Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)

di Renato Brunetta

Salari e stipendi

sommario: 1. Definizione. 2. Il salario nella teoria economica. 3. Salari e distribuzione del reddito. 4. I parametri della politica retributiva.  5. I differenziali salariali. 6. I fringe benefits. 7. Retribuzione, incentivi e partecipazione. 8. I sistemi di indicizzazione dei salari. 9. Salari e politica dei redditi. 10. Salari e contrattazione nell'esperienza italiana. □ Bibliografia.

1. Definizione

Con il termine salario, normalmente, si indica la remunerazione del lavoro dipendente operaio (i cosiddetti colletti blu); con il termine stipendio si indica la retribuzione sempre del lavoro dipendente, però di natura impiegatizia o funzionariale (i cosiddetti colletti bianchi); infine con i termini onorario, parcella, ecc. si intende la remunerazione mista del lavoro indipendente di tipo professionale (avvocato, medico, commercialista) che non derivi da attività di impresa.Ciò detto, uno degli aspetti di maggiore rilievo che occorre tener presente quando si parla di salari e di stipendi (e cioè di lavoro dipendente) è la differenza tra la 'retribuzione' percepita dal lavoratore e il 'costo del lavoro' sostenuto dal datore di lavoro. Quel che interessa al lavoratore infatti è il potere d'acquisto del suo salario o del suo stipendio (d'ora in poi, nella nostra trattazione, solo salario), cioè il confronto tra il suo reddito al netto del prelievo fiscale e il prezzo dei beni e servizi con esso acquistati; mentre quel che interessa al datore di lavoro è il confronto tra il costo del lavoro per unità di prodotto, inclusivo di tutti gli oneri accessori (contributi sociali accantonati per le prestazioni previdenziali e altri oneri), e il prezzo del prodotto venduto dall'impresa.Ne consegue che retribuzione e costo del lavoro possono presentare andamenti anche notevolmente difformi. Le cause sono da ascrivere principalmente a tre gruppi di fattori: 1) la presenza e l'ammontare del prelievo fiscale e degli oneri sociali; 2) l'esistenza di diverse produttività del lavoro; 3) l'uso di indici di prezzo differenti (indice dei prezzi al consumo per i lavoratori e indice dei prezzi all'ingrosso per i datori di lavoro) con cui generalmente vengono confrontati retribuzione e costo del lavoro.
A seconda delle modalità con cui viene determinato, il salario può essere a tempo, a cottimo, a incentivo. Nel primo caso la retribuzione è correlata al tempo durante il quale il lavoratore ha prestato la propria opera, nel secondo caso è proporzionale alla quantità di lavoro eseguito, nel terzo è calcolata in modo da premiare il lavoratore che produce 'quantità' e 'qualità' superiori a quelle ritenute medie o minime (tuttavia anche il cottimo può essere considerato una forma di retribuzione a incentivo: v. cap. 7). Prima di passare a esaminare in dettaglio le caratteristiche e le determinanti della remunerazione del fattore lavoro, occorre soffermarsi sulle definizioni che hanno una diretta corrispondenza con le informazioni statistiche disponibili.
Salario unitario o tasso salariale. È il valore della retribuzione calcolata per unità di lavoro.
Costo del lavoro e retribuzione (lorda o netta) monetaria. La retribuzione monetaria è la quantità di moneta percepita dal lavoratore quale compenso per il lavoro prestato. Per costo del lavoro si intende la somma tra la retribuzione lorda monetaria e gli oneri sociali (contributi per sanità, infortuni, malattie, pensioni, disoccupazione, e altri oneri) a carico del datore di lavoro. Per ottenere la retribuzione netta monetaria è necessario sottrarre alla retribuzione lorda monetaria i contributi sociali a carico del lavoratore (ritenute assistenziali e previdenziali) e l'IRPEF corrisposta per trattenuta.
Costo del lavoro e retribuzione (lorda o netta) reale. La variabile reale si ottiene depurando la grandezza monetaria dell'aumento dei prezzi. La retribuzione netta reale è la quantità di beni e servizi che il lavoratore può acquistare con la quantità di moneta ricevuta come compenso per il lavoro prestato. Essa rappresenta la misura più vicina al potere d'acquisto degli individui e il suo andamento, in periodi di elevata inflazione, si discosta notevolmente dal corrispondente della retribuzione monetaria.
Tenore di vita. È un'altra misura che permette di ottenere una proxy (con questo termine si intende una variabile economica in grado di fornire indicazioni su un'altra variabile) del potere d'acquisto dei lavoratori e quindi della loro qualità di vita, soprattutto in rapporto al nucleo familiare. Si ricava dal rapporto tra la retribuzione lorda e il consumo pro capite diviso per il numero medio di persone a carico di ciascun occupato.Indennità accessorie. Sono tutti quei compensi che il lavoratore generalmente riceve oltre al salario monetario e che comprendono i congedi, le ferie pagate, le assicurazioni e altri contributi più specifici (v. cap. 6).
Il ricorso al concetto di costo del lavoro implica la necessità di distinguere tra due diversi elementi di riferimento cui è associato tale termine (v. Costa, 1989): 1) costo del lavoro per unità di tempo (CLUT), influenzato da due tipi di variabili, quelle che agiscono sul costo del lavoro totale annuo per addetto (retribuzione diretta, indiretta e differita, benefici addizionali) e quelle che, dato il costo totale annuo, influenzano il costo orario del lavoro (orario contrattuale, ferie, scioperi, straordinari, permessi, assenteismo); 2) costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), definibile attraverso il rapporto tra costo del lavoro dipendente e valore aggiunto per occupato. Il CLUP totale dipende dalla proporzione tra CLUP diretto, che riflette le condizioni dell'organizzazione della produzione e il tipo di prestazione lavorativa, e CLUP indiretto, che riflette invece le scelte di carattere tecnico e le scelte relative all'organizzazione del lavoro.L'indice che fa riferimento al CLUP valutato in termini di moneta nazionale prende il nome di CLUPI. Essendo l'Italia un paese fortemente legato al commercio internazionale, un elevato costo del lavoro ne riduce la competitività, per cui operazioni sul tasso di cambio, cioè svalutazioni, possono aiutare la nostra produzione sui mercati mondiali. Il valore del CLUPI, però, essendo ottenuto in termini di moneta nazionale, non fornisce alcuna informazione rispetto alla competitività all'estero. Occorre allora calcolare il CLUPE, ossia il costo del lavoro per unità di prodotto espresso nei termini della moneta di riferimento che più interessa (dollaro, marco o ECU), il quale permette di catturare le variazioni del costo del lavoro in relazione a quelle dei mercati mondiali.
La fase definitoria può essere conclusa analizzando la composizione della busta paga del lavoratore nell'industria italiana, che fino al 1992 risultava composta da: a) paga base contrattuale; b) superminimo aziendale (che insieme al punto sub a costituisce la paga base aziendale); c) elemento variabile (contingenza individuale); d) parte individuale (superminimo individuale, cottimo, prestazioni straordinarie, indennità particolari).

2. Il salario nella teoria economica

Storicamente l'analisi dei salari si è sviluppata seguendo due filoni principali: il primo fa riferimento al concetto di salario naturale, cioè a quella remunerazione che riflette i costi per la sussistenza della forza lavoro, ma non le condizioni della produttività e del mercato; il secondo fa riferimento al salario di mercato, determinato dalle forze di domanda e offerta e, dunque, dipendente dalla produttività del lavoro.Nella teoria economica questi filoni si sono variamente intrecciati, con la prevalenza del primo, nel caso dell'analisi classica, e del secondo, nell'analisi dei marginalisti. Del resto anche nelle economie più moderne, nelle quali si determina un salario di mercato, esistono istituzioni e norme atte a garantire comunque il sostegno dei redditi così da evitare che siano fissate retribuzioni talmente basse da menomare le capacità produttive dei lavoratori (ci riferiamo ai cosiddetti salari minimi, v. cap. 4).
Le prime formulazioni nell'analisi del salario si devono agli economisti classici (v. Smith, 1776; v. Ricardo, 1817; v. Malthus, 1820; v. Mill, 1848). Partendo dal ruolo centrale del processo di accumulazione nel determinare il livello della domanda di lavoro e, quindi, il salario offerto dalle imprese, si delinea una forma di netto condizionamento della domanda sull'offerta di lavoro. Del resto gli autori classici, e in particolare Ricardo e Malthus, evidenziano la presenza di condizioni oggettive tali da ridurre la capacità contrattuale della manodopera: da una parte il legame inverso tra andamento dei salari e crescita demografica, dall'altra parte la tendenza del salario a riportarsi al livello di sussistenza (tale da consentire solo il mantenimento e la riproduzione della forza lavoro) indipendentemente dalle momentanee oscillazioni dovute a particolari situazioni di mercato.Tuttavia la rigidità di questa impostazione e la presenza di elementi di carattere conflittuale vengono in parte attenuate dalla constatazione dell'esistenza di un livello del salario definito da Ricardo naturale, il quale non solo garantisce un livello salariale compatibile con l'accumulazione, ma anche attenua i meccanismi di mercato, in modo da evitare la fissazione di un salario così basso da compromettere le capacità produttive del lavoro.Marx (v., 1867-1894), nella sua ottica volta a individuare il contenuto dei rapporti economici nel loro significato sociopolitico ai fini di un superamento del sistema di mercato, approfondisce l'analisi degli elementi conflittuali presenti nei classici. Egli sostiene che la determinazione del salario non è il prodotto di un rapporto di mercato, ma risulta da una serie di vincoli imposti dai capitalisti al fine di realizzare il plusvalore. Infatti il processo di valorizzazione del capitale può essere portato a compimento solo a condizione di mantenere il prezzo della forza lavoro al di sotto del suo valore effettivo, per cui emergono alcuni elementi che concorrono a determinare il livello effettivo del salario al di là dei rapporti di mercato. Tra essi, oltre alla durata della giornata lavorativa e alle prestazioni richieste alla manodopera, assume importanza decisiva il livello della disoccupazione in quanto effetto diretto dello stesso processo di accumulazione. Se tale processo può produrre un momentaneo accrescimento dei salari, ben più rilevante è l'effetto di riduzione delle opportunità occupazionali nei settori extracapitalistici: da qui trae origine l'"esercito industriale di riserva" cioè quella massa di disoccupati attraverso la quale i capitalisti controllano la forza lavoro e impediscono spinte rivendicative in direzione di una crescita dei salari.
Dall'analisi marxiana si discosta l'impostazione marginalista (v. Marshall, 1890; v. Clark, 1899; v. Pigou, 1920), la cui teoria del salario tende a individuare leggi oggettive di determinazione della remunerazione, cancellando ogni traccia di carattere conflittuale dai rapporti tra domanda e offerta di lavoro. Si afferma infatti il concetto di eguaglianza dei fattori produttivi, i quali percepiscono una remunerazione pari alle rispettive produttività marginali (dunque viene negata la posizione di inferiorità contrattuale del lavoro).Inoltre, dato l'obiettivo di massimizzazione del profitto da parte delle imprese, la domanda di lavoro è determinata dalla produttività marginale del lavoro, per cui essa aumenta al ridursi del salario reale (si considerano dati il capitale e le tecniche produttive). Dal lato dei lavoratori, invece, l'offerta di lavoro (espressa individualmente) dipende dalla massimizzazione dell'utilità e quindi è funzione diretta del salario reale, oltre che del grado di disutilità del lavoro e dell'entità degli effetti di reddito e sostituzione nella definizione del rapporto tra tempo libero e tempo di lavoro. In questa situazione esiste sempre un livello salariale di equilibrio che garantisce la piena occupazione.
Dall'analisi marginalista emerge che, in un mercato competitivo in equilibrio, se la forza lavoro è omogenea non esistono differenziali salariali e ogni lavoratore viene remunerato secondo il valore della sua produttività marginale. Se consideriamo invece una forza lavoro non omogenea, in cui i lavoratori si distinguono per livelli di istruzione ed esperienza lavorativa che, arricchendo il capitale umano di ciascuno, ne influenzano la produttività, la presenza di differenziali salariali risponde esclusivamente alla necessità di mantenere l'uguaglianza tra remunerazione e produttività. L'eccessiva semplificazione di alcune ipotesi della teoria neoclassica del salario e le mutate caratteristiche del rapporto tra imprese e lavoratori hanno determinato l'esigenza, a partire dagli anni trenta, di una riconsiderazione della visione microeconomica degli equilibri tra domanda e offerta di lavoro. Da qui l'importanza della 'rivoluzione keynesiana', tradottasi nelle fondamentali assunzioni dell'esogeneità del salario monetario (che scaturisce dai rapporti conflittuali imprese-sindacati), della non omogeneità dell'offerta di lavoro, della rigidità verso il basso dei salari (monetari) e dell'inserimento della teoria della remunerazione del fattore lavoro nella concezione dell'equilibrio macroeconomico generale.In particolare, se la ricostruzione della domanda di lavoro viene effettuata nell'analisi keynesiana seguendo in gran parte l'impostazione neoclassica, l'offerta presenta delle novità sostanziali. Mentre i neoclassici ipotizzano la capacità dei lavoratori di contrattare il salario in termini reali e di renderlo conforme alle esigenze della domanda, Keynes nega questa possibilità sostenendo che dalla contrattazione scaturisce un saggio di salario monetario che, dato il livello di occupazione, consente di individuare il salario reale di equilibrio. Inoltre Keynes individua due tipologie di lavoratori: la prima è costituita da tutti quei lavoratori per i quali l'unica fonte di reddito è data dal lavoro salariato, per cui sono presenti sul mercato a qualsiasi livello del salario reale (offerta di lavoro permanente); il secondo gruppo è costituito da quei lavoratori la cui decisione di impiego dipende da varie considerazioni, tra cui il livello del salario monetario in rapporto al livello dei prezzi (offerta di lavoro fluttuante).
In entrambi i filoni di pensiero, neoclassico e keynesiano, è attribuito particolare rilievo alla rigidità dei salari quale causa della persistenza della disoccupazione. L'importanza della flessibilità del salario deriva dalla considerazione che esiste una relazione inversa tra remunerazione del lavoro e occupazione. Poiché la disoccupazione è associata ai salari in eccesso rispetto al livello di pieno impiego, la sua persistenza dipende da quanto velocemente la retribuzione si aggiusta rispetto alla situazione del mercato del lavoro: se i salari fossero molto flessibili, attraverso la loro riduzione la manodopera in eccesso verrebbe rapidamente assorbita. In questa accezione la rigidità del salario, sebbene per motivi differenti, gioca un ruolo cruciale nello spiegare la disoccupazione sia nel modello neoclassico che in quello keynesiano.La disoccupazione, secondo i neoclassici, si ha quando il salario reale eccede la produttività marginale del lavoro al livello di pieno impiego (per la presenza di organizzazioni sindacali), così che non c'è vantaggio per le imprese a impiegare l'intera forza lavoro. In questo caso il meccanismo di aggiustamento verso il salario di equilibrio, potenzialmente sempre operante, è ostacolato da fattori esterni e non consente la piena occupazione.
La disoccupazione keynesiana invece è causata dal livello troppo basso della domanda globale. Poiché tale domanda è presentata in termini nominali, una riduzione nei salari monetari e, quindi, nei prezzi è in grado di generare una crescita della domanda a livello aggregato. Dopo la pubblicazione della Teoria generale (1936) si è manifestata la tendenza a considerare la teoria keynesiana sull'inesistenza di un salario di equilibrio come un caso particolare del modello neoclassico. In tal senso, gli analisti della 'sintesi neoclassica' spiegano l'equilibrio keynesiano di sottoccupazione come la risultante di rigidità e inelasticità delle variabili del sistema e di carenza informativa.Negli anni settanta e ottanta, infine, l'attenzione degli economisti si è rivolta all'indagine delle cause responsabili dello stabilirsi di un salario superiore a quello di equilibrio. In altri termini, l'analisi economica della 'disoccupazione involontaria' ha tentato di spiegare perché non intervenga una contrazione del prezzo dei servizi del lavoro quando c'è un eccesso di offerta di lavoro. In questa direzione i principali approcci analitici fanno riferimento a una struttura del mercato del lavoro non perfettamente competitiva attraverso le seguenti teorie.
1. Teoria dei contratti impliciti, secondo la quale il salario non è l'unico bene che un'impresa offre ai propri dipendenti: esistono altre condizioni che danno al lavoratore la massima utilità compatibile con i profitti dell'impresa. Tale utilità, per esempio, dipende in gran parte dalla stabilità dell'occupazione. In presenza di un rischio di disoccupazione particolarmente elevato, i lavoratori (che generalmente sono avversi al rischio più di quanto lo siano le imprese) offrono lavoro soltanto a un salario durevolmente alto e hanno una spiccata preferenza per il rimanere a lungo volontariamente disoccupati se il livello della retribuzione non è considerato accettabile in tale prospettiva (v. Azariadis, 1975).
2. Teoria dei salari di efficienza, secondo cui la produttività dei lavoratori cresce al crescere della remunerazione ricevuta. Ciò significa che, se l'abilità è correlata al salario, i lavoratori migliori saranno impiegati nei posti meglio pagati per effetto dell'autoselezione. Il salario di efficienza si attesta dunque a quel livello in cui l'elasticità della produttività rispetto alla remunerazione diventa unitaria. Tale legame 'salario-produttività' generalmente è spiegato dall'influenza di vari fattori, tra cui i più importanti sembrano essere: il clima delle relazioni industriali più sfavorevole; il ruolo punitivo della disoccupazione rappresentato dalla perdita di una remunerazione elevata; la possibilità da parte dei datori di lavoro di attirare i lavoratori più preparati e di ridurre la loro propensione ad abbandonare l'impiego, il che consentirebbe di evitare i costi legati alla sostituzione di questi con nuovi lavoratori da addestrare (v. Yellen, 1984; v. Akerlof e Yellen, 1986).
3. Teoria degli insiders-outsiders, secondo cui i dipendenti di un'impresa (insiders) sono poco attenti alle sorti dei lavoratori disoccupati (outsiders) e rispetto a questi hanno a disposizione una forza contrattuale notevolmente superiore. Così, sfruttando la conoscenza dei costi associati alla propria sostituzione (si tratta dei costi di addestramento e di integrazione nell'organizzazione produttiva, oltre che dei costi legati a inevitabili conflitti sindacali), riescono a ottenere salari più elevati di quelli che un equilibrio di piena occupazione richiederebbe (v. Lindbeck e Snower, 1984).
4. Teoria dell'isteresi, che incorpora l'idea che la disoccupazione di equilibrio (determinata dalle istituzioni del mercato del lavoro e quindi piuttosto stabile) dipenda dalla storia passata della disoccupazione effettiva (influenzata da movimenti imprevisti della domanda e dell'offerta). Le ricerche in questa direzione sono dirette prevalentemente a spiegare la difficoltà incontrata dai disoccupati nell'esercitare una pressione verso il basso dei salari mentre permane la loro condizione di inattività, che non solo ne impoverisce il capitale umano, ma rafforza anche il potere di mercato di coloro che già possiedono un'occupazione, cioè gli insiders (v. Blanchard e Summers, 1987).
5. Teoria dei salari di accettazione (reservation wages), che individua per ogni soggetto in cerca di occupazione un livello di remunerazione al di sotto del quale egli è ancora disposto a proseguire nella ricerca di lavoro, dal momento che il costo di un'ulteriore ricerca è minore o uguale al profitto marginale conseguibile.In definitiva, ognuna di queste famiglie analitiche arriva a conclusioni in contrasto con il modello neoclassico standard, attribuendo ai soggetti coinvolti (imprese e lavoratori o sindacato) un certo grado di potere di mercato nella determinazione dei prezzi (il salario) e delle quantità (l'occupazione).
Secondo un ulteriore filone di pensiero, che porta avanti l'analisi dinamica della fissazione del salario, un mercato del lavoro competitivo è in equilibrio, dato il livello generale dei prezzi, al salario che eguaglia la domanda con l'offerta di lavoro desiderata. Dunque l'incontro tra le curve di domanda e di offerta determina simultaneamente il salario di equilibrio e l'ammontare di utilizzazione effettiva della forza lavoro.
L'offerta aggregata di lavoro, tuttavia, può variare per la variazione delle offerte individuali, influenzate dalle variazioni del reddito non da lavoro, dalle variazioni del salario o dei redditi degli altri componenti della famiglia, o dalle variazioni della produttività nelle attività svolte in casa. L'aumento di queste variabili, indipendentemente da altri cambiamenti, fa ridurre l'offerta di ore lavoro, spostando quindi verso sinistra la curva, con un effetto di riduzione dell'occupazione e un aumento del salario di equilibrio. Una loro riduzione invece produce l'effetto opposto, espandendo l'offerta di ore lavoro, aumentando quindi l'occupazione e riducendo il salario di equilibrio
Anche la domanda di lavoro può subire variazioni al variare del prezzo dell'output, del prezzo e della quantità degli inputs e, soprattutto, al variare della tecnologia. Una tecnologia che rende il lavoro più produttivo fa crescere la domanda di lavoro dell'azienda; l'aumento del prezzo dell'output porta a un'espansione della produzione, spostando la curva di domanda verso destra, fino a eguagliare il valore marginale del lavoro con il salario, implicando un aumento dell'occupazione e del salario monetario; l'aumento del prezzo degli inputs, fermo restando il livello tecnologico utilizzato, innesca un processo di revisione dei livelli produttivi e, di conseguenza, di riduzione dell'occupazione.
Passando all'esame del salario di equilibrio in più mercati, occorre sottolineare che un salario di equilibrio resterà tale solo in mancanza di opportunità più favorevoli per l'azienda o per i lavoratori. Ad esempio, nel caso di un singolo mercato in cui viene pagato per un lavoro standard un salario standard superiore al salario pagato dalle imprese negli altri mercati per lo stesso lavoro, in mancanza di barriere alla mobilità dei lavoratori, si assisterà a una emigrazione dei lavoratori dagli altri mercati (settori) a salari inferiori verso quello a salario superiore. L'aumento dell'offerta di lavoro spingerà le imprese nel settore ad alti salari a offrire salari più bassi e a espandere la domanda di lavoro fino a un nuovo livello di equilibrio tra la produttività marginale del lavoro e il salario pagato. E questo nuovo livello sarà stabile solo se accompagnato da situazioni di equilibrio nei singoli mercati, ossia in assenza di eccesso di offerta e di domanda di lavoro.
L'equilibrio tra i diversi mercati contribuisce inoltre al raggiungimento della migliore allocazione delle risorse, di una produzione maggiore e di un reddito totale maggiore. Il fatto che ogni lavoratore sia retribuito in modo uguale al valore del suo prodotto marginale è garanzia di un'allocazione efficiente del lavoro. Tuttavia, affinché ciò sia possibile, è necessaria una completa mobilità della forza lavoro. Questo implica che qualsiasi barriera alla mobilità dei lavoratori, sia di origine sindacale, aziendale o istituzionale, riduce l'efficienza dell'allocazione delle risorse e il reddito nazionale prodotto dall'economia. Dunque requisito fondamentale perché un certo salario rappresenti il livello di equilibrio in tutti i mercati è che ci sia perfetta informazione e che la manodopera sia libera di muoversi senza alcun costo o perdita di produttività da un mercato all'altro.

3. Salari e distribuzione del reddito

L'andamento storico del salario nelle economie occidentali è stato oggetto di indagini statistiche sulla distribuzione del reddito (v. Ricossa, 1982) dalle quali risulta: 1) prima della rivoluzione industriale, in presenza di salari nominali poco variabili, il potere d'acquisto dei lavoratori era inversamente correlato all'andamento dei prezzi dei beni di consumo e allo sviluppo demografico; 2) dopo la rivoluzione industriale si assiste per la prima volta al simultaneo incremento di popolazione e salario reale, in quanto il salario unitario reale tende a evolvere parallelamente alla produttività del lavoro. Questo significa che i lavoratori nel loro complesso percepiscono una quota fissa del prodotto totale: se rimane costante il rapporto tra salario reale (w/p) e produttività del lavoro (Q/L), necessariamente rimane costante anche il rapporto tra redditi da lavoro (wL) e reddito totale (pQ):
formula;
3) dopo la seconda guerra mondiale, anche a causa dell'estensione e del rafforzamento dei movimenti sindacali, il salario reale comincia a crescere più della produttività del lavoro, con varie oscillazioni dovute a successivi cicli di introduzione di nuove tecnologie; 4) negli anni novanta, in seguito alla crisi che investe molte economie industrializzate e, in Europa, ai vincoli imposti dagli accordi di Maastricht e ai più generali processi di globalizzazione delle economie, si assiste generalmente a un riallineamento tra produttività e salari reali, con una tendenziale riduzione della quota del lavoro sul reddito.
L'Italia non si è molto discostata da tali tendenze internazionali. Dall'esame della struttura retributiva negli ultimi quarant'anni si riscontra però più in particolare quale sia stato l'andamento del salario e del costo del lavoro rispetto alla produttività dello stesso.
Gli anni cinquanta si caratterizzano per una crescita dei salari reali inferiore a quella della produttività, che pure risulta particolarmente elevata per effetto dei processi di ristrutturazione produttiva nel dopoguerra. Il contenimento dei livelli salariali si ottiene, da un lato, per effetto della ridotta pressione sul mercato del lavoro della domanda delle imprese, conseguenza di una contrazione della domanda globale, dall'altro a causa della limitata capacità contrattuale del sindacato, dovuta sia al mutato clima politico che alle condizioni oggettive del mercato del lavoro.
Nel decennio successivo l'accresciuta pressione della domanda di lavoro produce come effetto immediato l'incremento della retribuzione di fatto (superiore all'incremento della produttività) e una contemporanea riduzione della disoccupazione (al 3%) almeno per il periodo 1960-1963. La tendenza all'aumento della retribuzione di fatto prosegue anche negli anni successivi, con la conseguenza che, dopo il 1964, si assiste a un incremento progressivo della disoccupazione (oltre il 4%).Negli anni settanta, manifestandosi la necessità di ridurre i costi del fattore lavoro a seguito della crisi petrolifera del 1973, si verifica una reazione da parte delle imprese al fine di recuperare il controllo sulla dinamica retributiva. Ciò avviene principalmente attraverso processi di ristrutturazione tendenti a ridurre i livelli di occupazione e attraverso la ricostituzione dei margini di profitto con manovre sui prezzi. Il risultato di questa strategia si traduce nella perdita di controllo sul salario netto da parte del sindacato e, parallelamente, in una progressiva segmentazione del mercato del lavoro, con il rafforzamento della posizione contrattuale dei lavoratori delle classi centrali di età occupati nelle grandi imprese, e la marginalizzazione delle quote meno produttive e meno protette sindacalmente. Gli accordi del febbraio 1975 sull'unificazione del punto unico di contingenza determinano un ulteriore irrigidimento della struttura salariale, con il crescente prevalere della quota di retribuzione legata agli automatismi contrattuali (il cosiddetto appiattimento salariale).
L'andamento salariale negli anni ottanta si caratterizza per la concomitante presenza di due fenomeni: inflazione in rapida ascesa, dopo il secondo aumento del prezzo del petrolio (1981), e poi in discesa dal 1984, e tasso di disoccupazione in costante aumento. Il primo di questi due fenomeni, unito all'indicizzazione delle retribuzioni senza una revisione delle aliquote fiscali, ha prodotto la crescita della retribuzione lorda ma non ugualmente di quella netta (con il prodursi quindi del fenomeno del fiscal drag o drenaggio fiscale), rendendo i lavoratori e i sindacati insoddisfatti dell'accordo in vigore. È solo con le intese del 22 gennaio 1983 e del 14 febbraio 1984, attraverso le quali è stato rivisto e attenuato il meccanismo di indicizzazione, che riprende il processo di riapertura dello 'sventagliamento' salariale e comincia a realizzarsi un rapido rientro dall'inflazione che proseguirà per tutti gli anni ottanta.

4. I parametri della politica retributiva

La politica retributiva può essere considerata come la risultante di un complesso di situazioni relative ai rapporti contrattuali (ai vari livelli in cui essi si esplicano) stratificatesi nel tempo, e contemporaneamente come l'effetto di scelte contingenti operate da imprese e organizzazioni dei lavoratori.I principali parametri della politica retributiva fanno riferimento al livello, alla struttura e alla dinamica della retribuzione (v. Costa, 1989).
I. Quando si parla di 'livello della retribuzione' ci si riferisce al saggio salariale medio pagato dall'impresa e determinato dall'esistenza di un saggio minimo risultante da accordi contrattuali o da norme di legge e dalla fissazione di un saggio medio derivante dalle condizioni di mercato (relativamente a uno stesso tipo di unità produttiva).
Il salario minimo, che è uno degli elementi caratteristici della struttura salariale, rappresenta il tipico esempio di intervento pubblico nella fissazione di livelli minimi retributivi per i lavoratori occupati in quei settori dove non esiste un regime efficace per la determinazione delle remunerazioni tramite i contratti collettivi e qualora i salari risultino eccezionalmente bassi. In questa accezione il concetto di salario minimo, così come è inteso dagli organismi internazionali, non coincide puntualmente con la definizione data dal sistema francese, secondo la quale con l'espressione 'salario minimo garantito' ci si riferisce a diverse ipotesi di garanzia e sostegno dei redditi da parte dello Stato (v. Franciosi, 1983).
I primi sistemi di salario minimo, sviluppatisi all'inizio del secolo in alcuni paesi (Austria, Nuova Zelanda, Gran Bretagna) con l'obiettivo di contenere lo sfruttamento dei lavoratori impiegati nei settori meno protetti, si sono poi diffusi in molti sistemi industrializzati e hanno visto aumentare le loro finalità: protezione delle categorie di lavoratori con minor forza contrattuale; garanzia di salari equi per tutti i lavoratori; riduzione del pericolo della povertà; intervento sul sistema economico per il raggiungimento di obiettivi di carattere generale.
L'introduzione di un salario minimo comporta, come è ovvio, degli effetti economici sul mercato del lavoro. In un mercato in concorrenza perfetta, ad esempio, l'imposizione di un salario superiore a quello di equilibrio certamente riduce la domanda di lavoro, cioè l'occupazione, e mentre stimola una maggiore offerta di lavoro (effetto di addizionalità), contemporaneamente induce i lavoratori a più bassa qualificazione ad abbandonare il mercato del lavoro data la ridotta probabilità di ottenere un'occupazione (effetto di scoraggiamento). Il prevalere dell'uno o dell'altro effetto determina l'impatto del salario minimo sulla disoccupazione.
II. Con 'struttura della retribuzione' si intende l'ammontare salariale pagato per diverse posizioni lavorative e diversi livelli di inquadramento e qualifiche. Schematicamente la struttura retributiva è definibile attraverso tre parametri: 1) il grado di differenziazione verticale, dipendente dalle varie posizioni e qualifiche; 2) il grado di differenziazione orizzontale che, a parità di mansione, è influenzato da automatismi, anzianità e premi; 3) il grado di differenziazione rispetto alle altre aziende, dato che le posizioni/qualifiche prevalenti sul mercato definiscono il livello standard di equità e razionalità del sistema retributivo.Posto il ruolo della struttura retributiva nell'influenzare produttività e mobilità interne all'impresa, nella definizione di tale struttura devono essere tenuti presenti vincoli di natura sia contrattuale che gestionale. I primi dipendono dall'impostazione della politica sindacale e sono parzialmente influenzabili dall'impresa. I secondi invece comportano che la razionalità e la legittimità della struttura retributiva possono essere alterate da spinte esterne (rigidità nel mercato del lavoro) che costringono a modificare la struttura reale dei livelli professionali.
III. La 'dinamica retributiva' è la parte della politica retributiva che definisce le variazioni salariali nel tempo. Attraverso la contrattazione collettiva (a livello generale, settoriale e aziendale) i sindacati negoziano le modifiche retributive atte a redistribuire gli incrementi di produttività, riequilibrare la distribuzione del reddito, compensare le conseguenze dell'inflazione. Alcune di queste variazioni salariali sono negoziate una tantum nella fase di rinnovo dei contratti, altre dipendono direttamente dalle politiche retributive aziendali, altre infine sono definite con una certa stabilità e operano nel periodo di vigenza contrattuale sotto forma di automatismi (scatti di anzianità e indicizzazioni). Se tali automatismi sono stabiliti in misura percentuale lasciano inalterata la struttura retributiva; se sono stabiliti in maniera assoluta (uguale per tutti o differenziata) la alterano.

5. I differenziali salariali

L'esame della struttura retributiva si collega direttamente a quello dei differenziali salariali, per spiegare i quali l'analisi neoclassica ha dato vita a quattro diverse teorie: a) la teoria della discriminazione, secondo la quale il differenziale salariale è determinato dalla preferenza degli imprenditori ad assumere alcuni lavoratori piuttosto che altri; b) la teoria del capitale umano, per cui le differenze createsi attraverso la preparazione scolastica prima e fuori del lavoro sono la causa principale dei differenziali salariali; c) la teoria della ricerca di lavoro (job-search), in base alla quale ogni individuo arresta la ricerca di lavoro nel momento in cui si trova di fronte a opportunità di impiego compatibili con il suo 'salario di accettazione', cioè con quel livello di remunerazione rispetto al quale il costo di una ulteriore ricerca è maggiore o uguale al profitto marginale conseguibile (tuttavia, tale livello di accettazione è condizionato dalle informazioni disponibili, le quali difficilmente sono piene e complete: la diversa distribuzione delle informazioni sul mercato contribuisce a determinare i differenziali salariali); d) la teoria dei differenziali salariali compensativi, secondo la quale per tipi di lavoro simili, che richiedono cioè lo stesso livello di specializzazione, le imprese che offrono condizioni di lavoro peggiori (ambiente insalubre, rischiosità, lontananza dall'abitazione, instabilità dell'occupazione) sono costrette, per attirare i lavoratori, a offrire una remunerazione superiore a quella erogata altrove. Questo differenziale svolge due ruoli: il primo, per così dire 'sociale', costituisce l'incentivo necessario a reperire a livello aggregato i lavoratori disposti a svolgere lavori pericolosi; il secondo, 'individuale', rappresenta il compenso che il lavoratore riceve per il fatto di svolgere un lavoro spiacevole (v. Brunetta e Venturini, 1987). Dunque, mantenendo costanti le altre caratteristiche (età, sesso, regione, tasso di sindacalizzazione, specializzazione), le occupazioni che implicano condizioni di lavoro sfavorevoli presentano un differenziale salariale positivo, mentre le occupazioni con condizioni di lavoro gradevoli presentano un differenziale salariale negativo per uguagliare, al margine, il vantaggio netto del lavoro.
Ancora, l'esistenza dei differenziali salariali può essere spiegata ipotizzando che la forza lavoro sia suddivisa in numerosi 'gruppi non in competizione tra loro', individuati sulla base delle occupazioni per le quali i membri di ciascun gruppo possiedono i requisiti necessari: caratteristiche fisiche, capacità di apprendimento, addestramento ricevuto, doti e abilità innate. All'interno dei gruppi sono le imperfezioni del mercato (scarsa mobilità, mancanza di informazione, rigidità istituzionali e sociologiche) a causare l'erogazione di salari diversi per uno stesso tipo di lavoro.
Altre ipotesi esplicative dei differenziali salariali sono state avanzate seguendo direttrici di analisi diverse che, nelle loro linee generali, possono essere riassunte come segue. Partendo dalla constatazione dell'esistenza di situazioni in cui i differenziali salariali non riflettono le tradizionali ipotesi neoclassiche, la spiegazione della loro presenza si deve rintracciare nel rapporto tra struttura retributiva e dinamica della domanda di lavoro, per cui assumono importanza determinante le tipologie di organizzazione del lavoro e il potere di mercato delle singole imprese (in quest'ultimo caso si assisterebbe a una distribuzione dei guadagni di monopolio tra gli stessi lavoratori).
Secondo un'altra analisi, è necessario evidenziare gli effetti della segmentazione dell'offerta di lavoro, specie là dove il formarsi di mercati interni dà luogo a strutture retributive sganciate dai meccanismi tradizionali, mentre prevalgono per contro consuetudini e atteggiamenti che, nel momento in cui si fissa la retribuzione, prescindono spesso da valutazioni di carattere strettamente economico e sono legati a una logica propria ed esclusiva del mercato interno. Su questa linea interpretativa si sono sviluppate successivamente indagini empiriche che ne hanno allargato la portata, richiamando l'attenzione su altri fenomeni di non minore importanza, quali il ruolo giocato dall'informazione imperfetta e dal fenomeno della discriminazione (nelle sue varie forme) o le differenziazioni prodotte da particolari condizioni geografiche, settoriali o d'impresa.Infine, nel contesto di un'analisi dei differenziali retributivi può essere inserito il problema dello slittamento salariale (divario tra retribuzione di fatto e retribuzione contrattuale) che individua quella parte della retribuzione che sfugge alla contrattazione nazionale o settoriale tra partners sociali e che deriva da negoziazioni dirette con le aziende o da concessioni unilaterali. Due sono gli indici rappresentativi dello slittamento salariale. Il primo, wage drift, è costituito dalla differenza percentuale tra l'incremento della retribuzione di fatto (rf) e l'incremento di quella contrattuale (rc): 

                                                                                          Wage drift = ∆rf  ∆rc

Il secondo, wagw gap, è pari all'accedenza percentuale della retribuzione di fatto rispetto alla retribuzione contrattuale: 

                                                                                          Wage gap = (rf − rc)/rc.

Il wage drift individua la dinamica annuale del fenomeno, il wage gap ne misura la dimensione.

6. I fringe benefits

Il salario non esaurisce la remunerazione che il lavoratore riceve: esistono delle indennità accessorie, spesso denominate usando la dizione inglese fringe benefits. Esse generalmente comprendono le ferie pagate, i permessi di maternità, i congedi pagati per malattia, le assicurazioni sugli infortuni e sulla vita, l'assicurazione sanitaria, la pensione, l'indennità di disoccupazione e altri contributi più specifici (buoni pasto, spacci, permessi per istruzione superiore, accesso privilegiato a fondi di investimento o ad azioni dell'impresa). Alcune di queste indennità sono imposte per legge, come nel caso dell'indennità di disoccupazione, della sicurezza sociale e delle pensioni, mentre altre sono concesse esclusivamente su iniziativa delle singole aziende.
La ricompensa che il lavoratore riceve oltre al contante del salario monetario può essere scomposta secondo due grosse categorie: una che comprende i contributi in natura, e un'altra costituita dai contributi differiti.Possono essere considerati parte del primo gruppo non solo i contributi che il lavoratore riceve letteralmente in termini di beni, ma anche altri compensi come le ferie pagate e i permessi di maternità o di studio, che equivalgono al bene tempo libero. Caratteristica di questo tipo di contributi è l'aumento di utilità del lavoratore pari circa all'ammontare monetario che egli sarebbe disposto a pagare per ottenere tali beni.Per quanto riguarda il secondo tipo di indennità, ossia i contributi differiti, con essi si intende un tipo di remunerazione guadagnata sul momento, ma che verrà goduta successivamente. L'esempio più tipico è costituito dalla pensione. Anche questo tipo di compenso gode di un trattamento fiscale particolare, in quanto non è tassato fino al momento in cui il lavoratore non lo percepisce: ogni individuo, una volta terminata la sua carriera lavorativa, paga sulla pensione che riceve l'imposta dovuta (la quale, tra le altre cose, generalmente presenta un trattamento fiscale agevolato).
Per il datore di lavoro le spese in fringe benefits e le spese salariali sono egualmente deducibili come costi di produzione. Di conseguenza nessuna di queste spese possiede un incentivo fiscale e allora, dato il costo monetario per lavoratore determinato dalla concorrenza del mercato, al datore di lavoro è indifferente offrire al lavoratore tutto in remunerazione contante o allocarlo in qualsiasi combinazione di salario e indennità accessorie.Esistono tuttavia dei vantaggi nella concessione di fringe benefits. Infatti il datore di lavoro di fatto è obbligato a pagare una quota proporzionale al salario come contributi per la sicurezza sociale e la pensione, e questi costi riducono la sua propensione a fornire lo stesso valore di fringe benefits in aumenti del salario. Inoltre il datore di lavoro acquistando in larga scala beni o contratti di assicurazione o altri servizi, potrà strappare condizioni e prezzi vantaggiosi e, in questo modo, ridurre i costi e offrire un ammontare di indennità accessorie di valore superiore a quello individualmente raggiungibile con l'equivalente contante. Infine, l'utilizzazione di compensazioni non salariali permette al datore di lavoro di ottenere un ulteriore vantaggio: egli, scegliendo di fornire un certo tipo di agevolazione mirata a soddisfare un gruppo di lavoratori, riesce a discriminare tra la forza lavoro e a reclutare coloro che presentano le caratteristiche da lui desiderate.
Le compensazioni con fringe benefits sono molto utilizzate dalle grandi aziende che, non potendo offrire (per contratti nazionali o per non attirare l'attenzione pubblica) remunerazioni superiori alla media, integrano i salari con una vasta gamma di indennità. Tuttavia esistono imprese che valutano negativamente l'effetto di alcune indennità le quali, non essendo commisurate all'effettivo tempo di lavoro, agevolerebbero l'assenteismo e ridurrebbero il differenziale retributivo tra lavoratori specializzati e non.

7. Retribuzione, incentivi e partecipazione

Dal momento che gli schemi retributivi sono spesso studiati per incentivare la produttività dei lavoratori, un discorso a parte merita il rapporto tra salario e incentivazione, al cui interno vanno inseriti il problema dell'individuazione di elementi atti a stimolare l'efficienza e la ricerca dei parametri di valutazione del lavoro. Tra i sistemi di incentivazione più diffusi rientrano la retribuzione a cottimo, le provvigioni e le royalties, i premi e la partecipazione agli utili (v. Brue e McConnell, 1990).Nel caso del cottimo il legame tra retribuzione e rendimento è diretto in quanto il compenso viene calcolato direttamente in base al numero di unità prodotte. Quando si utilizza il cottimo devono essere prese in considerazione le varie circostanze che possono condurre all'adozione di questo metodo unitamente ai vantaggi e agli svantaggi che esso presenta. Tra i vantaggi vanno ricordati: un minore livello di supervisione per la sorveglianza dei lavoratori, la contrazione dei costi per assenteismo, la riduzione dei tempi morti per un migliore utilizzo delle macchine. Tra i possibili svantaggi ci sono: il deterioramento della produzione a causa dell'incentivazione al risparmio di tempo e per la ripetitività del lavoro, l'eventualità di errori di calcolo nella definizione degli standard produttivi, la rigidità della forza lavoro rispetto ai cambiamenti tecnologici. A queste considerazioni vanno aggiunte le riserve poste sia da parte sindacale che imprenditoriale rispetto a tale schema di remunerazione, tutti motivi che, unitamente alle sempre meno diffuse caratteristiche di produzione di massa nei paesi industriali, hanno fatto quasi scomparire l'utilizzazione del cottimo come forma di produzione e remunerazione.Le provvigioni vengono calcolate in base all'ammontare delle vendite e sono generalmente corrisposte ad agenti e intermediari in percentuale del valore monetario dei beni o servizi venduti.I premi sono somme di denaro che vengono pagate ai lavoratori in aggiunta allo stipendio, in seguito al raggiungimento di particolari risultati o al superamento di determinati obiettivi. Quando si fa riferimento alla partecipazione economico-finanziaria invece si possono individuare gli accordi con i quali i lavoratori partecipano ai risultati di impresa in termini di flusso, oppure gli schemi di partecipazioni azionarie alla proprietà delle imprese (v. Brunetta, 1994). Le due categorie di schemi di partecipazione interagiscono in vario modo tra loro e sono da considerarsi complementari ai sistemi di determinazione del salario in quanto, normalmente, retribuzione e partecipazione assolvono alla funzione di remunerazione del fattore lavoro. Esistono tuttavia casi in cui il profit sharing si trasforma in una vera e propria partecipazione azionaria, per cui i lavoratori diventano titolari di azioni con diritto a remunerazioni in ogni caso differite. Le evidenze empiriche dell'applicazione degli schemi di partecipazione nei paesi industrializzati (il profit-related pay inglese, i premi di intéressement francesi, i premi di produttività italiani) non forniscono prove significative e univoche della contrazione degli squilibri nel mercato del lavoro e della riduzione di inflazione e disoccupazione, ma mostrano un generale miglioramento della qualità delle relazioni industriali.
Sempre nell'ambito del rapporto tra retribuzione e incentivazione, sono piuttosto diffusi gli 'incentivi di carattere collettivo', che generalmente assumono la forma di cottimi di squadra oppure di premi sulla base degli indici di risultato, e che vengono corrisposti a più lavoratori contemporaneamente per gli obiettivi raggiunti nel comune svolgimento di un compito loro assegnato.Le forme di incentivi appena viste mirano, attraverso la partecipazione, il coinvolgimento e la consapevolezza, a migliorare le motivazioni nella prestazione lavorativa in una sorta di 'controllo di qualità continuo', perché continuamente correlato alle performances dell'impresa. Del resto sono le ineludibili esigenze di qualità totale nei processi produttivi a mal sopportare modi di remunerazione del lavoro rigidi: la qualità totale comporta l'immissione nell'organizzazione aziendale di gerarchie flessibili, autoregolamentazione dei lavoratori, utilizzo di sistemi e tecniche per quantificare il successo e per realizzare un costante miglioramento dei compiti. In questa situazione gli schemi di partecipazione si rivelano superiori agli altri modelli di incentivi i quali, se pur differenziati per singoli gruppi di lavoro o isole produttive, alla lunga si rivelano inefficienti a causa degli alti costi di monitoraggio e controllo.
La contrattazione flessibile e decentrata degli schemi partecipativi, inoltre, può rivelarsi la risposta più adeguata nelle fasi di ristrutturazione e riconversione, potendosi individuare in ogni area i cambiamenti nei mix produttivi e, quindi, le relative esigenze di mobilità aziendale e settoriale. Il rapporto tra valutazione dei meriti, progressione della carriera e retribuzione viene sintetizzato nell'individuazione dei possibili metodi di valutazione. Se l'aggancio con la retribuzione avviene in base a una valutazione globale della prestazione corrente, la considerazione dello sviluppo della carriera tende a privilegiare una proiezione in senso temporale del valore della prestazione. In questo caso avranno importanza determinante la strutturazione del mercato interno del lavoro e gli investimenti nello sviluppo del capitale umano aziendale (derivante da esperienze sociali e tecniche).

8. I sistemi di indicizzazione dei salari

L'analisi delle procedure di indicizzazione dei salari utilizzate nei paesi industriali a economia di mercato comporta l'individuazione del tipo di copertura, delle variabili in gioco (remunerazione del lavoro e costo della vita), dei meccanismi in base ai quali esse prendono corpo (indicizzazione flessibile e indicizzazione automatica), e delle possibili implicazioni positive e negative connesse all'indicizzazione dei salari nell'ottica rispettivamente delle imprese, delle organizzazioni sindacali e dell'autorità pubblica.
È possibile considerare due tipi di copertura: a) l'indicizzazione interessa l'intera retribuzione, da cui deriva che questa è interamente coperta relativamente alle variazioni dei prezzi e quindi è garantito il mantenimento del potere d'acquisto dei salari (il che però può implicare maggiori oneri per le imprese); b) l'aggiustamento rispetto alla dinamica dei prezzi interessa solo una parte della remunerazione, per cui il potere d'acquisto dei salari è conservato parzialmente (il che, d'altro lato, si traduce in minori oneri per le imprese).Il secondo aspetto che va affrontato, in una definizione generale dei processi di indicizzazione, si riferisce alla necessità di individuare un indice del costo della vita sufficientemente rappresentativo delle variazioni dei prezzi. A tal fine viene assunto in quasi tutti i paesi un indice dei prezzi al consumo costruito sulla base di un paniere di beni e servizi che riflette le abitudini di consumo per un dato livello salariale medio.Le procedure di indicizzazione possono essere automatiche oppure flessibili, nel qual caso l'aspetto contrattuale assume un rilievo fondamentale.
Le questioni che emergono dalla pratica di legare i salari ai prezzi attraverso indicizzazioni e automatismi sono fondamentalmente tre. Si tratta di stabilire quali sono: 1) l'efficacia delle indicizzazioni nel mantenimento del potere d'acquisto delle retribuzioni, efficacia che dipenderà non solo dall'entità della compensazione rispetto alle variazioni dei prezzi, ma anche dalla possibilità di utilizzare la contrattazione collettiva in funzione redistributiva; 2) il rapporto tra indicizzazione e contrattazione, posto che numerose esperienze indicano che le clausole di indicizzazione facilitano la conclusione di contratti collettivi di lunga durata; 3) il ruolo dell'indicizzazione nell'alimentare il processo inflazionistico.
Di recente, specie in situazioni caratterizzate da una maggiore automaticità dei meccanismi di adeguamento dei salari, sono stati realizzati in vari paesi interventi diretti a limitare l'impatto inflazionistico dell'indicizzazione, quali le norme relative all'istituzione di vincoli all'entità della ricostruzione del potere d'acquisto, all'allargamento degli orizzonti temporali entro cui hanno luogo le rilevazioni dei dati, alla revisione delle formule di aggiustamento. Ma il dibattito sull'efficacia delle clausole di indicizzazione e, per contro, sulla necessità di imporre regole alla crescita dei salari resta sempre aperto. Infatti, l'imposizione di una regola all'evoluzione delle retribuzioni, se è in grado di frenare il processo inflazionistico, non è bene accolta quando c'è grande incertezza circa la dinamica futura dei prezzi. Se la politica di controllo dei salari viene affiancata da forme di indicizzazione, si assicura ai lavoratori il mantenimento del valore reale delle retribuzioni e al tempo stesso si rende più facile la loro negoziazione in termini monetari. Una soluzione del genere però fa basare le regole per l'evoluzione dei redditi sulla dinamica dell'indice dei prezzi oltre che su quella della produttività. In altri termini, può essere vero che un'indicizzazione dei redditi è favorevole alla pace sociale, ma non è detto che lo sia alla lotta all'inflazione. Indicizzare le retribuzioni ai prezzi, in effetti, può tradursi in una spinta verso un eventuale processo inflazionistico già in atto attraverso la cosiddetta spirale prezzi-salari-costi di produzione-prezzi. Inoltre i lavoratori oppongono all'inflazione una resistenza minore se il potere d'acquisto delle loro retribuzioni è tutelato dalla scala mobile. Ancora, il costo del lavoro cresce per il cumularsi degli effetti derivanti dai vari livelli di determinazione dei salari (contratti collettivi di settore, negoziazione aziendale, indicizzazione automatica). Infine l'appiattimento retributivo derivante da alcuni meccanismi di adeguamento delle retribuzioni al costo della vita mette in moto pressioni tendenti al recupero dei differenziali salariali da parte dei lavoratori più qualificati e ciò porta a ulteriori spinte verso un aumento del costo del lavoro. Per tutte queste ragioni nella gran parte dei paesi industrializzati non esistono più, ormai da tempo, forme di indicizzazione automatica dei salari (in Germania sono addirittura vietate per legge), mentre sono stati introdotti in tutto o in parte meccanismi diversamente congegnati per legare le retribuzioni al costo della vita: fissazione di minimi salariali; scadenze contrattuali ravvicinate; riferimento al tasso di inflazione desiderato (con clausole di revisione più o meno automatica nel caso di previsioni errate) e al tasso di produttività del settore.

9. Salari e politica dei redditi

La politica dei redditi, come parte della politica economica keynesiana, è stata introdotta nei paesi industrializzati fin dagli anni cinquanta, ma la sua rilevanza come strumento di controllo di salari e prezzi è cresciuta durante le crisi petrolifere degli anni settanta, quando i fenomeni inflazionistici e le tensioni sul mercato del lavoro sono divenuti il principale terreno di confronto tra governo e parti sociali.In questo ambito è stato rilevato come una delle principali cause della crescita dei prezzi sia da rintracciare nel conflitto sociale che si scatena nell'arena distributiva: ogni agente economico, nel tentativo di impossessarsi di una quota crescente del reddito prodotto, finisce per generare una forte pressione inflazionistica e un incremento soltanto nominale dei redditi.In tale situazione lo strumento a disposizione delle autorità per regolare la distribuzione e controllare i fenomeni inflazionistici è la politica dei redditi, la quale agisce o attraverso il controllo dei prezzi di merci e servizi, oppure facendo leva sui guadagni percepiti da gruppi specifici di percettori. Riguardo quest'ultimo aspetto, la politica dei redditi prevede una 'regola aurea' secondo cui il salario per occupato deve crescere in media alla stessa velocità del prodotto per occupato.
Tale soluzione permette al costo del lavoro di rimanere costante e alle imprese di mantenere stabili prezzi e margini di profitto (naturalmente si sta ipotizzando l'esistenza di imprese oligopolistiche, che determinano il prezzo secondo il principio del mark-up). In caso contrario, le imprese sarebbero costrette ad aumentare i prezzi per salvaguardare i loro margini di guadagno, oppure a vedersi ridurre tali margini pur di mantenere stabili i prezzi. Quando si vogliano valutare i costi e i benefici connessi alla politica dei redditi, occorre ricordare che, se dal lato dei costi si manifestano limitazioni al grado di libertà di cui beneficiano i sindacati (nella contrattazione) e le imprese (nella fissazione dei prezzi), tuttavia si riscontrano vantaggi nel funzionamento più razionale dei meccanismi di mercato, nella migliore distribuzione delle risorse e del reddito prodotto, nella possibilità di evitare una perdita della crescita potenziale (inevitabile nel caso si ricorra a manovre monetarie o fiscali di contenimento della domanda).
Pur trovandoci di fronte a una grande varietà di proposte formulate negli ultimi quarant'anni, le concrete sperimentazioni di politica dei redditi possono essere ricondotte a tre tipologie principali (v. Brunetta e Pozzana, 1984; v. Roncaglia, 1986): l'impostazione dirigistica, quella di mercato e quella istituzionale.Per politiche dei redditi dirigistiche si intendono gli interventi dell'autorità di politica economica diretti a imporre norme vincolanti alla crescita di salari monetari e prezzi per rallentare o sterilizzare la dinamica dell'inflazione. Si tratta di provvedimenti che, non potendo contare sul consenso delle parti sociali circa la distribuzione del reddito, sono generalmente adottati in un'ottica di breve periodo e con risultati assai discutibili.Le politiche dei redditi di mercato mirano a introdurre un sistema di incentivi e disincentivi fiscali tali da orientare le scelte degli agenti economici verso un comportamento non inflazionistico. Le proposte appartenenti a questo gruppo, caratterizzato da un buon grado di stabilità temporale e da un elevato consenso delle parti, possono essere ricondotte ai market anti-inflation plans, che non hanno mai trovato effettiva attuazione, e alle tax-based incomes policies, certamente il sottogruppo più noto e discusso tra le politiche dei redditi di mercato (v. Wallich e Weintraub, 1971).
Le politiche dei redditi istituzionali, forse le più importanti nella realtà, consistono in interventi di lungo periodo diretti a dotare permanentemente il sistema delle relazioni industriali di una struttura istituzionale e procedurale tale da facilitare la composizione dei conflitti e regolare la dinamica dei redditi. Tali politiche tendono dunque a trasformare la natura del gioco distributivo tra i percettori di reddito da non cooperativo a cooperativo, fissando precise regole del gioco e contemplando la partecipazione attiva e responsabile dei rappresentanti dei diversi attori sociali. In tal modo la politica dei redditi viene a costituirsi come parte integrante della politica economica, in un clima di relazioni industriali di tendenziale collaborazione.

10. Salari e contrattazione nell'esperienza italiana

La dottrina giuslavoristica individua in astratto due modelli formali di contrattazione salariale: nel primo (crisis bargaining) le parti entrano in contatto solo periodicamente ed esauriscono i loro rapporti con la stipulazione del contratto collettivo; nel secondo (continuous bargaining) le parti danno vita a istituzioni e procedure che permettono l'adattamento continuo delle norme collettive esistenti al mutamento delle circostanze (v. Kahn-Freund, 1979).Nell'esperienza italiana dal dopoguerra a oggi la struttura contrattuale si è caratterizzata per una continua oscillazione tra il primo e il secondo modello. Nei primi anni cinquanta si assiste ad accordi interconfederali stipulati tra le organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro, aventi come ambito di applicazione un intero settore dell'economia - industria, commercio, agricoltura - e riguardanti la materia salariale (minimi retributivi e scala mobile), le commissioni interne, i licenziamenti. In sostanza si realizza un sistema di centralizzazione della politica salariale e degli istituti normativi più importanti, cui viene affiancato un moderato decentramento della politica rivendicativa inerente alle altre condizioni di lavoro.Negli anni sessanta i processi di rinnovamento tecnologico e organizzativo discontinui ed eterogenei modificano profondamente alcuni elementi del rapporto di lavoro, che sembrano essere regolati troppo genericamente nei contratti nazionali.
Così il 5 luglio 1962 vengono fissati i principî generali di un nuovo sistema detto di 'contrattazione articolata': si individuano due ulteriori livelli contrattuali (di settore e aziendale) in aggiunta a quello nazionale di categoria e se ne indicano le materie di competenza. Il sistema si articola in modo che il contratto nazionale di categoria rinvia a quello di settore per la regolamentazione di determinati istituti (orario, mansioni, minimi retributivi) e a quello aziendale per la definizione delle modalità di applicazione della disciplina sui cottimi, per i sistemi di valutazione delle mansioni e per le forme di incentivazione collettiva.
Con il passar del tempo la contrattazione aziendale (quella di settore rimane sulla carta) si sviluppa gradualmente anche su materie che non rientravano originariamente nella sua competenza, preparando così, nei fatti, le premesse per un ulteriore mutamento del sistema. Nel dicembre 1969, durante il rinnovo del contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici, decade il sistema di collegamento tra i livelli contrattuali: la ricontrattazione diviene proponibile in qualsiasi sede e per qualsiasi materia già regolata dal contratto nazionale, e si delinea così un sistema in cui i due livelli negoziali fondamentali (nazionale e aziendale) non risultano coordinati da collegamenti giuridico-formali.
Nel corso degli anni settanta il sistema di contrattazione, pur rimanendo formalmente ancorato al principio dell'indipendenza giuridica tra livelli, di fatto si sposta ancora verso la centralizzazione. La nuova tendenza è testimoniata dagli accordi interconfederali stipulati rispettivamente il 21 e il 25 gennaio 1975: l'accordo sul salario garantito, che prefigura una riforma della cassa integrazione guadagni, e quello sull'unificazione del valore del punto di contingenza, che riforma il meccanismo di funzionamento della scala mobile. Alla crescita di importanza della contrattazione interconfederale corrisponde la riduzione di quella aziendale, che vede progressivamente restringere i propri contenuti alla gestione delle conseguenze sull'occupazione dei processi di riconversione industriale. All'inizio degli anni ottanta il sistema contrattuale comincia a mostrare una crescente tendenza alla centralizzazione, che culmina con i due accordi tripartiti di politica dei redditi del 22 gennaio 1983 e del 14 febbraio 1984. Il nucleo centrale di tali negoziazioni concerne il costo del lavoro e tende a desensibilizzare l'indice della scala mobile, compensando tale manovra con misure di alleggerimento contributivo, con un tendenziale impegno alla riduzione degli orari di lavoro e con incentivi all'occupazione. In tema di contrattazione si tenta di ricostruire una struttura piramidale e gerarchica, imponendo forti limiti alla contrattazione nazionale di categoria e ancor più a quella aziendale, la quale non deve avere per oggetto materie già definite in altri livelli negoziali. Ma l'intesa, non sottoscritta dalla CGIL, il maggior sindacato italiano, produce conflitti politici talmente aspri da sconsigliare di proseguire nella pratica di accordi tripartiti fino alla fine degli anni ottanta. Ciò consente una spinta verso il decentramento e una ripresa della contrattazione aziendale su temi salariali e normativi.
Bisogna aspettare gli anni novanta e le profonde trasformazioni economiche e istituzionali che accompagnano l'inizio del decennio per vedere il ritorno alla centralizzazione e alla prassi di accordi tripartiti su costo del lavoro, struttura del salario e livelli della contrattazione. Sono i protocolli siglati da governo e parti sociali il 31 luglio 1992 e il 23 luglio 1993 a modificare l'assetto delle relazioni industriali e a implicare il passaggio da una distribuzione del reddito di tipo 'conflittuale' a una di tipo 'cooperativo'. In tale situazione, mentre gli automatismi non hanno più ragione di esistere (viene definitivamente abbandonato il meccanismo della scala mobile), acquista enorme rilievo la fase contrattuale quale momento di determinazione delle dinamiche salariali sia monetarie che reali, attraverso l'auspicata coerenza delle dinamiche dei prezzi.L'intesa del 23 luglio 1993, in particolare, attraverso la previsione di due livelli contrattuali non sovrapposti e distinti, si pone l'obiettivo di sposare i vantaggi della centralizzazione, in termini di coerenza e credibilità, con la flessibilità della concertazione bilaterale e decentrata. Secondo quanto previsto dal protocollo, i contratti collettivi nazionali stabiliscono gli incrementi salariali minimi in riferimento agli andamenti specifici dei singoli settori, mentre la contrattazione aziendale si apre alla prospettiva di modelli partecipativi strettamente correlati all'andamento economico delle aziende. Tale caratteristica, unita all'abbandono dell'indicizzazione, alla riduzione da tre a due anni delle cadenze contrattuali per la parte retributiva, all'introduzione di premi e punizioni per favorire o evitare ritardi nella contrattazione, dovrebbe rendere il sistema contrattuale più flessibile rispetto alla dinamica della produttività e, attraverso la sincronia tra livelli della contrattazione e contesto economico-tecnologico, assicurare un'efficiente distribuzione dei guadagni di produttività.