Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
di Terenzio Cozzi
Produttività
sommario: 1. Produttività media e
marginale. 2. La produttività marginale decrescente e la
domanda di fattori. 3. Funzione aggregata di produzione,
produttività marginale e distribuzione del reddito. 4. La
misurazione del capitale e la coerenza della teoria neoclassica
della distribuzione. 5. Contabilità della crescita,
produttività globale e produttività media del lavoro.
6. Un secolo di crescita della produttività del lavoro. 7.
Produttività e occupazione. 8. Crescita della
produttività: effetti strutturali. 9. Cause della crescita
della produttività. □ Bibliografia.
1. Produttività media e marginale
Per produttività si intende normalmente un confronto
tra quantità prodotte e quantità di fattori produttivi
utilizzati. Spesso il confronto viene effettuato in termini di
rapporto tra le due quantità. Ad esempio, la
produttività media del lavoro è definita come la
produzione per lavoratore o per ora lavorata; quella di altri
fattori produttivi come produzione per unità di impiego del
fattore considerato.È chiaro che nella misurazione delle
grandezze che servono - produzione e fattori - occorre utilizzare
unità di misura soddisfacenti, che non è sempre facile
individuare. Sorgono infatti difficoltà perché
è necessario risolvere complicati problemi di aggregazione in
modo logicamente coerente con l'uso che della misurazione si intende
fare.La misurazione di gran lunga più importante di
produttività è quella media del lavoro. Essa
può essere calcolata a livello di singola impresa, di singolo
settore produttivo o di intera economia. Nell'ultima ipotesi, la
produttività del lavoro può essere definita come il
valore del prodotto nazionale per occupato o per ora lavorata e
misura dunque il frutto del lavoro umano nella media dell'intero
sistema economico. Naturalmente, per confrontare i livelli di
produttività di un paese a date diverse, bisogna valutare il
prodotto nazionale a prezzi costanti, mentre per comparazioni a
livello internazionale debbono essere utilizzati opportuni tassi di
cambio.
La produttività media del lavoro non dipende soltanto, e
neppure principalmente, dall'abilità e dall'impegno dei
lavoratori bensì, soprattutto, dagli strumenti di produzione
che essi utilizzano: la produttività di un lavoratore
agricolo che usa un trattore e un aratro è notevolmente
superiore a quella che avrebbe se potesse operare soltanto con una
vanga. In altri termini, la produttività media del lavoro non
misura il contributo alla produzione fornito dal solo lavoro ma
quello fornito dal lavoro assistito da altri fattori. Anche per
questi vale un'affermazione analoga: la produttività media
della terra (produzione per ettaro) dipende ad esempio dalle
quantità di lavoro, di concime, di attrezzature impiegate.
È l'insieme dei fattori combinati per l'ottenimento della
produzione (ovvero lo stato della tecnologia) a determinare la
produttività media di ciascun fattore.Il concetto di
produttività media mette in relazione produzione e fattori
produttivi rapportandone i rispettivi livelli. Il concetto di
produttività marginale ne rapporta invece gli incrementi.
Più precisamente, si definisce come produttività
marginale del fattore x nella produzione di y il rapporto tra
l'aumento (o la diminuzione) delle quantità di y prodotte e
l'aumento (o la diminuzione) delle quantità di x utilizzate,
ferme restando le quantità impiegate di tutti gli altri
fattori produttivi. Supponiamo ad esempio di aver indicato con x il
lavoro e con y il grano. La produttività marginale del lavoro
è data dalla quantità aggiuntiva di grano che un
lavoratore in più permette di produrre (Δy/Δx oppure, se si
considera un incremento infinitesimo di x, dalla derivata parziale
δy/δx).
La produttività marginale misura dunque il contributo alla
produzione apportato dall'ultima unità impiegata del fattore
produttivo. Per calcolare questo contributo si è ipotizzato
di utilizzare un lavoratore in più, lasciando invariate le
quantità degli altri fattori. Come però già
sappiamo, la produttività di questo lavoratore aggiuntivo
dipende, in modo determinante, dalle quantità degli altri
fattori con cui si troverà a operare: se prima si impiegavano
10 lavoratori e 10 vanghe, è molto improbabile che la
produzione possa aumentare significativamente impiegando un
lavoratore in più senza fornirgli una vanga. L'impiego di
quantità aggiuntive di un fattore richiede, in ogni caso,
qualche mutamento nelle tecniche utilizzate e/o nell'organizzazione
produttiva. Il livello della produttività marginale di un
fattore è perciò influenzato dalla maggiore o minore
facilità di realizzazione degli opportuni mutamenti. È
probabilmente tanto più agevole trovare il modo di impiegare
proficuamente una unità aggiuntiva di un fattore quanto
minore è la quantità che, dello stesso, si utilizza
relativamente a quelle degli altri fattori.
2. La produttività marginale decrescente e
la domanda di fattori
L'affermazione finale del capitolo precedente sta alla base
dell'ipotesi, spesso chiamata legge, della produttività
marginale decrescente. L'ipotesi, cardine della teoria neoclassica
della produzione e della distribuzione, afferma che la
produttività marginale di ogni fattore diminuisce quando la
quantità utilizzata aumenta al di là di un certo
limite. Fino a quando il limite non è raggiunto, la
produttività marginale può crescere. È ad
esempio possibile che un solo lavoratore che debba coltivare un
vasto appezzamento di terreno non riesca a organizzare bene la
propria attività e abbia quindi una produttività
relativamente bassa. Aumentando invece il numero dei lavoratori,
è possibile realizzare un'organizzazione produttiva
più efficiente, tale da consentire aumenti di produzione
più che proporzionali all'aumento dei lavoratori: i
lavoratori aggiuntivi hanno cioè una produttività
più elevata di quelli precedenti. La fase della
produttività marginale crescente è però
destinata a finire. Prima o poi, la limitatezza del terreno
coltivabile fa sentire i propri effetti. All'inizio ciò non
avviene perché i lavoratori sono pochi e non riescono a
coltivare adeguatamente tutto il terreno disponibile, che è
quindi sovrabbondante. Man mano che aumentano i lavoratori,
però, il terreno diviene relativamente sempre più
scarso per cui, al di là di un certo limite, la produzione
cresce in misura sempre minore per ciascun occupato aggiuntivo. Da
quel punto in avanti, la produttività marginale del lavoro
presenta quindi un andamento decrescente.
Le stesse considerazioni possono essere ripetute con riferimento a
tutti i fattori produttivi le cui produttività marginali
incominciano, a un certo punto, a diminuire. L'ipotesi neoclassica
afferma quindi l'inevitabilità di rendimenti decrescenti con
l'aumento progressivo dell'impiego di ogni fattore produttivo se
quello degli altri è mantenuto costante.
È facile comprendere come proprio l'esistenza di questi
rendimenti decrescenti limiti l'impiego di ciascun fattore. La
convenienza o meno dell'utilizzo di un'unità aggiuntiva di un
fattore dipende infatti dal confronto tra il suo costo e il suo
rendimento. Nel caso del lavoro, il costo unitario è dato dal
tasso di salario w. Il rendimento di una unità aggiuntiva di
lavoro è dato dal valore della sua produttività
marginale: pπL, con πL che indica la produttività misurata in
quantità del bene prodotto e p il suo prezzo. Converrà
perciò impiegare un lavoratore aggiuntivo se pπL > w;
mentre non risulterà conveniente nel caso contrario. Il
limite della convenienza è fissato da pπL=w, ma bisogna
notare che il limite opera quando πL si trova già nella sua
fase decrescente. Se infatti πL stesse ancora crescendo, sarebbe
ovviamente conveniente ampliare l'occupazione. Lo stesso
ragionamento può essere ripetuto per ogni altro fattore
produttivo che sarà utilizzato fino al punto di uguaglianza
tra la sua remunerazione e il valore della sua produttività
marginale. Nel caso della terra da destinare alla coltivazione del
bene considerato, dovrà perciò essere pπT=τ, con τ che
indica la rendita unitaria e πT la produttività marginale
fisica della terra.
Dalle condizioni di equilibrio per l'uso del lavoro e della terra si
può ottenere: ovvero la nota condizione di uguaglianza tra le
produttività marginali ponderate dei fattori produttivi che
garantisce la minimizzazione dei costi di produzione.
La (1) può essere ottenuta anche seguendo un percorso
interpretativo diverso e forse più diffuso nella
manualistica. Supponiamo di dover ottenere un certo livello di
produzione e che, a tal fine, esistano molte (al limite, infinite)
tecniche produttive definite dalle quantità di fattori
necessarie per ottenere quel dato volume di produzione. La
differenza tra due tecniche efficienti deriva dal fatto che se una
utilizza una maggior quantità di un fattore, deve
necessariamente utilizzare minori quantità di almeno un altro
fattore. Se così non fosse, si potrebbe infatti evitare di
tenere in considerazione la prima tecnica che non potrebbe comunque
comportare un costo inferiore all'altra.Quanto appena affermato
porta dunque a considerare il passaggio da una tecnica a un'altra
come la sostituzione di un fattore con un altro. Lasciando ad
esempio invariata la produzione, è possibile diminuire di ΔqT
la quantità di terra e aumentare di ΔqL quella di lavoro. Il
rapporto |ΔqL/ΔqT|, che misura il numero di unità delle quali
qL deve aumentare (o diminuire) per compensare una diminuzione
(aumento) unitario di qT, è chiamato saggio marginale di
sostituzione tra lavoro e terra: SMSLT.
La sostituzione avviene a saggi diversi a seconda dell'impiego
relativo dei due fattori. Quando si utilizza tanta terra e poco
lavoro, la produttività marginale della prima è
relativamente bassa mentre quella del secondo è alta. Un
piccolo incremento di lavoro sarà quindi sufficiente a
compensare una riduzione unitaria di terra. Quando invece
quest'ultima è utilizzata relativamente poco, sarà
necessario un consistente aumento del lavoro per compensare una sua
ulteriore diminuzione unitaria. Il SMSLT decresce quindi al crescere
della terra, e viceversa. L'affermazione può essere provata
formalmente dimostrando che SMSLT=πT/πL.
Si consideri infatti l'effetto sulla produzione di un incremento ΔqL
del solo lavoro e, separatamente, quello di un decremento |ΔqT|
della terra. Nel primo caso la produzione aumenta di pLΔqL,
cioè della produttività marginale dei lavoratori
aggiuntivi moltiplicata per il loro numero, nel secondo caso
diminuisce di πT|ΔqT|. Se, come si assume calcolando SMSLT, la
produzione alla fine deve restare invariata, bisogna che l'aumento e
la diminuzione siano di pari entità: πLΔqL=πT|ΔqT|. Si ha
perciò:
Si considerino ora i costi di produzione, C=wqL+τqT, definiti come
somma dei prodotti delle quantità dei fattori utilizzati per
i rispettivi prezzi. I costi sono minimizzati quando ΔC=0. Bisogna
infatti escludere che variazioni di qL e di qT ammissibili (quelle
che permettono di mantenere inalterata la produzione) consentano di
avere ΔC⟨0, cioè costi minori. Deve perciò essere da
cui si ottiene: che, sostituita nella (2), fornisce il risultato
già ottenuto con la (1), vale a dire l'uguaglianza tra le
produttività marginali ponderate. È questa uguaglianza
che determina, per ogni dato livello di produzione, le
quantità di ciascun fattore produttivo utilizzato. Se viene a
variare il prezzo dei fattori, quello relativamente rincarato
risulterà utilizzato di meno e l'altro di più. Se ad
esempio w aumentasse e τ rimanesse costante, per ristabilire
l'uguaglianza tra le produttività marginali ponderate
occorrerebbe utilizzare meno lavoro e più terra, in modo che
πL potesse crescere e πT diminuire.
Si arriva quindi alla conclusione, fondamentale per la teoria
neoclassica, che le curve di domanda di fattori produttivi sono
funzioni decrescenti dei rispettivi prezzi (relativi): la
conclusione non fa nient'altro che riproporre, in forma diversa,
ciò che è stato postulato, la decrescenza delle
produttività marginali.
Occorre inoltre osservare che, come è ovvio, la domanda di
fattori dipende dal livello di produzione, finora ipotizzato
costante. Se invece, continuando con l'esempio di prima, l'aumento
del salario avesse l'effetto di far crescere la domanda del bene
considerato, e quindi la sua produzione, l'occupazione potrebbe non
diminuire pur in presenza di una minor utilizzazione relativa di
lavoro. Questa osservazione non ha molta rilevanza per l'occupazione
di un singolo settore, ma a livello macroeconomico un aumento dei
salari potrebbe avere, in certe condizioni, effetti positivi
sull'occupazione, mentre una diminuzione potrebbe avere effetti
negativi.
3. Funzione aggregata di produzione,
produttività marginale e distribuzione del reddito
Si consideri ora il sistema economico in termini
aggregati e si indichi con Y il livello della produzione (e del
reddito reale). Si assuma che Y possa essere prodotto mediante
l'impiego di due soli fattori, capitale K e lavoro L, secondo la
funzione aggregata di produzione: La (4) descrive le tecniche
produttive disponibili, indica cioè quali combinazioni dei
due fattori consentano di ottenere diversi livelli di produzione.
Seguendo l'impostazione neoclassica, si ipotizza che le
produttività marginali di K e di L, indicate rispettivamente
con FK e FL, siano decrescenti: FK rappresenta la derivata parziale
di F rispetto a K, e FL quella rispetto a L. L'ipotesi di rendimenti
decrescenti impone che FK e FL diminuiscano all'aumentare
rispettivamente di K e di L.
Si assuma inoltre che la F abbia rendimenti di scala costanti.
Ciò significa che, se entrambi i fattori variano nella
proporzione μ>0 (ad esempio raddoppiano se μ=2), anche la
produzione varia in egual misura (raddoppia). In termini matematici,
vale la relazione: e si deice che F è omogenea di primo grado
nei suoi argomenti. Ponendo μ=1/L, si ottiene Y/L=F (K/L, 1), che
mostra come il livello della produttività media del lavoro
dipenda dal valore di K/L e, come si può verificare, cresca
al crescere di tale rapporto, cioè quando si sostituisca
capitale a lavoro. Secondo la logica neoclassica, la sostituzione
avviene come conseguenza dell'aumento del salario rispetto al tasso
di interesse. Si tratta di sostituzione di tipo statico, riguardante
cioè la scelta tra tecniche già disponibili che
avviene nel tempo logico. Non riguarda invece la sostituzione
dinamica di cui parla Sylos Labini (v. 1992, pp. 142-153), che si
riferisce alle macchine nuove introdotte, nel tempo cronologico,
come risposta delle imprese ad aumenti del salario superiori a
quelli dei prezzi delle macchine.
Per funzioni omogenee di primo grado vale un noto teorema di Eulero
che permette di scrivere: Si può ora osservare che nel
capitolo precedente è stato dimostrato come, in condizioni di
equilibrio (concorrenziale), il valore della produttività
marginale di un fattore debba risultare uguale al suo prezzo.
Poiché stiamo esaminando un sistema economico aggregato (in
cui si immagina di produrre un unico bene), è possibile
considerare la produzione come numerario, ponendo il suo prezzo
uguale a 1. Le condizioni di equilibrio possono allora essere
scritte così: dove con r è stato indicato il prezzo
per l'uso del capitale che è dato dal tasso di interesse
assumendo, per comodità, che il capitale abbia durata
infinita e non debba perciò essere ammortizzato. In
equilibrio e in condizioni di certezza il tasso di interesse
eguaglia poi quello di profitto.Sostituendo ora la (7) nella (6), si
ottiene la relazione: che mostra come tutto (e solo) il reddito
prodotto venga distribuito ai fattori: rK al capitale e wL al
lavoro.
La teoria neoclassica del capitale appare quindi coerente. Questa
conclusione dipende però dall'ipotesi di rendimenti di scala
costanti: se infatti fosse stata postulata l'esistenza di rendimenti
crescenti (economie di scala), la remunerazione dei fattori alle
rispettive produttività marginali non sarebbe stata possibile
in quanto avrebbe richiesto un ammontare di reddito superiore a
quello prodotto. Al contrario, nel caso di diseconomie di scala,
dopo aver remunerato i fattori, sarebbe rimasta una parte di reddito
non ancora distribuita che non si sarebbe saputo come distribuire.
4. La misurazione del capitale e la coerenza della
teoria neoclassica della distribuzione
L'ipotesi dell'esistenza di una funzione aggregata della
produzione (4) è stata criticata sotto il profilo logico da
P. Sraffa (v., 1960), da J. Robinson (v., 1954) e da altri. La
critica riguarda la possibilità di misurare la
quantità di capitale K che entra come argomento nella
funzione di produzione.È evidente che non sorgerebbe alcun
problema di misurazione se nel sistema economico si producesse un
solo bene (grano) utilizzabile indifferentemente come bene di
consumo e come capitale: l'unità di misura di Y varrebbe
anche per K e sarebbe espressa in quantità fisiche (quintali
di grano). In un sistema in cui vengono prodotti più beni,
invece, questa semplice soluzione è preclusa. Capitale e
produzione hanno infatti composizioni merceologiche diverse. Mentre
è possibile misurare la produzione in termini fisici
ricorrendo a opportuni numeri indici, lo stesso non vale per il
capitale.
Bisogna infatti aggregare mezzi di produzione che risultano diversi
a seconda delle tecniche utilizzate. Non sembra esserci altro modo
di procedere all'aggregazione di questa varietà cangiante di
beni capitali se non in termini di valore. Ma così facendo si
va incontro a un'incongruenza logica.Il valore di equilibrio di un
bene capitale è infatti dato dal valore attuale dei profitti
che il suo uso permetterà di realizzare in futuro. Per
procedere all'attualizzazione, occorre però conoscere il
tasso di interesse: 105 lire disponibili tra 1 anno valgono infatti
come 100 lire disponibili oggi, se il tasso di interesse è
del 5%; se il tasso fosse invece del 10%, il valore di 100 lire oggi
sarebbe uguale a quello di 110 lire tra 1 anno (o di 121 lire tra 2
anni).Invece di guardare ai profitti futuri, si può
alternativamente valutare il bene capitale sulla base dei costi
sostenuti in passato per produrlo. Tali costi devono però
essere capitalizzati, cioè aumentati dell'interesse per il
periodo intercorso tra il momento nel quale sono stati sostenuti e
quello attuale. Anche per questo calcolo è necessario
conoscere il tasso di interesse.
La teoria neoclassica della distribuzione prevede però che il
tasso di interesse (o di profitto) sia determinato dalla
produttività marginale del capitale. Bisogna comunque essere
in grado di misurare il capitale per poterne calcolare la
produttività e, a tal fine, occorre conoscere preventivamente
il tasso di interesse. Segue allora, secondo J. Robinson, la
conclusione che la versione aggregata della teoria neoclassica
è logicamente viziata dalla circolarità del
ragionamento.Secondo i neoclassici, invece, la critica della
Robinson è del tutto fuori bersaglio, essendo priva di
significato la discussione di problemi di circolarità in
modelli che determinano simultaneamente tutte le variabili.
Ciò tuttavia non implica l'assenza di difficoltà
logiche provocate per la teoria dalla misurazione del capitale in
valore. Sraffa (v., 1960) ha infatti dimostrato come, a successive
diminuzioni del tasso di profitto, il valore del capitale non vari
necessariamente sempre nella stessa direzione, ma possa
alternativamente aumentare o diminuire. Ne deriva che non è
possibile attribuire validità generale alla fondamentale
affermazione neoclassica secondo la quale si utilizza più
capitale e meno lavoro quando si riduce il tasso di interesse e
aumenta quello di salario. Una conclusione che ha dovuto riconoscere
lo stesso Samuelson (v., 1966) rispondendo alle critiche rivoltegli
da Pasinetti (v., 1966), da Garegnani (v., 1966) e da altri.
Secondo Hahn (v., 1982), la teoria neoclassica della distribuzione
non richiede affatto l'aggregazione: ogni bene capitale può
essere misurato nell'unità fisica che gli è propria
senza bisogno di una misurazione in valore del capitale (v. anche
Ricossa, 1981 e 1991). La versione aggregata della teoria
rappresenta soltanto una semplificazione e deve perciò essere
giudicata valutando la dimensione degli errori dei quali può
essere incolpata nei casi concreti. Ma né i neoclassici
né i loro oppositori si sono particolarmente distinti su
questo terreno. L'impostazione aggregata ha così continuato a
dominare il campo sia nelle analisi teoriche che in quelle
empiriche, pur senza alcuna (nuova) giustificazione della sua
validità o del suo realismo.
5. Contabilità della crescita,
produttività globale e produttività media del lavoro
Come è stato visto, la funzione aggregata della
produzione (4) mette in relazione quantità prodotte e
quantità di fattori utilizzate. La relazione, che descrive lo
stato della tecnologia a una certa data, viene quindi modificata per
effetto del progresso tecnico il quale, con il passar del tempo,
consente normalmente di ottenere maggiori volumi di produzione a
parità di fattori, di realizzare cioè aumenti di
produttività. La crescita della produzione viene così
a dipendere sia dal maggior utilizzo dei fattori, sia dall'aumentata
produttività degli stessi. La misurazione dei rispettivi
contributi è l'oggetto delle analisi di contabilità
della crescita (growth accounting). La procedura può essere
illustrata facendo riferimento alla trattazione di Solow (v., 1956 e
1957), la prima di innumerevoli trattazioni successive.
Si postula innanzitutto una funzione di produzione del tipo: che si
differenzia dalla (4) soltanto per il parametro A che rappresenta lo
stato della tecnologia come funzione crescente del tempo: si assume
cioè che nuove tecniche diventino man mano disponibili e che
la loro utilizzazione consenta di ottenere successivi incrementi di
produzione, a parità di impiego dei fattori
produttivi.Utilizzando un opportuno procedimento matematico,
è possibile misurare separatamente i contributi alla crescita
della produzione da attribuire rispettivamente all'evoluzione
tecnologica e al maggior impiego di ciascun fattore. Basta infatti
differenziare logaritmicamente rispetto al tempo la (9) per
ottenere: La (10) mostra come il tasso di crescita della produzione
dY/Y possa essere scomposto in tre parti: il tasso di crescita di A
e i contributi forniti dagli incrementi delle quantità
utilizzate di ciascuno dei due fattori. Per capire come questi
contributi siano effettivamente misurati dalle espressioni indicate,
supponiamo che, nell'intervallo (infinitesimo) di tempo considerato,
la quantità di lavoro aumenti di dL e non vi sia invece
alcuna variazione nella tecnologia e nella quantità di
capitale (cioè che dA=dK=0). Ne deriverà un incremento
di produzione pari a dY=FLdL che, espresso in termini relativi,
fornisce il risultato indicato nella (10). In modo analogo si
ottiene il contributo della crescita della quantità di
capitale.
Prescindendo da questi contributi, la produzione cresce per effetto
dell'evoluzione tecnologica al tasso dA/A che dai neoclassici
è spesso indicato come tasso di crescita della
produttività globale dei fattori.Una particolare funzione di
produzione, molto utilizzata nelle indagini empiriche, è la
Cobb-Douglas: Essa è a rendimenti di scala costanti
(raddoppiando K e L raddoppia infatti Y) e ha la proprietà di
determinare quote distributive costanti se i fattori sono remunerati
alle rispettive produttività marginali. Ponendo infatti F (K,
L)=KαL₁-α, è facile verificare che la quota che va al
capitale è data da FKK/Y=α e quella che va al lavoro da
FLL/Y=1-α. Sostituendo questi risultati nella (10) e riordinando i
termini, si ottiene: che mostra come il tasso di crescita della
produzione sia dato dalla somma del tasso di crescita della
produttività globale e di una media ponderata dei tassi di
crescita dei due fattori produttivi, essendo le ponderazioni
rappresentate dalle rispettive quote distributive.
L'analisi empirica svolta da Solow e da altri ha messo in luce come
la crescita media dei fattori produttivi riuscisse a spiegare
soltanto una piccola parte (circa 1/8) della crescita della
produzione, ma non la parte di gran lunga maggiore, cioè la
crescita della produttività globale (dA/A). Essa veniva
perciò indicata con il nome di residuo, non rappresentando
nient'altro che "una sorta di misura della nostra ignoranza delle
cause della crescita economica", come Abramovitz (v., 1956, p. 11)
aveva già affermato. Innumerevoli indagini successive si sono
poste l'obiettivo di spiegare almeno una parte del residuo di Solow.
Se ne indicheranno in seguito i principali risultati, ma è
prima opportuno dire qualche cosa sui risultati empirici riguardanti
la crescita della produttività media del lavoro che, da un
lato, è la maggior responsabile della crescita della
produzione e dall'altro, a differenza di quella globale, non
richiede la misurazione del capitale e non è quindi soggetta
alle critiche di cui si è detto in precedenza. Inoltre, se si
accetta l'impostazione neoclassica, è facile vedere come ci
sia una stretta relazione tra le crescite della produttività
globale e di quella media del lavoro.
Quest'ultima infatti è, per definizione, uguale alla
differenza tra i tassi di crescita della produzione e
dell'occupazione. Intuitivamente, se ad esempio la produzione
è aumentata del 3% e l'occupazione solo dell'1%, la
produzione per lavoratore (la produttività media) dev'essere
cresciuta del 2%. Indicando con π=Y/L la produttività media
del lavoro, si ha dπ/π=dY/Y - dL/L. Nel caso particolare della
Cobb-Douglas, ponendo k=K/L, si può allora ottenere: che
indica come la crescita della produttività media del lavoro
possa essere scomposta in due parti: quella relativa all'incremento
della produttività globale e quella dovuta all'incremento del
rapporto K/L. Perciò, parlando della crescita della
produttività media del lavoro, si parla implicitamente anche
di quella della produttività globale che ne costituisce la
componente più rilevante. Infatti, secondo molte stime (v. ad
esempio Denison, 1967), il contributo dell'aumento di K/L alla
crescita della produttività del lavoro non supera il 25% del
valore di quest'ultima.
6. Un secolo di crescita della produttività
del lavoro
La ricchezza di un paese è inevitabilmente il
risultato della crescita di lungo periodo della produttività
media del lavoro. Salari reali e redditi pro capite elevati e
crescenti possono infatti essere sostenuti soltanto da un'adeguata
produttività. Che sia questo il fattore decisivo per il
benessere economico di una collettività, è dimostrato
dal fatto che i paesi ricchi hanno avuto per lungo tempo una
crescita della produttività elevata, mentre quelli poveri
l'hanno avuta bassa o nulla.Occorre molta cautela nell'effettuare
confronti di produttività tra paesi notevolmente diversi e a
date tra loro molto distanti, ma ciò che ne viene fuori
è veramente impressionante. Baumol (v., 1986, p. 1074) ha
calcolato che la produttività degli Stati Uniti nel 1870 era
"comparabile a quella di Honduras e Filippine nel 1980, e un po'
inferiore a quella di Cina, Bolivia ed Egitto". Sempre nel 1870, il
paese economicamente più avanzato era ancora l'Inghilterra
che, secondo dati di Maddison (v., 1991), aveva una
produttività superiore del 4% a quella degli Stati Uniti.
Tuttavia tra il 1870 e il 1950 il tasso di crescita della
produttività degli Stati Uniti è risultato quasi il
doppio di quello del Regno Unito, e pertanto, alla fine del periodo
indicato, essi erano ampiamente primi in graduatoria, con una
produttività di circa il 75% superiore a quella del Regno
Unito.Tra il 1950 e il 1973 si è registrata una notevole
accelerazione della crescita della produttività nei paesi
sviluppati.
Sempre secondo Maddison (v., 1991, p. 51) il tasso di crescita
è passato al 4,5% medio annuo, contro l'1,8% dei precedenti
80 anni. A differenza però di quanto accadeva prima, gli
Stati Uniti hanno registrato una crescita sensibilmente inferiore a
quella degli altri paesi: 2,5% contro il 7,6 del Giappone, il 5,9
della Germania, il 5,8 dell'Italia, il 5,0 della Francia e il 3,2
del Regno Unito. Nel 1973 il vantaggio degli Stati Uniti sul Regno
Unito si era ridotto a circa il 50% e il livello inglese era stato
raggiunto anche da Francia, Germania e Italia.
La tendenza dei paesi sviluppati ad avvicinarsi agli Stati Uniti
è, negli anni successivi, proseguita (e si è anzi
ulteriormente accentuata) in un contesto però di
decelerazione generalizzata della crescita della
produttività. Tra il 1973 e il 1987 per la media dei paesi
sviluppati il tasso di crescita è sceso al 2,3%. Per gli
Stati Uniti il valore è risultato pari a solo l'1% contro il
3,5 del Giappone, il 3,2 della Francia, il 2,6 di Germania e Italia,
il 2,3 del Regno Unito. Alla fine del periodo il vantaggio degli
Stati Uniti in termini di produttività si è
perciò ulteriormente ridotto risultando, per la media dei
paesi, attorno al 20%.
7. Produttività e occupazione
Dalla definizione di produttività del lavoro come
π=Y/L, è facile ricavare dL/L=dY/Y - dπ/π, che mostra come il
tasso di crescita dell'occupazione sia pari alla differenza tra i
tassi di crescita della produzione (reale) e della
produttività. Riprendendo l'esempio della fine del cap. 5, se
la produzione è cresciuta del 3% e ciascun lavoratore ha
prodotto in media il 2% in più, l'occupazione deve essere
aumentata dell'1%. In generale, l'occupazione aumenta se
dY/Y>dπ/π e diminuisce nel caso contrario. A maggior crescita
della produttività, ferma restando quella della produzione,
corrispondono quindi minori aumenti dell'occupazione e/o maggiori
aumenti della disoccupazione.
Nell'Inghilterra degli inizi dell'Ottocento i processi produttivi
erano soggetti a cambiamenti molto intensi a seguito della massiccia
introduzione di macchine che sostituivano il lavoro. La
produttività media di coloro che conservavano il posto di
lavoro cresceva in misura decisamente superiore alla produzione, ma
ciò determinava un aumento molto rilevante della
disoccupazione. I lavoratori consideravano perciò le macchine
come il nemico che rubava loro i posti di lavoro: nacque così
il movimento luddista che proponeva, e praticava, la distruzione
delle macchine (N. Ludd aveva infatti distrutto un telaio nel 1779)
come difesa contro la disoccupazione. Gli industriali, naturalmente,
sostenevano che il comportamento dei luddisti era dettato da
ignoranza delle leggi economiche e che l'introduzione delle macchine
era destinata, presto o tardi, a rivelarsi benefica per tutti i
lavoratori. Ricardo però, smentendo una sua precedente
opinione, sostenne che in realtà nulla garantiva che la
disoccupazione così creata sarebbe stata riassorbita in tempi
ragionevoli (v. Ricardo, 1821).
Sulla possibilità di riassorbimento di questo tipo di
disoccupazione, detta tecnologica, si scontrano due grandi
tradizioni economiche. La prima, quella di Ricardo, ripresa sia da
Marx sia da altre scuole di pensiero, trova oggi molti sostenitori,
preoccupati dalla comparsa di evidenti fenomeni di disoccupazione
causati dall'introduzione delle nuove tecnologie. La seconda e molto
più ottimistica tradizione pervade tutta l'impostazione
neoclassica e ha trovato la sua espressione più completa e
affascinante nell'opera di Schumpeter. Essa afferma che la
disoccupazione tecnologica ha natura temporanea e rappresenta il
costo da sostenere per realizzare benefici permanenti ottenibili
abbastanza rapidamente. L'aumento della produttività si
traduce infatti in incrementi dei salari e degli altri redditi, che
provocano una più rapida crescita della domanda di beni e
servizi e, per questa via, il riassorbimento della disoccupazione.
L'evoluzione economica effettiva ha visto fasi alterne: a periodi di
disoccupazione prolungata sono succedute fasi di rapidi recuperi
occupazionali. Per lo più, le innovazioni di processo (ad
esempio l'introduzione delle macchine) hanno ridotto i posti di
lavoro nei settori tradizionali; quelle di prodotto (ad esempio
l'introduzione dell'automobile) li hanno aumentati nei settori
nuovi. A seconda della prevalenza dell'uno o dell'altro tipo di
innovazioni, l'andamento dell'occupazione è risultato
crescente oppure decrescente.Stando all'esperienza passata,
l'influenza negativa sull'occupazione dell'aumento della
produttività può durare per periodi anche piuttosto
lunghi. Tuttavia ciò non vuol dire affatto che, per creare
più posti di lavoro, sia opportuno che un paese attui una
politica volta a rallentare la crescita della produttività.
Non solo si verrebbero in tal modo a perdere i benefici di lungo
periodo altrimenti realizzabili, ma si verificherebbero effetti
negativi anche nell'immediato, in quanto si perderebbe rapidamente
competitività nei confronti dei paesi nei quali la crescita
della produttività non fosse rallentata. Conseguentemente, la
produzione interna aumenterebbe di meno, o addirittura calerebbe,
con conseguenze sull'occupazione presumibilmente ancora più
pesanti. L'unica alternativa a un tale esito sarebbe rappresentata
da un freno alla crescita dei salari di dimensione tale da
compensare la più debole dinamica della produttività:
alternativa non piacevole, che per di più potrebbe non essere
praticabile sul lungo periodo. Con molta probabilità,
infatti, le richieste salariali tenderebbero a crescere più
della produttività, e il costo del lavoro aumenterebbe per
unità di prodotto, con preoccupanti conseguenze
inflazionistiche. Come già detto, non si può avere
crescita di lungo periodo delle remunerazioni reali in assenza di
adeguati incrementi della produttività.
A proposito della relazione tra occupazione e produttività,
va anche ricordata un'altra tendenza storicamente importante. In
tutti i paesi sviluppati è risultata notevolmente più
rapida la crescita della produzione per ora lavorata rispetto a
quella per lavoratore occupato. Si è infatti verificata una
forte riduzione delle ore pro capite lavorate annualmente: attorno
alla metà degli anni ottanta del nostro secolo, esse
risultavano pressoché dimezzate rispetto al 1870 negli Stati
Uniti e nell'Europa occidentale, e pari a circa il 70% in Giappone
(v. Maddison, 1991, pp. 270-271). Una parte cospicua dell'aumento
della produttività per occupato non si è dunque
tradotta in maggiori remunerazioni per i lavoratori, ma in maggior
tempo libero (meno ore giornaliere, ferie più lunghe, week
ends non lavorativi, ecc.). Questa tendenza di lungo periodo ha
rappresentato un sostegno molto importante per i livelli di
occupazione che sarebbero altrimenti risultati drammaticamente
più bassi.
8. Crescita della produttività: effetti
strutturali
L'attenzione è stata finora concentrata sulla
produttività del lavoro per l'intero sistema trascurando gli
aspetti settoriali, cosa particolarmente criticabile quando
l'analisi riguarda periodi lunghi. Il processo di sviluppo economico
è infatti caratterizzato da cambiamenti strutturali molto
rilevanti.Innanzitutto si modifica la composizione settoriale delle
produzioni perché, all'aumentare del reddito pro capite, la
domanda che si rivolge ai diversi settori non cresce
proporzionalmente ma varia a tassi tra loro differenti. Altri
cambiamenti strutturali avvengono poi perché la
produttività cresce a velocità diverse nei vari
settori. Questo fenomeno, combinato con la differente crescita delle
produzioni, provoca a sua volta importanti conseguenze sulla
distribuzione settoriale dell'occupazione (v. Pasinetti, 1984).
Infatti, dalla definizione della produttività del settore
i.mo come πi=Yi/Li si può facilmente ottenere
dLi/Li=dYi/Yi-dπi/πi, che mostra come il tasso di crescita
dell'occupazione in un settore sia dato dalla differenza tra i tassi
settoriali di crescita della produzione e della
produttività.Questi effetti strutturali, o di composizione,
possono avere notevole importanza dato che le differenze di livello
e di crescita delle produttività settoriali sono spesso molto
cospicue. Si supponga ad esempio che un rilevante numero di
lavoratori, prima impiegati in settori a produttività
piuttosto bassa, trovi occupazione in settori a produttività
ben superiore alla media: questa aumenterà quindi per un
effetto di composizione. Allo stesso modo la crescita della media
sarà tanto maggiore quanto più elevata sarà la
quota dei lavoratori impiegati nei settori nei quali la
produttività cresce più rapidamente.
Per fissare le idee, supponiamo di dividere il sistema in tre
settori: 1 agricoltura, 2 industria, 3 servizi. La
produttività media del lavoro per l'intero sistema è
data dal rapporto tra la somma delle produzioni settoriali Yi e
l'occupazione totale. Poiché Yi=πiLi, per definizione,
risulta che: cioè che la produttività media del
sistema è data dalla media delle produttività
settoriali ponderata con le rispettive quote di occupazione.
Differenziando logaritmicamente la (14) rispetto al tempo e
ordinando opportunamente i termini, si ottiene: avendo posto La (15)
mostra come la crescita della produttività media possa essere
scomposta nelle due espressioni entro parentesi quadre. La prima
misura l'effetto dei cambiamenti nella struttura della produzione e
della crescita a tassi diversi delle produttività settoriali,
la seconda quello dei cambiamenti nella struttura dell'occupazione
per settori.
Per comprendere le affermazioni appena fatte, si noti innanzitutto
che, avendo denotato con αi la quota di produzione del settore i.mo
sulla produzione globale, si ha Σiαi=1.
Perciò l'espressione della prima parentesi della (15)
è la media ponderata dei tassi di crescita delle
produttività settoriali con pesi dati dalla quota di ciascun
settore sulla produzione complessiva. Se questi pesi variano nel
tempo (se si modifica cioè la struttura produttiva) la
crescita della produttività media del sistema varia anche se
non mutano le crescite settoriali.
Un po' più complicata è l'interpretazione
dell'espressione contenuta nella seconda parentesi. I βi misurano le
differenze relative tra il livello delle produttività
settoriali e quello medio e hanno dunque natura di scarti dalla
media, essendo Σiβi=0. Se ciascun βi fosse uguale allo zero (se non
vi fossero cioè differenze tra le produttività
settoriali) l'espressione della seconda parentesi quadra si
annullerebbe. Lo stesso capiterebbe se l'occupazione dovesse
crescere allo stesso tasso in tutti i settori. Nel primo caso non vi
sarebbe alcuna conseguenza del passaggio di lavoratori da
un'occupazione all'altra; nel secondo il fenomeno potrebbe
riguardare solo i singoli lavoratori e non invece il sistema nel suo
complesso, che non registrerebbe alcun cambiamento nella
distribuzione settoriale dell'occupazione. Questi casi sono
però irrealistici: l'espressione entro parentesi assume
infatti valori positivi o negativi a seconda del tipo di
modificazioni strutturali che avvengono nel sistema.Nei primi
decenni del dopoguerra nei paesi avanzati si è ridotta
notevolmente l'occupazione in agricoltura mentre è aumentata
quella nell'industria e nei servizi. Il divario di
produttività a sfavore dell'agricoltura era piuttosto ampio.
In termini formali, risultavano significativamente negativi dL₁/L₁ e
β₁, e positivi invece gli altri termini contenuti nella seconda
parentesi della (15). L'effetto di composizione esercitava
perciò una rilevante influenza positiva sulla crescita della
produttività media del sistema. Sulla base dei dati di
Maddison (v., 1979) relativi al periodo 1950-1963, si può
calcolare che tale effetto abbia contato per circa il 18% della
crescita complessiva della produttività in Italia, per il 16%
in Francia, per il 15% in Germania. Ha invece contato di meno negli
Stati Uniti e nel Regno Unito, dove la caduta dell'occupazione
agricola era iniziata prima e le differenze di produttività
con altri settori erano meno rilevanti.
Successivamente l'effetto dell'esodo agricolo si è molto
attenuato in Italia ed è scomparso del tutto negli altri
paesi europei e negli Stati Uniti. Maggior importanza, specialmente
negli ultimi tempi, ha invece assunto l'aumento dell'occupazione nei
servizi e la riduzione di quella negli altri settori. Limitandoci al
caso italiano, si può osservare che il livello della
produttività nei servizi risulta (nel 1990) di circa il 7%
superiore a quella media. Il vantaggio sta però riducendosi
sensibilmente poiché, come si è verificato, la
produttività dei servizi cresce in misura molto minore
rispetto a quella degli altri settori (v. Fuà, 1993, parte
III e appendice 2.2). Sussistono tuttavia gravi dubbi
sull'interpretazione dei dati relativi ai servizi la cui misurazione
in unità fisiche avviene sulla base di ipotesi, convenzioni
ed espedienti spesso arbitrari. Per questa ragione Sylos Labini (v.,
1992, p. 15) propone di riservare le misurazioni statistiche alla
produzione di beni, lasciando da parte quella di servizi.In base ai
dati sopra riportati, si può notare come la crescita relativa
dei servizi comporti effetti di segno opposto sulle due componenti
del tasso di crescita racchiuse nelle parentesi della (15). La prima
componente tende infatti a ridursi poiché il peso dei
servizi, a debole crescita della produttività, aumenta. La
seconda ha invece segno positivo, ma il suo valore diminuisce nel
tempo se si riduce il divario tra i livelli delle
produttività settoriali. Secondo i calcoli di Fuà (v.,
1993, p. 156), nel periodo 1964-1975 questa componente ha contato
per circa 1/2 punto percentuale sulla crescita complessiva della
produttività, di poco superiore al 4%. Nel periodo 1982-1990
ha invece contribuito solo per 1/10 di punto su una crescita
pressoché dimezzata, principalmente a causa della forte
riduzione dei tassi di crescita delle produttività in tutti i
settori, servizi in testa.Se le tendenze indicate dovessero
confermarsi per il futuro, cesserebbe l'effetto positivo della
crescita dei servizi, anzi muterebbe di segno, mentre risulterebbe
potenziato quello negativo. I cambiamenti strutturali, che in
precedenza servivano ad accelerare la crescita della
produttività media, verrebbero invece a rallentarla. Nei
paesi più avanzati un'evoluzione di questo tipo si è
già significativamente manifestata.
9. Cause della crescita della produttività
Per spiegare la crescita della produttività globale,
si è cercato di individuare indicatori capaci di spiegare i
miglioramenti qualitativi dei fattori di produzione. Per quanto
riguarda il lavoro, particolare menzione merita l'aumento del
livello di istruzione della manodopera. Denison (v., 1985) ad
esempio ha calcolato che questo aumento ha contato da solo per il
23% della crescita della produttività del lavoro negli Stati
Uniti nel periodo 1948-1979. Per i paesi dell'OECD è stato
calcolato (v. Englander e Gurney, 1994) che ogni anno supplementare
di istruzione determina un incremento di produttività
compreso tra il 5 e il 10%. Considerando che, nel periodo 1960-1987,
in Italia si è avuto un incremento di scolarità di un
po' meno di tre anni, il suo contributo alla crescita annua della
produttività dovrebbe essere risultato nell'ordine di 0,7
punti percentuali, pari ad almeno 1/5 della crescita complessiva.
Per quanto riguarda i miglioramenti qualitativi del capitale, si
è cercato di tener conto del fatto che il macchinario
incorpora la tecnologia prevalente alla data della sua
installazione. I beni capitali sono stati quindi distinti per annate
al fine di attribuire a quelli più recenti una
produttività più elevata (v. Solow, 1960). Le tecniche
di misurazione hanno però suscitato molte obiezioni e sono
state praticamente abbandonate in tempi recenti a favore di
indicatori dell'età media del capitale. A seconda delle
procedure di stima utilizzate, il contributo del ringiovanimento del
macchinario alla crescita della produttività può
apparire trascurabile (v. ad esempio Maddison, 1987) oppure
abbastanza rilevante (v. ad esempio Carré e altri, 1972).Un
contributo aggiuntivo alla crescita della produttività
può derivare dalla migliore utilizzazione di possibili
economie di scala escluse, per ipotesi, nell'impostazione
neoclassica. Secondo stime di Denison (v., 1985), questo contributo
ha pesato per il 17% della crescita della produttività
registrata negli Stati Uniti nel periodo 1948-1979. Maddison (v.,
1987) fornisce invece stime molto più basse, soprattutto
perché distingue l'effetto delle economie di scala in senso
stretto da quello che, a suo parere, dovrebbe essere attribuito
all'aumentato peso del commercio con l'estero, che tuttavia ha
consentito l'ampliamento dei mercati e quindi una più piena
realizzazione delle economie di scala. Per quanto riguarda l'Italia,
sembra che questo effetto sia stato tutt'altro che trascurabile:
pari a oltre il 22% per il periodo 1950-1962 (v. Denison,
1967).L'elenco delle cause potrebbe continuare, ma è forse
opportuno fermarsi a riflettere sul significato delle analisi di
contabilità della crescita. Come è stato detto, la
logica che le guida è quella di individuare indicatori in
grado di ridurre la porzione non spiegata della crescita. La parte
che alla fine rimane inspiegata (il residuo di Solow ridotto), pari
a poco meno della metà del totale secondo la maggior parte
delle analisi, viene poi attribuita all'effetto detto di rincorsa
(catch-up) e al progresso tecnico in senso stretto.L'effetto di
rincorsa riguarda la possibilità che hanno i paesi in ritardo
di produttività di adottare le tecnologie e le forme di
organizzazione produttiva utilizzate negli Stati Uniti. Per separare
questo effetto da quello attribuibile al progresso tecnico, si
assume che quest'ultimo sia, per ogni paese, uguale al residuo di
Solow ridotto, stimato per gli Stati Uniti che non beneficiano di un
effetto di rincorsa. Questa ipotesi, del tutto irrealistica, implica
non solo che il progresso tecnico sia un bene pubblico, usufruibile
dappertutto alle medesime condizioni, ma anche che i diversi paesi
ne usufruiscano nella stessa misura degli Stati Uniti.
L'effetto di rincorsa dovrebbe rappresentare, soprattutto se si
accetta l'ipotesi appena espressa, un'importante spiegazione del
processo di convergenza tra i livelli di produttività dei
paesi avanzati che si è manifestato nel secondo dopoguerra.
Le stime empiriche, pur tra loro abbastanza discordanti, non danno
però questa impressione. L'effetto di rincorsa è
risultato infatti molto più debole di quanto ci si attendesse
per molti paesi avanzati, compresi Giappone e Italia: probabilmente,
è stato sovrastimato qualche altro effetto e ciò ha
determinato la sottostima di quello di rincorsa.Questa affermazione
ha una portata più ampia, in quanto si riferisce alla
difficoltà di separare i contributi dei diversi fattori alla
crescita della produttività. Esistono infatti strette
interdipendenze tra molti dei fattori considerati. Il progresso
tecnico dipende dall'accumulazione di capitale per il già
ricordato effetto di ringiovanimento, ma, a sua volta,
l'accumulazione dipende dalla maggior redditività resa
possibile dal progresso tecnico. Allo stesso modo l'istruzione
permette alla manodopera di sfruttare più adeguatamente le
potenzialità offerte dalle nuove tecnologie che, a loro
volta, influenzano il tipo di istruzione, la sua qualità e le
modalità dell'apprendimento.
Alla difficoltà provocata da queste e altre interrelazioni,
se ne può aggiungere una ancora più importante.
L'intera procedura di stima porta infatti a far considerare il
contributo del progresso tecnico alla crescita della
produttività come del tutto esogeno, come un beneficio
cioè che non deriva da particolari decisioni economiche
né da condizioni generali più o meno propizie
all'attuazione delle innovazioni e alla loro diffusione. Le
decisioni di investire in ricerca e sviluppo maggiori o minori
quantità di risorse, per introdurre nuovi beni o processi, o
migliorare quelli vecchi, dipendono però da valutazioni di
convenienza economica che sono influenzate dalle caratteristiche
istituzionali e socioeconomiche dei singoli paesi: ambiente
culturale, velocità di adattamento ai cambiamenti
strutturali, mobilità sociale, funzionamento delle
istituzioni politiche ed economiche, sostegno pubblico alla ricerca
e alla diffusione delle nuove tecnologie, esistenza di
infrastrutture, ecc. Sotto questi aspetti si riscontrano differenze
molto marcate anche tra i diversi paesi avanzati e non solo tra
questi e quelli in via di sviluppo.
Le indagini empiriche sulle cause della crescita della
produttività nell'intero sistema economico, pur apprezzabili
per la mole di dati, non hanno dunque tenuto conto di fattori
esplicativi di notevole importanza. Innanzitutto, l'impostazione
neoclassica le ha costrette entro binari molto rigidi trascurando
gli aspetti socioistituzionali e l'importanza delle imperfezioni di
mercato. Inoltre, la formulazione aggregata si è dimostrata
inadatta all'analisi del progresso tecnico, non solo a causa delle
modificazioni strutturali che esso provoca ma, e forse
principalmente, per la difficoltà di valutare i nuovi beni e
servizi incessantemente introdotti. Soprattutto, nelle analisi volte
a interpretare il processo di convergenza dei livelli di
produttività tra i diversi paesi, è stata trascurata
la considerazione di tutti quei fattori culturali, socioeconomici e
istituzionali che Abramovitz (v., 1986 e 1989) ha indicato con
l'espressione "capacità sociale" (social capability) di
assorbire le tecnologie avanzate. Una miglior comprensione
dell'andamento temporale della produttività sembra richiedere
sia modificazioni dell'impostazione e delle procedure di stima, sia
un'attenta considerazione degli importanti fattori trascurati.