Enciclopedia delle Scienze sociali (1996)
di Jan A. Kregel
Occupazione
sommario: 1. Definizione e significati del
concetto. 2. Pauperismo e disoccupazione tra XVI e XIX secolo: la
Poor law e il sistema di Speenhamland; le proposte di filosofi e
riformatori sociali. 3. L'occupazione nella teoria economica: da
Ricardo a Keynes. 4. Tendenze della politica economica e nuovi
sviluppi teorici dal secondo dopoguerra a oggi. □ Bibliografia.
1. Definizione e significati del concetto
Nel linguaggio comune il termine 'occupazione' designa l'uso o il
possesso di qualcosa, oppure l'essere impegnati, coinvolti in
qualche attività (dal latino capere, 'prendere' qualcosa).
Gli economisti in generale hanno imposto un'accezione più
ristretta del termine, più vicina a quella di 'impiego' (dal
latino implicare, 'essere coinvolti' in qualcosa, che è la
radice dell'equivalente inglese di 'occupazione', employment), per
indicare lo scambio contrattuale in cui il lavoratore vende
all'imprenditore il proprio lavoro in cambio di una remunerazione
che prende il nome di 'retribuzione' o 'salario'. Diversamente da
quanto accade nel sistema schiavile, in questo caso sono le
prestazioni lavorative dell'individuo, e non l'individuo stesso, a
essere 'impegnate' o 'occupate' sotto i termini del contratto.
Quando tale 'impegno' presenta una certa regolarità, o
è garantito da un accordo contrattuale, 'occupazione' diventa
sinonimo di 'lavoro', 'impiego'. Il tipo di prestazioni lavorative
che devono essere erogate, la remunerazione che spetta al lavoratore
e la durata del contratto specificati nell'accordo contrattuale
variano notevolmente a seconda del periodo storico e dei tipi di
impiego. Ad esempio, il contratto può stabilire l'estensione
e la distribuzione temporale della prestazione lavorativa, i
risultati che devono essere conseguiti dal lavoratore, le operazioni
o le azioni esatte che devono essere compiute, o può
semplicemente prescrivere di attenersi alle istruzioni impartite dal
datore di lavoro o da chi lo rappresenta. Il salario, o
retribuzione, può essere calcolato in vari modi: per
unità di tempo, ossia in base alle ore complessive di lavoro
e alla loro distribuzione nell'arco della giornata (fascia diurna o
notturna) e della settimana (giorni feriali o festivi), per
unità di prodotto (cottimo), o in proporzione alle vendite
del prodotto (provvigione). La retribuzione può essere
corrisposta sotto forma di partecipazione ai prodotti o ad altri
beni e servizi (vitto e alloggio), oppure può essere espressa
in termini di unità monetaria o di altri mezzi di pagamento
(come ad esempio buoni o titoli d'acquisto convertibili in beni
presso gli esercizi commerciali dell'azienda).
Gli acquirenti delle prestazioni lavorative saranno altri individui
o gruppi di individui organizzati in imprese, i quali possono
utilizzare tali prestazioni o per il proprio beneficio personale,
considerando il loro uso come una qualsiasi altra spesa in consumi,
oppure per la produzione di beni o servizi, con la prospettiva di
poterne più che compensare il costo d'acquisto. Poiché
l'acquisto di lavoro per il proprio consumo personale di solito
richiede un reddito da ricchezza accumulata, e il suo impiego per
scopi produttivi in genere richiede il possesso di un capitale, gli
acquirenti sono perlopiù redditieri o capitalisti che
utilizzano le proprie ricchezze, oppure imprenditori che si fanno
anticipare i capitali da questi ultimi o dalle banche; a volte
però può trattarsi di individui che utilizzano il
proprio reddito da lavoro, ad esempio per assumere un aiuto
domestico oppure una persona che si prenda cura dei figli nel caso
di genitori che lavorano entrambi fuori casa.
L'esistenza generalizzata di un mercato del lavoro richiede dunque
che vi siano individui il cui unico mezzo per assicurarsi la
sussistenza è la vendita del proprio lavoro, oppure che
scelgono di vendere le proprie prestazioni lavorative anziché
acquistare quelle di altri, organizzandole per produrre un reddito
addizionale non da lavoro, o anziché produrre per il proprio
consumo. Di conseguenza nelle società tribali non esisteva
'occupazione', né i servi e i contadini dell'epoca feudale
erano 'impiegati' alle dipendenze del signore feudale. Di
occupazione si può parlare solo a partire dalla rivoluzione
industriale, con l'introduzione della produzione capitalistica nelle
fabbriche.
Un prerequisito essenziale dell'occupazione nel senso sopra definito
è quindi l'esistenza di una classe di lavoratori liberi che
cercano di assicurarsi la sussistenza con i frutti del proprio
lavoro. Ovviamente ciò presuppone che all'individuo sia
riconosciuto il diritto di disporre liberamente della propria
persona e del proprio lavoro. In Europa ciò avvenne con
l'abolizione della schiavitù e sotto l'influenza dei filosofi
illuministi, che si rifacevano alle teorie di John Locke, secondo il
quale ogni individuo ha un diritto naturale di proprietà
sulla propria persona nonché "sul lavoro del proprio corpo e
l'opera delle sue mani". Ma perché potesse nascere un mercato
del lavoro non era sufficiente il riconoscimento del diritto di
vendere le proprie prestazioni lavorative; fintantoché
l'individuo era in grado di mantenersi con il proprio lavoro poteva
esserne egli stesso l'acquirente, come avveniva nella produzione
artigianale o nell'agricoltura di sussistenza.
La vendita generalizzata di prestazioni lavorative da parte di una
classe di lavoratori liberi presuppone che non vi sia l'alternativa
del lavoro autonomo. In Inghilterra le enclosures delle terre
comuni, che avevano fornito i mezzi di sussistenza a una classe di
'uomini liberi', contribuirono in maniera decisiva alla formazione
di una classe di persone la cui sopravvivenza dipendeva dalla
vendita del proprio lavoro. Tale processo fu ulteriormente favorito
dai progressi tecnici nell'agricoltura, che ridussero la
quantità di manodopera necessaria per lavorare la terra, e
dal sistema del maggiorascato, che accrebbe il numero dei cadetti
senza proprietà terriere. La domanda di lavoro aumentò
a seguito dell'introduzione delle macchine - dapprima idrauliche e
in seguito a vapore - nelle fabbriche e nelle miniere. Nello stesso
tempo l'applicazione estensiva della divisione del lavoro e la
crescente specializzazione delle mansioni lavorative comportò
una perdita delle abilità generali richieste dalla produzione
artigianale o di sussistenza. Il concetto di 'occupazione' come
scambio contrattuale mediante il quale una classe di lavoratori
liberi vende le proprie prestazioni in cambio di una retribuzione
è dunque direttamente legata all'introduzione della
produzione capitalistica nel corso della rivoluzione industriale.
2. Pauperismo e disoccupazione tra XVI e XIX
secolo: la Poor law e il sistema di Speenhamland; le proposte di
filosofi e riformatori sociali
Sin dagli inizi dell'età moderna è esistito il
problema della disoccupazione per quella classe di individui la cui
sussistenza dipende dalla vendita del proprio lavoro.
L'entità del problema venne riconosciuta per la prima volta
verso la prima metà del XVI secolo in Inghilterra, con la
comparsa di masse di contadini non più legati al manor
né ad alcun superiore feudale; la loro graduale
trasformazione in una classe di lavoratori liberi fu il risultato
combinato delle severe misure contro il vagabondaggio e dello
sviluppo dell'industria domestica, incoraggiato dalla rapida
espansione del commercio estero. Alla fine del XVI secolo questa
massa crescente di poveri era diventata un notevole problema
pubblico. All'epoca veniva definito 'povero' chiunque non possedesse
un reddito derivato dal capitale o dalla terra che gli consentisse
di vivere senza lavorare, ossia tutti coloro che non erano gentlemen
(nel senso appunto di 'redditieri'). Non sussisteva dunque alcuna
differenza tra la povertà di chi era senza lavoro e la
povertà di quanti percepivano salari al di sotto del livello
di sussistenza.
Per far fronte al problema del pauperismo si pensò di
costituire un fondo per l'assistenza attraverso le 'tasse dei
poveri' (Poor rates), istituite nel 1572. Ma già una legge
del 1575, che prescriveva di fornire "ai poveri e ai bisognosi" un
quantitativo di lana da filare e da porre in vendita per provvedere
al loro sostentamento, segnalava una tendenza a passare dal welfare
al cosiddetto workfare, ossia dall'assistenzialismo alla
rieducazione al lavoro. Anche la Poor law del 1601 prescriveva di
fornire lavoro ai bambini e a "tutte quelle persone sposate o meno"
che non possedevano "i mezzi per mantenersi" o non avevano
un'occupazione stabile che consentisse loro di guadagnarsi da
vivere, al fine di autofinanziare le misure assistenziali
utilizzando manodopera disoccupata per la produzione di beni da
mettere in commercio.
Oltre a intraprendere queste misure per favorire l'occupazione, lo
Stato interveniva anche nella determinazione dei salari. I primi
controlli diretti dei salari vennero istituiti dopo l'epidemia di
peste del XIV secolo, con l'introduzione di particolari statuti
mirati a limitare l'aumento eccessivo dei salari causato dalla
scarsità di manodopera. Nel 1563 lo Statuto degli artigiani
prevedeva forme di lavoro coatto per i poveri e stabiliva un minimo
di sette anni di apprendistato per l'esercizio di "qualsiasi arte o
mestiere o lavoro manuale", affidando a un gruppo di funzionari
locali il compito di stabilire i massimi salariali. Le
regolamentazioni di questo Statuto erano estremamente dettagliate:
venivano stabiliti gli orari di lavoro ("dovranno essere al lavoro
alle cinque del mattino o prima, e continuare a lavorare sino alle
sette e mezza della sera, tranne che nelle pause per la colazione,
per la cena o per bere, che non dovranno superare le due ore e mezzo
al giorno") e il tipo di lavoro ("scavare un fossato di 16 piedi e
mezzo di lunghezza, 3 piedi di profondità e 5 piedi di
larghezza su un terreno di ghiaia o sassi, trasportare sul medesimo
due casse di piante ed erigere una siepe di recinzione, ricevendo
per ogni tratto di siepe della lunghezza di una pertica, eseguito
senza interruzioni per mangiare e per bere, non oltre 6 pence": cfr.
A.E. Bland, P.A. Brown, R.H. Tawney, English economic history:
selected documents, London 1921, pp. 327 e 346).
Durante il XVII secolo l'idea che i poveri fossero semplicemente
degli oziosi idonei al lavoro lasciò il posto alla
convinzione che il problema del pauperismo fosse la conseguenza di
una errata organizzazione della società. Nel 1660 un
quacchero di nome Lawson pubblicò un 'Appello al Parlamento'
in cui si proponeva di favorire la mobilità dei lavoratori
attraverso la creazione di un sistema di agenzie pubbliche di
collocamento. Per tutta risposta, il governo della Restaurazione
emanò nel 1662 l'Act of settlement and removal che andava in
direzione esattamente opposta, vincolando i poveri alla parrocchia
locale, fondamentalmente al fine di evitare la concorrenza tra i
sistemi assistenziali delle diverse parrocchie. Così, per far
fronte al problema dell'assistenza ai poveri si adottò la
soluzione di regolamentare la vita di individui liberi, obbligandoli
ad accettare un'occupazione nelle case di lavoro e privandoli di
ogni libertà di scegliere il tipo di lavoro per sé e
per i propri figli, il salario per il quale lavorare, e il luogo in
cui risiedere.
Nel 1696 John Bellers propose di istituire dei 'collegi
manifatturieri' (colleges of industry) con lo scopo di sfruttare
l'ozio involontario dei poveri per usi produttivi. Lo scopo non era
tanto quello di facilitare la ricerca di un datore di lavoro, quanto
piuttosto di suggerire che quest'ultimo sarebbe diventato superfluo
se i lavoratori avessero potuto scambiare direttamente i beni da
loro prodotti. Poiché, secondo Bellers, "il lavoro dei poveri
è la miniera dei ricchi", essi avrebbero potuto lavorare
autonomamente, tenendo per sé i profitti. A questo scopo si
sarebbe dovuto creare un 'collegio' o corporazione in cui i poveri
avrebbero unito solidalmente i loro sforzi e avrebbero fatto "del
lavoro, e non del denaro, il criterio con cui valutare tutti i beni
di prima necessità". I lavoratori, trecento per ogni
collegio, avrebbero lavorato collettivamente per la semplice
sussistenza, ricevendo però una remunerazione per tutto
ciò che avrebbero prodotto in più. La proposta di
Bellers era destinata a ispirare tutta una serie di progetti, dai
villaggi cooperativi di Robert Owen, ai falansteri di Fourier, alle
banche di scambio basate sul valore del lavoro di Proudhon, agli
ateliers nationaux di Louis Blanc, agli Stati nazionali del lavoro
di Lassalle. Sempre nel 1696, John Cary fondò la Bristol
Corporation for the Poor. L'iniziativa ebbe un momentaneo successo,
ma al pari di tutte le altre imprese di questo genere non produsse
alcun profitto (v. Polanyi, 1944).
Nel XVIII secolo il dibattito si spostò sull'introduzione di
minimi salariali come misura di sostegno per i lavoratori poveri.
Nel 1795 i giudici di pace della contea di Berkshire, riunitisi a
Speenhamland, decisero all'unanimità che "l'attuale
situazione dei poveri richiede una maggiore assistenza di quella che
in generale sinora è stata loro fornita. [...] I magistrati
decretano [...] di aumentare la paga dei lavoratori in proporzione
al prezzo corrente dei generi di prima necessità [...] e di
assegnare dei sussidi in base ai seguenti calcoli a tutti gli uomini
poveri e industriosi e alle loro famiglie [...]. Ciò vale a
dire, quando la pagnotta da un gallone di farina di seconda scelta,
del peso di 8 libbre e 11 once, costerà uno scellino, allora
ogni individuo povero e industrioso dovrà avere per il suo
sostentamento 3 scellini alla settimana, o sotto forma di guadagno
del lavoro suo o della sua famiglia, oppure sotto forma di sussidio
proveniente dalle tasse dei poveri [...] e così in
proporzione, a seconda che il prezzo del pane salga o scenda, (vale
a dire), 3 pence per l'uomo e 1 penny per ogni altro membro della
famiglia, per ogni aumento di un penny oltre lo scellino del prezzo
della pagnotta". Il sistema di Speenhamland alla fine venne adottato
in tutta l'Inghilterra, garantendo ai lavoratori il minimo salariale
stabilito dalla legge attraverso integrazioni finanziate con denaro
pubblico. Tale sistema prevedeva anche una sorta di assegni
familiari, ed eliminava la necessità di accettare
un'occupazione nelle case di lavoro locali; esso tuttavia non
forniva alcun incentivo alle imprese affinché pagassero
perlomeno i salari di sussistenza, né incentivava i
lavoratori ad aumentare la propria produttività, dato che il
minimo salariale era garantito comunque. Il sistema di Speenhamland
fu introdotto in un momento in cui il numero dei poveri nei villaggi
era in costante aumento a seguito della concorrenza del commercio
straniero e dell'introduzione delle macchine a vapore nelle
industrie manifatturiere.
Nel 1834 la Commissione per la Poor law cercò di eliminare
quello che era di fatto un sussidio alle imprese, proponendo di
adottare un sistema uniforme di assistenza che avrebbe dovuto essere
fornita solo 'dall'interno', attraverso l'occupazione nelle case di
lavoro, in modo da abolire i sussidi 'esterni' introdotti col
sistema di Speenhamland. Le spese crescenti che questo aveva
ingenerato furono all'origine di una delle prime proposte di
'privatizzare' l'assistenza ai poveri.Bentham, che si riteneva
avesse determinato con le sue critiche il ritiro del progetto di
riforma globale della Poor law presentato da Pitt, avanzò una
serie di proposte miranti a sfruttare la manodopera dei poveri per
azionare i macchinari della sua manifattura per la lavorazione della
lana e dei metalli. L'idea di Bentham era semplicemente quella di
estendere il progetto panottico da lui ideato per la costruzione dei
penitenziari a una fabbrica in cui la manodopera fosse costituita da
poveri anziché da carcerati. Lo sfruttamento del lavoro dei
poveri avrebbe dovuto essere organizzato secondo il modello dello
Statuto della Banca d'Inghilterra, con la sottoscrizione di azioni
con diritto di voto. Un testo pubblicato pochi anni dopo proponeva
di affidare "la gestione dell'assistenza ai poveri in tutta la Gran
Bretagna meridionale [...] a un'unica autorità", usando il
denaro di un unico fondo. L'autorità in questione, quella di
una società di capitali che avrebbe potuto assumere una
denominazione del tipo National charity company, avrebbe dovuto
costruire non meno di 250 case di lavoro per circa 500.000 poveri.Il
progetto era accompagnato da un'analisi dettagliata delle varie
categorie di disoccupati, in cui Bentham anticipava di oltre un
secolo i risultati di altre indagini in questo campo. La categoria
dei disoccupati che erano stati licenziati di recente era distinta
da quella di coloro che non riuscivano a trovar lavoro a seguito di
una "stagnazione occasionale"; la "stagnazione periodica" che
colpiva la manodopera stagionale era distinta dalla disoccupazione
causata dall'introduzione nelle fabbriche delle macchine che si
sostituiscono alla manodopera - ossia, in termini moderni, dalla
cosiddetta 'disoccupazione tecnologica'; vi erano poi i militari in
congedo, un'altra categoria moderna che aveva acquistato importanza,
all'epoca di Bentham, a seguito della guerra con la Francia. La
categoria più significativa, comunque, era quella dei
disoccupati a seguito di una "stagnazione occasionale", che
includeva non solo artigiani e artisti che esercitavano mestieri
"dipendenti dalla moda", ma anche il gruppo assai più
importante dei disoccupati a causa di una "stagnazione generale
delle manifatture". I progetti di Bentham cercavano semplicemente di
eliminare il pauperismo attraverso una commercializzazione privata
della disoccupazione (v. Polanyi, 1944).
Nel 1819 Robert Owen riscoprì la vecchia idea di Bellers dei
colleges of industry e presentò un progetto analogo per
risolvere il problema della disoccupazione; sebbene tra i componenti
della Commissione incaricata di raccogliere sottoscrizioni figurasse
anche David Ricardo, nessun finanziatore si fece avanti. La stessa
sorte toccò al progetto dei falansteri di Charles Fourier,
basato su idee analoghe, che non riuscì a trovare alcun
sostenitore. Owen fu più fortunato con le riforme intraprese
nell'opificio di New Lanark, impresa cui partecipò anche
Jeremy Bentham in qualità di socio non attivo. A un totale
insuccesso andò incontro invece il tentativo compiuto da Owen
nel 1832 di realizzare, con il National Equitable Labor Exchange,
l'idea di Bellers di uno scambio di beni fondato sul valore del
lavoro. Un'altra idea di Bellers, quella dell'autosufficienza della
classe lavoratrice, fu alla base di un'iniziativa delle
organizzazioni sindacali mirata a creare un'associazione generale di
tutte le arti e i mestieri, senza escludere i piccoli imprenditori,
con il vago obiettivo di farne un'unica società indipendente
e autosufficiente. All'esperimento di Owen si ispirò Proudhon
nel creare la Bank of Exchange, una banca di scambio basato sul
valore del lavoro. Marx schernì le idee di Proudhon e da
allora, così come era stato proposto nell'emendamento del
1578 alla Poor law originale, si affermò l'idea che toccava
allo Stato il compito di fornire i capitali, anziché la lana
per filare, per realizzare progetti collettivistici quali quelli di
Louis Blanc e di Lassalle. I germi del socialismo scientifico di
Marx erano già presenti nell'idea secondo cui il pauperismo
si poteva risolvere se solo si fosse potuto trovare un datore di
lavoro e se i poveri, adeguatamente guidati, avessero potuto
svolgere un lavoro autonomo, liberandosi con ciò dal bisogno
e dalla dipendenza dal lavoro salariato (v. Polanyi, 1944).
Non erano mancati gli scettici i quali avevano messo in dubbio la
possibilità di ricavare un qualche profitto dall'occupazione
dei poveri. In un pamphlet pubblicato nel 1704 Daniel Defoe sostenne
che se i poveri avessero ricevuto un sussidio senza essere costretti
a lavorare, non sarebbero più stati disposti a occuparsi in
cambio di un salario, mentre se fossero stati impiegati nelle case
di lavoro per produrre merci con salari sussidiati, sarebbero
entrati in concorrenza con gli operai delle imprese private
causandone la disoccupazione. Il pamphlet concludeva quindi che
"fare l'elemosina non è un atto di carità, e dar
lavoro ai poveri è un torto alla nazione". Questa tesi fu
resa popolare dalla famosa favola di Mandeville sulle api raffinate
che prosperano incoraggiando il vizio e lo spreco.In queste
discussioni emergeva un generale consenso su due punti: la
desiderabilità di una popolazione numerosa - poiché il
potere dello Stato si basa sui cittadini che lavorano - e la
necessità di una manodopera a basso costo affinché le
imprese possano essere produttive. Sembrava dunque ovvio che si
sarebbe potuto fare a meno dell'assistenza ai poveri se questi
fossero stati vantaggiosamente impiegati per il profitto pubblico
così come lo erano per il profitto privato. Le soluzioni
avanzate per risolvere il problema del pauperismo si basavano quindi
sull'idea che un'organizzazione appropriata del lavoro dei
disoccupati avrebbe prodotto un surplus da distribuire o tra gli
azionisti, secondo il progetto di Bentham, o tra i lavoratori
stessi, secondo quello di Owen. Ciononostante l'onere
dell'assistenza ai poveri continuò ad aumentare. Nei 120 anni
che separano Bellers da Owen la popolazione triplicò, mentre
il costo dell'assistenza ai poveri aumentò di ben venti
volte. Il problema principale non era più quello di alleviare
il pauperismo fornendo lavoro ai poveri, bensì quello di
alleviare i contribuenti dagli oneri del pauperismo.
3. L'occupazione nella teoria economica: da
Ricardo a Keynes
Verso la fine del Settecento il problema del pauperismo
cominciò ad attirare l'attenzione degli economisti oltre che
dei riformatori sociali e dei filosofi. Nel 1776 Adam Smith
pubblicò la Ricchezza delle nazioni. Basandosi sull'idea che
la domanda di manodopera può provenire solo da chi possiede
capitali propri o può prenderli in prestito, Smith
avanzò la tesi secondo cui il livello dell'occupazione
sarebbe determinato dai "fondi destinati al pagamento dei salari",
dati i tassi salariali che all'epoca erano ancora soggetti alla
regolamentazione statale. Da questa idea scaturì la
cosiddetta 'teoria del fondo salari', secondo la quale esisterebbe
una quota fissa del capitale accumulato destinata all'assunzione di
manodopera. Tale fondo può essere utilizzato per aumentare o
i salari o il numero dei lavoratori occupati. Chiaramente, se il
fondo salari è fisso, il numero dei lavoratori può
aumentare soltanto attraverso la riduzione dei salari; esiste
tuttavia un limite a tale riduzione, dal momento che i salari non
possono essere inferiori al livello minimo di sussistenza necessario
alla riproduzione della forza lavoro.
Un anno dopo l'entrata in vigore delle integrazioni salariali
previste dal sistema di Speenhamland, Thomas Malthus pubblicò
il suo Saggio sul principio della popolazione, in cui affermò
che il pauperismo era l'effetto di una legge di natura, ossia del
divario strutturale crescente tra mezzi di sussistenza e
popolazione, in quanto i primi crescono in proporzione aritmetica
mentre la seconda cresce in proporzione geometrica; la
povertà, di conseguenza, è destinata inevitabilmente
ad aumentare. Riecheggiando le idee di Defoe, Malthus sostenne che
le misure assistenziali erano nel migliore dei casi un palliativo
illusorio, incapace di risolvere il problema alle radici. Nassau
Senior, sostenitore della teoria del fondo salari e membro della
Commissione per la riforma della Poor law, affermò che le
tasse dei poveri di fatto non facevano che peggiorarne la
situazione, in quanto riducevano il fondo salari destinato alla
retribuzione dei lavoratori; nel migliore dei casi avrebbero
lasciato invariati i redditi totali (salari più sussidi). Sia
per Malthus che per Nassau, l'intervento statale non avrebbe potuto
alterare in modo permanente le leggi di natura, né le
dimensioni del fondo salari. Ogni tentativo di eliminare il
pauperismo consentendo un aumento dei salari al di sopra del livello
minimo di sussistenza avrebbe avuto come unica conseguenza una
crescita eccessiva della popolazione, e quindi dei lavoratori, che
sarebbero entrati in concorrenza tra loro determinando nuovamente
una riduzione dei salari al livello di sussistenza e un incremento
della povertà.
Gli economisti meritavano pienamente la loro reputazione di cultori
di una 'triste scienza'. In base a tali argomenti, la sospensione
delle integrazioni salariali introdotte dal sistema di Speenhamland
non avrebbe peggiorato ulteriormente la situazione dei poveri,
mentre avrebbe alleviato quella dei contribuenti che formavano la
popolazione attiva. Come unica alternativa restava la riduzione
della crescita della popolazione o attraverso l'astinenza -
soluzione per la quale optò alla fine Malthus - o attraverso
programmi statali di controllo delle nascite - come proposero alcuni
economisti liberali, da John Stuart Mill a Knut Wicksell.
Nonostante le riforme, l'assistenza ai poveri continuò ad
aumentare e nel 1905 venne nominata un'altra Commissione per la
riforma della Poor law. Essa riconobbe la possibilità di una
carenza strutturale di occupazione, e pose le basi per
l'approvazione, nel 1948, del Piano Beveridge per la previdenza
sociale. Il problema dell'occupazione restava dunque legato a quello
della povertà e di altre forme di ineguaglianza sociale.
L'introduzione implicita di un sistema di salari fissi attuata a
Speenhamland sollevava il problema degli incentivi al lavoro e del
rapporto tra salari e produttività del lavoro. All'inizio del
secolo era generalmente accettata l'idea che salari più
elevati potessero incrementare la produttività dei lavoratori
e quindi la domanda di lavoro, indipendentemente dalle dimensioni
del 'fondo salari'. La teoria del fondo salari venne dunque
abbandonata e si preferì parlare di un 'flusso dei salari'
determinato dai rendimenti attesi dall'impiego di manodopera.
Ciò aprì la strada all'applicazione dei principî
marginalisti all'analisi dell'occupazione. La decisione di abolire
il sistema di Speenhamland ebbe l'effetto di creare ciò che
gli economisti definiscono un libero mercato del lavoro, svincolando
i salari dalla regolamentazione statale ed eliminando le restrizioni
poste alla mobilità dei lavoratori. La teoria del fondo
salari venne abbandonata e gli economisti cominciarono ad analizzare
il 'mercato' della merce 'lavoro', considerata alla stregua di
qualsiasi altro tipo di bene o servizio.Il problema della
povertà venne trasformato nel problema di un eccesso di
offerta sul mercato del lavoro. Il problema di creare occupazione
per eliminare la povertà venne trasformato nel problema di
spiegare perché il mercato di concorrenza perfetta non
elimina automaticamente la disoccupazione, ossia l'offerta in
eccesso di individui che cercano di vendere le proprie prestazioni
di lavoro in cambio di un salario. Così come il problema del
pauperismo aveva afflitto il XVII e il XVIII secolo, quello della
disoccupazione avrebbe afflitto i due secoli successivi.
Nella prospettiva marginalista, le cause della disoccupazione vanno
ricercate in una eccedenza dell'offerta di lavoro, piuttosto che in
una insufficienza della domanda. Le leggi della domanda e
dell'offerta operanti sul mercato dei beni, infatti, sarebbero
direttamente applicabili anche al mercato del lavoro. Se vi è
un eccesso di offerta di un certo tipo di bene, ciò comporta
un abbassamento dei prezzi sino a quando i produttori non si
orienteranno verso altri prodotti per i quali le condizioni della
domanda sono migliori, attirando nuovi compratori. Questo processo
di sostituzione nella produzione e nel consumo dovrebbe continuare
sino a che offerta e domanda si equilibrano al prezzo di mercato. Il
mancato verificarsi di questa condizione di equilibrio significa o
che la discesa dei prezzi è stata bloccata, o che il processo
di sostituzione è stato ostacolato. Applicando la stessa
analisi alla merce lavoro, è evidente che la disoccupazione
è dovuta o al fatto che si è impedito il funzionamento
del meccanismo del libero mercato, o alla mancata diminuzione dei
salari, oppure a una insufficiente flessibilità dei
lavoratori che non si orientano verso occupazioni alternative o non
si adattano alle condizioni di lavoro esistenti. In breve, se vi
è un eccesso di offerta, ciò è dovuto a una
condizione di concorrenza imperfetta sul 'mercato del lavoro'. Le
riforme della Poor law cercarono di porre rimedio a questa
condizione eliminando ogni forma di integrazione e di sostegno dei
salari.I risultati cui conduceva l'analisi marginalista non erano
quindi molto diversi da quelli cui perveniva la teoria del fondo
salari: a un aumento dell'occupazione doveva corrispondere una
diminuzione dei salari. Dato lo stock di beni capitali, l'impiego di
quantità di lavoro addizionali dà luogo a un
incremento della produzione in quantità marginali
decrescenti. Per l'impresa il profitto sarà massimizzato a
quel livello di occupazione in cui l'incremento marginale della
produzione apportato dall'impiego di quantità addizionali di
lavoro eguaglia il costo reale del salario che l'impresa paga per
esso. La massimizzazione del profitto implica dunque che la domanda
di lavoro sia una funzione decrescente del tasso dei salari reali.
L'offerta di lavoro d'altro canto è determinata dalla
massimizzazione dell'utilità da parte del lavoratore, che
attribuisce utilità negativa al lavoro e utilità
positiva al tempo libero. La massimizzazione dell'utilità
implica che l'offerta di lavoro è una funzione crescente del
saggio del salario reale quando il lavoro è sostituito con il
tempo libero. Il saggio del salario reale allora eguaglia l'offerta
e la domanda di lavoro, e determina il livello di
produttività. Il fattore più importante è la
preferenza dei lavoratori tra lavoro e tempo libero, perché
una preferenza decrescente per il tempo libero, rappresentata dalla
disponibilità a lavorare per salari reali inferiori,
determinerà un orientamento verso destra della curva
dell'offerta e un maggior livello di occupazione e di produzione
quando la curva della domanda interseca quella dell'offerta a un
livello del salario reale inferiore. Sulla base di questa analisi,
il fenomeno della disoccupazione andrebbe ricondotto unicamente alla
preferenza dei lavoratori per il tempo libero, poiché un
orientamento delle preferenze verso il lavoro comporterebbe un
aumento automatico dell'occupazione. La domanda di lavoro è
determinata principalmente dalle condizioni tecniche, rappresentate
dal capitale investito, da cui dipendono i coefficienti tecnici di
produzione; questi sono alla base della relazione inversa tra
impiego di unità addizionali di lavoro e aumento della
produzione, espressa dalla legge dei rendimenti decrescenti. Solo
uno sconvolgimento di questa relazione causato da shocks tecnologici
potrebbe causare uno spostamento della curva della domanda, ma
finché i lavoratori sono liberi di scegliere tra lavoro e
tempo libero, ogni riduzione della domanda di lavoro causata da un
incremento della produttività del capitale o da una
diminuzione della produttività del lavoro potrebbe essere
compensata solo da una riduzione dei salari reali e da un incremento
del numero dei lavoratori che scelgono di beneficiare di tempo
libero addizionale. Di conseguenza, le principali cause della
disoccupazione andrebbero ricercate dal lato dell'offerta sul
mercato del lavoro.
Marshall fu tra i primi economisti moderni a mettere in dubbio la
tesi secondo cui la determinazione dei salari sul mercato del lavoro
avviene secondo le stesse leggi della domanda e dell'offerta che
determinano i prezzi di mercato dei beni. Il processo di
contrattazione che determina i prezzi in un mercato concorrenziale
richiede un equilibrio approssimativo di forze tra il lato
dell'offerta e quello della domanda. Riprendendo una tesi che si
può ritrovare già in Adam Smith, Marshall
osservò che "quando un lavoratore rischia la fame, il suo
bisogno di denaro [l'utilità marginale che questo ha per lui]
è molto grande; e se all'inizio ha la peggio nella
contrattazione, ed è costretto ad accettare un salario basso,
il suo bisogno resta grande, ed egli può continuare a vendere
il proprio lavoro a un salario basso. Ciò è tanto
più probabile in quanto, mentre nel mercato dei beni il
potere contrattuale è quasi sempre ben distribuito tra il
lato dell'offerta e quello della domanda, sul mercato del lavoro
è assai più spesso dalla parte dei compratori.
Un'altra differenza tra il mercato del lavoro e il mercato delle
merci è data dal fatto che in questo caso ogni venditore di
forza lavoro dispone di una sola unità di lavoro. Questi due
fattori, assieme a numerosi altri, spiegano in gran parte
l'istintiva avversione che le classi lavoratrici dimostrano nei
confronti dell'abitudine di certi economisti, in particolare di
quelli appartenenti alla classe degli imprenditori, di considerare
il lavoro come una qualsiasi altra merce, e il mercato del lavoro
come qualsiasi altro mercato; laddove di fatto le differenze tra i
due, per quanto non essenziali dal punto di vista della teoria, sono
nondimeno assai nette, e sul piano pratico spesso di grande
importanza." (v. Marshall, 1920⁸, pp. 335-336).
Può dunque esservi una tendenza a fissare i salari al di
sotto del livello di equilibrio, ma ciò implicherebbe un
eccesso di domanda e di conseguenza non dovrebbe esservi
sottoccupazione. Marshall chiaramente condivideva le preoccupazioni
di Smith in merito alla forza contrattuale delle imprese, ma via via
che le organizzazioni sindacali diventavano più forti ed
erano in grado di esercitare una maggiore influenza sulle decisioni
relative all'offerta di lavoro - configurandosi come un 'potere
controbilanciante', per usare la definizione di Galbraith - la
contrattazione sul mercato del lavoro venne considerata
sostanzialmente più equilibrata. Non si affermò
più allora che i salari erano troppo bassi, bensì che
le organizzazioni sindacali tendevano a difendere livelli salariali
eccessivamente alti, determinando così una riduzione della
domanda di lavoro e una condizione di sottoccupazione. In entrambi i
casi la causa del problema veniva individuata nel mancato
funzionamento delle forze del libero mercato nella determinazione
dei salari.
Il famoso studio di W.H. Beveridge, pubblicato nel 1902, si basava
sull'approccio di Marshall, ma individuava le principali cause della
disoccupazione nelle irregolarità causate dalle fluttuazioni
economiche, nella mancata rispondenza tra le qualifiche
professionali dei lavoratori e le esigenze delle imprese (si
confrontino le teorie di Bentham cui abbiamo accennato in
precedenza, anche se questo autore non viene citato nello studio di
Beveridge) e, infine, nella tendenza delle aziende ad accumulare
manodopera di riserva durante le fasi di contrazione del ciclo
economico. "Gli individui che formano queste riserve passano
costantemente dalla popolazione attiva a quella inattiva; essi
inoltre tendono piuttosto a essere sempre più numerosi che
non a trovare lavoro tutti insieme in un dato tempo" (v. Beveridge,
1930², p. 13). "L'inattività cui si trovano costretti
periodicamente ora gli uni ora gli altri di questi lavoratori che
formano la riserva è largamente responsabile dell'esistenza
di un minimum irriducibile di disoccupazione" (ibid., p. 76). Il
problema è aggravato dalla natura ciclica del processo,
perché i lavoratori divenuti inattivi in fase di recessione
in genere attendono di essere richiamati quando subentrerà la
fase di espansione, anziché cercare lavoro in altre aziende o
in altre aree. Ciò dà origine alla cosiddetta
'disoccupazione frizionale': anche in una situazione di equilibrio
tra domanda e offerta sul mercato del lavoro, vi sarebbe comunque
una certa quantità non specificata di disoccupazione dovuta
alle 'frizioni' tra lavoratori e posti di lavoro disponibili. La
soluzione proposta da Beveridge prevedeva un miglioramento
dell'informazione, ad esempio attraverso la creazione di uffici di
collocamento (si confronti la proposta di Lawson cui abbiamo
accennato nel capitolo precedente) che avrebbero permesso di far
incontrare le esigenze dei lavoratori con quelle delle imprese. La
disoccupazione continuava a essere imputata a un imperfetto
funzionamento del mercato del lavoro, dovuto però a una
imperfetta distribuzione delle informazioni in una economia
decentrata.
La prima edizione del libro di Beveridge apparve nel 1909;
poiché negli anni del primo dopoguerra la disoccupazione non
accennava a diminuire, i governi di vari paesi commissionarono una
serie di studi sul problema. Nel 1923 vennero pubblicati negli Stati
Uniti gli atti di una conferenza presidenziale su Cicli economici e
disoccupazione; nel 1924 un gruppo privato pubblicò in Gran
Bretagna uno studio dal titolo La disoccupazione è
inevitabile? Entrambi i lavori seguivano l'impostazione di
Beveridge, in quanto collegavano strettamente il problema della
disoccupazione all'andamento ciclico dell'economia. La relazione
statunitense proponeva, come la maggior parte degli economisti
britannici dell'epoca, un aumento della spesa pubblica al fine di
compensare gli effetti più negativi delle fluttuazioni
cicliche.Se l'intervento statale per la realizzazione di progetti
mirati a creare occupazione era ritenuto accettabile sul piano
pratico, sul piano teorico la principale causa del problema
continuava a essere individuata nelle disfunzioni del mercato del
lavoro. Così, ad esempio, nella sua relazione al Macmillan
Committee on Finance and Industry del 1931 l'allievo e successore di
Marshall, A.C. Pigou, ripropose la vecchia soluzione di ridurre i
salari al fine di incrementare la domanda di lavoro. Dennis
Robertson, che successe a Pigou alla cattedra di Economia politica
di Cambridge, ribadì la tesi secondo cui i salari erano
troppo alti per essere compatibili con "il valore economico del
lavoro in una situazione di piena occupazione" (v. Lekachman, 1966,
pp. 59-60). Era l'esistenza di ostacoli all'azione delle forze del
libero mercato in direzione di un abbassamento dei salari, come ad
esempio lo sciopero generale del 1926, a impedire l'espansione
dell'occupazione.
Nella sua Theory of unemployment Pigou (v., 1933) fornì
quella che può essere considerata l'esposizione definitiva
del suo punto di vista, estendendo l'analisi dai singoli mercati
all'economia globale.
Sia Q la produzione reale aggregata e N il livello di occupazione;
allora, se Q=f(N) [f′>0, f″⟨0], data la tecnologia, la
quantità di moneta M e la velocità di circolazione
1/k, il reddito nominale è dato da M=kY=k(pQ). La divisione
di Y nel prodotto reale e nel livello dei prezzi, p, così
come il livello di N, sono dati allora dal livello del salario
nominale, w, e dall'assunto della massimizzazione del profitto in un
mercato concorrenziale, w/p=f′(Q). Il livello della produzione reale
aggregata e il livello dell'occupazione sono inversamente
proporzionali al salario reale. L'occupazione può aumentare
solo se i salari nominali diminuiscono, data la quantità di
moneta M, o se M e p aumentano, dato w (v. Roncaglia e Tonveronachi,
1985). Questa teoria finalmente istituiva una netta distinzione tra
il problema della povertà e quello della disoccupazione,
poiché era difficile sostenere che i lavoratori si
impoverivano a causa dei salari troppo alti; la richiesta di salari
troppo alti, e quindi la preferenza implicita per il tempo libero,
era invece una spiegazione plausibile della disoccupazione; le cause
della povertà dovevano essere ricercate in altri fattori.
Questa analisi dei fattori determinanti dell'occupazione venne messa
in discussione a seguito della crisi causata dal crollo del mercato
azionario statunitense, nel 1929, quando i tassi di disoccupazione
aumentarono del 25% circa in presenza di una diminuzione dei salari.
Non era più possibile sostenere che i lavoratori non erano
disposti a occuparsi ai livelli di salario corrente, dato che
mancavano le offerte di lavoro a qualsiasi salario. Nel 1931 John
Maynard Keynes tenne una conferenza alla Harris Foundation di
Chicago sulla disoccupazione come problema mondiale. Egli
adottò un approccio radicalmente diverso per spiegare
l'aumento della disoccupazione e la diminuzione dei salari.
Anziché assumere come punto di partenza della sua analisi il
mercato del lavoro, egli sostenne che la recessione, che aveva
prodotto il calo dell'occupazione, era il risultato di una
contrazione della spesa in investimenti. Tale contrazione era dovuta
alla caduta dei profitti attesi, che secondo Keynes erano
determinati a loro volta dagli investimenti. Per aumentare
l'occupazione sarebbe stato allora necessario accrescere gli
investimenti al fine di produrre maggiori profitti. Secondo Keynes
la riduzione dei salari non poteva favorire tale processo,
perché se i prezzi avessero subito una riduzione
proporzionale a quella dei salari, ciò avrebbe avuto
conseguenze negative sui profitti, mentre l'onere del debito
pubblico sarebbe aumentato. D'altro canto, se i prezzi non fossero
diminuiti, il potere d'acquisto dei salari si sarebbe ridotto e le
vendite ne avrebbero sofferto, per non parlare poi delle conseguenze
sociali negative provocate da una drastica riduzione dei salari (si
dimentica facilmente che la recessione degli anni trenta veniva
presentata come la crisi finale del capitalismo, e che la
rivoluzione bolscevica era un ricordo ancora fresco nella mente dei
liberali). La teoria di Keynes abbandonava dunque l'impostazione
tradizionale secondo la quale il livello di occupazione è
determinato principalmente sul mercato del lavoro e che si
può influire su di esso solo attraverso una riduzione dei
salari reali.
Nel 1936 Keynes pubblicò la Teoria generale dell'occupazione,
dell'interesse e della moneta, che analizzava il livello di
occupazione in base alla teoria della domanda effettiva in una
economia monetaria. Keynes non solo abbandonava l'impostazione del
problema che metteva in relazione il livello di occupazione con il
comportamento dell'offerta di lavoro, ma forniva anche una
spiegazione indipendente dall'analisi tradizionale del mercato del
lavoro. In primo luogo, egli sostenne che in generale i lavoratori
non sono in grado di decidere la propria posizione sulla scheda di
offerta che rappresenta i salari reali e il lavoro, per il semplice
motivo che i salari reali sono il risultato di due processi
indipendenti: la determinazione del salario nominale attraverso la
contrattazione tra le aziende e i lavoratori o le organizzazioni
sindacali, e la determinazione dei prezzi effettuata attraverso il
meccanismo della concorrenza oppure da imprenditori in grado di
esercitare il potere di mercato. Né in un caso né
nell'altro i lavoratori potrebbero avere un'influenza diretta sul
livello dei prezzi che determina il potere d'acquisto reale dei loro
salari monetari. Keynes riprendeva qui l'idea marshalliana secondo
cui nella contrattazione tra aziende e lavoratori questi ultimi sono
la parte più debole, ma si spingeva oltre, suggerendo che si
tratta di un problema strutturale delle economie monetarie in cui i
salari sono corrisposti in forma monetaria. L'offerta di lavoro
può determinare il livello dei salari nominali, e dunque i
prezzi nominali e il livello di inflazione, in condizioni di
concorrenza, ma non il prezzo reale del lavoro. Quest'ultimo
dipenderebbe dalla decisione di investimento, determinando il
rapporto tra investimento e produzione dei beni di consumo.
L'investimento è la componente più importante della
domanda effettiva, insieme alle spese di consumo delle famiglie
determinate dalla propensione al consumo, al livello delle
esportazioni e al livello della spesa pubblica.
Secondo Keynes gli economisti tradizionali avevano trascurato la
componente più importante della disoccupazione, che egli
definisce 'disoccupazione involontaria'. A differenza della
disoccupazione volontaria, essa non dipende dal comportamento
dell'offerta, ossia dal fatto che i disoccupati sono disposti a
lavorare solo a un salario superiore a quello corrente, bensì
da una insufficienza della domanda, ossia dalla scarsità di
posti di lavoro anche per i disoccupati disposti a lavorare a salari
inferiori a quelli correnti. Questa impostazione suggeriva inoltre
che è possibile un equilibrio del mercato del lavoro a
qualsiasi livello di occupazione aggregata, condizione che
rappresenta un paradosso per la teoria tradizionale dell'equilibrio,
secondo cui l'offerta in eccedenza su un determinato mercato
dovrebbe essere compensata dalla domanda in eccedenza su un altro
mercato. In effetti, l'implicazione più radicale della teoria
keynesiana è che in un'economia capitalistica non esiste un
mercato 'del lavoro' in sé, ma solo una disponibilità
di posti di lavoro associata a determinate decisioni di spesa
aggregata da parte delle aziende e dello Stato, sulle quali
l'offerta di lavoro non ha alcuna influenza diretta (v. Kregel,
1987). Piuttosto, saranno le decisioni di spesa determinate dai
profitti attesi il principale fattore da cui dipenderà la
domanda di lavoro. I salari avranno un ruolo solo nella misura in
cui influenzeranno la domanda aggregata, principalmente attraverso
la spesa in consumi.L'approccio keynesiano suggeriva inoltre
l'esistenza di una spiegazione alternativa sia della domanda che
dell'offerta di lavoro. Questa venne elaborata da Sidney Weintraub
(v., 1956) a partire dall'assunto che ogni curva della domanda
può essere tracciata solo sulla base di un dato livello e di
una data distribuzione del reddito. Nella teoria keynesiana, in cui
il livello del reddito è determinato endogenamente dalla
domanda effettiva, la domanda di lavoro è rappresentata da
una curva in cui il livello aggregato del reddito è
determinato endogenamente dalla spesa aggregata. Analogamente, la
curva dell'offerta è in genere tracciata considerando i
prezzi come dati; ma se i lavoratori non possono determinare il
salario reale attraverso le loro decisioni di offerta, allora il
salario reale da cui dipende l'offerta di lavoro, in assenza di
illusione monetaria (che Keynes rifiutava) dovrà essere
determinato in modo endogeno sulla base delle aspettative relative
ai prezzi e ai salari implicite nella determinazione della domanda.
È evidente il rovesciamento teorico operato da Keynes, che
sviluppa l'analisi microeconomica del mercato del lavoro a partire
dalle condizioni di equilibrio macroeconomico che determinano il
livello del reddito e dell'occupazione aggregati (v. Kregel, 1985).
Questa analisi alternativa dell'occupazione presupponeva una diversa
definizione del concetto di pieno impiego, anch'essa svincolata
dall'analisi della domanda e dell'offerta sul mercato del lavoro.
Keynes compì vari tentativi in questa direzione, e alla fine
arrivò alla conclusione che "la condizione in cui
l'elasticità della produzione globale è zero
rappresenta [...] il criterio più adeguato per definire la
piena occupazione" (v. Keynes, 1937, p. 150). Ciò significa
che un incremento della domanda effettiva di beni di consumo
determinerà solo un aumento dei prezzi ma non del volume
della produzione e dunque, dati i coefficienti tecnici di
produzione, non apporterà nessun cambiamento nel numero di
lavoratori che le imprese sono disposte ad assumere.Questa
definizione solleva una serie di problemi. Ad esempio, essa implica
che sia possibile un equilibrio di sottoccupazione sul mercato del
lavoro (v. Darity e Horne, 1987-1988). Ne consegue logicamente che
il movimento del sistema verso l'equilibrio di piena occupazione
potrebbe dar luogo a un eccesso di domanda in base alla definizione
tradizionale e, se esiste un legame tra prezzi e salari, a un
incremento dei primi quando il sistema si avvicina alla piena
occupazione. Keynes aveva già attirato l'attenzione su
quest'ultimo problema nella Teoria generale, là dove
introduceva la nozione di posizioni di 'semi-inflazione', che
possono verificarsi quando il sistema si avvicina alla piena
occupazione; queste potrebbero essere dovute a strozzature
settoriali e fenomeni analoghi, ma non dovrebbero costituire cause
permanenti di inflazione in quanto l'offerta di lavoro si adegua
all'aumento della domanda. Nella teoria keynesiana, inoltre,
l'inflazione non viene spiegata sulla base della quantità di
moneta, bensì sulla base del livello dei salari nominali,
sicché la politica salariale diviene un elemento cruciale
della politica inflazionistica, come dimostra l'interesse mostrato
dalla maggior parte degli economisti keynesiani per la politica dei
redditi al fine di collegare il tasso di incremento dei salari alla
produttività media (v. Weintraub, 1956).
La possibilità di una eccedenza della domanda in condizioni
di piena occupazione diventa una componente della definizione di
piena occupazione proposta da Beveridge: "'Piena occupazione'
significa avere un numero di posti di lavoro sempre maggiore del
numero dei disoccupati, e non leggermente inferiore" (v. Beveridge,
1944, p. 18). Questa definizione rappresentava un completo
rovesciamento rispetto alle posizioni espresse da Beveridge nel 1909
e nel 1930, ed era perfettamente compatibile con la tesi keynesiana
secondo cui può esservi un equilibrio di sottoccupazione. Il
rapporto tra disoccupazione e posti di lavoro vacanti, che oggi
prende il nome di 'curva di Beveridge', crea la possibilità
di una serie di posizioni di equilibrio nel mercato del lavoro,
alcune associate a un alto indice di posti vacanti, altre a un basso
indice. Nel primo caso si avrà un aumento dei prezzi e dei
salari, mentre nel secondo caso prezzi e salari saranno stabili o in
diminuzione, anche se sia le une che le altre posizioni
rappresentano una intersezione delle curve della domanda e
dell'offerta. Ciò è compatibile con la tesi secondo
cui il rapporto tra salari e prezzi, che rappresenta il salario
reale, non è determinato sul mercato del lavoro, bensì
da altre forze esterne che stabiliscono il rapporto tra i prezzi dei
beni di consumo e i salari, come ad esempio il grado di imperfezione
del mercato, il livello della domanda, la composizione di output e
coefficienti tecnologici. Nell'approccio keynesiano la politica del
pieno impiego non si focalizza più sui salari e
sull'andamento dell'offerta, bensì sulla determinazione della
domanda effettiva, e in particolare sulla composizione della domanda
attraverso l'importanza degli investimenti rispetto alla spesa in
consumi.
4. Tendenze della politica economica e nuovi
sviluppi teorici dal secondo dopoguerra a oggi
Le analisi di Keynes e di Beveridge ebbero importanti conseguenze
sul piano pratico, stimolando i governi di vari paesi a prendere
iniziative per assicurare la piena occupazione. Nell'immediato
dopoguerra l'Inghilterra, l'Australia e il Canada produssero dei
libri bianchi sulla employment policy; nel 1946 gli Stati Uniti
approvarono l'Employment act; un richiamo esplicito ai problemi
dell'occupazione trovò posto nella Costituzione francese,
mentre sul piano internazionale i paesi membri delle Nazioni Unite
si impegnavano a intraprendere misure congiunte e separate al fine
di realizzare l'obiettivo della piena occupazione. L'adozione di
programmi di spesa pubblica al fine di promuovere l'occupazione e la
produzione segnalavano un radicale cambiamento di tendenza rispetto
alla Poor law inglese e ai tentativi di regolamentare il mercato del
lavoro attraverso interventi e controlli diretti da parte dello
Stato.
Sebbene l'efficacia delle misure attuate nel dopoguerra sia oggetto
di controversia, per quasi venti anni esse riuscirono a riportare
l'economia verso la piena occupazione. In Giappone la disoccupazione
rimase al di sotto del 2%, nella maggior parte dei paesi europei al
di sotto del 3% e negli Stati Uniti intorno al 4%.
Nello stesso tempo vi è stato un importante riassetto nella
composizione settoriale della domanda di lavoro, che è
diminuita nel settore dell'agricoltura mentre è aumentata in
misura marginale in quello dell'industria e in modo assai più
marcato nel settore dei servizi. Questo processo, che avrebbe dovuto
creare uno squilibrio tra domanda e offerta nei vari settori, non
sembra invece aver causato un livello significativo di
disoccupazione frizionale.
Nel Regno Unito la pubblicazione nel 1944 dello studio The economics
of full employment da parte di un gruppo di economisti dell'Oxford
Institute of Statistics influenzò in misura rilevante la
politica occupazionale del dopoguerra. Tra gli autori figurava
l'economista polacco Michal Kalecki, che aveva sviluppato una teoria
dell'economia aggregata analoga a quella keynesiana. Nel suo
contributo all'opera sopra menzionata egli individuava tre vie per
raggiungere la piena occupazione: il ricorso al debito pubblico per
finanziare la spesa dello Stato (il cosiddetto deficit spending),
l'incentivazione dell'investimento privato e la redistribuzione del
reddito. Nello stesso tempo, però, Kalecki osservava:
"L'assunto secondo il quale un governo, all'interno di un'economia
capitalistica, manterrebbe la piena occupazione se solo sapesse come
farlo, è fallace" (v. Kalecki, 1943). Poiché la prima
e la terza via al pieno impiego richiederebbero un sostanzioso
intervento statale nell'attività economica privata e una
redistribuzione del reddito in favore dei lavoratori con livelli
retributivi inferiori, un periodo prolungato di piena occupazione
potrebbe determinare significativi cambiamenti economici e politici,
nonché una naturale resistenza da parte di quanti vengono
colpiti negativamente da tali cambiamenti e un'opposizione
all'intervento statale, interpretato come un primo passo verso
l'abolizione del capitalismo e l'instaurazione del socialismo e
dello statalismo. Nella sua analisi del 1944 Kalecki osservava
inoltre che il deficit spending avrebbe infine trovato un limite
nell'aumento del debito rispetto al coefficiente di reddito e
nell'aumento degli interessi passivi sul debito. La maggior parte
delle previsioni di Kalecki erano destinate a trovare conferma nella
seconda metà degli anni settanta, in particolare nelle
politiche britanniche e statunitensi finalizzate a ridurre le
dimensioni dello Stato e a introdurre bilanci in pareggio. Si
è anche verificato un aumento dei disavanzi pubblici, e la
maggior parte dei paesi attualmente si trova a dover far ricorso al
finanziamento in disavanzo con i limiti imposti dalle dimensioni
degli interessi sul debito. Tuttavia Kalecki non aveva previsto che
solo una minima parte della spesa pubblica sarebbe stata utilizzata,
nel periodo in questione, per aumentare il livello di occupazione in
modo coerente con la teoria keynesiana. I trasferimenti sociali
hanno costituito la voce più importante della spesa pubblica;
le spese per la sicurezza sociale sono aumentate in rapporto al PIL,
laddove sono diminuite le spese in investimenti. Ciò
significa che il problema del benessere è stato privilegiato
rispetto a quello dell'occupazione.
All'aumento della spesa pubblica non ha fatto riscontro né un
taglio delle spese né un aumento della pressione fiscale, e
ciò ha portato a una crescita costante del fabbisogno
finanziario dei governi. La Gran Bretagna costituisce a riguardo
l'unica eccezione, ma ciò si spiega con la politica, adottata
negli anni ottanta, di finanziare la spesa pubblica attraverso la
vendita di beni dello Stato.
L'aumento del debito pubblico è stato accompagnato, come
aveva previsto Kalecki, da un netto incremento della spesa per il
pagamento degli interessi passivi, e in alcuni paesi il deficit
pubblico è ora interamente costituito dal pagamento degli
interessi sul debito.
Come conseguenza, i governi hanno abbandonato ogni forma di sostegno
diretto alla piena occupazione, e ciò ha comportato un
aumento dei tassi di disoccupazione rispetto al ventennio del
secondo dopoguerra. L'andamento della disoccupazione ha subito
dunque un cambiamento radicale dopo la crescita delle spese in
armamenti con la guerra del Vietnam negli anni sessanta e la crisi
petrolifera degli anni settanta. Per la prima volta, in questo
periodo, acquistarono importanza, per il tasso di variazione dei
salari e dei prezzi, le implicazioni della definizione di piena
occupazione fornita da Beveridge. La relazione istituita da
quest'ultimo tra basso livello di disoccupazione e alti tassi di
variazione di salari e prezzi venne confermata empiricamente da uno
studio di A.W. Phillips, che dimostrava uno stretto collegamento tra
il tasso di variazione dei saggi dei salari nominali e il livello di
occupazione. Phillips (v., 1958) osservò anche che tassi di
disoccupazione in diminuzione tendevano a essere associati a tassi
di incremento dei salari più alti rispetto a quelli associati
a livelli di disoccupazione analoghi, ma accompagnati da una
tendenza all'aumento della disoccupazione. Inoltre, la sua analisi
statistica di quanto era avvenuto in Gran Bretagna nel periodo
1861-1957 dimostrava che l'indice di variazione dei salari si
approssimava allo zero solo a un livello di disoccupazione positivo
di circa il 6%. Questo risultato poteva essere interpretato in due
modi: o con l'esistenza di un eccesso di domanda sul mercato del
lavoro con indici di disoccupazione ben al di sopra di quelli
ritenuti compatibili con il pieno impiego, o con la presenza di
ostacoli che impedivano il rapido adeguamento (verso il basso) dei
salari alle condizioni di eccedenza dell'offerta.In presenza di
squilibri strutturali tra le qualificazioni professionali dei
lavoratori e quelle richieste dalle imprese, un eccesso di domanda
accompagnato da alti tassi di disoccupazione può essere
ricollegato a problemi strutturali o frizionali legati all'offerta,
sicché includendo nella definizione della domanda i posti di
lavoro vacanti (v), e in quella dell'offerta la popolazione attiva
più coloro che cercano lavoro (u), l'equilibrio nel mercato
potrebbe richiedere livelli relativamente elevati di disoccupazione
frizionale. Il pieno equilibrio sarebbe ancora caratterizzato
dall'eguaglianza tra domanda e offerta di lavoro, ma con u=v. Si
tratta, ovviamente, della soluzione proposta originariamente da
Beveridge.Una spiegazione alternativa venne offerta da Phelps (v.,
1968), il quale sostenne che in condizioni di informazione
imperfetta i lavoratori occupati non sarebbero in grado di valutare
il salario reale di equilibrio dopo uno shock negativo dell'offerta
sul sistema che riduce il salario di equilibrio. Se le aziende
cercassero di adeguare i salari direttamente al nuovo livello di
equilibrio inferiore, i lavoratori si licenzierebbero nella
convinzione di poter trovare altrove un impiego al salario reale
precedente. Ciò creerebbe una resistenza agli adeguamenti del
salario fino a che la nuova informazione non fosse percepita dai
lavoratori, e produrrebbe un incremento di disoccupati in cerca di
offerte di lavoro ai precedenti tassi salariali che però non
esisterebbero più. Come ha osservato Darity (v., 1981-1982),
questa spiegazione fu avanzata per la prima volta nell'analisi di
Beveridge del 1909: Phelps parla in proposito di 'isole separate',
laddove Beveridge si era servito dell'esempio di scaricatori di
porto che lavorano su navi differenti. L'inclinazione negativa della
curva di Phillips che esprime la relazione tra il tasso di
disoccupazione e il tasso di incremento dei salari viene dunque
spiegata, in questo caso, con l'informazione imperfetta relativa al
salario di equilibrio. In particolare, essa implicherebbe
un'illusione monetaria da parte dei lavoratori, almeno sul breve
periodo. L'analisi di Phillips fu applicata per indagare la
relazione tra il tasso di variazione dei prezzi (inflazione) e la
disoccupazione da Samuelson e Solow, i quali introdussero l'ipotesi
di variazioni della produttività del lavoro e di una
relazione di mark up tra salari e prezzi di mercato. La conferma di
una relazione negativa portò all'idea di uno scambio (trade
off) tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione.
L'effetto principale di questa discussione fu quello di ricondurre
nuovamente l'attenzione sulle condizioni del mercato del lavoro (e
non più sulla spesa aggregata, come nell'approccio
keynesiano) al fine di spiegare i fattori determinanti del livello
di occupazione, e di portare in primo piano il problema
dell'inflazione rispetto a quello della disoccupazione. Friedman, un
convinto sostenitore dell'efficienza del libero mercato, mise in
discussione gli assunti dell'informazione imperfetta e
dell'illusione monetaria quali spiegazioni del ritardo
dell'adeguamento dei salari agli shocks dell'offerta. Egli sostenne
che si tratta di condizioni di breve durata: i lavoratori ben presto
si rendono conto che i salari reali di equilibrio sono cambiati e
adegueranno di conseguenza il loro comportamento di offerta; essi
potrebbero essere vittime di una illusione monetaria, ma solo
temporaneamente. Ciò implica che ogni posizione a sinistra
dell'intersezione della curva di Phillips che collega inflazione e
disoccupazione rappresenta uno squilibrio, poiché in questo
punto le aspettative dei lavoratori relative ai salari reali
andrebbero disattese. Non appena si rendono conto di ciò, i
lavoratori reagiscono chiedendo salari nominali superiori per
ripristinare i salari reali, ritornando alla posizione di equilibrio
originaria sulla curva dell'offerta. Ciò implica che sul
lungo periodo occupazione e produttività tornerebbero al
punto di intersezione della curva di Phillips sull'ascissa della
disoccupazione. Questa posizione viene definita da Friedman "tasso
naturale di disoccupazione", e poiché è compatibile
con un saggio di inflazione costante, anche "tasso di disoccupazione
che non accelera l'inflazione". Friedman implicitamente non aveva
fatto altro che riproporre la tesi dell'aggiustamento immediato dei
salari all'eccesso di domanda, ma sul lungo periodo. Ben presto
alcuni economisti, tra cui Lucas e Rapping, sostennero che se nel
mondo del lavoro i problemi decisionali possono essere letti in
chiave di ottimizzazione intertemporale, e i lavoratori apprendono
dall'esperienza che l'aumento dell'occupazione comportato da una
politica fiscale di espansione è sempre associato a una
caduta dei salari reali, essi cominceranno ad anticipare questi
effetti attraverso 'aspettative' razionali, rifiutando ogni aumento
dell'occupazione e della produzione al di sopra del saggio naturale.
Gli aggiustamenti tra salari e prezzi sarebbero allora immediati, e
il problema di spiegare l'inclinazione della curva di Phillips si
risolverebbe rendendola verticale nel lungo e nel breve periodo.
Questa posizione segnava un netto distacco dall'approccio
keynesiano, in quanto focalizzava nuovamente l'attenzione sul
mercato del lavoro, e suggeriva l'ipotesi che la domanda aggregata
non possa influenzare il livello di disoccupazione se non in modo
casuale e imprevedibile, e quindi del tutto inutile a fini pratici.
Lo stesso argomento si può applicare anche alla politica
monetaria, che può essere efficace solo se i suoi effetti non
sono prevedibili. È questo il fondamento della cosiddetta
'ipotesi dell'inefficacia' delle politiche economiche, secondo cui
non si possono alterare in modo permanente i livelli naturali di
produzione e di occupazione del sistema economico.
L'attenzione si spostò dunque dalla relazione inversa tra
tasso di variazione dei salari e tasso di disoccupazione al punto di
intersezione della curva di Phillips sull'ascissa, che determina il
tasso naturale di disoccupazione, dato secondo Friedman dall'azione
delle istituzioni, nonché da imperfezioni strutturali e del
meccanismo concorrenziale. Verso la fine degli anni settanta divenne
evidente che il saggio naturale di disoccupazione compatibile con un
saggio di inflazione costante era esso stesso estremamente
instabile. Il tasso naturale di disoccupazione non era una costante
naturale. Una delle scoperte di Phillips era stata che livelli di
disoccupazione simili erano compatibili con diversi tassi di
incremento dei salari, a seconda che vi fosse una tendenza
all'aumento o alla diminuzione dell'occupazione. Da ciò
nacque l'idea di applicare all'analisi della disoccupazione
l'approccio della path dependence, secondo cui gli esiti dei
processi economici dipendono dal percorso seguito dal processo nel
tempo storico; in questa prospettiva, i livelli di occupazione
sarebbero determinati da fenomeni di 'isteresi' (v. Blanchard e
Summers, 1987). Se i tassi di disoccupazione hanno avuto un rapido
incremento, il tasso naturale tenderà a essere più
elevato, e viceversa. In questo modo la teoria abbandonava le
spiegazioni originarie basate sull'equilibrio tra domanda e offerta,
e reintroduceva l'ipotesi che l'evoluzione storica dei livelli di
disoccupazione fosse influenzata da forze esogene. Questa teoria
però ha fatto ben poco per incoraggiare un'attività
politica occupazionale, in quanto implica che gli interventi mirati
a ridurre un elevato livello naturale di disoccupazione produrranno
solo inflazione nel breve periodo. Al massimo essa reintroduce
l'idea di un trade off o scambio tra due obiettivi della politica
economica, quello di un più alto livello di occupazione e
quello di un minore tasso di inflazione.Altre teorie riconsiderano
le cause che possono produrre una forte inclinazione negativa della
curva di Phillips individuando alcuni fattori che potrebbero
ritardare il processo di aggiustamento salari-prezzi. Lindbeck e
Snower (v., 1986) hanno suggerito che a differenza di quanto accade
per altri mercati, sul mercato del lavoro i salari sarebbero
determinati solo dai lavoratori occupati che effettuano le
contrattazioni salariali, non dai disoccupati che sono esclusi da
tali contrattazioni, sicché l'eccesso di offerta ha poca o
nessuna influenza sulla velocità di aggiustamento del salario
reale a quello di equilibrio. I lavoratori occupati che agiscono
all''interno' del sistema perseguono i propri interessi, mentre i
disoccupati che ne sono al di fuori non hanno alcuna influenza sugli
esiti del mercato.
Secondo un altro approccio, salari e occupazione vengono determinati
da lavoratori e imprese sulla base di accordi impliciti mirati alla
massimizzazione dell'utilità per gli uni, e dei profitti per
gli altri. Bailey afferma che se le imprese sono meno avverse al
rischio dei lavoratori in quanto hanno maggiori capacità di
sopportare fluttuazioni di reddito, potrebbe essere vantaggioso per
esse offrire ai lavoratori un duplice contratto di lavoro, uno
relativo alle prestazioni lavorative e l'altro che assicuri i
lavoratori dai rischi di variazioni salariali dovute alle
fluttuazioni del ciclo economico. Ai lavoratori verrebbe offerto
dunque un salario fisso, che potrebbe essere inferiore a quello di
equilibrio in periodi di eccesso di domanda, ma che in cambio li
assicurerebbe contro il rischio di licenziamento o di riduzioni
salariali in periodi di ristagno della domanda. Questo modello
contrattuale potrebbe massimizzare i profitti per le imprese e
l'utilità per i lavoratori, ma non spiega perché
l'offerta effettiva di posti di lavoro resta inferiore a quella
necessaria affinché si abbia la piena occupazione. Offrire
salari fissi può essere vantaggioso, ma non vi è alcun
motivo perché ciò debba avvenire a un livello di
occupazione aggregata al di sotto del pieno impiego della forza
lavoro. Questa linea di ragionamento è stata sviluppata da
Okun con la sua teoria del contratto implicito. Azariadis (v., 1975)
ha ampliato tale approccio per dimostrare che l'eventuale variazione
temporale dei livelli di occupazione è il risultato di
sospensioni dal lavoro (layoffs) piuttosto che dell'abbandono
volontario da parte dei lavoratori in cerca di salari migliori;
Bailey tuttavia ha dimostrato che se il passaggio da un'impresa
all'altra o la ricerca di nuovo personale comporta costi elevati, le
aziende cercheranno di garantire i lavoratori anche dai layoffs
attraverso la creazione di 'riserve' di lavoro.Un'altra teoria
abbandona la spiegazione della disoccupazione basata sull'imperfetto
funzionamento del mercato del lavoro per cercare spiegazioni
razionali dell'esistenza di una rigidità dei salari. La
teoria del cosiddetto efficiency wage si basa sul contributo di
Akerlof (v., 1984) al fine di spiegare perché la
flessibilità dei salari potrebbe non produrre piena
occupazione. Se si parte dal presupposto che vi sono lavoratori
efficienti e lavoratori poco produttivi (v. Shapiro e Stiglitz,
1984) e che le imprese non hanno modo di scoprire a quale categoria
appartengano i propri dipendenti sinché non li hanno assunti,
è razionale assumere che tutti i lavoratori abbiano una
produttività media e una preferenza media per il tempo
libero. Partendo da questi presupposti, è logico assumere che
ogni disoccupato disposto a lavorare per un salario inferiore a
quello corrente adeguerà automaticamente il proprio impegno
sul lavoro al salario - inferiore - che gli viene corrisposto. Egli
viene classificato come poco efficiente, e ci si attende che una
volta occupato, avrà una produttività inferiore alla
media anche se gli verrà corrisposto il salario corrente,
più alto di quello per cui sarebbe stato disposto a lavorare.
Secondo questa teoria, anche se gli aggiustamenti tra prezzi e
salari fossero immediati e automatici, il mercato del lavoro non
tenderebbe a produrre la piena occupazione poiché i segnali
del mercato ora danno luogo a risultati perversi. La riduzione della
preferenza per il tempo libero non garantisce più un
incremento dell'occupazione. Questo approccio però contempla
la possibilità di un'attiva politica occupazionale mirata a
migliorare l'informazione e l'addestramento professionale dei
lavoratori.Alla fine del XX secolo, così come accadeva alla
fine del secolo precedente, l'attenzione si è focalizzata
nuovamente sugli alti costi delle misure previdenziali per i
disoccupati sostenuti dallo Stato. Come aveva previsto Kalecki, a
seguito della crescita della spesa e dei disavanzi pubblici il
problema della disoccupazione e della povertà è
passato in secondo piano rispetto all'esigenza, sentita da molti, di
ridurre le dimensioni e il ruolo dello Stato. Come conseguenza, vi
è stato un progressivo smantellamento dei programmi
previdenziali dello Stato del benessere elaborati sulla base del
Rapporto Beveridge, e un ritorno alla tesi secondo cui la
disoccupazione è il risultato di una eccessiva
regolamentazione del mercato e l'indigenza di misure assistenziali
troppo generose. Si può concludere dunque che nel corso di
quattro secoli i termini del dibattito sulle cause e i rimedi della
disoccupazione endemica, tipica delle economie moderne, sono rimasti
sostanzialmente inalterati.