme di indicizzazione automatica dei salari (in Germania sono
addirittura vietate per legge), mentre sono stati introdotti in
tutto o in parte meccanismi diversamente congegnati per legare le
retribuzioni al costo della vita: fissazione di minimi salariali;
scadenze contrattuali ravvicinate; riferimento al tasso di
inflazione desiderato (con clausole di revisione più o meno
automatica nel caso di previsioni errate) e al tasso di
produttività del settore.
9. Salari e politica dei redditi
La politica dei redditi, come parte della politica economica
keynesiana, è stata introdotta nei paesi industrializzati fin
dagli anni cinquanta, ma la sua rilevanza come strumento di
controllo di salari e prezzi è cresciuta durante le crisi
petrolifere degli anni settanta, quando i fenomeni inflazionistici e
le tensioni sul mercato del lavoro sono divenuti il principale
terreno di confronto tra governo e parti sociali.In questo ambito
è stato rilevato come una delle principali cause della
crescita dei prezzi sia da rintracciare nel conflitto sociale che si
scatena nell'arena distributiva: ogni agente economico, nel
tentativo di impossessarsi di una quota crescente del reddito
prodotto, finisce per generare una forte pressione inflazionistica e
un incremento soltanto nominale dei redditi.In tale situazione lo
strumento a disposizione delle autorità per regolare la
distribuzione e controllare i fenomeni inflazionistici è la
politica dei redditi, la quale agisce o attraverso il controllo dei
prezzi di merci e servizi, oppure facendo leva sui guadagni
percepiti da gruppi specifici di percettori. Riguardo quest'ultimo
aspetto, la politica dei redditi prevede una 'regola aurea' secondo
cui il salario per occupato deve crescere in media alla stessa
velocità del prodotto per occupato.
Tale soluzione permette al costo del lavoro di rimanere costante e
alle imprese di mantenere stabili prezzi e margini di profitto
(naturalmente si sta ipotizzando l'esistenza di imprese
oligopolistiche, che determinano il prezzo secondo il principio del
mark-up). In caso contrario, le imprese sarebbero costrette ad
aumentare i prezzi per salvaguardare i loro margini di guadagno,
oppure a vedersi ridurre tali margini pur di mantenere stabili i
prezzi. Quando si vogliano valutare i costi e i benefici connessi
alla politica dei redditi, occorre ricordare che, se dal lato dei
costi si manifestano limitazioni al grado di libertà di cui
beneficiano i sindacati (nella contrattazione) e le imprese (nella
fissazione dei prezzi), tuttavia si riscontrano vantaggi nel
funzionamento più razionale dei meccanismi di mercato, nella
migliore distribuzione delle risorse e del reddito prodotto, nella
possibilità di evitare una perdita della crescita potenziale
(inevitabile nel caso si ricorra a manovre monetarie o fiscali di
contenimento della domanda).
Pur trovandoci di fronte a una grande varietà di proposte
formulate negli ultimi quarant'anni, le concrete sperimentazioni di
politica dei redditi possono essere ricondotte a tre tipologie
principali (v. Brunetta e Pozzana, 1984; v. Roncaglia, 1986):
l'impostazione dirigistica, quella di mercato e quella
istituzionale.Per politiche dei redditi dirigistiche si intendono
gli interventi dell'autorità di politica economica diretti a
imporre norme vincolanti alla crescita di salari monetari e prezzi
per rallentare o sterilizzare la dinamica dell'inflazione. Si tratta
di provvedimenti che, non potendo contare sul consenso delle parti
sociali circa la distribuzione del reddito, sono generalmente
adottati in un'ottica di breve periodo e con risultati assai
discutibili.Le politiche dei redditi di mercato mirano a introdurre
un sistema di incentivi e disincentivi fiscali tali da orientare le
scelte degli agenti economici verso un comportamento non
inflazionistico. Le proposte appartenenti a questo gruppo,
caratterizzato da un buon grado di stabilità temporale e da
un elevato consenso delle parti, possono essere ricondotte ai market
anti-inflation plans, che non hanno mai trovato effettiva
attuazione, e alle tax-based incomes policies, certamente il
sottogruppo più noto e discusso tra le politiche dei redditi
di mercato (v. Wallich e Weintraub, 1971).
Le politiche dei redditi istituzionali, forse le più
importanti nella realtà, consistono in interventi di lungo
periodo diretti a dotare permanentemente il sistema delle relazioni
industriali di una struttura istituzionale e procedurale tale da
facilitare la composizione dei conflitti e regolare la dinamica dei
redditi. Tali politiche tendono dunque a trasformare la natura del
gioco distributivo tra i percettori di reddito da non cooperativo a
cooperativo, fissando precise regole del gioco e contemplando la
partecipazione attiva e responsabile dei rappresentanti dei diversi
attori sociali. In tal modo la politica dei redditi viene a
costituirsi come parte integrante della politica economica, in un
clima di relazioni industriali di tendenziale collaborazione.
10. Salari e contrattazione nell'esperienza
italiana
La dottrina giuslavoristica individua in astratto due modelli
formali di contrattazione salariale: nel primo (crisis bargaining)
le parti entrano in contatto solo periodicamente ed esauriscono i
loro rapporti con la stipulazione del contratto collettivo; nel
secondo (continuous bargaining) le parti danno vita a istituzioni e
procedure che permettono l'adattamento continuo delle norme
collettive esistenti al mutamento delle circostanze (v. Kahn-Freund,
1979).Nell'esperienza italiana dal dopoguerra a oggi la struttura
contrattuale si è caratterizzata per una continua
oscillazione tra il primo e il secondo modello. Nei primi anni
cinquanta si assiste ad accordi interconfederali stipulati tra le
organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro, aventi come ambito
di applicazione un intero settore dell'economia - industria,
commercio, agricoltura - e riguardanti la materia salariale (minimi
retributivi e scala mobile), le commissioni interne, i
licenziamenti. In sostanza si realizza un sistema di
centralizzazione della politica salariale e degli istituti normativi
più importanti, cui viene affiancato un moderato
decentramento della politica rivendicativa inerente alle altre
condizioni di lavoro.Negli anni sessanta i processi di rinnovamento
tecnologico e organizzativo discontinui ed eterogenei modificano
profondamente alcuni elementi del rapporto di lavoro, che sembrano
essere regolati troppo genericamente nei contratti nazionali.
Così il 5 luglio 1962 vengono fissati i principî
generali di un nuovo sistema detto di 'contrattazione articolata':
si individuano due ulteriori livelli contrattuali (di settore e
aziendale) in aggiunta a quello nazionale di categoria e se ne
indicano le materie di competenza. Il sistema si articola in modo
che il contratto nazionale di categoria rinvia a quello di settore
per la regolamentazione di determinati istituti (orario, mansioni,
minimi retributivi) e a quello aziendale per la definizione delle
modalità di applicazione della disciplina sui cottimi, per i
sistemi di valutazione delle mansioni e per le forme di
incentivazione collettiva.
Con il passar del tempo la contrattazione aziendale (quella di
settore rimane sulla carta) si sviluppa gradualmente anche su
materie che non rientravano originariamente nella sua competenza,
preparando così, nei fatti, le premesse per un ulteriore
mutamento del sistema. Nel dicembre 1969, durante il rinnovo del
contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici, decade il sistema
di collegamento tra i livelli contrattuali: la ricontrattazione
diviene proponibile in qualsiasi sede e per qualsiasi materia
già regolata dal contratto nazionale, e si delinea
così un sistema in cui i due livelli negoziali fondamentali
(nazionale e aziendale) non risultano coordinati da collegamenti
giuridico-formali.
Nel corso degli anni settanta il sistema di contrattazione, pur
rimanendo formalmente ancorato al principio dell'indipendenza
giuridica tra livelli, di fatto si sposta ancora verso la
centralizzazione. La nuova tendenza è testimoniata dagli
accordi interconfederali stipulati rispettivamente il 21 e il 25
gennaio 1975: l'accordo sul salario garantito, che prefigura una
riforma della cassa integrazione guadagni, e quello
sull'unificazione del valore del punto di contingenza, che riforma
il meccanismo di funzionamento della scala mobile. Alla crescita di
importanza della contrattazione interconfederale corrisponde la
riduzione di quella aziendale, che vede progressivamente restringere
i propri contenuti alla gestione delle conseguenze sull'occupazione
dei processi di riconversione industriale. All'inizio degli anni
ottanta il sistema contrattuale comincia a mostrare una crescente
tendenza alla centralizzazione, che culmina con i due accordi
tripartiti di politica dei redditi del 22 gennaio 1983 e del 14
febbraio 1984. Il nucleo centrale di tali negoziazioni concerne il
costo del lavoro e tende a desensibilizzare l'indice della scala
mobile, compensando tale manovra con misure di alleggerimento
contributivo, con un tendenziale impegno alla riduzione degli orari
di lavoro e con incentivi all'occupazione. In tema di contrattazione
si tenta di ricostruire una struttura piramidale e gerarchica,
imponendo forti limiti alla contrattazione nazionale di categoria e
ancor più a quella aziendale, la quale non deve avere per
oggetto materie già definite in altri livelli negoziali. Ma
l'intesa, non sottoscritta dalla CGIL, il maggior sindacato
italiano, produce conflitti politici talmente aspri da sconsigliare
di proseguire nella pratica di accordi tripartiti fino alla fine
degli anni ottanta. Ciò consente una spinta verso il
decentramento e una ripresa della contrattazione aziendale su temi
salariali e normativi.
Bisogna aspettare gli anni novanta e le profonde trasformazioni
economiche e istituzionali che accompagnano l'inizio del decennio
per vedere il ritorno alla centralizzazione e alla prassi di accordi
tripartiti su costo del lavoro, struttura del salario e livelli
della contrattazione. Sono i protocolli siglati da governo e parti
sociali il 31 luglio 1992 e il 23 luglio 1993 a modificare l'assetto
delle relazioni industriali e a implicare il passaggio da una
distribuzione del reddito di tipo 'conflittuale' a una di tipo
'cooperativo'. In tale situazione, mentre gli automatismi non hanno
più ragione di esistere (viene definitivamente abbandonato il
meccanismo della scala mobile), acquista enorme rilievo la fase
contrattuale quale momento di determinazione delle dinamiche
salariali sia monetarie che reali, attraverso l'auspicata coerenza
delle dinamiche dei prezzi.L'intesa del 23 luglio 1993, in
particolare, attraverso la previsione di due livelli contrattuali
non sovrapposti e distinti, si pone l'obiettivo di sposare i
vantaggi della centralizzazione, in termini di coerenza e
credibilità, con la flessibilità della concertazione
bilaterale e decentrata. Secondo quanto previsto dal protocollo, i
contratti collettivi nazionali stabiliscono gli incrementi salariali
minimi in riferimento agli andamenti specifici dei singoli settori,
mentre la contrattazione aziendale si apre alla prospettiva di
modelli partecipativi strettamente correlati all'andamento economico
delle aziende. Tale caratteristica, unita all'abbandono
dell'indicizzazione, alla riduzione da tre a due anni delle cadenze
contrattuali per la parte retributiva, all'introduzione di premi e
punizioni per favorire o evitare ritardi nella contrattazione,
dovrebbe rendere il sistema contrattuale più flessibile
rispetto alla dinamica della produttività e, attraverso la
sincronia tra livelli della contrattazione e contesto
economico-tecnologico, assicurare un'efficiente distribuzione dei
guadagni di produttività.