Lavoro

Enciclopedia del Novecento (1978)

di Jean Fourastié e Gino Giugni

LAVORO

Lavoro di Jean Fourastié

sommario: 1. Introduzione generale. a) Il ‛fatto' del lavoro è millenario, il termine ‛lavoro' è recente. b) Concezione tradizionale e concezione contemporanea del lavoro. 2. Considerazioni generali sul lavoro. Storia del lavoro umano. a) L'umanità senza il lavoro. b) Lavoriamo per produrre. c) Come lavoriamo. d) Le scienze, le tecniche e la produttività del lavoro. 3. L'organizzazione del lavoro. La divisione del lavoro. Costrizioni, gerarchie, subordinazione. a) Preparazione del lavoro e organizzazione del lavoro. b) Effetti della produttività del lavoro. c) Settore primario, secondario e terziario. d) Costrizioni, gerarchie, subordinazione. 4. La durata del lavoro. a) L'evoluzione della durata del lavoro. b) Lavoro e tempo libero. c) La ripartizione delle ore di lavoro e di libertà. d) L'opzione ‛durata del lavoro/livello di vita' e le ‛40.000 ore'. 5. Occupazione, disoccupazione e sottoccupazione. a) L'evoluzione della struttura dell'occupazione. b) Disoccupazione e sottoccupazione. c) Lotta contro la disoccupazione e la sottoccupazione. 6. Prospettive del lavoro. a) I  problemi già affrontati. b) Gli sviluppi in corso. c) I problemi dell'avvenire. □ Bibliografia.

1. Introduzione generale

a) Il ‛fatto' del lavoro è millenario, il termine ‛lavoro' è recente
Tentiamo di dare una definizione del lavoro: esso è costituito da tutte le attività umane necessarie alla sopravvivenza, cioè alla conservazione della vita umana in un ambiente che, senza queste attività, sarebbe assai sfavorevole per l'uomo. Non c'è vita senza lavoro; questo è vero per gli uomini come per gli animali: anche le specie più elementari sono obbligate a ‛lavorare' per sopravvivere. Devono ricercare il loro nutrimento, sceglierlo in mezzo a una moltitudine di materie e di esseri in maggioranza inutili e ostili; per la maggior parte del tempo devono attaccare e distruggere gli esseri (animali e vegetali) che ‛consumano'; devono inoltre difendersi, a loro volta, da quegli esseri che, al contrario, li ricercano per ‛consumarli'.
L'uomo non si limita però a consumare cibo, ed è l'unico tra gli animali a essere caratterizzato da una molteplicità di bisogni che esigono un'appropriazione e una trasformazione della natura. Col passare del tempo, gli uomini sono diventati sempre più ambiziosi riguardo a ciò che chiamano il ‛minimo vitale'. In origine gli ominidi si contentavano, come gli altri animali, di una vita vegetativa, in cui il lavoro serviva unicamente a procurarsi il cibo; ma più aumentava l'efficienza del lavoro, più diventava loro possibile accedere a condizioni di vita meno elementari. Gli uomini, dunque, sono oggi capaci di lavorare non solo per assicurarsi la sopravvivenza, ma anche per acquisire beni che, ai nostri antenati, sarebbero potuti sembrare inutili, se non addirittura scandalosi, immorali o grotteschi (per es.: il comfort moderno, i film e i libri erotici, lo smalto per le unghie dei cani di lusso).
Il termine ‛lavoro' deriva da parole che significano difficoltà e persino pena o sofferenza; gradualmente, una parola che, nelle lingue europee, designava ogni tipo di difficoltà è diventata il termine oggi usuale per indicare lo sforzo compiuto per la produzione economica di beni e di servizi. Che quest'accezione sia così recente in tutte le lingue è un fatto assai istruttivo, derivante essenzialmente da due circostanze. In primo luogo i nostri antenati non distinguevano ciò che noi oggi chiamiamo lavoro dal non-lavoro. Non esisteva un impiego del tempo, non esistevano orari; gli uomini non avevano un'idea precisa della durata; per esempio, non sapevano mai esattamente la loro età; lo storico francese L. Febvre ha descritto in maniera eccellente il ‛tempo dormiente' e indeterminato in cui vivevano i nostri antenati. In tali condizioni era impossibile suddividere il tempo, come facciamo noi, in tempi ‛specializzati' e misurati.
Cosa ancora più importante, ai nostri antenati non veniva in mente l'idea di distinguere tra lo sforzo destinato a ciò che noi chiamiamo la produzione e ogni altro sforzo, tra un certo tipo di fatica o di difficoltà e tutti gli altri. Ripartire la vita tra lavoro, sonno, festa, tempo libero, pasti, ecc., sarebbe sembrato loro non soltanto inutile e senza interesse, ma ridicolo, arbitrario e nocivo. Il gioco, antenato del tempo libero, era per esempio un modo di iniziarsi all'azione e di padroneggiarla. Il gioco è un'attività molto importante, un fattore essenziale non solo della condizione umana, ma anche della condizione animale. Il gioco serve a misurarsi gli uni con gli altri, è un'integrazione della vita che, nell'antichità, era molto più spontanea che ai nostri giorni; continuando anche in età avanzata, era indissolubilmente intrecciato con gli altri atti della vita, e in particolare con quegli sforzi che oggi chiamiamo lavoro.

b) Concezione tradizionale e concezione contemporanea del lavoro
Esse sono radicalmente diverse. E ben vero, tuttavia, che si tratta in entrambi i casi di attività necessarie alla vita (alla sopravvivenza e all'esistenza). Lo scopo è dunque il medesimo. Ma i ‛mezzi' sono concepiti in modo del tutto differente. Il lavoro tradizionale era una ‛preghiera', un atto rituale; il processo fisico non era altro che il riflesso di un atteggiamento mentale che aveva come oggetto la modificazione di una realtà concepita come ‛soprannaturale'. Il lavoro era molto più faticoso, ma era anche molto meglio accetto, essendo la manifestazione formale di un'adesione spirituale all'ordine del mondo. Il lavoro contemporaneo è invece, com'è noto, una tecnica, un atto puramente naturale, senz'altro effetto che quello di modificare la realtà fisica naturale: è privo di ripercussioni sul ‛soprannaturale'.
Per i nostri antenati, la realtà naturale non era altro che l'apparenza di una realtà soprannaturale, che dava alla prima ordine ed esistenza. Il corpo è ‛animato' dall'anima; un corpo senz'anima è un cadavere ‛inanimato'. Il mondo della vita sembrava loro distinto dal mondo della materia in virtù dell'animazione impressa dallo spirito - soprannaturale - il quale è la verità e la potenza. La vita è caratterizzata dal movimento; questa vita, questo movimento non sono dovuti alla materia, al corpo fisico, ma alla presenza di un'anima nel corpo fisico. La morte è la perdita dell'anima. Questa nozione veniva applicata a ogni essere vivente. Tutto ciò che vive, vive grazie all'anima, cioè grazie a realtà soprannaturali, a ‛spiriti'.
Questa rappresentazione del mondo, che distingue lo spirito dalla materia, può essere paragonata al nostro modo attuale di concepire l'energia. Oggi diremmo che in ogni corpo vivente dev'esserci dell'energia; l'energia non è però ‛spirito': è una forma, in verità molto misteriosa, della materia; è il risultato di una disintegrazione della materia.
Perché un granello di frumento germogli, sono necessarie forze che lo valorizzino. I nostri antenati spiegavano questo spettacolo abituale che avevano sotto gli occhi attraverso il soprannaturale. Soltanto il soprannaturale - l'anima, lo spirito - può modificare il reale, far germogliare il frumento, far nascere un bambino. In questa concezione del mondo, lavorare significa per l'uomo tentare di dominare le forze soprannaturali, o per lo meno tentare di ottenere un accordo di quelle forze spirituali che trasformano la natura e che, partendo da un granello di frumento, danno altri venti o trenta granelli di frumento. Di qui la concezione ‛magica' del lavoro propria dei nostri antenati: si trattava di conciliarsi le potenze soprannaturali per ottenerne quelle azioni che esse sole potevano compiere. È necessario assicurarsi la benevolenza degli spiriti soprannaturali per poter modificare il reale inanimato in modo vantaggioso per l'uomo.
Il lavoro tradizionale era quindi una preghiera rivolta da una persona a una persona, un atto religioso; il lavoro più duro, più ripugnante comportava ‛entusiasmo'. Oggi, l'entusiasmo per il lavoro è diventato inconcepibile. In altri tempi, anche uno schiavo costretto a fare lavori penosi, di cui non avrebbe goduto i frutti, aveva la soddisfazione di compiere un atto religioso. Lavorando, pensava di partecipare all'ordine del mondo e, a un tempo, con i suoi meriti, con le sue prove, di elevarsi nella gerarchia in esso implicita.
La nozione di giustizia era radicalmente differente da quella odierna. Essere giusto equivaleva a dare a ciascuno la posizione, l'autorità e la funzione che gli spettavano nell'ordine del mondo: il re e l'imperatore erano riconosciuti come tali, il capofamiglia come pater familias, il cittadino come cittadino, lo schiavo come schiavo, ciascuno faceva ciò che la propria posizione gli imponeva di fare.
Oggi noi siamo privati di quel ruolo sacro che i nostri antenati svolgevano in una natura ‛stregata' dal soprannaturale. Il lavoratore è ridotto a svolgere un ruolo meccanico in un mondo laicizzato, che deve bastare a se stesso. Al di sopra della realtà dura e piatta non c'è più un cielo.
Questa introduzione, che forse può sembrare a certi lettori estranea all'argomento, permette invece di comprendere la gravità dei problemi del lavoro nel mondo attuale. Il considerarli dal solo punto di vista della tecnica e dell'efficienza equivale a votarsi a errori gravidi di conseguenze. L'uomo vive ‛mentre' lavora, ed è vano sperare in un'umanità che sopravviva come tale, se la ricerca degli obiettivi economici a breve o medio termine mutila l'uomo, nel lavoro, della sua dignità di uomo e della sua fede nella finalità del mondo. Non voglio certo dire che l'umanità debba ritornare alle sue ingenue concezioni magiche del lavoro; ma neppure può accettare in modo duraturo una concezione puramente tecnica, analitica ed economica della propria esistenza e, di conseguenza, del proprio lavoro.
L'umanità ha appena vissuto e sta vivendo, unitamente a un progresso scientifico ed economico che supera in modo stupefacente le sue millenarie speranze, un trauma culturale e spirituale. Gli ingegneri, gli uomini d'azione, i Ford, i Citroën, che hanno dato inizio a questo sviluppo prodigioso e oggi lo accelerano, debbono sapere che la massa del popolo, pur beneficiando del miglioramento del livello di vita e dell'allungamento della durata della vita che le tecniche industriali e mediche permettono, si trova oggi sempre più spaesata e disorientata nell'ambiente razionale, meccanicizzato e organizzato che lo ‛sviluppo' sostituisce rapidamente all'ambiente naturale. Rappresentando con Atala gli elementi sentimentali, affettivi, poetici e sensibili che costituiscono il cuore dell'uomo (Atala, un'indiana Natchez, è un personaggio ben noto di un celeberrimo racconto di Chateaubriand), si può dire, per esemplificare la crisi del nostro tempo, che ‛Atala lavora alla Citroën'.
Per riconciliare Atala con il suo lavoro, con il genere di vita, le gerarchie, le organizzazioni, gli organigrammi che la Citroën le impone in nome dell'efficienza e del livello di vita, non bastano tutte le scienze fisiche e umane: non solo le tecnologie industriali, ma la psicologia, la biologia, la sociologia, la storia, l'etnologia ecc. È vano e pericoloso pensare che si possa separare il lavoro dalle altre attività dell'uomo e dare all'umanità un equilibrio vitale senza darglielo anzitutto nel lavoro. I problemi del lavoro sono problemi umani.
Questi problemi sono numerosi e non possiamo pensare di affrontarli tutti qui. I trattati di diritto, di tecnologia, di organizzazione e di sociologia del lavoro abbondano in tutte le lingue. La bibliografia sull'argomento è vastissima.
Enumeriamone rapidamente le principali suddivisioni classificandole, abbastanza arbitrariamente, in quattro gruppi: a) implicazioni degli aspetti fisici e biologici, specialmente in materia di sicurezza del lavoro, d'igiene, di prevenzione delle malattie e di incidenti sul lavoro; b) diritto del lavoro, diritto delle assicurazioni sociali e poi della previdenza sociale, che sono diventati uno dei settori principali dell'insegnamento e della prassi del diritto; esso comprende in particolare lo studio del contratto di lavoro, dei contratti collettivi, delle assicurazioni contro gli incidenti di lavoro e la disoccupazione; comprende anche gli importanti capitoli relativi al diritto sindacale, agli scioperi, ecc.; c) economia del lavoro, che implica la nozione di impresa e di produzione nazionale; comprende i problemi di ripartizione dei frutti della produzione, dunque i salari e i profitti, l'ampiezza del ventaglio dei redditi - dal manovale al direttore generale -, le relazioni tra salari, potere di acquisto, livello di vita e produttività; d) sociologia del lavoro, che comprende i grandi capitoli della psicologia dei gruppi e delle organizzazioni, le ‛relazioni umane nel lavoro', i conflitti collettivi, i problemi di responsabilità, di ‛partecipazione' alle decisioni, di gerarchia, di circolazione dell'informazione, ecc.
In questo articolo il lavoro sarà esaminato dal punto di vista economico e sociale, dunque dal punto di vista della vita quotidiana dell'uomo medio, degli sviluppi recenti e delle prospettive per il prossimo avvenire.

2. Considerazioni generali sul lavoro. Storia del lavoro umano

In passato il lavoro era la vita stessa. Si è potuto dire: ‟L'uomo è nato per il lavoro così come l'uccello è nato per cantare" (Saci), poiché nulla è stato dato gratuitamente all'uomo. Rousseau ha potuto vantare la bellezza della natura che può esser fonte d'ispirazione per i poeti; ma, secondo un'espressione un po' semplicistica, essa ‛non nutre l'uomo'. La risposta all'interrogativo ‛perché lavoriamo?' è semplice: lavoriamo per produrre, per sopravvivere.
Tutto quello che consumiamo è creazione del lavoro umano, anche quei beni che giudichiamo i più ‛naturali', come il grano, le patate o la frutta.

a) L'umanità senza il lavoro
Esiste una netta tendenza a collocare nel passato l'età d'oro dell'umanità. Secondo quest'idea, tutto sarebbe stato dato gratuitamente all'uomo in una sorta di paradiso terrestre, mentre ai giorni nostri, al contrario, tutto sarebbe diventato guasto e difficile. Questa tendenza, che assume nel pensiero di Rousseau una colorazione popolare e persino rivoluzionaria, è rimasta viva nello spirito dell'uomo medio. Dappertutto si sente parlare ancora dei vantaggi dei prodotti naturali; e d'altra parte molti oggi pensano sinceramente che la vita d'altri tempi fosse più ‛sana' di quella attuale.
In realtà possiamo affermare, e tutte le attuali scoperte della storia e della preistoria lo confermano, che la natura allo stato naturale è una dura matrigna per l'umanità. Il latte cosiddetto ‛naturale' di vacche allevate in modo ‛naturale' può dare la tubercolosi e la vita chiamata ‛sana', in altri tempi, sotto il profilo della mortalità (in particolare della mortalità infantile) dava risultati spaventosi: un bambino su tre moriva prima di raggiungere l'anno di età e, dei due rimasti, uno solo superava in Francia, Italia e Inghilterra - ancora fino al 1750 - i 25 anni d'età.
A un'umanità senza lavoro e soprattutto senza tecnica, il globo terrestre consentiva unicamente una vita limitata e vegetativa. Alcune centinaia di milioni di individui sopravvivevano a un livello di vita animale nelle regioni subtropicali.
Tutti gli attuali consumi degli uomini sono resi possibili, infatti, da invenzioni del lavoro umano, anche quelli generalmente ritenuti i più ‛naturali', come i consumi di cereali, patate e frutta. I cereali sono stati trasformati e migliorati attraverso un lento lavoro, con la selezione di alcune graminacee; il nostro grano odierno, per esempio, è così poco ‛naturale' che, se gli uomini sparissero dalla faccia della terra, sparirebbe anch'esso in meno di 50 anni, così come tutti gli altri cereali. La stessa sorte seguirebbero tutte le altre piante coltivate: alberi da frutta, rosai, verdure, ecc., come pure il bestiame da macello; questi perfezionamenti profondi, questi miglioramenti introdotti dall'uomo resistono soltanto perché sono difesi contro la natura; essi hanno valore per l'uomo, ma hanno valore solo per suo mezzo.
E che dire poi degli oggetti manufatti, dei tessili, della carta, degli apparecchi televisivi, delle lavatrici, di tutti i prodotti artificiali creati, fabbricati dal solo lavoro umano! Che concludere da tutto quest'insieme di cose, se non che l'uomo è un essere vivente, i cui bisogni non sono in accordo totale con il mondo in cui vive? Per armonizzare i bisogni della sua vita con la natura è necessaria una lotta, una trasformazione, un lavoro.
Per meglio chiarire la cosa, è necessario paragonare l'uomo agli animali, compresi quelli più evoluti nella gerarchia biologica. Un mammifero, un bue, un lupo, un gatto o una capra si contentano dei soli prodotti naturali: per un montone non c'è niente di meglio dell'erba, per un gatto affamato non c'è niente di meglio di un topo; e, una volta sazi di cibo, gli animali non pensano certo a procurarsi oggetti come orologi, pipe o cappelli. Soltanto l'uomo ha bisogni non naturali. E questi bisogni non naturali sono immensi. La terra non può produrre tutto quello che l'uomo desidera consumare: egli ha infatti bisogno di pane, di pesce (pescato e cotto), di ciliege (che però non siano selvatiche), eccetera. Ma bisognerebbe anche, per accontentarlo, che le case sorgessero dalla terra in modo naturale, come le piante, con riscaldamento centrale, bagno e televisione.
Per precisare ancor meglio i fatti, si può affermare che, sul nostro globo terrestre, l'ossigeno è il solo elemento naturale che possiamo sfruttare senza lavoro. È infatti la natura che soddisfa, senza restrizioni e senza sforzo, a uno dei nostri bisogni essenziali: la respirazione. Perché l'umanità potesse sopravvivere senza il lavoro, sarebbe necessario che la natura desse all'uomo tutto quello di cui sente il bisogno così come gli dà l'ossigeno dell'aria (non si può citare l'acqua, perché occorre attingerla, trasportarla e, a volte, filtrarla).

b) Lavoriamo per produrre
Perché lavoriamo dunque? Per trasformare la natura, che allo stato naturale non può soddisfarci, in elementi artificiali capaci di appagare i nostri più svariati bisogni. Lavo riamo per trasformare l'erba selvatica in grano e poi in pane, le rose di macchia in rosai, i ciottoli in acciaio e poi in automobili.
Comprendiamo, allora, come si tratti di un compito difficile, che è ben lontano dal soddisfare con facilità i nostri bisogni; c'è, infatti, un gran divario tra quello che la natura allo stato naturale ci offre e quello che noi desidereremmo ricevere!
Da quando sono comparsi sulla terra - la loro storia ha già 500 milioni di anni - gli ominidi hanno appreso, dapprima lentamente e poi, da circa un secolo, in modo tumultuoso, ad accrescere il loro potere di trasformare la natura; hanno lavorato, hanno creato tecniche, hanno specializzato il proprio lavoro.
Il divario esistente tra i nostri bisogni potenziali - cioè il volume dei beni che saremmo capaci di consumare se la natura ce li fornisse allo stesso modo in cui ci fornisce l'ossigeno - e i beni effettivamente prodotti attraverso il nostro lavoro - cioè strappati alla natura e resi consumabili - è così considerevole che tutti i sistemi economici finora osservati e osservabili sul nostro pianeta comportano un meccanismo di razionamento.

c) Come lavoriamo
Possiamo facilmente comprendere come il globo terrestre non possa sostentare, se non a malapena, la vita umana. È infatti necessario, per sopravvivere, modificare la natura e, talvolta, anche distruggerla. Ma l'uomo, ridotto alle sole sue forze, è un essere debole; per migliaia di anni, schiacciato dal solo compito di tentare di sopravvivere, è stato ridotto a una vita vegetativa in cui venivano adoperate soltanto le sue facoltà biologico-animali. E questa, senza dubbio, è ancora la situazione di metà dell'umanità dei nostri giorni.
Il progresso è arduo: non è facile ‛realizzare l'umanità'. Ed è attraverso un'evoluzione estremamente lenta che gli uomini hanno appreso a sfruttare la natura con una certa efficienza. Gli abitanti dell'India e della Cina non sanno ancora cavar fuori dalla terra se non dieci o quindici quintali di grano o di riso per ogni anno di lavoro. Ora, con un lavoro infinitamente meno faticoso e meno lungo - ma sempre nel corso di un anno - un lavoratore americano che coltivi ‛da solo' 100 ettari, ne ricava non dieci quintali, ma trenta tonnellate, cioè trenta volte più del lavoratore asiatico. Quest'enorme differenza tra l'Oriente e l'Occidente illustra la potenza della produttività del lavoro. Il fatto che una gran parte dell'umanità sia ancor oggi non solo incapace di scoprire queste tecniche, ma anche scarsamente in grado di utilizzarle o di imitarle quando vengano scoperte, mostra quanto tempo occorra allo spirito scientifico sperimentale per nascere, per svilupparsi e per prevalere nella prassi abituale. Ma da 100-150 anni la scienza sperimentale comincia a rivelare la sua fecondità modificando profondamente la maggior parte delle nostre tecniche di lavoro.

d) Le scienze, le tecniche e la produttività del lavoro
Il lavoro dell'uomo è valorizzato dallo spirito scientifico; dalla conoscenza del mondo ingegneri, innovatori e scienziati deducono tecniche, cioè metodi di lavoro sempre più efficienti. Ma l'evoluzione ha richiesto lunghi secoli, o piuttosto millenni; se miliardi di uomini sono nati sulla terra, pochissimi sono stati infatti gli innovatori, pochissimi hanno dato all'umanità nuove tecniche.
La ricerca dell'efficienza del lavoro è difficile, lenta e complessa. Questa ricerca conduce, o costringe, gli uomini a costituire gruppi di lavoratori specializzati, chiamati ‛imprese': la produttività obbliga in tal modo l'umanità a ricorrere alla divisione del lavoro, la quale obbliga a sua volta allo scambio. Lo scambio si fa sempre tra due prodotti differenti, per esempio tra dei vestiti e un apparecchio radiofonico, tra una certa quantità di carne e dei tegami, ecc.; la determinazione del tasso di scambio non è cosa semplice e dà luogo a problemi di giustizia sociale, risolti in modo più o meno soddisfacente. Tale è tuttavia l'efficienza della divisione e della specializzazione del lavoro, che l'umanità si impegna sempre più in questa direzione. Ciascuno di noi, quindi, ciascun operaio produce sempre più, nell'impresa, cose che non consuma e, inversamente, sempre più consuma cose che non ha prodotto.
Si comprende facilmente come i gruppi umani e le nazioni che hanno accettato le costrizioni, lo scotto della divisione del lavoro, le organizzazioni gerarchiche e i molteplici altri obblighi che ne derivano, abbiano acquistato molto presto sugli altri gruppi e nazioni grandi vantaggi economici e politici, e ciò proprio a motivo dell'efficienza che della divisione del lavoro è la principale conseguenza. Questo è uno dei tratti essenziali della storia contemporanea, che è dominata da quei fenomeni cui si dà il nome di ‛crescita' o ‛sviluppo'. Oggi, questi fenomeni hanno cominciato a rivelare la loro ‛faccia nascosta', le loro conseguenze impreviste. I vantaggi della crescita (e in particolare quelli relativi al livello di vita, alla salute, alla durata media della vita) sono stati, è vero, confermati (è questa la faccia visibile del fenomeno, l'obiettivo desiderato e voluto); ma la divisione del mondo tra paesi sviluppati e paesi non sviluppati, tra i quali l'abisso si approfondisce anziché colmarsi, i limiti fisici che la crescita incontra in alcuni paesi sviluppati, le insoddisfazioni che persistono e si sviluppano nei paesi più progrediti, sono tutti fatti che pongono all'umanità di oggi gravi sfide. L'organizzazione mondiale del lavoro non può più essere presa in considerazione unicamente dal punto di vista dell'efficienza del lavoro orario.

3. L'organizzazione del lavoro. La divisione del lavoro. Costrizioni, gerarchie, subordinazione

Nonostante quanto abbiamo appena scritto, è evidente che l'efficienza del lavoro resta uno degli obiettivi più importanti (anche se non deve più essere considerato come il solo determinante). Si comprende dunque facilmente come l'organizzazione del lavoro e le costrizioni che ne derivano - i conflitti tra spontaneità e creatività da una parte, pianificazione e calcolo razionale dall'altra - siano uno dei problemi principali del lavoro contemporaneo.

a) Preparazione del lavoro e organizzazione del lavoro
Gli scienziati, con le loro ricerche, aiutano oggi l'uomo nel suo compito di valorizzazione del proprio lavoro; è infatti dalla scienza che derivano le tecniche. Queste tecniche vengono applicate a due stadi del lavoro: il primo relativo alla preparazione, il secondo all'esecuzione.
La preparazione è indubbiamente la più feconda delle due operazioni: il pensiero e la riflessione guidano la mano dell'uomo. Nel caso dell'agricoltura, è necessario studiare in anticipo la natura del terreno, il clima, la coltura, il concime, le lavorazioni, le epoche della semina, i procedimenti. Si tratta di definire con precisione: a) il prodotto; b) il lavoro, cioè il quadro particolareggiato delle operazioni necessarie per la produzione.
Nel caso dei prodotti dell'industria, bisogna orientare il lavoro in modo da permettere il più possibile procedimenti automatici e, dunque, l'impiego di macchine. Di qui le tecniche di organizzazione del lavoro: scegliere i procedimenti e le macchine e quindi armonizzarli; calcolare gli investimenti e gli ammortamenti; minimizzare la quantità di lavoro necessaria per il totale della produzione, cioè minimizzare il prezzo di costo (sotto il controllo del profitto). Le macchine hanno un costo: sono state fabbricate, comportano un lavoro preliminare, non immediatamente produttivo. Gli investimenti rappresentano, in un paese sviluppato, circa il 20% del totale della produzione nazionale; senza di essi, la produttività del lavoro può essere accresciuta solo attraverso l'organizzazione. Sebbene l'organizzazione e il metodo predominino in genere sull'investimento, ci sono tuttavia numerosi settori dell'economia, come la siderurgia, le industrie meccaniche ed elettriche, l'industria tessile, in cui gli investimenti sono fondamentali.
Gli uomini non sanno organizzare il proprio lavoro spontaneamente: seguono tradizioni millenarie, riprendono antichi gesti, praticati dai loro antenati, la cui efficienza è spesso minima. Noi oggi sappiamo che si tratta di abitudini che apportano al lavoro ostacoli piuttosto che valide soluzioni.
Vi sono, dunque, atteggiamenti e mentalità che ritardano il progresso. È una legge del pensiero umano che esso trovi raramente la soluzione più semplice di primo acchito; deve sperimentare una quantità di soluzioni complicate e poco efficienti prima di scoprire la più semplice, la più efficiente. La scienza dell'organizzazione del lavoro permette di superare questi svantaggi e di arrivare più rapidamente, attraverso esperienze feconde, a soluzioni accettabili. L'esame di un laboratorio o di un'officina rivela per lo più numerosi esempi di cattiva organizzazione, che un consulente scientifico può, progressivamente, scoprire e correggere.

b) Effetti della produttività del lavoro
Tutti questi progressi (divisione del lavoro, sua organizzazione, utilizzazione delle macchine) hanno lo scopo di aumentare l'efficienza dei lavoratori; ne deriva un'economia di lavoro umano e, dunque, la riduzione del costo reale dei prodotti.
La produttività del lavoro è il rapporto tra il volume della produzione e la durata del lavoro umano necessario a ottenerlo. Le numerose misure di produttività escogitate da ingegneri, contabili e statistici mostrano due cose: a) i progressi degli ultimi cinquant'anni nelle nazioni occidentali sono, in certi settori dell'economia, considerevoli; per esempio, la durata del lavoro umano necessario per fornire un'illuminazione di 10 lumen è stata ridotta, in Francia, dal 1750 al 1960, da 400 a 1; b) questi progressi variano però irregolarmente da una produzione all'altra e anche da un periodo all'altro. Basta vedere la tab. I, per valutare le divergenze che si sono manifestate tra la produzione di uno specchio e quella di un quintale di grano (si prende qui, come esempio, la Francia, ma l'andamento è lo stesso in tutta l'Europa occidentale).

Tabella 1

Da qualche decennio, il lavoro degli uomini si differenzia in modo radicale rispetto al suo passato millenario. Esso consiste sempre meno in un dispendio di energia muscolare e sempre più nella manipolazione di simboli: esige un'attenzione intellettuale crescente. L'uomo, il cui pensiero si è per millenni nutrito di sogni e d'immaginazioni, si vede ora incessantemente messo a confronto con una realtà esterna che lo domina.
Il lavoratore è sottoposto alle esigenze della tecnica: la meccanizzazione, l'automazione introducono nella vita e nel lavoro durate e ritmi che modificano i tempi fisiologici; i determinismi della divisione del lavoro si oppongono allo Spirito di sintesi proprio dell'uomo che, tagliato fuori dalla ‛natura naturale', dalle proprie origini biologiche, si vede spesso dotato di un eccesso di potenza che non è preparato a utilizzare.

c) Settore primario, secondario e terziario
Le diverse produzioni presentano, riguardo alla produttività del lavoro, comportamenti differenti. Sono terziarie le produzioni poco influenzate dalla produttività. Sono secondarie quelle che lo sono in grande misura. Si riserva il termine di primarie alle produzioni agricole; la storia mostra che nelle produzioni primarie il progresso tecnico è abbastanza lento nei primi decenni di progresso economico, ma può diventare in seguito rapidissimo: dal 1950 - nei paesi sviluppati - i progressi nell'agricoltura eguagliano, o anche superano, i progressi nell'industria.
Questa classificazione in tre comportamenti tipici spiega molti fenomeni economici. Si comprende l'afflusso crescente dei lavoratori nel settore terziario, dove i tempi di produzione non possono diminuire e, al contrario, la diminuzione o la stabilità della manodopera impiegata nei due settori dove la produttività del lavoro cresce fortemente. L'evoluzione dell'occupazione è regolata dall'equazione:

Formula

d) Costrizioni, gerarchie, subordinazione
La divisione del lavoro prese l'avvio decine di millenni or sono, essendo sempre esistiti uomini più adatti di altri a intagliare le selci o i raschiatoi d'osso. Ma con l'introduzione delle macchine, con la Scoperta e l'utilizzazione del vapore, comincia un'era di rivoluzione industriale; nello stesso tempo, la divisione del lavoro entra in una nuova fase e prende un nuovo slancio. Le manifatture comportavano da sempre mansioni parcellizzate, ma si trattava di ben poca cosa a paragone della parcellizzazione propria del lavoro moderno. Le macchine si specializzano ogni giorno di più; ogni razionalizzazione ‛scientifica' del lavoro si accompagna a una frantumazione delle mansioni, che aumenta il rendimento dei lavoratori.
Nelle fabbriche d'automobili, per esempio, le mansioni si riducono a operazioni assai limitate e ripetute; certune non durano che alcuni secondi. Accade lo stesso in quasi tutte le moderne imprese di produzione; c'è ben poco rapporto tra il lavoro della sarta di altri tempi e quello di un'operaia in una fabbrica di confezioni. Nella fabbrica, l'ufficio studi stabilisce, una volta composto il modello, schede particolareggiate con l'elenco delle diverse mansioni che saranno poi svolte alla catena. L'apprendistato è allora assai ridotto: basta qualche ora per l'addestramento di un'operaia cosiddetta ‛qualificata'.
Si potrebbero dare mille esempi di questa situazione, tanto nel campo dell'industria metallurgica che in quello delle industrie alimentari, della fabbricazione di armi, ecc. (F.W. Taylor; A.G. Stachanov).
Le qualità richieste agli operai di oggi non sono più le stesse di altri tempi: né l'immaginazione, né lo spirito creativo trovano più posto nei gesti compiuti e ripetuti alla catena di montaggio. La velocità, la precisione, la destrezza costituiscono invece una nuova gamma di qualificazioni. Capacità di attenzione continua sono anche richieste nei numerosi casi nei quali il lavoro consiste essenzialmente nell' osservazione di macchine. Si pone allora la questione della soddisfazione nel lavoro; le mansioni parcellizzate, alle quali molti operai sono inchiodati, sembrano ingenerare la noia e la fatica, mentre la soddisfazione sembra spesso legata a una certa complessità interna dei gesti da compiere. La questione non può esser risolta con principi semplicistici, dato che molti lavoratori preferiscono una mansione facile, ripetuta e abituale, a lavori più complessi. Nell'opera Le travail en miettes, G. Friedmann registra le reazioni di numerosi operai qualificati; certi operai di una fabbrica di materiali radioelettrici preferiscono i lavori semplici, che comportano un piccolo numero di operazioni elementari; se aumenta la difficoltà dei lavori, diminuisce il loro rendimento. In altre imprese, al contrario, altri operai qualificati cercano un lavoro che richieda maggiore iniziativa. Bisogna considerare una complessa combinazione di fattori, alcuni attinenti alla psicologia collettiva, altri alla psicologia individuale.
D'altra parte, fin d'ora e ancor più in un futuro assai vicino, l'automatismo libera e libererà l'operaio da molti dei suoi gesti monotoni. Il lavoro alla catena, ai nostri giorni, è ben lontano da quello che era nel 1935, quando Charlie Chaplin ne fece una celebre satira. Ed è altrettanto certo che in 40 anni il progresso economico, se ha dato all'operaio qualificato il livello di vita che avevano antecedentemente i quadri superiori, è però ben lontano dall'avergli dato le iniziative e le motivazioni proprie di questi ultimi. Ed è qui, senza dubbio, il tratto principale della ‛crisi' odierna dell'operaio qualificato.
Attualmente, molte officine non hanno potuto essere ancora completamente automatizzate. Il lavoro dell'operaio qualificato resta necessario in misura assai notevole (circa un terzo dell'occupazione nell'industria). Ora, tale lavoro ha scarso significato per l'operatore troppo specializzato, che si sente poco responsabile nei confronti della sua mansione elementare. Il lavoro dell'operaio qualificato, pur guadagnando incessantemente in tecnicità, perde però, più che non guadagni, in fatto di autonomia e di originalità: le qualità, cioè, che lo rendevano interessante.
Questa organizzazione razionale del lavoro, basata su calcoli di efficienza, controllata quotidianamente attraverso i calcoli contabili dei prezzi di costo e sanzionata automaticamente dal profitto, obbliga l'uomo a un comportamento quotidiano che è ben lontano dalla fantasia, dalla spontaneità, dalla libertà d'iniziativa. Le organizzazioni efficienti sono quelle in cui i processi sono regolati in anticipo, attraverso ricerche complesse e lunghe, e poi imposti agli esecutori. Le critiche che possono loro rivolgere questi ultimi si rivelano quasi sempre superficiali.
Il cronometraggio tayloriano e i suoi succedanei, volti all'efficienza immediata, vanno a caccia dei ‛tempi morti'.
Si comprende facilmente come la selezione naturale abbia agito e continui ad agire in favore degli individui e, a lungo andare, dei gruppi e dei popoli che praticano queste competizioni brevi e incruente, seguite da durature sottomissioni. Per la specie umana fu dapprima la rivalità con altre specie animali che comportò tale selezione e poi le rivalità tra gruppi umani. Oggi, è l'efficienza economica che privilegia le società nelle quali la massa del popolo si sottomette all'ordine razionale dell'organizzazione scientifica. Ê chiaro che la sottomissione degli operai qualificati ai dirigenti e dei dirigenti ai managers cesserebbe in un batter d'occhio, se le società basate sulla spontaneità e sull'anarchia fossero più efficienti delle società basate sul calcolo e sulla gerarchia.

4. La durata del lavoro

In passato gli uomini lavoravano dall'alba al tramonto, per tutta la durata del giorno e, se momenti di ricreazione, di distensione erano strettamente mescolati alla fatica, non v'era certo né vero tempo libero, né svago nel senso attuale del termine.
Ma a poco a poco questa situazione si venne modificando, allorché i beni di consumo necessari alla sopravvivenza, prodotti in abbondante quantità grazie al progresso delle tecniche di produzione, si fecero meno rari.

a) L'evoluzione della durata del lavoro
Tuttavia, all'inizio dell'era industriale, il miglioramento del livello di vita rimase la preoccupazione dominante. Pure, è con la nascita dell'industria e la conseguente civiltà urbana, con l'urbanizzazione, che è nato il tempo libero, il tempo cioè di cui usiamo a nostro piacimento. Il tempo libero si colloca in una civiltà caratterizzata da un tempo frazionato e continuamente contato. Se l'orologio individuale aveva già fatto la sua apparizione nel sec. XVI, a quell'epoca però non era altro che un ornamento riservato a pochi elegantoni, gioiello costoso quanto inutile; solo molto più tardi esso ricevette la sua vera consacrazione: nelle manifatture e nelle amministrazioni. Come ha scritto G. Hourdin ‟non è certo un caso se l'imprenditore del XIX secolo appariva nelle litografie di Daumier con la catena d'oro sul pancione: vuol mostrare che in tasca ha l'orologio e che conosce il valore del tempo" (La civilisation des loisirs, Paris 1961, p. 52).
Come controparte degli orari esatti, delle ore contate, si sviluppa la nozione del tempo ‛che si ha a disposizione per sé'. Questa nuova organizzazione della giornata, avvenimento importante nella vita degli uomini, si è instaurata molto presto, dopo la creazione delle officine, ma i suoi effetti sono stati lenti poiché, dopo dieci o dodici ore giornaliere nelle officine disagevoli del passato, gli ‛svaghi' avevano poco valore; non si poteva anzi decentemente dar loro questo nome.
È utile ricordare qui alcune pagine di L.-R. Villermé, del 1840, che illustrano la natura del lavoro nelle filande del nord e dell'est: ‟A Mulhouse, a Dornach, ecc. [...] le filande e le tessiture meccaniche si aprono generalmente alle cinque del mattino per chiudersi la sera alle otto, qualche volta alle nove. D'inverno, l'entrata viene ritardata di frequente fino all'alba, ma non per questo gli Operai ci guadagnano un minuto. La loro giornata è quindi di almeno quindici ore, durante le quali hanno una mezz'ora per il pranzo e un'ora per la cena; questo è tutto il riposo loro accordato. Di conseguenza, non fanno mai meno di tredici ore e mezza di lavoro al giorno [...]. A Thann e a Wesserling, le condizioni sono identiche; a Bischwiller, il lavoro effettivo arriva a 16 ore". A Sainte-Marie-aux-Mines, ‟la giornata è di 14 ore, con una sospensione di un'ora e mezzo [...]. A Saint-Quentin, varia da 14 a 15 ore, alle quali si deve aggiungere il tempo dedicato allo spostamento la mattina e la sera" (L.-R. Villermé, Tableau de l'état physique et moral des ouvriers employés dans les manufactures de coton, Paris 1840, p. 21). Questi orari valevano tanto per gli uomini che per le donne, e trovano conferma nelle indagini sulle fabbriche di Reims, d'Amiens, di Lille, di Torino, di Milano, di Liverpool... E non è ancor tutto! Anche la giornata lavorativa dei ragazzi era assai lunga; Villermé si sforzò di ottenere per loro miglioramenti di orario. Egli scriveva in Francia per tentare di denunciare gli ‛abusi' del liberalismo, e portava come modello l'Austria, dove ‟grazie alle premure del governo, non si possono assumere ragazzi nelle manifatture prima dell'età di otto anni compiuti, e per una durata che non deve oltrepassare le dieci ore giornaliere" (ibid., p. 22). Poco dopo la pubblicazione di queste righe, intervenne in Francia la legge del marzo 1841, che limitava a otto ore giornaliere il lavoro dei ragazzi dagli otto ai dodici anni.
È passato poco più di un secolo dal tempo di Villermé! Non c'è bisogno di istituire un paragone particolareggiato tra la vita di lavoro di uno dei nostri ‛cari piccoli' oggi e quella dei ‛giovani' del 1840; per tacere delle condizioni penose, insalubri, in cui si trovavano in generale tutti i lavoratori.
Dal 1850, e soprattutto dopo il 1920, la durata del lavoro è stata ridotta in due modi: dapprima con la diminuzione dell'orario giornaliero per l'uomo adulto, e questo è il fenomeno più appariscente; poi con l'estensione dell'età scolare.

Tabella 2

La tab. III indica il numero di ore di lavoro settimanali, nel settore industriale, in Francia e negli Stati Uniti.

Tabella 3

Nel periodo 1919-1939 si colloca la fase più importante per la riduzione della durata del lavoro; in questo periodo sono state infatti approvate leggi che hanno rivoluzionato il mondo operaio e abitudini secolari: in Francia, per esempio, le leggi dell'aprile 1919, che istituiscono la giornata di otto ore, e quelle del giugno 1936, che garantiscono le ferie pagate e pongono il principio della settimana di quaranta ore. Si scorgono chiaramente i diversi orientamenti. Nel 1937, si è creduto in Francia di poter ridurre di molto la durata del lavoro, il che ha condotto il paese a una stagnazione, anzi a una recessione economica che è stata senza dubbio una delle cause della sua disfatta nel 1940; è stato perciò necessario ritornare a valori un po' più alti, paragonabili a quelli degli altri paesi d'Europa.
Si constata così che, in media, si è lavorato più in Francia che negli Stati Uniti prima della guerra del 1914, e in Francia meno che negli Stati Uniti tra le due guerre. C'è qui un'anomalia, poiché è appunto dopo il 1920 che la Francia si è impoverita. Dopo il 1945, invece, le necessità della ricostruzione e della modernizzazione hanno fatto risalire fino a 46 ore, in Francia, la durata abituale del lavoro. L'operaio lavora, tuttavia, sensibilmente meno nel 1973 che non nel 1910; sono soppresse circa 17 ore la settimana, ossia quasi il 30%. Egli ha inoltre almeno 21 giorni, e spesso 28, di ferie pagate ogni anno. Il tempo libero concesso all'uomo adulto è uno degli elementi fondamentali del tenore di vita; questo elemento è mutato nello stesso senso in tutti i paesi industriali.
Ecco qual era, nella Comunità Economica Europea, la durata media del lavoro settimanale, nel settore industriale, nel 1966:

Tabella

Come si può constatare, la Francia occupa il secondo posto in questa graduatoria del 1966, subito dopo il Lussemburgo. Le tendenze attuali, come quelle future, andranno nuovamente verso la maggiore riduzione possibile dei tempi di attività (certi salariati arrivano persino a reclamare la riduzione per poter fare delle ore di straordinario, il che sembra, a prima vista, una specie di contraddizione; sennonché queste ore hanno, psicologicamente, un carattere differente dalle altre, essendo oggetto di una libera scelta).

b) Lavoro e tempo libero
In un prossimo futuro avremo ‛forse' la civiltà del tempo libero; non siamo però ancora a questo stadio, ma ci troviamo piuttosto a una specie di svolta, in un periodo di transizione in cui si pongono mille problemi. G. Douart, nel suo libro L'usine et l'homme cita un esempio, tra vari altri, della situazione presente e della scelta possibile tra tempo di lavoro e tempo libero, ricordando la testimonianza di un operaio edile: ‟La vita è cara [...] mi son voluto procurare onestamente il mio comfort, a forza di straordinari. Per il frigorifero e la televisione mi sono sbarazzato di inutili perdite di tempo: le riunioni sindacali, le passeggiate in centro, le bevute con gli amici. Per un'automobile, ho venduto le mie ore di bricolage, le mie serate di giardinaggio, le partite di pesca: come se quelli che si sono battuti per strappare le 40 ore lo avessero fatto per permettermi di fare gli straordinari. Per dei mobili Ségalot, ho barattato le letture, il cinema e tutti quei momenti benedetti in cui mi perdevo in fantasticherie senza avere un padrone alle spalle. Per un appartamento moderno, ho dato ascolto alle confidenze: da Untel, di ore al 50% ne puoi fare quante ne vuoi; da Machin, puoi fare del ‛lavoro nero' la domenica; e così ho rinunciato ai week-ends nei quali, con la moglie e i ragazzi, si andava a fare il bagno, ci si stendeva sulla sabbia e si ascoltava il vento tra i pini! Per il denaro ho trascurato il sonno, le mie ferie, e mi sono fatto rubare la salute. Non sono più che una macchina per lavorare [...]. Così ho venduto tutto, perduto tutto: l'accordo con mia moglie, la mia vita di famiglia, l'amore dei miei figli. Non sono più né un padre né un marito. Tu, che ad ogni costo vuoi il benessere materiale, non comprano col tuo tempo libero, non vendere mai quello che fa di te un uomo; è una verità vecchia quanto il mondo e sempre vera, che il denaro non dà la felicità!" (O. Douart, L'usine et l'homme, Paris 1967, p. 270).
Questa citazione mostra quanto, nell'odierno mondo del lavoro, si sia ancora lontani dalla civiltà del tempo libero. E sarebbe facile moltiplicare gli esempi: certe commesse con bassi salari che la domenica fanno un ‛lavoro nero', diventando per un giorno sguattere o cameriere, oppure domestiche a ore; operai, imbianchini, idraulici, meccanici, che al loro orario di lavoro abituale aggiungono delle serate, dei sabati.
È certo che l'uomo cerca, prima di tutto, di migliorare il proprio livello di vita. E i progressi tecnici, che possono permettere di produrre di più con minore sforzo, rendono possibile un aumento dei consumi. Sembra ciononostante che, almeno in Francia, non sia vicino il momento in cui i limiti di tale aumento saranno raggiunti.
Orbene, quest'aumento della produttività può offrire all'uomo varie possibilità: o produrre di più mantenendo il lavoro costante, o lavorare di meno per una produzione eguale, o ancora lavorare di meno per una produzione minore. In realtà, noi non sappiamo molto bene ciò che vogliamo e ancor meno ciò che è meglio per noi. Quel che è certo è che la durata degli orari è subordinata a decisioni volontarie: il problema non è più quello di restare nell'officina, in ufficio, nei campi per tutta la giornata, senza interruzione. A poco a poco ci si comincia a liberare dalla schiavitù del lavoro, mentre fa la sua comparsa un bisogno concorrenziale: il miglioramento del genere di vita, di cui la diminuzione del lavoro è un elemento essenziale. Ed è per questo che ormai, almeno nei paesi industrializzati, non si tratta più tanto di aumentare la produzione, quanto di trovare un equilibrio armonioso, in grado di soddisfare la duplice aspirazione dell'uomo: elevare il livello di vita e migliorare la qualità della vita; armonia difficile perché contraddittoria: bisogna infatti, più o meno, sacrificare l'uno per avere l'altra. È qui operante un'opzione volontaria, anzitutto a livello personale: ogni individuo è infatti libero di scegliere un lavoro piuttosto che un altro; in parecchi casi può optare tra diverse possibilità: il denaro, il tempo libero, la soddisfazione. Tra il capo di un'impresa con un considerevole giro d'affari, che non può prendersi senza apprensione qualche giorno di vacanza (con il telefono a portata di mano), e il vagabondo che dorme tranquillamente sulle rive della Senna c'è tutta una gamma di possibilità. C'è poi un'altra opzione, collettiva questa volta, a livello della fabbrica, della bottega, dell'ufficio, o anche della nazione (per es. la legge dell'aprile 1919, che istituisce la giornata di otto ore).
Nella sua scelta, l'uomo è diviso tra il desiderio di consumare e la preoccupazione di dover produrre. È evidente che la soluzione ottimale sarebbe per molti quella di viver bene senza dover svolgere attività obbligatorie.

c) La ripartizione delle ore di lavoro e di libertà
Un altro problema è legato alla durata del lavoro: quello del modo in cui si possono distribuire nel tempo le ore di libertà. La soluzione desiderata può variare da un individuo all'altro e i risultati possono essere assai differenti a seconda delle diverse modalità scelte. Non è certo la stessa cosa avere per sé un'ora ogni giorno, tornando dal lavoro, oppure avere la possibilità di rilassarsi, ad esempio per sei ore, una volta la settimana. Le soluzioni possibili a questo riguardo sono matematicamente assai numerose.
A partire dal 1936 la diminuzione del tempo lavorativo aveva preso un notevole slancio: parecchie ore al giorno, due settimane all'anno e, in seguito, con il prolungamento dell'età scolare e l'abbassamento dell'età pensionabile, si è avuta una riduzione del numero di anni lavorativi nell'intera vita; è in questo quadro che possono venir considerate molteplici soluzioni. Lo scopo, per numerosi salariati, è l'abbreviamento della vita lavorativa attraverso un precoce pensionamento. Altri ritengono tuttavia più interessante prolungare per tutti la scolarità. B. de Jouvenel (Arcadie. Essai sur le mieux vivre, Paris 1968, p. 83) propone a questo riguardo la seguente alternativa: ‟Supponete che di qui a vent'anni nel tal paese le fasi di una vita umana si succedano secondo il modello seguente: scuola fino a quindici anni; 35 ore lavorative alla settimana; tre settimane di ferie più una, in media, di malattia; pensionamento a 62 anni: tutto questo equivale a 78.960 ore lavorative in una vita. Contrapponete ora il modello seguente: scuola fino a 20 anni; pensionamento a 68 anni; settimana di 38 ore, con cinque settimane di ferie e tre settimane di scuola, più una settimana, in media, di malattia: ossia in totale 78.432 ore. Il secondo modello sarebbe, mi sembra, più civile del primo: una popolazione più istruita godrebbe meglio il suo tempo libero".
Quest'ultima sistemazione, beninteso, richiederebbe un considerevole sforzo nell'insegnamento; d'altra parte, questo sembra proprio corrispondere alle tendenze del mondo di domani: sempre meno tempo per la fabbricazione degli oggetti, ma sempre più tempo dedicato alla formazione della mente.
Circa gli effetti che potrebbe avere un prolungamento o una differente suddivisione delle ferie annuali, non si dispone di dati sufficienti che permettano precise conclusioni. È certo che il mese di vacanze in estate, dal punto di vista psicologico, ha un'innegabile attrattiva, mentre sembrerebbero spesso preferibili, per lo stato di salute dei lavoratori, brevi periodi di riposo durante il semestre invernale. Ma questo dipende evidentemente dalle condizioni climatiche del luogo di riposo.
Così pure, una minore durata del lavoro giornaliero è senza dubbio più valida di un prolungamento delle settimane di vacanza, e non solo per l'equilibrio fisiologico, ma anche per le possibilità di studio, di promozione sociale, di perfezionamento professionale e personale.
Non possiamo indicare qui tutto quello che sarebbe possibile o desiderabile riguardo alla ripartizione del tempo; le soluzioni sono infinite. Bisogna notare tuttavia l'interesse che presenta l'orario unico, che permette, lasciando per il pasto un intervallo molto breve, di avere per sé un periodo di tempo lungo e senza interruzioni. Ci sarebbe anche molto da dire a proposito del lavoro a mezzo tempo - soltanto mezza giornata con un limitato numero di ore al giorno - che sembra una soluzione valida per certe situazioni intermedie: la madre di famiglia che ha ancora il peso dei figli piccoli, le persone in età pensionabile che desiderano conservare un'attività, gli artisti... che sono alla ricerca di se stessi, certi handicappati fisici, ecc. Parleremo più avanti degli ‛orari flessibili' (v. sotto, cap. 6, § b).
Conviene qui aprire una parentesi per affermare che non esiste e non dovrebbe esistere una totale uniformità dei tempi di lavoro nei diversi mestieri. Nei campi, per esempio, l'agricoltore ha ancora un lavoro da uomo libero; essendo generalmente padrone di se stesso (ben presto non ci saranno altro che padroni nell'agricoltura), egli è padrone del suo ritmo; può chiacchierare con i vicini, fare una pausa a suo piacere quando ha fame, quando è stanco o quando vuol parlare con una bella ragazza; la sua situazione è più vicina alla condizione tradizionale e il suo tempo libero, ch'egli dichiara a volte inesistente, è mal definito, non regolamentato. Non è certo questo il caso delle attività industriali, in cui un più duro lavoro impone necessariamente orari delimitati, con precise pause di tempo libero.
I diversi ritmi di lavoro dovrebbero essere legati alla diversità di durata delle varie attività. Potrebbe dunque rivelarsi necessario in avvenire, se si dovessero realizzare nuove riduzioni della durata del lavoro, non introdurle uniformemente in tutte le attività. Per esempio, può darsi che si sarà indotti a diminuire gli orari specialmente nelle attività basate sulla forza muscolare, su lavori fisici pesanti, con occasioni di affaticamento nervoso (rumori, odori, ritmo continuo...), mentre ci si potrebbe regolare differentemente per mestieri ‛più leggeri': guardiani di museo, giovani di studio, impiegati di banca o di assicurazioni, ecc.
D'altro canto, non deve contare solamente la fatica fisica per stabilire i tempi di riposo: certi uomini, gravati da schiaccianti responsabilità ne hanno anch'essi un urgente bisogno, non foss'altro che per riflettere, dato che si trovano spesso presi in un ingranaggio di compiti che richiede 60 o 70 ore settimanali, e sono ben lontani dall'avere i mezzi di distensione a disposizione del loro usciere o del loro fattorino.
Attualmente, esistono differenze importanti tra i diversi mestieri; lasciando da parte i settori nazionalizzati, i cui orari sono stati ridotti, la gerarchia dei settori di attività è la seguente: al primo posto ci sono l'edilizia e i lavori pubblici, dove la durata giornaliera del lavoro è massima; poi vengono l'estrazione dei minerali, le industrie del legno, la costruzione di macchine e di veicoli, la produzione dei metalli (questi settori hanno durate di 49-47 ore settimanali). Per contro, nelle industrie tessili, nelle banche, nelle assicurazioni, nelle agenzie e nell'abbigliamento le durate sono solo di 44-41 ore. Questo gruppo ha una forte proporzione di manodopera femminile. Sussistono infine differenze su scala regionale: per esempio, si lavora di più nel nord-est della Francia, nella regione parigina, che nel sud-ovest.

d) L'opzione ‛durata del lavoro/livello di vita' e le ‛40.000 ore'
Le cifre citate sono importanti. Si è spesso parlato, per il futuro, della possibilità di ridurre a 40.000 ore l'intera vita di lavoro (v. Fourastié, 1972). Quali probabilità abbiamo di vivere quei tempi? Entro quali scadenze le nazioni dell'Europa occidentale potranno istituire orari del genere?
Si sa che, allo stato attuale delle cose, una riduzione di due ore settimanali delle durate medie ‛costa' circa il 2,7% del livello di vita. Ora, la crescita del livello di vita, nelle nostre nazioni, varia da una decina d'anni tra il 3 e il 4% (è preferibile per l'avvenire mantenere il ritmo del 3%). Si può dunque ammettere che ogni riduzione di due ore della durata settimanale del lavoro ritardi di quasi un anno l'innalzamento del livello di vita o, più esattamente, assorba un anno di aumento della produttività; pressoché le stesse conseguenze hanno una settimana e mezzo di ferie annue, il prolungamento di un anno dell'età media scolare e la diminuzione di un anno dell'età media di pensionamento. Ora, le 40.000 ore presuppongono: 33 anni di lavoro in tutta la vita contro i 50 attuali; 12 settimane di ferie annue contro le nostre 4 attuali; 30 ore di lavoro settimanale contro le 48. Di modo che, se scegliessimo una riduzione della durata del lavoro piuttosto che un accrescimento del livello di vita, dovremmo bloccare l'attuale livello di consumi per i tempi seguenti: a) 17 anni, per la riduzione del numero degli anni di lavoro da 50 a 33; b) 6 anni, per ottenere le 8 settimane supplementari di ferie pagate; c) 9 anni, per la riduzione di 18 ore della durata settimanale del lavoro.
Il totale risultante supera i 30 anni. Le 40.000 ore verrebbero dunque ottenute poco dopo l'anno 2000. Naturalmente, questo calcolo non vuol determinare altro che una possibilità affatto aleatoria, e la data indicata è da prendere in considerazione soltanto per valutare la probabile velocità dell'evoluzione.

5. Occupazione, disoccupazione e sottoccupazione

Tutto quanto precede conferma che l'esercizio di un'attività da parte dell'uomo va analizzato sotto due aspetti: l'uno individuale e l'altro collettivo. Riguardo all'individuo, il lavoro professionale risponde al bisogno di esercitare le facoltà del corpo e dello spirito; inoltre, in un mondo in cui il consumo di beni e di servizi non è possibile senza una preliminare trasformazione, difficile e onerosa, della natura, il lavoro individuale rappresenta la partecipazione normale dell'individuo all'opera collettiva. Riguardo alla collettività, il lavoro degli individui è, d'altra parte, necessario alla vita e alla sopravvivenza dei gruppi umani.

a) L'evoluzione della struttura dell'occupazione
Poiché i bisogni primari sono quelli legati alla nutrizione, nelle società primitive, dove le tecniche di produzione erano assai rozze e conseguentemente la produttività del lavoro molto debole, la quasi totalità del lavoro umano si doveva concentrare sull'agricoltura. Le altre attività necessarie alla sopravvivenza del gruppo (vestiario, abitazione, culti religiosi o magici, e poi, progressivamente, amministrazione, polizia, giustizia) non assorbivano che un numero molto scarso di individui. Senza risalire alla preistoria né ai gruppi più primitivi dell'attuale Amazzonia, si può ammettere che nella maggior parte delle nazioni ‛civili' l'agricoltura, nel XVI o nel XVII secolo, occupasse dall'80 all'85% dei lavoratori, l'artigianato e le manifatture dal 5 al 7% e le altre attività, che oggi vengono chiamate terziarie, quanto restava, cioè circa il 10%.
Man mano che il progresso tecnico ha fatto sentire i suoi effetti, l'umanità ne ha utilizzato i frutti dapprima per nutrirsi meglio; in particolare le carestie sono a poco a poco scomparse dalle nazioni occidentali. Ma il progresso della produttività agricola ha superato molto presto il fabbisogno alimentare degli uomini. Se i bisogni umani si fossero limitati al nutrimento, avremmo assistito allora a una riduzione graduale, ma in definitiva massiccia, della durata del lavoro. Per esempio, verso il 1700 un agricoltore francese, italiano o americano non arrivava a nutrire, in media, che 2,2 persone (il che significava che 10 lavoratori agricoli arrivavano, in media, a nutrire, oltre se stessi, altre 12 persone). Oggi, pur assicurando un nutrimento molto più abbondante e molto più equilibrato, comprendente in particolare una proporzione molto maggiore di carne (che richiede, a egual numero di calorie, una quantità di lavoro umano quasi 10 volte maggiore che non i cereali), un agricoltore americano nutre quasi 75 persone e un agricoltore francese più di 20. Queste cifre mostrano che, nell'ipotesi sopra enunciata, gli Stati Uniti avrebbero potuto ridurre la durata del lavoro nella proporzione di 75 a 2,2 e la Francia nella proporzione di 20 a 2,2. Ciò significa che negli Stati Uniti si potrebbe lavorare solo circa mezz'ora per ogni giorno lavorativo e in Francia 1 ora e 20 minuti!
Se le cose non stanno così, si deve al fatto che gli uomini si sono rivelati avidi di consumare una quantità di altri beni e servizi che non erano prodotti nei secoli passati o che lo erano solo in quantità assai scarse (per esempio, i manufatti di ogni genere, le automobili, gli aeroplani, ecc.). Il risultato è stato che la popolazione attiva in eccedenza nell'agricoltura (settore primario) ha cercato e ha trovato occupazione nell'industria (settore secondario) e poi nel settore terziario. L'incremento del settore secondario è stato nel corso del XVIII e XIX secolo così spettacolare da far dare al movimento il nome di ‛rivoluzione industriale'. E, a partire all'incirca dal 1900, nelle nazioni più progredite gli aumenti di produttività nel settore secondario sono tali che bastano ad assicurare il consumo, che pure è sempre in forte crescita. L'occupazione nell'industria rimane dunque stazionaria, nelle nazioni evolute, a cifre che non sorpassano di molto il 50% e sono anche molto inferiori nelle nazioni il cui commercio estero non sia basato sui prodotti industriali. Essendo quindi pressoché fermo il settore secondario, il terziario assorbe la totalità dei lavoratori che continua a perdere l'agricoltura. La tab. IV ci dà un'immagine statistica di questo movimento.

Tabella 4

b) Disoccupazione e sottoccupazione
Leggendo le righe precedenti, può sembrare che i trasferimenti della popolazione attiva si verifichino senza difficoltà in un economia idillicamente progressiva, in cui gli uomini si troverebbero trasferiti senza scosse e senza sofferenze dal settore primario a quello terziario. Disgraziatamente non è affatto così. Non esiste infatti alcun meccanismo automatico che assicuri questo trasferimento nella specifica concretezza della vita quotidiana. Soltanto la rovina delle imprese, la disoccupazione e la sottoccupazione obbligano gli uomini a cambiare mestiere. Senza entrare nei particolari di questi processi complicati che sono di competenza della scienza economica, si comprende abbastanza facilmente come si tratti di processi dolorosi, che dipendono essenzialmente dall'intervallo che esiste inevitabilmente tra il momento in cui l'occupazione di un uomo nel proprio mestiere diventa inutile e il momento in cui egli troverà un'altra occupazione o un altro mestiere.
Sono questi i processi che danno luogo a ciò che nei paesi sviluppati si chiama disoccupazione. La lotta contro la disoccupazione o, inversamente, la lotta per la piena occupazione, è stata e resta uno degli aspetti più importanti della politica sociale contemporanea. L'obiettivo della piena occupazione figura a chiare lettere nella Carta delle Nazioni Unite.
Gli elementi essenziali della lotta contro la disoccupazione sono l'informazione e l'orientamento professionale da una parte, le misure finanziarie atte a facilitare le riconversioni dall'altra. Circa il primo punto troviamo gli sforzi per adattare la scuola ai mestieri richiesti dallo sviluppo economico e per ridurre, al contrario, le formazioni professionali tipiche dei mestieri superati, come pure le misure amministrative e i regolamenti relativi alla ‛formazione professionale accelerata'; inoltre, la costituzione di pubblici uffici di collocamento e gli aiuti materiali intesi a favorire la mobilità geografica della manodopera hanno dato notevoli risultati. Le misure finanziarie ed economiche riguardano soprattutto le imprese: riconversione di attività, creazione di nuove attività in territori precedentemente agricoli, ecc.
Nei paesi sviluppati, infine, le indennità individuali di disoccupazione, che non sono tuttavia che un ripiego, sono diventate quasi uguali a piccoli salari e permettono di attendere la pensione a tutta una categoria di lavoratori anziani, difficilmente riconvertibili.
Nei paesi non sviluppati e nei paesi dell'Est a regime comunista, il problema dominante non è la disoccupazione, ma la sottoccupazione. In effetti, non essendo l'impresa sottoposta al controllo dei suoi prezzi di costo da parte del profitto, la tendenza a conservare lavoratori inutili o poco utili è incoercibile. L'assenza di disoccupazione ha dunque come contropartita un eccesso di manodopera per un lavoro determinato. Non è possibile limitare questi eccessi se non attraverso ispezioni e controlli amministrativi, che sono evidentemente molto difficili e comportano in pratica decisioni di natura politica.
Nei paesi sottosviluppati non socialisti, la sottoccupazione assume un carattere più doloroso: gli uomini in soprannumero nelle campagne, dove già non trovano che un impiego insufficiente, affluiscono verso le città, dove si trovano ugualmente in soprannumero. Mancando imprese sufficienti per assorbirli, si ammassano nelle bidonvilles, in cui sopravvivono suddividendosi salari irrisori. Il problema della sottoccupazione, drammatico in tutto il Terzo Mondo, è l'aspetto più importante del conflitto tra progresso economico e progresso demografico.

c) Lotta contro la disoccupazione e la sottoccupazione
La paura della disoccupazione tecnologica è una reazione naturale dell'uomo che vede la macchina sostituirlo nel suo lavoro. Questa paura comparve sin dall'introduzione delle prime macchine nelle officine e basta citare i massacri di Peterloo in Gran Bretagna per ricordare quanto violenta sia stata, all'inizio del sec. XIX, la rivolta dei lavoratori contro le macchine, e quanto crudele la repressione.
Questa paura trova il suo fondamento nei licenziamenti che vengono effettuati in numerose imprese in seguito all'installazione di nuove macchine o a una migliore organizzazione del lavoro negli stabilimenti. Siffatte misure impressionano, giustamente, non soltanto i lavoratori che ne sono oggetto, ma anche i loro compagni, che cercano di difendersi da un tale pericolo.
I progressi rapidi dell'automazione risvegliano la paura di una disoccupazione non più limitata ad alcuni casi particolari, ma massiccia e generale.
La naturale paura degli operai non sembra tuttavia giustificata. Anzitutto, è fondamentale sapere che non ogni progresso tecnico si traduce necessariamente in una riduzione del bisogno di manodopera. Circa gli effetti sull'occupazione, bisogna distinguere nettamente due categorie di progresso. Gli uni, i progressi ‛recessivi', costituiscono un ampliamento della sfera dell'uomo rispetto a quella della natura: ne sono un esempio, in agricoltura, tutte le tecniche che danno all'uomo la possibilità di ricavare dal suolo la stessa quantità di prodotti con minore manodopera e in minor tempo. I progressi ‛processivi', invece, costituiscono un ampliamento della sfera della natura rispetto a quella dell'uomo. Così, la scoperta di materie prime amplia il quadro dell'economia, e lo sviluppo industriale che ne risulta porta alla creazione di nuovi posti di lavoro. La scoperta di un nuovo prodotto: l'automobile o la radio, per esempio, agisce nella stessa direzione. Lo sviluppo dell'industria automobilistica in un paese come la Francia, in cui non ha tuttavia la stessa importanza che negli Stati Uniti, si è tradotto in una richiesta considerevole di manodopera: si stima infatti che il numero di persone che vivono dell'automobile, siano essi operai nelle officine di fabbricazione delle vetture, conducenti o garagisti, sia superiore a un milione (1 persona attiva su 20).
I progressi recessivi permettono all'uomo di soddisfare con meno lavoro i propri bisogni precedenti; quelli processivi, al contrario, soddisfano bisogni che non potevano essere soddisfatti per l'innanzi (si dice, talvolta, in modo inesatto, che il progresso crea nuovi bisogni); danno vita, dunque, a nuovi lavori.
Ora, si stabilisce un equilibrio tra i progressi processivi e quelli recessivi? Il progresso tecnico, a parità di occupazione, accresce il volume della produzione. Ma l'effetto di una produzione crescente sul consumo dipende dal grado di saturazione del mercato. In un'economia poco sviluppata, dove la popolazione soffre di sottoalimentazione, un progresso tecnico nell'agricoltura si traduce in un accrescimento del consumo dei prodotti alimentari. In un'economia più sviluppata, dove la popolazione ha un'alimentazione sufficiente, lo stesso progresso non porterà a una crescita del consumo.
A partire dal 1935, cominciò a farsi strada l'opinione che lo Stato poteva lottare contro la disoccupazione e la sottoccupazione. Da una parte, negli Stati Uniti, furono varati grandi programmi di interventi pubblici; dall'altra J. M. Keynes, economista di fama mondiale, raccomandò vivamente di stimolare le economie in fase depressiva attraverso provvedimenti monetari e finanziari. Nel 1944, il libro di W. H. Beveridge Full employment in a free society ebbe una grande risonanza.
Dopo la guerra, la responsabilità dello Stato in materia di occupazione è stata affermata in tutte le nazioni del mondo. Fin dal 1942, il Regno Unito aveva adottato il principio del Piano Beveridge. La Carta delle Nazioni Unite fa della piena occupazione uno degli obiettivi di tutta la politica economica e sociale. Nel 1962, il Congresso degli Stati Uniti approvò il Man-power development and training act. La Costituzione francese dà esplicitamente allo Stato l'incarico di adoperarsi per la piena occupazione.
Da allora l'azione rivolta verso la piena occupazione fu condotta su due linee. La prima, in cui domina l'empirismo e una quantità di iniziative differenti si sovrappongono senza una pianificazione preliminare, fu adottata quasi esclusivamente dai paesi anglosassoni fin verso il 1965. La seconda, più sistematica, legata alla previsione dello sviluppo economico, imperniata su una previsione dell'occupazione per settori di attività collettiva e per tipi di qualificazione individuale, fu elaborata a partire dal 1950 soprattutto in Francia, nel quadro del Commissariat général au plan.
Fra gli interventi destinati a garantire e a sviluppare l'occupazione, si possono dunque distinguere quelli che sono specifici di questo o quel problema del lavoro e quelli che si rivolgono all'economia nel suo insieme.
Allorché i governi cominciarono a prender coscienza delle loro responsabilità e dei loro poteri in materia di occupazione, la loro tendenza spontanea fu il ricorso a interventi specifici, ‛puntuali', imposti dal luogo, dal tempo e dalle circostanze propri del problema da risolvere: le prime iniziative assunsero la forma di aiuti ai disoccupati e campagne di lavori pubblici. Ai nostri giorni, l'arsenale dei mezzi specifici si è largamente accresciuto.
Data per scontata l'instabilità fondamentale dell'occupazione in periodi di progresso tecnico ed economico, uno dei primi requisiti di ogni azione è un'informazione, la più vasta e la più precisa possibile, dei candidati all'occupazione, dei datori di lavoro, degli insegnanti e dei poteri pubblici circa il mercato del lavoro, la sua situazione locale e la sua probabile evoluzione.
Per il singolo, quest'informazione deve vertere non solo sulle prospettive del mercato locale o regionale del lavoro (o anche nazionale e, al limite, mondiale), ma sulle sue stesse capacità personali di svolgere, o di prepararsi a svolgere, una certa mansione. Di qui il ricorso a consulenti per l'orientamento professionale, idonei a informare contemporaneamente sulle offerte di lavoro da parte dei datori di lavoro e sulle attitudini psicologiche e fisiche degli uomini, delle donne e dei giovani in cerca di lavoro. Oggi, tutte le grandi nazioni hanno creato, e poi sviluppato sotto nomi diversi (Agence Nationale de l'Emploi, Bureaux Nationaux ou Regionaux de l'Emploi, Information for Career Guidance, ecc...), organismi sparsi su tutto il territorio, destinati a favorire un collegamento, sia sul momento che in prospettiva, tra l'offerta e la domanda di lavoro. È però evidente che la complessità delle economie più progredite e la rapidità della loro evoluzione rendono questo adeguamento sempre imperfetto.
In molti casi questi problemi si acuiscono notevolmente su scala regionale. L'intervento tende allora sia ad accrescere la mobilità della popolazione dalle regioni meno favorite verso le altre, sia a stimolare l'economia delle regioni arretrate (per es., la pianificazione regionale in Francia; negli Stati Uniti s'è avuta una quantità di interventi diversi, che vanno dal Trade expansion act del 1962 e dal Revenue act del 1964 all'Indian affairs mobility program).
Questi interventi, a seconda dei paesi, delle regioni e dei tempi, prendono forme assai diverse, che cambiano continuamente. In certi casi, come nella Gran Bretagna a partire dal 1960 e soprattutto dal 1965, il problema essenziale non è più quello di ridurre la disoccupazione, ma di accrescere l'efficienza di quelli che lavorano.
Gli interventi suddetti, anche se condotti a fondo e con la massima sensibilità, non possono annullare né la disoccupazione né gli effetti dolorosi del mutamento di occupazione. Certi economisti arrivano anche a considerare come incompatibili la piena occupazione e la stabilità dei prezzi; altri giudicano che la piena occupazione comporti necessariamente un notevole rallentamento del progresso economico. Comunque sia, i tassi più bassi di disoccupazione restano, nelle nazioni occidentali, superiori all'1%. Questo minimum di disoccupazione si spiega con gli inevitabili trasferimenti e con una reale ‛incapacità di adattamento' di certi uomini a un lavoro regolare.
Tutte le nazioni sviluppate cercano oggi di attenuare le sofferenze umane attraverso vari sistemi di sussidi ai disoccupati, di sicurezza sociale, di imposte sul reddito negative, di assicurazioni contro la disoccupazione, di aiuti alla riqualificazione o alla riconversione, ecc.
Alcuni di questi aiuti finanziari o tecnici vengono elargiti alle stesse imprese, per spronarle a riconvertirsi senza procedere a licenziamenti di manodopera ma organizzando esse stesse il planning di riqualificazione del personale.
Dopo Keynes si è compreso che, a questi molteplici interventi puntuali, si potevano aggiungere politiche globali della fiscalità, della moneta e del credito. Ma solo recentissimamente si è cominciato ad affermare il bisogno di una vera politica dell'occupazione, collegata a - e fondata su - una politica economica d'insieme.
È chiaro, per chi abbia letto l'inizio di questo articolo, che i difficili e mutevoli problemi dell'occupazione e della sottoccupazione non possono essere separati dall'insieme dei problemi dello sviluppo economico e sociale. Fu questa, a partire dal 1945 e soprattutto dal 1950, l'idea-forza dei Plans francesi, lo spirito dei quali era stato definito da J. Monnet. Sia lo spirito informatore che i metodi sono esposti nei Rapports della Commissione per la manodopera del Commissariat gènéral au plan (cfr. in particolare quelli del 1954, 1958, 1961 e 1966); questi rapporti hanno però avuto scarsa influenza e scarsa risonanza all'estero, dove, malgrado la notorietà della pianificazione francese, le idee keynesiane conservano tutto il loro prestigio e dove, di conseguenza, le procedure monetarie sembrano la forma più compiuta e più ‛globale' possibile di politica dell'occupazione.
Il perdurare e persino, si può dire, l'aggravarsi del ‛marasma' economico britannico, e soprattutto, forse, la comparsa di una perniciosa inflazione monetaria negli Stati Uniti, che ineluttabilmente si estende all'intero mondo occidentale, spingono almeno dal 1968 la maggior parte dei grandi paesi alla revisione della loro politica dell'occupazione, e anche di tutta la loro strategia monetaria, economica e sociale. Quel che A. Stoffier ha chiamato future shock e Z. Brzezinski l'‛eta tecnetronica' riguarda sicuramente anche la politica dell'occupazione: la crisi profonda della civiltà industriale avanzata obbliga a integrare i problemi dell'occupazione e della sottoccupazione in un contesto infinitamente più vasto di quello costituito dagli uffici di collocamento, dagli incoraggiamenti alla mobilità, dai prezzi, dalla fiscalità e dalla moneta.
È dunque verso una strategia d'insieme, comprendente non soltanto i problemi monetari e finanziari, ma la globalità dei problemi economici, sociali e culturali, che sembrano doversi orientare le politiche dell'occupazione. Ne sono indizi, per esempio, gli emendamenti successivamente apportati negli Stati Uniti al Man-power development and training act e al Vocational education act, l'istituzione delle Conferenze industriali tripartite in Giappone e la nozione di ‛relazioni industriali', sviluppatasi, come si è detto, nella Gran Bretagna.
Più in generale, il posto dato ai problemi dell'occupazione nelle grandi ricerche prospettiche delle Commissioni economiche dell'ONU e dell'OCDE testimonia lo sforzo intrapreso per collocare i problemi dell'occupazione in un quadro economico e sociale molto più ampio che in passato.

6. Prospettive del lavoro

Le pagine precedenti permettono di comprendere facilmente che il lavoro umano, in pieno mutamento, continuerà a evolversi assai profondamente nel corso dei prossimi anni. Si può tentare di classificare in tre categorie le questioni sul tappeto: i problemi già affrontati e più o meno mal risolti; i problemi già posti in modo serio ma non risolti; infine i problemi appena formulati.

a) I problemi già affrontati
I problemi già affrontati, ma mal risolti, sono innumerevoli. Ricorderemo solo i più importanti, tutti comunque dominati dall'opzione: durata del lavoro/livello di vita. Il problema è sapere se manterremo la durata del lavoro così com'è oggi, o se la ridurremo e in che misura: donde la necessità di una scelta, in quanto sappiamo che ridurre la durata del lavoro, data una certa produttività, significa ridurre anche la produzione e perciò il livello di vita. Questo problema è già stato prospettato prima ed è in realtà classico; qui bisogna però ripetere che le decisioni da prendere sono legate a una concezione della felicità e dell'equilibrio della vita. La tendenza attuale resta quella di sacrificare il genere di vita al livello di vita; essa ingenera una vita frenetica, durante la quale l'uomo consuma con frenesia quanto egli stesso produce con frenesia. È molto probabile che si sia vicini ai limiti tollerabili da parte dell'uomo medio e che l'avvenire vedrà, partendo dagli eccessi, un ritorno ai valori della saggezza.
Da almeno un ventennio le preoccupazioni di umanizzare il lavoro sono dappertutto all'ordine del giorno. È da parecchio tempo, infatti, che Friedmann ha denunciato gli inconvenienti del ‛lavoro in frantumi'. Tale lavoro - specializzato, come abbiamo detto, per motivi d'efficienza - risulta in effetti mal sopportato da uomini il cui livello di vita e il cui livello culturale non cessano di aumentare. Il nostro tempo presenta il paradosso di milioni di operai qualificati il cui livello di vita ha lo stesso ordine di grandezza di quello dei quadri superiori di 30 anni or sono, ma il cui lavoro resta elementare, parcellizzato, ripetitivo, a compartimenti stagni, limitato.
La frantumazione del lavoro non è, d'altra parte, il solo fattore di insoddisfazione; anche lo stato di soggezione dell'operaio nel suo lavoro viene avvertito con grande disagio. Un caso particolare è indicativo al riguardo: il mestiere di domestica tuttofare non è affatto parcellizzato; continua ad abbracciare tutti gli atti della vita quotidiana di cui ha necessità la vita familiare; eppure è oggetto di una disaffezione così profonda che il personale domestico sarebbe già praticamente scomparso nei paesi ricchi se non fosse stato in parte alimentato dall'immigrazione. Oggi una ragazza preferisce un lavoro ‛in frantumi' da operaia qualificata al lavoro variato della casa, nonostante salari spesso superiori. La causa sta nel rifiuto di un rapporto servile.
Finora si è più o meno tentato di risolvere empiricamente questi problemi con una quantità di mezzi differenti, come la gerarchia dei salari, il cottimo a unità, il cottimo a compito e una quantità di altri congegni salariali, l'avanzamento, la selezione, l'orientamento, la formazione professionale. L'uso sempre fluttuante di questi mezzi ingenera una profonda instabilità non soltanto dei salari, ma anche dei regolamenti di fabbrica e della stessa definizione delle mansioni. Le qualifiche, per esempio, sono incessantemente in movimento; altro esempio: i livelli di remunerazione sono anch'essi incessantemente rimessi in discussione. Per dare un'idea dell'ampiezza del movimento, basterà notare che una domestica a ore, in una città come Parigi, guadagnava nel 1910 la quarta parte di quel che guadagnava un manovale, mentre oggi guadagna circa il 20% in più.
Non si può trovare alcuno schema generale in grado di semplificare la descrizione delle oscillazioni e dell'instabilità che ne risulta. La ‛meritocrazia' (che consisterebbe nel dare una maggiore remunerazione a una maggiore efficienza) si mescola irrazionalmente allo squilibrio tra l'offerta e la domanda in certi mestieri e in certe specialità. Tutto sommato, non si può far altro che constatare l'instabilità cronica di un mal definito empirismo.

b) Gli sviluppi in corso
In questo empirismo privo di una linea generale d'evoluzione, prevalso dal 1920 al 1970, due orientamenti hanno cominciato, da qualche anno, a farsi strada. Essi sono ancora troppo recenti perché si possa giudicare la loro vitalità profonda; fanno nondimeno bene sperare. Sono per lo più designati con i termini di ‛orario flessibile' e di ‛antitaylorismo'.
Il sistema degli orari flessibili consiste nel dare ai lavoratori la libertà di scegliere i propri orari di lavoro, pur nel quadro, evidentemente, di una regolamentazione e di una durata globale prefissata. Per esempio, il salariato che ha una giornata di 8 ore potrà cominciare il suo lavoro in un momento di sua scelta, tra le ore 8 e le 10 del mattino. Se comincia alle 9,07, lavorerà quindi fino alle 17,07. Il regime presuppone un periodo di tempo (nel nostro caso, dalle 8 alle 10 e poi dalle 16 alle 18) in cui l'ufficio, o l'officina, ‛girano' con gli effettivi incompleti: questo è il principale inconveniente del sistema dal punto di vista della produzione, cioè dal punto di vista dell'impresa. Si ottiene però, come contropartita, un vantaggio importante: diminuisce cioè l'assenteismo e scompaiono i ‛rosicchiamenti' d'orario. Tutto il personale timbra il cartellino, dal manovale al presidente, e ciascuno viene pagato in base al suo orario reale.
Il salariato perde evidentemente i suoi vantaggi in fatto di rosicchiamento d'orario che sono però, in molte imprese, di lieve entità. Egli guadagna enormemente, al contrario, in fatto di indipendenza e di elasticità. Diventa inutile prendere un treno che parte mezz'ora prima perché il seguente arriva quattro minuti dopo; diventa inutile correre quando si è in ritardo; diventa inutile la richiesta di autorizzazioni ad assentarsi per piccoli impegni. L'esperienza dimostra che i salariati, spesso reticenti prima di farne l'esperienza, si attaccano presto all'orario flessibile, tanto che diventa impossibile ritornare al regime precedente. L'evoluzione avviene, in genere, nel senso di una elasticità sempre maggiore; e l'impresa, alla fine, deve resistere a una tendenza all'allargamento dei varchi. Vengono anche sperimentati, attualmente, regolamenti che consentono ai lavoratori di trasferire crediti di ore da una settimana all'altra, persino da un mese all'altro. Per esempio, nel caso sopracitato di una giornata di 8 ore, un salariato potrebbe fare una settimana di 50 ore, e nella settimana successiva fare soltanto 3 giorni di 10 ore.
Ci si deve rammaricare del nome di ‛antitaylorismo' dato alla tendenza a diminuire la rigidità del lavoro alla catena e, più in generale, del lavoro che richiede mansioni ripetitive. C'è infatti da presumere che, nelle circostanze attuali, se fosse ancora tra di noi, Taylor sarebbe un pioniere dell'antitaylorismo. Si tratta infatti di definire il lavoro industriale non più in funzione del rozzo manovale del 1900, ma in funzione delle capacità d'attenzione, d'adattamento, di comprensione e d'iniziativa dei giovani operai d'oggi. Questi ultimi sono infatti da una parte molto più istruiti e dall'altra molto più creativi dei loro bisnonni di 70 anni or sono. Sono molto più esigenti nei riguardi dell'impresa, ma sono anche capaci di dare ad essa un contributo molto maggiore. Partendo da questo fatto, si tratta quindi di organizzare il lavoro in funzione di squadre che abbiano un'autonomia relativamente larga, sia nella loro costituzione che nella ripartizione delle mansioni tra i membri. Se la sfera di attività è abbastanza vasta, i membri della squadra possono occupare a turno i differenti posti di lavoro, rompendo così almeno in parte la monotonia del lavoro o riducendone la pesantezza. Beninteso, un tale orientamento non trasformerà certo in un piacere permanente il lavoro industriale. Si può tuttavia pensare ch'esso sia un anello importante di un'evoluzione destinata senza dubbio a non aver mai termine.
Un'altra notevole tendenza di questi ultimi anni è quella alla mensilizzazione del salario. Si sa che, tradizionalmente, e in particolare dall'inizio della rivoluzione industriale, gli operai erano pagati a ore, mentre gli impiegati venivano pagati a mese. Questa differenza era una di quelle che separavano ‛i colletti blu' dai ‛colletti bianchi'; e per gli operai si materializzava in un computo molto più rigoroso delle ore di lavoro effettivo e in una moltitudine di regolamenti che rendevano la loro occupazione assai instabile. Per tutto il primo periodo del sec. XX c'è stata un'evoluzione convergente, tendente non solo ad accrescere la stabilità dell'occupazione e la retribuzione dei lavoratori ‛a mese', ma anche ad avvicinare lo status dei lavoratori ‛a ora' a quello dei lavoratori ‛a mese'. Un passo ancor più decisivo è stato fatto alcuni anni or sono: lo status di lavoratori ‛a mese' è stato accordato a un numero crescente di operai. Così, in Francia si è passati, dal 1970 al 1973, da una situazione in cui meno del 10% degli operai aveva lo status di lavoratori ‛a mese', a una situazione in cui tale status è prerogativa di quasi i quattro quinti.
Si può così pensare che la distinzione tra operai e impiegati, per tanto tempo cruciale, sparirà quasi completamente. Quest'evoluzione è parallela a quella che ravvicina da una parte le condizioni di lavoro e dall'altra i livelli culturali di tutti i salariati. Resta nondimeno il fatto che in alcuni paesi, come la Francia, la remunerazione degli impiegati e dei quadri rimane nettamente più alta di quella degli operai, mentre questo non accade in altri paesi, quali la Germania, gli Stati Uniti e i paesi dell'Europa orientale.
Questi fatti danno un'idea dei cambiamenti in atto, sia nella realtà sia nelle idee, che rendono i problemi del lavoro uno dei settori attualmente in più rapida evoluzione in una società in pieno rivolgimento. In essi le organizzazioni internazionali quali per esempio, l'Ufficio Internazionale del Lavoro (BIT) e l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCDE) svolgono un ruolo molto importante. L'OCDE, che raggruppa, com'è noto, le nazioni occidentali, il Giappone, la Finlandia, l'Australia e la Iugoslavia (con statuto speciale) convocò nel 1974 un'importantissima Conferenza sul lavoro nelle società industriali. L'Ufficio Internazionale del Lavoro, che raggruppa praticamente tutte le nazioni del mondo, a partire dal 1919 ha svolto un ruolo molto importante riguardo sia alla regolamentazione che alla realtà effettiva del mondo del lavoro. Oltre alle sue sessioni abituali e in occasione del suo cinquantesimo anniversario, il BIT ha lanciato la preparazione del suo Programma mondiale dell'occupazione, la cui maggiore preoccupazione è quella di adattare l'economia dei paesi in via di sviluppo alla formidabile crescita demografica che li caratterizza fin dal 1960 e che è destinata ad aumentare ancora dal 1975 al 1985.

c) I problemi dell'avvenire
Per ampie che siano queste ricerche e per numerose e diverse che siano le ricerche analoghe intraprese e perseguite in tutti i grandi paesi industriali e in parecchi dei paesi in via di sviluppo, esse sembrano destinate a prendere uno slancio ancora maggiore nel prossimo avvenire e a richiamare ancor più l'attenzione. Il fatto è che il lavoro è un fattore essenziale della condizione umana e la presente crisi della civiltà comporta quindi un nuovo atteggiamento dell'uomo nei suoi confronti.
Come si è detto nell'introduzione, il lavoro era da millenni un elemento della condizione umana, in un senso simile a quello in cui potremmo dire ch'esso lo è per gli animali: un processo vitale che non si può distinguere dalla vita stessa e che mette in opera le forze stesse della vita. Le tecniche scientifiche ci hanno insegnato a distinguere il lavoro dalle altre manifestazioni della vita e a giudicarlo secondo criteri di efficienza.
Al limite, un lavoro così concepito può essere nello stesso tempo molto efficiente e molto costrittivo per l'uomo che lo compie, molto ‛specializzante' e molto ‛disumanizzante'. È chiaro che l'umanità non potrà accettare indefinitamente di sottoporre il lavoro al solo criterio dell'efficienza; e questo sia perché, avendoci l'efficienza consentito l'accesso a un alto potere di consumo, non si può più concepire che uomini con un alto livello di vita (pari a quello delle classi dirigenti di ieri) accettino un lavoro da robot (come gli operai qualificati di oggi); sia perché i problemi di efficienza sono destinati a passare in secondo piano, dato che la rarefazione delle materie prime e dello spazio vitale obbligherà l'umanità, più presto di quanto essa lo desideri, a metter fine alla crescita economica.
I problemi del lavoro, quindi, dovranno esser pensati daccapo nella prospettiva stessa della vita. Daccapo l'uomo chiederà al suo lavoro un modo di essere, un modo di esistere.
Guardando la gente quando fa dello sport, per esempio uomini e donne sui campi di sci, ho pensato spesso al contrasto esistente tra l'attività volontaria e l'attività salariata. Nel primo caso la gente fa volentieri lunghi spostamenti molto gravosi per poter poi compiere faticosi e pericolosi esercizi; nel secondo, le stesse persone, protestando contro il loro sfruttamento da parte dell'impresa o dello Stato, compiono un lavoro remunerato e molto meno faticoso. Il contrasto, senza alcun dubbio, è dovuto anzitutto alla libertà d'iniziativa e poi all'ambiente. Non si potrebbe, non si potrà mai trovare nel lavoro professionale la duplice soddisfazione di compiere, in un ambiente gradevole, azioni che realizzino l'individuo, la ‛persona'?
Allo stato attuale delle cose, queste soddisfazioni le troviamo già certamente in certi mestieri privilegiati e in persone privilegiate, persone cioè che presentano un adattamento particolarmente buono al loro mestiere (per es. uomini di lettere, professori, artisti, ma anche ingegneri, commercianti, uomini politici, sindacalisti militanti, ecc.). Si potrà senza dubbio estendere la gamma di questi mestieri, soprattutto se si accetta, come si è detto sopra, di non far più della produttività l'unico criterio per l'organizzazione del lavoro.
Sembra tuttavia chiaro, per quanto si può umanamente prevedere, che molti mestieri resteranno poco attraenti, fisicamente e psichicamente faticosi. Per questi mestieri i soli compensi prevedibili restano le alte remunerazioni e la breve durata del lavoro. Per i più duri, come quelli dei metallurgici o degli spazzini delle città (finché non si sarà potuto sostituire con canalizzazioni urbane gli attuali sistemi di autocarri con cassoni ribaltabili), si prenderà certamente in considerazione l'idea di servizi civili, analoghi al nostro servizio militare.
Ma c'è un fattore che può dare a questi gravi problemi una svolta inattesa e, in fin dei conti, abbastanza bizzarra. Come oggi si vedono, per esempio, i minatori di carbone e gli operai degli altiforni denunciare la faticosità del loro lavoro e nello stesso tempo rifiutare un mutamento o uno scambio (preferendo, in ultima analisi, monetizzare in salario il loro disagio), allo stesso modo vedremo molto probabilmente che la rarefazione del lavoro gli conferirà nella mente degli uomini una considerazione, un prestigio molto differenti da quelli di cui gode al giorno d'oggi. Presto o tardi, dato che le tecniche scientifiche non cesseranno di perfezionarsi mentre al contrario la crescita economica dovrà rallentare e poi arrestarsi, la durata del lavoro necessario alla produzione nazionale si ridurrà a valori bassi. Già oggi vediamo la gente ricercare volentieri il ‛lavoro nero' (oltre gli orari regolamentari). Quando la durata del lavoro sarà ridotta a 40.000 ore in una intera vita, è probabile che il lavoro diventerà molto ricercato.


Diritto del lavoro di Gino Giugni

sommario: 1. La legislazione sociale e il diritto del lavoro. 2. La dottrina. 3. I contenuti. 4. Il contratto di lavoro: origine e costruzione giuridica. 5. I limiti dell'autonomia individuale. 6. La libertà e l'organizzazione sindacale. 7. Il contratto collettivo di lavoro. 8. Lo sciopero. 9. Le innovazioni delle strutture e delle tecniche giuridiche. 10. Le frontiere attuali del diritto del lavoro. 11. Le ideologie e i modelli normativi. □ Bibliografia.

1. La legislazione sociale e il diritto del lavoro

La formazione del diritto del lavoro come area normativa o disciplina speciale è un fenomeno tipico di questo secolo. Le prime leggi protettive, che costituiscono la più immediata risposta alla ‛questione sociale' e riguardano particolarmente il lavoro delle donne e dei fanciulli o la materia degli infortuni, fanno invero la loro comparsa nel pieno sec. XIX. Il primo Factory act inglese è del 1833; la prima legge francese sul lavoro dei fanciulli è del 1841. Il più tardivo avvento della legislazione sociale negli altri paesi dipende da vari fattori, riferibili o meno ai tempi di sviluppo del sistema produttivo industriale; in Italia esso è dovuto certamente allo sviluppo industriale tardivo; negli Stati Uniti si spiega con la forte resistenza opposta dalle classi proprietarie in nome dei principi di non intervento e di libertà contrattuale; nella Germania guglielmina, invece, la legislazione sociale nasce nella penultima decade del sec. XIX, ma è coeva con le leggi speciali antisocialiste.
Già in questo periodo si delineano un modello liberale d'intervento, di cui è antesignana l'Inghilterra, e uno di tipo autoritario e paternalistico, che caratterizza la Germania imperiale. Il modello liberale corrisponde in genere a condizioni di egemonia politica della borghesia industriale; l'altro, al protrarsi del potere dei ceti agrari e delle caste militari, nonché al parziale perdurare di strutture produttive corporative. L'intervento sociale nell'ambito di regimi autoritari troverà la più coerente espressione nei regimi fascisti.
Questi primi interventi legislativi, pur essendo ricchi di contenuti innovativi di per sé idonei a porre le prime basi per un nuovo diritto, non danno luogo tuttavia a una compiuta elaborazione scientifica fino al nuovo secolo. Essi appaiono in un primo tempo come massi erratici nel gran mare del diritto e in specie del diritto civile. Con singolare sincronia, invece, nei primi dieci anni del sec. XX escono opere sistematiche di alto impegno, dovute ad autori prestigiosi o destinati a diventare tali, che pongono le fondamenta del diritto del lavoro. Rammentiamo in proposito tra i più significativi: Ph. Lotmar e H. Sinzheimer in Germania, P. Pic e (per il diritto dei sindacati) M. Leroy in Francia, L. Barassi e G. Messina in Italia. D'altro lato il famoso Industrial democracy di S. e B. Webb, studio non ispirato da metodologia giuridica, o l'opera delle scuole istituzionalistiche americane (J. R. Commons, J. C. Adams), influenzate dall'europeo ‛socialismo della cattedra', svolgono nei rispettivi paesi un ruolo analogo, e cioè quello di porre sotto la lente dell'osservazione scientifica il nuovo tessuto istituzionale che si era venuto formando soprattutto nella seconda metà del sec. XIX: le leghe operaie, i concordati o contratti collettivi, lo sciopero, il contratto o il rapporto di lavoro.
Il processo di sviluppo delle istituzioni sarà comunque più accelerato che non il flusso di indagini e la sistemazione teorica, e sarà esso, soprattutto, a porre in crisi il rigoroso impianto individualistico del diritto borghese, e di quello civile in particolare. Notevole sarà fin dagli inizi la circolazione internazionale dell'informazione legislativa, mentre emergerà presto anche una pronunciata tendenza all'internazionalizzazione del problema. Tale tendenza vedrà la sua prima manifestazione nel 1890, con la Conferenza internazionale di Berlino convocata da Guglielmo II, e culminerà nel 1919 a Versailles con la costituzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, patrocinata dal presidente Wilson.
Profondo sarà infine l'impatto di fattori politici di portata storica, quali l'avvento delle dittature in Germania e in Italia da un lato, e il New Deal statunitense dall'altro; o anche delle esigenze sociali poste in essere dalle due guerre mondiali. Il fascismo e il nazismo, in particolare, ebbero un effetto distruttivo sulle istituzioni come sulle dottrine, ma le prime apparvero più capaci di immediato recupero che non le seconde. Negli Stati Uniti il New Deal rovesciò completamente e durevolmente l'atteggiamento dello Stato federale nei confronti dei rapporti sindacali. L'emergenza bellica indusse molti paesi ad adottare misure di controllo e di protezione, che sopravvissero ad essa.
In mezzo a tali sequenze di avvenimenti, mentre l'evoluzione degli istituti legali, della giurisprudenza e dei contratti collettivi mutava il modo di essere di questa importante area di relazioni sociali ed economiche, la dottrina, pur abbondante e, nel complesso, sensibile e originale, avrebbe continuato a vedere nel diritto del lavoro un diritto nuovo o ‟un diritto enfant che è tenuto per mano dal vegliardo diritto civile" (v. Scelle, 1922). La verità è che il diritto del lavoro appariva sempre nuovo perché cambiava e cambia continuamente, con un ritmo dinamico certamente più accentuato di quello di altri rami del diritto (ma non di tutti: si pensi al diritto dell'economia o a quello tributario). Ciò che non veniva percepito adeguatamente era l'insufficienza della metodologia dominante, la cosiddetta dogmatica, ossia la tecnica costruttiva procedente per grandi sistemazioni concettualizzanti, a tenere il passo con il fenomeno del cambiamento.

2. La dottrina

Se la nascita di questo nuovo ramo della scienza giuridica può essere datata con certezza e appare quasi contemporanea in alcuni paesi, l'evoluzione sarà diseguale nell'ambito di essi e delle varie aree della cultura giuridica. Una posizione dominante viene comunque assunta subito dalla dottrina tedesca, che eserciterà per lungo tempo una grande influenza, in particolare nell'area latina. Il periodo preweimariano è qualificato da autori come Lotmar e Sinzheimer. Il primo, che era un romanista, seguì una metodologia storico-dogmatica. Il secondo, uno tra gli esponenti più rappresentativi del socialismo giuridico, accanto a Renner e a Radbruch, fu anche membro dell'Assemblea di Weimar e contribuì all'elaborazione della Costituzione; nel tempo apparve sempre più orientato verso le metodologie sociologiche. Nel periodo weimariano nuove scuole fioriscono (ancora Sinzheimer, e poi W. Kaskel, E. Jacobi e molti altri). L'impatto del nazismo però è distruttivo, tanto più che non pochi di questi autori appartenevano alla razza ebraica.
In Italia, l'avvento del fascismo e dello Stato corporativo genera un'abbondante produzione di monografie e di testi che, abbandonando in massima parte i temi che erano stati di L. Barassi (soprattutto il contratto di lavoro), faranno da chiosa ai fasti del regime, anche se in qualche caso saranno raggiunti notevoli livelli di analisi (N. Jaeger) e anche poco permeati dall'ideologia ufficiale (G. Chiarelli). In Francia sembra dominare un orientamento limpidamente esegetico; alcuni autori proporranno la confluenza del diritto del lavoro nel diritto sociale, terzo genere accanto al diritto pubblico e al privato (G. Gurvitch): tale idea vivrà una breve stagione e lascerà una traccia più che altro verbale (‛diritto sociale' è talvolta l'equivalente di diritto del lavoro, particolarmente in Francia e in America Latina). Nei paesi anglosassoni prevale invece in un primo tempo un metodo strettamente ancorato alle esigenze empiriche di commento al diritto vigente.
Fuori dell'orto giuridico, tuttavia, l'impiego del metodo storico o storico-economico dà risultati di rilievo per la scienza giuridica; val la pena di rammentare la scuola del Wisconsin creata da J. R. Commons. Di notevole importanza, come canale tra l'economia e il diritto, è l'opera di sodalizi scientifici come il Verein für Sozialpolitik (si ram- menti il nome di L. von Brentano) e l'American Economic Association. Il nesso si spezzerà più tardi con il prevalere di indirizzi formalistici nell'ambito delle varie e specifiche scienze sociali.
La circolazione internazionale della dottrina, a differenza di quella sull'informazione legislativa (v. sopra, cap. 1), è però a quel tempo scarsa, e si può dire che ogni diritto del lavoro vive nella sua provincia nazionale, se si eccettua la sensibile influenza della dottrina tedesca fino alla caduta della Repubblica di Weimar. È nel secondo dopoguerra che cominciano a porsi le basi per la formazione di una scienza transnazionale del diritto del lavoro, assimilabile per questo aspetto al diritto civile o a quello costituzionale. Ciò avviene in parte per la politica di ravvicinamento perseguita dalle organizzazioni internazionali e da quelle europee in particolare, ma soprattutto grazie all'influenza di O. KahnFreund, allievo di Sinzheimer, emigrato dalla Germania in Inghilterra per ragioni razziali e posto perciò in condizione di confrontare due culture giuridiche così diverse in contesti economici di altrettanto avanzata industrializzazione. L'opera di Kahn-Freund, anche quand'è volta a far comprendere le ragioni dell'atteggiamento empirico dei giuristi inglesi, impiega, dove occorre, categorie concettuali di provenienza eurocontinentale, e ciò rende possibile la comparazione e la costruzione di discorsi metodologicamente uniformi. Un'altra conseguenza è che la stessa dottrina giuslavoristica inglese diventa, come si vede nell'opera di K. W. Wedderburn, più omogenea al diritto eurocontinentale.
In quest'ultimo (e nell'area linguistica spagnola, inclusiva di quella latino-americana) le tendenze in atto sono diverse e, naturalmente, anche contrastanti. Nella Repubblica Federale Tedesca si ha per un periodo il predominio di giuristi formati sotto il nazismo e orientati secondo un metodo formalistico temperato da un uso piuttosto disinvolto della giurisprudenza degli interessi (H. C. Nipperdey); cospicue appaiono ancora le influenze dell'organicismo gierkiano (A. Nikisch). Ambedue queste tendenze interpretano in modo notevolmente moderato il clima di restaurata libertà sindacale ma appaiono certamente in sintonia con gli orientamenti conservatori prevalenti nella nuova Germania. Negli anni sessanta rinasce la scuola di Sinzheimer attraverso la mediazione di Kahn-Freund (Th. Ramm), e si sviluppa la critica politica delle concezioni giuridiche (W. Däubler); l'influenza di Kahn-Freund è anche visibile in Scandinavia (F. Schmidt). In Francia la prima opera sistematica è quella di P. Durand, a cui seguono autori con forte sensibilità comparativistica, portati quindi a inserirsi nel contesto della scienza comune del diritto del lavoro di cui si parlava prima (G. Lyon Caen).
In Italia, dopo un periodo tutto sommato benefico di influenza delle metodologie civilistiche (efficaci come sbarramento alle ideologie fasciste, e anche forti di un alto livello tecnico: per tutti, Fr. Santoro Passarelli e L. Mengoni), si assiste negli anni sessanta a un radicale rinnovamento conseguente all'affermarsi di metodologie sociologiche e di ‛politica del diritto' (G. Giugni, F. Mancini, U. Romagnoli). Oggi è opinione comune che il diritto del lavoro italiano sia uno dei campi sperimentali più fertili per il rinnovamento metodologico di tutta la scienza giuridica (soprattutto del diritto civile e della procedura civile). Una notevole importanza sembra infine destinata ad assumere quest'area della scienza giuridica in Spagna, dopo la fine della dittatura franchista; assai notevole vi appare l'influenza della dottrina italiana, come pure di quella tedesca e francese.
Il diritto del lavoro, dunque, come dimostra questo capitolo di storia della cultura giuridica pur appena tratteggiato, non è il commento tecnico di questa o quella legge nazionale, ma è un campo fertile di esperienze e di rinnovamento della cultura giuridica. In esso il superamento del tradizionale metodo dogmatico, in una con l'impiego della critica politica e sociologica, l'apertura interdisciplinare, la comparazione internazionale, appaiono oramai elementi distintivi costanti.

3. I contenuti

In un primo tempo (più o meno a cavallo tra i due secoli) il diritto del lavoro ha per oggetto la posizione di una serie di consistenti limiti all'autonomia dei soggetti, diretti a contenere le forme più intense di sfruttamento: restrizioni all'occupazione dei fanciulli e delle donne, durata massima dell'orario di lavoro, riposi settimanali, ecc. Questa sfera del diritto del lavoro viene chiamata legislazione del lavoro o sociale o protettiva. Posto che i vari divieti da essa previsti sono sanzionati penalmente e che, in genere, alla loro osservanza sono preposti servizi ispettivi facenti parte dell'amministrazione dello Stato (factory inspectors in Gran Bretagna, ispettori del lavoro in Francia e in Italia), si riconosce l'appartenenza di questa sfera al diritto pubblico.
Un altro aspetto che viene regolato fin dagli inizi è quello indennitario per gli infortuni e le malattie professionali. Il meccanismo dell'assicurazione obbligatoria, una novità per l'epoca (Germania 1884; Italia 1898), è impiegato per coprire il rischio d'impresa per l'infortunio del lavoratore, un principio che andava affermandosi nella giurisprudenza, ma che non costituiva una soddisfacente protezione del lavoratore soprattutto nei casi di fallimento o di cessazione dell'impresa. Con cadenze molto diverse da paese a paese (primo, la Germania imperiale, ultimi, e tuttora lontani dai livelli degli altri paesi, gli Stati Uniti) si diffondono forme di copertura: di altri rischi: vecchiaia, invalidità, disoccupazione, malattie non professionali. Quando la tecnica assicurativa tende a essere sostituita dalla copertura della finanza pubblica, e quando il diritto alle prestazioni non ha più la sua fonte in un rapporto di lavoro ma nella condizione di membro della comunità sociale, si ha il passaggio dal sistema delle assicurazioni sociali a quello della sicurezza sociale, come realizzato in Gran Bretagna nel secondo dopoguerra (Piano Beveridge). In questo caso, la materia dei rischi esce dal campo del diritto del lavoro ed entra in quello dell'intervento pubblico diretto alla soddisfazione dei bisogni sociali. Tale processo è in fase avanzata anche in Italia (M. Persiani).
La regolamentazione legislativa del contratto o rapporto di lavoro compare più tardivamente nella forma legislativa, e sovente è limitata a particolari aspetti, o a particolari rapporti, come quello degli impiegati, oggetto di speciale cura come ceto di servizio della classe industriale. Tuttavia, giurisprudenza e dottrina, anche in carenza totale o parziale di norme esplicite, sono subito impegnate sul terreno dell'individuazione della fattispecie del lavoro dipendente e delle regole da applicare ad esso. È anzi questo il terreno di formazione del diritto del lavoro come sistema scientifico ed è qui una delle parti più importanti e vitali di tale disciplina.
In genere è stato considerato estraneo al diritto del lavoro il rapporto di pubblico impiego, anche se (v. sotto, cap. 10) tale esclusione è sempre meno condivisa.
Infine, la branca più accidentata, anche perché la più sensibile al mutamento politico e all'interazione dei rapporti e delle forze sociali, è il diritto sindacale. Esso riguarda le condizioni di esistenza giuridica delle organizzazioni costituite dai lavoratori e dai datori di lavoro per il perseguimento dei loro interessi, nonché l'attività delle stesse, con particolare riguardo alla stipulazione e agli effetti dei contratti collettivi; e, infine, le forme dell'autotutela, che del diritto sindacale costituiscono una caratteristica saliente e unica. Questo insieme normativo si forma all'inizio con la rimozione di divieti o di altri impedimenti giuridici alla costituzione e attività delle coalizioni sindacali, o allo svolgimento di talune forme di autotutela, e soprattutto dello sciopero. Più tardi esso si può evolvere in una disciplina di tipo garantistico, che frequentemente viene accolta nel corpo dei principî costituzionali. Un tipo di intervento che compare in Svezia e negli Stati Uniti negli anni trenta e si diffonde altrove soprattutto negli anni settanta è quello di promozione dell'attività sindacale.
La linea di spartiacque tra i vari sistemi è comunque il riconoscimento e l'effettività del principio di libertà sindacale. Da esso, che è carattere proprio e distintivo di regime, dipendono caratteristiche differenziali pressoché totali, quali non si riscontrano negli altri rami del diritto del lavoro, dove è anzi in atto una tendenza a marcate uniformità, anche tra regimi sociopolitici diversi.
Al di là di queste ripartizioni, poi, si può affermare che il diritto del lavoro percorre in senso orizzontale quasi tutte le divisioni tradizionali della scienza giuridica, configurando così un diritto internazionale del lavoro, pubblico e privato, un diritto penale, un diritto processuale del lavoro. Il diritto processuale merita una specialissima menzione, perché esso appare quasi sempre costruito su normative speciali o addirittura su giurisdizioni speciali, con partecipazione sindacale (corti del lavoro, probiviri), oppure su sistemi arbitrali regolati dalla contrattazione collettiva. L'importanza del meccanismo processuale è dovuta non soltanto alla funzione di quest'ultimo di realizzare l'effettività delle norme, ma anche al fatto che le decisioni enunciate da tali giurisdizioni speciali o nell'ambito di tali procedimenti ad hoc, in numerosi ordinamenti, hanno posto in essere il primo corpo normativo sostanziale (E. Redenti) o ne alimentano tuttora il rinnovamento. È oggi corrente, nella Repubblica Federale Tedesca, la definizione di tali corti come ‛i veri maestri del diritto del lavoro'. Appare anche degna di menzione la tendenza alla valorizzazione dell'elemento collettivo, pur in una struttura processuale che era stata costruita a misura della lite tra soggetti individuali, e del potere dispositivo ad essi attribuito.

4. Il contratto di lavoro: origine e costruzione giuridica

Nella citata quadripartizione del diritto del lavoro (diritto sindacale, diritto del contratto o del rapporto di lavoro, legislazione sociale, previdenza sociale), in realtà i due settori rappresentativi ai fini di un esame critico delle peculiarità di questa disciplina sono il primo e il secondo. Quella che fu storicamente introdotta come legislazione sociale, infatti, può essere utilmente trattata come limite all'autonomia delle parti nel contratto di lavoro. A sua volta, il diritto previdenziale si è distaccato dal ceppo originario e si muove velocemente in una direzione propria.
La vicenda del contratto di lavoro è una delle più significative dell'esperienza giuridica contemporanea. Lo scambio tra lavoro e mercede, pressoché ignorato dalla codificazione napoleonica (che vi dedica solo due articoli), oggi, se ponderato sulla durata del rapporto che ne discende, è il contratto statisticamente più frequente e certamente quello socialmente più importante. La cessione di opera contro un compenso è alle origini della stessa rivoluzione industriale che si avvale del lavoro salariato, caratterizzato, a differenza di quello servile, dalla massima mobilità, e non soggetto ai vincoli giuridici che erano posti dall'antico regime vuoi nelle strutture feudali, vuoi in quelle delle arti o corporazioni o gilde. Se la società per azioni è la struttura giuridica che ha consentito la raccolta e l'impiego dei capitali, il contratto di lavoro è l'istituto che ha reso possibile l'organizzazione della produzione su scala mai conosciuta, e quindi la riproduzione del capitale stesso.
Il passaggio dai rapporti di soggezione personale, in cui si svolgeva il lavoro per conto altrui nei sistemi feudali, alla libera contrattazione della merce lavoro segue moduli molto diversi tra loro, che lasceranno tracce nella stessa conformazione finale del contratto di lavoro. Nei paesi latini, la frattura è forse più netta, per la forza dirompente della codificazione; in quelli tedeschi permangono fino alla prima guerra mondiale tipi di rapporti di natura personale e quasi servile (come regolati dalle Gesindeordnungen di vari Stati); in America Latina si avverte a lungo l'influenza dell'encomienda; nella common law, lento e graduale, ma sicuro, è il passaggio dal contratto di servizio (master and servant) a quello di lavoro (contract of employment). La necessità di dare al lavoro salariato un'adeguata veste giuridica è a ogni modo avvertita dovunque. I giuristi dell'inizio del secolo (Lotmar, Barassi), in armonia con le tendenze dell'epoca, cercheranno di dimostrare che il contratto di lavoro era già scritto nel libro della perenne saggezza giuridica dei Romani. In realtà, la locatio conductio romana, come è stato validamente dimostrato (L. Amirante), non ha nulla in comune con il contratto di cessione d'opere da svolgere sotto le direttive di un imprenditore e nell'ambito di un'organizzazione produttiva predisposta a tal fine da quest'ultimo. L'operazione compiuta da questi giuristi fu di individuare la fattispecie, e di lavorare sullo schema della locazione (di cose e di servizi), il solo contemplato dai codici di impronta napoleonica o dal diritto romano attualizzato in alcuni ordinamenti (in Germania prima del 1900), per ricavarne una serie di regole di condotta (per es., la garanzia del preavviso di recesso) idonee a fornire un minimo di tutela al contraente prestatore d'opere, compatibile con la massima mobilità del fattore lavoro. E poiché, dominando ancora la grande sistematica pandettistica, si riteneva per certo che il diritto non è inventato dal giurista, ma trovato nelle fonti, il fondo inesauribile a cui si attinse, di fronte alla carenza dei codici borghesi, fu il diritto romano. In realtà, quel che oggi si intende come rapporto di lavoro vive, fino a che non si desta la coscienza sociale del problema, una vita di fatto più che di diritto, ed è a tutti gli effetti un rapporto di dominio da parte del contraente forte (A. Menger), occultato sotto lo schermo del contratto.
Nei sistemi giuridici di common law l'evoluzione segue un modulo diverso. Il rapporto di master and servant viene fissato nel tardo sec. XVIII nell'elaborazione di W. Blackstone, ma ancora con un'accentuazione degli elementi di status di origine feudale rispetto ai principi di libertà contrattuale. Questa elaborazione è parallela all'affermazione del factory system e al contenzioso che si sviluppa intorno ad alcune conseguenze indotte dall'accertamento di un rapporto di lavoro, quale l'applicabilità di benefici previsti dalla Poor law. La relazione master and servant viene poi gradualmente rigenerata per opera di leggi speciali e di contratti collettivi, o, ma con impatto meno sensibile, della giurisprudenza, fino a perdere l'impronta di rapporto di dominio e convertirsi nel contract of employment.
L'individuazione del moderno rapporto di lavoro richiede peraltro un ulteriore passo oltre l'individuazione di un tipo contrattuale distinto dalla locazione. Quest'ultima operazione era stata realizzata dal Codice civile entrato in vigore in Germania il 1° gennaio 1900, ma con uno schema sistematico non ancora coincidente con quello su cui si sarebbe sviluppato il moderno diritto del lavoro, in quanto orientato piuttosto a distinguere i contratti di lavoro secondo il criterio, anch'esso di impropria derivazione romanistica, dell'obbligo di svolgere un'opera, contrapposto a quello di rendere servizi.
La subordinazione alle direttive dell'imprenditore come criterio di individuazione del rapporto di lavoro costituisce l'ulteriore passo innanzi, il momento finale di questo processo, ed esso si generalizza rapidamente nei vari ordinamenti nel primo quarto di secolo.
L'evento nuovo, portato dall'industrialismo, è infatti la concentrazione del lavoro nell'ambito dell'organizzazione produttiva di forma manifatturiera, che sostituisce gradatamente la commessa esterna ai lavoranti a domicilio, propria delle prime fasi del capitalismo. Sovente tuttavia questa modalità di prestazione ha una fisionomia incerta, di difficile qualificazione: nei lavori di specializzazione artigiana, e così pure nel lavoro a cottimo, è ancora possibile intravvedere i segni del contratto per un'opera definita o comunque misurabile nella quantità, svolta, anche se all'interno della fabbrica, in condizioni di autonomia esecutiva rispetto all'altro contraente, e cioè al creditore di lavoro. Ma il cerchio si chiude mano mano che si consolida la forma produttiva della manifattura, e l'indice caratterizzante del contratto di lavoro è allora definito nella subordinazione. Lo stesso lavoro a cottimo, soprattutto a seguito della trasformazione che subisce per l'introduzione dell'organizzazione scientifica del lavoro o taylorismo, assume i caratteri di una variante retributiva del lavoro subordinato. Lavoro a tempo e lavoro a cottimo, che in origine, sempre nella prestazione operaia, sono ambedue fornitura di lavoro retribuita a misura, si congiungono, anche per effetto della pressione sindacale e del garantismo legislativo, in un rapporto tendenzialmente continuativo.
L'asse portante di questo rapporto è il concetto di subordinazione, che però è molto vago, se non rarefatto, e certamente di difficile applicazione pratica. Tale concetto comunque consente una costruzione unitaria del rapporto di lavoro nei termini più elementari di scambio tra prestazione e retribuzione, che ingloba via via tipi di attività con origine diversa da quella del lavoro industriale (lavoro impiegatizio, domestico, salariati agricoli, fino ai dirigenti aziendali). Per effetto di questa operazione concettuale, peraltro, il diritto del lavoro viene a perdere i caratteri dell'originario droit ouvrier, e finisce in sostanza per coprire un'area interclassista: la piccola borghesia impiegatizia dapprima (v. Pic, 19225, p. 4) e, gradatamente e in misura diversa nei vari ordinamenti, la nuova classe dei managers.
In effetti, il riferimento alla condizione sociale proletaria o, il che è lo stesso, alla condizione dell'operaio dell'industria, è frequente tra scrittori di derivazione marxista o appartenenti all'eterogenea area del socialismo giuridico (si rammenti in particolare l'opera di Menger, che eserciterà per altri aspetti una profonda influenza). Tuttavia, mentre la letteratura giuridica marxista appare impegnata piuttosto sul fronte del diritto sindacale, nella dottrina e nella pratica giudiziale si impone il criterio formale della ‛dipendenza' o ‛subordinazione', che non solo diviene l'elemento qualificante del rapporto ma anche, sebbene con tonalità diverse (e con particolare accentuazione in Italia), il presupposto per l'applicazione del diritto del lavoro in generale. Il tentativo di qualificare più corposamente l'elemento della subordinazione ricorre più volte con la valorizzazione dell'elemento impresa o organizzazione del lavoro. Questo orientamento, che persegue il superamento della concezione atomistica e individualistica del contratto, viene enunciato in Germania da giuristi di ispirazione socialista (H. Potthoff, H Sinzheimer), che pongono in speciale evidenza il rapporto di potere che discende dal contratto di lavoro. Esso si ripropone, tuttavia, e con maggiore anche se effimero successo, nel clima culturale delle dittature fasciste; il collegamento lavoro-impresa viene evocato per rinsaldare il principio di autorità (Führerprinzip e art. 2086 del Codice civile italiano) (W. Siebert) o quanto meno per dare fondamento a una concezione organicista del rapporto di lavoro, di ispirazione romantico-medievalista, impostata sulla fedeltà del lavoratore e sulla protezione dell'imprenditore (von Gierke, Nikisch). Nei paesi ad alto livello industriale, il rapporto di protezione si presenta tuttora in Giappone, al di là dello schema contrattuale, come la nota tipica della prestazione di lavoro, soprattutto nella grande impresa. La concezione opposta del rapporto di scambio, applicabile al lavoro nell'impresa come a quello fuori di essa, domina invece, pressoché incontrastata, nel mondo anglosassone (T. Ascarelli), e prevale anche nei paesi a economia statizzata (v. Weltner, 1970, p. 117).
Collaterale all'individuazione del rapporto di dipendenza è quella, più densa di contenuto politico-sociale, della posizione del lavoratore come contraente più debole (v. Menger, 1890, p. 23; v. Commons e Andrews, 19364, p. 502). Kahn-Freund (v., 19772, p. 6) potrà pertanto affermare che ‟l'oggetto principale del diritto del lavoro è sempre stato, e mi azzardo a dire che sempre sarà, di costituire una forza di bilanciamento atta a compensare la diseguaglianza di potere contrattuale che è inerente, e tale non può non essere, al rapporto di lavoro". Questa constatazione è all'origine delle limitazioni poste all'autonomia delle parti, in quanto comporta l'abbandono dell'ipotesi di eguaglianza tra i due soggetti e del rapporto contrattuale come effetto di un incontro tra volontà libere ed eguali. Lo stesso problema, in altri ambienti culturali, viene formulato accentuando gli aspetti di tutela della persona piuttosto che quelli inerenti al rapporto di mercato: posto che il lavoro non è assimilabile a un bene dato in locazione, e poiché la prestazione coinvolge la personalità del lavoratore, ne viene dedotta la necessità di limitare, nella determinazione dei termini di scambio, una libertà che finisce per volgersi a danno di una delle parti.
Sia che l'argomento venga fondato su basi socioeconomiche, sia che riveli le tracce di un'ispirazione personalistica, l'esito di diritto positivo è lo stesso, nel senso che il rilievo del momento volontario viene progressivamente ridotto, fin quasi ad annullarsi. I contenuti del contratto sono determinati da fonti sovrastanti alle parti - le leggi o gli accordi collettivi - mentre anche il momento della costituzione del rapporto viene sottoposto in taluni ordinamenti a vincoli intensi (si pensi alle assunzioni obbligatorie di soggetti a ridotta capacità lavorativa, o al collocamento obbligatorio, come vige in Italia, per vero con scarsa effettività).
Conseguentemente, numerose voci si sono levate in dottrina per sostenere la non contrattualità del rapporto di lavoro. Nei paesi di common law, tale problema è stato formulato (A. V. Dicey) come un processo inverso rispetto al passaggio dallo status al contratto, che aveva invece caratterizzato il sec. XIX. D'altra parte, vi è da rammentare che il diritto nordamericano, a differenza di quello inglese, rifiuta in genere la nozione di contract of employment, e privilegia il momento del rapporto (employment relationship); e ciò anche a seguito della diversa efficacia e funzione del contratto collettivo rispetto a quello del diritto britannico (v. Wedderburn, 19712, p. 79; v. sotto, cap. 7).
È pur vero, tuttavia, che un nucleo di rilevanza della volontà sussiste pur sempre, vuoi nella stipulazione di condizioni più favorevoli di quelle prestabilite in sede eteronoma - come è ammessa nella maggior parte degli ordinamenti - vuoi nella costituzione del rapporto che richiede la volontà delle parti, anche nei pur limitati casi in cui essa è oggetto di costrizione: per esempio, quando il lavoratore che non accetti un'offerta di lavoro adeguata perde determinati benefici oppure quando il datore di lavoro sia obbligato ad assumere i lavoratori di ridotta capacità lavorativa (obbligo a contrarre). La soluzione del problema dipende in ultima analisi dalla nozione di ‛contratto' che lo studioso premette all'argomentazione (v. Rodotà, 1970, p. 25); nozione che oggi è tutt'altro che univoca. Ove si accetti la concezione di impronta giusnaturalistica del contratto come strumento di libertà, arduo sarebbe infatti riferirvi la moderna disciplina del rapporto di lavoro.
La nozione di contraente più debole viene in genere data come coincidente con quella di dipendenza o subordinazione. Anche sotto questo aspetto è dato individuare la contraddizione, già posta in luce, tra la definizione del contratto e la funzione economico-sociale del diritto del lavoro. Infatti la condizione di contraente più debole copre un'area in taluni casi più ampia del rapporto di dipendenza (questo dicasi per esempio con riguardo a rapporti associativi in agricoltura o a certe forme di agenzia o di lavoro autonomo continuativo con gli stessi committenti); in taluni casi più circoscritta, dato che non tutti i lavoratori subordinati sono economicamente ‛deboli' (questo dicasi per tutte le alte posizioni direttive o tecniche). L'aver privilegiato il criterio formale (la subordinazione nell'esecuzione del rapporto) rispetto a quello reale (l'esistenza effettiva di uno squilibrio di forza contrattuale) ha probabilmente contribuito a distorsioni del sistema, poiché ha iperprotetto rapporti che già si svolgevano in condizioni di relativo equilibrio, e ha lasciato invece fuori rapporti sociali di intenso sfruttamento.

5. I limiti dell'autonomia individuale

Il diritto del lavoro, per l'aspetto che concerne il contratto di lavoro, è un sistema di limiti all'autonomia privata. Esso si realizza con le tecniche giuridiche dell'invalidità (per es. nullità del contratto stipulato dal minore non provvisto di capacità giuridica lavorativa o del patto di mutamento peggiorativo delle mansioni); delle clausole imposte (per es. nullità di clausole difformi dalla legge o dal contratto collettivo e sostituzione di diritto con quelle previste da tali fonti, tra cui principalmente quelle relative alla misura del salario); dell'obbligazione risarcitoria (frequente nei casi di licenziamenti illeciti, ma non qualificati come invalidi); e, non di rado, della sanzione penale.
Una tecnica ‛promozionale', articolata su incentivi o sanzioni positive (per es., la costituzione di un rapporto in caso di mancata assunzione per motivi illeciti), appare negli anni più recenti, soprattutto nelle leggi antidiscriminatorie (v. sotto, cap. 9).
La materia oggetto di queste norme restrittive dell'autonomia privata è amplissima e variamente distribuita tra leggi e contratti - né va sottaciuto l'influsso che per es. negli Stati Uniti o in Italia hanno avuto le Costituzioni. A un sommario esame, si possono indicare tra gli argomenti più ricorrenti nella fonte legislativa: capacità di lavoro, forma del contratto, durata massima del lavoro, ferie e festività, sicurezza e igiene del lavoro, invalidità del contratto, obbligazioni accessorie del datore di lavoro e del lavoratore, licenziamenti. Tra gli argomenti propri piuttosto dei contratti collettivi: minimi retributivi e classificazioni professionali, lavoro straordinario, indennità relative alle condizioni di lavoro, incentivi, cottimi e premi di produzione, trattamenti di risoluzione del rapporto e, più di recente, livelli di occupazione, controllo del decentramento industriale. Sovente, comunque, la legislazione fissa i principi e i contratti collettivi vi danno applicazione, ovvero questi ultimi introducono innovazioni che la legge consolida e generalizza. A tali materie si aggiungono ora le legislazioni contro la discriminazione, soprattutto razziale e per sesso, che hanno la prima realizzazione con il Civil rights act emanato negli Stati Uniti nel 1963. Inoltre, è recentissima una tendenza a estendere l'area normativa oltre la protezione degli interessi patrimoniali o del benessere fisico, per fornire una tutela della libertà e dignità del lavoratore nella vita di relazione in fabbrica (in Italia, Statuto dei lavoratori, 1970). Ciò può essere realizzato anche mediante l'attribuzione di specifiche competenze ai consigli di fabbrica (RFT, 1972) o ai sindacati (Svezia, 1976).
Il progresso della normativa del contratto di lavoro segue comunque due tracciati ideologicamente divergenti. Da una parte si ribadisce la natura ‛personale' del rapporto, per cui il sistema delle garanzie viene articolato sulla premessa, che è a un tempo descrittiva e ottativa, del pieno coinvolgimento del lavoratore nella vita dell'impresa e del dovere di fedeltà a quest'ultima. L'esito politico coerente di tale concezione, che presenta forti impronte organicistiche, è stato l'attribuzione ai lavoratori di poteri di cogestione, in una con l'attenuazione degli elementi di conflitto d'interessi con l'altra parte: e questo è apparso il caso della Repubblica Federale Tedesca. Dall'altra, soprattutto nei paesi anglosassoni, ma anche in Francia o in Italia, l'orientamento di principio è piuttosto nel senso di tutelare la persona, impedendo che venga coinvolta nella sfera di interessi dell'imprenditore a cui, a costanza di sistema politico e sociale, essa appare sostanzialmente estranea. La linea di tendenza in questo caso è verso il potenziamento delle garanzie giuridiche contro l'imprenditore, la riduzione dei doveri del lavoratore al puro ambito della prestazione convenuta, nonché verso il riconoscimento dei diritti di libertà nei luoghi di lavoro. Tuttavia, ad onta delle diverse premesse ideologiche, gli esiti sono sovente omogenei; così, a proposito di esercizio della libertà sindacale (ma assai meno in tema di sciopero) o di tutela della dignità del lavoratore, sia nel posto di lavoro sia, anche con l'affermarsi del principio dell'irrilevanza della vita privata nelle vicende del rapporto (v. cap. 10), fuori di esso. La stessa partecipazione agli organi dell'impresa, che ha celebrato i suoi fasti, come si ricordava, nella Repubblica Federale Tedesca, è ora oggetto, nel ben diverso ambiente culturale britannico, di una proposta ufficiale (Rapporto Bullock, 1976).
Infine, la prevalenza degli elementi di collaborazione su quelli conflittuali, nel nome della disciplina socialista del lavoro, è connaturata all'ideologia giuridica dei paesi comunisti dove, comunque, non è venuto meno l'apparato garantistico del lavoratore nei confronti della proprietà collettiva (v. Weltner, 1970, p. 172). Anche qui sono rilevabili tendenze non uniformi. Così il riferimento alla disciplina socialista (cfr. Codice del lavoro cecoslovacco, 1970 e il Codice del lavoro della Repubblica Federale Tedesca, 1961), cui è propria l'idea di una intensa fedeltà all'impresa, non compare nel recentissimo Codice del lavoro polacco (1976), che (art. 12) impone al lavoratore, in termini più cauti, il dovere di ‟impegnarsi a conseguire dal proprio lavoro i migliori risultati possibili e di manifestare a tal fine l'appropriato spirito di iniziativa nonché ad aver cura dell'interesse e dei beni dell'azienda".

6. La libertà e l'organizzazione sindacale

Come abbiamo ricordato, per diritto sindacale si intende il sistema di norme che si pone come cornice all'attività dei gruppi organizzati. Condizione di esistenza del diritto sindacale è pertanto che vi siano gruppi organizzati o coalizioni. I rapporti di diritto sindacale sono rapporti tra ‛po teri collettivi': le coalizioni dei lavoratori e le imprese, intese queste ultime come ‟accumulazioni di risorse materiali e umane che ne fanno un potere collettivo" (v. KahnFreund, 19772, p. 6). La formazione delle coalizioni operaie, in conflitto con il potere collettivo delle imprese, è fenomeno tipico del sec. XIX, ed è effetto indotto dall'industrialismo, anche se non sempre dalla concentrazione del lavoro nelle manifatture (o factory system) (v. Commons e altri, 1918, vol. I, p. 8, con riferimento alla storia americana, in cui le prime coalizioni si formano nello stadio del capitalismo mercantile).
La tipologia del diritto sindacale è variegata, e dipende a sua volta dalla tipologia delle relazioni industriali in ciascun determinato paese. Un quadro compiuto e analitico, al di là della comparazione tra le istituzioni legali, potrebbe oggi essere definito con l'ausilio della disciplina delle ‛relazioni industriali' approfondita soprattutto nei paesi anglosassoni (v. Sellier, 1976). Essa, secondo la definizione di Spyropoulos (v., 1976, p. 17), ‟si riferisce ai modi con cui vengono stabilite e applicate le norme di lavoro e ai modi con cui vengono adottate le decisioni per distribuire tra i produttori i frutti dell'attività produttiva". In questo ambito disciplinare sono state elaborate tipologie differenziali, che tengono conto di variabili, tra cui le principali sono: regime politico; livello dell'industrializzazione; struttura del mercato del lavoro; motivazioni e comportamenti dei soggetti (imprese, sindacati, operatori pubblici). Ogni data combinazione delle variabili genera un sistema di relazioni industriali; che è comunque un sistema di norme di lavoro (v. Fox e Flanders, 1969).
Da un punto di vista rigorosamente giuridico, deve riconoscersi che il diritto sindacale appare in tutti gli ordinamenti in cui è ammessa l'esistenza del gruppo organizzato. Sotto questo aspetto, pertanto, è dato affermare l'universalità del diritto dei gruppi organizzati, apparendo ormai del tutto superate quelle strutture legali rigorosamente individualistiche che, in polemica con l'ancien régime, avevano improntato costituzioni e codici del secolo passato.
Questa ‛universalità' del diritto sindacale, testimoniata anche dalla quasi totale adesione delle nazioni all'OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), non vale peraltro a sfumare la discriminante fondamentale, che è quella tra gli ordinamenti caratterizzati dal riconoscimento e dall'effettività della libertà sindacale, e quelli invece dove questa, di diritto o di fatto, non è operante: vuoi nei regimi autoritari, qualificati o no da ordinamenti corporativi della produzione, vuoi nei regimi di modello sovietico, per la particolare posizione che ivi assume il sindacato. In tali sistemi, comunque, è dato sovente constatare una discrepanza clamorosa tra la normativa, che consacra il principio di libertà, e la realtà di fatto. Tali contraddizioni hanno formato oggetto in alcuni casi di denunce o di interventi nel seno di varie organizzazioni internazionali (Comitato per la libertà sindacale dell'OIL, Comitato di esperti per l'attuazione della Carta sociale europea presso il Consiglio d'Europa).
In una trattazione che, come la presente, non si propone direttamente obiettivi di comparazione giuridica, ma intende piuttosto porre in luce i tratti più originali di questo ramo del diritto, attingendo i dati significanti dei vari ordinamenti, appare opportuno concentrare l'attenzione sulle strutture che traggono origine dall'antagonismo tra capitale e lavoro, e che sono perciò costruite sul rapporto ‛conflittuale' tra i poteri collettivi dianzi rammentati. I sistemi conflittuali presuppongono: a) un'identità dell'organizzazione sindacale del tutto distinta da quella dello Stato e libera da ingerenze di quest'ultimo; b) la disponibilità di strumenti di autotutela, e perciò, principalmente, dello sciopero. L'antagonismo conflittuale può avere o no connotazioni riconducibili alla lotta di classe; quest'ultima appare pressoché irrilevante, per esempio, in un sistema di relazioni industriali pur accesamente conflittuale come quello degli Stati Uniti. Tale antagonismo non viene a priori escluso, almeno sul piano teorico, in regimi che si definiscono di dittatura del proletariato (cfr. per esempio, la Costituzione cinese del 1975, che ammette la libertà di sciopero).
Nel diritto sindacale così inteso acquistano rilevanza centrale tre istituti o gruppi di istituti giuridici: la libertà sindacale e il sindacato; il contratto collettivo di lavoro e le procedure per la stipulazione di esso; le forme di autotutela.
Prima di esaminare, sia pure in forma sintetica, tali istituti, è peraltro necessario porre in rilievo una peculiarità ulteriore di questo ramo del diritto, propria soprattutto dei sistemi di antagonismo conflittuale; e cioè che la materia di esso non si identifica sempre con quella dell'ordinamento giuridico dello Stato, potendosi avere in taluni e non infrequenti casi una produzione normativa ‛non azionabile' in sede di giurisdizione statuale e rimessa a meccanismi sanzionatori interni allo stesso sistema delle relazioni industriali. Tale fenomeno è visibile nel sistema britannico dove, come si accennerà più oltre, il contratto collettivo è una realtà viva e operante, ma normalmente priva di enforceability diretta; e lo stesso è stato riscontrato (v. Giugni, 1960) in alcuni momenti e aspetti dei rapporti collettivi di lavoro in Italia.
Il tema della libertà sindacale, principio elevato a valore costituzionale solo nelle costituzioni di questo secolo (Messico, 1917; Germania, 1919; Francia, 1946; Italia, 1948; RFT, 1949; Carta delle Nazioni Unite, 1945) si pone in primo luogo con riferimento agli individui, e acquista valore problematico soprattutto nel profilo della cosiddetta libertà sindacale negativa, e cioè della libertà di non aderire a una determinata o a nessuna organizzazione sindacale. Tale problema è particolarmente sentito nei paesi (soprattutto anglosassoni) in cui è diffusa nelle sue numerose varianti la pratica dell'union shop, in forza della quale l'iscrizione al sindacato diviene condizione per l'occupazione. Qualora non si ritenga che la libertà sindacale sia riferibile anche all'aspetto negativo di essa, sorge un conflitto, che può tingersi di forti cariche polemiche, con riguardo al principio, anch'esso a volte costituzionalmente garantito, del diritto al lavoro. In questo contrasto tra interesse collettivo e individuale, di non rara ricorrenza nel diritto sindacale, l'obiettivo di rafforzare l'organizzazione e rendere effettiva la libertà collide con la costruzione della libertà stessa in termini rigorosamente individualistici. La stessa consistenza del problema varia a seconda che sia operante un sindacalismo unitario e non ideologico, oppure un sindacalismo pluralistico fondato su differenze di credo politico, che rendono più essenziale la garanzia del diritto di non appartenenza, e cioè della libertà sindacale negativa. Si può comunque rilevare, nel complesso, un atteggiamento restrittivo da parte dei vari ordinamenti nei confronti delle clausole di appartenenza obbligatoria: limitate negli Stati Uniti, soprattutto dalle leggi statali (le leggi sul right to work, vivacemente contrastate dal movimento sindacale), esse sono state dichiarate incostituzionali dalla Corte federale del lavoro della Repubblica Federale Tedesca.
Un ulteriore importante sviluppo viene dall'applicazione della garanzia di libertà anche nei rapporti interprivati (l'effetto di Drittwirkung, v. sotto, cap. 9), laddove la concezione dei diritti di libertà come diritti pubblici soggettivi vedeva come termine di essi solo lo Stato. Intesa in questo senso, la libertà sindacale diviene diritto alla non discriminazione da parte del datore di lavoro, e genera lo sviluppo di tecniche giuridiche appropriate. Già in tal modo essa acquisisce una dimensione collettiva come fattore di equilibrio rispetto al potere ‛collettivo' dell'imprenditore.
Tale valenza collettiva appare naturalmente più netta quando la normativa riguarda il sindacato in quanto tale. Si noti però che negli ultimi decenni il problema della qualificazione giuridica del sindacato inteso come associazione è stato ridimensionato e condotto nei suoi giusti termini; l'attribuzione della personalità giuridica è apparsa di per sé come uno strumento valido soprattutto ai fini patrimoniali, peraltro non tipici né di primaria importanza nell'esperienza sindacale, ma non come presupposto necessario per altri effetti di maggior rilievo.
L'associazione sindacale appare pertanto oscillare tra la figura della persona giuridica vera e propria, forme di soggettività attenuata (Francia) o di certificazione (Gran Bretagna, 1975) e la qualificazione di associazione di fatto, ma pur sempre idonea a costituire un centro di imputazione unitario per alcuni rapporti giuridici (Italia, Repubblica Federale Tedesca). Una menzione a parte meritano invece le rappresentanze aziendali, perché sovente esse appaiono fondate sulla rappresentanza elettorale anziché su quella associativa. Nell'ordinamento tedesco, e fin dal tempo di Weimar, il consiglio di fabbrica non è organo associativo né sindacale. Nell'esperienza italiana di questi ultimi anni, il consiglio di fabbrica si è invece sviluppato secondo un modulo riconducibile sul piano funzionale all'organizzazione sindacale, mentre sul piano strutturale permane una dicotomia tra l'associazione fondata sul principio di adesione e l'istituzione aziendale alla cui formazione possono partecipare tutti i lavoratori.
Nonostante la variabile qualificazione giuridica, l'associazione sindacale presenta, in vario grado, ricorrenti forme di capacità, come alcune legittimazioni processuali, la legittimazione a stipulare contratti collettivi, a proclamare lo sciopero o, sul piano pubblicistico, a designare rappresentanti in corpi o collegi pubblici. A tal fine può essere richiesto il requisito della rappresentatività, che è una valutazione di effettività dell'organizzazione: così, in Francia, dal 1971 la capacità contrattuale è riservata ai sindacati rappresentativi; l'Employment protection act emanato nel 1975 in Gran Bretagna impone invece il requisito della indipendenza.
Una linea di tendenza in espansione è quella della normativa di sostegno dell'attività sindacale, che è in realtà un conseguente sviluppo della garanzia di libertà sindacale, nelle forme di esercizio collettivo di essa. Anche qui l'attività del sindacato, in genere, viene presa in considerazione, per implicito o espressamente, in base alla rappresentatività e cioè in ragione della rilevanza sociale dell'attività dispiegata dal sindacato stesso. A vantaggio di questo l'ordinamento riconosce specifiche capacità o diritti, a cui corrisponde, generalmente, una restrizione della sfera giuridica dell'imprenditore. Permessi retribuiti per lo svolgimento dell'attività sindacale, facoltà di indire assemblee anche nel luogo di lavoro, diritto di affissione e di sede nei locali aziendali, diritto di prelievo dei contributi: l'una o l'altra di queste forme dell'attività sindacale trovano espliciti riconoscimenti nella legislazione francese (1968), nello Statuto dei lavoratori italiano (1970), nel Trade unions and labour relations act britannico (1974). Si possono menzionare inoltre le sovvenzioni da parte degli imprenditori previste da contratti collettivi nel Belgio. La legge può infine intervenire a sancire veri e propri diritti di informazione, di negoziazione o di codeterminazione: siamo allora peraltro in un campo che non attiene più all'attività sindacale in quanto tale ma ai rapporti tra i contrapposti poteri collettivi, ed è materia che può essere affrontata nell'ambito dei problemi connessi all'attività di contrattazione collettiva, soprattutto nei suoi più recenti sviluppi (v. sotto, cap. 10).

7. Il contratto collettivo di lavoro

Il contratto collettivo di lavoro è lo strumento che stabilisce la misura e la qualità del rapporto di equilibrio tra i due poteri collettivi antagonistici. Con il contratto collettivo viene posta in essere una composizione temporanea del conflitto, generato, il più delle volte, dalle ‛rivendicazioni' dei lavoratori: nulla impedisce peraltro che siano l'imprenditore o la coalizione degli imprenditori a proporre proprie rivendicazioni, e così avviene ad esempio quando il conflitto insorge a seguito di riduzioni del personale.
Il contratto assume pertanto una funzione sociale di ‛trattato di pace' (v. Scelle, 1922; v. Kahn-Freund, 19772, p. 122) e, riguardo al suo contenuto, pur ribelle a ogni definizione ontologica, esso può essere individuato in: a) norme che regolano in via diretta i contenuti dei rapporti di lavoro; b) norme che regolano le procedure per la determinazione delle prime, ponendo vincoli ‟ai comportamenti e alle modalità d'azione delle diverse organizzazioni formali e informali che fanno parte del sistema di relazioni industriali" (v. Fox e Flanders, 1969). Questa tipologia funzionale di contenuti corrisponde a quella tra norme di condotta e norme sulla produzione giuridica, ben nota nella giuspubblicistica, ma è stata resa nel diritto del lavoro, coltivato soprattutto da scrittori di cultura civilistica, in base alle differenze degli effetti discendenti da esse. Si è così consolidata una distinzione, la quale trae origine dalla dottrina tedesca (v. Sinzheimer, 1908, pp. 92 ss.) e appare ampiamente diffusa (in Italia per opera di Messina, in Francia di Durand), tra la parte normativa (ricollegabile a sua volta alla specie del contratto normativo) e la parte obbligatoria del contratto. La distinzione è importante e tuttora attualissima; tuttavia essa, per la ragione anzidetta, può risultare deviante rispetto a una cognizione funzionale dell'istituto, ed è mal adattabile alle clausole o parti procedurali e istituzionali (per es., commissioni miste, procedure arbitrali e di conciliazione, fondi previdenziali) tutt'altro che infrequenti nell'esperienza contrattuale.
La funzione primaria di composizione del conflitto è comune a tutti i contratti che sono, per l'appunto, atti di composizione di interessi. La tipicità del contratto qui in esame è data dalla natura collettiva dei soggetti coinvolti, per cui gli interessi in gioco divengono interessi collettivi. La funzione ‛di pace' assume peraltro caratteri specifici dove e quando si prolunga in un impegno di non modificare l'assetto di interessi per un tempo determinato. In Germania fu acquisito fin dalle origini (v. Sinzheimer, 1908, pp. 171 ss.) che ogni contratto collettivo comprendesse come effetto naturale il dovere di tregua o di pace sociale, nel senso che ne derivasse un obbligo per i sindacati stipulanti di astenersi da scioperi inerenti alle materie regolate dal contratto stesso, fino alla sua scadenza.
Il dovere di pace ‛relativo' (da distinguersi dal dovere ‛assoluto', che è l'impegno, questa volta non implicito, a non ricorrere all'azione diretta neppure per materie non regolate nel contratto), è invece altrove ritenuto un effetto del contratto solo se abbia formato oggetto di un esplicito accordo (clausola di tregua o di no-strike). In paesi dove il diritto di sciopero ha un riconoscimento costituzionale, in particolare in Italia e in Francia, si è persino dubitato della validità di tali clausole, in quanto comportano una rinuncia, sia pure temporanea, all'esercizio di un diritto costituzionale. Al di là di tali dispute, è dato constatare che l'intensità del vincolo che deriva dal contratto è un riflesso, in sede di disciplina legale, del grado di vocazione conflittuale del sindacato e/o di accettazione del conflitto stesso da parte del sistema politico. Non è casuale il fatto che la dottrina dell'obbligo di pace come effetto naturale del contratto collettivo sia propria di un paese dove i conflitti di lavoro sono fortemente contenuti, mentre, sia pure in modo diverso, la vincolatività dei contratti nel senso qui esaminato è stata ed è oggetto di accesa controversia in Gran Bretagna, come in Italia e in Francia.
Sotto il profilo economico, il contratto collettivo, in quanto posto in essere da una coalizione di operatori nel mercato del lavoro, o (qualora anche gli imprenditori siano organizzati) da due coalizioni contrapposte, è uno strumento limitativo della concorrenza; tende cioè a creare un mercato monopolistico. Per tale ragione esso, in passato, fu colpito negli Stati Uniti mediante la legislazione anti-trust. Trattandosi di un mercato caratterizzato da spiccati aspetti di imperfezione e di squilibrio, la limitazione della concorrenza è tuttavia apparsa come un fattore di normalizzazione del mercato stesso.
Tale funzione normalizzatrice può svolgersi in due modi: con il controllo dell'accesso al lavoro e con l'imposizione della norma comune (Webb). Il primo metodo si attua con il collocamento sindacale, ed eventualmente con l'adesione obbligatoria (union shop; v. sopra, cap. 6), integrata sovente da condizioni restrittive di ammissione. Quest'ultima forma appare tipica del sindacalismo di mestiere (v. sindacalismo). Il secondo metodo è quello che si giova, soprattutto, del contratto collettivo. Esso può essere orientato alla determinazione dei minimi, derogabili dai soggetti individuali solo con trattamenti più favorevoli ai lavoratori, e questo è tipico della maggior parte dei paesi europei; oppure, come negli Stati Uniti, può fissare le condizioni effettive, e in tal caso il contratto collettivo vanifica praticamente quello individuale.
È in ragione di tale funzione normalizzatrice del mercato che si avverte la necessità di attribuire al contratto collettivo la più ampia sfera di efficacia. E poiché negli ordinamenti ispirati ai principî privatistici esso ha effetti circoscritti agli stipulanti (sindacati e loro iscritti), si pone il problema di generalizzarne l'area di applicazione.
Tale risultato può essere conseguito di fatto quando il tasso di sindacalizzazione è molto elevato, mentre nel caso diverso vengono in genere sperimentati vari meccanismi di estensione: da quello dell'union shop, che indirettamente estende il contratto a tutti i lavoratori dell'azienda, alla generalizzazione del contratto a un intero ramo produttivo mediante un atto normativo, fino all'efficacia direttamente erga omnes. Quest'ultima fu introdotta in Italia dal regime corporativo e, prevista dalla Costituzione, ma con norma rimasta inattuata (art. 39, comma 3), venne realizzata nel 1959 da una legge ‛transitoria', che diede forza normativa ai contratti collettivi allora esistenti. In questi ultimi anni il generale rafforzamento dei sindacati, congiunto a indirizzi giurisprudenziali equitativi, hanno comunque prodotto anche in Italia una situazione di quasi generalizzazione di fatto. Si noti che, quando è elevata la sindacalizzazione, anche dove è prevista la possibilità di estensione con atto normativo, raramente a essa vien fatto ricorso (così nella Repubblica Federale Tedesca).
Le due funzioni di regolamentazione dei rapporti di lavoro e di controllo sul mercato (v. Kahn-Freund, 19772) appaiono perciò strettamente connesse, fino a fondersi in una sola. La variabile da prendere in considerazione è invece quella relativa alla forza organizzativa del sindacato: dove questa è rilevante, la norma comune si impone senza l'apporto della forza statale, altrimenti questa viene evocata per consolidare i risultati contrattuali.
Il fatto che il contratto collettivo e la legge spesso riguardino le medesime materie e che sia frequente l'assunzione di norme contrattuali in norme di legge o in provvedimenti muniti di pari efficacia, sta a indicare che questo istituto, quanto ai contenuti, è il più delle volte assimilabile a un atto normativo generale e astratto. È però importante avvertire che la cognizione di questo complesso sistema di regolamentazione dei rapporti di lavoro sarebbe parziale ove, come accade di frequente nelle trattazioni giuridiche, l'attenzione fosse circoscritta al contratto collettivo in sé e per sé considerato e non fossero presi in esame i nessi che collegano un contratto all'altro, sia in senso temporale, sia con riguardo alle aree geografiche e professionali coinvolte: vale a dire, il processo o sistema di contrattazione. Nei cosiddetti sistemi ‛dinamici', come quello britannico, il flusso di accordi continuativi, sovente mediati da istituzioni paritarie, è di gran lunga più importante del testo formale, via via rinnovato con modifiche a scadenza, che segna piuttosto il ritmo della contrattazione nella tradizione europea continentale e in quella statunitense. Ma anche in queste ultime, a ben guardare, il momento dinamico esiste e si esprime nell'applicazione dei testi tra una scadenza e l'altra; un momento applicativo che, soprattutto quando è calato nella concretezza dei rapporti aziendali, si svolge con integrazioni e innovazioni che danno corpo, per l'appunto, a un modello dinamico. Come tutti i modelli, anche quello che distingue tra forme statiche e forme dinamiche è schematico, epperciò, se elevato a dogma, può anche essere deformante. È certo comunque che nell'esperienza sindacale dell'Europa continentale i contratti collettivi appaiono sovente nella forma di codici professionali, rispondenti a una funzione più spiccatamente normativa, laddove il modello dinamico esalta piuttosto gli aspetti procedimentali della contrattazione.
L'identità giuridica del contratto collettivo (natura contrattuale, regolamentare, mista; v. Despax, 1966) è notevolmente controversa, e si può dire che un dibattito durato più di cinquant'anni non sia giunto a una conclusione sicura. Che una produzione normativa possa avvenire anche con l'impiego dello strumento contrattuale è noto al diritto pubblico, e in particolare al diritto internazionale. I problemi che si pongono in ordine al contratto collettivo riguardano soprattutto la natura di esso in rapporto agli effetti giuridici. Così, la non enforceability, salvo espressa volontà delle parti, confermata dalla più recente legislazione britannica (1974), qualifica il contratto collettivo come un'espressione di autonomia sociale operante fuori della sfera dei rapporti assunti come rilevanti dall'ordinamento statuale. Al contrario, è abbastanza consolidata negli Stati Uniti l'opinione che il contratto collettivo sia un accordo a contenuto normativo (legislative), del tutto estraneo alle forme contrattuali tutelate dalla common law; a simili, anche se più elaborate, conclusioni si perviene dove, come in Germania o in Francia, è il diritto positivo stesso ad attribuire al contratto collettivo una forza imperativa diretta. Diverso è il caso in cui, in assenza di una tale statuizione positiva, l'istituto venga ricondotto nell'ambito del diritto comune delle obbligazioni, dove la deroga dei soggetti individuali alla norma comune può essere costruita solo in termini di inadempimento. Questa è stata la vicenda di tutti gli ordinamenti di civil law prima dell'emanazione di leggi ad hoc, e in particolare dell'Italia prima e dopo il sistema corporativo, anche se ormai una giurisprudenza consolidata, congiunta a indirette prescrizioni legislative, ha in sostanza sancito l'effetto inderogabile e configurato pertanto una funzione normativa imperativa, sia pure di diritto privato.
Vero è che il contratto collettivo è un istituto con tratti irriducibili sia alle fonti come categorizzate dal diritto pubblico moderno, sia al contratto come definito dalle codificazioni. La persistente difficoltà di costruzione giuridica può pertanto in parte essere imputata alla pervicace tendenza delle scuole giuridiche tradizionali a elevare le proprie definizioni dei meccanismi normativi a essenze, a cui debbono ricondursi per necessità logica tutte le forme dell'esperienza giuridica. Tale vizio di metodo rende ovviamente ardua più del necessario la definizione di un istituto che è stato generato da rapporti sociali del tutto specifici rispetto alla struttura statuale che produce la legge, così come ai rapporti prevalentemente mercantili su cui si fonda la vicenda storica del contratto; e che, in ultima analisi, si muove secondo regole interne che non è apparso azzardato definire come ‛esoteriche' (v. Kahn-Freund, 19772, p. 56).

8. Lo sciopero

Anche questo è un istituto tipico e inconfondibile del diritto del lavoro, di cui si è tentato di tracciare analogie più o meno plausibili con il diritto di resistenza o con i poteri di veto. In realtà il fenomeno dello sciopero è la diretta derivazione di due aspetti tipici dell'industrialismo e cioè: a) la sostituzione del contratto di lavoro ai rapporti servili o vincolati dell'età precedente: da questo punto di vista lo sciopero è null'altro che il ritiro collettivo e concertato della forza lavoro dal mercato; b) l'agglomerazione di masse di lavoratori nelle manifatture, e la conseguente formazione di condizioni favorevoli all'organizzazione di azioni collettive.
Lo sciopero risulta essere storicamente il primo modo di espressione della protesta collettiva, che dà forma a coalizioni più o meno temporanee, dalla cui graduale stabilizzazione ha origine il sindacato (v. Kahn-Freund, 1954).
La prima reazione degli ordinamenti, in omaggio a una concezione rigorosamente individualistica dei rapporti economici, è dovunque repressiva: la coalizione per provocare il rialzo del prezzo del lavoro è punita nei codici penali o dalla dottrina della conspiracy. Quest'ultima è fondata sul principio per cui ciò che è lecito al singolo (nel nostro caso: il rifiuto del lavoro) può non esserlo se attuato da più soggetti in forma concertata. All'inizio del secolo, peraltro, appare abbastanza generalmente consolidato il principio della non punibilità, ovvero dello sciopero-libertà; il rifiuto del lavoro è inadempimento, e come tale è perseguibile, ma solo in sede civile. Gli stessi valori fondamentali dello Stato liberale rendevano difficilmente sostenibile la negazione della libertà di disporre del proprio lavoro contenuta nel divieto delle coalizioni. Forme di repressione dello sciopero, anche se episodiche, permangono negli Stati Uniti fino agli anni trenta. La repressione è invece ripristinata e applicata con estremo rigore nei regimi fascisti e in quelli di modello sovietico.
Il diritto di sciopero forma oggetto di garanzia costituzionale per la prima volta nella Carta di Querétaro (Messico, 1917) e, dopo la seconda guerra mondiale, nelle Costituzioni francese, italiana e, più di recente, nella Costituzione portoghese del 1976. Interessa rilevare che tale riconoscimento si ha anche nella Costituzione cinese del 1975 e si può infine aggiungere che il diritto di sciopero è affermato da importanti Carte internazionali, sia pure di variabile efficacia (art. 6 della Carta sociale europea, 1965; art. 8 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali dell'ONU, 1966).
La novità del diritto di sciopero rispetto alla libertà di sciopero viene essenzialmente individuata nell'effetto che l'inadempimento all'obbligo di lavorare produce sul rapporto di lavoro. Dove è ammesso che lo sciopero ha per effetto la sospensione di quest'ultimo senza altra conseguenza che la perdita del salario, si può affermare che esiste un vero e proprio diritto di sciopero (v. Calamandrei, 1952). A parte i casi del riconoscimento costituzionale, per cui non sorge problema, l'effetto sospensione è ormai quasi generalmente acquisito nell'ambito degli ordinamenti a libertà sindacale. Un analogo risultato producono le norme che dispongono l'immunità dello sciopero dalle varie conseguenze di common law.
Il diritto di sciopero, tuttavia, non si esaurisce necessariamente nella sospensione, e anzi è improprio definire un diritto in base agli effetti giuridici prodotti dall'esercizio di esso. E infatti vanno riportati al contenuto del diritto anche alcuni comportamenti, tutelati dalla legge in misura e modo variabile, che costituiscono i vari elementi in cui si snoda l'azione dello sciopero nel suo complesso: vale a dire, oltre la sospensione del lavoro, la deliberazione, la diffusione e la propaganda, il picchettaggio pacifico ecc. Anch'esse riferibili al contenuto del diritto, perché dirette a garantirne l'effettività, sono le norme che impediscono comportamenti ostativi, quali: la sostituzione degli scioperanti, gli atti di discriminazione, la non riammissione al lavoro a sciopero terminato. La sospensione del lavoro è il fatto centrale, ma non è tutto, nello svolgimento di uno sciopero; eppertanto la garanzia della facoltà di astenersi dal lavoro, e cioè l'effetto sospensivo, non è sufficiente a esaurire il contenuto del diritto di sciopero.
Raramente lo sciopero si sottrae a una qualche forma di regolamentazione dettata dalla legge o elaborata dalla giurisprudenza o, infine, definita dai contratti collettivi o da norme interne dei sindacati stessi. La regolamentazione si snoda in genere in ragione di: a) i fini dello sciopero (economico, politico, ecc.); b) le modalità di attuazione (preavviso, limiti alle cosiddette forme anomale, salvaguardia degli impianti e servizi essenziali, ecc.); c) i soggetti (lavoratori del settore privato, dipendenti pubblici, funzionari, personale militare, ecc.); d) le procedure di conciliazione e mediazione, l'arbitrato. La serie dei problemi è vastissima e non è qui possibile darne conto, apparendo invece utile tentare di definire i tratti essenziali di un diritto comune, insieme con una indicazione degli argomenti più dibattuti nel momento attuale.
In linea di massima, è dato riscontrare che la titolarità dello sciopero è estesa ormai anche al settore pubblico, se pure non alla totalità di esso (vedi per es. l'eccezione dei funzionari o Beamte della Repubblica Federale Tedesca e altrove, e quella pressoché generale dei militari); lo sciopero politico è stato espressamente dichiarato ammissibile solo in Italia (con la sentenza n. 290 del 1974 della Corte costituzionale); la salvaguardia dei servizi essenziali è prevista da norme di legge o, come in Italia e nella Repubblica Federale Tedesca, da orientamenti giurisprudenziali o da forme di autodisciplina.
Raro è il ricorso a vere e proprie forme di arbitrato che, d'altronde, nella sua versione obbligatoria, sarebbe difficilmente compatibile con il diritto di sciopero, ma crescente appare l'intervento degli organi politici nella mediazione dei conflitti o nella preventiva determinazione dei limiti degli aumenti salariali (politica dei redditi, guidelines). In altre parole, mentre si è consolidato un ampio riconoscimento della legalità del conflitto (se pur con scarti notevoli, basti raffrontare la Repubblica Federale Tedesca all'Italia), crescenti sono le tendenze verso forme di gestione politica di esso. Ciò ha determinato anche la scarsa funzionalità degli organi di mediazione di tipo paragiurisdizionale (v. Lyon Caen, 1974, p. 242), che, soprattutto per la suggestione delle singolari esperienze dell'Australia e della Nuova Zelanda, avevano avuto una certa diffusione nei primi decenni del secolo.
Un altro dato da registrare è, in generale, la scarsa incisività della regolamentazione non sostenuta dal consenso dei lavoratori organizzati oppure da quello di una vasta parte dell'opinione pubblica. La vicenda dell'industrial relations act, emanato nel 1971 in Gran Bretagna e abrogato solo tre anni dopo, è stata la manifestazione più clamorosa di fallimento di una regolamentazione imposta in pieno contrasto con i principali destinatari; si può notare invece che le regolamentazioni restrittive introdotte negli Stati Uniti nel 1947 e gradualmente elaborate nella Repubblica Federale Tedesca dalla Corte federale del lavoro, soprattutto nel periodo di presidenza del prof. H. C. Nipperdey, abbiano sostanzialmente resistito alla più o meno compatta ostilità dei sindacati. Al contrario, in Italia e in Francia la resistenza di questi ultimi ha in pratica vanificato la forza repressiva di leggi o di indirizzi giurisprudenziali, concernenti peraltro soltanto conflitti o modalità di conflitto particolarmente gravi per la collettività (servizi pubblici) o per la controparte (gli scioperi cosiddetti articolati o a scacchiera o a intermittenza).
Un particolare rilievo ha manifestato il problema dell'attribuzione del diritto di sciopero ai singoli ovvero ai sindacati, epperciò quello del trattamento del cosiddetto sciopero selvaggio. La legittimità di quest'ultimo è ora ammessa (Italia, Francia), ora negata (Repubblica Federale Tedesca, Stati Uniti) e anche qui le scelte dell'ordinamento sono spie di concezioni diverse del sindacato e dell'azione sindacale, a seconda che venga privilegiato l'elemento di spontaneità e di movimento ovvero quello dell'organizzazione.
Mentre in tema di sciopero, al termine di un'elaborazione pluridecennale, alcuni punti fermi sono stati posti, più aperti sono i problemi concernenti le altre forme di tutela: dalla serrata degli imprenditori, che è illecita in Italia, pienamente ammessa altrove (Svezia, per esempio), allo sciopero bianco o alle varie forme di rallentamento concertato della produzione e infine all'occupazione dell'azienda che, sovente usata come mezzo di difesa da licenziamenti, è stata, in quest'ultimo decennio, al centro di clamorose vicende in vari paesi (più clamoroso di tutti, il caso Lip in Francia). L'autotutela, questo aspetto singolare e nel contempo essenziale del diritto sindacale, è apparsa restia a collocarsi in un ordine statico e, così come indeterminati appaiono tuttora in alcuni casi i limiti del diritto di sciopero, un cono d'ombra resta proiettato sulle altre forme di azione diretta.
È apparsa abbastanza chiara, d'altronde, l'ingovernabilità del fenomeno con i normali strumenti sanzionatori, sia di tipo civile sia di tipo penale, che, anzi, nei conflitti più generalizzati finiscono sovente per essere accantonati o sostituiti da mediazioni politiche. Ciò può indurre a importanti riflessioni sulla natura degli Stati a democrazia sociale, nei quali il principio di legalità può essere sottoposto a verifiche di consenso in conflitti che, trascendendo o sfiorando i limiti della legalità, pongono in essere soluzioni di continuità dell'ordine legale stesso. Diversamente dalla rivoluzione o dallo sciopero generale soreliano, tali vicende peraltro non sono state fattori di rovesciamento dell'ordine legale ma hanno al più prodotto la modificazione di equilibri politici nell'ambito della continuità del sistema.

9. Le innovazioni delle strutture e delle tecniche giuridiche

Il diritto del lavoro ha esercitato una profonda influenza sulla trasformazione delle strutture giuridiche in cui esso si evolve, e particolarmente di quelle riferibili al diritto costituzionale e al diritto civile.
Un vero e proprio impatto sulle strutture dello Stato rappresentativo si verifica invero soltanto nei regimi che sostituiscono o integrano le rappresentanze politiche con quelle sindacali: l'idea dello ‛Stato sindacale', abbastanza diffusa nei primi decenni del secolo e proposta come alternativa alla crisi dello Stato liberale, trova realizzazione nei regimi autoritari a partito unico e si confonde con la concezione corporativa dello Stato. Nelle costituzioni di modello sovietico, la partecipazione sindacale agli organi rappresentativi assume la forma indiretta del diritto di presentare candidati o di intervenire nella formazione delle liste elettorali unitarie; essa perciò non genera una sostanziale modificazione nella struttura rappresentativa, che rimane impostata su base elettiva.
Di maggiore interesse è l'esame delle modificazioni intervenute, presso i regimi di democrazia rappresentativa, nel rapporto tra i poteri dello Stato. Sotto questo aspetto, i due fenomeni di più spiccato rilievo sono: a) l'impulso alla centralizzazione verificatosi negli Stati federali o anche a struttura legislativa ‛composita' come il Regno Unito (v. Kahn-Freund, 1976, p. 245), determinato in primo luogo, specie negli Stati Uniti nella fase del New Deal, dall'esigenza politica di superare le resistenze locali, e, in secondo luogo, da quella di stabilire standard di condotta uniformi, vuoi per i lavoratori, vuoi per gli imprenditori; b) l'assunzione di un ruolo centrale da parte del Parlamento a seguito della diffusione di leggi speciali che sovrastano le tradizionali fonti del diritto tra privati (codici, common law) e parallelamente, soprattutto nell'area di common law, comprimono la discrezionalità del potere giudiziario. Tale effetto è solo in parte controbilanciato dall'importante ruolo assunto dalle Corti costituzionali, dove queste operano. L'intervento legislativo si è cospicuamente esteso, nell'ultimo periodo, anche in Gran Bretagna, dove l'‛astensione della legge' dal campo dei rapporti di lavoro era diretta non già ad ampliare l'area giurisdizionale, quanto invece, stante la natura ‛non azionabile' delle fonti collettive, a porre ad essa un argine (v. Wedderburn, 19712, p. 23).
Infine, è soprattutto attraverso il varco aperto dal diritto del lavoro che si è verificata la penetrazione dei diritti costituzionali nella sfera dei rapporti interprivati. Negato negli Stati Uniti, tale effetto (Drittwirkung) è stato riconosciuto nella Repubblica Federale Tedesca soprattutto da parte delle corti del lavoro (v. Ramm, 19742) e, con minori resistenze, in Italia.
Il campo di elezione delle capacità di trasformazione del diritto del lavoro è stato comunque il diritto privato. Le nuove tecniche giuridiche in esso generate e sperimentate si sono sovente rivelate capaci di effetti diffusivi su tutta l'area privatistica. L'antica discussione sull'affrancamento del diritto del lavoro dal diritto civile (v. Lyon Caen, 1974, p. 231) appare forse superabile dal momento che quest'ultimo, aprendosi a nuovi indirizzi metodologici, corre in un processo di trasformazione parallelo a quello del diritto del lavoro.
Tra le nuove tecniche giuridiche introdotte o diffuse con il diritto del lavoro, sembrano particolarmente meritevoli di elencazione le seguenti.
1. Le norme imperative che si impongono alla volontà delle parti e modificano direttamente il contenuto dei negozi da esse posti in essere. La sostituzione della legge (o del contratto collettivo) ai contenuti negoziali voluti effettivamente dalle parti - successivamente largamente praticata anche nei contratti di vendita, di somministrazione, di locazione ecc. - trasforma profondamente l'essenza stessa del contratto che, da strumento per produrre effetti giuridici voluti diviene un mezzo per realizzare effetti legali, talvolta ignoti, o neppure prevedibili dai contraenti (v. Rodotà, 1970).
L'imperatività - come si è rilevato (v. sopra, cap. 7) - si estende anche ai contratti collettivi ed esprime in tal modo un rapporto di prevalenza dell'interesse del gruppo sull'interesse individuale. Tale rapporto appare ancor più evidente a fronte del principio di irrinunciabilità da parte del lavoratore ai benefici del contratto (come pure a quelli della legge), che viene in genere derivato dal principio di inderogabilità.
2. L'obbligo a contrarre, quale viene stabilito ad esempio nelle assunzioni obbligatorie di persone con minore capacità lavorativa, colpisce l'autonomia contrattuale nel suo stesso momento genetico. Non destano sorpresa pertanto la forte resistenza che vi è ancora ad ammettere la costituzione coattiva del rapporto, e le inclinazioni della giurisprudenza, quando manchino esplicite norme positive, ad attestarsi sulla responsabilità risarcitoria. Nel diritto sindacale emerge, invece, la distinta figura dell'obbligo dell'imprenditore a negoziare, e cioè a condurre le trattative per il contratto collettivo, senza peraltro l'obbligo di venirne a termine. Ammesso dalle legislazioni svedese (del 1936 e ampliata nel 1976; v. Schmidt, 1977, p. 80) e nordamericana (1935), nonché dall'Industrial relations act britannico (1971-1974), l'obbligo a negoziare è in prevalenza negato dalla giurisprudenza italiana, nel quadro delle numerose pronuncie in materia di repressione della condotta antisindacale (art. 28 dello Statuto dei lavoratori). Si è infatti ritenuta estranea alla considerazione del legislatore, nell'atto in cui ha disposto una speciale tutela dell'attività del sindacato, la materia dei rapporti di quest'ultimo con la controparte, che oltretutto avrebbe affidato alla discrezione del giudice la soluzione di complessi problemi di rappresentatività e di legittimazione a negoziare.
L'Employment protection act (1975) britannico, infine, ha configurato un obbligo del datore di lavoro a consultare il sindacato e a fornirgli informazioni utili per la contrattazione; può parlarsi, in proposito, di un obbligo a negoziare attenuato.
3. L'incoercibilità delle obbligazioni di fare, principio fortemente radicato nel diritto civile, anche se non privo di eccezioni nella procedura civile francese e tedesca, è stata incrinata dalle leggi limitative del potere di licenziamento, quando esse hanno riconosciuto (il che non è di tutti gli ordinamenti) il diritto alla reintegrazione. Infatti, se ancora persiste l'impossibilità naturale di costringere l'imprenditore a dar lavoro al prestatore reintegrato per ordine del giudice, è stato chiarito che ciò non è sufficiente a sostenere il dogma dell'incoercibilità, perché appare pur sempre possibile la coazione indiretta mediante l'impiego di sanzioni afflittive. Questo ha condotto, almeno in taluni ordinamenti, a superare la soluzione dell'erogazione indennitaria, variamente sperimentata, e sempre risultata inidonea a garantire l'effettività della tutela dai licenziamenti arbitrari. In ragione di questi sviluppi normativi si è parlato di un ‛diritto al posto di lavoro' che, con enfasi eccessiva, è stato talvolta assimilato ai diritti reali (su tale argomento v. Meyers, 1964).
4. Non meno indebolito appare il concetto di corrispettività. Il riconoscimento della continuità del rapporto, a volte con retribuzione, nei casi di temporanea impossibilità della prestazione, o, in ipotesi individuate in ragione di esigenze politico-sociali (dalle ferie ai permessi retribuiti per attività sindacale) ha reso impraticabile il ricorso al principio dell'equilibrio tra le prestazioni nell'esecuzione del contratto, o, più probabilmente, lo ha ridotto a operare in un'area residuale che appare poi sempre più ristretta. È oggi controverso se si debba ritener ammissibile la sospensione della retribuzione per mancanza temporanea di lavoro, come veniva tranquillamente dedotto, in passato, dal principio della corrispettività, o se debba invece darsi per avvenuto il trasferimento del rischio al datore di lavoro, fatta salva naturalmente la possibilità di copertura assicurativa dello stesso (per l'Italia, la Cassa integrazione guadagni).
5. Notevoli sono poi gli effetti indotti nelle tecniche sanzionatorie. A parte l'introduzione della vigilanza amministrativa sull'esecuzione di contratti privati, che fu a suo tempo un innovazione cospicua, sempre più marcata appare oggi la tendenza ad attribuire al giudice poteri di intervento con fisionomia ingiuntiva, e a delineare forme di esecuzione non più soltanto patrimoniale in funzione risarcitoria. Esempi possono essere attinti dalla legislazione sindacale statunitense, imitata dall'effimero Industrial relations act britannico; dalla legislazione svedese (dove la condanna patrimoniale ai ‛danni generali' è in realtà una sanzione); dallo Statuto dei lavoratori italiano e dai nuovi comportamenti processuali da esso sollecitati; nonché, infine, dalle leggi antidiscriminatorie, compresa quella italiana (1977) sulla parità tra uomo e donna nel lavoro. La funzione giurisdizionale, una volta destinata non più soltanto a dirimere controversie tra possessori di beni, bensì a garantire le regole del gioco nei conflitti collettivi o la soddisfazione di interessi del lavoratore non immediatamente traducibili in valori economici né a realizzazione posponibile indefinitamente nel tempo, richiede rapidità di procedure e ampiezza di mezzi istruttori ed esecutivi che sono del tutto estranei al processo dispositivo proprio della tradizione eurocontinentale.
In sintonia con questa linea di evoluzione appare l'attribuzione di legittimazioni processuali al sindacato, per la tutela di interessi propri o di gruppo; si noti, peraltro, che parallela a questo rafforzamento dello strumento giurisdizionale opera la tendenza alla devoluzione della materia contenziosa a sedi conciliative e arbitrali, regolate nell'ambito della contrattazione collettiva. In tale sede di ‛giurisdizione privata', azione individuale e azione collettiva sfumano sovente le loro differenze, o, quanto meno, ha luogo la devoluzione della prima al pieno controllo sindacale. Tale è la caratteristica delle grievance procedures nordamericane, che hanno origine nel ricorso aziendale e terminano in vere e proprie decisioni arbitrali munite di piena efficacia giuridica.
6. Infine è emerso, soprattutto nell'ambito delle recenti legislazioni antidiscriminatorie, come neppure la sanzione afflittiva sia sufficiente per la realizzazione di alcuni obiettivi di politica legislativa. Si profila allora il ricorso all'affirmative action (v. Schmidt e altri, 1978), e cioè l'intervento giurisdizionale ovvero amministrativo, diretto a modificare le situazioni in atto, con mezzi quali: l'avviamento al lavoro (con tecniche compulsive - v. sopra, punto 2 - ma anche, e più frequentemente, persuasive) di soggetti appartenenti a gruppi discriminati; la determinazione di condizioni di lavoro conformi alle particolari esigenze di tali soggetti (quale l'obbligo fatto all'imprenditore, negli Stati Uniti, di far ogni sforzo ragionevole per adattare lo svolgimento del lavoro alle esigenze delle minoranze religiose). L'azione affermativa viene qui menzionata come tecnica giuridica: è evidente che essa può dilatarsi in un indirizzo di politica generale (piena occupazione, politica attiva della manodopera, qualificazione professionale di gruppi sottoprotetti) e acquisire anche maggiore efficacia, ponendosi però in una cornice estranea all'oggetto della presente trattazione per divenire un capitolo di politica sociale.

10. Le frontiere attuali del diritto del lavoro

Per tutta una serie di argomenti è particolarmente vivace il susseguirsi di innovazioni normative; in taluni ordinamenti esse già hanno avuto corso; in altri è intenso il dibattito preparatorio e fortemente probabile l'innovazione stessa.
L'istituto che ha subito i più profondi mutamenti è stato senza dubbio quello del licenziamento, che si è radicalmente trasformato dalla forma ad nutum in un atto motivato e sottoposto a controllo giudiziale. Con tale mutamento si è praticamente chiuso il ciclo evolutivo che ha origine dal contratto di fornitura di opere (v. sopra, cap. 4), misurabili nella quantità a seconda delle esigenze della produzione e del mercato, rimesse, a loro volta, alla libera valutazione dell'imprenditore. Restano tuttavia aperti i problemi inerenti alla reintegrazione effettiva nel posto di lavoro e quelli connessi ai licenziamenti per riduzione del personale, frequentemente sottoposti a controlli sindacali e amministrativi preventivi, ma in genere non ritenuti assoggettabili a un controllo di motivi, che si risolverebbe in un controllo sulla politica d'impresa.
Un altro settore in pieno sviluppo è quello della tutela del lavoratore dalla discriminazione. La discriminazione antisindacale è stata la prima a essere affrontata con le leggi di sostegno dell'attività sindacale e dispone quasi dovunque di un corredo ampio di difese giuridiche. Nel concetto di discriminazione in senso più lato si annoverano tutti i casi in cui lo squilibrio contrattuale tra le due parti è aggravato dall'appartenenza del lavoratore a gruppi sociali emarginati o minoritari. Vengono in rilievo primario, naturalmente, i gruppi razziali ed etnici, gli stranieri e le minoranze linguistiche. Ormai attualissimo è il problema dell'eguaglianza di opportunità tra uomo e donna, al quale sono stati dedicati alcuni tra i più recenti e significativi testi legislativi (Stati Uniti, 1963 e 1972; Gran Bretagna, 1975; Italia, 1977). Giova ricordare che la politica legislativa antidiscriminatoria ha comportato l'adozione di tecniche giuridiche alquanto nuove e più efficaci che non le normali invalidità civilistiche. La stessa qualificazione del motivo discriminatorio come illecito non è apparsa sufficiente a coprire l'intera area del fenomeno: donde, nella normativa americana e britannica, il ricorso al criterio statistico, per cui può essere considerata discriminatoria la situazione in cui un gruppo risulti statisticamente emarginato, a prescindere dalla ragione di tale evenienza.
La discriminazione per motivi religiosi e politici è oggetto di diretta attenzione legislativa, mentre appare meritevole di menzione la tendenza, percepibile soprattutto nella giurisprudenza, ad affermare l'irrilevanza della condotta privata nel rapporto di lavoro (v. Schmidt e altri, 1978). Questi vari aspetti si muovono secondo linee non parallele. L'irrilevanza della vita privata segue dappresso i profondi mutamenti intervenuti nel costume e che riguardano la condotta morale così come l'abbigliamento e l'aspetto esterno, ecc. Essa è un aspetto del più generale problema della tutela della privacy (vedi, nello Statuto dei lavoratori italiano, il divieto di indagine in materia) e, nel nostro caso, concorre ad accentuare la spersonalizzazione legale del rapporto, in quanto assume il coinvolgimento della persona come un dato di fatto da limitare con lo strumento giuridico (v. anche, con riferimento alle dottrine più accentuatamente personalistiche, il precedente cap. 4). In tema di discriminazione religiosa, poi, val la pena di osservare che si è posto addirittura il problema di adattare per quanto possibile i metodi di lavoro alle esigenze di pratica di culto (così in particolare, negli Stati Uniti, ma anche nei paesi europei con forti aliquote di immigrati musulmani). La discriminazione politica, infine, è oggetto di generale esecrazione, ma in realtà si mantiene in forme attenuate o mascherate soprattutto nel pubblico impiego, fino a emergere in alcuni casi in tutta evidenza (vedi tra i regimi a pluralismo democratico, il caso del Berufsverbot nella Repubblica Federale Tedesca). Degna di rilievo, comunque, è l'affermazione, comune alla Corte suprema americana e a quella della Repubblica Federale Tedesca, che la semplice appartenenza a un partito ritenuto sovversivo non è sufficiente a giustificare la discriminazione.
Un vero e proprio campo di frontiera è costituito dal pubblico impiego. Escluso tradizionalmente dal campo del diritto del lavoro, anche in omaggio a una concezione acontrattuale e tutta pubblicistica del rapporto, il pubblico impiego si appropria gradualmente di tutti gli strumenti del diritto sindacale e, in tutto o in parte, viene estesa a esso la fonte contrattuale collettiva. In parallelo a tale processo viene messa in discussione la natura stessa del rapporto e ne viene contestata la acontrattualità: in effetti, la predeterminazione eteronoma dei contenuti è ormai propria anche del rapporto privato, mentre la ‛nomina' all'ufficio, che deve pur sempre essere accettata dal preposto, appare come una mera variante procedimentale nella formazione del contratto. Fatta eccezione per gli alti livelli amministrativi (i Beamte del diritto tedesco), è profezia avverabile quella che il pubblico impiego verrà gradualmente attratto nel diritto del lavoro.
Nel rapporto di lavoro privato si profila d'altronde una nuova marca di frontiera, che in parte appare invece già occupata nell'impiego pubblico, e si tratta del diritto allo svolgimento effettivo del lavoro. Dato per acquisito per le prestazioni di alto valore tecnico o artistico (il caso esemplificato più frequentemente è quello dell'interesse del cantante lirico all'esecuzione della scrittura) ma negato nelle altre ipotesi, tale restrizione appare sempre meno giustificata, a fronte di orientamenti tendenti alla salvaguardia dello sviluppo e dell'esperienza professionale. Mentre la realizzazione del diritto al lavoro, principio o utopia della rivoluzione del 1848, appare, nella sua pienezza, tema di politica sociale (v. Mancini, 1976, p. 67), il diritto allo svolgimento della prestazione sembra avviarsi, in particolare nella giurisprudenza tedesca (v. Hueck e Nipperdey, 19637, vol. I, pp. 380 ss.), verso prospettive sconosciute e irrealizzabili nella costruzione civilistica del contratto di lavoro come mero scambio tra prestazione e retribuzione.
Il rapporto lavoro-impresa resta infine il tema aperto alle prospettive più problematiche e, a un tempo, all'immaginazione creativa. Appare evidente che lo stesso concetto di impresa, come mutuato dal diritto commerciale, è insufficiente a inquadrare la normativa giuslavoristica (v. Lyon Caen, 1974, p. 235). L'impresa, infatti, è trattata dall'ordinamento giuridico nella specie di attività dell'imprenditore sul mercato, non sotto il profilo, che qui invece rileva, dell'organizzazione del lavoro. Più rispondente a quest'ultima esigenza è apparso pertanto il concetto di Betrieb, o di ‛unità produttiva', che esprime un fenomeno organizzativo. Lungi dall'essere risolto, tuttavia, appare il problema, pur antico come è antica la produzione in forma manifatturiera, del collegamento tra la pluralità di rapporti di lavoro che coesistono in una unità produttiva. La posizione dell'imprenditore come unico titolare vale ai fini del coordinamento a uno scopo comune; ma l'esecuzione dei molteplici rapporti può comportare momenti di collaborazione diretta, o anche di conflitto (per es. in caso di sciopero parziale), tra i prestatori di lavoro.
Le dottrine organicistiche, più diffuse nell'area germanica, sono state certamente in grado di affrontare il problema con strumenti più adeguati che non quelle rigorosamente contrattualistiche. Dalle premesse dottrinali, peraltro, emergono esiti di politica del diritto molto diversi, poiché l'affermazione di una solidarietà giuridica tra i lavoratori può far affiorare una responsabilità degli uni per comportamenti di altri (vedi ancora l'esempio dello sciopero parziale, e inoltre i rallentamenti produttivi, le assenze non giustificate, gli infortuni). Tale conclusione può apparire incompatibile con la natura di un rapporto la cui caratteristica è proprio l'assunzione da parte dell'imprenditore del rischio per il risultato della prestazione lavorativa.
La verità è che il consenso intorno a determinate premesse teoriche non trae radici dalla loro congruenza logica, quanto piuttosto da una valutazione politica, e da ciò discende che l'argomento non può essere disgiunto dal problema che a esso soggiace: e cioè da quello dei rapporti di potere nell'impresa. Quest'ultimo aspetto chiama direttamente in causa la definizione dell'area di intervento del ‛potere collettivo' dei lavoratori nel campo delle scelte economiche dell'imprenditore. Trattasi del problema dei managerial rights o, visto dall'altro lato, della partecipazione o codeterminazione dei lavoratori alla gestione dell'impresa.
La linea di tendenza è molto marcata nel senso di una contrazione dell'area di libera valutazione dell'imprenditore, e di ciò vi sono indici o realizzazioni significative, occorse quasi contemporaneamente negli anni più recenti: la generalizzazione della cogestione nella RFT (1976), sia pur in forma non esaurientemente paritaria; la sostituzione del principio di joint regulation a quello di riserva delle managerial prerogatives in Svezia (1976); il rapporto della Commissione reale presieduta da lord Bullock in Gran Bretagna, contenente proposte di cogestione paritaria; la contrattazione sugli investimenti, iniziata in Italia a partire dal 1974. Senza dubbio, questo è uno dei campi più fecondi di evoluzione, che non potrà non sollecitare profonde revisioni nella stessa dottrina giuridica. Le linee del mutamento, peraltro, sono dipendenti da variabili di ordine politico, la cui valutazione critica sarà materia di altri articoli (v., tra l'altro, sindacalismo).

11. Le ideologie e i modelli normativi

Le indagini sulle ideologie sottostanti alle dottrine giuridiche hanno posto in rilievo come tra l'ideologia professata e l'operazione concettuale che viene di volta in volta compiuta si interpone un'opzione, a volte professa, a volte inconsapevole, per un ‛modello' normativo che interpreta il diritto pubblico in funzione di una scelta di politica del diritto espressa in un linguaggio tecnico-giuridico (G. Tarello). Da questo punto di vista si può affermare una relativa autonomia dei modelli normativi rispetto alle ideologie, cosicché mentre apparirebbe povera di risultati di rilievo una classificazione degli autori (o anche delle decisioni) in ragione dell'ideologia degli stessi (o degli estensori delle stesse), ben più feconda di risultati appare la ricostruzione di modelli di riferimento a cui possano essere accostati i protagonisti della vicenda del diritto del lavoro come scienza sociale. Al solo fine di fornire un'ulteriore chiave di lettura dell'argomento, è dato formulare, con larga approssimazione, una classificazione nei termini che seguono: essa viene elaborata con riferimento pressoché esclusivo agli ordinamenti giuridici fondati sull'antagonismo conflittuale (v. sopra, cap. 5).
1. Il modello del diritto di classe che, quando non è affermazione retorica come appare frequentemente nei primi autori di orientamento socialista, concepisce il diritto del lavoro (e quello sindacale in ispecie) come struttura giuridica alternativa al diritto borghese, immessa nell'ordinamento giuridico al fine di lievitarne la trasformazione in senso socialista.
2. Il modello personalista e organicista, acclimatato nelle dottrine di origine cattolica, ma non infrequente visitatore di quelle socialiste (specie in Germania), in cui vengono esaltati i valori di solidarietà professionale e/o anche interclassista. In tali modelli, il diritto sindacale ruota intorno alla autoresponsabilità delle categorie o delle professioni organizzate, e il contratto di lavoro si intinge di contenuti associativi o si collega a istituzioni collettive cogestionali. Il transito verso i modelli corporativi veri e propri talvolta appare agevole, e non richiede salti concettuali.
3. I diversi modelli d'impronta riformistica, che ripetono la loro origine dal ‛socialismo giuridico' o dai vari movimenti di riforma sociale, in cui viene in genere valorizzato il momento dell'azione collettiva, ma è privilegiato nettamente l'intervento legislativo a tutela del contraente più debole. Il nuovo diritto non è però inteso come premessa e momento di un processo di trasformazione, bensì piuttosto come un valore in se stesso, idoneo a realizzare risultati definitivi, anche se graduali, di giustizia sociale.
4. I modelli del conflitto industriale, elaborati soprattutto sulle esperienze e condizioni storico-politiche dei paesi a capitalismo avanzato, in cui confluiscono elementi di tradizione socialista, anche marxista, in una con le concezioni competitive e antagonistiche proprie del pensiero liberale. Coerente con questi modelli è la valorizzazione della contrattazione collettiva e della funzione del sindacato come ‛contropotere', di cui viene sovente affermata la permanente necessità storica anche in una prospettiva di trasformazione socialista compiuta.
Gli scrittori, le dottrine, le varie tendenze di politica del diritto (legislative e giudiziali) analizzate in questa sede possono essere ascritti all'una o all'altra voce della tipologia testé enunciata, sebbene l'operazione presenti considerevoli margini di incertezza e di rischio, dovuti al fatto che raramente le operazioni concettuali dei giuristi vengono compiute con coerenza a modelli di riferimento, atti a esplicitarne le valenze politiche. Le stesse ricerche in tal senso appaiono scarse, anche se è meritevole di segnalazione il fatto che contributi significativi si sono avuti proprio in tema di diritto del lavoro (Tarello, Däubler).

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)

di Alessandro Roncaglia e Marino Regini e Giuseppe Pera

LAVORO

Economia
di Alessandro Roncaglia

sommario: 1. Introduzione. 2. Il lavoro come sacrificio e come fonte di ricompensa. 3. Il lavoro nelle società precapitalistiche. 4. Capitalismo e divisione del lavoro. 5. Lavoro produttivo e improduttivo. 6. La teoria classica del valore-lavoro e la teoria marginalista del lavoro come fattore di produzione. 7. Il mercato del lavoro. 8. Settori economici e orari di lavoro nello sviluppo del capitalismo. 9. Evoluzione della struttura economica e della stratificazione sociale: verso il superamento del lavoro costrittivo? □ Bibliografia.

1. Introduzione

È necessario innanzitutto precisare che ci occuperemo del lavoro solo dal punto di vista della teoria economica. Si tratta di una semplificazione drastica, che comunque lascia un campo vastissimo di problemi e teorie da passare in rassegna. La considerazione dei problemi relativi al lavoro accompagna infatti il cammino della riflessione sui temi economici per secoli, fin dagli albori di quella che solo a partire da un'epoca relativamente recente (XVII secolo circa) può essere considerata fra le scienze sociali, l'economia politica. Né possiamo limitarci a considerare le teorie oggi prevalenti, sia perché spesso alcune tesi degli economisti del passato, pur cadute in un relativo oblio, sono di un'attualità e un'importanza sorprendenti, sia perché le teorie contemporanee incorporano concetti - a cominciare da quello stesso di lavoro - ricchi di contenuti acquisiti nel corso del tempo. Per vari aspetti, comunque, sarà possibile rinviare ad altri articoli che approfondiscono temi specifici o collaterali.

2. Il lavoro come sacrificio e come fonte di ricompensa

Il tema del lavoro come condanna - e come condanna che riguarda l'intero arco della vita terrena dell'uomo - è affiancato, nella tradizione biblica, dal tema del frutto del lavoro come ricompensa. Da un lato: "Il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita. Esso ti produrrà spine e triboli [...] mangerai il pane col sudore della tua fronte finché ritornerai alla terra da cui sei stato tratto; perché tu sei polvere e in polvere ritornerai" (Genesi, 3, 17-19). Dall'altro lato: "L'anima del pigro desidera e non ha nulla, ma l'anima dei diligenti sarà soddisfatta appieno" (Proverbi, 13, 4).
Questi due temi costituiscono, in un certo senso, lo sfondo di ogni riflessione economica, fino ai giorni nostri. Adam Smith (v., 1776) parla del lavoro come toil and trouble, fatica e fastidio; la tradizione marginalista, a partire da William Jevons (v., 1871), considera il lavoro come 'disutilità' che si contrappone all'utilità del prodotto. Quanto al tema della giustizia distributiva, secondo il quale ciascuno dovrebbe ricevere una quota del prodotto sociale proporzionale al suo contributo lavorativo, esso non solo accompagna il dibattito medievale sul 'giusto prezzo' (che corrisponde al costo di produzione, spesso ridotto al solo lavoro) e sull'usura (che è condannata proprio perché chi presta denaro non compie un'attività lavorativa), ma è percepibile anche dietro la teoria del valore-lavoro degli economisti classici, come dietro la teoria marginalista per la quale in concorrenza ognuno riceve un reddito proporzionale al proprio contributo al processo produttivo.Tuttavia le cose non sono così semplici. La condanna dell'umanità al lavoro e la giustizia distributiva non sono principî assoluti o, forse meglio, pur essendo tali in un certo ambito, coesistono con principî di segno opposto relativi all'organizzazione della società.
Per tutta la storia conosciuta, le élites sono sfuggite, in misura notevole se non del tutto, alla condanna al lavoro. Anzi, la libertà dalla schiavitù del lavoro era considerata elemento essenziale di superiorità rispetto alla gente comune. Questo atteggiamento è chiarissimo nell'ostilità verso qualsiasi attività economica, e in particolare verso il lavoro manuale, da parte dei nobili anche impoveriti nella fase di transizione verso il capitalismo.Solo agli occhi dei pensatori utopisti e rivoluzionari ("il mondo capovolto" di cui parla C. Hill: v., 1975) la divisione dell'umanità tra lavoratori e signori esenti dal lavoro va superata, perché il lavoro necessario per la sopravvivenza della società va diviso fra tutti. Questa, anzi, è la caratteristica comune di tutte le utopie socialiste degli ultimi secoli, da Thomas More (v., 1516) e Tommaso Campanella (v., 1602) a Lafargue (v., 1883), fino a Ernesto Rossi (v., 1946). Passando in rassegna le proposte di società ideali e i connessi movimenti riformatori, Spini (v., 1992) ne sottolinea i legami con i filoni più eretici del protestantesimo. In fondo, lo stesso protestantesimo si qualifica almeno originariamente come eretico, fra l'altro, proprio per l'attribuzione di un valore positivo al lavoro, in quanto l'elevazione sociale che esso consente su questa terra corrisponderebbe alla manifestazione della benevolenza divina. Com'è noto, Weber (v., 1904-1905) sostiene che questa convinzione ebbe importanza centrale per l'affermazione del capitalismo.Il significato attribuito al concetto di lavoro si interseca qui con il tema della divisione del lavoro: un altro tema ricorrente nella riflessione economica, che riguarda contemporaneamente l'assetto politico e la stratificazione sociale, il cambiamento tecnologico, lo sviluppo della produzione e la distribuzione del reddito. Su questi temi ci soffermeremo più avanti, dopo avere brevemente considerato l'organizzazione del lavoro nelle società precapitalistiche.

3. Il lavoro nelle società precapitalistiche

Nelle società schiavistiche dell'antica Grecia e dell'antica Roma, com'è noto, l'obbligo al lavoro riguardava la grande maggioranza della popolazione; inoltre, si trattava di una condanna a una vita non solo di fatiche, ma anche di stenti. Del prodotto sociale toccava agli schiavi e agli strati più bassi della popolazione solo quanto bastava per mantenerli in vita e in condizioni di continuare a lavorare; in caso di carestia, comunque, gli schiavi erano i primi a morire. Non che questo rendesse agiata, secondo gli standard moderni, la vita dei 'cittadini': quelli che, a leggere la letteratura dell'epoca, sembrano i soli sulla scena. Una stratificazione sociale rigida, generalmente basata sulle qualità mostrate in fanciullezza, è indicata come norma ottimale anche in opere quale la Repubblica di Platone.
Poco migliore di quella degli schiavi è la vita dei servi della gleba nelle società feudali del Medioevo. Legati alla terra per obbligo di nascita, sono se non altro liberi di organizzare il proprio lavoro - pur se, ancora una volta, la scarsa produttività dell'agricoltura e il peso dei tributi da corrispondere, a beneficio di nobiltà e clero, anche sotto forma di lavoro (le corvées), li costringono a una vita di stenti e di fatiche. Nella società feudale la vita economica è organizzata essenzialmente sulla base di relazioni ripetitive di tipo tradizionale, e solo limitatamente è centrata sul mercato (v. Kula, 1962). Il rapporto tra signori feudali e servi della gleba non corrisponde a quello tra proprietario terriero e bracciante agricolo: il signore feudale esercita contemporaneamente la sovranità politica e il controllo economico sulle terre del suo feudo; i servi della gleba, oltre a una parte del raccolto ottenuto sulle terre tradizionalmente affidate alla loro cura (le terre servili), debbono al padrone anche prestazioni lavorative sulle terre dominiche, il cui raccolto va interamente al signore. Le difficoltà dei trasporti ostacolano i commerci a lunga distanza di merci base; i commerci sono essenzialmente limitati a beni di lusso, come le spezie, i metalli preziosi, i merletti. Così il territorio è suddiviso in un gran numero di unità produttive abbastanza autosufficienti (il castello con le terre circostanti). Solo in minima parte i beni necessari alla sussistenza - alcuni tipi di cereali, tessuti, ecc. - sono oggetto di scambi contro denaro, in genere in mercati che si svolgono a intervalli regolari nei centri abitati principali, nei quali viene offerto il prodotto in sovrappiù rispetto al normale autoconsumo dei produttori. Anche l'attività lavorativa è prevalentemente regolata dalla tradizione: in una fase in cui la stragrande maggioranza della popolazione è dedita all'agricoltura, vengono comunemente scambiati contro denaro solo i servizi di un numero estremamente limitato di artigiani o professionisti.

4. Capitalismo e divisione del lavoro

Lo sviluppo graduale dei commerci e delle città dal Trecento al Cinque-Seicento avvia una trasformazione radicale della struttura sociale, sulle cui caratteristiche non ci soffermiamo (v. Cipolla, 1976). Quel che importa sottolineare qui è il cambiamento drastico che subisce l'attività lavorativa con lo sviluppo della divisione del lavoro non solo tra processi produttivi diversi, ma anche e soprattutto all'interno di ciascun processo produttivo.Come si è già accennato, il tema della divisione del lavoro è ricorrente negli scritti su questioni economiche fin dall'antichità. Tuttavia, la sua trattazione subisce modifiche importanti, come riflesso delle modifiche della divisione del lavoro nella realtà, negli scritti di autori come William Petty (1623-1687) o Adam Smith.Innanzitutto, gli scrittori dell'antichità classica sottolineano come effetto della divisione del lavoro il miglioramento qualitativo del prodotto: un aspetto evidente se, ad esempio, confrontiamo la qualità dei mobili o dei vestiti rozzamente prodotti per il proprio consumo dalla famiglia agricola a lato del proprio consueto lavoro, con i prodotti del sarto o del falegname che hanno imparato il mestiere in anni di apprendistato. Viceversa, Petty (v., 1899) - e, dopo di lui, tutti gli studiosi della divisione del lavoro manifatturiero, quando sorgono gli opifici e poi le fabbriche in cui viene sfruttata la forza meccanica della macchina a vapore - sottolineano l'aspetto quantitativo: l'effetto principale del progresso nella divisione del lavoro consiste nell'aumento della produttività, cioè della produzione media per lavoratore, e quindi nella riduzione dei costi medi unitari.In secondo luogo, la divisione del lavoro passa da oggetto di osservazioni casuali a elemento centrale della teorizzazione sul funzionamento dell'economia e più in generale della società umana.
Così Adam Smith (v., 1776) concentra l'attenzione su due fattori che determinano la ricchezza delle nazioni (sostanzialmente identificata con il reddito pro capite, cioè con il reddito nazionale di un paese diviso per il numero dei suoi abitanti): la produttività di ciascun lavoratore e la quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione. Dietro il primo di questi fattori, l'elemento cruciale è costituito dalla divisione del lavoro, a sua volta legata all'allargamento dei mercati. Inoltre, per Smith, come più tardi per autori quali Marx (v., 1867-1894) e Weber (v., 1922), la divisione del lavoro è anello di congiunzione decisivo tra struttura economica e struttura sociale. Gli aspetti economici si collegano così a quelli politici, e financo ai principî morali.Soffermiamoci su quest'aspetto. Smith insiste sul fatto che la ripartizione dei lavoratori tra i vari tipi di lavoro non avviene in base a qualità originarie dei lavoratori stessi: è il mestiere che plasma, col tempo, la natura del lavoratore. La stratificazione sociale legata alla divisione del lavoro, perciò, non deriva da differenze innate di capacità: non può quindi essere considerata un fenomeno 'naturale'. Val la pena di sottolineare la differenza tra questa posizione e quella comune a un critico conservatore contemporaneo di Smith come Pownall (v., 1776) e alla teoria marginalista della distribuzione (e dei differenziali salariali), basata sulla dotazione originaria di risorse e capacità di ciascun individuo.Smith considera invece 'originaria' o 'naturale' la tendenza degli esseri umani a entrare in rapporto gli uni con gli altri, e quindi a costituire una società, al cui interno possono svilupparsi forme di cooperazione come quelle insite nella divisione del lavoro. La teoria economica, secondo Smith, ha per l'appunto il compito di studiare il funzionamento di una società basata sulla divisione del lavoro, e in cui quindi ciascun lavoratore collabora per ottenere un prodotto di cui può non avere direttamente bisogno, mentre deve procurarsi mezzi di produzione e di sussistenza da altri.Più in generale, Smith vede la divisione del lavoro come fonte di conseguenze positive e negative allo stesso tempo: positive, dal punto di vista della crescita della produttività e quindi del benessere economico generale; negative per il carattere limitante della divisione del lavoro, che condanna "la grande maggioranza della popolazione" a un'attività monotona di scarso interesse con il concreto rischio di un "abbrutimento". Secondo alcuni commentatori, Smith precorre l'idea marxiana dell'alienazione derivante dalla costrizione al lavoro diviso (in un'economia capitalistica, per il lavoratore sono 'altro da sé' sia il prodotto del suo lavoro sia i mezzi di produzione impiegati, entrambi di proprietà del capitalista, sia il processo produttivo, di cui a causa della divisione del lavoro controlla solo una parte: v. Marx, 1844). Tuttavia, a differenza di Smith, Marx ritiene possibile il superamento del lavoro costrittivo, al termine di un processo in cui lo sviluppo delle forze produttive porta al regno della libertà, dove "tutte le sorgenti delle ricchezze collettive scorrono in abbondanza" (v. Marx, 1875; tr. it., p. 39). Smith invece cerca di fare i conti con una realtà destinata a permanere ricca di luci e di ombre, proponendo di favorire la divisione del lavoro, in quanto decisiva per lo sviluppo economico, ma allo stesso tempo di combatterne gli effetti negativi (attraverso, fra l'altro, un intervento pubblico che garantisca a tutti l'istruzione di base).
Sul legame tra divisione del lavoro e sviluppo economico si soffermano vari economisti. Fra questi, Charles Babbage (v., 1832) pone in luce due aspetti. Da un lato egli illustra come la scomposizione di un'attività lavorativa complessa riduca i costi di produzione in quanto permette di utilizzare lavoratori meno qualificati, e quindi pagati meno (il cosiddetto primo principio di Babbage). Infatti è sufficiente che ciascun lavoratore sia dotato solo di una parte delle qualifiche necessarie a compiere l'intero complesso delle operazioni lavorative di un determinato ciclo produttivo. Dall'altro lato - il secondo principio di Babbage - egli sostiene che lo sviluppo della divisione del lavoro, portando a scomporre ogni operazione lavorativa nei suoi costituenti elementari, favorirebbe la sostituzione delle macchine agli uomini, riservando a essi le attività più nobili e complesse di organizzazione del processo produttivo e ricerca dello sviluppo tecnologico. Questi due aspetti compariranno in varie forme nel successivo dibattito fra la tesi - assai diffusa tra i marxisti - della tendenza a una proletarizzazione e depauperizzazione del lavoratore e la contrapposta tesi del crescente contenuto professionale delle attività lavorative. Su questi temi, comunque, torneremo più avanti.

5. Lavoro produttivo e improduttivo

Come abbiamo accennato sopra, accanto alla produttività del lavoro l'altro fattore della ricchezza delle nazioni identificato da Smith è costituito dalla quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione. Per Smith era importante sottolineare la centralità di questo fattore: sia per ribadire il ruolo positivo del lavoro nella società (in contrapposizione, molto probabilmente, all'atteggiamento diffuso nei paesi cattolici dell'epoca di considerare il lavoro un marchio di inferiorità sociale), sia perché, almeno nella sua fase iniziale, il sistema capitalistico coesisteva con forti residui del sistema feudale - dalle corti ai monasteri - che a parere di Smith costituivano uno spreco di risorse e quindi un ostacolo allo sviluppo economico. Non si trattava di un tema nuovo, naturalmente: già molti scrittori utopisti (e alcuni non utopisti, come Petty) avevano ricordato il peso per la società costituito da quella parte della popolazione che non collabora alla produzione. Campanella ad esempio, scrivendo nel 1602 rileva che a Napoli lavoravano solo 50.000 persone su 300.000 abitanti.Lo stesso tema della distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo era già stato dibattuto a lungo prima di Smith. In genere, è considerato produttivo il lavoro che contribuisce alla ricchezza sociale. Tuttavia, possiamo intendere questa in due accezioni (v. Perrotta, 1988): come insieme di valori d'uso e come valore di scambio, cioè come potere d'acquisto. Per i 'bullionisti' del Cinquecento, che identificavano nell'oro e nell'argento la ricchezza, è produttivo il lavoro che fa affluire metalli preziosi nel paese. Tra gli scrittori del Seicento - i cosiddetti mercantilisti - domina invece la prima accezione. In un autore come Petty abbiamo una gerarchia di attività produttive apparentemente collegata al contributo che ciascuna può fornire al processo di accumulazione, ovvero al grado di durevolezza del prodotto. Per i fisiocrati francesi, a metà del Settecento, è produttivo il solo settore agricolo, perché mette capo a un sovrappiù, mentre il settore manifatturiero è considerato sterile, in quanto il prodotto semplicemente incorpora il valore dei mezzi di produzione impiegati (compresi i mezzi di sussistenza dei lavoratori).
In Smith non abbiamo una definizione univoca: il lavoro produttivo è identificato con quello che mette capo a beni materiali, o con quello che dà luogo a un profitto, mentre i lavori improduttivi - che possono essere utili o inutili, ma Smith non approfondisce questa distinzione - abbracciano sostanzialmente il settore dei servizi. Possiamo forse interpretare la posizione di Smith come centrata sull'identificazione del lavoro produttivo con quello svolto all'interno del nucleo capitalistico dell'economia, all'epoca ancora minoritario ma già chiaramente base della forza economica del paese.In opposizione a Smith, e senza comprenderne le motivazioni di fondo, con Jean-Baptiste Say (v., 1803) si iniziò a considerare produttivo qualsiasi lavoro utile, anche se diretto a fornire servizi, cioè 'beni immateriali'. Questa impostazione è rimasta dominante anche con l'affermazione della teoria marginalista del valore, che fonda la determinazione del valore di scambio sul valore d'uso, cioè sull'utilità dei vari beni o servizi. Tuttavia, con la ripresa dell'impostazione degli economisti classici ad opera di Piero Sraffa (v., 1960), alcuni aspetti almeno della distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo sono tornati ad attirare l'attenzione degli economisti. È ipotizzabile, in particolare, un collegamento tra questa distinzione e la maggiore o minore funzionalità allo sviluppo economico delle diverse attività lavorative.

6. La teoria classica del valore-lavoro e la teoria marginalista del lavoro come fattore di produzione

Con la divisione del lavoro tra unità produttive diverse (e, all'interno di ciascuna di queste, tra compiti diversi affidati ai vari lavoratori) sorge la necessità di una rete di scambi. Infatti, ogni unità produttiva ottiene un bene (o un gruppo di beni) specifico al termine del processo produttivo, mentre per produrre ha bisogno di altri beni come mezzi di produzione (materie prime, macchinari, semilavorati) e mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati nel processo produttivo. Come si è accennato, nel Medioevo l'economia era basata su una serie di unità locali in misura notevole autosufficienti. Gli scambi riguardavano principalmente i beni di lusso, e solo in misura marginale (rispetto alla dimensione dell'autoconsumo da parte degli stessi produttori) quelli necessari alla vita normale dei lavoratori agricoli, che costituivano la grande maggioranza della popolazione. Scambi di bestiame e di attrezzi agricoli, oltre che di prodotti dell'artigianato e di specifici prodotti agricoli, si verificavano in occasione delle fiere, raduni di breve durata di mercanti e acquirenti. I prezzi che si formavano nelle fiere (come i prezzi delle merci trasportate per nave nei porti di sbarco) dipendevano in modo cruciale dal rapporto occasionale, variabile nel tempo e da luogo a luogo, tra la quantità di merci offerta in vendita e il potere d'acquisto dei compratori.
In un certo senso, le teorie neoclassiche del prezzo basato sull'equilibrio tra domanda e offerta, corrispondono alla struttura economica tipica di una società feudale. Tuttavia tra gli scrittori dell'epoca non troviamo teorie di questo tipo, in quanto l'andamento degli scambi e dei prezzi non presenta quelle regolarità che sono il presupposto necessario perché sorga il problema di determinare i valori 'normali' delle variabili. Le riflessioni sui fenomeni economici riguardano piuttosto il problema del 'giusto prezzo', ovvero del comportamento che i mercanti dovevano tenere per non macchiarsi dei peccati di frode e violenza: un problema normativo, quindi, non interpretativo.Il 'giusto prezzo', in altri termini, era quel prezzo al quale era moralmente lecito per il mercante vendere le proprie merci. Alcuni commentatori dell'epoca identificano molto semplicemente tale prezzo con quello liberamente accettato dai partecipanti all'accordo di scambio. Altri, ritenendo mercanti e acquirenti non dotati di eguale potere contrattuale, propongono un prezzo tale da permettere il recupero dei costi di produzione. Altri ancora, semplificando questa tesi tramite una riduzione dei costi di produzione ai soli costi di lavoro, collegano i prezzi alla quantità relativa di lavoro necessaria alla produzione delle varie merci. Abbiamo così una rudimentale teoria del valore-lavoro, normativa più che descrittiva.
La teoria del valore-lavoro riaffiora in William Petty, come semplificazione di una teoria dei prezzi basata sull'elemento oggettivo della difficoltà di produzione piuttosto che su quello soggettivo delle preferenze di venditori e acquirenti (v. Roncaglia, 1977). Adam Smith limita l'applicazione della teoria del valore-lavoro contenuto (cioè direttamente o indirettamente necessario alla produzione di una merce) a uno stadio primitivo della società. In tale situazione, infatti, non si è ancora verificata la suddivisione in classi sociali tra proprietari terrieri, capitalisti (cioè proprietari dei mezzi di produzione) e lavoratori: ogni lavoratore produce da sé i suoi mezzi di produzione (l'arco per il cacciatore, l'amo e l'esca per il pescatore), mentre la popolazione è sufficientemente scarsa perché la terra su cui cacciare o pescare sia disponibile per tutti. Per le società sviluppate Smith propone una teoria del valore-lavoro comandato, secondo la quale il valore di ogni merce è misurato dalla quantità di lavoro che essa può acquistare (ed è quindi pari al prezzo della merce diviso per il salario). Questa teoria, ovviamente, presuppone che siano noti sia il prezzo della merce sia il salario, e non costituisce quindi un tentativo di spiegare il prezzo della merce stessa, ma semplicemente un tentativo di misurarlo.
L'utilizzo del lavoro in questo senso, come misura del valore dei beni, costituisce un criterio semplice e di significato intuitivo per confrontare il valore di una stessa merce in paesi o in tempi diversi: se ad esempio dico che una bicicletta vale venti ore di lavoro in Italia (cioè che per comprarla occorre venti volte il salario orario medio) mentre in Cina, o nell'Italia di un secolo fa, valeva duecento ore di lavoro, mi esprimo in termini sicuramente più significativi che se confrontassi grandezze eterogenee come lire di oggi con lire di ieri, o lire con moneta cinese. Il lavoro comandato, quindi, conserva tutt'oggi un ruolo nell'analisi comparata dei sistemi economici e negli studi dello sviluppo economico.
David Ricardo (v., 1817) e, sulla sua scia, Karl Marx (v., 1867-1894) ripropongono la teoria del valore-lavoro contenuto anche per le società capitalistiche: non solo come spiegazione - che essi stessi ammettono essere imperfetta - di come vengono determinati i prezzi relativi, ma anche, specie nel caso di Marx, come espressione del 'valore assoluto' delle merci (Marx parla del lavoro come della 'sostanza' del valore: v. Lippi, 1976). Sia le difficoltà analitiche incontrate dalla teoria del valore-lavoro, sia le implicazioni rivoluzionarie che ne avevano tratto Marx e, prima di lui, i socialisti ricardiani (come ad esempio Hodgskin: v., 1825), favoriscono comunque l'abbandono dell'impostazione degli economisti classici e l'affermazione della teoria del valore marginalista, basata sul confronto fra preferenze dei soggetti economici e dotazioni originarie di risorse.
Nell'ambito della teoria marginalista tradizionale del valore e della distribuzione, che a partire dalla fine dell'Ottocento e fino ai giorni nostri domina incontrastata nei manuali di economia, il lavoro è uno dei 'fattori di produzione'. Come per gli altri fattori di produzione - terra e capitale -, e come per ogni altro bene, il prezzo del lavoro corrisponde all'equilibrio tra quantità domandata e quantità offerta. La domanda di lavoro da parte delle imprese dipende dal contributo del lavoro al processo produttivo; in base al postulato della produttività marginale decrescente, l'utilizzo di dosi addizionali di lavoro assieme a una dotazione invariata di capitale e terra genera aumenti di prodotto man mano più piccoli. Poiché l'imprenditore in concorrenza è disposto a impiegare dosi aggiuntive di lavoro fin quando il costo - il salario - è inferiore al ricavo - il valore del prodotto addizionale -, la domanda di lavoro è funzione decrescente del salario reale. L'offerta di lavoro da parte del lavoratore, viceversa, è funzione crescente del salario reale: il lavoro è un sacrificio, e in base al principio della penosità marginale crescente ogni lavoratore percepisce come un sacrificio sempre più pesante ogni dose successiva di lavoro prestato, e richiede perciò un compenso crescente per fornire dosi man mano maggiori di lavoro.
(Sottolineiamo qui la differenza tra il concetto di produttività media, o produttività tout court, che è quella di cui parla Smith nello spiegare la ricchezza delle nazioni e sulla quale in genere concentrano l'attenzione gli economisti classici, e il concetto di produttività marginale, utilizzato dalla teoria marginalista. La produttività media ha un immediato riscontro empirico, corrispondendo al rapporto tra produzione complessiva e numero di lavoratori o ore di lavoro impiegate nella produzione; la produttività marginale, invece, indica le variazioni puramente virtuali di prodotto corrispondenti a variazioni ipotetiche di un fattore di produzione, ferme restando la tecnologia e le quantità utilizzate degli altri fattori di produzione. La produttività del lavoro, intesa come produttività media per ora lavorata, tende a crescere nel tempo in seguito al progresso tecnico che si traduce in nuove macchine, e quindi a un ritmo che dipende dall'ammontare degli investimenti, in particolare di quelli in macchinari, che sono stimolati da un aumento dei salari più rapido di quello delle macchine, ma anche in seguito a piccoli miglioramenti introdotti nel processo produttivo in base all'esperienza - il cosiddetto learning by doing).

7. Il mercato del lavoro

Il modello che abbiamo appena descritto - la teoria marginalista del lavoro come fattore di produzione - costituisce ovviamente solo una base semplificata sulla quale è possibile innestare l'esame di aspetti più specifici, tramite complicazioni successive.
In primo luogo, per quanto riguarda l'offerta di lavoro occorre ricordare l'influenza di fattori demografici e sociali. Tramite i tassi di natalità e mortalità, l'emigrazione e l'immigrazione, questi fattori determinano l'andamento della popolazione di un paese, e in particolare della popolazione in età lavorativa. Gli stessi limiti dell'età lavorativa dipendono da consuetudini sociali (come i tassi di scolarità), norme (come le leggi sul lavoro minorile), istituzioni (come il sistema pensionistico). Solo una parte della popolazione in età lavorativa, comunque, fa parte della popolazione attiva (persone che lavorano o che sono alla ricerca di un lavoro). Il cosiddetto tasso di attività (o tasso di partecipazione), cioè il rapporto tra popolazione attiva e popolazione complessiva, che nei paesi sviluppati è in genere compreso fra il 39 e il 45%, dipende anch'esso da fattori sociali ed economici. Per individuarli, conviene calcolare i tassi di attività specifici, per sesso e classi di età: ad esempio, per le donne comprese tra i 30 e i 39 anni, il rapporto tra occupate o in cerca di lavoro e totale delle donne in quella classe di età. Confrontando i tassi di attività specifici tra paesi diversi o, per uno stesso paese, tra periodi di tempo diversi, si scopre che proprio i tassi di attività femminile contribuiscono in misura determinante a spiegare le differenze nel tasso di attività generale. Queste differenze dipendono, ovviamente, da consuetudini sociali, in particolare relative alla posizione della donna nella società, ma anche da fattori economici quali l'andamento della domanda di lavoro e il tipo di lavoro offerto: quando la disoccupazione è elevata, molti potenziali lavoratori, e soprattutto molte potenziali lavoratrici, rinunciano ai tentativi di trovare lavoro ed escono dalla popolazione attiva. Se ricordiamo quanto diceva Smith a proposito della ricchezza delle nazioni, che dipende sia dalla produttività del lavoro sia dalla quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione, possiamo comprendere l'importanza del tasso di attività e degli elementi che lo determinano per il tenore di vita di un paese.In secondo luogo, è chiaro che nel modello marginalista base illustrato sopra la disoccupazione risulta nulla se il libero gioco della domanda e dell'offerta è in grado di determinare un salario reale che le renda eguali. L'esistenza della disoccupazione come dato di fatto comune a tutte le economie capitalistiche richiede quindi spiegazioni specifiche (o critiche al modello teorico, come quelle di Keynes, che qui non possiamo considerare; per Keynes, l'occupazione dipende sostanzialmente dalla domanda di lavoro, e quindi dalle decisioni degli imprenditori su quanto e come produrre).
Le spiegazioni della disoccupazione nell'ambito della tradizione marginalista si richiamano, per un aspetto o per l'altro, alle deviazioni del mercato del lavoro dall'ideale della concorrenza perfetta. Ad esempio, il salario può risultare troppo elevato rispetto al livello di equilibrio che assicurerebbe la piena occupazione, a causa del potere contrattuale dei sindacati o a causa di limiti nell'informazione disponibile o di difficoltà nel controllare l'efficienza dei lavoratori. Ancora, le informazioni disponibili sul mercato del lavoro possono essere insufficienti e generare decisioni errate (ad esempio, nella scelta delle qualifiche: troppi laureati in lettere e troppo pochi ingegneri). Infine, l'aggiustamento ai cambiamenti che si verificano nella realtà (ad esempio, le migrazioni dalle aree e dai settori in declino a quelli in crescita) può risultare incompleto o troppo lento; è necessario tempo anche per la ricerca della prima occupazione o per la ricerca di un'occupazione migliore da parte di chi ha lasciato per insoddisfazione il suo posto di lavoro, e che per il momento risulta disoccupato. Istituzioni quali gli uffici di collocamento o le agenzie del lavoro hanno un ruolo importante nel far fronte ad alcuni di questi problemi, che hanno comunque un loro peso anche nell'opinione di quanti non accettano la teoria marginalista. La segmentazione del mercato del lavoro in mercati specifici - differenziati per territorio, per settori di attività e soprattutto per qualifiche - è l'estensione più ovvia e immediata della teoria di base. I differenziali salariali - territoriali, settoriali e di qualifica - vengono comunque a dipendere dal gioco della domanda e dell'offerta su ciascun mercato specifico. In particolare, i differenziali per qualifica debbono compensare le spese sostenute dal lavoratore qualificato per l'investimento addizionale in costi di formazione rispetto al lavoratore comune (v. Blaug, 1972). Lungo queste linee può essere analizzata anche la distinzione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo: nel secondo caso, oltre a un differenziale retributivo corrispondente alle eventuali differenze di qualifica, il reddito incorporerà anche la retribuzione del capitale utilizzato e del rischio. Quest'ultimo elemento - gli investimenti in 'capitale umano', cioè le spese sostenute sia dallo Stato sia dal singolo perché il lavoratore acquisisca una maggiore capacità professionale e quindi migliori prospettive di guadagno - ha assunto notevole rilievo nella moderna teoria dello sviluppo economico. Infatti la maggiore qualificazione della forza lavoro viene comunemente valutata come uno dei principali fattori di sviluppo economico oltre che come uno dei principali fattori di competitività internazionale (v., ad esempio, Reich, 1991).
La considerazione delle differenze di qualifica tra lavoratori porta a rappresentare la classe lavoratrice come un insieme non omogeneo al suo interno. La semplice dicotomia tra lavoro comune e lavoro qualificato o tra lavoro semplice e lavoro complesso (dove l'accento viene posto nel primo caso sulla formazione e la capacità professionale del lavoratore, e nel secondo caso sulle caratteristiche di maggiore o minore complessità del processo lavorativo) viene sostituita da un'articolazione in ceti, prestando attenzione anche a elementi quali differenze di posizione sociale (potere e prestigio oltre che reddito). Si riconosce così che i differenziali salariali non rispondono a puri criteri di mercato ma incorporano un importante elemento di tradizione sociale.
Per analogia possiamo ricordare qui anche i differenziali salariali per sesso: le differenze tra uomini e donne, che si sono ridotte nel tempo ma sono tutt'altro che scomparse, riguardano sia i livelli retributivi per eguali qualifiche e grado, sia la difficoltà di fare carriera a parità di livello d'istruzione. In alcuni paesi, come gli Stati Uniti, sono rilevanti e oggetto di un'ampia messe di studi anche i differenziali retributivi etnici.Ricordiamo infine che mentre in vari paesi arretrati è importante la piccola proprietà contadina, nei paesi capitalistici avanzati è tutt'altro che trascurabile la quota dei lavoratori autonomi nella popolazione attiva (piccoli commercianti, artigiani, liberi professionisti). Di fronte a questa molteplicità di elementi di differenziazione tra lavoratori, anche le moderne analisi della struttura sociale considerano generalmente inappropriata la visione dicotomica della società (proletari e capitalisti) tipica della tradizione marxista più ortodossa. Poiché le differenze di collocazione nel mondo del lavoro - come nel caso della distinzione tra lavoratori dipendenti e autonomi - influiscono sulla 'visione del mondo' e quindi sull'orientamento politico, pur non determinandolo in modo rigido, la stratificazione per ceti sociali e la sua evoluzione nel corso del tempo costituiscono fattori essenziali nello studio delle vicende politiche (v. Sylos Labini, 1974).

8. Settori economici e orari di lavoro nello sviluppo del capitalismo

Solo quando si considera il mondo del lavoro nella sua articolazione diviene possibile cogliere l'enorme ampiezza dei cambiamenti intervenuti in esso nel corso degli ultimi decenni, e delle differenze tuttora esistenti tra paesi diversi.Se consideriamo le cose secondo una prospettiva di più lungo periodo, i cambiamenti sono tali da implicare una modifica delle stesse categorie utilizzate per l'analisi. All'inizio del Settecento, le statistiche elaborate dagli aritmetici politici (Gregory King, Charles Davenant) classificavano reddito e lavoratori non in base al settore di attività ma in base a ripartizioni territoriali: una visione che riflette la frammentazione dell'economia nazionale in unità locali non necessariamente autosufficienti ma assai meno legate fra loro di quanto avvenga oggi. Solo in seguito si afferma la suddivisione per settori economici. Anche in questo caso, però, le categorie comunemente utilizzate nel recente passato - agricoltura, industria, servizi - tendono oggi a essere sostituite da nuove categorie, con la distinzione tra servizi destinati e non destinati al mercato (o tra servizi pubblici e privati), mentre sempre meno peso viene attribuito alla distinzione tra agricoltura e industria.La ragione di queste tendenze recenti può essere compresa se guardiamo alle modifiche intervenute negli ultimi decenni nelle quote dei lavoratori impiegate rispettivamente nell'agricoltura, nell'industria e nei servizi. Quella che Colin Clark (v., 1951²) ha battezzato, alquanto impropriamente, 'legge di Petty', prevede che nel tempo la quota del lavoro occupata nell'agricoltura tenda a diminuire, e che crescano quelle occupate nell'industria e nei servizi. Se consideriamo i dati più recenti, vediamo che nei paesi più sviluppati il peso degli occupati in agricoltura è ormai drasticamente ridotto, mentre la quota degli occupati nell'industria, dopo essere cresciuta per vari decenni fino a raggiungere quasi il 50% dei lavoratori, ha iniziato a ridimensionarsi a vantaggio della quota degli occupati nei servizi, pubblici e privati, che in molti paesi cosiddetti 'postindustriali' ha ormai superato il 60%.
Lo stesso fenomeno può essere colto da un altro punto di vista, confrontando la struttura dell'occupazione in paesi a livelli diversi di sviluppo. L'agricoltura ha un ruolo ancora dominante nei paesi a più basso reddito, mentre nei cosiddetti paesi di nuova industrializzazione diminuisce la quota degli occupati in agricoltura e aumenta quella degli occupati nei servizi e soprattutto nell'industria; quest'ultima quota è superiore a quella che riscontriamo nei paesi postindustriali, dove è nettamente dominante l'occupazione nei servizi. Rispetto al profilo dell'evoluzione storica, il confronto tra paesi a diversi livelli di sviluppo mostra oggi una quota relativamente maggiore di occupati nei servizi - specie nei servizi pubblici - nei paesi a basso e medio reddito.
Per quanto riguarda le prospettive per il futuro, non sembra opportuno ricorrere a estrapolazioni delle tendenze più recenti, come fanno molti 'futurologi' che prevedono una continua crescita del settore dei servizi. Questa è dipesa, nella fase più recente, da tre circostanze che non è detto persistano in futuro. Il primo elemento è costituito dalla crescente quota di domanda dei consumatori finali rivolta ai servizi - in particolare per il tempo libero, per l'istruzione, per cure mediche - , considerati 'beni superiori', cioè beni non di prima necessità, la cui domanda cresce d'importanza al crescere del reddito. In secondo luogo abbiamo l''esternalizzazione' di molti servizi per la produzione, cioè il ricorso da parte delle imprese a fornitori esterni per servizi legali, di contabilità, di ricerche di mercato e simili, in precedenza svolti all'interno delle stesse imprese manifatturiere. In terzo luogo ricordiamo la minore crescita della produttività nel settore dei servizi rispetto a quella verificatasi nell'agricoltura e nell'industria manifatturiera.
È plausibile che il primo dei tre elementi appena indicati persista almeno nel futuro prossimo. Anche per il secondo elemento è possibile che non sia stata ancora raggiunta la soglia di saturazione, di fronte alle crescenti esigenze di flessibilità delle imprese. Per il terzo elemento, tuttavia, le cose potrebbero cambiare notevolmente, se l'impatto della microelettronica riguarderà il settore dei servizi più che gli altri settori. Inoltre, l'espansione del settore pubblico collegata alla crescita dei servizi destinati al mercato sembra aver raggiunto un limite difficilmente valicabile in vari paesi a causa delle reazioni sempre più vive a un'elevata pressione fiscale. Un rallentamento della crescita dei servizi (in Italia nel 1994 per la prima volta questo settore ha conosciuto un calo in assoluto nel numero degli occupati) può dar luogo non semplicemente a nuove tendenze nella struttura settoriale dell'occupazione, ma a un crescente problema di disoccupazione tecnologica. Di fronte a questo problema, uno degli sbocchi più frequentemente proposti richiama una delle principali tendenze di lungo e lunghissimo periodo che caratterizzano il mondo del lavoro, quella alla riduzione degli orari di lavoro (giornalieri, settimanali, annui e riferiti all'intero arco di vita attiva del lavoratore: v. tabella).
Occorre sottolineare, comunque, che la tendenza di lungo periodo a una riduzione delle ore lavorate si afferma su una base di oscillazioni collegate all'andamento della congiuntura economica. In particolare, gli orari lavorativi di fatto seguono un andamento grosso modo prociclico (cioè crescono nelle fasi di espansione dell'economia e diminuiscono nelle fasi di rallentamento congiunturale), mentre gli orari contrattuali si mostrano sensibili soprattutto ai problemi di competitività internazionale dei singoli paesi. Infatti un paese non può perseguire isolatamente una politica di riduzione degli orari di lavoro senza correre il rischio di peggiorare la propria competitività internazionale, e quindi di aggravare anziché ridurre la propria disoccupazione. A parità di lavoratori occupati, l'aumento della produttività oraria si deve tradurre in maggiore produzione o in minori orari di lavoro. Nel corso dell'ultimo secolo, la riduzione degli orari di lavoro ha assorbito una quota degli aumenti di produttività oraria pari grosso modo a un terzo, mentre due terzi si sono tradotti in aumento della produzione pro capite.
Di fronte a questa situazione, i sostenitori di una società più attenta alla salvaguardia dell'ambiente, e quindi meno orientata verso la produzione materiale, ritengono che sarebbe necessario uno sforzo coordinato per modificare quelle proporzioni, perseguendo una drastica riduzione del tempo dedicato al lavoro a favore di quello dedicato alla cultura e ad attività libere. In questo senso, le più recenti tendenze dell'ecologismo più radicale si ricollegano a quei filoni del socialismo utopistico, ai quali si è accennato sopra, che auspicano riforme della società dirette ad assicurare una radicale riduzione del lavoro complessivo richiesto per il funzionamento della società accompagnata da una sua più equa riallocazione. Quest'ultimo problema concerne in particolare i lavori meno gradevoli, ma pur sempre necessari; per quanto riguarda quei servizi personali la cui prestazione può avere valore in sé - ad esempio, l'assistenza agli anziani e ai malati - è possibile favorire il ricorso al volontariato; per altre attività lavorative che non hanno questo tipo di gratificazione - ad esempio, la raccolta delle immondizie - è stato proposto il ricorso a un 'esercito del lavoro', in modo che ogni cittadino dedichi una parte limitata della sua vita a prestazioni di questo tipo, senza che nessuno sia condannato a esse per tutta la durata della propria vita attiva; questa proposta dunque ha finalità diverse da quella, analoga ma diretta principalmente a combattere la disoccupazione, di affidare a disoccupati, per periodi di tempo limitati, l'esecuzione di lavori socialmente utili in cambio di un salario minimo.

9. Evoluzione della struttura economica e della stratificazione sociale: verso il superamento del lavoro costrittivo?

L'immagine del lavoro ereditata dai testi ottocenteschi o della prima metà di questo secolo (e da film come Tempi moderni di Chaplin) e collegata all'immagine dell'operaio comune utilizzato alla catena di montaggio appare non totalmente superata - specie se guardiamo ai paesi in via di sviluppo, nei quali vengono decentrate le attività produttive a minore contenuto professionale - ma poco adeguata a cogliere le tendenze in atto nella fase più recente, specie nei paesi postindustriali. In questa fase ha ripreso vigore la crescita delle piccole e medie imprese, dotate di una maggiore flessibilità, spesso organizzate in 'distretti industriali'; in parallelo, si è avuto uno spostamento d'importanza dalle tecnologie basate sulla divisione scientifica del lavoro (Taylor) e sulle catene di montaggio a tecnologie più flessibili permesse dallo sviluppo della microelettronica e basate sulle macchine a controllo numerico. Inoltre, l'alternanza tra il primo e il secondo principio di Babbage - un frazionamento delle attività lavorative diretto a ridurne il contenuto di professionalità e quindi a ridurre il costo del lavoro, e la sostituzione con macchine delle attività più semplici - genera sia una tendenza di lungo periodo all'arricchimento delle capacità professionali (e soprattutto dell'istruzione di base) richieste ai lavoratori, sia una crescente varietà di mestieri e professioni. Se a questa tendenza si unisce quella alla diffusione dell'azionariato popolare (in vari paesi, in particolare negli Stati Uniti e in Germania, tramite un ruolo centrale dei fondi pensionistici), possiamo cogliere una situazione in cui la dicotomia di classe tra lavoratori e capitalisti perde importanza rispetto alla stratificazione per ceti sociali. In questa stessa direzione potrebbe operare una maggiore diffusione del cooperativismo nella produzione, già proposta nell'Ottocento da un filone del 'socialismo ricardiano' (Robert Owen, William Thompson) e da John Stuart Mill, le cui idee furono praticamente sommerse dall'ostilità delle ideologie marxiste e comuniste, che privilegiavano invece la proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Fra l'altro, la diffusione del cooperativismo potrebbe essere favorita dal crescente contenuto professionale delle attività lavorative e quindi dalle crescenti difficoltà di controllare l'adeguatezza delle prestazioni dei lavoratori dipendenti.Il progresso tecnico apre dunque spazi notevoli: riduzione degli orari di lavoro, arricchimento professionale di molte attività lavorative, miglioramenti nell'ambiente di lavoro.
Allo stesso tempo pone problemi difficili: disoccupazione tecnologica, differenziazioni sociali, effetti sull'ambiente. In questo contesto, l'analisi delle tendenze in atto nel mondo del lavoro non può essere disgiunta dallo studio di proposte d'intervento. Fra queste, quelle forse più interessanti, non solo in via diretta ma anche per cogliere meglio le potenzialità della situazione in cui viviamo, sono le più radicali e solo apparentemente più utopistiche. Infatti, può apparire decisamente irrealistica la prospettiva suggerita da Marx di una liberazione completa dal lavoro costrittivo; ma assai meno irrealizzabili, almeno in linea di principio, appaiono le proposte di inserire sulla tendenza secolare alla riduzione del tempo dedicato al lavoro nell'arco della vita umana riforme anche radicali - come la promozione di lavori non produttivi di merci o servizi vendibili ma socialmente utili o l'istituzione di un 'esercito del lavoro' sulle linee sopra indicate - per ripartire in modo più equo sull'intera popolazione il carico ineliminabile del lavoro costrittivo e ridurre il peso delle differenziazioni sociali. Come si vede, comunque, il tema del lavoro è indissolubilmente legato a quello degli assetti della società: le trasformazioni in corso nel campo del lavoro, ricordate sopra, non potranno non avere effetti profondi sull'organizzazione delle società umane e sulla nostra vita.

Sociologia
di Marino Regini

sommario: 1. Introduzione. a) Lavoro dipendente e non. b) Il lavoro gerarchicamente subordinato. c) Il futuro del lavoro tra vecchio e nuovo. 2. Il lavoro nelle economie capitalistiche. a) I mercati del lavoro e le altre istituzioni regolative. b) Tendenze alla flessibilità. c) Il lavoro fuori dal mercato capitalistico. 3. Il lavoro nell'impresa. a) Il taylor-fordismo e le conseguenze del mutamento tecnologico. b) La riorganizzazione post-fordista del lavoro. c) Tra forza lavoro e risorse umane. d) Le attività terziarie e le forme di lavoro atipico. 4. La centralità sociale del lavoro e le sue trasformazioni. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il lavoro è un'attività sociale complessa, a cui gli studiosi di scienze sociali hanno guardato in modi differenti e con differenti interessi, a seconda delle preoccupazioni che prevalevano nei diversi periodi storici. Negli ultimi vent'anni, ad esempio, vi è stato uno spostamento significativo dell'attenzione dai problemi della qualità a quelli della quantità di lavoro. Se fra gli anni cinquanta e settanta la preoccupazione dominante era infatti quella della 'umanizzazione' del lavoro - una preoccupazione giustificata dai metodi di lavorazione prevalenti e da una visione pessimistica degli effetti del progresso tecnico - negli anni ottanta, entrato in crisi il modello del Welfare State keynesiano che garantiva pieno impiego e sicurezza sociale, l'attenzione si è spostata verso i problemi della disoccupazione e delle conseguenti opportunità di redistribuire il lavoro, di accorciarne i tempi, e così via.
Ma ciò non significa che la riflessione sulla natura e sul futuro del lavoro sia diventata obsoleta. Anzi, proprio il dibattito su occupazione e disoccupazione ha indotto a riprendere quella riflessione, che ha toccato tre aspetti principali. Il primo, solo apparentemente definitorio, riguarda la stessa nozione di lavoro e ciò che essa ricomprende. Lavoro è sinonimo di occupazione, o è una categoria in cui rientrano anche altri tipi di rapporto sociale (v. Pahl, 1988)? È facile, ma tutto sommato poco significativo, osservare che, in realtà, anche quelli che vengono definiti come disoccupati e inoccupati spesso lavorano nell'economia nascosta e in quella irregolare. Più importante è notare che, se si adotta una definizione di lavoro, in contrapposizione a quella di tempo libero, troppo ricalcata su quella di occupazione - cioè come 'qualcosa che dobbiamo fare, che preferiremmo non fare, e per cui veniamo pagati' (v. Grint, 1991, p. 11) - si rischia di non considerare come attività lavorativa né il lavoro domestico né le molte forme di lavoro volontario. Decidere che cosa è lavoro e che cosa non lo è dipende insomma dalla definizione sociale, storicamente variabile, delle diverse attività umane; e in particolare dipende dal grado di egemonia che alcune forme di lavoro esercitano nei diversi periodi storici.
Il secondo aspetto della riflessione sul lavoro riguarda la sua natura, e quindi la valutazione sociale che di esso viene data. Partendo ancora una volta dai problemi della disoccupazione, si può notare che il lavoro che si cerca o che viene a mancare ha al tempo stesso la natura di labor - che nel significato latino comprende le nozioni di fatica, pena, sacrificio - e di opera, cioè di attività che strutturano la vita e che forniscono identità sociale (v. Touraine, 1986, p. 195). I due aspetti sono presenti in misura variabile nei diversi tipi di lavoro, che tuttavia ha sempre, inevitabilmente, una natura ambigua e contraddittoria. Da un lato è il simbolo della punizione per il peccato originale e della costrizione presente nella condizione umana: 'si lavora perché si deve'. In quanto tale implica non solo fatica e sacrificio, ma per lo più anche subordinazione ed eteronomia. Dall'altro, è un mezzo con cui l'individuo può dimostrare a se stesso e agli altri quanto vale: 'si lavora per affermare le proprie capacità'. Dunque il lavoro è uno strumento non solo di reddito, ma anche di status, di autorealizzazione, di identità sociale; tanto che "chi non ha un lavoro, molto spesso trae la propria autoconsiderazione o il prestigio sociale da altri a lui prossimi, come i genitori, il coniuge, i quali hanno un'occupazione" (v. Dahrendorf, 1988, p. 114). L'enfasi posta dagli scienziati sociali sull'uno o sull'altro di questi caratteri del lavoro dipende, come vedremo, non solo da convinzioni metascientifiche, ma anche dalla diversa lettura dei processi di mutamento che lo hanno interessato. Le trasformazioni del lavoro hanno per effetto di potenziare il primo o il secondo di questi caratteri contraddittori? E l'idea di una nuova società deve contenere in sé quella di una liberazione dal lavoro - attraverso una drastica riduzione dell'orario e un'ampia ripartizione sociale delle attività faticose e alienanti in nessun modo eliminabili - o di una liberazione nel lavoro, valorizzando cioè sempre di più le componenti di autonomia, responsabilità e autorealizzazione che dipendono dal modo di disegnare i lavori (v. Gorz, 1988)?
Infine, il terzo aspetto della riflessione riguarda il futuro del lavoro e della sua centralità sociale nei paesi industriali avanzati. La contrazione dell'occupazione dipendente e la riduzione dell'attività lavorativa stabile nell'esperienza di vita degli individui hanno l'effetto di ridimensionare la centralità sociale del lavoro, e addirittura portano alla 'fine della società del lavoro' (v. Dahrendorf, 1980; v. Offe, 1983), o implicano semplicemente una maggiore diversificazione delle esperienze lavorative, cioè il passaggio 'dal mondo del lavoro a quello dei lavori' (v. Accornero, 1992)?
La riflessione su questi diversi aspetti del lavoro ha posto fine a una lunga e curiosa disattenzione della teoria sociale e politica contemporanea nei confronti di questo fenomeno centrale della vita umana (v. Gallino, 1988, p. 138). Se nell'International encyclopaedia of social sciences addirittura non si trova una voce Work (ma solo quelle affini di Workers, Labor force e Occupations and careers), il dibattito fra gli studiosi di scienze sociali si è invece acceso più di recente sui temi sopra indicati inerenti ai confini, alla natura, e al futuro del lavoro.L'emergere di questo dibattito è rivelatore di profondi mutamenti avvenuti nella forma 'tipica' del lavoro come lo abbiamo conosciuto in questo secolo, cioè il lavoro dipendente (o lavoro salariato) e gerarchicamente subordinato, svolto normalmente a tempo pieno all'interno di un'organizzazione. È la contrazione e al tempo stesso la trasformazione di questo tipo storicamente determinato di lavoro che legittima gli interrogativi più astratti su che cosa rientri nella definizione di lavoro e su quali siano le tendenze prevedibili.Nei prossimi paragrafi, dunque, dovremo analizzare brevemente le caratteristiche del lavoro dipendente (v. § 1a) e gerarchicamente subordinato (v. § 1b), per poi valutare la portata dei suoi mutamenti e delle possibili alternative (v. § 1c). Questi temi verranno poi ripresi per esteso nei capitoli successivi.

a) Lavoro dipendente e non
L'occupazione alle dipendenze, o lavoro salariato, non è che una delle forme possibili di lavoro, anche se è quella che ha dominato la vita economica e il pensiero sociale dopo l'affermazione del capitalismo. Il concetto del posto di lavoro fisso come fonte pressoché esclusiva del reddito personale è emerso per la prima volta nell'Ottocento. Benché un mercato del lavoro sia esistito in molti paesi europei per diversi secoli, infatti, un'occupazione regolare a tempo pieno non era la norma, e il reddito ricavato dal lavoro salariato costituiva solo una componente non essenziale al mantenimento dell'individuo e della famiglia (v. Pahl, 1988, p. 12). Nonostante la specificità storica della nozione di occupazione dipendente e il periodo relativamente breve in cui si è affermata, ben presto essa viene a coincidere, nell'analisi sociale non meno che nel senso comune, con quella di lavoro tout court. Il manuale americano più usato negli anni cinquanta, ad esempio, definisce il lavoro come "occupazione permanente nella produzione di beni e servizi in cambio di una retribuzione" (v. Dubin, 1958).
È difficile sostenere che questa forma di lavoro non conservi anche oggi la sua centralità; essa ha tuttavia subito trasformazioni rilevanti, e soprattutto una notevole contrazione. L'aumento della disoccupazione cui si è accennato sopra non ne è che una delle cause. Le altre vanno ricercate nell'estensione e nel prolungamento del sistema di istruzione e di quello pensionistico, che hanno sottratto al mercato del lavoro quote crescenti di popolazione in età giovanile e in età anziana, nonché nella generalizzata riduzione dell'orario di lavoro.In diversi paesi, a questa contrazione del lavoro dipendente ha fatto invece riscontro una crescita del lavoro professionale e autonomo (artigiani, commercianti, lavoratori free-lance). E, soprattutto, non vi sono segnali che sia in calo il lavoro domestico, svolto in modo preponderante dalle donne, benché in molti paesi l'organizzazione familiare del lavoro abbia subito mutamenti rilevanti.

b) Il lavoro gerarchicamente subordinato
Anche la forma di lavoro gerarchicamente subordinato e svolto all'interno di un'organizzazione, che implica la disponibilità temporale piena del lavoratore a prestazioni standardizzate piuttosto che l'offerta di una prestazione specifica, è una costruzione sociale relativamente recente, esito di un duplice processo (v. Chiesi, 1990).Il processo più noto e ampiamente richiamato è quello che, nel corso di questo secolo, ha portato alla costituzione della grande impresa - un'impresa che produce in grande serie beni standard, mediante l'uso di macchine e di una forza lavoro che svolge compiti routinizzati. L'esigenza fondamentale che si poneva rispetto a quest'ultima era quella del controllo e della standardizzazione della prestazione, e a tale esigenza hanno a lungo risposto l'innovazione tecnologica nella fabbrica e negli uffici, e i metodi di organizzazione del lavoro, o 'concetti di produzione' prevalenti (v. Kern e Schumann, 1984).
Nei paesi industriali avanzati, un secondo processo si è poi affiancato al primo nel sancire la centralità del lavoro gerarchicamente subordinato e nell'assicurare il conseguimento di una standardizzazione, uniformità e 'rigidità' della prestazione lavorativa. Si tratta del costituirsi di sistemi di relazioni industriali volti alla tutela contrattuale di un tale rapporto di lavoro, e quindi alla sua stabilizzazione. Se l'organizzazione della grande fabbrica o dell'ufficio tradizionale era di fatto un sistema di regole relativamente uniformi, i sistemi di relazioni industriali che le corrispondevano consistevano in pratica nella contrattazione di queste regole secondo criteri altrettanto uniformi e standardizzati (v. Regini, 1991, pp. 149-150).Anche il lavoro gerarchicamente subordinato e svolto a tempo pieno in un'organizzazione, tuttavia, ha subito profonde trasformazioni e si è quantitativamente ridimensionato. Sono invece fortemente cresciute forme ibride fra lavoro subordinato e lavoro autonomo, ovvero forme di lavoro atipico.

c) Il futuro del lavoro tra vecchio e nuovo
Dunque, le trasformazioni del lavoro - quelle recenti e quelle prevedibili - appaiono importanti, ma né dirompenti né univoche. La forma 'tipica' del lavoro dipendente e gerarchicamente subordinato conserva ancora un predominio economico e sociale rilevante. Accanto a questa forma tipica, altri generi di lavoro riconquistano un'attenzione a lungo perduta o negata - è il caso del lavoro autonomo e di quello domestico - o si presentano come novità alla ricerca di un consolidamento - è il caso dei vari lavori atipici.Anche le conseguenze dei processi di mutamento appaiono spesso ambigue e contraddittorie. È così, ad esempio, per quanto riguarda la duplice natura del lavoro. Con un trend iniziato da alcuni decenni, e che ha conosciuto una forte accelerazione nell'ultimo, il grado di fatica, di sacrificio, di costrizione è fortemente diminuito per quasi tutte le mansioni (v. Bonazzi, 1993) - anche se ciò ha reso per certi versi ancor più evidente il limite contro cui tale diminuzione si scontra, rappresentato dal permanere degli aspetti di subordinazione e di eteronomia nella maggior parte dei lavori. Tuttavia, alla diminuzione della componente di labor non ha fatto sempre riscontro un aumento di quella di opera, se non per alcune categorie professionali. Le possibilità di autorealizzazione attraverso il lavoro sono un aspetto intorno al quale si ricreano nuovi dualismi, fra gruppi occupazionali che ricavano dal lavoro soddisfazione e prestigio sociale e altri gruppi che continuano a scorgervi soltanto sacrificio e costrizione, sia pure attenuati. Mentre i secondi cercano di circoscrivere nel tempo e nell'esperienza di vita l'attività lavorativa, i primi si identificano sempre di più in tale attività. "Nulla caratterizza meglio le posizioni superiori del fatto che i loro appartenenti si lamentano di continuo d'aver troppo lavoro da svolgere [...]. Il grande consumo di lavoro è diventato il moderno equivalente del grande consumo di agiatezza" (v. Dahrendorf, 1988, p. 120).

2. Il lavoro nelle economie capitalistiche

È nelle economie capitalistiche che si sviluppa la forma del lavoro dipendente o lavoro salariato, regolata da un mercato anomalo qual è il mercato del lavoro e, successivamente, anche da istituzioni politiche e associative, mediante la legislazione, la contrattazione collettiva, le politiche del lavoro. Nel corso di questo secolo, tale forma di lavoro assume quelli che oggi consideriamo i suoi caratteri standard, e che recentemente sono stati sottoposti a trasformazioni più o meno accentuate. Anche nelle economie capitalistiche, tuttavia, rimangono in vita forme di lavoro non salariato, alcune delle quali hanno di recente riguadagnato un'attenzione da tempo perduta.

a) I mercati del lavoro e le altre istituzioni regolative
Un mercato è un meccanismo regolativo che consente la formazione del prezzo di un bene attraverso contrattazioni formalmente libere fra chi domanda e chi offre il bene stesso. Quando il bene scambiato è quella merce decisamente anomala costituita dal lavoro umano, si parla di mercato del lavoro. In realtà, vi sono diversi mercati per diversi tipi di lavoro. La domanda di lavoro è fortemente differenziata in base alle competenze richieste (se un'impresa ha bisogno di un ingegnere non assume ovviamente un cameriere) e in base ad altre caratteristiche. Ma anche l'offerta (cioè l'insieme delle persone disponibili a ricoprire un posto di lavoro) è diversificata per livello di istruzione, qualifica, esperienza lavorativa, nonché per età, sesso, provenienza etnica, ecc. Proprio perché le caratteristiche della domanda e dell'offerta di lavoro sono così eterogenee, sarebbe costosissimo e inefficiente, se non impossibile, utilizzare metodi amministrativi per coprire i posti di lavoro disponibili in un'economia sviluppata. Il mercato del lavoro si è invece rivelato uno strumento semplice e relativamente efficiente per fissare i livelli retributivi relativi (quindi i differenziali salariali) per le diverse figure professionali, imprese, aree geografiche e settori industriali. Tuttavia, esso presenta anche molti limiti e problemi di funzionamento, e i suoi esiti suscitano forti opposizioni, così che, storicamente, ha dovuto essere affiancato e in parte sostituito da altre istituzioni regolative. In primo luogo, vi sono aspetti del lavoro che il mercato non può regolare.
A differenza dei livelli retributivi, le condizioni in cui viene effettuata la prestazione lavorativa, o condizioni di lavoro - quali i ritmi di lavoro, le condizioni ambientali, o il grado di coinvolgimento nelle decisioni - vengono variamente regolate dalla gerarchia aziendale, dalla legislazione o dalla contrattazione collettiva. Così pure, non è il mercato del lavoro che può determinare interamente il livello desiderabile di occupazione complessiva (o di domanda di lavoro aggregata), o quello di garanzia del reddito per chi esca temporaneamente o permanentemente dal mercato del lavoro stesso. A ciò provvedono solitamente, in varia misura, le politiche statali, o la concertazione fra gli interessi organizzati. In secondo luogo, il ricorso al mercato può rivelarsi in vari casi meno efficiente dell'uso di meccanismi organizzativi. È questa, ad esempio, la ragione per la quale, per ricoprire posizioni relativamente qualificate, si sono diffusi quelli che gli economisti americani Doeringer e Piore (v., 1971) hanno chiamato 'mercati del lavoro interni', in contrapposizione a quelli 'esterni'. In molte imprese, soprattutto dove la produzione è altamente specifica e dove l'esperienza lavorativa e l'identificazione dei lavoratori con l'impresa stessa sono beni preziosi, le posizioni superiori vengono infatti ricoperte mediante promozione interna - cioè mediante meccanismi organizzativi - anziché mediante ricorso al mercato 'esterno'.Infine, lo scambio che ha luogo nel mercato del lavoro è uno scambio diseguale.
Benché la retribuzione e i termini del rapporto di lavoro vengano stabiliti attraverso una contrattazione formalmente libera, infatti, il potere di mercato - e quindi contrattuale - del datore di lavoro è di solito enormemente superiore a quello del lavoratore. Tranne che per figure professionali di difficile reperibilità, la domanda di lavoro è normalmente inferiore all'offerta e non ha le caratteristiche di urgenza e talvolta di drammaticità di quest'ultima. In tutti i paesi, la legislazione è intervenuta in diversa misura a temperare questa disuguaglianza presente nei mercati del lavoro, ponendo limiti alla facoltà delle imprese di licenziare, favorendo l'assunzione dei più deboli tra quanti si offrono su tale mercato, e così via. In tutti i paesi, inoltre, l'azione collettiva dei lavoratori, che ha portato alla formazione di sindacati, ha contribuito a trasformare lo 'scambio atomistico' che avviene nel mercato del lavoro in 'contrattazione collettiva' e talvolta in 'scambio politico' (v. Pizzorno, 1977), alterando così profondamente la natura di tale mercato.Nelle economie capitalistiche contemporanee, dunque, il mercato del lavoro è ancora il meccanismo principale per fare incontrare la domanda e l'offerta e per consentire che il lavoro si svolga nella forma tipica dell'occupazione dipendente. Ma gli altri meccanismi regolativi - dalle gerarchie aziendali allo Stato, alla contrattazione collettiva - hanno assunto un ruolo fondamentale sia nel fornire all'occupazione dipendente quei caratteri che consideriamo 'tipici' (quali il contratto a tempo indeterminato e con orario standard), sia nell'assecondarne i principali mutamenti.

b) Tendenze alla flessibilità
Se la forma di lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato è una costruzione sociale relativamente recente, ancor più recenti sono alcune tendenze al suo parziale ridimensionamento.In primo luogo, è l'aspetto del tempo pieno ad avere subito una ridefinizione. Già le prime lotte sindacali per la riduzione della giornata di lavoro e la legislazione sulla sua durata avevano messo in evidenza che il significato di tale termine è socialmente variabile e va perciò giuridicamente definito. Tuttavia, nonostante la drastica riduzione della giornata e della settimana lavorative dagli inizi del capitalismo a oggi, l'idea che il lavoro dipendente non potesse che assorbire la gran parte della vita attiva di una persona era rimasta sostanzialmente immutata fino al secondo dopoguerra. È solo con la crescita del benessere nelle società industriali avanzate, e in particolar modo con il forte aumento del tasso di attività femminile (che in alcuni settori porta a una vera e propria femminilizzazione della forza lavoro), che si diffondono forme di lavoro a tempo parziale, organizzate secondo diverse modalità. Su diciannove paesi dell'area OECD, nel 1979 soltanto tre avevano una percentuale di occupati part-time superiore al 20% degli occupati totali; ma nel 1990 questi paesi erano divenuti sette (v. OECD, 1991, p. 46).
In secondo luogo, l'idea del lavoro a tempo indeterminato in cui si svolgono stabilmente le stesse mansioni per una retribuzione anch'essa prefissata - idea che si era affermata in questo secolo come esito della contrattazione sindacale non meno che dell'intervento statale - viene anch'essa messa in discussione negli anni ottanta. In questo decennio, l'esigenza delle imprese di rispondere in modo più agile e tempestivo alle turbolenze dei mercati porta ovunque a richieste di 'flessibilizzazione' del rapporto di lavoro. Queste richieste sono in taluni casi - particolarmente nei paesi anglosassoni - assecondate da propositi politici di deregulation; in altri paesi - ad esempio in Germania e in Italia - vengono di fatto contrattate con i sindacati (v. Regini, 1991).
Il primo obiettivo delle imprese è quello di ottenere maggiore flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro (si parlerà allora di flessibilità numerica o esterna), contravvenendo così al carattere di sostanziale stabilità - difficoltà di licenziamento, divieto di assunzioni a tempo determinato - che i posti di lavoro erano venuti assumendo negli anni sessanta e settanta nelle economie industriali avanzate. Mentre la flessibilità esterna o numerica ha giocato un ruolo chiave nella ristrutturazione industriale dei tardi anni settanta e primi anni ottanta, un'importanza sempre maggiore è stata in seguito assunta dalla flessibilità interna o funzionale - cioè la possibilità di impiegare un lavoratore in mansioni diverse - e da quella temporale - vale a dire la possibilità di modulare il tempo effettivo di lavoro sulle esigenze della produzione. Molte delle imprese che avevano cercato in un primo momento un tipo di riaggiustamento basato su una contrazione dell'organico, infatti, non hanno tardato a scoprire che la riorganizzazione delle mansioni, lo sviluppo professionale della forza lavoro e l'elasticità dell'orario potevano costituire fattori di competitività ancora più importanti.Infine, l'egemonia del lavoro dipendente a tempo indeterminato è messa in discussione dalla crescita - che negli ultimi vent'anni ha interessato in varia misura tutti i paesi industrialmente avanzati - del numero e dell'importanza dei lavoratori con uno status incerto nel mercato del lavoro. Gli esempi sono svariati: dai lavoratori dipendenti che svolgono anche un lavoro in proprio, talvolta preparandosi a diventare piccoli imprenditori, a quanti sono usciti dal mercato del lavoro regolare con un pensionamento anticipato che poi lavorano nell'economia informale, a coloro che svolgono un lavoro free-lance, spesso intrattenendo un rapporto continuativo e di fatto stabile con un'impresa.

c) Il lavoro fuori dal mercato capitalistico
Come si è più volte accennato, anche in un'economia capitalistica non tutto il lavoro assume la forma standard del lavoro dipendente e retribuito. Tre altri tipi principali di lavoro hanno mantenuto una rilevanza quantitativa durante tutto lo sviluppo capitalistico, benché offuscati dall'egemonia della forma standard, e mostrano oggi una ripresa di importanza economica o sociale. Si tratta del lavoro autonomo e professionale, del lavoro domestico e di quello volontario.Le professioni liberali sono naturalmente una forma di occupazione antica, per le cui caratteristiche particolari esse vengono solitamente trattate sotto una categoria diversa - definita appunto 'professione' - da quella di lavoro. Altre figure sociali (artigiani, commercianti, ecc.) svolgono invece un'attività lavorativa normalmente in forma self-employed, cioè indipendente. Sia le interpretazioni evoluzioniste dell'analisi di Karl Marx, sia le teorie della modernizzazione industriale (v. Kerr e altri, 1960) hanno fatto a lungo considerare queste figure sociali come un residuo precapitalistico o preindustriale, quindi destinato a una inevitabile perdita di importanza, se non all'estinzione. In diversi paesi industrialmente avanzati, invece, la quota dei lavoratori autonomi sul totale della forza lavoro è andata aumentando a partire dagli anni settanta (v. OECD, 1986), in conseguenza sia del formarsi di nuove figure professionali e imprenditoriali create dallo sviluppo economico, sia di politiche di sostegno pubblico volte a ottenere consenso (v. Berger e Piore, 1980).
Il lavoro domestico è stato tradizionalmente svolto dalle donne che - ancor oggi si usa dire - 'non lavorano', cioè che non hanno un'occupazione dipendente. Se il linguaggio comune è rivelatore del perché questa categoria di lavoro sia stata a lungo esclusa dal concetto di lavoro più in generale, l'arbitrarietà di questa esclusione emerge non appena si consideri che le stesse attività di cui consiste il lavoro domestico possono costituire parte del lavoro salariato nell'economia formale. Ciò vale non solo per le attività svolte nell'abitazione in senso stretto, ma anche per molte altre al di fuori di essa, quali il giardinaggio, la manutenzione dell'auto o l'accompagnare i figli a scuola. D'altro canto, le possibilità per le donne di presentarsi sul mercato del lavoro sono state limitate e determinate dalle loro attività domestiche, dando luogo a modelli occupazionali basati sulle distinzioni di sesso. Per diverse ragioni, è dunque difficile non considerare il lavoro dipendente e quello domestico come strettamente connessi fra loro (v. Grint, 1991).Infine, il lavoro volontario è diventato più importante con la moltiplicazione dei servizi sociali connessi all'espansione del Welfare State e della cittadinanza sociale. La crisi fiscale dello Stato e la caduta di qualità dei servizi sociali che ne è seguita ha in molti paesi dato nuovo impulso al volontariato - chiamato spesso anche 'terzo settore' - quale alternativa alle deficienze dello Stato, del mercato e della famiglia nel fornire prestazioni sociali.

3. Il lavoro nell'impresa

La grande impresa e l'amministrazione pubblica sono i due contesti organizzativi nei quali il lavoro salariato ha assunto le caratteristiche tipiche della sua forma standard: non già lavoro svolto autonomamente per quanto riguarda gli strumenti e le procedure lavorative - come nel caso degli artigiani o dei professionisti - ma lavoro 'gerarchicamente subordinato'.
È nell'impresa industriale che le grandi problematiche poste da questo tipo di lavoro si sono originariamente sviluppate. Ed è alla grande impresa industriale che si è rivolta in via prioritaria l'attenzione delle scienze sociali interessate al tema del lavoro e dei suoi effetti sulle persone. Dal vecchio dibattito sulle conseguenze del mutamento tecnologico - intorno a cui si sono sviluppate gran parte della sociologia industriale e della psicologia del lavoro - e sull'umanizzazione del lavoro in una fase di parcellizzazione elevata delle mansioni, si è passati più di recente alle discussioni sul superamento dell'organizzazione del lavoro taylor-fordista, sulla sua portata e sui nuovi modelli emergenti.
Contemporaneamente al superamento del fordismo, tuttavia, due forme di lavoro al di fuori del tipo standard hanno acquistato rilevanza sociale: si tratta del lavoro nel settore dei servizi - che come vedremo racchiude in sé tipi di prestazione fortemente differenziati dal punto di vista qualitativo - e di quella costellazione di forme di lavoro che si usa ormai definire 'atipico'.

a) Il taylor-fordismo e le conseguenze del mutamento tecnologico
Negli anni cinquanta e sessanta le scienze sociali scoprirono i problemi del 'macchinismo' prima e dell'automazione poi, e delle profonde conseguenze che essi provocavano sul lavoro in termini di parcellizzazione delle mansioni (v. Friedmann, 1946) e di alienazione (v. Blauner, 1964). Gli studiosi si divisero fra chi vedeva il macchinismo come una tendenza secolare a dequalificare il lavoro umano e chi invece, con una visione dialettica presa in prestito dal marxismo, lo considerava come una semplice fase in procinto di essere superata da quella dell'automazione, che avrebbe portato a una ricomposizione e riqualificazione del lavoro (v. Touraine, 1955; v. Mallet, 1963). La sociologia del lavoro francese, in particolare, sviluppò un ampio filone di analisi intorno a tali questioni (v. Friedmann e Naville, 1961). E negli anni settanta questo dibattito fra pessimisti e ottimisti riprese, particolarmente influenzato da lavori come quello di Braverman (v., 1974), che vedeva nella razionalizzazione capitalistica un processo inevitabilmente destinato a 'degradare' il lavoro professionalmente, a renderlo più pesante e a peggiorare le condizioni lavorative.Questi orientamenti dell'analisi sociologica del lavoro derivavano dal fatto che, fino alla metà degli anni settanta, la produzione industriale nei paesi capitalistici sviluppati si era andata organizzando secondo i principî fordisti (v. Piore e Sabel, 1984; v. Boyer e Wolleb, 1986), collegati a una organizzazione del lavoro di ispirazione taylorista che implicava appunto parcellizzazione delle mansioni e dequalificazione. A cavallo del secolo, l'ingegnere americano Frederick W. Taylor sostenne infatti che vi era one best way di organizzare il lavoro in fabbrica: osservare attentamente come veniva eseguita ciascuna mansione, scomporla nei suoi movimenti elementari, misurare i tempi necessari a eseguirli, e ridefinire poi la mansione stessa in modo rigido e standardizzato, senza alcuna autonomia per gli esecutori (v. Taylor, 1911).
Ciò naturalmente implicava una netta separazione fra concezione ed esecuzione del lavoro, che costituiva del resto il principio guida della produzione di massa. L'efficienza della produzione di massa dipende infatti dalle economie di scala; e per ottenere economie di scala, come sappiamo da Adam Smith, è necessario suddividere il lavoro in una serie di operazioni altamente parcellizzate, alcune delle quali possono venire meccanizzate, precisamente per il fatto che sono state semplificate, mentre le altre possono venire eseguite da lavoratori non specializzati, per la stessa ragione (v. Smith, 1776). Questa divisione del lavoro richiedeva un complesso sistema di controlli. I capi controllavano che gli operai si attenessero alle norme; una divisione incaricata del controllo di qualità verificava i risultati ottenuti dai capi; e un settore 'aggiustaggio' a valle delle linee di montaggio riparava i difetti che erano sfuggiti ai continui controlli. Essendo le mansioni così parcellizzate, non vi era motivo di acquisire un'ampia qualificazione sul lavoro o vaste conoscenze di base. La maggior parte degli operai - e dei managers - perciò imparava sul lavoro. Gli operai percorrevano una carriera di mansioni semiqualificate, ciascuna delle quali richiedeva una certa familiarità con la mansione precedente (v. Regini e Sabel, 1989).Naturalmente, si tratta di una descrizione idealtipica. Il taylor-fordismo si diffuse in modo diseguale nei paesi industriali, e con ritardo notevole in alcuni di questi (v. Boyer e Wolleb, 1986). Ma il 'caso da manuale' tratteggiato sopra chiarisce perché le preoccupazioni diffuse fino a tutti gli anni settanta fossero quelle di una umanizzazione del lavoro - o, a seconda dell'ideologia prevalente, di una organizzazione del lavoro non capitalistica.

b) La riorganizzazione post-fordista del lavoro
Molti studi in diversi paesi ci hanno mostrato come, negli anni settanta e ottanta, si sia passati dal predominio dell'impresa taylor-fordista a una crescente diversificazione dei modi di organizzare l'impresa, la produzione e il lavoro (v. Piore e Sabel, 1984; v. Kern e Schumann, 1984; v. Boyer e Wolleb, 1986). Se si prescinde per il momento da tali differenze (per le quali v. § 3c), si può parlare in generale dell'emergere di un sistema post-fordista e post-taylorista, basato sulla necessità di rispondere in modo flessibile, tempestivo e differenziato alla crescente instabilità dei mercati. Dai tardi anni settanta in poi, la frammentazione dei mercati di massa e le continue oscillazioni nel livello e nella composizione della domanda appaiono infatti come fenomeni generali, quasi universali. E questa accresciuta instabilità dei mercati ha costretto le imprese a mettere in discussione il principio guida della produzione di massa, cioè la separazione fra concezione ed esecuzione.
Le conseguenze sul lavoro nell'impresa sono, almeno potenzialmente, di enorme portata. La piena utilizzazione delle capacità dei lavoratori non viene, infatti, più ostacolata dal dogma taylor-fordista. La ricerca di maggiore efficienza può cessare di fondarsi sull'esasperata suddivisione delle operazioni e sulla rigida frammentazione dei compiti, per puntare invece sullo strumento opposto, vale a dire l'integrazione delle mansioni e l'ampliamento della sfera di responsabilità del lavoratore (v. Kern, 1992, p. 64). Nei nuovi sistemi di produzione flessibile, insomma, operai altamente qualificati dovrebbero sostituire gli operai a bassa o media qualificazione.In effetti, alcune ricerche hanno documentato che si sta invertendo la precedente tendenza a separare nettamente i compiti di esecuzione da quelli di concezione; che per molti lavoratori aumenta il contenuto professionale delle mansioni; che mutano sia il controllo sul lavoro, sia le funzioni della gerarchia e delle regole che intorno a questo problema erano state create. Con una sintesi efficace, anche se certamente ottimistica, si può dire che nei 'nuovi concetti di produzione' l'intelligenza umana viene vista come una risorsa da utilizzare al meglio nel luogo di lavoro anziché come un vincolo intorno al quale costruire un sistema di regole che la disciplini (v. Kern e Schumann, 1984).
Secondo altre ricerche, vi è una crescita dell'astrazione e della 'complessificazione' del lavoro. Astrazione nel senso che il lavoro consiste sempre più nella capacità di interpretare dati più o meno formalizzati proposti dai dispositivi di controllo degli automatismi; complessificazione in quanto aumenta la parte di attività cerebrale e mentale, che si traduce ad esempio nello sforzo di sottoporre a un controllo quasi permanente i vari circuiti e collegamenti fra macchine, a scopo di regolazione o di diagnosi (v. Coriat, 1990, p. 219). Ma gli effetti dei sistemi post-fordisti sul lavoro non sono soltanto, e neppure principalmente, relativi alla qualificazione tecnica richiesta. È soprattutto la dipendenza gerarchica e organizzativa dei lavoratori - che era imposta dal taylor-fordismo - a diminuire, mentre aumentano nettamente le loro possibilità di coinvolgimento, partecipazione e controllo (v. Accornero, 1992, p. 99). Molti lavoratori vengono così a condividere in qualche misura l'orizzonte degli obiettivi aziendali, a differenza di quanto accadeva in precedenza, quando tali obiettivi venivano passivamente accettati o, occasionalmente, messi in discussione (v. Burawoy, 1979).

c) Tra forza lavoro e risorse umane
Le tendenze di mutamento sopra delineate rappresentano generalizzazioni assai ampie, utili principalmente a confrontare le caratteristiche che il lavoro industriale può assumere nella nuova fase con quelle tipiche del periodo taylor-fordista. Ma il quadro che emerge dalla crisi del fordismo è assai più variegato e incerto. I modelli organizzativo-produttivi secondo cui si è andata riorganizzando la grande impresa industriale negli anni ottanta sono diversi, e a ciascuno di essi corrisponde un diverso ruolo assegnato al lavoro.
Un primo modello è quello che è stato chiamato 'produzione diversificata di qualità' (v. Streeck, 1992); esso è proprio di imprese che puntano a competere sulla qualità dei prodotti più che sul prezzo. In questo modello un ruolo cruciale è svolto dalla elevata e ampia qualificazione della forza lavoro a tutti i livelli, dalla sua capacità di integrare diversi compiti nonché di cambiare e imparare rapidamente nuove mansioni, e dal suo coinvolgimento negli obiettivi aziendali di miglioramento costante e di innovazione incrementale. Da ciò consegue l'utilizzo di una quota molto ampia di forza lavoro con una formazione professionale - sia di base sia specifica per l'azienda - estesa, con capacità sociali quali iniziativa, attitudine al problem solving e alla collaborazione con gli altri, e con una buona dose di identificazione con la cultura aziendale. Un secondo modello, che può essere definito 'produzione di massa flessibile' (v. Boyer, 1988), è invece basato sulla produzione di massa di una varietà di beni (anziché di beni standard come nel fordismo classico), per rispondere alla variabilità della domanda senza rinunciare a contenere i prezzi. L'automazione programmabile, che consente di produrre in massa un'ampia gamma di prodotti, riduce drasticamente sia la domanda di figure professionali a bassa qualificazione (operai di produzione e impiegati amministrativi), sia l'utilizzo delle competenze tecniche del personale mediamente qualificato, al quale vengono soprattutto richieste adattabilità al mutamento e cooperazione. La domanda di qualificazioni elevate si concentra invece su alcuni gruppi cruciali, come i quadri, i tecnici e il personale dell'area commerciale. Ne deriva una netta segmentazione fra personale ad alta qualificazione, appartenente a questi gruppi professionali, e personale a medio-bassa qualificazione, con competenze obsolete.Infine, un terzo modello è quello giapponese del just-in-time e della lean production, o 'toyotismo', che basa la propria competitività in parte sul prezzo dei prodotti, in parte sulla loro qualità (v. Dore, 1987; v. Bonazzi, 1993). Rispetto al fordismo tradizionale, esso comporta una assai più ampia valorizzazione delle risorse umane. Resta la divisione fra funzioni di progettazione e funzioni esecutive, ma assai più attenuata. Vi è uno sforzo collettivo teso a favorire e utilizzare conoscenze diffuse piuttosto che alla loro concentrazione nell'ambito di una ristretta élite, una maggiore attenzione allo sviluppo delle risorse umane complessive, e un minore distacco fra il mondo della scuola e quello del lavoro. Il lavoro di squadra e i circoli della qualità, che insieme all'automazione programmabile e ai macchinari polivalenti sono caratteristiche tipiche dell'organizzazione della produzione di tipo giapponese, rappresentano sia schemi organizzativi sia una politica di coinvolgimento pieno dei lavoratori nell'impresa. Questo modello si basa infatti su un elevato grado di consenso e di partecipazione dei lavoratori anche ai livelli più bassi, e su una condivisione di fatto degli obiettivi aziendali. A tale coinvolgimento fa peraltro da supporto una struttura fortemente dualistica del mercato del lavoro, che prevede, per l'ampia quota di lavoratori occupati nelle grandi imprese, la stabilità dell'occupazione sotto forma dell'impiego a vita, mentre ne scarica i costi sul resto della forza lavoro che opera nel mercato secondario.
Il dualismo fra i lavoratori che sono fortemente beneficiati dai nuovi modi di organizzare il lavoro e quelli che da tali benefici restano esclusi non è del resto limitato al caso giapponese. Anzi, l'impresa flessibile - a qualunque dei modelli indicati appartenga - è fortemente caratterizzata da un nucleo centrale di lavoratori polivalenti e da una periferia di subfornitori, lavoratori a domicilio e categorie varie di lavoro temporaneo (v. Pahl, 1988, p. 171). E anche all'interno dei dipendenti stabili, vi è chi individua alcuni gruppi che vengono valorizzati dai mutamenti in corso, altri che vengono esclusi, e altri ancora che vengono destabilizzati (v. Coriat, 1990); sembra pertanto che un effetto diretto delle nuove strategie post-fordiste possa essere proprio quello della segmentazione. Non è dunque un caso che, anche nelle nuove concezioni manageriali, una parte dei lavoratori venga considerata come 'risorse umane', mentre un'altra parte rimane semplice 'forza lavoro'.

d) Le attività terziarie e le forme di lavoro atipico
La 'scoperta' della crescente importanza e al tempo stesso delle peculiarità del lavoro nei servizi è una conseguenza indiretta del dibattito sulla società postindustriale, che ha avuto largo spazio nelle scienze sociali particolarmente negli anni settanta (v. Bell, 1973). In un primo momento, l'attenzione degli osservatori si è concentrata sugli aspetti quantitativi della trasformazione sociale in corso: in particolare, sul fenomeno comune a tutti i paesi avanzati di un costante declino dell'occupazione industriale e di una crescita dei posti di lavoro nel settore terziario. In seguito ci si è resi conto anche delle intrinseche differenze di attività che consistono nell'offrire servizi anziché produrre beni. Quando si tratta, in particolare, di offrire servizi alla persona, si verifica spesso una certa intermittenza delle prestazioni, una flessibilizzazione dell'orario rispetto a quello standard, un proliferare delle richieste di tempo parziale, e così via.
Poiché tali fenomeni hanno marginalmente interessato anche il settore industriale, forte è stata la tentazione di individuare una tendenza alla 'terziarizzazione' del lavoro tout court, cioè alla generalizzazione di tratti tipici del lavoro nei servizi a tutte le attività che si svolgono nella società postindustriale. Ma si tratta di scenari assai semplicistici, derivanti da una visione unilineare del mutamento, che hanno presto lasciato il campo a un quadro molto più articolato e sfumato, che emerge in particolare dal confronto fra le diverse traiettorie di sviluppo seguite dai paesi industriali avanzati. Le ricerche di Esping-Andersen (v., 1990, pp. 191 ss.), ad esempio, mostrano come tre paesi industrialmente avanzati quali gli Stati Uniti, la Germania e la Svezia presentino non solo livelli di terziarizzazione differenti, ma anche strutture occupazionali assai diverse, con differenti proporzioni di lavori qualificati e lavori dequalificati.
Lavoro terziario non è, infatti, sinonimo di lavoro più ricco e gratificante, come spesso si sostiene. Se il cosiddetto terziario avanzato - cioè le attività di servizio all'impresa quali marketing, pubblicità, consulenza fiscale, ecc., tradizionalmente svolte dentro l'impresa stessa e poi largamente esternalizzate a causa della crescente specializzazione - ha visto in effetti lo sviluppo di nuove professioni altamente qualificate, ciò non si è invece verificato che in piccola parte nelle attività di servizio alla persona. Che il contesto lavorativo sia una grande organizzazione pubblica, come un ospedale o una piccola impresa privata, come un bar o un servizio di recapito postale celere, l'universo emergente dei lavori in questo campo vede una netta prevalenza di quelli dequalificati, cioè del cosiddetto terziario manuale (v. Esping-Andersen, 1990).
Se non vi è stata, dunque, una terziarizzazione del lavoro, si è invece avuta una generale crescita delle forme di lavoro 'atipico', sia pure con alcune differenze nei vari paesi. Per lavori atipici si intendono generalmente quelle attività che mancano di uno o più requisiti del lavoro subordinato standard (v. Chiesi, 1990). Si tratta dunque di una nozione residuale; come nel caso della società 'postindustriale' o dell'organizzazione produttiva 'post-fordista', la mancanza di un termine appropriato indica la relativa incertezza sulla reale natura del fenomeno. È facile cogliere che cosa lo distingue dalle realtà tradizionali a cui lo si contrappone, ma meno facile identificarne in positivo gli elementi costitutivi. Esempi di queste forme di attività atipiche sono il lavoro free-lance (o prestazione senza vincolo di subordinazione), il lavoro a domicilio, i rapporti a termine, quelli stagionali, quelli retribuiti a risultato, i casi di secondo lavoro. Rilevanti sono anche i casi ibridi fra lavoro dipendente e attività professionale (come quelli di chi svolge una professione alle dipendenze di una organizzazione pubblica o privata) e fra lavoro subordinato e attività imprenditoriale (come nei contratti di franchising o per molti subfornitori strettamente legati a un'impresa più grande). Come è stato osservato (v. Accornero, 1992, p. 101), in questo caso la natura residuale del termine corrisponde bene alla tradizionale marginalità di queste attività rispetto al mondo del lavoro ufficiale. Stati e sindacati, legislazione e contrattazione, hanno a lungo perseguito l'obiettivo di una uniformazione sociale e di una stabilizzazione del lavoro; e in questa ottica le forme diverse dal lavoro subordinato standard venivano mal tollerate. Ma, a partire dagli anni ottanta, l'imperativo aziendale della flessibilità e la diversificazione degli stili individuali di vita hanno contribuito ad aumentarne la legittimità sociale, e ne hanno quindi consentito una notevole espansione.

4. La centralità sociale del lavoro e le sue trasformazioni

I mutamenti che hanno determinato le nuove caratteristiche del lavoro fin qui discusse hanno dato vita, negli ultimi quindici anni, a un acceso dibattito fra gli studiosi di scienze sociali sul futuro del lavoro stesso.Un interrogativo emerge con forza quando si discute sul futuro del lavoro: nella nuova società (postindustriale, postmoderna, neoindustriale, o comunque la si voglia definire) che si va delineando, il lavoro continuerà ad avere quella centralità che indubbiamente ha avuto nella fase della società industriale? Continuerà a strutturare le condizioni e il tempo di vita della gente, a costituire la base della stratificazione sociale, a influenzare profondamente il sistema dei valori sociali? La centralità sociale del lavoro è un fenomeno moderno, legato all'affermarsi del mercato e all'idea che le chances di reddito e di vita degli individui dipendano dal suo operare. Per gli antichi Greci, ad esempio, il lavoro non era affatto un valore, ma era anzi il segno di una condizione sociale inferiore, mentre l'opposto era per le attività del tempo libero. È solo da quando, per reclutare i potenziali lavoratori, ci si deve affidare al 'libero' scambio sul mercato del lavoro anziché a strumenti coercitivi o alla tradizione, che un'ideologia del lavoro - tesa a nobilitare anche le attività più faticose, sporche e abbrutenti - si sviluppa in Europa, come complemento dell'etica protestante.
Tuttavia questa centralità - che si è tradotta nel progressivo affermarsi di una vera e propria 'società del lavoro' - è messa oggi in discussione da una importante scuola di pensiero (v. Dahrendorf, 1980; v. Offe, 1983; v. Handy, 1984; v. Gorz, 1988). Secondo Dahrendorf - che è stato l'iniziatore di questo dibattito e probabilmente il più importante degli autori che vi hanno partecipato - il fattore cruciale di questa perdita di centralità va individuato nel fatto che il lavoro, in conseguenza dei processi di riduzione degli orari, di allungamento del periodo scolare o formativo, di anticipazione del pensionamento, e di estensione e organizzazione del tempo libero, ha assunto un ruolo meno importante nella vita umana (v. Dahrendorf, 1988). Il lavoro inteso come occupazione retribuita è diventato socialmente scarso, e da ciò - richiamandosi a Hannah Arendt (v., 1958) - si fa discendere un passaggio dal regno del 'lavoro' eteronomo a quello dell''attività' autonoma, intesa come ciò che facciamo come risultato delle nostre intenzioni, desideri e interessi (v. Dahrendorf, 1988, p. 113).
Questa impostazione utopica è fortemente criticata da altri autori, alcuni dei quali giungono ad affermare l'opposto: cioè che "il lavoro sta diventando la questione personale, sociale e politica cruciale degli ultimi anni di questo secolo" (v. Pahl, 1988, p. 1). A ben vedere, la ragione della diatriba sta precisamente nelle diverse nozioni di lavoro, e nei modi di considerarne le trasformazioni, che abbiamo discusso in questo articolo. Se si considera solo quella forma tipica costituita dall'occupazione dipendente (per lo più maschile e manifatturiera) in contesti organizzati, allora non vi sono dubbi sulla sua notevole contrazione e quindi sulla crisi della società del lavoro. Ma l'analisi precedente ha mostrato che emergono nuovi modi di lavorare e che il lavoro si trasforma e assume nuove caratteristiche e nuovi significati, senza per questo ridurre il suo ruolo complessivo nella società e nella vita degli individui. Dunque, la centralità sociale del lavoro stesso non appare intaccata. Da un punto di vista generale, si può rilevare come il sistema dei valori sociali resti ancora largamente centrato sul lavoro. La crisi della sua forma tipica, e la conseguente diversificazione delle esperienze lavorative, ha fatto definitivamente tramontare le vecchie subculture fortemente omogenee e ha contribuito ad articolare il tessuto sociale e il quadro dei valori che lo reggono; ma non sembra aver diminuito il ruolo del lavoro come fonte di identità, di socialità e di orientamento politico-culturale - oltre che di stratificazione sociale, come continuano a documentare anche le ricerche più recenti. Dal punto di vista soggettivo di chi lavora, le molte ricerche esistenti sugli atteggiamenti verso il lavoro sembrano indicare, da un lato, un diffuso rifiuto a farne la principale fonte di senso e di strutturazione della propria vita, ma, dall'altro lato, il permanere del suo ruolo come strumento di valutazione di sé e di autostima sociale. Ciò che è più importante notare, tuttavia (v. Littler, 1985, p. 278), è che il significato attribuito al lavoro varia profondamente per uomini e donne, per i lavoratori occidentali e per quelli asiatici, e così via. Il che rende ancora più azzardata qualunque generalizzazione sulla centralità futura del lavoro nell'esperienza soggettiva.


Diritto
di Giuseppe Pera

sommario: 1. Concetti generali. 2. La rivoluzione industriale. 3. La questione operaia. 4. Il sindacalismo. 5. Il sindacalismo e la legge. 6. L'intervento pubblico. 7. La soluzione collettivistica. 8. L'alternativa corporativistica. 9. L'evoluzione inglese. 10. L'evoluzione nordamericana. 11. Il Giappone. 12. L'evoluzione nel continente europeo. 13. Previdenza e sicurezza sociale. 14. L'evoluzione italiana. 15. La crisi e le sue implicazioni. 16. Il costo del lavoro. □ Bibliografia.

1. Concetti generali

Il diritto del lavoro, genericamente inteso, presenta ripartizioni interne. In primo luogo il diritto sindacale, cioè quanto attiene alla posizione giuridica delle associazioni professionali, alla contrattazione collettiva, ai mezzi di autotutela (sciopero e serrata). In secondo luogo il diritto del lavoro in senso stretto, cioè il rapporto tra le parti del contratto di lavoro, datore di lavoro e lavoratore. In terzo luogo almeno la previdenza sociale (v. cap. 13). Il diritto del lavoro, quindi, comprende tutto quanto attiene, in senso strumentale-istituzionale o di regolamentazione dei rapporti, alla condizione del lavoro e alla sua tutela nell'esperienza giuridica. Si può anche dire che esso riguarda, in senso lato, i diritti che derivano dal fatto di lavorare alle dipendenze e a favore di un terzo; ivi compresa la libertà di attivarsi per la tutela mediante la coalizione di quanti si ritengono accomunati dal medesimo interesse. Si tratta di un diritto sviluppatosi all'incirca nella seconda metà dell'Ottocento e giunto a maturazione nell'ultimo cinquantennio; esso fa corpo con le vicende politico-sociali verificatesi dopo la Rivoluzione francese e non è possibile 'depurarlo' dalle esigenze emerse nel corpo sociale durante tale periodo.

2. La rivoluzione industriale

La rivoluzione industriale, sviluppatasi dapprima in Inghilterra verso la metà del Settecento e poi, con notevoli scarti nel tempo, in diversi altri paesi, ha costituito sul piano sociale l'humus in cui sono nate e si sono precisate le esigenze e le forze motrici di questo settore del diritto rispetto a quello tradizionale borghese. Per cercare di capire questa evoluzione non se ne possono trascurare le origini, anche se poi, nella sua fase matura, questo diritto si è andato estendendo oltre l'industria, in tutti i settori dell'economia e anche, talora, oltre l'ambito del lavoro subordinato in senso stretto. Ad esempio oggi il diritto italiano considera, almeno in parte e solo a certi fini, anche il lavoro cosiddetto 'parasubordinato', cioè le forme di collaborazione, di per sé autonoma, prevalentemente personale, allorquando essa sia continuativa e coordinata dal committente (Codice di procedura civile, art. 409 n. 3).

3. La questione operaia

Durante la rivoluzione industriale, nelle manifatture e poi nelle fabbriche, andò sorgendo una nuova classe sociale, quella degli operai o proletariato, formata da persone strappate ai lavori agricoli o artigianali, il cui unico bene era la propria forza lavoro in senso materiale, posta al servizio dell'imprenditore (ma quando ciò non era possibile si determinava il dramma della disoccupazione) e da questi comandata (il datore di lavoro aveva il potere giuridico di comandare in ordine alla prestazione e alla disciplina nel luogo di lavoro, e poteva altresì sanzionare in via disciplinare le eventuali disobbedienze). La rivoluzione industriale, con la sua produzione di massa, cancellò pressoché interamente i vecchi mestieri e indusse le classi dirigenti a eliminare le vecchie forme assistenziali di soccorso al pauperismo. Si formò così una vasta 'armata di riserva' di manodopera disponibile alla quale era sempre possibile attingere, secondo la ferrea legge del rapporto tra domanda e offerta di lavoro nel mercato, con salari fissati al minimo indispensabile per la sopravvivenza. In tal modo, come notò Marx, la condizione dell'operaio moderno risultò per un certo aspetto peggiorata rispetto a quella dello schiavo dell'antichità o del servo della gleba. Il padrone doveva comunque alimentare lo schiavo affinché questo suo bene si conservasse, mentre l'imprenditore poteva, senza problemi, liberarsi del lavoratore di cui non aveva più bisogno, licenziandolo. Si ebbe così la cosiddetta 'dittatura contrattuale' dei datori di lavoro. Secondo le categorie del diritto borghese, il vincolo che legava datore e lavoratore era, formalmente, un 'libero' contratto, stipulato con il consenso del collaboratore. Ma, in concreto, le condizioni di questo contratto erano fissate dalla parte datoriale e l'operaio doveva accettarle o rinunciare al lavoro riducendosi alla disoccupazione e alla fame. Ancora oggi, del resto, le condizioni di lavoro, di norma, sono dettate unilateralmente dalla parte datoriale, in un contratto d'adesione; ma vi sono precisi limiti al potere datoriale fissati dalla legge e dalla contrattazione sindacale. Come talora è stato detto, si è almeno passati dalla monarchia assoluta a quella 'costituzionale'. Si deve poi ricordare che, per molto tempo, i lavoratori come classe furono svantaggiati anche sul piano politico. Nei regimi costituzionali a 'democrazia censitaria' il voto era limitato per ragioni di cultura e di censo (e di norma la cultura era legata al censo). In Italia, ad esempio, il suffragio universale maschile si ebbe solo nel 1913 (quello femminile nel 1946). Tutto giocava contro le classi lavoratrici, anche sul piano processuale: per il Codice Napoleonico, nel dubbio, il giudice doveva credere al padrone e non attribuire attendibilità al lavoratore.Non vi era nulla di artificiale in questa concezione, dato che essa scaturiva dalle teorie rigide del primo liberismo, secondo le quali la legge della società era quella della concorrenza degli egoismi individuali e il potere doveva essere riservato a quanti avessero vinto nella dura lotta per l'esistenza.

4. Il sindacalismo

La risposta naturale a tale situazione fu lo sviluppo delle organizzazioni sindacali, dapprima in forma di coalizioni temporanee, sorte per conflitti specifici, e poi in forma di associazioni stabili. In linea generale, il sindacato è il raggruppamento di quanti nel mondo del lavoro (lavoratori e datori) ritengono di essere accomunati da un identico interesse nei confronti della controparte, secondo lo schieramento di classe.In termini più specifici, il sindacalismo dei lavoratori nasce dalla consapevolezza dell'impotenza individuale di fronte al padrone; da qui l'imperativo di raccogliersi in un 'fascio' e di costringere gli imprenditori a trattare con l'entità collettiva. Ne deriva il contratto collettivo, cioè la regolamentazione, tra padronato e sindacato, delle condizioni di lavoro, al fine di determinare i diritti rispettivi delle parti del contratto individuale di lavoro (parte normativa) nonché i salari (i primi contratti ebbero a oggetto esclusivo la determinazione della tariffa salariale, per cui si chiamarono 'concordati di tariffa'). Lo strumento per piegare il padronato alla trattativa è lo sciopero, cioè l'astensione generale dal lavoro. Sindacato, contratto collettivo, sciopero sono i tre pilastri dell'azione dei lavoratori. Di fronte al sindacato c'è in un primo momento la singola impresa, che può ben essere parte della contrattazione (contratto collettivo aziendale); ma anche le imprese formano col tempo le loro organizzazioni sindacali: si tratta, in questo caso, di un sindacalismo di risposta a quello dei lavoratori. Dopo di che tra il sindacalismo dell'una e dell'altra sponda si stabiliscono persistenti relazioni conflittuali, nel giuoco al compromesso periodico. Si hanno, così, le relazioni industriali (espressione d'origine anglosassone); ma è meglio parlare, data la diffusione del fenomeno oltre i confini dell'industria, di relazioni sindacali.
Il sindacalismo presenta una grande varietà di strutture organizzative. In tutti i paesi, nelle prime esperienze, il sindacato fu in prevalenza di mestiere, cioè un raggruppamento di lavoratori accomunati dalla stessa qualifica professionale specifica (ad esempio i carpentieri), che operava in qualsivoglia settore dell'attività economica. Nella prima fase, per quanti avevano una qualificazione professionale precisa, fu facile organizzarsi, mentre restava esclusa la gran massa della manodopera non qualificata. Tali organizzazioni esprimevano i mestieri dell'epoca preindustriale e pertanto in ogni tipo d'industria l'imprenditorialità aveva a che fare con più organizzazioni sindacali: si componeva il conflitto con un certo sindacato e subito dopo ne sorgeva un altro con un diverso sindacato, con inevitabili complicazioni.
In una fase successiva (allorché si organizzò anche la manodopera generica) in tutti i paesi si passò a un diverso modello, ancor oggi prevalente, quello del sindacato d'industria, che raggruppa tutti i lavoratori di ogni tipo di professionalità e livello secondo i diversi settori: ad esempio metalmeccanico, tessile, ecc. Quando oggi, con formula abbreviata, parliamo di sindacato 'dei chimici' alludiamo non solo ai lavoratori che hanno competenza specifica per la chimica, ma a tutti i dipendenti dell'industria chimica: i chimici, ma anche gli impiegati amministrativi, i custodi, tutti coloro che lavorano in questo tipo d'impresa, dal più basso al più alto livello, con l'esclusione dei dirigenti, che hanno una loro specifica organizzazione sindacale. Lo stesso avviene, in Italia, per la nuova categoria dei quadri, riconosciuta con una legge del 1985. Altre organizzazioni di mestiere sono sorte ultimamente per specifiche professionalità, in dissenso con il sindacalismo tradizionale onnicomprensivo, accusato di praticare una politica egualitaria; questo è avvenuto, ad esempio, nel caso dei macchinisti delle ferrovie. Per altro verso il sindacato è una organizzazione complessa. In Italia e in Francia sussistono varie confederazioni (o centrali) divise, almeno originariamente, secondo la diversa ispirazione ideologica e, talora, anche partitica. La confederazione è un'associazione complessa, una associazione di associazioni; in essa confluiscono i diversi sindacati di categoria, ognuno dei quali ha le sue strutture territorialmente decentrate: sindacati provinciali, comunali, ecc. A livello periferico esistono orizzontalmente istanze di collegamento tra le organizzazioni periferiche dei diversi sindacati, in funzione di servizi comuni (immobili, impiegati, ecc.). In Italia, tradizionalmente, queste istanze di collegamento sono rappresentate dalle camere del lavoro. Le diverse istanze sindacali sono, ai vari livelli, agenti contrattuali, parti stipulanti della contrattazione collettiva. In Italia le confederazioni stipulano talora, per questioni generalissime che interessano tutto il mondo del lavoro (ad esempio in tema di scala mobile dei salari, v. cap. 16, o per le rappresentanze sindacali a livello d'impresa), accordi interconfederali. Agenti contrattuali massimi sono i sindacati nazionali di categoria, che stipulano, appunto, il contratto collettivo nazionale, una sorta di piccolo codice a portata normativa, con la regolamentazione delle condizioni di lavoro. Possono esservi, inoltre, contratti provinciali e, soprattutto, contratti aziendali, con delicati problemi in ordine ai rapporti tra i contratti di diverso livello. Tutto questo è costitutivo della normativa dei rapporti di lavoro; del resto, il Codice civile afferma, in linea generale, che il contratto ha forza di legge tra le parti.

5. Il sindacalismo e la legge
 
Quale sia in concreto la situazione del sindacalismo risulta dalla diversa qualificazione dello sciopero nei vari ordinamenti. Secondo una fortunata formula di Calamandrei, storicamente lo sciopero è stato variamente qualificato o come reato o come libertà o come diritto.Alle origini il regime fu ovunque di repressione legale; nel pieno della Rivoluzione francese la legge Le Chapelier proscrisse le organizzazioni professionali. Il delitto di coalizione (formalmente anche di serrata, cioè la sospensione dell'attività per decisione imprenditoriale a fini di lotta sindacale) fu presente nelle varie legislazioni e nei diversi codici.
Nella più arcaica concezione liberistica, infatti, il sindacalismo era valutato negativamente, come un assurdo tentativo di intralciare il libero giuoco naturale della concorrenza nei rapporti tra offerta e domanda di lavoro. Il salario era considerato un prezzo di mercato come tutti gli altri.Con tempi diversi nei vari paesi, il reato venne poi soppresso e la legge penale non considerò più tale lo sciopero: il sindacato si era imposto con la sua grande capacità di lotta. Maturò quindi una diversa concezione neoliberale (rappresentata in Italia da Einaudi) secondo cui la libertà sindacale dei lavoratori costituiva una naturale libertà di tutela degli interessi, alla pari delle altre libertà. Si passò, così, alla tolleranza legale. Non si trattava, tuttavia, di una libertà garantita in senso proprio, in quanto, sul piano del rapporto individuale di lavoro, secondo le tradizionali categorie privatistiche, era diffusa l'opinione che lo sciopero, come rifiuto del lavoro dovuto per contratto, si traducesse in inadempimento contrattuale suscettibile di sanzioni disciplinari o di licenziamento. Ma di fatto, in una situazione sindacalmente forte, queste reazioni padronali restarono solo teoriche.
Nella terza e ultima fase, formalmente compiuta in alcuni ordinamenti contemporanei (ad esempio in Italia con l'art. 40 della Costituzione, che riprese il preambolo della Costituzione francese del 1946), lo sciopero diventa diritto su tutti i piani, senza possibilità di sanzioni penali o civili.Spesso i patti di lavoro sono socialmente iniqui ed è giusto, si disse, che i lavoratori abbiano un'arma per ricondurli a equità. Solo eccezionalmente i fatti di azione diretta sono inibiti ed espongono a possibili reazioni: nel nostro ordinamento, per ragioni di sicurezza, lo sciopero è impedito nelle attività nucleari e, di recente, sono state introdotte sanzioni anche nella legge sullo sciopero dei servizi pubblici essenziali.

6. L'intervento pubblico

Negli ordinamenti contemporanei vi è un intreccio costante tra regolamentazione sindacale-contrattuale e disciplina di legge. Lungo tutto il corso dell'Ottocento vennero progressivamente approvate le diverse leggi sul lavoro, in modo però del tutto episodico e occasionale. A poco a poco gli Stati abbandonavano il dogma del non intervento in questioni economico-sociali (proclamato dall'originario liberismo assoluto) e in diverse occasioni si reputò inevitabile l'intervento statale per ragioni di ordine pubblico. Si sviluppò, così, un corpo di leggi variamente denominato come legislazione sociale, operaia ecc.In linea generale, il primo intervento fu ovunque quello a tutela delle cosiddette 'mezze forze', cioè bambini e donne. Durante la prima rivoluzione industriale questi lavoratori di ridotte capacità fisiche (anche bambini in tenera età) vennero utilizzati su larga scala e questo determinò forti preoccupazioni, soprattutto nelle diverse correnti del filantropismo sociale (molti esponenti socialisti infatti erano medici), per le ripercussioni che ciò poteva avere sulla loro salute.Successivamente, e in particolare in questo secolo, lo sviluppo della legislazione è stato ingente, e ha interessato praticamente tutti gli aspetti centrali dei rapporti di lavoro. In taluni ordinamenti, come quello italiano a partire dal 1948, la legislazione del lavoro è costituzionalmente dovuta. Per la nostra Costituzione il lavoro deve essere protetto in tutte le forme e applicazioni, lo Stato deve garantire il diritto al lavoro, una giusta retribuzione, la disciplina dell'orario, ecc.In epoca più recente è stata adottata una legislazione limitativa dei licenziamenti, per i quali si richiede un giustificato motivo che deve essere comprovato dal datore di lavoro. Nella combinazione di legge e di contrattazione sindacale, ben poco spazio resta quindi per la terza fonte regolatrice dei rapporti di lavoro, cioè per il contratto individuale.

7. La soluzione collettivistica

Tutto quanto è stato detto finora si è verificato nelle società borghesi-capitalistiche tradizionali, rimaste immutate nei loro pilastri malgrado il forte condizionamento che esse hanno subito nella direzione del benessere sociale. Per avere un quadro completo del problema, si deve aggiungere che questa evoluzione del sistema ha conosciuto delle alternative radicali, perseguite storicamente nell'ambito del filone socialcomunista, che tendevano a una piena emancipazione dei lavoratori attraverso un cambiamento del sistema stesso. Per i socialisti d'ispirazione marxista, che partivano dall'interpretazione della storia come lotta di classe, il cambiamento finale doveva verificarsi con l'integrale collettivizzazione dell'economia e con l'egemonia proletaria. Il Partito Socialista Italiano, ad esempio, si costituì a Genova nell'agosto del 1892, ponendosi l'obiettivo minimo della lotta dei 'mestieri' (cioè sindacale) nonché l'obiettivo della lotta politica per la distruzione integrale dell'ordine borghese. In quasi tutta l'Europa continentale, e in particolare nel centro e nel nord, di fatto si ebbe uno sviluppo in senso social-democratico-riformista, grazie alla diffusione di potenti movimenti sindacali legati a forti partiti presenti con rappresentanti sempre più numerosi nelle aule parlamentari e orientati verso una politica gradualistica dei piccoli passi. Un cambiamento radicale si ebbe nell'ex impero zarista con la Rivoluzione dell'ottobre 1917 e l'avvento al potere, in forme dittatoriali, del partito comunista bolscevico. L'economia venne pressoché interamente collettivizzata, con la motivazione che ora i lavoratori erano al governo. Nell'ambito dell'economia pianificata venne meno il sindacalismo con le sue funzioni tradizionali. I salari costituivano solo, ovviamente, un capitolo del piano economico quinquennale; inoltre, essendo il partito della classe operaia al governo, lo sciopero non aveva più ragion d'essere. I sindacati sopravvissero come 'cinghie di trasmissione' tra il partito e le masse; a essi vennero conferite funzioni importanti di gestione del sistema previdenziale. Dopo il secondo conflitto mondiale questo modello venne esteso di massima alle 'democrazie popolari' dell'Est e si affermò poi in tutti i paesi a egemonia comunista. Com'è noto questo sistema è crollato nel 1989. Ora in quei paesi si va, confusamente e con molte tensioni, verso la privatizzazione dell'economia e verso il mercato. Sono tornati i sindacati in senso tradizionale ed è tornato, di fatto, lo sciopero. È una evoluzione in corso, di cui non è facile prevedere gli sbocchi.

8. L'alternativa corporativistica

Nel tentativo di risolvere la questione sociale è stata anche praticata un'altra alternativa volta ad affermare la collaborazione di classe in luogo della lotta. Prima di descrivere brevemente le diverse soluzioni organiche, occorre ricordare che vi sono sempre stati, nell'ambito dei più diversi filoni ideologici, anche in quello di un liberalismo socialmente illuminato, numerosi tentativi orientati a eliminare, o quanto meno a ridurre, l'antagonismo di classe: ad esempio associando i lavoratori (e le loro organizzazioni rappresentative) alla gestione delle aziende (nella convinzione che se i rappresentanti del lavoro avessero partecipato ai consigli di amministrazione si sarebbero resi conto dei vincoli economici alle contrattazioni); oppure dando vita all'azionariato operaio, cioè facendo diventare i lavoratori compartecipi del capitale. Si potrebbe anche ricordare il contributo di Mazzini ("capitale e lavoro nelle stesse mani"), ma le soluzioni organiche tentate sono state quella cattolica e quella autoritario-fascista. La scuola cristiano-sociale (espressa nelle encicliche Rerum Novarum di Leone XIII e Quadragesimo Anno di Pio XI) partiva da una denuncia dei mali sociali indotti dal capitalismo liberista non meno violenta di quella dei socialisti, imputando ai liberali di aver dimenticato che l'uomo, oltre che cittadino, è anche produttore, concretamente inserito in un tessuto di corpi intermedi. Si riconosceva la piena legittimità della tutela degli interessi di categoria e, quindi, del sindacato; i conflitti del lavoro però non dovevano degenerare nelle forme rovinose della lotta di classe contro l'interesse generale superiore e doveva essere istituita una magistratura del lavoro per affrontarli pacificamente. I teorici di questo corporativismo (ad esempio Giuseppe Toniolo) rispolveravano quello medievale. Infine si auspicava, sul piano costituzionale, l'introduzione di un senato rappresentativo delle professioni e delle autonomie accanto alla camera politica. Questa scuola, tuttavia, non tradusse mai in realtà le sue idee (fatta eccezione, forse, per l'esperimento Dollfuss, in Austria, tra le due guerre). Diverse forme di attuazione ebbe invece, nello stesso periodo, il corporativismo d'ispirazione nazionalistico-autoritaria di destra; ma con non trascurabili differenze tra i diversi paesi. Antesignana fu l'esperienza fascista italiana. Come nel caso dei cristiano-sociali, queste esperienze intesero superare sul piano ideologico i due estremismi, ritenuti egualmente negativi, del liberalismo e del socialismo; anch'esse ricercarono, nella collaborazione tra le classi, il perseguimento dell'interesse superiore della nazione e dello Stato: una via intermedia che intendeva riaffermare l'assetto privatistico-proprietario ma con un incisivo condizionamento sociale. Si ebbe una prima fase esclusivamente sindacale e una seconda definita più propriamente corporativa.
Nell'aprile del 1926 venne varata la fondamentale legge Rocco e nel 1927 il Gran Consiglio del Fascismo approvò la Carta del lavoro, che esprimeva i principî generali dell'ordinamento, tradotti poi sul piano giuridico da una successiva legge del 1941. Secondo tali principî, l'inquadramento collettivo delle categorie veniva realizzato dall'alto, attraverso provvedimenti ministeriali, ma si ammetteva il riconoscimento giuridico di una organizzazione sindacale per ogni categoria. Più precisamente, pur venendo riaffermata la libertà sindacale sul piano teorico e quindi una possibile pluralità di organizzazioni, il governo poteva del tutto discrezionalmente riconoscere un solo sindacato; requisito sufficiente e necessario era la rappresentatività di almeno il 10% della categoria (quindi non la maggioranza) e il fatto che l'organizzazione fosse diretta da uomini di "sicura fede nazionale" (cioè fascista); nel contempo, i precedenti sindacati liberi venivano sciolti. Il sindacato riconosciuto acquisiva la personalità giuridica di diritto pubblico (con soggezione al controllo sugli atti da parte degli organi di governo) e quindi si vedeva riconosciuta la rappresentanza legale della categoria. In ragione di questa rappresentatività esclusiva, il contratto collettivo diveniva generalmente obbligatorio; mentre nel contratto individuale erano possibili pattuizioni difformi rispetto al contratto collettivo solo se più favorevoli al lavoratore (Codice civile, art. 2077). La pubblicistica del regime esaltò questa 'conquista', a seguito della quale si affermava che era stato raggiunto un risultato che le vecchie democrazie parlamentari avevano invano perseguito.
Per la risoluzione dei conflitti collettivi di lavoro era inibito, invece, il ricorso allo sciopero e alla serrata, che tornavano a essere reati; in caso di conflitto si doveva far ricorso alla magistratura del lavoro, che poteva emanare una sentenza sostitutiva del contratto collettivo mancato.La fase cosiddetta corporativa, iniziata formalmente nel 1930 e mai giunta a conclusione (come fu ufficialmente riconosciuto), mirava alla realizzazione di un obiettivo più ambizioso: la programmazione dell'economia non secondo il modello dirigistico sovietico, ma sulla base dell'autogoverno dei produttori, anche se subordinato all'interesse superiore. Più precisamente, per ogni settore dell'economia i vari sindacati sarebbero stati collegati in un'entità di diritto pubblico, la corporazione, che poteva regolamentare le varie attività emanando ordinanze corporative. Le corporazioni vennero costituite nel 1934, ma furono scarsamente incisive; successivamente venne soppressa la vecchia Camera dei deputati e in suo luogo, nel 1939, venne costituita la 'Camera dei fasci e delle corporazioni', che riuniva i due massimi organi direttivi del partito e delle corporazioni; chi occupava certe cariche era automaticamente consultore nazionale, per il principio della rappresentanza 'istituzionale' (in base al quale colui che occupa certe posizioni è automaticamente rappresentativo).Il modello italiano venne largamente ripreso dal Portogallo, sotto la dittatura di Salazar. Seguì l'esperienza spagnola del franchismo, ma con notevoli differenze rispetto all'originale; ad esempio la contrapposizione di classe, formalmente mantenuta nel modello italiano, venne eliminata in Spagna con il sindacato misto, che raggruppava insieme datori di lavoro e lavoratori.
Ideologicamente ispirata a questi principî fu anche l'esperienza nazionalsocialista, peraltro assai diversa sul piano istituzionale. In Germania tutti i vecchi sindacati vennero soppressi e non vennero sostituiti da organizzazioni legate al regime. Il Fronte Tedesco del Lavoro era una colossale organizzazione non sindacale, che raggruppava datori e lavoratori con compiti propagandistici e dopolavoristici. Tutto venne impostato rigidamente secondo il Führerprinzip. Al vertice del sistema c'era il Führer con i suoi ministri; non erano ammesse entità antagonistiche, in quanto non era possibile incrinare il principio dell'unità totalitaria. Nelle imprese il datore di lavoro, assistito soltanto da un 'consiglio di fiducia' reclutato fra il personale, era egualmente il capo, subordinato al governo ma con pienezza di poteri sui lavoratori.Tentativi di soluzione corporativa furono attuati, sempre tra le due guerre, in altri paesi europei a regime autoritario e anche altrove: si pensi, ad esempio, al Brasile di Vargas. Nel secondo dopoguerra, inoltre, si affermò in Argentina il regime di Peron, con sue specifiche particolarità.

9. L'evoluzione inglese

L'Inghilterra ha conosciuto per prima lo sviluppo del sindacalismo (con le Trade Unions: unioni di mestiere), in quanto in questo paese, già nel Settecento, la rivoluzione industriale cominciò a svilupparsi in proporzioni imponenti (al punto che l'agricoltura diventò marginale nell'ambito del sistema economico complessivo).Già nel 1824-1826 vennero approvate leggi che attenuarono un poco il regime di repressione legale del sindacalismo. Da allora lo sviluppo sindacale fu inarrestabile; inoltre, intorno agli anni sessanta del secolo scorso si attuò per la gran parte il passaggio dal sindacato di mestiere a quello d'industria (anche se la prima formula è sopravvissuta). Con le leggi del 1871 (Trade Union act) e del 1875 (Conspirancy and protection of property act) sul piano penalistico si determinò il passaggio alla tolleranza legale del sindacato; questa trasformazione avvenne, singolarmente, a opera di una maggioranza conservatrice nell'ambito di una contrapposizione elettorale con i liberali. Merita sottolineare con quale tecnica si sia attuato questo passaggio nel particolare contesto del diritto britannico. In un paese che non aveva e non ha costituzione scritta e dove impera la common law, la riforma si realizzò in termini di immunità dalle possibili interferenze statuali-legali; nel senso che, rispetto ai fatti di azione diretta in ambito sociale, la legge negava la possibilità di azione in giudizio; i sindacalisti, cioè, non potevano più essere incriminati per i loro specifici comportamenti.
Si ebbe così lo sviluppo del diritto del lavoro, caratterizzato da un basso tasso di regolamentazione legislativa, più accentuato solo rispetto a taluni aspetti (ad esempio la tutela delle 'mezze forze') e arricchito attraverso la contrattazione collettiva, che pure non era nemmeno essa formalmente riconosciuta nell'ordinamento. Il contratto collettivo non prevedeva sanzioni legali, ma valeva di fatto, come 'contratto tra gentiluomini', il cui rispetto era legato alla forte presenza delle organizzazioni sindacali. Strumento specifico dell'egemonia sindacale furono le cosiddette clausole di sovranità sindacale (largamente diffuse anche nel diritto statunitense): clausole di varia intensità cogente, con l'obbligo per il datore di lavoro di assumere solo lavoratori iscritti al sindacato o con l'obbligo per i lavoratori dell'impresa di iscriversi al sindacato entro un certo termine, pena il licenziamento. Da queste clausole derivarono controversie che si sono trascinate fino a epoca recente.
Immediatamente dopo si aprì un nuovo capitolo sul piano dei rapporti tra sindacalismo e legge. Se non era più possibile, di massima, perseguire penalmente per i fatti d'azione diretta, era tuttavia possibile, secondo i principî della common law, agire civilmente contro il sindacato promotore dello sciopero, proponendo azione risarcitoria per i danni conseguenti all'ingiustificata 'rottura' degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro. Si sviluppò pertanto una massiccia offensiva giudiziaria (ad esempio l'affare Taff Vale), che ottenne dai giudici numerose sentenze di condanna di facile esecuzione sul non irrilevante patrimonio delle Unioni. Si decise allora di agire sul piano politico-parlamentare, cercando di far approvare una legge che riconoscesse l'immunità sindacale anche sul piano civile. In occasione delle elezioni del 1900 vennero eletti alcuni deputati legati ai sindacati e poco dopo venne costituito il Partito Laburista: un partito con caratteristiche peculiari formato non solo attraverso adesioni individuali, secondo il modello continentale (partito 'territoriale'), ma soprattutto grazie all'affiliazione dei sindacati, nonché di altre organizzazioni del lavoro. In quanto tale, questo partito raggruppava formalmente milioni di aderenti (che erano individualmente liberi di votare per uno degli altri due partiti, il conservatore e il liberale). Si ebbe così, senza alcun ideologismo, il partito del lavoro, caratterizzato da un legame organico col sindacalismo che solo recentemente è venuto meno. La battaglia venne vinta e con una legge del 1906 (Trade disputes act) vennero 'tagliate le unghie' alla magistratura.
Successivamente sorse una questione legale in ordine alla liceità o meno del finanziamento sindacale del partito politico. Un operaio, certo Osborne, fece causa per impedire al sindacato di versare parte della sua contribuzione al partito. Venne quindi approvata una legge, nel 1913, che legalizzò tale forma di finanziamento, prevedendo tuttavia la facoltà individuale di sottrarvisi. A questo punto il sistema britannico di 'democrazia industriale' era consolidato, arrivando spesso a costituire un modello per gli stranieri (ad esempio nella teorizzazione di Luigi Einaudi).Pochi cenni sugli sviluppi successivi. A seguito del grande sciopero del 1926 nel settore del carbone, l'anno successivo venne emanata una legge 'antisindacale', che prevedeva talune restrizioni per il diritto di sciopero e altre limitazioni. Il Partito Laburista, vittorioso nel 1945, per 'onor di firma' fece abrogare la legge del 1927, anche se per diversi anni, nel difficile periodo del dopoguerra, venne istituito l'arbitrato obbligatorio per i conflitti di lavoro con proibizione dello sciopero. Si tornò poi alla normalità, ma reiteratamente, sia coi governi conservatori che con quelli laburisti, le relazioni industriali furono rimesse in discussione, in particolare sul punto decisivo della politica dei redditi. Infine con il governo conservatore degli anni ottanta, nel quadro di declino della potenza britannica, il sistema è profondamente cambiato, con decisivi interventi legislativi che hanno scalzato l'antica egemonia dell'unionismo, riportando il sistema verso il modello continentale.

10. L'evoluzione nordamericana

Nella grande democrazia nordamericana il sindacalismo e il diritto del lavoro si sono sviluppati tardivamente, non già per un ritardo della rivoluzione industriale, ma a causa di altri specifici fattori; in particolare perché, fino alla fine dell'Ottocento, vi era la 'frontiera aperta' dall'Atlantico verso il Pacifico. Offrendo la possibilità di spostarsi per acquisire nuove terre, essa costituiva la grande valvola di sfogo di tutte le potenziali tensioni sociali, in una situazione caratterizzata da un naturale individualismo.Un ruolo importante ebbe anche la struttura federale, nel giuoco delle competenze tra i singoli Stati e la Confederazione; quest'ultima era costretta a cercare di far passare i primi interventi di legislazione sociale tra le maglie strette della competenza federale. I primi interventi a favore delle 'mezze forze' furono pertanto presentati come atti tesi a disciplinare il commercio 'interstatale', nel senso che la Confederazione poteva inibire la circolazione dei prodotti provenienti da fabbriche ove era diffuso uno sfruttamento indiscriminato di queste forze.
Solo sul finire dell'Ottocento si ebbe un certo sviluppo del sindacalismo. A parte l'azione pionieristica e presindacale dell'associazione detta dei 'Cavalieri del lavoro', costituitasi nel 1869, solo nel 1881 si costituì la Federazione Americana del Lavoro come centrale dei sindacati di mestiere. Nel 1938 si ebbe una scissione che portò alla costituzione del Congresso delle Organizzazioni Industriali (CIO), basato sulla diversa formula organizzativa del sindacalismo d'industria; successivamente le due centrali si sono collegate tra loro. La caratteristica specifica del sindacalismo statunitense è la neutralità ideologica: mentre in Europa il sindacalismo è sempre stato variamente collegato a partiti politici, in America il movimento ha sempre accettato l'ideologia corrente della libera impresa e del mercato. Ma questo non significa totale disimpegno politico. Posto che dei due partiti tradizionali, il repubblicano e il democratico, il secondo ha una maggiore attenzione per il mondo del lavoro, il sindacalismo solitamente lo appoggia secondo la parola d'ordine 'aiutare gli amici e punire i nemici', cioè far eleggere possibilmente parlamentari favorevoli al mondo del lavoro e boicottarne gli avversari. Anche negli Stati Uniti si ebbe un lungo periodo di repressione legale dell'attività sindacale, seguito poi da un graduale passaggio alla tolleranza, seppure nella decisa opposizione del mondo imprenditoriale, che spesso cercò di dar vita a forme rappresentative del personale poste sotto il suo controllo (company unions o sindacalismo 'giallo').
Dopo alcuni interventi ispirati alla tolleranza, soprattutto per inibire o contenere la pratica delle ingiunzioni giudiziarie antisindacali (come la legge Norris-La Guardia del 1932, a seguito della grande crisi del 1929), la svolta decisiva si ebbe col New Deal di Roosevelt e col riconoscimento della libertà d'azione sindacale. Ma un primo intervento in questo senso si scontrò con l'opposizione della Corte Suprema, per cui il Presidente reagì minacciando una diversa composizione della Corte medesima. Si arrivò così alla legge Wagner del 1935, secondo la quale i lavoratori erano chiamati a esprimere in libere votazioni la loro volontà in materia, nell'ambito di units discrezionalmente determinate in vario modo (al livello di singola azienda, a diverso raggio territoriale, di categoria) dall'Amministrazione. In base a tale legge, i lavoratori possono rifiutare il sindacato preferendo la libertà del contratto individuale, oppure possono conferire la rappresentanza a un sindacato che ne ha l'esclusiva per un periodo predeterminato e che deve essere accettato dalla controparte datoriale. Nel 1947 si ebbe poi la legge Taft-Hartley, a carattere nettamente restrittivo; ultimamente si è avuta una svolta in senso nettamente liberistico durante la presidenza Reagan, mentre è ancora in via di realizzazione la virata impressa dall'attuale amministrazione Clinton.In quest'immenso paese il sindacalismo è stato ed è egemone solo in aree ristrette, mentre nel complesso il grado di sindacalizzazione è assai più basso della media europea.

11. Il Giappone

Un breve cenno merita l'esperienza giapponese, così lontana da quella occidentale. Formalmente il Giappone riconosce la libertà sindacale con le sue tipiche manifestazioni; di fatto, vi sono però alcune peculiarità che fondamentalmente non hanno base in testi formali di legge, bensì nella concezione sociale diffusa in un paese in cui il sottofondo feudale-patriarcale è tuttora presente. Vi è una netta distinzione tra la manodopera assunta in forma stabile e il precariato. Di norma, per la copertura dell'organico permanentemente necessario, i lavoratori assunti, salva l'ipotesi della giusta causa, restano in servizio per tutta la vita, fino al pensionamento, in un rapporto di fedeltà all'impresa; vi è poi la grande massa della manodopera precaria e fluttuante, utilizzata a seconda dell'andamento della congiuntura. In sostanza siamo quindi in presenza di un contesto in cui domina l'ideologia comunitaria e solidaristica. Secondo lo stesso ordine d'idee, le imprese sogliono assumere, una volta all'anno, una certa aliquota di lavoratori, anche se non suscettibili di utile impiego nell'immediato. Sotto questo aspetto l'impresa opera come istituzione sociale. Anche altrove, del resto, al di là del dato formale, si risente l'influsso di convinzioni radicate nel comune sentire. In Germania, ad esempio, domina tuttora la convinzione che i pubblici dipendenti, in quanto al servizio della nazione, debbano di massima astenersi dallo sciopero.

12. L'evoluzione nel continente europeo

In tutti i paesi dell'Europa occidentale e settentrionale si è avuto lo stesso processo di avanzata del sindacalismo e di incremento della legislazione sociale. Specialmente nella prima fase, il sindacalismo fu spesso diviso in centrali di diversa ispirazione ideologica: socialdemocratica, socialcristiana e talora liberale, come nel caso della Germania imperiale. Un incremento particolarmente rilevante della legislazione sociale si ebbe nella Germania di Weimar tra le due guerre; un incremento che aveva come punto di riferimento la Costituzione del 1919 con la sua larga ispirazione sociale, anche se restava inattuato il disegno di combinare armoniosamente il parlamentarismo d'ispirazione liberale con la strutturazione consiliare in materia economico-sociale.Marcate sono state, e in parte sono tuttora, le differenze tra i paesi latini e gli altri. In Francia, in Italia e anche in Spagna il sindacalismo è più nettamente diviso secondo l'ispirazione ideologica; nel primo paese fu a lungo egemone nella CGT il sindacalismo rivoluzionario teorizzato da Sorel. In questo paese il sindacato non ha mai avuto un forte livello di rappresentatività e ciò ha determinato talora conflitti tra base e apparato. Il sindacalismo dei paesi latini è generalmente più turbolento, come risulta in particolare dalle modalità dello sciopero: di norma si ricorre infatti allo sciopero articolato, a singhiozzo (alternando astensione dal lavoro e ripresa, almeno formale, dello stesso), a scacchiera (a turno tra i vari reparti) o altrimenti in varia combinazione, con l'obiettivo di disorganizzare al massimo la produzione, col minimo danno per i lavoratori in termini di riduzione retributiva. Tutto questo ha determinato aspri dibattiti dottrinari, e soprattutto giurisprudenziali, in merito alla distinzione tra forme lecite e non di azione diretta.
Nei paesi nordici la situazione è del tutto diversa. Il sindacalismo è forte e compatto ed è in genere collegato ai partiti socialdemocratici, che in molti casi guidano anche il governo, e ha al suo attivo imponenti realizzazioni di tutela sociale. Secondo quanto emerge in larga parte della pubblicistica, in questi casi saremmo in presenza di un sistema 'neocorporativo' o 'neocorporato', basato sul confronto e l'accordo tra il governo e le parti sociali fortemente istituzionalizzate sul piano associativo, dove la pace negli ambienti di lavoro è normale e la lotta eccezionale.

13. Previdenza e sicurezza sociale

Parallelamente al processo descritto si è andata sviluppando ovunque la previdenza sociale, istituto che fa parte in senso lato del diritto del lavoro. Oltre al posto di lavoro e a una giusta retribuzione, occorre garantire una tutela per il lavoratore ammalato, vittima di un infortunio del lavoro o collocato a riposo per l'età avanzata. Il sistema al quale si è fatto ricorso è quello della previdenza sociale basata sull'assicurazione obbligatoria. A questo fine vengono creati istituti ad hoc; datori di lavoro e lavoratori debbono obbligatoriamente versare all'ente preposto al settore contributi proporzionali alle retribuzioni; se si verifica uno degli eventi considerati (infortunio, malattia, pensionamento, ecc.), l'ente verrà chiamato a erogare prestazioni sanitarie e prestazioni economiche periodiche (pensioni o rendite).
Il sistema si sviluppò organicamente negli ultimi decenni dell'Ottocento nei paesi di lingua tedesca. Bismarck combinò politicamente le leggi antisocialiste e la Kulturkampf, vanamente sperimentate contro socialdemocratici e cattolici, con una forte politica previdenziale che, in un disegno organico, prese l'avvio con apposite istituzioni per la tutela in caso di malattia (istituzioni che vennero conservate, dopo la prima guerra mondiale, nelle provincie redente conquistate dall'Italia). In questo modo, nei paesi di lingua tedesca, i governi si garantirono la fedeltà delle masse lavoratrici alle istituzioni, come si poté verificare nel primo e nel secondo conflitto mondiale.
Questa politica ebbe ulteriori impulsi nel secondo dopoguerra, in particolare, a partire dal 1945, nell'Inghilterra a governo laburista, dove ebbe corso il programma di protezione di Beveridge, detto 'dalla culla alla bara'. In alcuni casi si passò dal sistema di previdenza a quello di sicurezza sociale: mentre nella previdenza la tutela era riservata, specialmente alle origini, ai lavoratori in senso stretto, la sicurezza intende tutelare il cittadino (e anche lo straniero) in quanto tale, a prescindere dalla sua collocazione nel mondo del lavoro. Un esempio di sicurezza sociale si è avuto, almeno formalmente, in Italia, con l'istituzione nel 1978 del Servizio Sanitario Nazionale garantito a tutti (e con questo non siamo più nell'ambito del diritto del lavoro, ma in quello del diritto amministrativo). Il prodotto di queste evoluzioni è il Welfare State, o Stato del benessere, recentemente entrato in crisi per la constatata impossibilità di poter garantire tutto a tutti. In questo contesto è stato talora adottato il 'salario di cittadinanza', in base al quale il soggetto ha diritto a una tutela economica, anche se non collocato nel mondo del lavoro.

14. L'evoluzione italiana

In Italia lo sviluppo del sindacalismo operaio in senso proprio si ebbe solo a partire dall'ultimo decennio dell'Ottocento, in quanto soltanto allora si verificò un sia pur limitato sviluppo industriale. Prima di tale data vi erano stati movimenti popolari non direttamente legati alla classe operaia, di diversa ispirazione ideologica: dapprima il filantropismo moderato, poi i mazziniani e quindi l'anarchismo internazionalista. In Italia, anzi, venne prima creato il partito della classe operaia e poi il sindacato: infatti il Partito Socialista si costituì a Genova nell'agosto del 1892, mentre la Confederazione Generale del Lavoro, sempre d'ispirazione socialista, si costituì nel 1906. Accanto al sindacalismo socialista si formò poi quello d'ispirazione cattolica e quello estremista dei sindacalisti rivoluzionari.
Il primo periodo fu caratterizzato, anche in Italia, dalla repressione legale. Il Codice penale sardo del 1859, primo dell'Italia unita (fatta eccezione per la Toscana, che conservò il più illuminato codice del 1853), puniva scioperi e (in teoria) serrate. Il Codice Zanardelli del 1889 non contemplava più esplicitamente i reati di azione diretta. Dopo i tumultuosi eventi dell'ultimo decennio, caratterizzati da turbative dell'ordine pubblico (Fasci siciliani, fatti della Lunigiana del 1894 e di Milano del 1898) e dalla prospettiva politica del sonniniano 'ritorno allo Statuto' non parlamentare del 1848, con l'avvento del neoliberalismo, rappresentato da Giolitti e teorizzato da Einaudi, ci si avviò alla tolleranza, al libero sviluppo dei sindacati e alla prima contrattazione collettiva. Si ebbero così le prime leggi sociali per le 'mezze forze' e per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (1898 e 1904). Si posero anche le fondamenta del diritto del lavoro in senso stretto, attraverso l'esperienza giurisprudenziale dei probiviri. Nelle diverse categorie, in base a una legge del 1893, si potevano costituire collegi eletti da datori di lavoro e lavoratori con presidente imparziale, con il compito di risolvere i conflitti del lavoro. Poiché questi giudici non avevano a disposizione leggi specifiche, dovevano giudicare secondo equità. Attraverso il ripetersi dei lodi (nel primo periodo studiati organicamente da Enrico Redenti), si vennero precisando delle regole in realtà nuove, che costituirono i primi elementi di un nuovo diritto. Solo nell'ultimo scorcio dell'età liberale si ebbe la prima legge organica sul rapporto di lavoro; organica, ma parziale, perché riferita solo agli impiegati (1919 e 1924).
Allo Stato liberale subentrò il corporativismo fascista, di cui si è già detto (v. cap. 8). Oltre alla disciplina giuridica del sindacalismo secondo i principî fascisti, durante il ventennio vennero anche emanate molte e importanti leggi in materia di lavoro: ad esempio sull'orario di lavoro, sul riposo settimanale, sul lavoro delle donne e dei fanciulli, ecc., alcune delle quali sopravvivono tuttora. Nel 1942, col nuovo Codice civile, si ebbe la prima organica regolamentazione del rapporto individuale di lavoro, che non fu però di tipo corporativo ma, nella sostanza, liberale, in quanto consacrava la piena libertà di licenziamento (mentre il franchismo spagnolo aveva coerentemente introdotto la regola del giustificato motivo). Venne altresì completato l'edificio della previdenza sociale, allorché si aggiunse all'assicurazione contro gli infortuni quella per invalidità, vecchiaia e superstiti e quella per le malattie (1943). Caduto il fascismo, si tornò al libero sindacalismo, in un primo momento organizzato unitariamente per l'accordo delle tre grandi correnti: comunista, democristiana e socialista. A partire dal 1949, il movimento sindacale si divise nuovamente in tre centrali, CGIL, CISL, UIL, e in altre organizzazioni autonome in conseguenza della guerra fredda e della dura contrapposizione in atto col Partito Comunista. Riprese anche la contrattazione collettiva ma, non essendosi attuata la previsione costituzionale (art. 39) circa il riconoscimento del sindacato e l'efficacia generalizzata dei contratti stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi, si concluse che il contratto cosiddetto 'di diritto comune' valeva solo per le imprese sindacalmente affiliate. L'impatto sociale negativo di questa conclusione venne attenuato attraverso la consolidata giurisprudenza sulla giusta retribuzione, ai fini della determinazione del salario, facendo i magistrati riferimento alle tariffe sindacali. L'esercizio dello sciopero, garantito dalla Costituzione come diritto, non conobbe alcuna restrizione.
Nel primo quindicennio postbellico non vi furono significative evoluzioni del diritto del lavoro: erano i tempi difficili della ricostruzione, caratterizzati dal contenimento dei salari praticato spontaneamente dalle parti sociali (vi fu un accordo interconfederale in questo senso, definito specificamente 'di tregua salariale'). Le decisioni in materia salariale vennero avocate alle confederazioni e solo nel 1954 venne ripristinata la competenza dei sindacati di categoria.
La situazione si mise in movimento a metà degli anni cinquanta con il cosiddetto 'miracolo economico', durante il quale divenne prevalente l'economia industriale e si verificarono grandi spostamenti di manodopera dal sud al nord. Nel decennio successivo, nella stagione politica del centro-sinistra che vide l'accesso dei socialisti al governo, cominciarono a raccogliersi i frutti di alcune grandi inchieste parlamentari degli anni cinquanta sulla disoccupazione, sulla miseria e, in generale, sulle condizioni dei lavoratori. Del 1962 è la legge che limita la possibilità di assunzioni a termine; del 1963 è quella sul divieto di licenziamento della donna a causa di matrimonio. Nel giugno del 1965 la Corte Costituzionale statuisce la non decorrenza della prescrizione dei diritti in costanza di rapporto (allorquando - si preciserà poi - non vi siano adeguate garanzie contro il licenziamento arbitrario). Finalmente, nel luglio 1966, viene emanata la legge che introduce la regola del giustificato motivo per i licenziamenti individuali; ma tale tutela opera solo nei confronti dei datori di lavoro che occupano più di 35 dipendenti (le piccole e piccolissime unità sono privilegiate) ed è una tutela debole: in pratica il datore se la cava pagando una penale oscillante tra 5 e 12 mensilità di retribuzione.
Dal 1962, oltre alla tradizionale contrattazione collettiva a livello nazionale di categoria, comincia la pratica della contrattazione articolata a livello di azienda o di gruppo. A partire da tale data la conclusione del conflitto a livello nazionale non garantisce affatto la pace in azienda dove, anzi, il conflitto spesso si riaccende aprendo un capitolo dei più tormentati. Illustri giuristi affermano che il contratto collettivo obbliga solo gli imprenditori, mentre lascia liberi i lavoratori di riprendere il conflitto a qualsiasi livello per ulteriori rivendicazioni. È nello stesso periodo che viene enunciata la teoria del salario 'variabile indipendente', in base alla quale si deve corrispondere ai lavoratori la retribuzione sufficiente, quali che siano le condizioni delle imprese e dell'economia in generale.
Sopravviene quindi la contestazione e l'autunno 'caldo' del 1969, con lotte sindacali di notevole durezza che vanno spesso oltre il limite della legalità; le violenze contro i crumiri, specie tra gli impiegati, sono all'ordine del giorno. In questo clima viene varata la legge sullo Statuto dei diritti dei lavoratori, emanata nel maggio 1970. Questa legge fondamentale, in sé di ottimi principî, ma stravolta nelle applicazioni prevalenti, da una parte garantisce il rispetto della personalità morale del lavoratore nell'ambito dei rapporti di lavoro, dall'altra prevede la costituzione in azienda di un vero e proprio 'contropotere sindacale', con la formazione di rappresentanze sindacali nell'ambito dei sindacati affiliati alle confederazioni maggiormente rappresentative e con una serie di diritti conseguenti (ad esempio di assemblea, di permessi e aspettative), e col prelevamento dei contributi sindacali sulle retribuzioni, cosicché il datore diventa un comodo esattore per conto delle organizzazioni. Ne segue una sorta di abusivismo a livello di massa, mentre l'assenteismo giustificato con compiacenti certificazioni mediche tocca punte elevate. La bilancia dei rapporti si è ormai del tutto spostata.Il ciclo si conclude nel 1973 con la legge sul processo del lavoro, demandato al pretore giudice monocratico, con la normale efficacia esecutiva della sentenza di primo grado e con la rivalutazione automatica dei crediti di lavoro. Sul piano della contrattazione collettiva il ciclo del 1973 è segnato dall'inquadramento unico retributivo delle diverse categorie (impiegati, intermedi, operai); quello del 1976 per l'introduzione dei diritti d'informazione, cioè l'obbligo per la parte imprenditoriale di comunicare periodicamente alla parte sindacale numerose informazioni. Questa richiesta, formulata inizialmente in chiave di ulteriore e accentuata conflittualità, poi, invece, nella crisi presto sopravvenuta, è sembrata piuttosto favorire possibili sviluppi concertativi e partecipativi nella gestione delle aziende.

15. La crisi e le sue implicazioni

La situazione comincia a cambiare dapprima con la crisi petrolifera del 1973 e quindi con le successive ondate di una recessione che dopo venti anni non ha ancora esaurito i suoi effetti. Mentre continua l'onda lunga ispirata, anche per forza d'inerzia, dalla precedente impostazione del movimento, l'intero assetto dei rapporti di lavoro viene rimesso in discussione o da destra o in forma autocritica. Si lamenta autorevolmente che l'impresa sia irretita e impacciata da 'lacci e laccioli' derivanti dalla rigidità del fattore lavoro. In tutti i paesi si caldeggia la flessibilità nella gestione della forza lavoro, mentre si depreca ogni vincolismo eccessivo. Ovunque si invoca una deregolamentazione delle condizioni di lavoro (il che porterebbe in pratica alla fine del diritto del lavoro) o quanto meno una larga delegificazione della materia, mentre si auspica che la legge lasci degli spazi agli aggiustamenti possibili con la contrattazione sindacale.
Negli stessi anni comincia a crescere la disoccupazione, alla quale, almeno in Italia, si pone riparo con l'utilizzazione sempre più intensa della 'cassa integrazione'; una cassa gestita dall'INPS, che eroga una sostanziosa indennità nel caso di sospensione del lavoro o di riduzione dell'orario (di fatto molti lavoratori sono rimasti in cassa integrazione per anni e si sono verificati perfino casi di imprese 'fantasma', esistenti cioè solo sulla carta, create esclusivamente ai fini della formale imputazione di rapporti di lavoro inesistenti, e quindi come presupposto della tutela).
La legislazione e la contrattazione si sono mosse e si muovono in vario modo per tamponare la crisi: tutte le occasioni di occupazione sono comunque coltivate; le possibilità di contratti a termine sono cresciute, e si è infine consentito che la contrattazione collettiva preveda ulteriori casi oltre quelli stabiliti dalla legge. Inoltre, superando l'ostilità sindacale che ha sempre preferito il lavoro a tempo pieno, si ammette formalmente il contratto a tempo parziale; si introducono i contratti di solidarietà, con i quali i lavoratori accettano riduzioni di orario, con proporzionale riduzione del salario al fine di evitare i licenziamenti collettivi, contratti sostenuti da forti incentivi garantiti dallo Stato. Nel contempo si proclama la volontà di una svolta partecipativa che, coinvolgendo le organizzazioni dei lavoratori nella gestione delle aziende, favorisca un costruttivo dialogo sociale, in un sistema complessivo di compromesso a tre: tra parti sociali contrapposte e parte pubblica.Infine, con la legge 146 del 1990, si disciplina lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, dannoso per la collettività e quindi anche per i lavoratori. In questo settore la legge prescrive attualmente tre regole: preavviso minimo di 10 giorni; comunicazione della durata dello sciopero; assicurazione, in ogni caso, delle prestazioni indispensabili per garantire il rispetto dei diritti fondamentali dell'utenza. Per garantire l'equo contemperamento nel rispetto dei principî della legge, si è costituita una Commissione di garanzia.

16. Il costo del lavoro

Negli ultimi anni si è lamentato da più parti che il costo del lavoro è eccessivo, anche perché comprende una contribuzione previdenziale mediamente pari a circa il 50% dei trattamenti retributivi. I tentativi di risposta a tale problema costituiscono un capitolo particolarmente aspro e controverso in questa lunga fase di assestamento del diritto del lavoro, che dura ormai da vent'anni. Si è seguita, in generale, una politica di contenimento del costo del lavoro, che ha ottenuto qualche risultato. Nel 1976, ad esempio, vennero praticamente confiscati in buoni del tesoro, per due anni, gli aumenti retributivi per i livelli più elevati. Un accordo interconfederale incise poi sull'ammontare dell'indennità di anzianità; ne derivò una controversia nella quale ebbe modo di interloquire anche la Corte Costituzionale. L'intera materia venne disciplinata, nel 1982, da una nuova legge che sostituì alla vecchia indennità un nuovo istituto, il 'trattamento di fine rapporto', assai meno oneroso per le imprese.Per molti anni si è anche trascinata la vertenza relativa al meccanismo di rivalutazione automatica dei salari, detto della 'scala mobile', istituito per neutralizzare le conseguenze dell'inflazione. Si seguiva l'andamento dei prezzi per la famiglia tipo e ciò comportava periodicamente l'aumento in scatti dell'indennità di contingenza. Questo meccanismo, che alimentava ulteriormente l'inflazione, è stato definitivamente abolito nel 1992-1993. Ora si prevede solo che, in caso di ritardo nei rinnovi contrattuali, scatti un'indennità (destinata a sparire con la rinnovata tariffa salariale) detta 'carsica'.
L'ultimo risultato è l'accordo trilaterale (parti sociali e governo) del 23 luglio 1993 per la risistemazione del sistema contrattuale. Le parti si sono impegnate a perseguire la politica dei redditi e a far sì che gli aumenti salariali siano mantenuti nei limiti dell'inflazione programmata. Il contratto collettivo nazionale di categoria ha ora cadenza quadriennale per la parte normativa e biennale per la parte economica. La contrattazione articolata è ammessa, ma nelle sole materie cui rinvia il contratto nazionale, evitando così duplicazioni rispetto al livello più generale. Si prevedono anche innovazioni per i contratti di solidarietà a tempo parziale, di formazione e lavoro, con l'introduzione di 'salari d'ingresso'. È ammesso anche il lavoro 'in affitto' da parte di entità che dovrebbero essere soggette a un rigoroso controllo. Infine si procede verso un sistema di rinnovo delle rappresentanze sindacali aziendali su base elettiva, un sistema che dovrebbe essere volto ad accertare l'effettiva consistenza rappresentativa dei vari sindacati, abbandonando quello precedente, fondato sulla rappresentatività 'presunta' delle organizzazioni affiliate a CGIL, CISL, UIL. Queste le principali innovazioni in un settore che, in gran parte, attende ancora ulteriori trasformazioni.

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

di Igor Piotto, Mario Rusciano

di Igor Piotto e Mario Rusciano

LAVORO

Organizzazione del lavoro di Igor Piotto

sommario: 1. Introduzione. Le vie di uscita dalla crisi del taylorismo. 2. I principî essenziali del just in time. a) Eliminazione degli sprechi e 'fabbrica minima'. b) Rapporto dell'impresa con i suoi fornitori. c) Polivalenza professionale dei lavoratori e gerarchie intermedie. d) La qualità totale. 3. Cambiamenti qualitativi nella prestazione di lavoro: dalla 'mansione' alla 'missione'. 4. Dalla lean production alla produzione modulare. 5. Conclusioni. Problemi e prospettive. □ Bibliografia.

1. Introduzione. Le vie di uscita dalla crisi del taylorismo

Con il concetto di 'organizzazione del lavoro' si vuole indicare la concomitanza di tre ordini di fattori necessari a conseguire gli obiettivi produttivi desiderati: la divisione tecnica delle attività lavorative (suddivise in compiti), la loro integrazione e attribuzione a uomini e macchine in relazione alle caratteristiche professionali dei primi e ai vincoli tecnologici delle seconde, e infine il loro coordinamento (funzionale, temporale e spaziale) in ragione delle interdipendenze presenti nel processo produttivo.
L'integrazione delle attività prevede che singoli compiti siano incorporati in specifici ruoli organizzativi per quanto riguarda sia le relazioni di subordinazione che percorrono la catena del comando, sia le relazioni orizzontali di cooperazione tra ruoli appartenenti allo stesso livello gerarchico. Il coordinamento interviene sulle interdipendenze tra le attività lavorative attraverso meccanismi gerarchici operanti su linee verticali o attraverso meccanismi di adattamento reciproco basato su decisioni congiunte.
La divisione del lavoro è una "caratteristica ineliminabile dell'impresa industriale" (v. Pichierri, 1979, p. 135); le diverse e articolate forme attraverso cui si esprime sono date dalla natura e dalla combinazione di questi due concetti. Nel taylorismo - che rappresenta l'estremizzazione 'scientifica' degli studi precedentemente avviati da Smith (v., 1776) e da Babbage (v., 1833) circa la correlazione tra efficienza e specializzazione della prestazione lavorativa - tale combinazione produce un modello organico finalizzato a irreggimentare il lavoro in mansioni ripetitive, parcellizzate, standardizzate e integrate in rigide catene di comando gerarchico-burocratiche (v. Bonazzi, 1998).
In questa sede, partendo dalla definizione data di organizzazione del lavoro, si procederà con l'analisi dei nuovi modelli produttivi emersi con la crisi del taylor-fordismo; una crisi, annunciata negli anni settanta e proseguita sino alla metà del decennio successivo, che ha segnato la fine di una condizione di egemonia sulle culture organizzative delle società industrializzate durata più di mezzo secolo.
In questi anni la produzione su vasta scala di beni standardizzati, la cosiddetta produzione di massa, subì una battuta d'arresto causata principalmente dalla differenziazione dei mercati e dal conseguente ampliamento dell'offerta di prodotti non più soddisfacibile con l'architettura dell'organizzazione scientifica del lavoro (ibid.), la quale, per via delle sue intrinseche rigidità, non era più in grado di assorbire le incertezze economiche generate da un ambiente di mercato in continua trasformazione; le decisioni organizzative non potevano più fare riferimento a routines e certezze consolidate (v. March e Simon, 1958). Per far fronte a tali incertezze, il management aziendale fu così costretto a ricorrere a misure di flessibilità in grado di mettere le imprese nelle condizioni di rispondere ai tempi stretti delle fluttuazioni ambientali, rappresentate da una crescente diversificazione della domanda di prodotti/servizi sino agli estremi di una loro 'personalizzazione' in base alle specificità del cliente. L'introduzione delle nuove tecnologie meccatroniche - dai sistemi CAD/CAM (Computer Aided Design/Manufacturing) alla CIM (Computer Integrated Manufacturing) - aveva alimentato la convinzione che si potesse configurare un sistema produttivo, particolarmente nel settore industriale, ad alta automazione e ridurre con il supporto delle tecnologie informatiche la rigidità dei programmi di produzione. Si andava così diffondendo l'idea che le imprese avrebbero potuto conseguire alti livelli di efficienza quanto più consistenti fossero stati gli investimenti di carattere tecnologico; questo orientamento avrebbe consentito anche una riduzione degli organici e un conseguente allentamento del potere vulnerante dei lavoratori, specie in contesti ad alta conflittualità sociale.
L'automazione non richiama solo processi meccanizzati, ma rimanda anche a proprietà di autoregolazione da parte delle tecnologie; questo passaggio, oltre a costituire un fattore di indiscusso vantaggio, fu anche all'origine delle difficoltà che la fabbrica ad alta automazione incontrò nel corso della sua sperimentazione.
L'intreccio delle tecnologie meccatroniche e di quelle informatiche si rivelò efficace nell'inglobare parti della complessità nel processo produttivo, il quale richiedeva interventi di regolazione che non potevano avvenire per via automatica; in altre parole, era necessaria una valorizzazione del lavoro vivo quale risorsa di controllo e di conduzione degli impianti. In termini più generali, la via ipertecnologica alla flessibilità organizzativa comportava forme di decentramento decisionale per i lavoratori esecutivi incompatibili con la concezione taylor-fordista di gerarchia affermatasi sino a quel momento (v. Bonazzi, 1993).
L'utopia tecnocratica della fabbrica ad alta automazione non divenne mai una prospettiva realizzabile; la sua architettura non mutò gli assetti gerarchici precedenti e lasciò irrisolto il legame tra la complessità dei processi automatizzati e le interdipendenze che si venivano a determinare al loro interno. Questa esperienza mise in luce come il lavoro umano non avesse affatto il ruolo residuale ipotizzato nell'orientamento iniziale, soprattutto nelle fasi in cui risultavano determinanti gli interventi di regolazione del processo produttivo.
Lo spostamento verso una prospettiva antropocentrica (v. Brödner, 19852) di organizzazione della produzione favorì la ricerca di vie d'uscita dalla crisi del taylorismo. È in questo contesto che l'organizzazione del lavoro adottata negli stabilimenti automobilistici della Toyota - definita just in time - riuscì ad attrarre l'attenzione del mondo manageriale dei paesi a capitalismo avanzato e - grazie alla concettualizzazione elaborata principalmente da Taiichi Ohno (v., 1978) e Yasuhiro Monden (v., 1983) su queste esperienze organizzative - a esercitare su di esso una ormai indiscussa egemonia culturale.
A partire dal lavoro di ricerca di James P. Womack, Daniel T. Jones e Daniel Roos (v. Womack e altri, 1990), che per primi analizzarono le ragioni del successo del modello giapponese in particolare nell'industria statunitense, l'espressione just in time trovò un'altra definizione e venne convertita in quella di 'produzione snella' (lean production) - una differenza non puramente terminologica. Il just in time sperimentato alla Toyota giapponese costituisce l'idealtipo, weberianamente inteso, di una politica dell'organizzazione della produzione in cui la dimensione sociale e quella tecnologica convergono nel definire un modello considerato capace di assorbire la varianza di mercati dinamici. Quando è stata esportata al di fuori del contesto giapponese, questa 'politica organizzativa' ha richiesto modifiche di 'riaggiustamento', non tali, peraltro, da snaturare la concezione originaria; il concetto di 'produzione snella' denota così il carattere ibrido che di volta in volta può assumere il just in time a seconda delle specificità dei sistemi locali (v. Negrelli, 2000), nazionali e dei settori industriali in cui trova applicazione (v. Abo, 1994; v. Kochan e altri, 1997).
I nuovi modelli di organizzazione del lavoro e della produzione, maturati con la crisi del taylorismo, si sono affermati inizialmente nel settore industriale; specificamente, sono state le grandi imprese automobilistiche (GM, Chrysler, Toyota, Volkswagen, Opel, FIAT, Renault) a trainare la loro espansione. Solo successivamente il just in time è diventato un riferimento organizzativo per altri settori produttivi, in particolare il terziario. Dati i limiti imposti da questo articolo, non potremo analizzare la diffusione del modello just in time nelle imprese non industriali. Pertanto, focalizzeremo l'attenzione esclusivamente sul lavoro industriale e la sua organizzazione.

2. I principî essenziali del just in time

Il just in time può essere definito come un "sistema produttivo che garantisce la continua e perfetta simmetria tra l'offerta dei beni prodotti e la domanda che proviene dal mercato" (v. Monden, 1983; tr. it., p. 7); l'incontro tra le due curve avviene grazie a una razionalizzazione dei processi organizzativi che si compone di quattro aspetti essenziali (v. Gohlar e Stamm, 1991): eliminazione degli sprechi e snellimento dei processi organizzativi, rapporti con i fornitori, polivalenza professionale dei lavoratori e qualità.

a) Eliminazione degli sprechi e 'fabbrica minima'
La strategia dell'eliminazione degli sprechi consiste nella progressiva riduzione di tutte quelle risorse che risultano ridondanti o che hanno una funzione marginale nella produzione di valore. Si delinea una sorta di 'fabbrica minima', nella quale tendono a scomparire, o ad assottigliarsi in modo consistente, gli stocks di magazzino e i relativi costi di gestione. Gli stocks nella produzione di massa costituivano certamente una fonte di costi, ma consentivano anche di assorbire sia le criticità interne, dovute a problemi di rallentamento, guasti e perdite di produzione, sia quelle esterne, derivanti dalle oscillazioni di mercato.
L'obiettivo del just in time è quello di utilizzare i fattori di produzione (materiali, tecnologie e forza lavoro) in modo strettamente circoscritto a quanto viene richiesto dal cliente in un dato momento, e più estesamente dal mercato. Da qui deriva una complessiva ridefinizione dei tempi organizzativi dell'impresa. In primo luogo, sulle linee di produzione devono giungere semilavorati e componenti nella misura e nei tempi previsti; il sincronismo dei tempi di lavoro e di movimentazione delle risorse materiali diventa un vincolo organizzativo che struttura l'intero impianto del just in time.
Inoltre, negli impianti industriali questo sincronismo viene favorito da una disposizione spaziale degli impianti (layout) che riduce i problemi di incertezza nei flussi produttivi. Le singole unità produttive vengono strutturate secondo una forma a 'U', accentuando la dimensione orizzontale del coordinamento nei gruppi di lavoro e favorendo sia la mobilità dei lavoratori tra le postazioni dell'unità - con un utilizzo efficace delle risorse umane, specie nei momenti di maggiore criticità (v. Suzaki, 1993) - sia una distribuzione dei tempi di lavoro non più imposta, come nel sistema tayloristico, attraverso un'analisi 'scientifica' di microgesti e microtempi, ma piuttosto ripartita nel gruppo di lavoro a seconda delle necessità produttive che si presentano in un dato momento (v. Coriat, 1991).
Infine, l'assottigliamento dei 'tempi morti', determinato dalla contrazione dei tempi di attrezzaggio e di quelli di attraversamento del prodotto, contribuisce ad alleggerire il carico dei magazzini necessario a garantire continuità nella fornitura di materiali alle fasi del processo produttivo.
La riduzione dei tempi morti e delle scorte non va unicamente intesa come operazione di bilancio aziendale, finalizzata all'eliminazione degli sprechi e quindi dei costi ridondanti; essa è inseparabile dalla strategia del 'miglioramento continuo' (in giapponese, kaizen), ovvero dalla mobilitazione di tutte le risorse, prevalentemente umane, impegnate nel processo produttivo e chiamate a un'attività di individuazione e sperimentazione di interventi migliorativi del processo di lavoro e del prodotto (v. Bonazzi, 1993). Questa specifica correlazione disegna un modello organizzativo nel quale i flussi produttivi sono costantemente impegnati a integrare - secondo l'efficace formula della innovation mediated production suggerita da Martin Kenney e Richard Florida (v., 1993) - innovazione e produzione, lavoro manuale e lavoro intellettuale in modo pressoché indissolubile.

b) Rapporto dell'impresa con i suoi fornitori
Il sistema del just in time comporta anche un'inversione della direzione del processo produttivo: nel fordismo, attraverso piani consistenti di programmazione produttiva a medio e lungo termine, l'impresa era in grado di determinare con largo anticipo il volume e la qualità dei consumi; ora mercati frammentati e fortemente variabili non consentono più produzioni standardizzate su grande scala. La crescente domanda di prodotti diversificati 'traina' il processo produttivo, offrendo margini molto ristretti per la programmazione temporale degli ordini. Come rimarcato da Monden (v., 1983), la simmetria tra domanda e offerta richiede un'organizzazione non dispersiva e fortemente adattabile ai mutamenti nell'indirizzo delle richieste. In questo contesto, la catena di fornitura di un prodotto viene profondamente modificata; i rapporti tra l'impresa e i suoi fornitori non si risolvono unicamente nella scelta dell'economicità della fornitura. La richiesta rivolta dal cliente è quella di una prestazione che coinvolga il fornitore, soprattutto quello di primo livello, anche nella 'ingegnerizzazione' del prodotto. Vengono richiesti alti livelli di cooperazione che spingono le imprese di fornitura più a ridosso dell'impresa finale nella progettazione del prodotto, oltre che nella sua fabbricazione; l'obiettivo è trasferire sul terreno delle relazioni di fornitura una strategia di incremento degli standard di qualità e una riduzione di quei costi causati dall'utilizzo ridondante delle risorse.
La progettazione congiunta dei prodotti presenta anche il vantaggio di alimentare economie di apprendimento; ovvero la produzione di "quasi-rendite relazionali" (v. Aoki, 1988) rappresentate dal patrimonio di conoscenze, specifiche e localizzate, che provengono dal rapporto di collaborazione tra le imprese, le quali però non possono essere assimilate unilateralmente da uno dei partners contrattuali senza mettere a rischio la riproduzione di comportamenti cooperativi.
Sul versante organizzativo interno della singola impresa, l'inversione della direzione del processo produttivo necessita di un "sistema di informazione per controllare armoniosamente le quantità da produrre in ciascuna fase di lavoro" (v. Monden, 1983; tr. it., p. 5). Questo spiega perché la semplificazione dei criteri di approvvigionamento introdotta dal kanban costituisca una delle innovazioni più radicali del just in time sul piano della logistica e della struttura aziendale di incanalamento ed elaborazione delle informazioni.
Letteralmente kanban significa 'cartellino', e sta a indicare una scheda che viene applicata su particolari raccoglitori di componenti per regolare il flusso di materiali allo scopo di evitare le ridondanze e gli sprechi. È un sistema di semplificazione dei criteri di approvvigionamento che può avere ripercussioni sui rapporti tra le unità produttive: infatti, i lavoratori dislocati in una unità produttiva a valle del processo produttivo diventano i clienti dell'unità produttiva situata a monte. Questa disposizione logistica rende praticabile la sincronizzazione dei processi, proprio perché consente alle singole unità di lavoro di modulare la quantità della produzione attraverso i continui feedback provenienti dalle unità successive, le quali instaurano reciprocamente rapporti di cooperazione e competizione improntati alla logica di mercato di cliente e fornitore: tale relazione entra in concorrenza con il criterio gerarchico che invece vantava un indiscusso primato nei meccanismi di strutturazione dell'impresa taylor-fordista.

c) Polivalenza professionale dei lavoratori e gerarchie intermedie
La gerarchia non scompare, ma l'organizzazione si trova costretta, per esigenze di competitività, a riconoscere una maggiore autonomia decisionale alle strutture periferiche dell'organizzazione, soprattutto quelle con funzioni esecutive. Verso la fine degli anni ottanta cresce nel management aziendale la consapevolezza che gli interventi di risoluzione dei problemi devono essere elaborati il più possibile a ridosso dei contesti in cui si manifestano le maggiori criticità.
La tecnica logistica del kanban si inserisce in questo nuovo orientamento, rendendo possibile il decentramento di compiti di micro-regolazione giornaliera del flusso produttivo, i quali erano, nel taylorismo, prevalentemente concentrati in strutture centralizzate di staff non direttamente coinvolte nel processo produttivo (uffici di programmazione e avanzamento della produzione). Questo spostamento decisionale (dal livello di stabilimento al livello di officina), per quanto sempre parziale, richiede che il lavoro esecutivo venga investito di una maggiore discrezionalità e sia accompagnato da richieste sempre più frequenti di polivalenza professionale.
La decentralizzazione di alcuni dei compiti di regolazione rende impraticabile la parcellizzazione del lavoro in 'microgesti', che aveva determinato per decenni il controllo sulla gestualità operaia, mettendo in tal modo in discussione uno dei principî fondanti la visione tecnocratica del taylorismo, quello della presunta oggettività scientifica dei criteri di formazione delle decisioni.
Si afferma, invece, nell'indirizzo manageriale, una prospettiva gestionale che stempera il modello decisionale autoritario e tende a sostituirlo con la sperimentazione di forme di lavoro di gruppo ritenute maggiormente efficienti sul terreno della flessibilità produttiva.
Al gruppo di lavoro sono demandati compiti gestionali che si estendono alla manutenzione ordinaria degli impianti, all'elaborazione delle procedure di lavoro, alla gestione di parti del processo produttivo. Il team è considerato una 'cellula produttiva' nella quale, sotto la supervisione di una struttura di coordinamento individuata nel team leader e nei tecnici (tecnologi, metodisti, manutentori), si combinano professionalità polivalenti in grado di governare la domanda di qualità e diversificazione dei prodotti che proviene da mercati variabili.
L'obiettivo organizzativo del lavoro di gruppo è quello di favorire la socializzazione di compiti e funzioni che prima erano demandati a strutture tecniche di staff laterali al processo produttivo, con risvolti rilevanti sullo stesso profilo professionale del management intermedio (capireparto, capisquadra), non più riconducibile, almeno sotto il profilo teorico, al ruolo di 'vicariato' della direzione aziendale o di shock absorber (v. Walker e altri, 1956) delle tensioni tra management e lavoratori esecutivi.
Il ricorso a espressioni anglosassoni come quella di team leader in sostituzione del più noto termine 'caposquadra' richiama certamente la natura indiscutibilmente autoritativa del ruolo, ma mette comunque in rilievo la dimensione collegiale dell'attività decisionale che queste figure del management intermedio assumono nel sistema just in time. Il responsabile del team mantiene un ruolo di 'comando' soprattutto nell'allocazione delle risorse (definizione dei percorsi professionali e di mobilità interna al gruppo, sistemi premianti e di incentivazione), ma a tale ruolo si affiancano competenze di coordinamento dei gruppi di lavoro e di gestione degli interventi di miglioramento incrementale (processo/prodotto).

d) La qualità totale
L'ultimo tassello che compone il complesso sistema del just in time è la qualità totale. È questo il concetto che percorre tutta l'elaborazione teorica e la prassi del modello giapponese.
L'attenzione manageriale per il sistema della qualità non nasce con la scoperta del modello giapponese, verso la fine degli anni ottanta, ma si focalizza prevalentemente sul ricorso a metodi di natura statistica quali strumenti privilegiati per verificare la qualità della performance aziendale.
Le tecniche statistiche non sono state trascurate da quanti hanno più marcatamente contribuito a elaborare il concetto di qualità totale in chiave organizzativa (v. Juran, 19743; v. Deming, 1982); piuttosto, tali tecniche diventano operative all'interno di una struttura organizzativa ampiamente modificata. Il mutamento è prima di tutto di ordine culturale: l'incremento di prodotti progettati e ingegnerizzati in base alle richieste di gruppi ristretti di clienti richiede una competitività che non è conseguibile solo attraverso un abbassamento dei costi, ma deriva anche dall'offerta qualitativamente superiore a quella dei concorrenti di mercato.
In questa prospettiva la ricerca della qualità non può essere ancorata a una specifica funzione aziendale di cui si compone un'impresa. Essa è un principio organizzativo - sintetizzato nel lessico manageriale dall'espressione total quality management - che struttura l'organizzazione, è il criterio di riferimento nella progettazione dei processi e dei prodotti, e costituisce pertanto il nucleo fondante di tutto il just in time. Ciascun sottosistema aziendale (logistica, produzione, marketing, servizi, approvvigionamenti, sviluppo delle tecnologie e delle risorse umane) deve attivare al proprio interno misure tese a ridurre il saldo negativo tra la prestazione attesa e quella effettivamente realizzata.
Sul versante dell'organizzazione del lavoro, il risalto dato alla qualità trova riscontro nel concetto di autocontrollo: con esso si indica la gamma di nuove responsabilità assegnate ai singoli lavoratori, anche quelli che ricoprono ruoli esecutivi, di monitoraggio e verifica di standard qualitativi circa i prodotti e parti specifiche del processo produttivo. Con l'autocontrollo si rafforza l'obiettivo di assegnare alla riduzione di scarti e difetti un ruolo determinante nell'integrazione delle funzioni e delle attività dell'impresa.

3. Cambiamenti qualitativi nella prestazione di lavoro: dalla 'mansione' alla 'missione'

La diffusione della produzione snella comporta che il lavoro operaio sia prevalentemente caratterizzato da attività di 'micro-regolazione' degli impianti e della gestione di obiettivi produttivi, e questo può essere considerato l'archetipo della configurazione emergente del lavoro esecutivo industriale (v. Kern e Schumann, 1984; v. Cerruti, 1994).
La conduzione di processi sincronizzati comporta un arricchimento del contenuto delle informazioni da elaborare insieme a un ampliamento delle competenze possedute. Con il just in time il singolo lavoratore deve sviluppare un rapporto attivo con il sistema informativo, che implica la convergenza di due specifiche "logiche di incremento" (v. Rieser, 1992).
Da un lato, si estende la discrezionalità del lavoratore nella scelta di soluzioni non programmabili per via gerarchica, o non totalmente incorporabili nelle tecnologie di processo. Un esempio è dato dal concetto di 'autonomazione', neologismo ricavato dalla contrazione di automazione e autonomia, col quale si indica la possibilità da parte degli operatori di arrestare automaticamente la linea di produzione ogni qual volta si presentano delle criticità. Questo potere di interdizione riconosciuto agli operatori è di estrema importanza per comprendere la logica che ispira siffatto modello organizzativo; esso assegna un ruolo attivo al lavoro esecutivo e lo colloca in una posizione cruciale nel perseguimento delle strategie di controllo di qualità. Nonostante l'entusiasmo con cui è stato accolto il principio dell'autonomazione, esso resta in molti casi scarsamente perseguito, per il permanere di una rigidità temporale dei programmi di produzione, ma anche per ragioni che vanno ricercate nella difficoltà, soprattutto dei quadri intermedi, di emanciparsi dai condizionamenti culturali del taylorismo, i quali portano a guardare con sospetto qualsiasi modifica organizzativa che vada nella direzione di un riconoscimento di discrezionalità al lavoro esecutivo.
Dall'altro lato, aumentano le informazioni che il singolo è chiamato a gestire. La 'de-gerarchizzazione' del flusso di informazioni, di cui il sistema kanban è l'espressione più visibile, richiede al lavoratore un ruolo di 'microterminale attivo' nello scambio delle informazioni, che si esplica essenzialmente nella capacità di micro-regolazione degli impianti e nell'individuazione dei segnali deboli che possono provenire dal processo produttivo (v. Rieser, 1992). Quello informativo diventa dunque il 'sistema nervoso' di tutti i processi produttivi. Strutturato secondo una logica di "concentrazione senza accentramento" (v. Bennett, 1994), il sistema informativo nel just in time richiede sedi decentrate di incanalamento ed elaborazione delle informazioni. Questa tendenza però non comporta, realisticamente, la completa destrutturazione del monopolio di competenze riconosciuto nel taylorismo alle figure gerarchiche elevate o di staff, quanto invece il restringimento, variabile, del loro raggio di intervento. Ma soprattutto, attraverso l'utilizzo delle tecnologie informatiche, la visione complessiva del circuito informativo dell'impresa viene concentrata in specifiche memorie tecniche e monitorata in 'presa diretta' con l'andamento della produzione.
Nel just in time vincoli di ordine tecnologico, organizzativo (la sincronizzazione dei processi produttivi tra le unità di lavoro) e informativo (il sistema kanban) delineano il profilo di una prestazione sempre meno focalizzata sul controllo della 'dimensione materiale del lavoro', a vantaggio del controllo sulla 'dimensione processuale del lavoro' (v. Kern, 1991), determinando un cambiamento di prospettiva che va nella direzione di quello che Kazuo Koike (v., 1988) ha definito come "white-collarization of blue collars". Questa tesi può risultare eccessivamente ottimistica, ma il dato importante è che il mutamento delle caratteristiche qualitative della prestazione, in particolare industriale, costituisce la rottura più significativa rispetto ai vincoli che l'organizzazione tayloristica, incardinata sulla disciplina della corporeità operaia, imponeva al lavoro esecutivo. In quel caso la scarsa variabilità delle mansioni era accompagnata dalla ricerca da parte del management intermedio di soluzioni operative finalizzate, attraverso la proceduralizzazione delle operazioni imposta per via gerarchica, a ridurre in modo crescente i margini di libertà riconosciuti al lavoro esecutivo.
Come è stato messo in rilievo dalla Scuola delle relazioni umane (v. Roethlisberger e Dickson, 1939), anche nell'organizzazione più restrittiva le maglie del controllo gerarchico non sono in grado di trattenere tutte le relazioni sociali che prendono forma al suo interno. Ulteriori studi hanno sottolineato che l'informalità nelle relazioni di lavoro non contiene unicamente aspetti di "disfunzionalità" (v. Crozier, 1963): l'informalità, nell'impresa tayloristica, ha fornito al lavoratore maggiori possibilità di negoziazione delle condizioni di lavoro con la gerarchia aziendale e, al tempo stesso, ha consentito all'organizzazione di mantenere una condizione di stabilità rispetto alle criticità esterne e interne a essa.
Nel sistema just in time il singolo lavoratore non è più chiamato a rispettare 'vincoli espliciti di obbedienza' definiti dalla direzione e dagli staff tecnici secondo una logica di 'conformità alla regola'; da qui deriva che la qualità della prestazione di lavoro non può essere correlata allo scostamento del comportamento umano dalle regole formali. L'aspetto prescrittivo della norma non cessa di esercitare la sua influenza, ma si traduce in 'obblighi impliciti di produzione' (v. De Terssac, 1992), ovvero in regole 'invisibili', implicite, che sono in grado di assicurare una cooperazione attiva nella gestione degli obiettivi di produzione (normalizzazione degli stati di criticità e continuità del processo produttivo). Queste 'regole invisibili' costituiscono un tessuto di significati condivisi, che indirizzano il singolo lavoratore nelle sue scelte di 'attenzione' e svolgono così una funzione 'metaregolativa dell'azione'.
La dicotomia formale/informale si rivela, dunque, inadeguata a cogliere il mutamento qualitativo della prestazione di lavoro, soprattutto alla luce dell'indebolimento del concetto di mansione, intesa come aggregato di compiti e considerata dal sistema tayloristico come l'unità elementare nella progettazione dei compiti esecutivi, a vantaggio di quello di 'missione', che denota una maggiore complessità organizzativa. La missione richiede un elevato grado di cooperazione attiva e la disponibilità ad attivare in modo continuativo interventi specifici e polivalenti, difficilmente programmabili nelle singole fasi operative e quindi meno soggetti a un monitoraggio parcellizzato. Tale attività micro-regolatrice fa emergere un patrimonio variegato di astuzie conservate in forma tacita e maturate nel corso dell'esperienza; questa visibilità fornisce al management la possibilità di appropriarsi di quella conoscenza produttiva che, nel sistema tayloristico, i lavoratori custodivano e utilizzavano quale risorsa difensiva rispetto alla pervasività del controllo gerarchico.
Il merito di Ohno (v., 1978) fu quello di comprendere che gli incrementi di produttività non erano conseguibili frantumando le mansioni degli operai professionali, con la degradazione del loro ruolo organizzativo e sociale, ma sovraccaricando il loro impegno lavorativo. Tale sovraccarico, unito all'eliminazione degli stocks di magazzino, avrebbe causato una tensione del processo produttivo, richiesto un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nelle attività di regolazione, e conseguentemente esteso le prerogative manageriali di controllo sul sapere produttivo.
Infatti, il lavoro subisce un processo di "simbolizzazione pubblica dell'esperienza" (v. Zuboff, 1988): astuzie nascoste ed esperienze professionali vengono alla luce e, attraverso il supporto di tecnologie informatiche, codificate in artefatti cognitivi, incorporate nelle memorie tecniche dell'organizzazione, favorendo così l'aggiornamento continuo delle conoscenze utilizzabili. Anzi, l'attivazione di circuiti virtuosi di conversione della conoscenza da tacita a esplicita è stata assunta quale elemento distintivo di superiorità della produzione snella sul modello taylor-fordista (v. Nonaka e Takeuchi, 1995).
Il lavoro è sempre il prodotto della combinazione dinamica di vincoli e autonomia nella divisione tecnica, nell'integrazione e distribuzione delle attività. Nel just in time i dispositivi di controllo aziendale divengono più pervasivi che in passato (v. Sewell e Wilkinson 1992; v. Baremberg, 1994; v. Delbridge, 1998). Il modello autoritario, fondato sul principio dell'organizzazione gerarchico-burocratica, è stato sostituito da un nuovo modello di autorità che si avvale di forme di comando meno visibili, non più espresse in forma imposta ma attraverso l'interiorizzazione, da parte dei subordinati, di quei vincoli impliciti di obbedienza che Gilbert De Terssac (v., 1992) ha individuato quale criterio strutturante i modelli flessibili di organizzazione del lavoro.
Il rafforzamento del controllo aziendale sui comportamenti umani non avviene più tramite la funzione disciplinare della norma, ma attraverso le 'politiche di produzione' (incentivi di natura economica e psicologica, responsabilizzazione). Viene aggredita la natura intrinseca della norma esplicita, quella di essere da un lato strumento di pressione ma, dall'altro, anche un vincolo all'arbitrio nelle relazioni di potere; non è infatti casuale che la definizione delle norme esplicite sia stata uno dei terreni di maggior conflitto nelle relazioni industriali fordiste. Si affermano relazioni di potere capaci di condizionare i comportamenti umani in modo più restrittivo di quanto non accadesse nel taylorismo, senza però riproporre la struttura verticale e autoritaria della trasmissione degli ordini.
Finora si è parlato indistintamente di polivalenza, ma non si tratta di un concetto che rimanda a condizioni di lavoro e professionali omogenee. Il just in time contiene almeno due tipologie di polivalenza: verticale e orizzontale.
La prima rimanda a competenze necessarie alla conduzione di impianti appartenenti a diverse famiglie tecnologiche e a svolgere funzioni eterogenee per contenuto tecnico (v. Cerruti e Rieser, 1989). Qui la polivalenza verticale consente al lavoratore di interagire in misura decisiva sia all'interno del proprio gruppo professionale di appartenenza, con attività di problem solving, sia al di fuori di esso, con relazioni di interscambio informativo con il personale di staff (tecnologi, metodisti, manutentori, uffici tecnici e di progettazione), garantendo così una continuità tra gestione della produzione e innovazione. In questo frangente l'aumento di discrezionalità, spesso rafforzato da un ampliamento delle opportunità di formazione e apprendimento, è accompagnato dalla intensificazione dei ritmi di lavoro (v. Parker e Slaughter, 1995).
Sull'altro versante la polivalenza orizzontale richiama competenze deboli, che permettono al lavoratore di muoversi entro uno scenario più limitato di postazioni, caratterizzate da un contenuto tecnico affine e da impianti che fanno parte di una stessa "famiglia tecnologica" (v. Cerruti e Rieser, 1989). La forza lavoro è dislocata in contesti statici di apprendimento, con scarse possibilità di rigenerazione del patrimonio professionale e cognitivo, da cui deriva un restringimento delle opportunità di mobilità interaziendale.
Questa distinzione aiuta a capire la natura ibrida dell'organizzazione. L'egemonia culturale esercitata da un modello di riferimento (è questo attualmente il peso del just in time nell'orientamento manageriale) convive con segmenti organizzativi ancora strutturati secondo modalità tayloristiche di subordinazione della forza lavoro, spesso sottoposta a processi di spersonalizzazione soffocante. È questo il caso di imprese che hanno uno scarso ruolo nella catena del valore del prodotto, mentre conservano un ruolo non marginale nella catena del processo; ad esempio, le migliaia di piccole imprese che rimandano all'esperienza delle maquiladoras messicane dislocate ai confini con gli Stati Uniti e impegnate in produzioni fortemente standardizzate, nelle quali opera una forza lavoro altamente intercambiabile, di sesso femminile e con limitate possibilità di crescita professionale.
D'altra parte, non va trascurata la pluralità di forme organizzative e di prestazioni lavorative che si sono sviluppate all'ombra dell'impresa a produzione di massa, ma che non si sono mai affermate come alternativa praticabile al taylor-fordismo. È questo il caso, nel contesto italiano, del modello della "specializzazione flessibile" (v. Piore e Sabel, 1984; v. Barca e Magnani, 1989; v. Brusco, 1989), caratterizzato dalla maggiore elasticità posseduta da piccole e medie imprese nell'utilizzare competenze professionali e tecnologie in modo sufficientemente versatile da soddisfare bisogni crescenti di diversificazione della domanda (introduzione di nuovi prodotti, personalizzazione dei prodotti/servizi e modifiche dei processi di lavorazione).
Nel contesto internazionale una potenziale alternativa all'organizzazione del lavoro taylorista, ma implicitamente anche al just in time, è stata quella sperimentata in Svezia, sul finire degli anni ottanta, negli stabilimenti della Volvo di Uddevalla e Kalmar. In quell'occasione venne adottato come criterio di progettazione organizzativa il principio della 'ricomposizione delle mansioni', in aperta polemica con la logica della parcellizzazione dei compiti e dei movimenti di origine tayloristica. Vennero formati gruppi di lavoro dotati di ampia autonomia nella ripartizione dei compiti e dei tempi di lavoro (pur all'interno di programmi produttivi definiti dalla direzione), composti da operai altamente qualificati in grado di gestire interi segmenti del processo produttivo. Il progetto venne interrotto all'inizio degli anni novanta, per ragioni di competitività del prodotto non tanto sul versante della qualità, quanto su quello dei tempi di consegna dei prodotti e dei costi. Quell'esperienza, anche per la nicchia di mercato in cui andava a inserirsi (la fascia alta della produzione automobilistica), non riuscì mai a proporsi come alternativa praticabile rispetto al modello giapponese del just in time.
Non va sottovalutato il legame che unisce la polivalenza nella specializzazione flessibile e nel caso svedese con la filosofia della gestione delle risorse umane avanzata dal just in time, soprattutto sul versante della progressiva "risoggettivazione del lavoro operaio" (v. Revelli, 1997). Sottolineare questa continuità è utile per far luce sulle molteplici esperienze organizzative e produttive che sono maturate tra gli interstizi del modello taylor-fordista, ma è altrettanto necessario mettere in rilievo che la valorizzazione delle risorse umane e delle capacità cognitive e professionali che queste esprimono, pur con consistenti differenziazioni interne, ha potuto rappresentare un'alternativa quando ha soddisfatto esigenze di rinnovamento organizzativo nelle grandi imprese finali di produzioni di beni e servizi, emancipandosi dall'ambito ristretto della sperimentazione di mercati periferici o di nicchia.

4. Dalla lean production alla produzione modulare

Il riconoscimento del mercato quale principio di strutturazione degli assetti aziendali costituisce una delle svolte più innovative introdotte dal modello giapponese, in aperta rottura con quello esclusivamente gerarchico di matrice taylor-fordista. L'introduzione dei principî del just in time ridisegna il profilo della prestazione lavorativa sottoponendola a nuovi vincoli esecutivi e a gerarchie intermedie, mentre sul fronte dei rapporti con le imprese di fornitura la sincronizzazione logistica (movimentazione materiali, incanalamento informazioni) si traduce in una crescente necessità di integrare i rapporti tra cliente e fornitore attraverso l'intensificazione dei momenti di 'progettazione congiunta' dei prodotti e dei servizi.
Nei primi anni novanta, quando il modello just in time si trovava in fase di piena espansione, il concetto di 'riduzione degli sprechi' - che aveva aperto una breccia innovativa nella riflessione manageriale - è stato nuovamente rielaborato, proseguendo e intensificando la strategia dell'alleggerimento delle funzioni e degli organici aziendali. Un primo tentativo risale all'elaborazione del concetto di re-ingegnerizzazione dei processi organizzativi (v. Hammer e Champy, 1993), che vede nella 'esternalizzazione' (outsourcing), ovvero nell'affidamento all'esterno delle attività che non risultano cruciali nella catena del valore dell'impresa, la via più efficiente per conseguire un vantaggio competitivo sul mercato.
Quello dell'outsourcing è un concetto poliedrico che può rimandare a significati tra loro molto differenti a seconda dell'oggetto che viene esternalizzato (che cosa), delle modalità contrattuali di trasferimento (come), delle ragioni che ispirano tale strategia (perché). Tuttavia, nella comunità scientifica c'è una sostanziale convergenza verso una definizione piuttosto versatile; per outsourcing si intende quel processo che accompagna la decisione delle imprese di cedere a fornitori la proprietà o la gestione operativa di parti del processo produttivo.
Soprattutto con la cessione della proprietà di parti del processo produttivo, che rappresenta la modalità più radicale di esternalizzazione, il ciclo produttivo dell'impresa cedente viene scomposto in una rete di proprietà distinte; quello che prima veniva realizzato all'interno di una struttura aziendale autonoma, sotto il profilo dei confini societari, ora è l'esito di attività che sono riconducibili al concorso di aziende giuridicamente autonome. La ricomposizione del processo produttivo viene garantita da un fascio di contratti di appalto, stipulati dall'impresa cedente e dall'impresa che acquisisce o gestisce le attività esternalizzate.
A seguito di queste considerazioni, si può definire 'multisocietaria' quella impresa che si configura come un 'contenitore' di realtà societarie diverse e autonome impegnate a condividere un comune 'spazio' di produzione; con questo termine si intende descrivere quel modo di organizzazione della produzione, adottato da una singola impresa, che consiste nella cessione a imprese esterne, prevalentemente tramite contratto di compravendita, della proprietà di funzioni aziendali (outsourcing), prossime al core business, e nella internalizzazione operativa (insourcing), tramite un contratto d'appalto di fornitura, delle loro attività nel sito produttivo originario, mediante il ricorso a un'architettura modulare del prodotto, dei processi e della catena di fornitura.
La modularizzazione è la soluzione organizzativa che rende possibile il trasferimento delle attività esternalizzate nell'area operativa dell'impresa cedente, e può riguardare la configurazione dei processi e la progettazione del prodotto. Sul versante dei processi, la modularizzazione prevede che interi sistemi di componenti vengano prodotti e combinati da fornitori specializzati operanti nel sito produttivo dell'impresa finale su linee di sotto-assemblaggio. Ciò determina un riposizionamento spaziale del fornitore 'sulle linee del cliente finale', insieme a una nuova configurazione degli assetti organizzativi e della dotazione tecnologica. Più articolata risulta la modularizzazione del prodotto. Infatti, il 'prodotto' viene inteso come un 'sistema di componenti', ciascuno dei quali può essere a sua volta scomposto in sotto-unità, e le loro interdipendenze tecnologiche sono definite da una comune logica di progettazione. Il baricentro dell'attività produttiva diventa il modulo, che rappresenta l'unità elementare, quindi non ulteriormente scomponibile, dell'intera architettura del prodotto. La combinazione variabile dei moduli indipendenti, che interagiscono attraverso interfacce standardizzate di connessione (v. Sanchez e Mahoney, 1996), può così determinare un ampliamento dell'offerta e dare origine a diverse soluzioni dello stesso prodotto.
La simultaneità dei processi di esternalizzazione e internalizzazione descrive un doppio movimento contraddittorio e rappresenta un elemento distintivo rispetto alle strategie di decentramento produttivo e deverticalizzazione degli assetti aziendali adottate dalle grandi imprese italiane nella prima metà degli anni settanta (v. Barca e Magnani, 1989); in quel caso, infatti, l'impresa cessionaria e quella cedente non condividevano lo stesso spazio produttivo, non si verificava, cioè, la condizione di internalizzazione delle attività cedute.
Con l'esternalizzazione l'impresa cedente sposta sui fornitori parti del rischio di impresa legato a un prodotto, ma allo stesso tempo chiede agli stessi di operare in prossimità o all'interno dei suoi impianti produttivi. Il passaggio della internalizzazione del fornitore nel sito dell'impresa finale rende possibile la riduzione dei costi, ma soprattutto favorisce il trasferimento di conoscenze esperte; qui la relazione di fornitura non riguarda solo lo scambio di prodotti o semilavorati, ma concerne l'instaurazione di economie di apprendimento e innovazione che derivano dalla fusione di due sistemi tecnologici.
Sul piano propriamente organizzativo del lavoro, con l'impresa modulare la prestazione non subisce radicali mutamenti; tuttavia, l'offuscamento dei confini dell'impresa stessa e, sull'altro versante, l'aumento dei punti di integrazione tra le attività aziendali generano nuove richieste di professionalità, ovvero aree di compiti che si espandono nei ruoli preesistenti e si vanno a innestare sulle trasformazioni già introdotte dal modello giapponese. In particolare, diventa cruciale la presenza di 'produttori di integrazione' (management intermedio, operai e impiegati altamente qualificati privi di ruolo gerarchico), i quali operano ai confini dell'impresa, intrattengono comunicazioni tecniche con clienti e fornitori, e hanno il compito di elaborare efficacemente informazioni e dati in modo da facilitare la collaborazione tra le imprese (v. Butera e altri, 1997). Queste professionalità di integrazione sono il segno di una 'sfasatura' tra le attività del sito produttivo, che può essere ricomposta se l'integrazione non incontra ostacoli, ma che in taluni casi può causare diseconomie organizzative dovute alla presenza di relazioni competitive tra ruoli ridondanti o sovrapposti.
Il profilo di questa popolazione lavorativa si compone di due aree distinte di competenza. In primo luogo, essa svolge attività di 'integrazione organizzativa', che consistono nel mettere in collegamento studi progettuali, saperi specialistici, risorse umane e finanziarie; in secondo luogo, essa costituisce una risorsa di supporto nella gestione dei contratti commerciali tra le imprese del sito produttivo; infatti, questo lavoro di scambio e integrazione di risorse non è facilmente governabile attraverso i contratti, i quali tutelano solo in parte le imprese dai rischi di opportunismo (pre- e post-contrattuale) degli altri partners aziendali, rendendo così necessaria la presenza di altre figure professionali, come il management intermedio, o, in un numero minore di casi, lavoratori altamente qualificati esterni alla catena di comando aziendale.
I produttori di integrazione definiscono un insieme di professionalità che vanno a integrare il modello giapponese di articolazione delle competenze, qualificandosi come una sorta di ulteriore specificazione della polivalenza verticale.

5. Conclusioni. Problemi e prospettive

Il primato della dimensione processuale del lavoro nei nuovi modelli di produzione ha determinato il passaggio della relazione di lavoro da una condizione contrassegnata dallo 'scambio di certezze' (gesti, movimenti, operazioni, ritmi, orari) - espressione di una visione onnicomprensiva della razionalità produttiva - a una condizione sempre più caratterizzata da uno 'scambio di impegni' (impegno attivo nel raggiungimento di sotto-obiettivi produttivi, connessione di più fonti informative, intervento sui fattori di criticità), dove invece si afferma una visione limitata della razionalità, proprio perché tali impegni non sono facilmente programmabili e comportano continui aggiustamenti in fase esecutiva. La prestazione di lavoro, pur con le sue profonde differenziazioni in termini di competenze possedute, richiede l'impiego continuo di risorse specifiche (conoscenze esperte), che costituiscono una delle leve più importanti per far fronte alle criticità che scaturiscono da processi produttivi complessi e - per i loro vincoli organizzativi (sincronizzazione tempistica e progettuale, integrazione delle attività interaziendali) - fragili. Allo stesso tempo, una quota consistente dei contenuti della prestazione di lavoro viene sottratta alla possibilità di standardizzazione e programmazione capillare, determinando così un indebolimento degli strumenti tradizionali di valutazione del lavoro erogato (v. Goldthorpe, 2000).
Certamente, il just in time e successivamente l'impresa multisocietaria hanno favorito, con il decentramento decisionale, la creazione di nuovi spazi di discrezionalità per il lavoro esecutivo e lo sviluppo di prestazioni polivalenti. Questo non è stato sufficiente ad accelerare la sperimentazione di nuove forme di umanizzazione del lavoro, spesso contrastate dall'emergere di condizioni di subalternità e di catene di comando non più incardinate sul 'ruolo', ma sul sapere posseduto e sulle opportunità di apprendimento e accrescimento delle competenze.
All'interno di un'impresa, o di un sistema di fornitura, convivono 'destini' professionali e condizioni di lavoro sempre più determinati dal divario tra una popolazione lavorativa impegnata nelle attività strategiche dell'impresa, inserita in circuiti virtuosi di apprendimento, a cui vengono richieste prestazioni specifiche difficilmente standardizzabili e per questo soggette a rapporti fiduciari da parte del management, e una popolazione lavorativa a polivalenza debole, che opera in condizioni di continuità con la tradizione tayloristica e si trova maggiormente esposta alla precarietà del rapporto di lavoro. Tenuto conto dei limiti analitici delle schematizzazioni dualistiche, questa divaricazione delle traiettorie professionali e delle condizioni di lavoro può essere indicativa di una polarizzazione che rischia di sostituire, come ha fatto notare Aris Accornero (v., 1997), quella taylor-fordista tra colletti bianchi e colletti blu.
Tuttavia, tale polarizzazione non va intesa in modo deterministico e non ripropone una prospettiva pessimistica circa le conseguenze che la razionalizzazione produttiva dell'impresa capitalistica genererebbe, con una complessiva tendenza all'impoverimento dei contenuti e delle condizioni di lavoro (v. Braverman, 1974). La traiettoria della produzione snella, come abbiamo visto, va in una direzione opposta e sollecita piuttosto la regolazione di un nuovo rapporto tra lavoro e conoscenza, soprattutto per quanto concerne i rapporti di lavoro e la gestione delle risorse umane nell'impresa.
Infatti, la regolazione del rapporto di lavoro, calibrata sull'organizzazione taylor-fordista, si rivela inadeguata a comprendere e regolare la prestazione di lavoratori impegnati in attività di gestione di micro-obiettivi, conduzione di impianti, integrazione organizzativa; e questo vale non solo per le figure ad alta professionalità, ma anche per lavoratori meno qualificati. Il rapporto tra lavoro e conoscenza viene sempre più determinato dallo scambio di beni immateriali, e ciò genera un crescente indebolimento dell'efficacia dei contratti, a partire dalla capacità di aderire alle condizioni materiali dell'organizzazione del lavoro e quindi alla fenomenologia della prestazione individuale.
Inoltre, la divisione tecnica del lavoro produce sempre una stratificazione del potere organizzativo; nei modelli snelli di organizzazione del lavoro l'accesso al sapere può determinare i confini entro i quali maturano nuove disuguaglianze e quindi nuovi assetti di dominio, non più basati sulla standardizzazione delle mansioni, ma sulla inclusione o esclusione dei singoli lavoratori da opportunità di arricchimento del loro patrimonio cognitivo e professionale. Questo rischio viene ulteriormente aggravato dal ritardo nell'introduzione di nuovi criteri di valutazione delle competenze professionali all'interno degli stessi contratti di lavoro.
Sul versante della gestione delle risorse umane, occorre ricordare che il lavoro contiene una particolare specificità: la prestazione lavorativa è fisicamente inseparabile dalla persona che la eroga, e questo rende cruciale il tema del consenso e della cooperazione dei singoli. Il comportamento manageriale risulta fortemente condizionato da questo 'vincolo' strutturale del lavoro vivo, soprattutto alla luce del ruolo crescente e strategico assunto dalla conoscenza nel governo dei processi produttivi. Si determina nel management aziendale un mutamento nelle strategie di costruzione del consenso, sempre meno orientate a oscurare i fattori di conflitto che possono derivare dalla erogazione dello sforzo fisico - come aveva efficacemente messo in rilievo Michael Burawoy (v., 1979) osservando i "giochi di produzione" - e sempre più impegnate a creare condizioni favorevoli per convertire il sapere tacito dei singoli lavoratori (informazioni, pratiche, metodologie) in conoscenze esplicite utilizzabili da tutta l'organizzazione, attivando così un processo di espropriazione del patrimonio professionale individuale.
Complessivamente, la debolezza dei meccanismi di regolazione del rapporto tra lavoro e conoscenza e, non da ultimo, i ritardi nella modifica dell'istituto contrattuale, hanno agevolato l'impegno delle imprese nel riconfigurare unilateralmente i sistemi di gestione delle risorse umane, prime fra tutte le misure di 'fidelizzazione' dei lavoratori come parte integrante di una strategia più complessiva di produzione del consenso aziendale. A fianco del filone classico della scuola motivazionalista - che trae nuovamente vigore dalla prospettiva del comunitarismo aziendale, anche in relazione al fascino esercitato dalla prospettiva giapponese dell'impresa-comunità (v. Dore, 1987), dove non è trascurabile il ruolo che la cultura aziendale esercita nel rafforzare il controllo normativo sui comportamenti individuali - si sviluppano interventi finalizzati a produrre comportamenti cooperativi per mezzo di un coinvolgimento dei dipendenti in 'processi distributivi' di natura economica e finanziaria. Questo determina una accentuazione della flessibilità retributiva: una parte del rischio di impresa viene incorporata nel salario - attraverso forme di azionariato dei dipendenti, oppure, più diffusamente, tramite l'agganciamento del salario a parametri variabili di produttività, qualità e redditività dell'impresa - quale contrappeso alla incertezza, da parte del management, circa i risultati della produzione.
Più limitata è l'esperienza della costruzione del consenso attraverso modelli di coinvolgimento dei dipendenti tramite la partecipazione collettiva ai 'processi decisionali' dell'impresa o del sito produttivo (nel caso dell'impresa multisocietaria), che invece presuppongono trasferimenti di quote di autorità dal management ai dipendenti e consentono a questi ultimi di esercitare un ruolo attivo nella determinazione delle scelte organizzative, con conseguenze sulla qualità della vita di lavoro (v. Baglioni, 2001).
La sfida della partecipazione nelle sue diverse articolazioni, distributiva e decisionale, raccoglie insieme i nodi cruciali dei mutamenti che hanno investito il lavoro e la sua organizzazione. In particolare, il legame tra consenso e sapere ridefinisce i contorni della conflittualità e della cooperazione nell'impresa, ma apre anche la via alla sperimentazione di modalità organizzative capaci di accrescere il potenziale di apprendimento, arginare nuove disuguaglianze e riconoscere al lavoro vivo spazi di autonomia ed emancipazione rimasti sinora allo stato di potenzialità.

Diritto del lavoro di Mario Rusciano

sommario: 1. Il paradosso della fine del lavoro e il cambiamento del diritto del lavoro. 2. Specialità del diritto del lavoro e immutabilità del suo codice genetico. 3. Lo scenario del cambiamento. a) Innovazione tecnologica, trasformazioni economico-produttive e flessibilità. b) II ruolo del sindacato. c) Dalla 'contrattazione' alla 'concertazione'. 4. Terziarizzazione del conflitto e limiti allo sciopero nei servizi essenziali. 5. Europeismo e regionalismo nel diritto del lavoro. 6. L'evoluzione del sistema delle fonti. 7. Unione Europea e diritto del lavoro. 8. Il policentrismo normativo: regionalizzazione e delegificazione. 9. Nuove funzioni del contratto collettivo. 10. Il primato della Costituzione a difesa dei diritti fondamentali dei lavoratori. 11. Il ruolo della giurisprudenza: giudici, arbitri e Authorities. 12. L'estensione del diritto del lavoro. a) Tutela nel contratto e nel mercato del lavoro. b) Dal lavoro ai lavori. c) Diritto del lavoro e pubblico impiego. 13. Flessibilità delle tecniche giuridiche. a) Norma inderogabile. b) Controllo sindacale. c) Norma incentivante. d) Autonomia individuale. e) Soft law. □ Bibliografia.

1. Il paradosso della fine del lavoro e il cambiamento del diritto del lavoro

Nel passaggio dal XX al XXI secolo, alla svolta del millennio, non manca chi, specie tra i sociologi, arriva a profetizzare la 'fine del lavoro' e, dunque, del diritto del lavoro, quale insieme di regole (legali e convenzionali) che disciplinano il fenomeno del lavoro nella sua moderna complessità: dai rapporti individuali a quelli collettivi e sindacali, dai meccanismi del mercato del lavoro ai rischi esistenziali dei lavoratori durante e dopo la vita lavorativa. Partendo dall'idea secondo cui l'innovazione tecnologica (delle comunicazioni, dell'informatica, ecc.) determinerà la progressiva sostituzione del lavoro umano con macchine sempre più complete e perfette in quasi tutti i settori produttivi, si giunge a ipotizzare un "mondo senza lavoratori", tale da lanciare "la comunità mondiale nella Terza grande rivoluzione industriale" e nell'"era post-mercato" (v. Rifkin, 1995; tr. it., pp. 15-16).
Un'ipotesi del genere è paradossale: se non altro perché il superamento di un certo modo di lavorare non elimina la necessità del lavoro umano e non può, quindi, tradursi nella scomparsa dei milioni di persone che, nelle diverse attività produttive o nei servizi, rispondono a questa necessità, impiegando le proprie energie alle dipendenze (o, comunque, nell'interesse) di altri, allo scopo di ottenere in cambio non solo un reddito, ma anche identità, inclusione e promozione sociale. Tuttavia, quell'ipotesi fa riflettere su un fenomeno evidente: il rapido cambiamento della morfologia del lavoro, provocato dal cambiamento radicale dell'organizzazione economica e produttiva, in corso da una ventina d'anni (v. Accornero, 1994). Ovviamente, il cambiamento del lavoro produce il cambiamento del diritto del lavoro. Mutando modalità, quantità e qualità della prestazione d'opera, mutano pure le condizioni economico-sociali e giuridiche dello scambio tra lavoro e retribuzione: sia sul piano individuale, sia su quello collettivo. Un cambiamento epocale, come vedremo.

2. Specialità del diritto del lavoro e immutabilità del suo codice genetico

Per la verità, in Italia, il diritto del lavoro, nato dalla rivoluzione industriale (fine Ottocento-primi Novecento), ha conosciuto nell'arco di un secolo altri cambiamenti, analoghi se non eguali, dovuti all'intrinseca natura di ramo del diritto capace di registrare i fatti economico-politici e socio-antropologici legati all'uso delle energie lavorative, per temperare, e non vanificare, le istanze del sistema capitalistico del quale esso costituisce un effetto e, nello stesso tempo, uno strumento essenziale (v. Ascarelli, Norma..., e Ordinamento..., 1959).
La subalternità del diritto del lavoro (soprattutto) all'economia, se per un verso lo costringe a cambiare spesso 'pelle', a ridefinire i suoi confini, a rivedere costantemente le sue tecniche, per un altro verso ne rende immutabile la ratio naturale: proteggere chi, non possedendo altro che energie psico-fisiche, le offre a chi, potendo invece permettersi economicamente un'organizzazione produttiva o personale, domanda di 'comprare' o 'affittare' (secondo le concezioni dei giuristi di inizio Novecento) le medesime energie per utilizzarle a propri fini. È vero che, dal punto di vista giuridico, questo scambio avviene con un contratto, ma è vero pure che, nel contratto di lavoro, i soggetti contraenti solo formalmente sono eguali; sostanzialmente, invece, il lavoratore è, per definizione, contraente debole: se vuole lavorare, deve accettare le condizioni del datore di lavoro, il cui 'dispotismo contrattuale' nasce dal fatto che molte persone sono disposte a lavorare a quelle condizioni. Inoltre, a differenza degli altri rapporti obbligatori, nel rapporto che nasce dal contratto di lavoro come contratto di durata, anzitutto, sono implicati non soltanto valori economici, ma anche la persona del lavoratore, dato il carattere personale dell'adempimento, nel tempo, dell'obbligazione lavorativa; e, in secondo luogo, è il creditore a decidere - quasi momento per momento - la prestazione del debitore. Il lavoratore, infatti, è "legato da un vincolo che, fra tutti i vincoli di contenuto patrimoniale, è il solo a porre, sia pure per necessità istituzionale, un soggetto alle dipendenze di un altro soggetto" (v. Santoro Passarelli, 1985, p. 17). Questa specialità del rapporto (non a caso concepito, all'inizio, come locatio operarum) spiega la specialità del diritto del lavoro (v. Scognamiglio, 1960), caratterizzato dalla penetrante ingerenza della legge (e della contrattazione sindacale) nell'autonomia negoziale individuale. E spiega la compresenza, in esso, di modelli e logica sia del diritto privato, sia del diritto pubblico. Inoltre, siccome l'organizzazione produttiva richiede l'impiego di molti lavoratori, particolare rilievo assume la dimensione sociale del rapporto di lavoro: quanti, per vivere, sono legati da un rapporto di lavoro con un imprenditore, ben presto si coalizzano per rivendicare più denaro e più potere, sostituendo così alla debolezza del singolo la forza del gruppo. Dalla sintesi degli interessi individuali di un gruppo omogeneo nasce l'interesse collettivo, pietra angolare dell'organizzazione sindacale nelle sue varie articolazioni (di azienda, di mestiere, di categoria e confederale), la quale mira appunto a contrattare collettivamente con la controparte migliori condizioni di lavoro e di vita: se necessario, sostenendo le rivendicazioni con la lotta, anche aspra (sciopero, ecc.).
Con un fenomeno sociale di queste proporzioni devono fare i conti tutte le ideologie politiche del XX secolo. Ecco perché, storicamente, nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista (instauratore, dal 1926, dell'ordinamento corporativo) e poi, da questo, allo Stato sociale, fondato sulla Costituzione repubblicana del 1948 - frutto dell'intesa antifascista tra cattolici, comunisti, socialisti e liberali -, ciò che cambia, nel diritto del lavoro, è il segno, l'intensità o, se si vuole, la filosofia della tutela, ma resta inalterato, almeno in linea teorica, il suo codice genetico di ordinamento protettivo di quanti traggono dal lavoro i mezzi di sussistenza: insomma, un "diritto a misura d'uomo" (v. Romagnoli, 1995, p. 19). In tal senso il diritto del lavoro serve a tenere sotto controllo l'antica questione sociale, che cambia storicamente, ma continuamente si ripropone e costringe il legislatore a intervenire per motivi di ordine pubblico, per evitare, cioè, che le insopprimibili tensioni tra datori di lavoro e lavoratori in merito a una distribuzione equa (tra profitti e salari) della ricchezza prodotta sfocino in veri scontri sociali, sempre deleteri per la crescita economica e civile di una democrazia industriale.

3. Lo scenario del cambiamento

a) Innovazione tecnologica, trasformazioni economico-produttive e flessibilità
Le trasformazioni del diritto del lavoro negli ultimi vent'anni, oltre che alla crisi economica di fine anni settanta-primi anni ottanta - la quale ha reso predominanti, per le imprese, gli obiettivi della riduzione del costo del lavoro e dell'aumento della produttività - sono da imputare alla diffusione delle nuove tecnologie che hanno provocato ristrutturazioni e riconversioni aziendali senza precedenti. L'innovazione tecnologica, come è noto, incide pesantemente sulla prestazione di lavoro. Gli strumenti elettronici e informatici o si sostituiscono del tutto al lavoro umano, oppure, pur semplificando e velocizzando il processo produttivo, impongono ai lavoratori nuovi ritmi, sottoponendoli, per giunta, a nuovi e penetranti controlli che spesso ne compromettono la privacy. Di conseguenza, o i lavoratori vengono espulsi da tale processo, oppure la prestazione diviene meno faticosa in senso tradizionale e più faticosa in senso moderno, aprendo nuovi problemi di sicurezza del lavoro. In ogni caso, si verificano straordinari sommovimenti sociali: chi conserva il lavoro deve accettare ritmi e vincoli nuovi; chi lo perde deve riciclarsi per trovare altra occupazione, magari facendo, anziché l'operaio metalmeccanico, il maestro di tennis!
Ma la diffusione delle nuove tecnologie, per intuibili reazioni a catena, incide sul sistema economico anche in altri sensi. Col superamento dei confini geografici e delle barriere nazionali, essa rivoluziona i mercati di beni e servizi, ne favorisce la globalizzazione e provoca fusioni societarie, decentramenti produttivi, trasferimenti d'azienda ed esternalizzazioni, tutte iniziative capaci di fronteggiare - si ritiene - la spietata competizione mondiale tra imprese e, persino, tra sistemi produttivi nazionali. Non esistendo autorità sovranazionali e regole universali di governo della globalizzazione, sono le grandi società multinazionali, guidate dalla logica privatistica della convenienza, a dettare legge in materia, attraverso scelte economico-finanziarie che sconvolgono mercati e occupazione.
Si tratta infatti di scelte che, oltre ad accendere nuove conflittualità sociali da un capo all'altro della Terra (si pensi al fenomeno del movimento no global, ecc.), comportano di solito esuberi di manodopera, spesso professionalmente 'vecchia', e licenziamenti per riduzione di personale. Parallelamente, le migrazioni di proporzioni bibliche dall'Est e dal Sud del mondo verso l'Occidente consentono lo sfruttamento di ingenti masse di immigrati, disposti a fare qualunque lavoro (regolare o irregolare, e soprattutto i lavori umili) che i cittadini della società opulenta si rifiutano di fare, sebbene si tratti spesso di lavoratori espulsi dal sistema industriale in età matura e quindi incapaci di apprendere un nuovo mestiere per mantenersi attivi. Senza contare che, negli ultimi trent'anni, il mercato del lavoro ha visto, in tutti i settori, un incremento della presenza (non più irregolare) delle donne, grazie al cambiamento culturale di fine anni sessanta.
Si tratta di processi di enorme portata, che stanno generando vere e proprie mutazioni socio-antropologiche, con notevoli costi umani. Tra di essi, due meritano una particolare attenzione, se si vuol comprendere il cambiamento del lavoro e del diritto del lavoro. In primo luogo, la sostituzione della grande impresa taylorista-fordista con piccole unità produttive che utilizzano pochi addetti, spesso temporanei. In secondo luogo, la terziarizzazione dell'economia, con il conseguente spostamento dell'occupazione dall'industria ai servizi. Al centro di questi fenomeni sta l'esigenza di flessibilità del lavoro (mansioni, tempi e luogo della prestazione, ecc.), indispensabile al nuovo modo di produrre e di organizzare i servizi (dal commercio al terziario avanzato, ai servizi del tempo libero, ecc.).
Tutto ciò rivoluziona non solo modi e tempi di lavoro, ma anche stili di vita, fino a mettere in discussione i modelli culturali fondati sulla stabilità del lavoro in fabbrica. Tramonta la classica figura sociale del 'lavoratore' - maschio-capofamiglia, occupato a tempo pieno e indeterminato nell'industria privata, per lo più di dimensione medio-grande - da sempre tipica destinataria della tutela del diritto del lavoro (v. D'Antona, 1998), e con essa tramonta il diritto del lavoro nato nell'industria, mentre prendono forma nuove regole plasmate sulle esigenze produttive più diverse. Si apre così la 'stagione della flessibilità'.

b) Il ruolo del sindacato
Prima ancora che sulla politica del diritto del lavoro, la stagione della flessibilità ha pesanti effetti sul sistema dei rapporti sindacali, concepito in Italia, dagli anni sessanta in poi, come ordinamento autonomo rispetto all'ordinamento dello Stato (seppure con questo collegato). Tale concezione si basa su una lettura, realistica e avanzata, del 1° comma dell'art. 39 della Costituzione - secondo cui "l'organizzazione sindacale è libera" - e sulla mancata attuazione dei commi successivi al primo, nei quali si disegnava un meccanismo di riconoscimento statale dei sindacati, mediante registrazione di quelli 'democratici', e di rappresentanza unitaria proporzionale dei medesimi, per la stipulazione di contratti collettivi erga omnes (v. Giugni, 1960). La centralità del sistema sindacale autonomo, nel diritto del lavoro, costituisce un dato indiscusso (per il legislatore, per la dottrina e per la giurisprudenza) finché le maggiori Confederazioni sindacali (CGIL, CISL, UIL) riescono ad aggregare gli interessi collettivi di milioni di lavoratori delle grandi imprese industriali e delle grandi categorie operaie. Grazie all'omogeneità, di massima, degli interessi rappresentati, non è difficile l'identificazione dell'interesse del singolo lavoratore con un interesse collettivo ampio, che per tradizione il sindacato difende, seguendo soprattutto il paradigma degli operai dell'industria. Ma la scomparsa della grande fabbrica e della figura antropologica del lavoratore standard, nonché l'atomizzazione del lavoro fuori della fabbrica diversificano e frammentano gli interessi di chi lavora, rendendo assai difficile il compito di aggregarli. A questa difficoltà si aggiunge la comprensibile ritrosia dei lavoratori flessibili a iscriversi al sindacato, ritrosia dovuta alla diffidenza, alle discriminazioni e alle rappresaglie da parte dei datori di lavoro. Precarietà del lavoro e moltiplicazione di nuovi mestieri, gruppi e categorie professionali abbassano l'indice di sindacalizzazione, dando vita, però, a nuove conflittualità, tanto da far prevedere che in futuro più diversificato, diffuso e precario sarà il lavoro, più spontaneo, multiforme e incontrollabile sarà il conflitto. In altre parole, è difficile pensare che i modelli variabili di organizzazione del lavoro e di uso delle risorse umane - tra i quali il datore di lavoro può scegliere a suo piacimento, aggravando la solitudine e la debolezza contrattuale del lavoratore - non finiscano col rompere la coesione sociale cementata da eguaglianza e solidarietà, pilastri dell'esperienza collettiva del lavoro e dell'ordinata convivenza civile.
Logicamente, il superamento della grande impresa, la diffusione di piccole unità produttive (con pochi addetti e assenza sindacale), la terziarizzazione dell'economia e la gestione più flessibile di criteri e regole di scambio della forza-lavoro rendono ormai inutile o impraticabile il controllo sindacale dei poteri del datore nei luoghi di lavoro (previsto dallo Statuto dei lavoratori, legge 20 maggio 1970, n. 300, e plasmato sul ricordato modello di relazioni industriali nella grande impresa di quarant'anni fa), vera linfa del potere sindacale. Ciò mette in crisi quel congegno, tipico del diritto del lavoro (e fissato, appunto, nello Statuto), per cui tutela individuale e tutela collettiva dei lavoratori interagiscono in un sistema circolare: attraverso il potenziamento del sindacato, come contropotere nell'impresa, si arriva a rendere effettivo l'esercizio dei diritti individuali e, attraverso la garanzia legale dei diritti individuali dei lavoratori, specie del diritto alla stabilità reale del posto di lavoro (art. 18 dello Statuto), si rafforza l'attività sindacale nei luoghi di lavoro.
Ora la crisi del sindacalismo operaio fa vacillare lo storico ruolo sociale del sindacato (v. Cella, 1999, p. 111). In effetti esso vive oggi una crisi senza precedenti - e, secondo alcuni, addirittura irreversibile - anche a causa di vecchi nodi non risolti. Primo fra tutti il problema della rappresentanza sindacale (v. Rusciano, 2003, pp. 216 ss.), al quale il legislatore ha tentato di rispondere in un primo tempo, negli anni settanta, attraverso il ricorso alla figura del sindacato maggiormente rappresentativo, e poi, vista la crisi di tale criterio (culminata con l'abrogazione referendaria, nel 1995, della lettera a dell'art. 19 dello Statuto dei lavoratori), attraverso la recente introduzione della figura del sindacato comparativamente più rappresentativo. Tuttavia, queste figure sono adatte a fasi in cui la rappresentatività è indiscussa o abbastanza accettata dalla coscienza collettiva; ma quando è messa in dubbio la legittimazione stessa del sindacato, è giocoforza andare alla ricerca di nuovi criteri, tanto di aggregazione degli interessi collettivi, quanto di acquisizione e misurazione del consenso (democrazia sindacale). Non meraviglia, allora, che il sindacato stesso fatichi, oggi, a trovare la strada per farsi portatore di interessi più ampi, non solo tra i lavoratori occupati, ma anche tra quelli aspiranti a un'occupazione e persino tra i pensionati.
A queste figure standard vanno inoltre aggiunti i lavoratori flessibili, nonché quelli para-subordinati o coordinati e continuativi. Per questa via, il sindacato finirà col rappresentare l'istanza protettiva del "lavoratore in quanto cittadino" (v. Romagnoli, 2001, p. 818). Del resto, già da qualche tempo, esso si atteggia anche a erogatore di servizi (assistenza legale, fiscale, ecc.). Questa penetrazione sindacale nel nuovo mondo del lavoro non scioglie di per sé i nodi della rappresentatività e della democrazia sindacale, per risolvere i quali occorre un (non facile) intervento legislativo, da tempo atteso. Perciò lascia perplessi la strada del tutto diversa, imboccata dal legislatore con la legge 14 febbraio 2003, n. 30, e con il relativo decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276: che, senza nulla stabilire circa i criteri di misurazione della rappresentatività e di sostegno della democrazia sindacale, assegnano comunque al sindacato nuove funzioni istituzionali, le quali richederebbero, invece, proprio la fissazione di codesti criteri. E infatti, prevedere la partecipazione 'insieme' alla contrapposta rappresentanza datoriale, a 'enti' od 'organismi bilaterali' - con compiti di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, di formazione, di certificazione del tipo di rapporto di lavoro e di attestazione dell'esercizio, da parte del lavoratore, del potere dispositivo dei propri diritti, ecc. - significa affidare al sindacato funzioni parapubbliche. Le quali, oltre a essere estranee al nostro attuale sistema (evocando, anzi, la passata esperienza corporativa), trovano il sindacato medesimo non attrezzato giuridicamente. In realtà, per essere esercitate con efficacia, tali funzioni esigono appunto certezza giuridica sulla rappresentatività e sulla democrazia sindacale.

c) Dalla ' contrattazione' alla 'concertazione'
L'inserzione del sindacato in un ente bilaterale, con funzioni parapubbliche, esprime bene la metamorfosi e la confusione della rappresentanza degli interessi generate dalle trasformazioni del lavoro. La stessa inserzione, peraltro, è coerente con una stagione politica incline a ridisegnare il ruolo del sindacato, alterandone l'identità: nell'ente bilaterale, l'alterità delle posizioni rappresentative dei contrapposti interessi si smarrisce nella forzosa ricerca di posizioni comuni. Insomma, le difficoltà, per il sindacato, di svolgere il ruolo genuino di rappresentante degli interessi collettivi omogenei dei lavoratori (di una categoria, di un'impresa), secondo il modello della partecipazione conflittuale, lo caricano, per uno strano gioco di compensazione, di ruoli nuovi, per lo più istituzionali: da quello di semplice interlocutore dei pubblici poteri a quello di gestore di funzioni, nell'ente bilaterale. E difatti nell'ultimo decennio, mentre prende corpo, come vedremo, una tendenza legislativa a investire di nuove funzioni la contrattazione collettiva, si diffonde pure il metodo della concertazione sociale: i pubblici poteri mirano ad acquisire consenso sulle impopolari decisioni di politica economica, con il coinvolgimento responsabilizzante del sindacato e delle associazioni imprenditoriali. Il cosiddetto 'modello neocorporativo' si comincia ad affermare proprio con la conclusione di grandi accordi triangolari (per lo scambio politico-economico tra governo, imprenditori e sindacati), i cui contenuti influenzano poi legislazione e contrattazione.
Negli accordi di concertazione dell'ultimo decennio (il Protocollo sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo, del 23 luglio 1993; l'Accordo per il lavoro, del 24 settembre 1996; il Patto sociale per lo sviluppo e l'occupazione, del 22 dicembre 1998, il cosiddetto 'Patto di Natale'; il Patto per l'Italia - Contratto per il lavoro, del 5 luglio 2002) temi cruciali, come la politica dei redditi e di contenimento dell'inflazione, si intrecciano con nuovi obiettivi e priorità: dalla politica della spesa pubblica e dell'occupazione, alla riforma del mercato del lavoro (e, più in generale, del Welfare State), dalla previsione di assetti della contrattazione collettiva (con una precisa distinzione di competenze tra contrattazione nazionale e decentrata), sino alla formalizzazione delle procedure della stessa concertazione (nel 'Patto di Natale' del 1998). Alla fine degli anni ottanta e negli anni novanta, poi, la concertazione, oltre che a livello 'macro' (di sistema economico), si è sviluppata a livello 'meso' (di categoria) e 'micro' (di impresa), dando vita sia a una contrattazione aziendale, orientata alla partecipazione dei lavoratori, sia a una nuova contrattazione territoriale, che si traduce nei patti territoriali e nei contratti d'area.
Il modello neocorporativo, se mantenuto entro confini sorvegliabili, ha dei vantaggi: basta ricordare che, senza gli accordi del 1992-1993 tra governo e parti sociali, l'Italia non avrebbe raggiunto una situazione economica compatibile con i parametri di Maastricht per la realizzazione dell'unità monetaria europea. Ma con questo modello, mentre si rafforza il sindacato-istituzione, fatalmente si indebolisce il sindacato-movimento: lo squilibrio tra queste due anime, specie in una stagione politica che presenta i tratti prima richiamati, è socialmente nefasto, perché accentua sia l'antagonismo sociale di aggregazioni spontanee o extrasindacali (Cobas, Rappresentanze di base, ecc.), sia i conflitti endosindacali, fino a spaccare l'interesse dei lavoratori: un tempo divisi da ragioni ideologiche, oggi divisi da un bipolarismo politico all'italiana, non privo di contraddizioni (si veda il Patto per l'Italia del 5 luglio 2002, firmato dalla CISL e dalla UIL e contestato duramente dalla CGIL).

4. Terziarizzazione del conflitto e limiti allo sciopero nei servizi essenziali

La terziarizzazione dell'economia, di cui si è detto, comporta la terziarizzazione del conflitto sociale: l'asse del conflitto si sposta dall'industria ai servizi. Qui la frammentazione degli interessi collettivi è vistosa: fioriscono più sindacati autonomi, di taglio corporativo, magari con pochi iscritti, ma con grande potere vulnerante, dato il tipo di organizzazione del lavoro. Ora, quando il conflitto tocca servizi pubblici essenziali, dove l'utenza è più vulnerabile, oltre che inerme, la necessità di tutelare l'interesse generale diviene ineludibile (v. Treu, 2001, p. 221). Fallito il tentativo delle Confederazioni sindacali, vent'anni fa, di raggiungere, con l'autoregolamentazione, l'ambizioso obiettivo di contemperare diritto di sciopero (ex art. 40 Cost.) e diritti dei cittadini costituzionalmente tutelati, è intervenuta la legge 12 giugno 1990, n. 146 (in parte modificata dalla legge 11 aprile 2000, n. 83). Una normativa di grande rilievo politico-sindacale e tecnico-giuridico: in essa si sceglie un meccanismo di regolazione adeguato alla complessità e delicatezza del fenomeno da regolare e all'esigenza di rispetto concreto delle regole. Quelle legali sono ridotte al minimo (preavviso di sciopero, comunicazione della durata, delle modalità di attuazione e delle motivazioni), mentre il compito più importante, cioè l'individuazione delle prestazioni indispensabili in caso di sciopero, è affidato alla contrattazione (ai cosiddetti 'accordi sulle prestazioni indispensabili'), la quale, riferendosi a specifiche realtà organizzative, produce regole diversificate (per settore, azienda, ente, categoria) aderenti al contesto e accettate dai destinatari. Completa il meccanismo regolativo l'istituzione di un'apposita Commissione di garanzia dell'attuazione della legge, cui spetta valutare l'idoneità degli accordi, dettare una provvisoria regolamentazione (quando mancano gli accordi), segnalare all'autorità amministrativa le misure necessarie, da adottare con apposita ordinanza (la vecchia precettazione), per evitare "un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati" (art. 8, l. 146), e infine comminare sanzioni, collettive e individuali, in caso di violazione delle regole.

5. Europeismo e regionalismo nel diritto del lavoro

Sul diritto del lavoro degli ultimi anni hanno inciso anche i cambiamenti del quadro politico-istituzionale, dovuti alla parallela crescita, nella vita economica e sociale, della dimensione europea e della dimensione locale (tendenze solo apparentemente contrastanti, perché l'ampliamento dei confini geografici accresce, nelle persone, tanto l'aprirsi al mondo, quanto il rinchiudersi nei confini della propria realtà territoriale). Da una parte, dunque, il processo di integrazione comunitaria (culminato a Maastricht, nel 1992, con l'istituzione dell'Unione Europea, e rafforzatosi ad Amsterdam, nel 1997, e a Nizza, nel 2000) comporta l'apertura delle frontiere del diritto del lavoro, non potendo certo esso restare, nell'era della globalizzazione, un diritto esclusivamente nazionale, chiuso entro i confini dello Stato. Dall'altra parte, il progressivo affermarsi, a livello nazionale, della cultura del federalismo - basata sull'idea che lo sviluppo economico e sociale deve contare prevalentemente sulle risorse (economiche, umane) delle comunità locali ed essere gestito dai poteri locali - fa sempre più sentire, negli ultimi anni, l'esigenza di una maggiore rilevanza delle realtà territoriali anche nel diritto del lavoro.
L'istanza di federalismo trova il suo sbocco politico-istituzionale nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che riforma, in modo tecnicamente criticabile, il titolo V, parte II, della Costituzione nel duplice senso: a) di realizzare un nuovo e paritario riparto di competenze legislative tra Stato e Regione, attribuendo a quest'ultima un'ampia potestà legislativa, nonché la potestà regolamentare (art. 117); b) di costituzionalizzare il 'principio di sussidiarietà' (art. 118), con l'ampliamento delle funzioni amministrative di Regioni ed Enti locali (il cosiddetto 'federalismo amministrativo'; v. Mariucci, 2001). La Regione assume una posizione centrale nel nuovo assetto istituzionale, con ripercussioni sulle fonti del diritto, anche del lavoro, e col rischio di aumentare, anziché ridurre, antichi divari territoriali.

6. L'evoluzione del sistema delle fonti

I mutamenti del quadro istituzionale si ripercuotono sulle fonti del diritto, sebbene il diritto del lavoro ne risenta meno, in quanto in esso, accanto alle fonti in senso formale (Costituzione, legge, normativa subprimaria), hanno da sempre notevole peso le fonti in senso materiale: dalle prassi sindacali di partecipazione e concertazione - al centro delle quali si collocano contratti collettivi e accordi sindacali - alla giurisprudenza. A dire il vero, nell'ultimo ventennio, pure i metodi e i contenuti delle fonti in senso materiale vengono messi a dura prova dalle trasformazioni del lavoro e dalla frammentazione degli interessi che ne deriva, perché si reggono proprio sulla coesione e su un certo stabile equilibrio degli interessi. Ciò rende complicate tanto la contrattazione, quanto le decisioni giurisprudenziali, condizionate dalla realtà economico-produttiva, ma nello stesso tempo tese a incidere, a loro volta, su tale realtà, onde evitarne pericolose distorsioni sociali. Sta di fatto che, in un contesto del genere, l'operazione non è semplice, sebbene soltanto la contrattazione e la giurisprudenza possano davvero ricondurre a sistema armonico tante regole, originate dall'intreccio di atti formali e comportamenti materiali. Specie in tempi critici, il piano formale prevale, benché talmente affastellato (per il moltiplicarsi di 'atti', 'fatti' e 'livelli' di formazione delle regole) da mettere in difficoltà gli interpreti e gli operatori più esperti. A ogni modo, può dirsi che oggi, alla stregua dell'intera produzione giuridica (formale e materiale), il diritto del lavoro si presenti a tre dimensioni: europea, regionale e nazionale (che resta comunque la più consistente).

7. Unione Europea e diritto del lavoro

Nella produzione giuridica sul lavoro è penetrata una logica europea, in virtù dei condizionamenti dell'Unione Europea, a partire dai contenuti dello stesso Trattato istitutivo della Comunità Europea, nella versione modificata dei Trattati di Maastricht, nel 1992, di Amsterdam, nel 1997, e di Nizza, nel 2000 (come, per esempio, la compatibilità delle regole nazionali sul lavoro col diritto comunitario della concorrenza: in proposito, v. Sciarra, 2000). Condizionamenti che aumenteranno (assieme alle difficoltà politiche) con l'allargamento dell'Unione ai paesi che attendono di farne parte e che hanno ordinamenti diversi, oltre ad avere differenti caratteristiche socio-antropologiche ed economiche e, in genere, più bassi standard di tutela del lavoro (retribuzioni, ecc.). Ma, già oggi, il diritto del lavoro deve adeguarsi ai minimi di tutela, dettati dalle direttive comunitarie - sempre più numerose negli ultimi anni, e riguardanti una varietà crescente di profili del rapporto e del mercato del lavoro (per esempio: pari opportunità, congedi parentali, sicurezza nei luoghi di lavoro, trasferimenti d'azienda, rapporti flessibili, ecc.) -, per le quali esiste, per gli Stati membri, l'obbligo di trasposizione negli ordinamenti interni.
Questa influenza del diritto comunitario sul diritto del lavoro nazionale, iniziata nella seconda metà degli anni settanta - in coincidenza con una maggiore sensibilità della Comunità per la tutela del lavoro nelle crisi economiche e ristrutturazioni industriali - si è intensificata negli ultimi anni, con l'apertura dell'Unione Europea alla politica sociale, realizzatasi dapprima col Protocollo sociale allegato al Trattato di Maastricht del 1992, e in seguito con le modifiche al Trattato istitutivo della CE, contenute nel Trattato di Amsterdam del 1997 e nel Trattato di Nizza del 2000 (v. Roccella e Treu, 2002). Ormai l'influenza comunitaria sugli ordinamenti nazionali (che, come vedremo, riguarda contenuti e tecniche giuridiche) si può considerare diffusa, sebbene talora politicamente strumentalizzata: non più solo circoscritta, cioè, al rispetto di regole e limiti, posti da fonti vincolanti, ma esercitata, da una parte, mediante la stessa azione comunitaria - che spesso è accompagnata dalla predisposizione di atti e documenti di varia origine ed efficacia (raccomandazioni, libri bianchi, ecc.) - e, dall'altra, mediante la promozione del cosiddetto 'dialogo sociale europeo', considerato uno strumento privilegiato con cui perseguire l'equilibrio di interessi richiesto per contemperare competitività e socialità a livello comunitario (v. Treu, 2001, p. 91). Del resto, l'unica controindicazione all'adeguamento al diritto comunitario del diritto nazionale - l'eventuale abbassamento del livello delle tutele previste da quest'ultimo - viene evitata mediante il 'principio di non regresso' (inserito nelle direttive sociali), per cui il diritto nazionale prevale, in tal caso, su quello comunitario.

8. Il policentrismo normativo: regionalizzazione e delegificazione

Nell'ordinamento interno del lavoro, il cosiddetto 'policentrismo normativo' prende forma insieme all'affermarsi del livello europeo della produzione di regole e all'esigenza di una nuova distribuzione del carico legislativo tra i livelli nazionale e regionale: distribuzione che modifica il tipico tratto statuale e nazionale del diritto del lavoro, per effetto della non felice riforma del titolo V della Costituzione. Ma, sforzandosi di guardare in positivo tale riforma, la valorizzazione del livello regionale può offrire l'opportunità di un avvicinamento di alcuni aspetti del diritto del lavoro alle realtà economico-sociali dei diversi territori, cosa che in precedenza avveniva soltanto attraverso la contrattazione locale (patti territoriali, contratti d'area, ecc.), oppure attraverso la devoluzione alle Regioni di potere normativo attuativo e tramite il decentramento di funzioni e compiti amministrativi.
Sia chiaro: il nucleo duro del diritto del lavoro - vale a dire la disciplina del contratto individuale e le garanzie minime di tutela del lavoro - continua a essere di competenza 'esclusiva' del legislatore nazionale (facendo parte dell'"ordinamento civile" e dei "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale": così, testualmente, l'art. 117, comma 2, lett. l ed m della Costituzione), mentre le Regioni acquistano competenza legislativa 'concorrente' in talune materie, riconducibili ai profili amministrativi della "tutela e sicurezza del lavoro" (v. Rusciano, 2001), e competenza 'esclusiva' per altre (come, per esempio, la formazione).
Il nuovo ruolo che si va delineando per le Regioni in materia di lavoro, se da un lato, come già detto, consente di dar vita a discipline più rispondenti a specifiche esigenze territoriali, dall'altro comporta qualche rischio: quello, in particolare, di una 'balcanizzazione' del diritto del lavoro, risultante da talune letture troppo audaci e disinvolte del principio di sussidiarietà, le quali conducono alla disuguaglianza regionale eletta a sistema (a discapito delle regioni meridionali), che può risultare assai insidiosa per la coesione sociale e, in ultima analisi, per gli stessi interessi economici nazionali.
Oltre che della spinta verso la regionalizzazione, il policentrismo normativo è conseguenza della tendenza alla delegificazione, all'attribuzione cioè, da parte del legislatore, del potere di regolare materie prima disciplinate dalla legge a fonti subprimarie (i regolamenti 'autorizzati' o 'di delegificazione'). È vero che gli obiettivi di questo processo - diversificazione, semplificazione e snellezza normativa - sono apprezzabili sul piano della tecnica legislativa in generale, e quindi anche per il diritto del lavoro, ma è altrettanto vero che il medesimo processo contiene il germe della frammentazione, assai pericoloso per un ordinamento che voglia garantire un certo livello di eguaglianza sostanziale, solidarietà e pace sociale, in un delicato equilibrio di interessi e valori.

9. Nuove funzioni del contratto collettivo

Quando si parla di delegificazione, nel diritto del lavoro, si allude anche all'attribuzione di potere normativo ai contratti collettivi. Questo metodo, nella sua versione moderna, viene utilizzato a cavallo degli anni settanta e ottanta e si afferma pienamente nella seconda metà degli anni ottanta e negli anni novanta, come conseguenza sia dei cambiamenti economici, organizzativi e produttivi - che richiedono discipline concordate e differenziate, secondo le diverse situazioni concrete -, sia della valorizzazione di principio degli accordi sindacali a opera della legislazione promozionale degli anni settanta (in primis, dello Statuto dei lavoratori). E così, sempre più spesso il legislatore, invece di intervenire direttamente in una materia, delega agli accordi sindacali la funzione di attuare, integrare o sostituire la normativa di determinati istituti, per lo più in tema di mercato del lavoro e di gestione delle crisi aziendali, talora riconoscendo al contratto collettivo la facoltà di introdurre discipline peggiorative rispetto a quelle di legge. Tale orientamento nasce, per un verso, dalla necessità di coinvolgere il sindacato nell'adozione di misure forse vantaggiose per l'economia, ma non vantaggiose, almeno nell'immediato, per i singoli lavoratori (v. Mengoni, 1988, p. 25), e, per altro verso, dalla natura della contrattazione collettiva, che oltre a costituire il luogo naturale del contemperamento delle esigenze dell'impresa e di quelle dei lavoratori, riesce anche a soddisfare il bisogno di elasticità e di adattamento delle regole alle diverse situazioni particolari.
Il contratto collettivo, da strumento di autoregolazione degli interessi delle contrapposte parti sociali, nato per svolgere la funzione normativo-acquisitiva, assume allora anche nuove funzioni (v. Persiani, 1999): da quella definita 'di autorizzazione', che concede alle parti individuali di scegliere un tipo contrattuale flessibile (per esempio, art. 23, legge 28 febbraio 1987, n. 56, sul contratto a termine; legge 24 giugno 1997, n. 196, sul lavoro interinale; legge 18 dicembre 1984, n. 863, e decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, sul part time), a quella chiamata 'gestionale' o 'ablativa', per la gestione di crisi e ristrutturazioni aziendali che hanno inevitabili ricadute occupazionali (per esempio, il contratto di solidarietà difensivo, ex art. 1, legge 863 del 1984; gli accordi sindacali sui criteri di scelta dei lavoratori da licenziare collettivamente, ex art. 5, comma 1, legge 23 luglio 1991, n. 223); dalla funzione di individuare le prestazioni indispensabili in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali (legge 12 giugno 1990, n. 146), a quella relativa alla disciplina del lavoro nelle pubbliche amministrazioni (decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165); a quella, infine, più recente e assai importante, di attuazione delle direttive comunitarie (ex art. 137, par. 3, del Trattato CE in precedenza citato).
Il moltiplicarsi delle funzioni del contratto collettivo conferma la rilevanza, nel diritto del lavoro, del ruolo svolto dalla fonte extrastatuale autonoma, accanto alle classiche fonti eteronome. In molti casi, il contratto collettivo viene a essere lo strumento tecnico-giuridico di acquisizione del consenso a politiche legislative che avrebbero avuto difficoltà a realizzarsi compiutamente nella sola dimensione eteronoma, al di fuori cioè della tipica espressione dell'autonomia sociale. In queste ipotesi, però, è evidente che la cura degli interessi pubblici (o, se si vuole, il perseguimento dell'interesse generale, richiesto alla contrattazione) comporta inevitabilmente la riduzione, da parte del legislatore, degli spazi di tale autonomia, che appare così vincolata nei fini. La contrattazione, indirizzata dalla legge nello svolgimento dei compiti regolativi a essa delegati, non di rado viene, per così dire, funzionalizzata: emblematico l'esempio del contratto collettivo del pubblico impiego ex decreto legislativo 165 del 2001 (v. Rusciano, 2003) o quello degli accordi sulle prestazioni indispensabili ex legge 146 del 1990.
È appena il caso di notare, a questo proposito, che l'arricchimento dei contenuti e delle funzioni del contratto collettivo non è privo di paradossi: oltre a quello, già segnalato, di sottolineare il ruolo istituzionale del sindacato, va ricordato il paradosso della sproporzione tra il ruolo sostanziale di fonte giuridica del contratto collettivo e la sua natura privatistica, che molti si ostinano a qualificare 'di diritto comune' perché in alcuni casi ha un'efficacia limitata ai soli aderenti alle associazioni stipulanti. Infine, va segnalato il paradosso dell'inadeguatezza delle soluzioni di volta in volta adottate provvisoriamente dal legislatore, mentre si avverte sempre più la necessità di individuare criteri certi di legittimazione dei soggetti sindacali, al fine di evitare, per esempio, che l'intensificarsi della contrattazione gestionale (ablativa) mini alla base la funzione di rappresentanza del sindacato, quando i lavoratori si oppongono, in sede giudiziaria, alle previsioni contrattuali derogatorie o peggiorative dei preesistenti standard di trattamento.

10. Il primato della Costituzione a difesa dei diritti fondamentali dei lavoratori

Il rischio che la moltiplicazione e diversificazione dei livelli di produzione normativa - sommati alla precarizzazione del lavoro e a qualche cedimento sindacale - conducano alla dispersione, se non alla perdita, delle principali garanzie dei lavoratori viene comunque scongiurato dal primato della Costituzione, che, essendo 'rigida', occupa formalmente il vertice nella gerarchia delle fonti statuali e impone il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori, espressamente sanciti. Il lavoro occupa un posto centrale nella Costituzione italiana del 1948: è elevato a fondamento stesso della Repubblica democratica (art. 1) e sancito come diritto-dovere del cittadino (art. 4), in un quadro di solidarietà sociale (art. 2) e di eguaglianza formale e sostanziale (art. 3). Nel titolo III della parte I della Costituzione, dedicato ai "Rapporti economici" - che si apre con la solenne affermazione della tutela del lavoro "in tutte le sue forme e applicazioni" (art. 35) -, sono previste le principali situazioni giuridiche (individuali, collettive e sindacali) relative ai lavoratori: dal diritto all'equo trattamento economico e normativo (art. 36: su retribuzione, orario di lavoro, riposo settimanale e ferie) al diritto alla parità tra lavoratori e lavoratrici (art. 37, comma 1); dalla tutela del lavoro dei minori e dei disabili (artt. 37, comma 3, e 38, comma 3) ai diritti di sicurezza sociale (art. 38, commi 1 e 2) e alla formazione professionale (art. 35, comma 2); dal diritto di organizzazione sindacale e di sciopero (artt. 39 e 40) al diritto di partecipazione dei lavoratori alle politiche aziendali (art. 46), fino all'ipotesi che a "comunità di lavoratori" venga affidata la gestione di imprese (di "servizi pubblici essenziali", di "fonti di energia" o in "situazioni di monopolio") con "carattere di preminente interesse generale" (art. 43). In ciò la Costituzione italiana - pur in una rilettura moderna, adatta alle trasformazioni del quadro strutturale - si pone all'avanguardia tra le Costituzioni europee, con un modello originale di economia sociale di mercato la cui filosofia è racchiusa nell'art. 41, là dove viene sancita la libertà di iniziativa economica privata, precisando però che essa "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana".
La modernità del dato costituzionale trova riscontro nell'ordinamento comunitario, che tende a una tutela forte (rectius, di tipo costituzionale) dei diritti sociali. Dopo importanti decisioni, in materia, della Corte di Giustizia, si è giunti all'emanazione, nel dicembre 2000, di una Carta dei diritti fondamentali dell'UE: in vista della Costituzione dell'Unione, tra i diritti fondamentali dei cittadini europei hanno trovato grande spazio i diritti del lavoro, sempre più riconducibili ai diritti di cittadinanza (v. Ballestrero, 2000).

11. Il ruolo della giurisprudenza: giudici, arbitri e Authorities

Nel diritto del lavoro, un ruolo importante, spesso 'creativo', viene da sempre svolto dalla giurisprudenza, annoverata ormai comunemente tra le fonti extralegislative. È sufficiente ritornare alle radici della disciplina e riflettere sul ruolo decisivo dell'esperienza dei 'Collegi dei probiviri', che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, hanno prodotto principî e regole (non solo sui rapporti individuali di lavoro, ma anche sulle nascenti relazioni sindacali e sulle prime forme di contrattazione collettiva) che sono stati poi in gran parte recepiti nella successiva legislazione e, infine, nel Codice civile del 1942. Anche in seguito, la giurisprudenza, soprattutto con la sua interpretazione evolutiva, spesso anticipa linee poi accolte dalla legge o dalla contrattazione, talvolta esercitando una sorta di supplenza di un legislatore inerte o di un sistema sindacale non maturo. L'attività interpretativo-creativa dei giudici risulta preziosa anche perché soddisfa l'esigenza di una produzione di regole aderenti alla realtà dei rapporti sociali. Basti dire che vi sono addirittura intere aree della materia rimaste per molto tempo regolate esclusivamente dalla giurisprudenza, la quale viene perciò considerata una delle sedi parallele di produzione del diritto del lavoro, sebbene nel sistema italiano (non basato sulla common law, e quindi sul valore vincolante del precedente) essa non sia stricto iure fonte del diritto e al giudice spetti soltanto il compito di interpretare e applicare la norma.
Ciò nonostante, il diritto giurisprudenziale ha accompagnato le metamorfosi del lavoro anche negli ultimi vent'anni e tuttora continua a svolgere una funzione determinante nella produzione delle regole: o perché lo stesso legislatore, in una determinata materia, formula norme in bianco e/o norme elastiche che solo il giudice può completare, valutando il caso concreto (dall'individuazione del lavoro subordinato, alla precisa distinzione concettuale tra 'giusta causa' e 'giustificato motivo' di licenziamento, dalla nozione di 'condotta antisindacale' al requisito delle 'ragioni produttive' per stipulare contratti a termine, ecc.), ovvero perché la stessa giurisprudenza individua l'utilizzo innovativo di strumenti processuali (quale, per esempio, l'art. 700 del Codice di procedura civile) capaci di ripristinare con urgenza i diritti del lavoratore, nel fondato timore di un loro grave e irreparabile pregiudizio.
Non c'è da meravigliarsi che, in una società complessa, conflittuale e caratterizzata dalla segmentazione degli interessi, cresca il ruolo del giudice. In fondo è inevitabile - benché in astratto sia auspicabile il contrario - che tanto le parti sociali quanto il legislatore tendano a rimettere al giudice la soluzione di molteplici nodi giuridici; questi ultimi, infatti, non possono essere sciolti in sede di contrattazione oppure tramite lo strumento legislativo a causa del carattere spesso compromissorio - e, perciò, equivoco e contraddittorio - delle regole (contrattuali o legali) e, più in generale, a causa della difficoltà di emanare norme che contemplino una vastissima varietà di ipotesi e situazioni. D'altronde questo problema, se nel diritto del lavoro è eclatante, non è sconosciuto agli altri rami dell'ordinamento: la complessità della 'società postindustriale' richiede la presenza di sedi e di soggetti, più o meno istituzionali, preposti alla composizione dei conflitti, soprattutto collettivi, in grado di dettare regole certe, condivise e accettate perché vicine alla realtà da regolare. Perciò, oltre che quella dei giudici, cresce l'importanza (sebbene discussa) sia dei 'Collegi di conciliazione e di arbitrato', sia delle Authorities, che toccano pure i lavoratori, o direttamente, come la Commissione di garanzia della legge sullo sciopero, o indirettamente, come il Garante della privacy e l'Antitrust (v. Rusciano, Utenti senza..., 1996, p. 73). Sorprende, piuttosto, che a tale importanza legislatore e governo non abbiano adeguato, in proporzione, l'organizzazione della giustizia, le cui disfunzioni finiscono per vanificare il riconoscimento formale delle garanzie dei lavoratori, contenute nelle norme elastiche di origine legale o contrattuale, e la particolare tutela processuale, introdotta con la legge 533 del 1973 sul processo del lavoro. Ma questo problema riguarda ormai tutti i cittadini, fino a investire la stessa tenuta dello Stato di diritto.

12. L'estensione del diritto del lavoro

a) Tutela nel contratto e nel mercato del lavoro
Le metamorfosi del lavoro, oltre a incidere sul sistema delle fonti, ampliano i confini del diritto del lavoro. Va sottolineato anzitutto che, di fronte ai problemi pressanti della disoccupazione, specie nel settore dell'industria - problemi derivanti dalle trasformazioni produttive e dalla crisi economica della seconda metà degli anni settanta, più volte ricordate -, l'obiettivo primario degli anni ottanta e novanta, non solo a livello nazionale ma anche in ambito comunitario, è stato quello di incrementare, o almeno mantenere, i livelli occupazionali. Un obiettivo che permane e che anzi, in Italia, è quanto mai attuale a seguito della crisi, per esempio, di un settore trainante come quello automobilistico (e del suo indotto) e dei connessi rischi di un lento ma inesorabile declino del sistema industriale nazionale. Ciò significa che il diritto del lavoro, nato per la tutela del contraente debole circoscritta al rapporto di lavoro, estende il suo raggio d'azione al mercato del lavoro, ampliando così la sfera dei destinatari della tutela: il prototipo di essi non è più solo il lavoratore occupato, ma anche chi aspira a un'occupazione, in quanto è 'non ancora' o 'non più' occupato. Il punto di partenza di siffatto processo sta nell'acquisita consapevolezza che il contratto di lavoro, diversamente dagli altri contratti, si costituisce, si modifica e si estingue dentro una ben definita (benché ampia) struttura economico-sociale, appunto il mercato del lavoro, che risente dell'andamento del ciclo economico. Non si può allora trascurare che la persona umana è direttamente implicata anche in tale struttura: prima dell'instaurazione o dopo l'estinzione di un rapporto di lavoro. Sicché l'esigenza di tutela di quanti non sono ancora lavoratori dipendenti, o non lo sono più e aspirano perciò a un'occupazione, è pressante né più né meno di quella di coloro che hanno un rapporto di lavoro. Anzi, forse è maggiore, perché la posizione dei primi è certamente più debole.
Il diritto del lavoro, dunque, va configurandosi come un insieme di regole volte a correggere non solo il dispotismo contrattuale del singolo datore, ma anche la manifestazione totalmente libera e spontanea delle forze e degli interessi nel mercato del lavoro, al fine di evitare quelle distorsioni sociali che possono derivare dal perenne e naturale squilibrio tra domanda e offerta. Peraltro, questa nuova funzione trova pur sempre titolo nel codice genetico del diritto del lavoro: se esso, per principio, tende alla tutela del lavoratore, è naturale che consideri quest'ultimo non solo quale contraente debole, ma anche quale persona economicamente subalterna e socialmente sottoprotetta. E non c'è bisogno di dire che tali condizioni sono, di solito, due facce della stessa medaglia.
La legislazione sul mercato del lavoro degli ultimi vent'anni - dopo una fase iniziale in cui, a causa delle congiunture economiche, ha assunto i caratteri di una legislazione dell'emergenza e, in seguito, di una legislazione della crisi - si pone l'obiettivo di rendere le regole del lavoro rispondenti alle nuove e mutevoli esigenze dell'organizzazione dell'azienda, in una logica di contemperamento tra esigenze protettive ed esigenze produttive, supponendo che una maggiore attenzione a queste ultime incentivi gli investimenti delle imprese e, in tal modo, crei nuove occasioni di lavoro. È questa la ratio della legislazione sulla flessibilità, che cerca di rispondere alla domanda delle imprese di rendere flessibili i rapporti e le condizioni di lavoro (v. Treu, 2001, p. 25). In tale legislazione rientra, da una parte, la disciplina dei rapporti di lavoro 'flessibili' o 'atipici' (part time, lavoro a termine, lavoro interinale, lavoro 'a chiamata', lavoro occasionale e accessorio, job sharing, apprendistato, contratti 'formativi', ecc.), i quali si discostano dai canoni del rapporto di lavoro 'tipico' o standard, a tempo pieno e indeterminato (la 'flessibilità in entrata'); da un'altra parte, la previsione di tutele del lavoro dipendente, ridotte e differenziate a seconda delle diverse realtà organizzative e delle caratteristiche concrete del lavoro (per esempio, l'allentamento dei vincoli e limiti all'estinzione del rapporto di lavoro consente, a volte, maggiore flessibilità in uscita, come nel caso del superamento della "reintegrazione nel posto di lavoro", di cui all'art. 18, legge 300 del 1970: sull'argomento, v. Accornero, 1999; v. Napoli, 2002).
Accanto all'obiettivo della flessibilità, la legislazione sul mercato del lavoro si pone quello del potenziamento degli strumenti per favorire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, adatti cioè a creare nuove occasioni e opportunità d'impiego. Viene anzitutto privatizzato, oltre che decentrato, il vecchio collocamento, facendone un servizio non burocratico, con l'apporto anche delle società fornitrici di lavoro interinale (legge n. 196 del 1997), oggi superate in seguito al decreto legislativo n. 276 del 2003, che ha istituito varie 'Agenzie per il lavoro' (art. 4) e ha, in particolare, introdotto la cosiddetta 'somministrazione di lavoro' (alla quale è dedicato l'intero titolo III). Si tenta inoltre di realizzare, negli interventi sull'occupazione, l'integrazione tra servizi per l'impiego, politiche attive del lavoro e politiche formative, con una particolare attenzione al ruolo della formazione professionale, da intendere come formazione continua e permanente, capace di rimettere sul mercato del lavoro soggetti espulsi per l'obsolescenza della loro professionalità. Un'esigenza, in Italia, sempre trascurata, ma sempre più sentita, date le ricorrenti riconversioni produttive, le quali, per la maggior parte dei lavoratori, rendono illusoria l'idea di fare lo stesso lavoro per tutta la vita e li costringono a imparare mestieri diversi, in archi temporali più o meno definiti.
È evidente che tali misure tendono a valorizzare, almeno in teoria, le caratteristiche peculiari delle differenti realtà territoriali, dovendosi sempre più tener conto dei vari mercati del lavoro, alimentati da risorse (umane e finanziarie) locali, con interventi differenziati di politica attiva del lavoro, molti dei quali di competenza, ovviamente, delle Regioni e degli Enti locali. Così, per esempio, la crisi dell'automobile nell'area torinese spinge a ipotizzare l'utilizzazione, nella stessa area, in agricoltura o nell'agroalimentare (settori anch'essi modernizzati dalle nuove tecnologie), degli operai espulsi dal settore automobilistico. In altri casi, invece - specie nel Sud, dove esiste una grave disoccupazione strutturale -, l'espulsione di lavoratori dall'industria, per la chiusura di un'impresa, spesso si traduce nella definitiva disoccupazione dei medesimi e nella necessità di ricorrere ad ammortizzatori sociali, cioè a mezzi di sostegno (di almeno una parte) del reddito, finanziati dalla collettività (cassa integrazione guadagni, indennità di mobilità breve o lunga, prepensionamenti, ecc.).
Certo, la rimodulazione della tutela sull'andamento del mercato (o dei mercati) del lavoro, piuttosto che sul contratto (e sul rapporto), pone il problema - a volte enfatizzato, a volte sottovalutato - dell'interdipendenza e dell'equilibrio, in termini di costi aziendali e/o pubblici, tra tutele nel rapporto e tutele nel mercato. Problema che non ha 'una' soluzione e, tanto meno, una soluzione una volta per tutte. La complementarità di ambedue le tutele è la sfida più ardua che attende il diritto del lavoro nel XXI secolo.

b) Dal lavoro ai lavori
L'esigenza di una maggiore flessibilità del lavoro, imposta dall'innovazione tecnologica e dalla globalizzazione dei mercati, viene soddisfatta dalle imprese soprattutto grazie all'allentamento dei vincoli nel lavoro subordinato. Non manca però un'altra strada, forse anche più comoda e conveniente economicamente: quella del ricorso a prestazioni di lavoro non subordinato. Si è parlato molto, negli anni novanta, di una vera e propria 'fuga dalla subordinazione', per indicare la notevole diffusione non solo del lavoro autonomo e del lavoro in cooperativa, ma soprattutto del lavoro prestato in collaborazione coordinata e continuativa e, in generale, del lavoro 'parasubordinato'. Tali forme di lavoro vengono anch'esse denominate, sempre con termine improprio e ambiguo, 'lavori atipici', perché, in astratto, si allontanano dal 'lavoro subordinato tipico', che sarebbe contemplato nell'art. 2094 del Codice civile. In realtà, tale articolo, più che prevedere una "fattispecie tipica" di contratto di lavoro, definisce il "prestatore di lavoro subordinato" colui che "si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro [...] alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore".
Ovviamente, in questi casi, non si deve parlare tanto di flessibilità, quanto di assenza di tutela: se si sta fuori della fattispecie (o della definizione) del lavoro subordinato, non si applica il diritto del lavoro. In realtà, però, proprio gli sviluppi degli ultimi anni - ossia il patologico intensificarsi del ricorso al 'lavoro non subordinato' - fanno dubitare della possibilità di pensare ancora il diritto del lavoro come un ordinamento applicabile soltanto in presenza dell'unica fattispecie legale ex art. 2094. È il problema della legalizzazione e della disciplina di queste forme altrettanto atipiche di lavoro - entrate indirettamente e quasi di soppiatto nell'ordinamento, grazie all'elaborazione fattane in trent'anni circa da dottrina e giurisprudenza, valorizzando l'art. 409 del Codice di procedura civile (riformulato, nel 1973, dalla citata legge 533 sul processo del lavoro) - per garantire a esse alcune tutele e compensare così, almeno in parte, la situazione di debolezza e di sottoprotezione in cui, in assenza di norme, spesso versano questi lavoratori atipici.
L'alternativa è, in sostanza, tra due modelli: la creazione per legge di un tertium genus, il lavoro 'coordinato' - accanto al lavoro 'subordinato' e 'autonomo' - cui riconoscere alcune tutele, riguardanti rapporto individuale (salute e sicurezza, malattia e maternità, libertà e dignità, divieto di discriminazioni, criteri d'uso della prestazione e calcolo del corrispettivo), diritti sindacali e previdenziali; oppure l'allestimento di uno statuto dei lavori che individui uno zoccolo duro e inderogabile di diritti fondamentali, di garanzie minime da applicare a tutte le forme di lavoro, indipendentemente dalla qualificazione giuridica del rapporto, e la creazione di un sistema di tutele ulteriori, a geometria variabile, modulate e diversificate a seconda del grado effettivo di subordinazione (v. Treu, 2001, p. 196). Oggi il legislatore, non so quanto felicemente, ha scelto la prima strada, legalizzando il cosiddetto 'lavoro a progetto' (artt. 61-69 del decreto legislativo n. 276 del 2003): una nuova fattispecie il cui riscontro nella realtà del lavoro sarà tutto da verificare.
In realtà, la questione ha una rilevanza soprattutto sul piano formale, in quanto la subordinazione continua a essere il principale modello di utilizzazione del lavoro altrui, di modo che la qualificazione di un rapporto giuridico avente a oggetto il lavoro difficilmente può uscire dalla dicotomia 'autonomia/subordinazione'. Non ci si riesce neppure escogitando nuove formule, come quelle della legge 3 aprile 2001, n. 142, sul rapporto di lavoro del socio di cooperativa, ove si ritrova un ambiguo intreccio tra rapporto associativo e rapporto di lavoro "in qualsiasi forma", in linea con i tentativi di destrutturazione normativa dei rapporti di lavoro.
In fondo, è questo il senso della sentenza n. 121 del 1993 della Corte costituzionale: proprio per frenare la diffusione di rapporti di lavoro "in frode alla legge", la Corte afferma che il quadro dei diritti costituzionali dei lavoratori impedisce comunque (e persino al legislatore) di non qualificare formalmente come subordinati quei rapporti di lavoro che sostanzialmente ne hanno tutte le caratteristiche. Una posizione così chiara non può essere scalfita neanche dalla 'certificazione', nella quale l'organo pubblico o l'ente bilaterale qualifica la relazione di lavoro sulla base delle dichiarazioni delle parti. Sarà sempre e soltanto il concreto svolgimento del rapporto a fornire al giudice, ex post, i dati per la sua esatta qualificazione giuridica. In un'epoca in cui l'obiettivo della qualità totale, in un sistema di forte competizione globale, induce l'imprenditore a esigere dal lavoratore massima collaborazione e assoluta fedeltà, senza dare in cambio alcuna stabilità, non è priva di effetti l'esistenza di un invalicabile limite costituzionale alla flessibilità dei rapporti di lavoro.

c) Diritto del lavoro e pubblico impiego
Un ampliamento eclatante, nell'ultimo ventennio, del diritto del lavoro è costituito dalla legislazione che unifica con i rapporti privati, nell'ordinamento comune del lavoro, i rapporti nelle amministrazioni pubbliche (persino quelli dell'alta burocrazia), prima rientranti nel diritto amministrativo e disciplinati, in via esclusiva e unilaterale, da leggi e da fonti subprimarie statali, nonché da atti amministrativi, per garantire, in applicazione del principio di legalità, l'imparzialità dell'azione amministrativa, secondo una lettura un po' datata dell'art. 97, comma 1, della Costituzione. Si tratta, in realtà, di un processo lungo, complesso e stratificato, iniziato circa a metà degli anni settanta. Un processo che però - dopo la tappa intermedia della legge-quadro 29 marzo 1983, n. 93, ispirata a una logica compromissoria e non priva di contraddizioni - ha cominciato a realizzarsi in toto con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, attuativo della delega contenuta nella legge 23 ottobre 1992, n. 421, e che ha continuato a svilupparsi nell'arco dell'ultimo decennio, con varie modifiche e integrazioni dell'impianto originario (dai decreti del 1993, correttivi del decreto legislativo 29/1993, a quelli attuativi della delega 15 marzo 1997, n. 59, cioè i decreti legislativi 4 novembre 1997, n. 396, 31 marzo 1998, n. 80, e 29 ottobre 1998, n. 387; fino, poi, al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che riordina l'intera disciplina, benché pur esso modificato dalla legge 15 luglio 2002, n. 145, in talune parti riguardanti, in particolare, la dirigenza statale).
La riforma realizza due obiettivi, caldeggiati negli ultimi decenni dalle confederazioni sindacali e condivisi anche dal mondo imprenditoriale e da quanti lamentano, guardando ai parametri europei, la proverbiale inefficienza della burocrazia italiana, per via di privilegi, scarsi controlli e anche eccessiva stabilità del personale. Il primo obiettivo è la 'unificazione normativa', di cui si è detto - capace di introdurre eguaglianza tra lavoratori privati e pubblici e controllo sociale della burocrazia -, con l'applicazione al rapporto di lavoro pubblico della disciplina del capo I, titolo II, del libro V del Codice civile e delle leggi sul lavoro nell'impresa, pur, naturalmente, con il mantenimento di alcuni tratti di specialità della disciplina, dovuti alle peculiarità del lavoro pubblico rispetto a quello privato, scontata la diversità dell'interesse perseguito (interesse generale, nel primo caso; interesse privato, nel secondo). Il secondo obiettivo è la 'contrattualizzazione' del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, vale a dire la relativa regolazione tramite contratti individuali e collettivi, anche se, come già detto, le peculiarità del pubblico impiego spingono il legislatore a disegnare un modello di contratto collettivo dai tratti molto singolari, quanto a natura, struttura ed efficacia, per l'importanza della funzione a esso affidata (v. Rusciano, 2003). Coerentemente con la contrattualizzazione, completa la riforma il passaggio alla cognizione del giudice ordinario delle controversie di lavoro dei pubblici dipendenti, dopo più di settant'anni di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Si tratta, evidentemente, di un grande processo di trasformazione dei rapporti di lavoro pubblico. Un processo che affonda le sue radici, anzitutto, nel dato politico-istituzionale (visto il ruolo che, nella società, riveste non da oggi la burocrazia, e che la legge vuole tenere ben distinto da quello della politica), ma che comporta cambiamenti di tipo economico-sociale, sindacale e, in senso lato, culturale, e che, probabilmente, influenzerà in futuro l'evoluzione stessa di tutto il diritto del lavoro, rafforzandone le caratteristiche di "diritto della gestione delle risorse umane in ogni tipo di organizzazione" (v. Rusciano, 1993).

13. Flessibilità delle tecniche giuridiche

Quando nel linguaggio corrente si parla di 'flessibilità del lavoro', si allude all'aumento della discrezionalità offerta dall'ordinamento al datore di lavoro: quest'ultimo può infatti scegliere tra diversi modelli di rapporto e gestire contenuti e tempi della prestazione d'opera, secondo la convenienza dell'impresa. È naturale che siffatto obiettivo, per la sua complessità, venga raggiunto mediante la predisposizione di vari strumenti (o tecniche giuridiche). Certamente ogni tecnica è frutto del contesto storico-giuridico nel quale l'ordinamento interviene, ma ciò non vuol dire che una tecnica nuova si sostituisca del tutto alla vecchia; vuol dire piuttosto che si arricchisce il ventaglio degli strumenti tra i quali scegliere il più appropriato alle diverse esigenze che l'ordinamento medesimo vuole soddisfare. Si può così parlare anche di una 'flessibilità delle tecniche giuridiche' di tutela del lavoro.

a) Norma inderogabile
Poiché il diritto del lavoro nasce per correggere lo squilibrio tra le parti del contratto di lavoro, la tecnica tradizionale è quella della inderogabilità (da parte delle clausole individuali, tranne se più favorevoli al lavoratore), attribuita alle norme, legali e collettive, di tutela del lavoratore, e della sostituzione automatica, a opera di queste ultime, delle eventuali clausole difformi (artt. 1339, 1418, comma 1, 1419, comma 3, e 2077 Cod. civ.). Si blocca così l'eccessivo potere contrattuale del datore di lavoro, limitandone l'autonomia negoziale e, per altro verso, si invalida l'esercizio, da parte del lavoratore, del potere di disposizione dei propri diritti (art. 2113 Cod. civ.; v. De Luca Tamajo, 1976).

b) Controllo sindacale
La tecnica della norma inderogabile ha una sua rigidità formale, non appropriata alla tutela sostanziale del lavoratore. In effetti, nella relazione giuridica tra datore e lavoratore ha maggiore rilevanza il rapporto come concreta esecuzione del contratto, che è atto formale contenente il regolamento degli interessi (integrato dalle norme inderogabili). Ora, tale tecnica, imperniata più sul contratto che sul rapporto, rivela la sua efficienza solo quando, concluso il secondo, venga (eventualmente) affidata al giudice la valutazione della regolarità del primo. Ciò non è nell'interesse del lavoratore, che ha da essere tutelato giorno per giorno durante il rapporto, ma (forse) non è nell'interesse neppure del datore di lavoro, che, magari a distanza di anni, si vede chiamato davanti a un giudice cui spetta riscrivere regole e cifre di un vecchio contratto. Nasce così, negli anni settanta, la tecnica del controllo sindacale: piuttosto che prevedere norme inderogabili, che limitano in modo astratto il potere imprenditoriale, il legislatore affida alle rappresentanze dei lavoratori in azienda - secondo la logica di politica del diritto dello Statuto dei lavoratori - il compito di concordare con la controparte imprenditoriale i contenuti della tutela e di verificarne l'effettiva applicazione (v. De Luca Tamajo, 1978). Questa tecnica presenta dei vantaggi cui si è già avuto occasione di accennare: anzitutto, la tutela viene plasmata sulle reali esigenze dei lavoratori in un determinato contesto produttivo; in secondo luogo, si valorizza e si promuove l'attività sindacale nei luoghi di lavoro; infine, si apre la strada, prima, alla 'partecipazione conflittuale' in azienda e, poi, alla 'concertazione sociale' anche fuori dell'azienda, fino ad arrivare alla 'concertazione legislativa'. Una prassi, quest'ultima (diffusasi soprattutto negli ultimi vent'anni), di negoziazione preventiva, tra legislatore e rappresentanze degli interessi, del contenuto di futuri provvedimenti legislativi (riguardanti specialmente problemi di rilevanza politico-economica e sociale), sul quale il legislatore vuole dettare regole condivise (o addirittura concordate) con i destinatari delle stesse, al fine di garantirne l'effettività applicativa ('leggi negoziate').

c) Norma incentivante
Negli ultimi anni, la crisi della inderogabilità (oltre che per le ragioni appena dette, anche per l'avanzare del lavoro irregolare e sommerso cui i datori ricorrono per sfuggire alle norme inderogabili di tutela dei lavoratori), il ridimensionamento del controllo sindacale in azienda (per le ragioni più volte ricordate) e la prevalenza dei problemi del mercato del lavoro e della flessibilità (per la riduzione dell'occupazione) hanno spinto ad adottare la tecnica della norma incentivante: quest'ultima, anziché imporre limiti al potere imprenditoriale (con norme inderogabili e/o col controllo sindacale), prevede benefici e sanzioni promozionali per incentivare comportamenti e realizzare obiettivi voluti dalla legge (ad esempio, bonus per assunzioni, incentivi all'imprenditorialità, specie giovanile e femminile, azioni positive, ecc.; v. Ghera, 1979, p. 362).

d) Autonomia individuale
Di recente, poi, sempre per soddisfare le crescenti esigenze di flessibilità, piuttosto che l'autonomia collettiva, è stata rilanciata l'autonomia contrattuale individuale: in pratica si è ridotto e modificato il ruolo del contratto collettivo (e, dunque, del sindacato). Questa scelta del legislatore, che si rinviene, per esempio, nelle discipline dei lavori flessibili degli anni 2000-2001 (decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, sul part time; decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, sul contratto a termine), lascia perplessi, perché i casi in cui il lavoratore può scrollarsi di dosso i panni del contraente debole (in pratica: è subordinato dal punto di vista tecnico-funzionale, non lo è dal punto di vista personale e psicologico) sì da poter regolare da solo i propri interessi, non sono molti (essi sono circoscritti per lo più ad alte e sofisticate professionalità). Se allora il prevalere dell'autonomia individuale si limita a questi casi, se ne può ammettere la legittimità (oltre che l'utilità), essendo evidente che l'aumento della professionalità fa diminuire la subordinazione. Altrimenti, esso non fa altro che accentuare la debolezza e la solitudine del lavoratore e, quindi, non può sottrarsi alla censura di incostituzionalità.

e) Soft law
Infine, è importante registrare la tendenza a importare nel nostro ordinamento strumenti regolativi propri dell'ordinamento comunitario o di altri paesi europei, come le soft laws e i codes of practice (v. Snyder, 1993): regolamentazioni leggere, non cogenti (somiglianti, ma non paragonabili, alle nostre norme dispositive), le quali, più che altro, si limitano a fissare obiettivi o ad auspicare in alcune aree 'buone pratiche' per orientare l'attività dei soggetti destinatari senza costringerli a uno specifico comportamento. Si tratta di una tecnica abbastanza distante, dunque, da quella della norma inderogabile, la quale, invece, non lascia spazio a libere pattuizioni, se non in senso più favorevole al lavoratore. Sulla capacità di tale tecnica - nata in contesti giuridico-culturali assai diversi dal nostro, fosse anche solo per i livelli etici più elevati che ne costituiscono il terreno naturale di coltura - di realizzare una compiuta tutela del lavoro è difficile ora pronunziarsi, perché non ancora abbastanza collaudata. Nel collaudo, comunque, andrà valutata la legittimità costituzionale di siffatto mezzo rispetto al fine (di tutela del lavoro), che verrebbe sicuramente a mancare, se esso dovesse rivelarsi incapace di garantire l'effettività dei diritti costituzionali dei lavoratori.

Dizionario di Storia (2010)

Lavoro

Complesso delle energie fisiche e intellettuali che l’uomo traduce nella creazione di oggetti, beni o opere di utilità individuale o collettiva; rappresenta una delle principali chiavi di lettura per comprendere l’evoluzione delle diverse società storiche e della specie umana, più in generale. La definizione stessa di preistoria, delle sue distinte età, si fonda sul valore assegnato per convenzione alla comparsa dei primi utensili. Dalla pietra al ferro, il cammino dell’uomo verso la storia (verso la conquista della scrittura, dell’agricoltura e dell’allevamento, accompagnata dalla nascita dei primi insediamenti) fu già caratterizzato da innovazioni tecniche e dallo sviluppo di nuovi ambiti del sapere, la cui applicazione pratica ebbe il determinato scopo di migliorare la produzione delle risorse necessarie alla sopravvivenza della comunità, accelerando il processo di suddivisione dei ruoli produttivi (anzitutto tra i sessi), e la gerarchizzazione sociale e politica.

L’Età antica. Lavoro schiavile e lavoro libero. La fisionomia delle civiltà più antiche fu contrassegnata da molteplici mansioni lavorative, ovvero da un livello di specializzazione produttiva e intellettuale già elevato. Alla base del sistema economico, sociale e politico si collocò il l. schiavile, fondato sull’esistenza di individui non liberi, considerati proprietà della comunità o di taluni suoi membri; possedere servi garantiva il diritto di esigerne le più varie prestazioni lavorative, in cambio delle garanzie minime di sostentamento. Una consistente parte delle opere pubbliche e monumentali dell’antichità venne realizzata mediante l’impiego di schiavi (dalle fortificazioni ai luoghi di culto, dalle imprese di controllo del regime dei fiumi alla costruzione di porti, edifici amministrativi e arterie viarie), ma questa tipologia di lavoratori, uomini e donne, fu indispensabile anche per lo sviluppo delle attività private (dall’agricoltura ai commerci, dall’artigianato ai lavori domestici), ed ebbe talora impieghi di carattere militare. Gli studi prodotti negli ultimi decenni sono tuttavia orientati a interpretare in modo meno rigido il quadro socioeconomico del mondo antico, e cioè a porre in evidenza il nesso tra il l. dei servi e quello degli uomini liberi, anche sul piano della cooperazione e dell’interscambio materiale, culturale e persino affettivo, specie entro la dimensione familiare, del forno o della bottega. In quest’ottica, il l. poté anche rappresentare una chance di emancipazione dalla schiavitù e di ascesa sociale, ove la legislazione lo consentiva; un fenomeno che è ormai documentato per la civiltà egizia e presso i fenici, come pure in Grecia e a Roma. Il contributo dell’archeologia ha assicurato importanti avanzamenti alla ricerca storica, consentendole di riportare in luce un panorama di mestieri e professioni ben più ricco e articolato di quanto si ritenesse in passato. Per l’Egitto, accanto ai noti profili dell’architetto Kha, del giudice Gemenefherback e di numerosi scribi (funzionari, amministratori), sepolti assieme agli strumenti (reali o figurati) del loro l., possiamo oggi tratteggiare un mondo di agricoltori e allevatori di bestiame, proprietari di miniere e persino di birrifici, di ricchi artigiani, artisti, tessitrici, né mancarono operai e piccoli contadini, miseri ma liberi, impiegati anche per la costruzione di piramidi e grandi opere pubbliche (solo di rado al fianco o in sostituzione degli schiavi). Il codice di Hammurabi (2° millennio a.C.) testimonia l’esistenza di svariate professioni anche in area mesopotamica (legate alla medicina, ai commerci, alla produzione di cibi, bevande, armi e utensili), regolamentate in modo specifico e rigoroso, né vanno dimenticati i maestri d’ascia e i vetrai fenici, gli artisti dell’oreficeria etrusca e quelli della produzione ceramica (dal Mediterraneo alla Cina, già di età protostorica), accanto ai pescatori e ai domatori di animali (Creta) e agli agrimensori (Valle dell’Indo). Anche il mondo ellenico evolse gradualmente verso un assetto socio-economico più largo e più duttile, che in specie a partire dalla costituzione del sistema coloniale giunse a concedere apprezzabili spazi alle professioni e ai mestieri maschili, supportati talora dal l. dei servi e delle donne (nell’artigianato e nel piccolo commercio soprattutto). La società ateniese del 5°-4° sec. a.C. fu animata anche da figure di intellettuali come Socrate, figlio di uno scultore e di una levatrice (in base alla tradizione), o Fidia, emblema del nuovo rilievo conquistato dai grandi artisti. Dai ritrovamenti archeologici e dalle fonti letterarie (si pensi al teatro di Aristofane), emerge d’altro canto un variegato universo di scrittori, sofisti, attori, musici, ginnasti, etère, e poi meteci, individui in prevalenza originari delle colonie (e perciò esclusi dal godimento dei diritti politici), assurti in taluni casi a ruoli di prestigio, mediante l’esercizio delle professioni mercantili, mediche o intellettuali (Ippocrate, Erodoto, Gorgia). La distanza che separava ormai il panorama ateniese dalla società ellenica delle origini, caratterizzata dal prevalente modello della famiglia come autonoma realtà produttiva e da una rigida suddivisione in classi, si coglie bene nel confronto tra Atene e Sparta, città-Stato che conservò istituzioni e costumi di impronta dorica, tradottisi nella forte autorità esercitata dall’aristocrazia guerriera (spartiati) sulle classi lavoratrici che ne garantivano la sopravvivenza materiale: perieci e iloti. Neppure la condizione degli iloti, schiavi di proprietà statale, conobbe variazioni di rilievo, ma a partire dal 5° sec. a.C. si intensificò il fenomeno delle loro periodiche rivolte, un aspetto che appare indissolubilmente intrecciato al declino dell’egemonia spartana. L’età ellenistica fu invece contrassegnata dalla progressiva diminuzione della manodopera servile e dalla diffusione di scuole per le arti, i mestieri e le professioni. Al contrario, nella società romana, l’incidenza della componente schiavile aumentò progressivamente fino agli ultimi secoli dell’impero, suscitando il malcontento della plebe. Rispetto alla cronica piaga della disoccupazione plebea (di larghe fasce della popolazione romana la cui sopravvivenza dipendeva da lavori occasionali o piccoli espedienti), la categoria degli schiavi fu interessata da un intenso processo di suddivisione e specializzazione del lavoro. L’istituto della manumissio prevedeva inoltre che il rapporto tra schiavo e dominus potesse evolvere in quello tra liberto (schiavo liberato) e patronus. A fronte dell’obbligo di prestazioni di l. gratuite, il percorso di emancipazione dei liberti si concluse generalmente nell’acquisizione della cittadinanza romana e fu talora contrassegnato da concessioni tese a favorire l’inserimento di questa categoria in determinati mestieri o ambiti produttivi. Alcuni liberti si distinsero per il successo ottenuto nei commerci, per meriti intellettuali (Fedro, Terenzio), militari o politici. Fu verosimilmente un liberto anche il fornaio Eurisace, il cui sepolcro riproduce dettagli e strumenti anche minuti del mestiere che lo rese un cittadino agiato. Come i fornai, anche gli altri esponenti delle arti meccaniche (artigiani, mercanti, osti, medici, attori) si dotarono di sodalizi con funzioni grosso modo equivalenti a quelle dei collegi delle professioni liberali (i forensi, i gromatici), e con Traiano (98-117), quando l’impero raggiunse la sua massima estensione e la capitale si trasformò in una gigantesca città di consumi, le associazioni di mestiere divennero alcune centinaia. La trasmissione dell’arte avveniva solitamente nell’ambito familiare o dipendeva dalle tradizioni peculiari di alcune regioni, risalenti talora all’epoca preromana (quella della ceramica e della lavorazione del bronzo in Etruria, l’artigianato del vetro in Campania). In questo contesto economico e sociale, si crearono opportunità di iniziativa anche per le donne di condizione plebea, quelle che come Atistia, moglie di Eurisace, affiancarono il consorte nella conduzione dell’attività familiare, o figure come Eumachia, patrona dei fullones e degli infectores di Pompei (lavandai e tintori) che questi ultimi vollero ritratta all’interno del luogo che fu sede del loro mestiere. Più in generale, anche a Roma, il l. femminile rimase prevalentemente legato allo svolgimento delle mansioni domestiche, di alcuni lavori agricoli e alla cura della prole, come spiegano i semplici oggetti di innumerevoli corredi funerari (fusi, rocchetti, stoviglie). Nella sfera pubblica, il l. della donna fu solo eccezionalmente disgiunto da quello dell’uomo (padrone, padre, marito), come nei casi di vedove, levatrici, fattucchiere o prostitute, mentre la donna di condizione aristocratica non svolgeva alcuna mansione di carattere lavorativo al di fuori della domus. Il diritto romano prestò inoltre particolare attenzione alla regolamentazione del l. nelle campagne e dei rapporti socio-economici del mondo agricolo; figure caratteristiche di quest’ultimo furono il libero agricoltore o allevatore (spesso un piccolo proprietario, talora un veterano dell’esercito), il bracciante salariato e la manodopera schiavile (posseduta o affittata in occasione dei raccolti). In questo contesto, a partire dal tardo impero, assunse notevole importanza il colonato, istituto in base al quale i coloni (in origine liberi contadini affittuari di un latifondista) si trasformarono in dipendenti di un dominus, e quindi in manodopera soggetta a prestazioni di l. gratuite.

L’Età medievale. Città e curtes: il lavoro tra dinamismo e immobilismo. Tra 5° e 8° sec., nel quadro della transizione verso l’economia curtense, la condizione dei contadini concessionari delle terre del signore (pars massaricia) si avvicinò ulteriormente a quella dei servi di quest’ultimo, variamente impiegati nella pars dominica, cioè la porzione della villa che divenne residenza dello stesso dominus/feudatario e gradualmente attrasse anche artigiani e piccoli amministratori. Il declino del potere imperiale in Occidente e le invasioni barbariche avevano determinato la rapida crisi delle città e del sistema economico tradizionale, incoraggiando il trasferimento della popolazione urbana nelle curtes, centri nevralgici di una nuova economia rurale di sussistenza. Alla contrazione dei commerci, alla pressoché totale scomparsa della mercatura di lungo raggio, si accompagnò un fenomeno che rimane in larga parte oscuro: nel giro di poche generazioni, il prezioso patrimonio di arti e mestieri che aveva caratterizzato la storia romana scomparve. L’archeologia medievale ha variamente attestato la dispersione di questo know-how, che si tradusse soprattutto nella perdita di tutte quelle maestranze specializzate nella manutenzione di strade, ponti, porti, acquedotti, terme e altri edifici pubblici, come pure nella vigilanza notturna e nello spegnimento di incendi (mansioni degli antichi vigiles). Numerose figure dell’amministrazione imperiale vennero invece recuperate all’interno della compagine di governo pontificia, dei regni romano-barbarici e di quello franco, in particolare; giovani realtà politico-statuali il cui rafforzamento dipese in larga misura dal contributo di questi burocrati (tabularii, tabelliones ecc.). Il notaio rappresenta invece un nuovo profilo professionale, all’interno dell’Europa altomedievale, evolutosi nei secoli attraverso l’esercizio di funzioni (di certificazione, interpretazione, archiviazione e conferimento della publica fide) che furono di capitale importanza per lo sviluppo dei commerci, la regolamentazione delle disposizioni ereditarie e degli stessi rapporti di lavoro. Dall’età carolingia alla rinascita tardomedievale, la civiltà europea fu contrassegnata da una lenta ma incessante ripresa economica, sociale e politica, che può essere efficacemente argomentata rimanendo nell’ottica della storia delle arti e delle professioni; un processo in cui tornò a essere protagonista la città. Rispetto alla rigidità normativa che aveva fossilizzato ogni aspetto del l. libero e servile nelle campagne (dal servo della gleba al mezzadro), la crescita dei centri urbani (di impianto romano o di nuova fondazione), la costituzione dei primi circuiti fieristici, la nascita di nuove e potenti associazioni di mestiere, come pure dei collegi professionali (notai, medici) e delle università (anche per le professioni mediche, come a Salerno), sono fenomeni emblematici del dinamismo commerciale, produttivo e intellettuale che investì l’Europa mediterranea e continentale. L’autorità e il prestigio conquistato da alcuni sodalizi di arti e mestieri marcò in modo talora significativo l’architettura e la toponomastica urbana, traducendosi cioè nella realizzazione di edifici (banchi, logge, opifici, luoghi di culto) strettamente connessi all’esercizio di determinati lavori. Anche le committenze artistiche sono una testimonianza preziosa per comprendere l’evoluzione della stessa idea di l., perché consentono di indagare il piano delle appartenenze e delle identità socio-professionali, fino ad attestare la comparsa di atteggiamenti che somigliano a un vero e proprio orgoglio di categoria (Orsanmichele a Firenze, chiesa delle arti).

L’Età moderna. Il lavoro come liberazione o coercizione di forze. Nella Napoli del 16° sec., una delle città più ricche e popolose d’Europa, accanto a svariate tipologie di artigiani, mercanti e pubblici ufficiali (tutte quelle figure che caratterizzavano ormai l’articolata fisionomia amministrativa degli Stati moderni, dagli alti magistrati ai semplici scrivani), prosperarono individui che si professarono appartenenti a categorie del tutto nuove, che spesso è anzi impossibile definire se non adottando terminologie ante litteram (la mediazione finanziaria o «arte de far trovar denari»). Questa liberazione di forze ed energie fisiche e intellettuali, anche come rinnovamento delle conoscenze e delle tecniche lavorative e professionali, rappresenta una delle due fondamentali linee interpretative della stessa Età moderna, ed è un processo che investì pure il mestiere delle armi, evolutosi dalle antiche compagnie di mercenari di ventura (in cui militarono contadini e braccianti costretti ad allontanarsi occasionalmente dalle campagne) fino alla nascita dei primi eserciti moderni, composti di specialisti della guerra. Il mercato di queste nuove professionalità non conobbe confini di patria e di cultura, come dimostra il caso dei numerosi esperti di marineria e guerra di corsa reclutati entro la compagine militare dell’impero ottomano. L’altra faccia della medaglia, ossia l’interpretazione (di impostazione marxista) dell’evo moderno come epoca di coercizione dell’uomo, in specie sul piano delle coordinate giuridico-politiche in cui rimasero inscritti i rapporti di l., è ricorrente nella lettura di taluni fenomeni come il ritorno del l. schiavile (introdotto dai colonizzatori europei a danno delle popolazioni indigene e africane nelle Americhe), le rivolte contadine (➔ jacquerie) che venarono la storia europea fino al termine dell’antico regime, o l’irrigidimento statutario e l’intensa conflittualità che finirono col caratterizzare la vita delle arti e dei mestieri. Serrate corporative che, in specie a partire dal 17° sec., tesero a salvaguardare i privilegi di categoria (ma anche quelli di maestri e proprietari di bottega rispetto a dipendenti e apprendisti), e che per lo più si tradussero in meccanismi di mutuo soccorso e di cooptazione all’arte tanto ferrei da escludere la possibilità di accesso a essa da parte di individui che vi fossero estranei per nascita. D’altro canto, proprio nel corso della crisi del Seicento, si posero alcune importanti premesse per il definitivo superamento dei tradizionali rapporti di potere che condizionavano i diversi ambiti del l., nelle città e nelle campagne. Il mondo rurale, che incluse oltre l’80% della popolazione europea, fino alla Rivoluzione industriale, sebbene caratterizzato da una maggiore staticità rispetto al panorama urbano, non fu immune da importanti trasformazioni e rivoluzioni. Anzitutto, in Europa occidentale, le antiche corvées vennero gradualmente sostituite dal pagamento di censi in denaro; la definizione di servitù della gleba (la cui effettiva abolizione si colloca al termine dell’Età moderna) risulta in larga parte impropria per descrivere un quadro che almeno a partire dal 16° sec. è sostanzialmente fatto di terre signorili o soggette all’autorità ecclesiastica, e tenures non feudali: quelle demaniali e quelle affittate o possedute da patrizi, notabili borghesi, ma anche da contadini. Alla ricomparsa, dopo secoli, della libera proprietà contadina (come pure di vaste aree di microproprietà, ad agricoltura intensiva) e del bracciantato salariato, si affiancò l’operosità talora caratteristica di altre figure intermedie tra la grande proprietà fondiaria e la manodopera (mezzadri, massari, fittavoli). Figure che in taluni casi seppero trarre vantaggio dalla crisi dei poteri tradizionali (l’indebitamento dell’aristocrazia, l’alienazione del latifondo ecclesiastico, l’allargamento del mercato dei feudi) per incamerare vasti patrimoni terrieri o per avviare processi di modernizzazione delle tecniche agricole o di vera e propria protoindustrializzazione. È un fenomeno illustrato in sommo grado dall’Inghilterra, i cui caratteri economici, sociali e politici furono tali da innescare la Rivoluzione industriale, processo che cambiò radicalmente la storia del l., ponendo termine all’antico regime.

L’Età contemporanea. Dalla fabbrica al quarto settore: uomini e donne verso il lavoro come diritto inviolabile. L’avvento del sistema di fabbrica e del capitalismo ha stimolato la nascita della Labour history, ambito della ricerca sociologica, filosofica, giuridica e storiografica che ha assunto il carattere di vera e propria disciplina, nel corso del Novecento (stimolata soprattutto dalla vasta riflessione di K. Marx, e dai contributi di F. Engels, F.M. Eden). Essa ha il compito di studiare il l. in chiave di sviluppo tecnologico e di assetti produttivi, finanziari e sociali (mercato del l. e oscillazioni salariali, condizioni delle classi lavoratrici), accanto al nesso tra l. e storia politica (le riforme sociali, la nascita di associazioni, movimenti, sindacati, camere del l. e partiti degli operai e dei lavoratori). In una panoramica di grande scala, vanno evidenziate anzitutto la scomparsa delle tradizionali corporazioni di mestiere (abolite dal riformismo illuminato del 18° sec. o nel corso dell’Ottocento) e l’abolizione della servitù della gleba anche in Europa orientale, accanto alla crescita dei lavoratori urbani. Le città europee, e in specie i centri di maggiore rilevanza industriale, divennero meta di sostenuti flussi migratori provenienti dalle campagne. Con la prospettiva di esistenze spesso miserabili, uomini, donne e bambini ingrossarono a dismisura le file del ceto salariato, impiegato nelle fabbriche o in altre attività (garzoni, domestici). La conflittualità sociale crebbe rapidamente, con esiti talora drammatici, mentre il capitale, gli strumenti della produzione e inizialmente anche il know-how si separarono dal l., divenendo una prerogativa di datori o supervisori del l. in fabbrica. L’Inghilterra del 19° sec. fu teatro di violente proteste contro le macchine (➔ luddismo), della nascita delle prime organizzazioni sindacali (Trade unions, 1824) e di movimenti come quello cartista (1839), che inaugurarono la strada delle rivendicazioni politiche, da parte di larghe frange di lavoratori, favorendone la coesione e il coordinamento, incoraggiando la formazione di una cultura operaia e di una embrionale coscienza di classe. L’approssimarsi di una nuova fase dell’industrializzazione (la cosiddetta seconda Rivoluzione industriale), corrispondeva all’avvento di un’epoca ormai matura per il graduale accoglimento delle rivendicazioni (economiche ma anche sociali e politiche) avanzate da categorie di lavoratori ora numerose, organizzate e coese. Le spinte economiche del secondo Ottocento, l’esigenza di aumentare in quantità e qualità la produzione di beni e servizi rendevano d’altra parte superato il problema del macchinismo, nel quadro di una costante crescita di valore della manodopera specializzata e delle macchine perfezionate, a un tempo. Una significativa parte della manodopera non specializzata (proveniente in specie da aree scarsamente industrializzate, come il Meridione italiano) produsse invece nuovi fenomeni migratori, ora diretti verso l’Europa continentale e le Americhe. In quegli stessi decenni, la maggior parte degli Stati occidentali dovette pertanto dotarsi di normative atte a disciplinare la durata, le caratteristiche e le modalità del l. salariato, fissando, in taluni casi, i minimi salariali e stipendiali (Inghilterra, 1802, 1867-91; Francia, 1848, 1874; Svizzera, 1874-90; Italia, 1871-1886; USA e Canada, 1867-94). Guardando al piano delle sostanziali conquiste giuridiche, è invece necessario attendere il primo dopoguerra e anzi la fine del secondo conflitto mondiale perché si elabori, in tutto l’Occidente, un diritto del l. conforme al rispetto dell’infanzia e dei fondamentali obiettivi raggiunti da uomini e donne (abolizione del l. minorile, giornata lavorativa di 8 ore, diritto di sciopero, festività, previdenza). Lavoratori su cui anzi specificamente si fonda il dettato costituzionale di alcune tra le più giovani democrazie europee (così nel caso italiano): è il traguardo del l. come diritto inviolabile, da cui derivano diritti ulteriori, celebrato in occasione della festività internazionale del 1° maggio (istituita negli USA, negli anni Ottanta del 19° sec.). Una conquista che scaturì da ennesime battaglie sociali e politiche (il biennio rosso, 1919-20, le agitazioni americane dopo la crisi del 1929), come pure dal rilevante contributo di alcuni dei massimi pensatori dell’Otto e del Novecento (si pensi al dibattito sulla divisione del l. e sul taylorismo, che ha impegnato studiosi marxisti e liberisti). Rispetto allo scenario mondiale degli ultimi decenni, il l. è tornato a rappresentare un tema-chiave della riflessione politica, giuridica, sociologica, filosofica e storiografica, sotto lo stimolo, da un lato, delle recenti tendenze dell’economia di mercato (la complessità dei sistemi produttivi, la continua esigenza di ristrutturarne i comparti, la nascita del cosiddetto quarto settore), e d’altro canto la persistente piaga (in Asia e in Africa, in particolare), di nuove forme di schiavitù e dello sfruttamento del l. femminile e minorile, in specie.