Lavoro
Enciclopedia del Novecento
(1978)
di Jean Fourastié e Gino Giugni
LAVORO
Lavoro di Jean Fourastié
sommario: 1. Introduzione generale. a) Il
‛fatto' del lavoro è millenario, il termine
‛lavoro' è recente. b) Concezione tradizionale e
concezione contemporanea del lavoro. 2. Considerazioni
generali sul lavoro. Storia del lavoro umano. a) L'umanità
senza il lavoro. b) Lavoriamo per produrre. c) Come
lavoriamo. d) Le scienze, le tecniche e la
produttività del lavoro. 3. L'organizzazione del
lavoro. La divisione del lavoro. Costrizioni, gerarchie,
subordinazione. a) Preparazione del lavoro e organizzazione del
lavoro. b) Effetti della produttività del lavoro. c) Settore primario, secondario e terziario. d) Costrizioni, gerarchie, subordinazione.
4. La durata del lavoro. a) L'evoluzione della durata del
lavoro. b) Lavoro e tempo libero. c) La
ripartizione delle ore di lavoro e di libertà. d) L'opzione
‛durata del lavoro/livello di vita' e le ‛40.000 ore'. 5.
Occupazione, disoccupazione e sottoccupazione. a) L'evoluzione
della struttura dell'occupazione. b) Disoccupazione e
sottoccupazione. c) Lotta contro la disoccupazione e la
sottoccupazione. 6. Prospettive del lavoro. a) I
problemi già affrontati. b) Gli sviluppi in
corso. c) I problemi dell'avvenire. □
Bibliografia.
1. Introduzione generale
a) Il ‛fatto' del lavoro è millenario, il
termine ‛lavoro' è recente
Tentiamo di dare una definizione del lavoro: esso è
costituito da tutte le attività umane necessarie alla
sopravvivenza, cioè alla conservazione della vita umana in un
ambiente che, senza queste attività, sarebbe assai
sfavorevole per l'uomo. Non c'è vita senza lavoro; questo
è vero per gli uomini come per gli animali: anche le specie
più elementari sono obbligate a ‛lavorare' per sopravvivere.
Devono ricercare il loro nutrimento, sceglierlo in mezzo a una
moltitudine di materie e di esseri in maggioranza inutili e ostili;
per la maggior parte del tempo devono attaccare e distruggere gli
esseri (animali e vegetali) che ‛consumano'; devono inoltre
difendersi, a loro volta, da quegli esseri che, al contrario, li
ricercano per ‛consumarli'.
L'uomo non si limita però a consumare cibo, ed è
l'unico tra gli animali a essere caratterizzato da una
molteplicità di bisogni che esigono un'appropriazione e una
trasformazione della natura. Col passare del tempo, gli uomini sono
diventati sempre più ambiziosi riguardo a ciò che
chiamano il ‛minimo vitale'. In origine gli ominidi si contentavano,
come gli altri animali, di una vita vegetativa, in cui il lavoro
serviva unicamente a procurarsi il cibo; ma più aumentava
l'efficienza del lavoro, più diventava loro possibile
accedere a condizioni di vita meno elementari. Gli uomini, dunque,
sono oggi capaci di lavorare non solo per assicurarsi la
sopravvivenza, ma anche per acquisire beni che, ai nostri antenati,
sarebbero potuti sembrare inutili, se non addirittura scandalosi,
immorali o grotteschi (per es.: il comfort moderno, i film e i libri
erotici, lo smalto per le unghie dei cani di lusso).
Il termine ‛lavoro' deriva da parole che significano
difficoltà e persino pena o sofferenza; gradualmente, una
parola che, nelle lingue europee, designava ogni tipo di
difficoltà è diventata il termine oggi usuale per
indicare lo sforzo compiuto per la produzione economica di beni e di
servizi. Che quest'accezione sia così recente in tutte le
lingue è un fatto assai istruttivo, derivante essenzialmente
da due circostanze. In primo luogo i nostri antenati non
distinguevano ciò che noi oggi chiamiamo lavoro dal
non-lavoro. Non esisteva un impiego del tempo, non esistevano orari;
gli uomini non avevano un'idea precisa della durata; per esempio,
non sapevano mai esattamente la loro età; lo storico francese
L. Febvre ha descritto in maniera eccellente il ‛tempo dormiente' e
indeterminato in cui vivevano i nostri antenati. In tali condizioni
era impossibile suddividere il tempo, come facciamo noi, in tempi
‛specializzati' e misurati.
Cosa ancora più importante, ai nostri antenati non veniva in
mente l'idea di distinguere tra lo sforzo destinato a ciò che
noi chiamiamo la produzione e ogni altro sforzo, tra un certo tipo
di fatica o di difficoltà e tutti gli altri. Ripartire la
vita tra lavoro, sonno, festa, tempo libero, pasti, ecc., sarebbe
sembrato loro non soltanto inutile e senza interesse, ma ridicolo,
arbitrario e nocivo. Il gioco, antenato del tempo libero, era per
esempio un modo di iniziarsi all'azione e di padroneggiarla. Il
gioco è un'attività molto importante, un fattore
essenziale non solo della condizione umana, ma anche della
condizione animale. Il gioco serve a misurarsi gli uni con gli
altri, è un'integrazione della vita che,
nell'antichità, era molto più spontanea che ai nostri
giorni; continuando anche in età avanzata, era
indissolubilmente intrecciato con gli altri atti della vita, e in
particolare con quegli sforzi che oggi chiamiamo lavoro.
b) Concezione tradizionale e concezione contemporanea del
lavoro
Esse sono radicalmente diverse. E ben vero, tuttavia, che si tratta
in entrambi i casi di attività necessarie alla vita (alla
sopravvivenza e all'esistenza). Lo scopo è dunque il
medesimo. Ma i ‛mezzi' sono concepiti in modo del tutto differente.
Il lavoro tradizionale era una ‛preghiera', un atto rituale; il
processo fisico non era altro che il riflesso di un atteggiamento
mentale che aveva come oggetto la modificazione di una realtà
concepita come ‛soprannaturale'. Il lavoro era molto più
faticoso, ma era anche molto meglio accetto, essendo la
manifestazione formale di un'adesione spirituale all'ordine del
mondo. Il lavoro contemporaneo è invece, com'è noto,
una tecnica, un atto puramente naturale, senz'altro effetto che
quello di modificare la realtà fisica naturale: è
privo di ripercussioni sul ‛soprannaturale'.
Per i nostri antenati, la realtà naturale non era altro che
l'apparenza di una realtà soprannaturale, che dava alla prima
ordine ed esistenza. Il corpo è ‛animato' dall'anima; un
corpo senz'anima è un cadavere ‛inanimato'. Il mondo della
vita sembrava loro distinto dal mondo della materia in virtù
dell'animazione impressa dallo spirito - soprannaturale - il quale
è la verità e la potenza. La vita è
caratterizzata dal movimento; questa vita, questo movimento non sono
dovuti alla materia, al corpo fisico, ma alla presenza di un'anima
nel corpo fisico. La morte è la perdita dell'anima. Questa
nozione veniva applicata a ogni essere vivente. Tutto ciò che
vive, vive grazie all'anima, cioè grazie a realtà
soprannaturali, a ‛spiriti'.
Questa rappresentazione del mondo, che distingue lo spirito dalla
materia, può essere paragonata al nostro modo attuale di
concepire l'energia. Oggi diremmo che in ogni corpo vivente
dev'esserci dell'energia; l'energia non è però
‛spirito': è una forma, in verità molto misteriosa,
della materia; è il risultato di una disintegrazione della
materia.
Perché un granello di frumento germogli, sono necessarie
forze che lo valorizzino. I nostri antenati spiegavano questo
spettacolo abituale che avevano sotto gli occhi attraverso il
soprannaturale. Soltanto il soprannaturale - l'anima, lo spirito -
può modificare il reale, far germogliare il frumento, far
nascere un bambino. In questa concezione del mondo, lavorare
significa per l'uomo tentare di dominare le forze soprannaturali, o
per lo meno tentare di ottenere un accordo di quelle forze
spirituali che trasformano la natura e che, partendo da un granello
di frumento, danno altri venti o trenta granelli di frumento. Di qui
la concezione ‛magica' del lavoro propria dei nostri antenati: si
trattava di conciliarsi le potenze soprannaturali per ottenerne
quelle azioni che esse sole potevano compiere. È necessario
assicurarsi la benevolenza degli spiriti soprannaturali per poter
modificare il reale inanimato in modo vantaggioso per l'uomo.
Il lavoro tradizionale era quindi una preghiera rivolta da una
persona a una persona, un atto religioso; il lavoro più duro,
più ripugnante comportava ‛entusiasmo'. Oggi, l'entusiasmo
per il lavoro è diventato inconcepibile. In altri tempi,
anche uno schiavo costretto a fare lavori penosi, di cui non avrebbe
goduto i frutti, aveva la soddisfazione di compiere un atto
religioso. Lavorando, pensava di partecipare all'ordine del mondo e,
a un tempo, con i suoi meriti, con le sue prove, di elevarsi nella
gerarchia in esso implicita.
La nozione di giustizia era radicalmente differente da quella
odierna. Essere giusto equivaleva a dare a ciascuno la posizione,
l'autorità e la funzione che gli spettavano nell'ordine del
mondo: il re e l'imperatore erano riconosciuti come tali, il
capofamiglia come pater familias, il cittadino come
cittadino, lo schiavo come schiavo, ciascuno faceva ciò che
la propria posizione gli imponeva di fare.
Oggi noi siamo privati di quel ruolo sacro che i nostri antenati
svolgevano in una natura ‛stregata' dal soprannaturale. Il
lavoratore è ridotto a svolgere un ruolo meccanico in un
mondo laicizzato, che deve bastare a se stesso. Al di sopra della
realtà dura e piatta non c'è più un cielo.
Questa introduzione, che forse può sembrare a certi lettori
estranea all'argomento, permette invece di comprendere la
gravità dei problemi del lavoro nel mondo attuale. Il
considerarli dal solo punto di vista della tecnica e dell'efficienza
equivale a votarsi a errori gravidi di conseguenze. L'uomo vive
‛mentre' lavora, ed è vano sperare in un'umanità che
sopravviva come tale, se la ricerca degli obiettivi economici a
breve o medio termine mutila l'uomo, nel lavoro, della sua
dignità di uomo e della sua fede nella finalità del
mondo. Non voglio certo dire che l'umanità debba ritornare
alle sue ingenue concezioni magiche del lavoro; ma neppure
può accettare in modo duraturo una concezione puramente
tecnica, analitica ed economica della propria esistenza e, di
conseguenza, del proprio lavoro.
L'umanità ha appena vissuto e sta vivendo, unitamente a un
progresso scientifico ed economico che supera in modo stupefacente
le sue millenarie speranze, un trauma culturale e spirituale. Gli
ingegneri, gli uomini d'azione, i Ford, i Citroën, che hanno
dato inizio a questo sviluppo prodigioso e oggi lo accelerano,
debbono sapere che la massa del popolo, pur beneficiando del
miglioramento del livello di vita e dell'allungamento della durata
della vita che le tecniche industriali e mediche permettono, si
trova oggi sempre più spaesata e disorientata nell'ambiente
razionale, meccanicizzato e organizzato che lo ‛sviluppo'
sostituisce rapidamente all'ambiente naturale. Rappresentando con
Atala gli elementi sentimentali, affettivi, poetici e sensibili che
costituiscono il cuore dell'uomo (Atala, un'indiana Natchez,
è un personaggio ben noto di un celeberrimo racconto di
Chateaubriand), si può dire, per esemplificare la crisi del
nostro tempo, che ‛Atala lavora alla Citroën'.
Per riconciliare Atala con il suo lavoro, con il genere di vita, le
gerarchie, le organizzazioni, gli organigrammi che la Citroën
le impone in nome dell'efficienza e del livello di vita, non bastano
tutte le scienze fisiche e umane: non solo le tecnologie
industriali, ma la psicologia, la biologia, la sociologia, la
storia, l'etnologia ecc. È vano e pericoloso pensare che si
possa separare il lavoro dalle altre attività dell'uomo e
dare all'umanità un equilibrio vitale senza darglielo
anzitutto nel lavoro. I problemi del lavoro sono problemi umani.
Questi problemi sono numerosi e non possiamo pensare di affrontarli
tutti qui. I trattati di diritto, di tecnologia, di organizzazione e
di sociologia del lavoro abbondano in tutte le lingue. La
bibliografia sull'argomento è vastissima.
Enumeriamone rapidamente le principali suddivisioni classificandole,
abbastanza arbitrariamente, in quattro gruppi: a) implicazioni degli
aspetti fisici e biologici, specialmente in materia di sicurezza del
lavoro, d'igiene, di prevenzione delle malattie e di incidenti sul
lavoro; b) diritto del lavoro, diritto delle assicurazioni sociali e
poi della previdenza sociale, che sono diventati uno dei settori
principali dell'insegnamento e della prassi del diritto; esso
comprende in particolare lo studio del contratto di lavoro, dei
contratti collettivi, delle assicurazioni contro gli incidenti di
lavoro e la disoccupazione; comprende anche gli importanti capitoli
relativi al diritto sindacale, agli scioperi, ecc.; c) economia del
lavoro, che implica la nozione di impresa e di produzione nazionale;
comprende i problemi di ripartizione dei frutti della produzione,
dunque i salari e i profitti, l'ampiezza del ventaglio dei redditi -
dal manovale al direttore generale -, le relazioni tra salari,
potere di acquisto, livello di vita e produttività; d)
sociologia del lavoro, che comprende i grandi capitoli della
psicologia dei gruppi e delle organizzazioni, le ‛relazioni umane
nel lavoro', i conflitti collettivi, i problemi di
responsabilità, di ‛partecipazione' alle decisioni, di
gerarchia, di circolazione dell'informazione, ecc.
In questo articolo il lavoro sarà esaminato dal punto di
vista economico e sociale, dunque dal punto di vista della vita
quotidiana dell'uomo medio, degli sviluppi recenti e delle
prospettive per il prossimo avvenire.
2. Considerazioni generali sul lavoro. Storia del
lavoro umano
In passato il lavoro era la vita stessa. Si è potuto dire:
‟L'uomo è nato per il lavoro così come l'uccello
è nato per cantare" (Saci), poiché nulla è
stato dato gratuitamente all'uomo. Rousseau ha potuto vantare la
bellezza della natura che può esser fonte d'ispirazione per i
poeti; ma, secondo un'espressione un po' semplicistica, essa ‛non
nutre l'uomo'. La risposta all'interrogativo ‛perché
lavoriamo?' è semplice: lavoriamo per produrre, per
sopravvivere.
Tutto quello che consumiamo è creazione del lavoro umano,
anche quei beni che giudichiamo i più ‛naturali', come il
grano, le patate o la frutta.
a) L'umanità senza il lavoro
Esiste una netta tendenza a collocare nel passato l'età d'oro
dell'umanità. Secondo quest'idea, tutto sarebbe stato dato
gratuitamente all'uomo in una sorta di paradiso terrestre, mentre ai
giorni nostri, al contrario, tutto sarebbe diventato guasto e
difficile. Questa tendenza, che assume nel pensiero di Rousseau una
colorazione popolare e persino rivoluzionaria, è rimasta viva
nello spirito dell'uomo medio. Dappertutto si sente parlare ancora
dei vantaggi dei prodotti naturali; e d'altra parte molti oggi
pensano sinceramente che la vita d'altri tempi fosse più
‛sana' di quella attuale.
In realtà possiamo affermare, e tutte le attuali scoperte
della storia e della preistoria lo confermano, che la natura allo
stato naturale è una dura matrigna per l'umanità. Il
latte cosiddetto ‛naturale' di vacche allevate in modo ‛naturale'
può dare la tubercolosi e la vita chiamata ‛sana', in altri
tempi, sotto il profilo della mortalità (in particolare della
mortalità infantile) dava risultati spaventosi: un bambino su
tre moriva prima di raggiungere l'anno di età e, dei due
rimasti, uno solo superava in Francia, Italia e Inghilterra - ancora
fino al 1750 - i 25 anni d'età.
A un'umanità senza lavoro e soprattutto senza tecnica, il
globo terrestre consentiva unicamente una vita limitata e
vegetativa. Alcune centinaia di milioni di individui sopravvivevano
a un livello di vita animale nelle regioni subtropicali.
Tutti gli attuali consumi degli uomini sono resi possibili, infatti,
da invenzioni del lavoro umano, anche quelli generalmente ritenuti i
più ‛naturali', come i consumi di cereali, patate e frutta. I
cereali sono stati trasformati e migliorati attraverso un lento
lavoro, con la selezione di alcune graminacee; il nostro grano
odierno, per esempio, è così poco ‛naturale' che, se
gli uomini sparissero dalla faccia della terra, sparirebbe anch'esso
in meno di 50 anni, così come tutti gli altri cereali. La
stessa sorte seguirebbero tutte le altre piante coltivate: alberi da
frutta, rosai, verdure, ecc., come pure il bestiame da macello;
questi perfezionamenti profondi, questi miglioramenti introdotti
dall'uomo resistono soltanto perché sono difesi contro la
natura; essi hanno valore per l'uomo, ma hanno valore solo per suo
mezzo.
E che dire poi degli oggetti manufatti, dei tessili, della carta,
degli apparecchi televisivi, delle lavatrici, di tutti i prodotti
artificiali creati, fabbricati dal solo lavoro umano! Che concludere
da tutto quest'insieme di cose, se non che l'uomo è un essere
vivente, i cui bisogni non sono in accordo totale con il mondo in
cui vive? Per armonizzare i bisogni della sua vita con la natura
è necessaria una lotta, una trasformazione, un lavoro.
Per meglio chiarire la cosa, è necessario paragonare l'uomo
agli animali, compresi quelli più evoluti nella gerarchia
biologica. Un mammifero, un bue, un lupo, un gatto o una capra si
contentano dei soli prodotti naturali: per un montone non c'è
niente di meglio dell'erba, per un gatto affamato non c'è
niente di meglio di un topo; e, una volta sazi di cibo, gli animali
non pensano certo a procurarsi oggetti come orologi, pipe o
cappelli. Soltanto l'uomo ha bisogni non naturali. E questi bisogni
non naturali sono immensi. La terra non può produrre tutto
quello che l'uomo desidera consumare: egli ha infatti bisogno di
pane, di pesce (pescato e cotto), di ciliege (che però non
siano selvatiche), eccetera. Ma bisognerebbe anche, per
accontentarlo, che le case sorgessero dalla terra in modo naturale,
come le piante, con riscaldamento centrale, bagno e televisione.
Per precisare ancor meglio i fatti, si può affermare che, sul
nostro globo terrestre, l'ossigeno è il solo elemento
naturale che possiamo sfruttare senza lavoro. È infatti la
natura che soddisfa, senza restrizioni e senza sforzo, a uno dei
nostri bisogni essenziali: la respirazione. Perché
l'umanità potesse sopravvivere senza il lavoro, sarebbe
necessario che la natura desse all'uomo tutto quello di cui sente il
bisogno così come gli dà l'ossigeno dell'aria (non si
può citare l'acqua, perché occorre attingerla,
trasportarla e, a volte, filtrarla).
b) Lavoriamo per produrre
Perché lavoriamo dunque? Per trasformare la natura, che allo
stato naturale non può soddisfarci, in elementi artificiali
capaci di appagare i nostri più svariati bisogni. Lavo riamo
per trasformare l'erba selvatica in grano e poi in pane, le rose di
macchia in rosai, i ciottoli in acciaio e poi in automobili.
Comprendiamo, allora, come si tratti di un compito difficile, che
è ben lontano dal soddisfare con facilità i nostri
bisogni; c'è, infatti, un gran divario tra quello che la
natura allo stato naturale ci offre e quello che noi desidereremmo
ricevere!
Da quando sono comparsi sulla terra - la loro storia ha già
500 milioni di anni - gli ominidi hanno appreso, dapprima lentamente
e poi, da circa un secolo, in modo tumultuoso, ad accrescere il loro
potere di trasformare la natura; hanno lavorato, hanno creato
tecniche, hanno specializzato il proprio lavoro.
Il divario esistente tra i nostri bisogni potenziali - cioè
il volume dei beni che saremmo capaci di consumare se la natura ce
li fornisse allo stesso modo in cui ci fornisce l'ossigeno - e i
beni effettivamente prodotti attraverso il nostro lavoro -
cioè strappati alla natura e resi consumabili - è
così considerevole che tutti i sistemi economici finora
osservati e osservabili sul nostro pianeta comportano un meccanismo
di razionamento.
c) Come lavoriamo
Possiamo facilmente comprendere come il globo terrestre non possa
sostentare, se non a malapena, la vita umana. È infatti
necessario, per sopravvivere, modificare la natura e, talvolta,
anche distruggerla. Ma l'uomo, ridotto alle sole sue forze, è
un essere debole; per migliaia di anni, schiacciato dal solo compito
di tentare di sopravvivere, è stato ridotto a una vita
vegetativa in cui venivano adoperate soltanto le sue facoltà
biologico-animali. E questa, senza dubbio, è ancora la
situazione di metà dell'umanità dei nostri giorni.
Il progresso è arduo: non è facile ‛realizzare
l'umanità'. Ed è attraverso un'evoluzione estremamente
lenta che gli uomini hanno appreso a sfruttare la natura con una
certa efficienza. Gli abitanti dell'India e della Cina non sanno
ancora cavar fuori dalla terra se non dieci o quindici quintali di
grano o di riso per ogni anno di lavoro. Ora, con un lavoro
infinitamente meno faticoso e meno lungo - ma sempre nel corso di un
anno - un lavoratore americano che coltivi ‛da solo' 100 ettari, ne
ricava non dieci quintali, ma trenta tonnellate, cioè trenta
volte più del lavoratore asiatico. Quest'enorme differenza
tra l'Oriente e l'Occidente illustra la potenza della
produttività del lavoro. Il fatto che una gran parte
dell'umanità sia ancor oggi non solo incapace di scoprire
queste tecniche, ma anche scarsamente in grado di utilizzarle o di
imitarle quando vengano scoperte, mostra quanto tempo occorra allo
spirito scientifico sperimentale per nascere, per svilupparsi e per
prevalere nella prassi abituale. Ma da 100-150 anni la scienza
sperimentale comincia a rivelare la sua fecondità modificando
profondamente la maggior parte delle nostre tecniche di lavoro.
d) Le scienze, le tecniche e la produttività
del lavoro
Il lavoro dell'uomo è valorizzato dallo spirito scientifico;
dalla conoscenza del mondo ingegneri, innovatori e scienziati
deducono tecniche, cioè metodi di lavoro sempre più
efficienti. Ma l'evoluzione ha richiesto lunghi secoli, o piuttosto
millenni; se miliardi di uomini sono nati sulla terra, pochissimi
sono stati infatti gli innovatori, pochissimi hanno dato
all'umanità nuove tecniche.
La ricerca dell'efficienza del lavoro è difficile, lenta e
complessa. Questa ricerca conduce, o costringe, gli uomini a
costituire gruppi di lavoratori specializzati, chiamati ‛imprese':
la produttività obbliga in tal modo l'umanità a
ricorrere alla divisione del lavoro, la quale obbliga a sua volta
allo scambio. Lo scambio si fa sempre tra due prodotti differenti,
per esempio tra dei vestiti e un apparecchio radiofonico, tra una
certa quantità di carne e dei tegami, ecc.; la determinazione
del tasso di scambio non è cosa semplice e dà luogo a
problemi di giustizia sociale, risolti in modo più o meno
soddisfacente. Tale è tuttavia l'efficienza della divisione e
della specializzazione del lavoro, che l'umanità si impegna
sempre più in questa direzione. Ciascuno di noi, quindi,
ciascun operaio produce sempre più, nell'impresa, cose che
non consuma e, inversamente, sempre più consuma cose che non
ha prodotto.
Si comprende facilmente come i gruppi umani e le nazioni che hanno
accettato le costrizioni, lo scotto della divisione del lavoro, le
organizzazioni gerarchiche e i molteplici altri obblighi che ne
derivano, abbiano acquistato molto presto sugli altri gruppi e
nazioni grandi vantaggi economici e politici, e ciò proprio a
motivo dell'efficienza che della divisione del lavoro è la
principale conseguenza. Questo è uno dei tratti essenziali
della storia contemporanea, che è dominata da quei fenomeni
cui si dà il nome di ‛crescita' o ‛sviluppo'. Oggi, questi
fenomeni hanno cominciato a rivelare la loro ‛faccia nascosta', le
loro conseguenze impreviste. I vantaggi della crescita (e in
particolare quelli relativi al livello di vita, alla salute, alla
durata media della vita) sono stati, è vero, confermati
(è questa la faccia visibile del fenomeno, l'obiettivo
desiderato e voluto); ma la divisione del mondo tra paesi sviluppati
e paesi non sviluppati, tra i quali l'abisso si approfondisce
anziché colmarsi, i limiti fisici che la crescita incontra in
alcuni paesi sviluppati, le insoddisfazioni che persistono e si
sviluppano nei paesi più progrediti, sono tutti fatti che
pongono all'umanità di oggi gravi sfide. L'organizzazione
mondiale del lavoro non può più essere presa in
considerazione unicamente dal punto di vista dell'efficienza del
lavoro orario.
3. L'organizzazione del lavoro. La divisione del
lavoro. Costrizioni, gerarchie, subordinazione
Nonostante quanto abbiamo appena scritto, è evidente che
l'efficienza del lavoro resta uno degli obiettivi più
importanti (anche se non deve più essere considerato come il
solo determinante). Si comprende dunque facilmente come
l'organizzazione del lavoro e le costrizioni che ne derivano - i
conflitti tra spontaneità e creatività da una parte,
pianificazione e calcolo razionale dall'altra - siano uno dei
problemi principali del lavoro contemporaneo.
a) Preparazione del lavoro e organizzazione del lavoro
Gli scienziati, con le loro ricerche, aiutano oggi l'uomo nel suo
compito di valorizzazione del proprio lavoro; è infatti dalla
scienza che derivano le tecniche. Queste tecniche vengono applicate
a due stadi del lavoro: il primo relativo alla preparazione, il
secondo all'esecuzione.
La preparazione è indubbiamente la più feconda delle
due operazioni: il pensiero e la riflessione guidano la mano
dell'uomo. Nel caso dell'agricoltura, è necessario studiare
in anticipo la natura del terreno, il clima, la coltura, il concime,
le lavorazioni, le epoche della semina, i procedimenti. Si tratta di
definire con precisione: a) il prodotto; b) il lavoro, cioè
il quadro particolareggiato delle operazioni necessarie per la
produzione.
Nel caso dei prodotti dell'industria, bisogna orientare il lavoro in
modo da permettere il più possibile procedimenti automatici
e, dunque, l'impiego di macchine. Di qui le tecniche di
organizzazione del lavoro: scegliere i procedimenti e le macchine e
quindi armonizzarli; calcolare gli investimenti e gli ammortamenti;
minimizzare la quantità di lavoro necessaria per il totale
della produzione, cioè minimizzare il prezzo di costo (sotto
il controllo del profitto). Le macchine hanno un costo: sono state
fabbricate, comportano un lavoro preliminare, non immediatamente
produttivo. Gli investimenti rappresentano, in un paese sviluppato,
circa il 20% del totale della produzione nazionale; senza di essi,
la produttività del lavoro può essere accresciuta solo
attraverso l'organizzazione. Sebbene l'organizzazione e il metodo
predominino in genere sull'investimento, ci sono tuttavia numerosi
settori dell'economia, come la siderurgia, le industrie meccaniche
ed elettriche, l'industria tessile, in cui gli investimenti sono
fondamentali.
Gli uomini non sanno organizzare il proprio lavoro spontaneamente:
seguono tradizioni millenarie, riprendono antichi gesti, praticati
dai loro antenati, la cui efficienza è spesso minima. Noi
oggi sappiamo che si tratta di abitudini che apportano al lavoro
ostacoli piuttosto che valide soluzioni.
Vi sono, dunque, atteggiamenti e mentalità che ritardano il
progresso. È una legge del pensiero umano che esso trovi
raramente la soluzione più semplice di primo acchito; deve
sperimentare una quantità di soluzioni complicate e poco
efficienti prima di scoprire la più semplice, la più
efficiente. La scienza dell'organizzazione del lavoro permette di
superare questi svantaggi e di arrivare più rapidamente,
attraverso esperienze feconde, a soluzioni accettabili. L'esame di
un laboratorio o di un'officina rivela per lo più numerosi
esempi di cattiva organizzazione, che un consulente scientifico
può, progressivamente, scoprire e correggere.
b) Effetti della produttività del lavoro
Tutti questi progressi (divisione del lavoro, sua organizzazione,
utilizzazione delle macchine) hanno lo scopo di aumentare
l'efficienza dei lavoratori; ne deriva un'economia di lavoro umano
e, dunque, la riduzione del costo reale dei prodotti.
La produttività del lavoro è il rapporto tra il volume
della produzione e la durata del lavoro umano necessario a
ottenerlo. Le numerose misure di produttività escogitate da
ingegneri, contabili e statistici mostrano due cose: a) i progressi
degli ultimi cinquant'anni nelle nazioni occidentali sono, in certi
settori dell'economia, considerevoli; per esempio, la durata del
lavoro umano necessario per fornire un'illuminazione di 10 lumen
è stata ridotta, in Francia, dal 1750 al 1960, da 400 a 1; b)
questi progressi variano però irregolarmente da una
produzione all'altra e anche da un periodo all'altro. Basta vedere
la tab. I, per valutare le divergenze che si sono manifestate tra la
produzione di uno specchio e quella di un quintale di grano (si
prende qui, come esempio, la Francia, ma l'andamento è lo
stesso in tutta l'Europa occidentale).
Tabella 1
Da qualche decennio, il lavoro degli uomini si differenzia in modo
radicale rispetto al suo passato millenario. Esso consiste sempre
meno in un dispendio di energia muscolare e sempre più nella
manipolazione di simboli: esige un'attenzione intellettuale
crescente. L'uomo, il cui pensiero si è per millenni nutrito
di sogni e d'immaginazioni, si vede ora incessantemente messo a
confronto con una realtà esterna che lo domina.
Il lavoratore è sottoposto alle esigenze della tecnica: la
meccanizzazione, l'automazione introducono nella vita e nel lavoro
durate e ritmi che modificano i tempi fisiologici; i determinismi
della divisione del lavoro si oppongono allo Spirito di sintesi
proprio dell'uomo che, tagliato fuori dalla ‛natura naturale', dalle
proprie origini biologiche, si vede spesso dotato di un eccesso di
potenza che non è preparato a utilizzare.
c) Settore primario, secondario e terziario
Le diverse produzioni presentano, riguardo alla produttività
del lavoro, comportamenti differenti. Sono terziarie le produzioni
poco influenzate dalla produttività. Sono secondarie quelle
che lo sono in grande misura. Si riserva il termine di primarie alle
produzioni agricole; la storia mostra che nelle produzioni primarie
il progresso tecnico è abbastanza lento nei primi decenni di
progresso economico, ma può diventare in seguito rapidissimo:
dal 1950 - nei paesi sviluppati - i progressi nell'agricoltura
eguagliano, o anche superano, i progressi nell'industria.
Questa classificazione in tre comportamenti tipici spiega molti
fenomeni economici. Si comprende l'afflusso crescente dei lavoratori
nel settore terziario, dove i tempi di produzione non possono
diminuire e, al contrario, la diminuzione o la stabilità
della manodopera impiegata nei due settori dove la
produttività del lavoro cresce fortemente. L'evoluzione
dell'occupazione è regolata dall'equazione:
Formula
d) Costrizioni, gerarchie, subordinazione
La divisione del lavoro prese l'avvio decine di millenni or sono,
essendo sempre esistiti uomini più adatti di altri a
intagliare le selci o i raschiatoi d'osso. Ma con l'introduzione
delle macchine, con la Scoperta e l'utilizzazione del vapore,
comincia un'era di rivoluzione industriale; nello stesso tempo, la
divisione del lavoro entra in una nuova fase e prende un nuovo
slancio. Le manifatture comportavano da sempre mansioni
parcellizzate, ma si trattava di ben poca cosa a paragone della
parcellizzazione propria del lavoro moderno. Le macchine si
specializzano ogni giorno di più; ogni razionalizzazione
‛scientifica' del lavoro si accompagna a una frantumazione delle
mansioni, che aumenta il rendimento dei lavoratori.
Nelle fabbriche d'automobili, per esempio, le mansioni si riducono a
operazioni assai limitate e ripetute; certune non durano che alcuni
secondi. Accade lo stesso in quasi tutte le moderne imprese di
produzione; c'è ben poco rapporto tra il lavoro della sarta
di altri tempi e quello di un'operaia in una fabbrica di confezioni.
Nella fabbrica, l'ufficio studi stabilisce, una volta composto il
modello, schede particolareggiate con l'elenco delle diverse
mansioni che saranno poi svolte alla catena. L'apprendistato
è allora assai ridotto: basta qualche ora per l'addestramento
di un'operaia cosiddetta ‛qualificata'.
Si potrebbero dare mille esempi di questa situazione, tanto nel
campo dell'industria metallurgica che in quello delle industrie
alimentari, della fabbricazione di armi, ecc. (F.W. Taylor; A.G.
Stachanov).
Le qualità richieste agli operai di oggi non sono più
le stesse di altri tempi: né l'immaginazione, né lo
spirito creativo trovano più posto nei gesti compiuti e
ripetuti alla catena di montaggio. La velocità, la
precisione, la destrezza costituiscono invece una nuova gamma di
qualificazioni. Capacità di attenzione continua sono anche
richieste nei numerosi casi nei quali il lavoro consiste
essenzialmente nell' osservazione di macchine. Si pone allora la
questione della soddisfazione nel lavoro; le mansioni parcellizzate,
alle quali molti operai sono inchiodati, sembrano ingenerare la noia
e la fatica, mentre la soddisfazione sembra spesso legata a una
certa complessità interna dei gesti da compiere. La questione
non può esser risolta con principi semplicistici, dato che
molti lavoratori preferiscono una mansione facile, ripetuta e
abituale, a lavori più complessi. Nell'opera Le travail
en miettes, G. Friedmann registra le reazioni di numerosi
operai qualificati; certi operai di una fabbrica di materiali
radioelettrici preferiscono i lavori semplici, che comportano un
piccolo numero di operazioni elementari; se aumenta la
difficoltà dei lavori, diminuisce il loro rendimento. In
altre imprese, al contrario, altri operai qualificati cercano un
lavoro che richieda maggiore iniziativa. Bisogna considerare una
complessa combinazione di fattori, alcuni attinenti alla psicologia
collettiva, altri alla psicologia individuale.
D'altra parte, fin d'ora e ancor più in un futuro assai
vicino, l'automatismo libera e libererà l'operaio da molti
dei suoi gesti monotoni. Il lavoro alla catena, ai nostri giorni,
è ben lontano da quello che era nel 1935, quando Charlie
Chaplin ne fece una celebre satira. Ed è altrettanto certo
che in 40 anni il progresso economico, se ha dato all'operaio
qualificato il livello di vita che avevano antecedentemente i quadri
superiori, è però ben lontano dall'avergli dato le
iniziative e le motivazioni proprie di questi ultimi. Ed è
qui, senza dubbio, il tratto principale della ‛crisi' odierna
dell'operaio qualificato.
Attualmente, molte officine non hanno potuto essere ancora
completamente automatizzate. Il lavoro dell'operaio qualificato
resta necessario in misura assai notevole (circa un terzo
dell'occupazione nell'industria). Ora, tale lavoro ha scarso
significato per l'operatore troppo specializzato, che si sente poco
responsabile nei confronti della sua mansione elementare. Il lavoro
dell'operaio qualificato, pur guadagnando incessantemente in
tecnicità, perde però, più che non guadagni, in
fatto di autonomia e di originalità: le qualità,
cioè, che lo rendevano interessante.
Questa organizzazione razionale del lavoro, basata su calcoli di
efficienza, controllata quotidianamente attraverso i calcoli
contabili dei prezzi di costo e sanzionata automaticamente dal
profitto, obbliga l'uomo a un comportamento quotidiano che è
ben lontano dalla fantasia, dalla spontaneità, dalla
libertà d'iniziativa. Le organizzazioni efficienti sono
quelle in cui i processi sono regolati in anticipo, attraverso
ricerche complesse e lunghe, e poi imposti agli esecutori. Le
critiche che possono loro rivolgere questi ultimi si rivelano quasi
sempre superficiali.
Il cronometraggio tayloriano e i suoi succedanei, volti
all'efficienza immediata, vanno a caccia dei ‛tempi morti'.
Si comprende facilmente come la selezione naturale abbia agito e
continui ad agire in favore degli individui e, a lungo andare, dei
gruppi e dei popoli che praticano queste competizioni brevi e
incruente, seguite da durature sottomissioni. Per la specie umana fu
dapprima la rivalità con altre specie animali che
comportò tale selezione e poi le rivalità tra gruppi
umani. Oggi, è l'efficienza economica che privilegia le
società nelle quali la massa del popolo si sottomette
all'ordine razionale dell'organizzazione scientifica. Ê chiaro
che la sottomissione degli operai qualificati ai dirigenti e dei
dirigenti ai managers cesserebbe in un batter d'occhio,
se le società basate sulla spontaneità e sull'anarchia
fossero più efficienti delle società basate sul
calcolo e sulla gerarchia.
4. La durata del lavoro
In passato gli uomini lavoravano dall'alba al tramonto, per tutta la
durata del giorno e, se momenti di ricreazione, di distensione erano
strettamente mescolati alla fatica, non v'era certo né vero
tempo libero, né svago nel senso attuale del termine.
Ma a poco a poco questa situazione si venne modificando,
allorché i beni di consumo necessari alla sopravvivenza,
prodotti in abbondante quantità grazie al progresso delle
tecniche di produzione, si fecero meno rari.
a) L'evoluzione della durata del lavoro
Tuttavia, all'inizio dell'era industriale, il miglioramento del
livello di vita rimase la preoccupazione dominante. Pure, è
con la nascita dell'industria e la conseguente civiltà
urbana, con l'urbanizzazione, che è nato il tempo libero, il
tempo cioè di cui usiamo a nostro piacimento. Il tempo libero
si colloca in una civiltà caratterizzata da un tempo
frazionato e continuamente contato. Se l'orologio individuale aveva
già fatto la sua apparizione nel sec. XVI, a quell'epoca
però non era altro che un ornamento riservato a pochi
elegantoni, gioiello costoso quanto inutile; solo molto più
tardi esso ricevette la sua vera consacrazione: nelle manifatture e
nelle amministrazioni. Come ha scritto G. Hourdin ‟non è
certo un caso se l'imprenditore del XIX secolo appariva nelle
litografie di Daumier con la catena d'oro sul pancione: vuol
mostrare che in tasca ha l'orologio e che conosce il valore del
tempo" (La civilisation des loisirs, Paris 1961, p. 52).
Come controparte degli orari esatti, delle ore contate, si sviluppa
la nozione del tempo ‛che si ha a disposizione per sé'.
Questa nuova organizzazione della giornata, avvenimento importante
nella vita degli uomini, si è instaurata molto presto, dopo
la creazione delle officine, ma i suoi effetti sono stati lenti
poiché, dopo dieci o dodici ore giornaliere nelle officine
disagevoli del passato, gli ‛svaghi' avevano poco valore; non si
poteva anzi decentemente dar loro questo nome.
È utile ricordare qui alcune pagine di L.-R. Villermé,
del 1840, che illustrano la natura del lavoro nelle filande del nord
e dell'est: ‟A Mulhouse, a Dornach, ecc. [...] le filande e le
tessiture meccaniche si aprono generalmente alle cinque del mattino
per chiudersi la sera alle otto, qualche volta alle nove. D'inverno,
l'entrata viene ritardata di frequente fino all'alba, ma non per
questo gli Operai ci guadagnano un minuto. La loro giornata è
quindi di almeno quindici ore, durante le quali hanno una mezz'ora
per il pranzo e un'ora per la cena; questo è tutto il riposo
loro accordato. Di conseguenza, non fanno mai meno di tredici ore e
mezza di lavoro al giorno [...]. A Thann e a Wesserling, le
condizioni sono identiche; a Bischwiller, il lavoro effettivo arriva
a 16 ore". A Sainte-Marie-aux-Mines, ‟la giornata è di 14
ore, con una sospensione di un'ora e mezzo [...]. A Saint-Quentin,
varia da 14 a 15 ore, alle quali si deve aggiungere il tempo
dedicato allo spostamento la mattina e la sera" (L.-R.
Villermé, Tableau de l'état physique et moral des
ouvriers employés dans les manufactures de coton,
Paris 1840, p. 21). Questi orari valevano tanto per gli uomini che
per le donne, e trovano conferma nelle indagini sulle fabbriche di
Reims, d'Amiens, di Lille, di Torino, di Milano, di Liverpool... E
non è ancor tutto! Anche la giornata lavorativa dei ragazzi
era assai lunga; Villermé si sforzò di ottenere per
loro miglioramenti di orario. Egli scriveva in Francia per tentare
di denunciare gli ‛abusi' del liberalismo, e portava come modello
l'Austria, dove ‟grazie alle premure del governo, non si possono
assumere ragazzi nelle manifatture prima dell'età di otto
anni compiuti, e per una durata che non deve oltrepassare le dieci
ore giornaliere" (ibid., p. 22). Poco dopo la pubblicazione
di queste righe, intervenne in Francia la legge del marzo 1841, che
limitava a otto ore giornaliere il lavoro dei ragazzi dagli otto ai
dodici anni.
È passato poco più di un secolo dal tempo di
Villermé! Non c'è bisogno di istituire un paragone
particolareggiato tra la vita di lavoro di uno dei nostri ‛cari
piccoli' oggi e quella dei ‛giovani' del 1840; per tacere delle
condizioni penose, insalubri, in cui si trovavano in generale tutti
i lavoratori.
Dal 1850, e soprattutto dopo il 1920, la durata del lavoro è
stata ridotta in due modi: dapprima con la diminuzione dell'orario
giornaliero per l'uomo adulto, e questo è il fenomeno
più appariscente; poi con l'estensione dell'età
scolare.
Tabella 2
La tab. III indica il numero di ore di lavoro settimanali, nel
settore industriale, in Francia e negli Stati Uniti.
Tabella 3
Nel periodo 1919-1939 si colloca la fase più importante per
la riduzione della durata del lavoro; in questo periodo sono state
infatti approvate leggi che hanno rivoluzionato il mondo operaio e
abitudini secolari: in Francia, per esempio, le leggi dell'aprile
1919, che istituiscono la giornata di otto ore, e quelle del giugno
1936, che garantiscono le ferie pagate e pongono il principio della
settimana di quaranta ore. Si scorgono chiaramente i diversi
orientamenti. Nel 1937, si è creduto in Francia di poter
ridurre di molto la durata del lavoro, il che ha condotto il paese a
una stagnazione, anzi a una recessione economica che è stata
senza dubbio una delle cause della sua disfatta nel 1940; è
stato perciò necessario ritornare a valori un po' più
alti, paragonabili a quelli degli altri paesi d'Europa.
Si constata così che, in media, si è lavorato
più in Francia che negli Stati Uniti prima della guerra del
1914, e in Francia meno che negli Stati Uniti tra le due guerre.
C'è qui un'anomalia, poiché è appunto dopo il
1920 che la Francia si è impoverita. Dopo il 1945, invece, le
necessità della ricostruzione e della modernizzazione hanno
fatto risalire fino a 46 ore, in Francia, la durata abituale del
lavoro. L'operaio lavora, tuttavia, sensibilmente meno nel 1973 che
non nel 1910; sono soppresse circa 17 ore la settimana, ossia quasi
il 30%. Egli ha inoltre almeno 21 giorni, e spesso 28, di ferie
pagate ogni anno. Il tempo libero concesso all'uomo adulto è
uno degli elementi fondamentali del tenore di vita; questo elemento
è mutato nello stesso senso in tutti i paesi industriali.
Ecco qual era, nella Comunità Economica Europea, la durata
media del lavoro settimanale, nel settore industriale, nel 1966:
Tabella
Come si può constatare, la Francia occupa il secondo posto in
questa graduatoria del 1966, subito dopo il Lussemburgo. Le tendenze
attuali, come quelle future, andranno nuovamente verso la maggiore
riduzione possibile dei tempi di attività (certi salariati
arrivano persino a reclamare la riduzione per poter fare delle ore
di straordinario, il che sembra, a prima vista, una specie di
contraddizione; sennonché queste ore hanno, psicologicamente,
un carattere differente dalle altre, essendo oggetto di una libera
scelta).
b) Lavoro e tempo libero
In un prossimo futuro avremo ‛forse' la civiltà del tempo
libero; non siamo però ancora a questo stadio, ma ci troviamo
piuttosto a una specie di svolta, in un periodo di transizione in
cui si pongono mille problemi. G. Douart, nel suo libro L'usine
et l'homme cita un esempio, tra vari altri, della situazione
presente e della scelta possibile tra tempo di lavoro e tempo
libero, ricordando la testimonianza di un operaio edile: ‟La vita
è cara [...] mi son voluto procurare onestamente il mio
comfort, a forza di straordinari. Per il frigorifero e la
televisione mi sono sbarazzato di inutili perdite di tempo: le
riunioni sindacali, le passeggiate in centro, le bevute con gli
amici. Per un'automobile, ho venduto le mie ore di bricolage,
le mie serate di giardinaggio, le partite di pesca: come se quelli
che si sono battuti per strappare le 40 ore lo avessero fatto per
permettermi di fare gli straordinari. Per dei mobili Ségalot,
ho barattato le letture, il cinema e tutti quei momenti benedetti in
cui mi perdevo in fantasticherie senza avere un padrone alle spalle.
Per un appartamento moderno, ho dato ascolto alle confidenze: da
Untel, di ore al 50% ne puoi fare quante ne vuoi; da Machin, puoi
fare del ‛lavoro nero' la domenica; e così ho rinunciato ai week-ends nei quali, con la moglie e i ragazzi, si andava a fare il
bagno, ci si stendeva sulla sabbia e si ascoltava il vento tra i
pini! Per il denaro ho trascurato il sonno, le mie ferie, e mi sono
fatto rubare la salute. Non sono più che una macchina per
lavorare [...]. Così ho venduto tutto, perduto tutto:
l'accordo con mia moglie, la mia vita di famiglia, l'amore dei miei
figli. Non sono più né un padre né un marito.
Tu, che ad ogni costo vuoi il benessere materiale, non comprano col
tuo tempo libero, non vendere mai quello che fa di te un uomo;
è una verità vecchia quanto il mondo e sempre vera,
che il denaro non dà la felicità!" (O. Douart, L'usine
et l'homme, Paris 1967, p. 270).
Questa citazione mostra quanto, nell'odierno mondo del lavoro, si
sia ancora lontani dalla civiltà del tempo libero. E sarebbe
facile moltiplicare gli esempi: certe commesse con bassi salari che
la domenica fanno un ‛lavoro nero', diventando per un giorno
sguattere o cameriere, oppure domestiche a ore; operai, imbianchini,
idraulici, meccanici, che al loro orario di lavoro abituale
aggiungono delle serate, dei sabati.
È certo che l'uomo cerca, prima di tutto, di migliorare il
proprio livello di vita. E i progressi tecnici, che possono
permettere di produrre di più con minore sforzo, rendono
possibile un aumento dei consumi. Sembra ciononostante che, almeno
in Francia, non sia vicino il momento in cui i limiti di tale
aumento saranno raggiunti.
Orbene, quest'aumento della produttività può offrire
all'uomo varie possibilità: o produrre di più
mantenendo il lavoro costante, o lavorare di meno per una produzione
eguale, o ancora lavorare di meno per una produzione minore. In
realtà, noi non sappiamo molto bene ciò che vogliamo e
ancor meno ciò che è meglio per noi. Quel che è
certo è che la durata degli orari è subordinata a
decisioni volontarie: il problema non è più quello di
restare nell'officina, in ufficio, nei campi per tutta la giornata,
senza interruzione. A poco a poco ci si comincia a liberare dalla
schiavitù del lavoro, mentre fa la sua comparsa un bisogno
concorrenziale: il miglioramento del genere di vita, di cui la
diminuzione del lavoro è un elemento essenziale. Ed è
per questo che ormai, almeno nei paesi industrializzati, non si
tratta più tanto di aumentare la produzione, quanto di
trovare un equilibrio armonioso, in grado di soddisfare la duplice
aspirazione dell'uomo: elevare il livello di vita e migliorare la
qualità della vita; armonia difficile perché
contraddittoria: bisogna infatti, più o meno, sacrificare
l'uno per avere l'altra. È qui operante un'opzione
volontaria, anzitutto a livello personale: ogni individuo è
infatti libero di scegliere un lavoro piuttosto che un altro; in
parecchi casi può optare tra diverse possibilità: il
denaro, il tempo libero, la soddisfazione. Tra il capo di un'impresa
con un considerevole giro d'affari, che non può prendersi
senza apprensione qualche giorno di vacanza (con il telefono a
portata di mano), e il vagabondo che dorme tranquillamente sulle
rive della Senna c'è tutta una gamma di possibilità.
C'è poi un'altra opzione, collettiva questa volta, a livello
della fabbrica, della bottega, dell'ufficio, o anche della nazione
(per es. la legge dell'aprile 1919, che istituisce la giornata di
otto ore).
Nella sua scelta, l'uomo è diviso tra il desiderio di
consumare e la preoccupazione di dover produrre. È evidente
che la soluzione ottimale sarebbe per molti quella di viver bene
senza dover svolgere attività obbligatorie.
c) La ripartizione delle ore di lavoro e di libertà
Un altro problema è legato alla durata del lavoro: quello del
modo in cui si possono distribuire nel tempo le ore di
libertà. La soluzione desiderata può variare da un
individuo all'altro e i risultati possono essere assai differenti a
seconda delle diverse modalità scelte. Non è certo la
stessa cosa avere per sé un'ora ogni giorno, tornando dal
lavoro, oppure avere la possibilità di rilassarsi, ad esempio
per sei ore, una volta la settimana. Le soluzioni possibili a questo
riguardo sono matematicamente assai numerose.
A partire dal 1936 la diminuzione del tempo lavorativo aveva preso
un notevole slancio: parecchie ore al giorno, due settimane all'anno
e, in seguito, con il prolungamento dell'età scolare e
l'abbassamento dell'età pensionabile, si è avuta una
riduzione del numero di anni lavorativi nell'intera vita; è
in questo quadro che possono venir considerate molteplici soluzioni.
Lo scopo, per numerosi salariati, è l'abbreviamento della
vita lavorativa attraverso un precoce pensionamento. Altri ritengono
tuttavia più interessante prolungare per tutti la
scolarità. B. de Jouvenel (Arcadie. Essai sur
le mieux vivre, Paris 1968, p. 83) propone a questo riguardo
la seguente alternativa: ‟Supponete che di qui a vent'anni nel tal
paese le fasi di una vita umana si succedano secondo il modello
seguente: scuola fino a quindici anni; 35 ore lavorative alla
settimana; tre settimane di ferie più una, in media, di
malattia; pensionamento a 62 anni: tutto questo equivale a 78.960
ore lavorative in una vita. Contrapponete ora il modello seguente:
scuola fino a 20 anni; pensionamento a 68 anni; settimana di 38 ore,
con cinque settimane di ferie e tre settimane di scuola, più
una settimana, in media, di malattia: ossia in totale 78.432 ore. Il
secondo modello sarebbe, mi sembra, più civile del primo: una
popolazione più istruita godrebbe meglio il suo tempo
libero".
Quest'ultima sistemazione, beninteso, richiederebbe un considerevole
sforzo nell'insegnamento; d'altra parte, questo sembra proprio
corrispondere alle tendenze del mondo di domani: sempre meno tempo
per la fabbricazione degli oggetti, ma sempre più tempo
dedicato alla formazione della mente.
Circa gli effetti che potrebbe avere un prolungamento o una
differente suddivisione delle ferie annuali, non si dispone di dati
sufficienti che permettano precise conclusioni. È certo che
il mese di vacanze in estate, dal punto di vista psicologico, ha
un'innegabile attrattiva, mentre sembrerebbero spesso preferibili,
per lo stato di salute dei lavoratori, brevi periodi di riposo
durante il semestre invernale. Ma questo dipende evidentemente dalle
condizioni climatiche del luogo di riposo.
Così pure, una minore durata del lavoro giornaliero è
senza dubbio più valida di un prolungamento delle settimane
di vacanza, e non solo per l'equilibrio fisiologico, ma anche per le
possibilità di studio, di promozione sociale, di
perfezionamento professionale e personale.
Non possiamo indicare qui tutto quello che sarebbe possibile o
desiderabile riguardo alla ripartizione del tempo; le soluzioni sono
infinite. Bisogna notare tuttavia l'interesse che presenta l'orario
unico, che permette, lasciando per il pasto un intervallo molto
breve, di avere per sé un periodo di tempo lungo e senza
interruzioni. Ci sarebbe anche molto da dire a proposito del lavoro
a mezzo tempo - soltanto mezza giornata con un limitato numero di
ore al giorno - che sembra una soluzione valida per certe situazioni
intermedie: la madre di famiglia che ha ancora il peso dei figli
piccoli, le persone in età pensionabile che desiderano
conservare un'attività, gli artisti... che sono alla ricerca
di se stessi, certi handicappati fisici, ecc. Parleremo più
avanti degli ‛orari flessibili' (v. sotto, cap. 6, § b).
Conviene qui aprire una parentesi per affermare che non esiste e non
dovrebbe esistere una totale uniformità dei tempi di lavoro
nei diversi mestieri. Nei campi, per esempio, l'agricoltore ha
ancora un lavoro da uomo libero; essendo generalmente padrone di se
stesso (ben presto non ci saranno altro che padroni
nell'agricoltura), egli è padrone del suo ritmo; può
chiacchierare con i vicini, fare una pausa a suo piacere quando ha
fame, quando è stanco o quando vuol parlare con una bella
ragazza; la sua situazione è più vicina alla
condizione tradizionale e il suo tempo libero, ch'egli dichiara a
volte inesistente, è mal definito, non regolamentato. Non
è certo questo il caso delle attività industriali, in
cui un più duro lavoro impone necessariamente orari
delimitati, con precise pause di tempo libero.
I diversi ritmi di lavoro dovrebbero essere legati alla
diversità di durata delle varie attività. Potrebbe
dunque rivelarsi necessario in avvenire, se si dovessero realizzare
nuove riduzioni della durata del lavoro, non introdurle
uniformemente in tutte le attività. Per esempio, può
darsi che si sarà indotti a diminuire gli orari specialmente
nelle attività basate sulla forza muscolare, su lavori fisici
pesanti, con occasioni di affaticamento nervoso (rumori, odori,
ritmo continuo...), mentre ci si potrebbe regolare differentemente
per mestieri ‛più leggeri': guardiani di museo, giovani di
studio, impiegati di banca o di assicurazioni, ecc.
D'altro canto, non deve contare solamente la fatica fisica per
stabilire i tempi di riposo: certi uomini, gravati da schiaccianti
responsabilità ne hanno anch'essi un urgente bisogno, non
foss'altro che per riflettere, dato che si trovano spesso presi in
un ingranaggio di compiti che richiede 60 o 70 ore settimanali, e
sono ben lontani dall'avere i mezzi di distensione a disposizione
del loro usciere o del loro fattorino.
Attualmente, esistono differenze importanti tra i diversi mestieri;
lasciando da parte i settori nazionalizzati, i cui orari sono stati
ridotti, la gerarchia dei settori di attività è la
seguente: al primo posto ci sono l'edilizia e i lavori pubblici,
dove la durata giornaliera del lavoro è massima; poi vengono
l'estrazione dei minerali, le industrie del legno, la costruzione di
macchine e di veicoli, la produzione dei metalli (questi settori
hanno durate di 49-47 ore settimanali). Per contro, nelle industrie
tessili, nelle banche, nelle assicurazioni, nelle agenzie e
nell'abbigliamento le durate sono solo di 44-41 ore. Questo gruppo
ha una forte proporzione di manodopera femminile. Sussistono infine
differenze su scala regionale: per esempio, si lavora di più
nel nord-est della Francia, nella regione parigina, che nel
sud-ovest.
d) L'opzione ‛durata del lavoro/livello di vita' e le ‛40.000
ore'
Le cifre citate sono importanti. Si è spesso parlato, per il
futuro, della possibilità di ridurre a 40.000 ore l'intera
vita di lavoro (v. Fourastié, 1972). Quali probabilità
abbiamo di vivere quei tempi? Entro quali scadenze le nazioni
dell'Europa occidentale potranno istituire orari del genere?
Si sa che, allo stato attuale delle cose, una riduzione di due ore
settimanali delle durate medie ‛costa' circa il 2,7% del livello di
vita. Ora, la crescita del livello di vita, nelle nostre nazioni,
varia da una decina d'anni tra il 3 e il 4% (è preferibile
per l'avvenire mantenere il ritmo del 3%). Si può dunque
ammettere che ogni riduzione di due ore della durata settimanale del
lavoro ritardi di quasi un anno l'innalzamento del livello di vita
o, più esattamente, assorba un anno di aumento della
produttività; pressoché le stesse conseguenze hanno
una settimana e mezzo di ferie annue, il prolungamento di un anno
dell'età media scolare e la diminuzione di un anno
dell'età media di pensionamento. Ora, le 40.000 ore
presuppongono: 33 anni di lavoro in tutta la vita contro i 50
attuali; 12 settimane di ferie annue contro le nostre 4 attuali; 30
ore di lavoro settimanale contro le 48. Di modo che, se scegliessimo
una riduzione della durata del lavoro piuttosto che un accrescimento
del livello di vita, dovremmo bloccare l'attuale livello di consumi
per i tempi seguenti: a) 17 anni, per la riduzione del numero degli
anni di lavoro da 50 a 33; b) 6 anni, per ottenere le 8 settimane
supplementari di ferie pagate; c) 9 anni, per la riduzione di 18 ore
della durata settimanale del lavoro.
Il totale risultante supera i 30 anni. Le 40.000 ore verrebbero
dunque ottenute poco dopo l'anno 2000. Naturalmente, questo calcolo
non vuol determinare altro che una possibilità affatto
aleatoria, e la data indicata è da prendere in considerazione
soltanto per valutare la probabile velocità dell'evoluzione.
5. Occupazione, disoccupazione e sottoccupazione
Tutto quanto precede conferma che l'esercizio di un'attività
da parte dell'uomo va analizzato sotto due aspetti: l'uno
individuale e l'altro collettivo. Riguardo all'individuo, il lavoro
professionale risponde al bisogno di esercitare le facoltà
del corpo e dello spirito; inoltre, in un mondo in cui il consumo di
beni e di servizi non è possibile senza una preliminare
trasformazione, difficile e onerosa, della natura, il lavoro
individuale rappresenta la partecipazione normale dell'individuo
all'opera collettiva. Riguardo alla collettività, il lavoro
degli individui è, d'altra parte, necessario alla vita e alla
sopravvivenza dei gruppi umani.
a) L'evoluzione della struttura dell'occupazione
Poiché i bisogni primari sono quelli legati alla nutrizione,
nelle società primitive, dove le tecniche di produzione erano
assai rozze e conseguentemente la produttività del lavoro
molto debole, la quasi totalità del lavoro umano si doveva
concentrare sull'agricoltura. Le altre attività necessarie
alla sopravvivenza del gruppo (vestiario, abitazione, culti
religiosi o magici, e poi, progressivamente, amministrazione,
polizia, giustizia) non assorbivano che un numero molto scarso di
individui. Senza risalire alla preistoria né ai gruppi
più primitivi dell'attuale Amazzonia, si può ammettere
che nella maggior parte delle nazioni ‛civili' l'agricoltura, nel
XVI o nel XVII secolo, occupasse dall'80 all'85% dei lavoratori,
l'artigianato e le manifatture dal 5 al 7% e le altre
attività, che oggi vengono chiamate terziarie, quanto
restava, cioè circa il 10%.
Man mano che il progresso tecnico ha fatto sentire i suoi effetti,
l'umanità ne ha utilizzato i frutti dapprima per nutrirsi
meglio; in particolare le carestie sono a poco a poco scomparse
dalle nazioni occidentali. Ma il progresso della produttività
agricola ha superato molto presto il fabbisogno alimentare degli
uomini. Se i bisogni umani si fossero limitati al nutrimento,
avremmo assistito allora a una riduzione graduale, ma in definitiva
massiccia, della durata del lavoro. Per esempio, verso il 1700 un
agricoltore francese, italiano o americano non arrivava a nutrire,
in media, che 2,2 persone (il che significava che 10 lavoratori
agricoli arrivavano, in media, a nutrire, oltre se stessi, altre 12
persone). Oggi, pur assicurando un nutrimento molto più
abbondante e molto più equilibrato, comprendente in
particolare una proporzione molto maggiore di carne (che richiede, a
egual numero di calorie, una quantità di lavoro umano quasi
10 volte maggiore che non i cereali), un agricoltore americano nutre
quasi 75 persone e un agricoltore francese più di 20. Queste
cifre mostrano che, nell'ipotesi sopra enunciata, gli Stati Uniti
avrebbero potuto ridurre la durata del lavoro nella proporzione di
75 a 2,2 e la Francia nella proporzione di 20 a 2,2. Ciò
significa che negli Stati Uniti si potrebbe lavorare solo circa
mezz'ora per ogni giorno lavorativo e in Francia 1 ora e 20 minuti!
Se le cose non stanno così, si deve al fatto che gli uomini
si sono rivelati avidi di consumare una quantità di altri
beni e servizi che non erano prodotti nei secoli passati o che lo
erano solo in quantità assai scarse (per esempio, i manufatti
di ogni genere, le automobili, gli aeroplani, ecc.). Il risultato
è stato che la popolazione attiva in eccedenza
nell'agricoltura (settore primario) ha cercato e ha trovato
occupazione nell'industria (settore secondario) e poi nel settore
terziario. L'incremento del settore secondario è stato nel
corso del XVIII e XIX secolo così spettacolare da far dare al
movimento il nome di ‛rivoluzione industriale'. E, a partire
all'incirca dal 1900, nelle nazioni più progredite gli
aumenti di produttività nel settore secondario sono tali che
bastano ad assicurare il consumo, che pure è sempre in forte
crescita. L'occupazione nell'industria rimane dunque stazionaria,
nelle nazioni evolute, a cifre che non sorpassano di molto il 50% e
sono anche molto inferiori nelle nazioni il cui commercio estero non
sia basato sui prodotti industriali. Essendo quindi pressoché
fermo il settore secondario, il terziario assorbe la totalità
dei lavoratori che continua a perdere l'agricoltura. La tab. IV ci
dà un'immagine statistica di questo movimento.
Tabella 4
b) Disoccupazione e sottoccupazione
Leggendo le righe precedenti, può sembrare che i
trasferimenti della popolazione attiva si verifichino senza
difficoltà in un economia idillicamente progressiva, in cui
gli uomini si troverebbero trasferiti senza scosse e senza
sofferenze dal settore primario a quello terziario. Disgraziatamente
non è affatto così. Non esiste infatti alcun
meccanismo automatico che assicuri questo trasferimento nella
specifica concretezza della vita quotidiana. Soltanto la rovina
delle imprese, la disoccupazione e la sottoccupazione obbligano gli
uomini a cambiare mestiere. Senza entrare nei particolari di questi
processi complicati che sono di competenza della scienza economica,
si comprende abbastanza facilmente come si tratti di processi
dolorosi, che dipendono essenzialmente dall'intervallo che esiste
inevitabilmente tra il momento in cui l'occupazione di un uomo nel
proprio mestiere diventa inutile e il momento in cui egli
troverà un'altra occupazione o un altro mestiere.
Sono questi i processi che danno luogo a ciò che nei paesi
sviluppati si chiama disoccupazione. La lotta contro la
disoccupazione o, inversamente, la lotta per la piena occupazione,
è stata e resta uno degli aspetti più importanti della
politica sociale contemporanea. L'obiettivo della piena occupazione
figura a chiare lettere nella Carta delle Nazioni Unite.
Gli elementi essenziali della lotta contro la disoccupazione sono
l'informazione e l'orientamento professionale da una parte, le
misure finanziarie atte a facilitare le riconversioni dall'altra.
Circa il primo punto troviamo gli sforzi per adattare la scuola ai
mestieri richiesti dallo sviluppo economico e per ridurre, al
contrario, le formazioni professionali tipiche dei mestieri
superati, come pure le misure amministrative e i regolamenti
relativi alla ‛formazione professionale accelerata'; inoltre, la
costituzione di pubblici uffici di collocamento e gli aiuti
materiali intesi a favorire la mobilità geografica della
manodopera hanno dato notevoli risultati. Le misure finanziarie ed
economiche riguardano soprattutto le imprese: riconversione di
attività, creazione di nuove attività in territori
precedentemente agricoli, ecc.
Nei paesi sviluppati, infine, le indennità individuali di
disoccupazione, che non sono tuttavia che un ripiego, sono diventate
quasi uguali a piccoli salari e permettono di attendere la pensione
a tutta una categoria di lavoratori anziani, difficilmente
riconvertibili.
Nei paesi non sviluppati e nei paesi dell'Est a regime comunista, il
problema dominante non è la disoccupazione, ma la
sottoccupazione. In effetti, non essendo l'impresa sottoposta al
controllo dei suoi prezzi di costo da parte del profitto, la
tendenza a conservare lavoratori inutili o poco utili è
incoercibile. L'assenza di disoccupazione ha dunque come
contropartita un eccesso di manodopera per un lavoro determinato.
Non è possibile limitare questi eccessi se non attraverso
ispezioni e controlli amministrativi, che sono evidentemente molto
difficili e comportano in pratica decisioni di natura politica.
Nei paesi sottosviluppati non socialisti, la sottoccupazione assume
un carattere più doloroso: gli uomini in soprannumero nelle
campagne, dove già non trovano che un impiego insufficiente,
affluiscono verso le città, dove si trovano ugualmente in
soprannumero. Mancando imprese sufficienti per assorbirli, si
ammassano nelle bidonvilles, in cui sopravvivono
suddividendosi salari irrisori. Il problema della sottoccupazione,
drammatico in tutto il Terzo Mondo, è l'aspetto più
importante del conflitto tra progresso economico e progresso
demografico.
c) Lotta contro la disoccupazione e la sottoccupazione
La paura della disoccupazione tecnologica è una reazione
naturale dell'uomo che vede la macchina sostituirlo nel suo lavoro.
Questa paura comparve sin dall'introduzione delle prime macchine
nelle officine e basta citare i massacri di Peterloo in Gran
Bretagna per ricordare quanto violenta sia stata, all'inizio del
sec. XIX, la rivolta dei lavoratori contro le macchine, e quanto
crudele la repressione.
Questa paura trova il suo fondamento nei licenziamenti che vengono
effettuati in numerose imprese in seguito all'installazione di nuove
macchine o a una migliore organizzazione del lavoro negli
stabilimenti. Siffatte misure impressionano, giustamente, non
soltanto i lavoratori che ne sono oggetto, ma anche i loro compagni,
che cercano di difendersi da un tale pericolo.
I progressi rapidi dell'automazione risvegliano la paura di una
disoccupazione non più limitata ad alcuni casi particolari,
ma massiccia e generale.
La naturale paura degli operai non sembra tuttavia giustificata.
Anzitutto, è fondamentale sapere che non ogni progresso
tecnico si traduce necessariamente in una riduzione del bisogno di
manodopera. Circa gli effetti sull'occupazione, bisogna distinguere
nettamente due categorie di progresso. Gli uni, i progressi
‛recessivi', costituiscono un ampliamento della sfera dell'uomo
rispetto a quella della natura: ne sono un esempio, in agricoltura,
tutte le tecniche che danno all'uomo la possibilità di
ricavare dal suolo la stessa quantità di prodotti con minore
manodopera e in minor tempo. I progressi ‛processivi', invece,
costituiscono un ampliamento della sfera della natura rispetto a
quella dell'uomo. Così, la scoperta di materie prime amplia
il quadro dell'economia, e lo sviluppo industriale che ne risulta
porta alla creazione di nuovi posti di lavoro. La scoperta di un
nuovo prodotto: l'automobile o la radio, per esempio, agisce nella
stessa direzione. Lo sviluppo dell'industria automobilistica in un
paese come la Francia, in cui non ha tuttavia la stessa importanza
che negli Stati Uniti, si è tradotto in una richiesta
considerevole di manodopera: si stima infatti che il numero di
persone che vivono dell'automobile, siano essi operai nelle officine
di fabbricazione delle vetture, conducenti o garagisti, sia
superiore a un milione (1 persona attiva su 20).
I progressi recessivi permettono all'uomo di soddisfare con meno
lavoro i propri bisogni precedenti; quelli processivi, al contrario,
soddisfano bisogni che non potevano essere soddisfatti per l'innanzi
(si dice, talvolta, in modo inesatto, che il progresso crea nuovi
bisogni); danno vita, dunque, a nuovi lavori.
Ora, si stabilisce un equilibrio tra i progressi processivi e quelli
recessivi? Il progresso tecnico, a parità di occupazione,
accresce il volume della produzione. Ma l'effetto di una produzione
crescente sul consumo dipende dal grado di saturazione del mercato.
In un'economia poco sviluppata, dove la popolazione soffre di
sottoalimentazione, un progresso tecnico nell'agricoltura si traduce
in un accrescimento del consumo dei prodotti alimentari. In
un'economia più sviluppata, dove la popolazione ha
un'alimentazione sufficiente, lo stesso progresso non porterà
a una crescita del consumo.
A partire dal 1935, cominciò a farsi strada l'opinione che lo
Stato poteva lottare contro la disoccupazione e la sottoccupazione.
Da una parte, negli Stati Uniti, furono varati grandi programmi di
interventi pubblici; dall'altra J. M. Keynes, economista di fama
mondiale, raccomandò vivamente di stimolare le economie in
fase depressiva attraverso provvedimenti monetari e finanziari. Nel
1944, il libro di W. H. Beveridge Full employment in a free
society ebbe una grande risonanza.
Dopo la guerra, la responsabilità dello Stato in materia di
occupazione è stata affermata in tutte le nazioni del mondo.
Fin dal 1942, il Regno Unito aveva adottato il principio del Piano
Beveridge. La Carta delle Nazioni Unite fa della piena occupazione
uno degli obiettivi di tutta la politica economica e sociale. Nel
1962, il Congresso degli Stati Uniti approvò il Man-power
development and training act. La Costituzione francese
dà esplicitamente allo Stato l'incarico di adoperarsi per la
piena occupazione.
Da allora l'azione rivolta verso la piena occupazione fu condotta su
due linee. La prima, in cui domina l'empirismo e una quantità
di iniziative differenti si sovrappongono senza una pianificazione
preliminare, fu adottata quasi esclusivamente dai paesi anglosassoni
fin verso il 1965. La seconda, più sistematica, legata alla
previsione dello sviluppo economico, imperniata su una previsione
dell'occupazione per settori di attività collettiva e per
tipi di qualificazione individuale, fu elaborata a partire dal 1950
soprattutto in Francia, nel quadro del Commissariat
général au plan.
Fra gli interventi destinati a garantire e a sviluppare
l'occupazione, si possono dunque distinguere quelli che sono
specifici di questo o quel problema del lavoro e quelli che si
rivolgono all'economia nel suo insieme.
Allorché i governi cominciarono a prender coscienza delle
loro responsabilità e dei loro poteri in materia di
occupazione, la loro tendenza spontanea fu il ricorso a interventi
specifici, ‛puntuali', imposti dal luogo, dal tempo e dalle
circostanze propri del problema da risolvere: le prime iniziative
assunsero la forma di aiuti ai disoccupati e campagne di lavori
pubblici. Ai nostri giorni, l'arsenale dei mezzi specifici si
è largamente accresciuto.
Data per scontata l'instabilità fondamentale dell'occupazione
in periodi di progresso tecnico ed economico, uno dei primi
requisiti di ogni azione è un'informazione, la più
vasta e la più precisa possibile, dei candidati
all'occupazione, dei datori di lavoro, degli insegnanti e dei poteri
pubblici circa il mercato del lavoro, la sua situazione locale e la
sua probabile evoluzione.
Per il singolo, quest'informazione deve vertere non solo sulle
prospettive del mercato locale o regionale del lavoro (o anche
nazionale e, al limite, mondiale), ma sulle sue stesse
capacità personali di svolgere, o di prepararsi a svolgere,
una certa mansione. Di qui il ricorso a consulenti per
l'orientamento professionale, idonei a informare contemporaneamente
sulle offerte di lavoro da parte dei datori di lavoro e sulle
attitudini psicologiche e fisiche degli uomini, delle donne e dei
giovani in cerca di lavoro. Oggi, tutte le grandi nazioni hanno
creato, e poi sviluppato sotto nomi diversi (Agence Nationale de
l'Emploi, Bureaux Nationaux ou Regionaux de l'Emploi, Information
for Career Guidance, ecc...), organismi sparsi su tutto il
territorio, destinati a favorire un collegamento, sia sul momento
che in prospettiva, tra l'offerta e la domanda di lavoro. È
però evidente che la complessità delle economie
più progredite e la rapidità della loro evoluzione
rendono questo adeguamento sempre imperfetto.
In molti casi questi problemi si acuiscono notevolmente su scala
regionale. L'intervento tende allora sia ad accrescere la
mobilità della popolazione dalle regioni meno favorite verso
le altre, sia a stimolare l'economia delle regioni arretrate (per
es., la pianificazione regionale in Francia; negli Stati Uniti
s'è avuta una quantità di interventi diversi, che
vanno dal Trade expansion act del 1962 e dal Revenue
act del 1964 all'Indian affairs mobility program).
Questi interventi, a seconda dei paesi, delle regioni e dei tempi,
prendono forme assai diverse, che cambiano continuamente. In certi
casi, come nella Gran Bretagna a partire dal 1960 e soprattutto dal
1965, il problema essenziale non è più quello di
ridurre la disoccupazione, ma di accrescere l'efficienza di quelli
che lavorano.
Gli interventi suddetti, anche se condotti a fondo e con la massima
sensibilità, non possono annullare né la
disoccupazione né gli effetti dolorosi del mutamento di
occupazione. Certi economisti arrivano anche a considerare come
incompatibili la piena occupazione e la stabilità dei prezzi;
altri giudicano che la piena occupazione comporti necessariamente un
notevole rallentamento del progresso economico. Comunque sia, i
tassi più bassi di disoccupazione restano, nelle nazioni
occidentali, superiori all'1%. Questo minimum di
disoccupazione si spiega con gli inevitabili trasferimenti e con una
reale ‛incapacità di adattamento' di certi uomini a un lavoro
regolare.
Tutte le nazioni sviluppate cercano oggi di attenuare le sofferenze
umane attraverso vari sistemi di sussidi ai disoccupati, di
sicurezza sociale, di imposte sul reddito negative, di assicurazioni
contro la disoccupazione, di aiuti alla riqualificazione o alla
riconversione, ecc.
Alcuni di questi aiuti finanziari o tecnici vengono elargiti alle
stesse imprese, per spronarle a riconvertirsi senza procedere a
licenziamenti di manodopera ma organizzando esse stesse il planning di riqualificazione del personale.
Dopo Keynes si è compreso che, a questi molteplici interventi
puntuali, si potevano aggiungere politiche globali della
fiscalità, della moneta e del credito. Ma solo
recentissimamente si è cominciato ad affermare il bisogno di
una vera politica dell'occupazione, collegata a - e fondata su - una
politica economica d'insieme.
È chiaro, per chi abbia letto l'inizio di questo articolo,
che i difficili e mutevoli problemi dell'occupazione e della
sottoccupazione non possono essere separati dall'insieme dei
problemi dello sviluppo economico e sociale. Fu questa, a partire
dal 1945 e soprattutto dal 1950, l'idea-forza dei Plans francesi,
lo spirito dei quali era stato definito da J. Monnet. Sia lo spirito
informatore che i metodi sono esposti nei Rapports della
Commissione per la manodopera del Commissariat gènéral
au plan (cfr. in particolare quelli del 1954, 1958, 1961 e 1966);
questi rapporti hanno però avuto scarsa influenza e scarsa
risonanza all'estero, dove, malgrado la notorietà della
pianificazione francese, le idee keynesiane conservano tutto il loro
prestigio e dove, di conseguenza, le procedure monetarie sembrano la
forma più compiuta e più ‛globale' possibile di
politica dell'occupazione.
Il perdurare e persino, si può dire, l'aggravarsi del
‛marasma' economico britannico, e soprattutto, forse, la comparsa di
una perniciosa inflazione monetaria negli Stati Uniti, che
ineluttabilmente si estende all'intero mondo occidentale, spingono
almeno dal 1968 la maggior parte dei grandi paesi alla revisione
della loro politica dell'occupazione, e anche di tutta la loro
strategia monetaria, economica e sociale. Quel che A. Stoffier ha
chiamato future shock e Z. Brzezinski l'‛eta
tecnetronica' riguarda sicuramente anche la politica
dell'occupazione: la crisi profonda della civiltà industriale
avanzata obbliga a integrare i problemi dell'occupazione e della
sottoccupazione in un contesto infinitamente più vasto di
quello costituito dagli uffici di collocamento, dagli
incoraggiamenti alla mobilità, dai prezzi, dalla
fiscalità e dalla moneta.
È dunque verso una strategia d'insieme, comprendente non
soltanto i problemi monetari e finanziari, ma la globalità
dei problemi economici, sociali e culturali, che sembrano doversi
orientare le politiche dell'occupazione. Ne sono indizi, per
esempio, gli emendamenti successivamente apportati negli Stati Uniti
al Man-power development and training act e al Vocational
education act, l'istituzione delle Conferenze industriali
tripartite in Giappone e la nozione di ‛relazioni industriali',
sviluppatasi, come si è detto, nella Gran Bretagna.
Più in generale, il posto dato ai problemi dell'occupazione
nelle grandi ricerche prospettiche delle Commissioni economiche
dell'ONU e dell'OCDE testimonia lo sforzo intrapreso per collocare i
problemi dell'occupazione in un quadro economico e sociale molto
più ampio che in passato.
6. Prospettive del lavoro
Le pagine precedenti permettono di comprendere facilmente che il
lavoro umano, in pieno mutamento, continuerà a evolversi
assai profondamente nel corso dei prossimi anni. Si può
tentare di classificare in tre categorie le questioni sul tappeto: i
problemi già affrontati e più o meno mal risolti; i
problemi già posti in modo serio ma non risolti; infine i
problemi appena formulati.
a) I problemi già affrontati
I problemi già affrontati, ma mal risolti, sono innumerevoli.
Ricorderemo solo i più importanti, tutti comunque dominati
dall'opzione: durata del lavoro/livello di vita. Il problema
è sapere se manterremo la durata del lavoro così
com'è oggi, o se la ridurremo e in che misura: donde la
necessità di una scelta, in quanto sappiamo che ridurre la
durata del lavoro, data una certa produttività, significa
ridurre anche la produzione e perciò il livello di vita.
Questo problema è già stato prospettato prima ed
è in realtà classico; qui bisogna però ripetere
che le decisioni da prendere sono legate a una concezione della
felicità e dell'equilibrio della vita. La tendenza attuale
resta quella di sacrificare il genere di vita al livello di vita;
essa ingenera una vita frenetica, durante la quale l'uomo consuma
con frenesia quanto egli stesso produce con frenesia. È molto
probabile che si sia vicini ai limiti tollerabili da parte dell'uomo
medio e che l'avvenire vedrà, partendo dagli eccessi, un
ritorno ai valori della saggezza.
Da almeno un ventennio le preoccupazioni di umanizzare il lavoro
sono dappertutto all'ordine del giorno. È da parecchio tempo,
infatti, che Friedmann ha denunciato gli inconvenienti del ‛lavoro
in frantumi'. Tale lavoro - specializzato, come abbiamo detto, per
motivi d'efficienza - risulta in effetti mal sopportato da uomini il
cui livello di vita e il cui livello culturale non cessano di
aumentare. Il nostro tempo presenta il paradosso di milioni di
operai qualificati il cui livello di vita ha lo stesso ordine di
grandezza di quello dei quadri superiori di 30 anni or sono, ma il
cui lavoro resta elementare, parcellizzato, ripetitivo, a
compartimenti stagni, limitato.
La frantumazione del lavoro non è, d'altra parte, il solo
fattore di insoddisfazione; anche lo stato di soggezione
dell'operaio nel suo lavoro viene avvertito con grande disagio. Un
caso particolare è indicativo al riguardo: il mestiere di
domestica tuttofare non è affatto parcellizzato; continua ad
abbracciare tutti gli atti della vita quotidiana di cui ha
necessità la vita familiare; eppure è oggetto di una
disaffezione così profonda che il personale domestico sarebbe
già praticamente scomparso nei paesi ricchi se non fosse
stato in parte alimentato dall'immigrazione. Oggi una ragazza
preferisce un lavoro ‛in frantumi' da operaia qualificata al lavoro
variato della casa, nonostante salari spesso superiori. La causa sta
nel rifiuto di un rapporto servile.
Finora si è più o meno tentato di risolvere
empiricamente questi problemi con una quantità di mezzi
differenti, come la gerarchia dei salari, il cottimo a unità,
il cottimo a compito e una quantità di altri congegni
salariali, l'avanzamento, la selezione, l'orientamento, la
formazione professionale. L'uso sempre fluttuante di questi mezzi
ingenera una profonda instabilità non soltanto dei salari, ma
anche dei regolamenti di fabbrica e della stessa definizione delle
mansioni. Le qualifiche, per esempio, sono incessantemente in
movimento; altro esempio: i livelli di remunerazione sono anch'essi
incessantemente rimessi in discussione. Per dare un'idea
dell'ampiezza del movimento, basterà notare che una domestica
a ore, in una città come Parigi, guadagnava nel 1910 la
quarta parte di quel che guadagnava un manovale, mentre oggi
guadagna circa il 20% in più.
Non si può trovare alcuno schema generale in grado di
semplificare la descrizione delle oscillazioni e
dell'instabilità che ne risulta. La ‛meritocrazia' (che
consisterebbe nel dare una maggiore remunerazione a una maggiore
efficienza) si mescola irrazionalmente allo squilibrio tra l'offerta
e la domanda in certi mestieri e in certe specialità. Tutto
sommato, non si può far altro che constatare
l'instabilità cronica di un mal definito empirismo.
b) Gli sviluppi in corso
In questo empirismo privo di una linea generale d'evoluzione,
prevalso dal 1920 al 1970, due orientamenti hanno cominciato, da
qualche anno, a farsi strada. Essi sono ancora troppo recenti
perché si possa giudicare la loro vitalità profonda;
fanno nondimeno bene sperare. Sono per lo più designati con i
termini di ‛orario flessibile' e di ‛antitaylorismo'.
Il sistema degli orari flessibili consiste nel dare ai lavoratori la
libertà di scegliere i propri orari di lavoro, pur nel
quadro, evidentemente, di una regolamentazione e di una durata
globale prefissata. Per esempio, il salariato che ha una giornata di
8 ore potrà cominciare il suo lavoro in un momento di sua
scelta, tra le ore 8 e le 10 del mattino. Se comincia alle 9,07,
lavorerà quindi fino alle 17,07. Il regime presuppone un
periodo di tempo (nel nostro caso, dalle 8 alle 10 e poi dalle 16
alle 18) in cui l'ufficio, o l'officina, ‛girano' con gli effettivi
incompleti: questo è il principale inconveniente del sistema
dal punto di vista della produzione, cioè dal punto di vista
dell'impresa. Si ottiene però, come contropartita, un
vantaggio importante: diminuisce cioè l'assenteismo e
scompaiono i ‛rosicchiamenti' d'orario. Tutto il personale timbra il
cartellino, dal manovale al presidente, e ciascuno viene pagato in
base al suo orario reale.
Il salariato perde evidentemente i suoi vantaggi in fatto di
rosicchiamento d'orario che sono però, in molte imprese, di
lieve entità. Egli guadagna enormemente, al contrario, in
fatto di indipendenza e di elasticità. Diventa inutile
prendere un treno che parte mezz'ora prima perché il seguente
arriva quattro minuti dopo; diventa inutile correre quando si
è in ritardo; diventa inutile la richiesta di autorizzazioni
ad assentarsi per piccoli impegni. L'esperienza dimostra che i
salariati, spesso reticenti prima di farne l'esperienza, si
attaccano presto all'orario flessibile, tanto che diventa
impossibile ritornare al regime precedente. L'evoluzione avviene, in
genere, nel senso di una elasticità sempre maggiore; e
l'impresa, alla fine, deve resistere a una tendenza all'allargamento
dei varchi. Vengono anche sperimentati, attualmente, regolamenti che
consentono ai lavoratori di trasferire crediti di ore da una
settimana all'altra, persino da un mese all'altro. Per esempio, nel
caso sopracitato di una giornata di 8 ore, un salariato potrebbe
fare una settimana di 50 ore, e nella settimana successiva fare
soltanto 3 giorni di 10 ore.
Ci si deve rammaricare del nome di ‛antitaylorismo' dato alla
tendenza a diminuire la rigidità del lavoro alla catena e,
più in generale, del lavoro che richiede mansioni ripetitive.
C'è infatti da presumere che, nelle circostanze attuali, se
fosse ancora tra di noi, Taylor sarebbe un pioniere
dell'antitaylorismo. Si tratta infatti di definire il lavoro
industriale non più in funzione del rozzo manovale del 1900,
ma in funzione delle capacità d'attenzione, d'adattamento, di
comprensione e d'iniziativa dei giovani operai d'oggi. Questi ultimi
sono infatti da una parte molto più istruiti e dall'altra
molto più creativi dei loro bisnonni di 70 anni or sono. Sono
molto più esigenti nei riguardi dell'impresa, ma sono anche
capaci di dare ad essa un contributo molto maggiore. Partendo da
questo fatto, si tratta quindi di organizzare il lavoro in funzione
di squadre che abbiano un'autonomia relativamente larga, sia nella
loro costituzione che nella ripartizione delle mansioni tra i
membri. Se la sfera di attività è abbastanza vasta, i
membri della squadra possono occupare a turno i differenti posti di
lavoro, rompendo così almeno in parte la monotonia del lavoro
o riducendone la pesantezza. Beninteso, un tale orientamento non
trasformerà certo in un piacere permanente il lavoro
industriale. Si può tuttavia pensare ch'esso sia un anello
importante di un'evoluzione destinata senza dubbio a non aver mai
termine.
Un'altra notevole tendenza di questi ultimi anni è quella
alla mensilizzazione del salario. Si sa che, tradizionalmente, e in
particolare dall'inizio della rivoluzione industriale, gli operai
erano pagati a ore, mentre gli impiegati venivano pagati a mese.
Questa differenza era una di quelle che separavano ‛i colletti blu'
dai ‛colletti bianchi'; e per gli operai si materializzava in un
computo molto più rigoroso delle ore di lavoro effettivo e in
una moltitudine di regolamenti che rendevano la loro occupazione
assai instabile. Per tutto il primo periodo del sec. XX c'è
stata un'evoluzione convergente, tendente non solo ad accrescere la
stabilità dell'occupazione e la retribuzione dei lavoratori
‛a mese', ma anche ad avvicinare lo status dei lavoratori
‛a ora' a quello dei lavoratori ‛a mese'. Un passo ancor più
decisivo è stato fatto alcuni anni or sono: lo status di
lavoratori ‛a mese' è stato accordato a un numero crescente
di operai. Così, in Francia si è passati, dal 1970 al
1973, da una situazione in cui meno del 10% degli operai aveva lo status di lavoratori ‛a mese', a una situazione in cui tale status è prerogativa di quasi i quattro quinti.
Si può così pensare che la distinzione tra operai e
impiegati, per tanto tempo cruciale, sparirà quasi
completamente. Quest'evoluzione è parallela a quella che
ravvicina da una parte le condizioni di lavoro e dall'altra i
livelli culturali di tutti i salariati. Resta nondimeno il fatto che
in alcuni paesi, come la Francia, la remunerazione degli impiegati e
dei quadri rimane nettamente più alta di quella degli operai,
mentre questo non accade in altri paesi, quali la Germania, gli
Stati Uniti e i paesi dell'Europa orientale.
Questi fatti danno un'idea dei cambiamenti in atto, sia nella
realtà sia nelle idee, che rendono i problemi del lavoro uno
dei settori attualmente in più rapida evoluzione in una
società in pieno rivolgimento. In essi le organizzazioni
internazionali quali per esempio, l'Ufficio Internazionale del
Lavoro (BIT) e l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico (OCDE) svolgono un ruolo molto importante. L'OCDE, che
raggruppa, com'è noto, le nazioni occidentali, il Giappone,
la Finlandia, l'Australia e la Iugoslavia (con statuto speciale)
convocò nel 1974 un'importantissima Conferenza sul lavoro
nelle società industriali. L'Ufficio Internazionale del
Lavoro, che raggruppa praticamente tutte le nazioni del mondo, a
partire dal 1919 ha svolto un ruolo molto importante riguardo sia
alla regolamentazione che alla realtà effettiva del mondo del
lavoro. Oltre alle sue sessioni abituali e in occasione del suo
cinquantesimo anniversario, il BIT ha lanciato la preparazione del
suo Programma mondiale dell'occupazione, la cui maggiore
preoccupazione è quella di adattare l'economia dei paesi in
via di sviluppo alla formidabile crescita demografica che li
caratterizza fin dal 1960 e che è destinata ad aumentare
ancora dal 1975 al 1985.
c) I problemi dell'avvenire
Per ampie che siano queste ricerche e per numerose e diverse che
siano le ricerche analoghe intraprese e perseguite in tutti i grandi
paesi industriali e in parecchi dei paesi in via di sviluppo, esse
sembrano destinate a prendere uno slancio ancora maggiore nel
prossimo avvenire e a richiamare ancor più l'attenzione. Il
fatto è che il lavoro è un fattore essenziale della
condizione umana e la presente crisi della civiltà comporta
quindi un nuovo atteggiamento dell'uomo nei suoi confronti.
Come si è detto nell'introduzione, il lavoro era da millenni
un elemento della condizione umana, in un senso simile a quello in
cui potremmo dire ch'esso lo è per gli animali: un processo
vitale che non si può distinguere dalla vita stessa e che
mette in opera le forze stesse della vita. Le tecniche scientifiche
ci hanno insegnato a distinguere il lavoro dalle altre
manifestazioni della vita e a giudicarlo secondo criteri di
efficienza.
Al limite, un lavoro così concepito può essere nello
stesso tempo molto efficiente e molto costrittivo per l'uomo che lo
compie, molto ‛specializzante' e molto ‛disumanizzante'. È
chiaro che l'umanità non potrà accettare
indefinitamente di sottoporre il lavoro al solo criterio
dell'efficienza; e questo sia perché, avendoci l'efficienza
consentito l'accesso a un alto potere di consumo, non si può
più concepire che uomini con un alto livello di vita (pari a
quello delle classi dirigenti di ieri) accettino un lavoro da robot
(come gli operai qualificati di oggi); sia perché i problemi
di efficienza sono destinati a passare in secondo piano, dato che la
rarefazione delle materie prime e dello spazio vitale
obbligherà l'umanità, più presto di quanto essa
lo desideri, a metter fine alla crescita economica.
I problemi del lavoro, quindi, dovranno esser pensati daccapo nella
prospettiva stessa della vita. Daccapo l'uomo chiederà al suo
lavoro un modo di essere, un modo di esistere.
Guardando la gente quando fa dello sport, per esempio uomini e donne
sui campi di sci, ho pensato spesso al contrasto esistente tra
l'attività volontaria e l'attività salariata. Nel
primo caso la gente fa volentieri lunghi spostamenti molto gravosi
per poter poi compiere faticosi e pericolosi esercizi; nel secondo,
le stesse persone, protestando contro il loro sfruttamento da parte
dell'impresa o dello Stato, compiono un lavoro remunerato e molto
meno faticoso. Il contrasto, senza alcun dubbio, è dovuto
anzitutto alla libertà d'iniziativa e poi all'ambiente. Non
si potrebbe, non si potrà mai trovare nel lavoro
professionale la duplice soddisfazione di compiere, in un ambiente
gradevole, azioni che realizzino l'individuo, la ‛persona'?
Allo stato attuale delle cose, queste soddisfazioni le troviamo
già certamente in certi mestieri privilegiati e in persone
privilegiate, persone cioè che presentano un adattamento
particolarmente buono al loro mestiere (per es. uomini di lettere,
professori, artisti, ma anche ingegneri, commercianti, uomini
politici, sindacalisti militanti, ecc.). Si potrà senza
dubbio estendere la gamma di questi mestieri, soprattutto se si
accetta, come si è detto sopra, di non far più della
produttività l'unico criterio per l'organizzazione del
lavoro.
Sembra tuttavia chiaro, per quanto si può umanamente
prevedere, che molti mestieri resteranno poco attraenti, fisicamente
e psichicamente faticosi. Per questi mestieri i soli compensi
prevedibili restano le alte remunerazioni e la breve durata del
lavoro. Per i più duri, come quelli dei metallurgici o degli
spazzini delle città (finché non si sarà potuto
sostituire con canalizzazioni urbane gli attuali sistemi di
autocarri con cassoni ribaltabili), si prenderà certamente in
considerazione l'idea di servizi civili, analoghi al nostro servizio
militare.
Ma c'è un fattore che può dare a questi gravi problemi
una svolta inattesa e, in fin dei conti, abbastanza bizzarra. Come
oggi si vedono, per esempio, i minatori di carbone e gli operai
degli altiforni denunciare la faticosità del loro lavoro e
nello stesso tempo rifiutare un mutamento o uno scambio (preferendo,
in ultima analisi, monetizzare in salario il loro disagio), allo
stesso modo vedremo molto probabilmente che la rarefazione del
lavoro gli conferirà nella mente degli uomini una
considerazione, un prestigio molto differenti da quelli di cui gode
al giorno d'oggi. Presto o tardi, dato che le tecniche scientifiche
non cesseranno di perfezionarsi mentre al contrario la crescita
economica dovrà rallentare e poi arrestarsi, la durata del
lavoro necessario alla produzione nazionale si ridurrà a
valori bassi. Già oggi vediamo la gente ricercare volentieri
il ‛lavoro nero' (oltre gli orari regolamentari). Quando la durata
del lavoro sarà ridotta a 40.000 ore in una intera vita,
è probabile che il lavoro diventerà molto ricercato.
Diritto del lavoro di Gino Giugni
sommario: 1. La legislazione sociale e il
diritto del lavoro. 2. La dottrina. 3. I contenuti. 4. Il contratto
di lavoro: origine e costruzione giuridica. 5. I limiti
dell'autonomia individuale. 6. La libertà e l'organizzazione
sindacale. 7. Il contratto collettivo di lavoro. 8. Lo sciopero. 9.
Le innovazioni delle strutture e delle tecniche giuridiche. 10. Le
frontiere attuali del diritto del lavoro. 11. Le ideologie e i
modelli normativi. □ Bibliografia.
1. La legislazione sociale e il diritto del lavoro
La formazione del diritto del lavoro come area normativa o
disciplina speciale è un fenomeno tipico di questo secolo. Le
prime leggi protettive, che costituiscono la più immediata
risposta alla ‛questione sociale' e riguardano particolarmente il
lavoro delle donne e dei fanciulli o la materia degli infortuni,
fanno invero la loro comparsa nel pieno sec. XIX. Il primo Factory
act inglese è del 1833; la prima legge francese sul
lavoro dei fanciulli è del 1841. Il più tardivo
avvento della legislazione sociale negli altri paesi dipende da vari
fattori, riferibili o meno ai tempi di sviluppo del sistema
produttivo industriale; in Italia esso è dovuto certamente
allo sviluppo industriale tardivo; negli Stati Uniti si spiega con
la forte resistenza opposta dalle classi proprietarie in nome dei
principi di non intervento e di libertà contrattuale; nella
Germania guglielmina, invece, la legislazione sociale nasce nella
penultima decade del sec. XIX, ma è coeva con le leggi
speciali antisocialiste.
Già in questo periodo si delineano un modello liberale
d'intervento, di cui è antesignana l'Inghilterra, e uno di
tipo autoritario e paternalistico, che caratterizza la Germania
imperiale. Il modello liberale corrisponde in genere a condizioni di
egemonia politica della borghesia industriale; l'altro, al protrarsi
del potere dei ceti agrari e delle caste militari, nonché al
parziale perdurare di strutture produttive corporative. L'intervento
sociale nell'ambito di regimi autoritari troverà la
più coerente espressione nei regimi fascisti.
Questi primi interventi legislativi, pur essendo ricchi di contenuti
innovativi di per sé idonei a porre le prime basi per un
nuovo diritto, non danno luogo tuttavia a una compiuta elaborazione
scientifica fino al nuovo secolo. Essi appaiono in un primo tempo
come massi erratici nel gran mare del diritto e in specie del
diritto civile. Con singolare sincronia, invece, nei primi dieci
anni del sec. XX escono opere sistematiche di alto impegno, dovute
ad autori prestigiosi o destinati a diventare tali, che pongono le
fondamenta del diritto del lavoro. Rammentiamo in proposito tra i
più significativi: Ph. Lotmar e H. Sinzheimer in Germania, P.
Pic e (per il diritto dei sindacati) M. Leroy in Francia, L. Barassi
e G. Messina in Italia. D'altro lato il famoso Industrial
democracy di S. e B. Webb, studio non ispirato da
metodologia giuridica, o l'opera delle scuole istituzionalistiche
americane (J. R. Commons, J. C. Adams), influenzate dall'europeo
‛socialismo della cattedra', svolgono nei rispettivi paesi un ruolo
analogo, e cioè quello di porre sotto la lente
dell'osservazione scientifica il nuovo tessuto istituzionale che si
era venuto formando soprattutto nella seconda metà del sec.
XIX: le leghe operaie, i concordati o contratti collettivi, lo
sciopero, il contratto o il rapporto di lavoro.
Il processo di sviluppo delle istituzioni sarà comunque
più accelerato che non il flusso di indagini e la
sistemazione teorica, e sarà esso, soprattutto, a porre in
crisi il rigoroso impianto individualistico del diritto borghese, e
di quello civile in particolare. Notevole sarà fin dagli
inizi la circolazione internazionale dell'informazione legislativa,
mentre emergerà presto anche una pronunciata tendenza
all'internazionalizzazione del problema. Tale tendenza vedrà
la sua prima manifestazione nel 1890, con la Conferenza
internazionale di Berlino convocata da Guglielmo II, e
culminerà nel 1919 a Versailles con la costituzione
dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, patrocinata dal
presidente Wilson.
Profondo sarà infine l'impatto di fattori politici di portata
storica, quali l'avvento delle dittature in Germania e in Italia da
un lato, e il New Deal statunitense dall'altro; o anche
delle esigenze sociali poste in essere dalle due guerre mondiali. Il
fascismo e il nazismo, in particolare, ebbero un effetto distruttivo
sulle istituzioni come sulle dottrine, ma le prime apparvero
più capaci di immediato recupero che non le seconde. Negli
Stati Uniti il New Deal rovesciò completamente e
durevolmente l'atteggiamento dello Stato federale nei confronti dei
rapporti sindacali. L'emergenza bellica indusse molti paesi ad
adottare misure di controllo e di protezione, che sopravvissero ad
essa.
In mezzo a tali sequenze di avvenimenti, mentre l'evoluzione degli
istituti legali, della giurisprudenza e dei contratti collettivi
mutava il modo di essere di questa importante area di relazioni
sociali ed economiche, la dottrina, pur abbondante e, nel complesso,
sensibile e originale, avrebbe continuato a vedere nel diritto del
lavoro un diritto nuovo o ‟un diritto enfant che è
tenuto per mano dal vegliardo diritto civile" (v. Scelle, 1922). La
verità è che il diritto del lavoro appariva sempre
nuovo perché cambiava e cambia continuamente, con un ritmo
dinamico certamente più accentuato di quello di altri rami
del diritto (ma non di tutti: si pensi al diritto dell'economia o a
quello tributario). Ciò che non veniva percepito
adeguatamente era l'insufficienza della metodologia dominante, la
cosiddetta dogmatica, ossia la tecnica costruttiva procedente per
grandi sistemazioni concettualizzanti, a tenere il passo con il
fenomeno del cambiamento.
2. La dottrina
Se la nascita di questo nuovo ramo della scienza giuridica
può essere datata con certezza e appare quasi contemporanea
in alcuni paesi, l'evoluzione sarà diseguale nell'ambito di
essi e delle varie aree della cultura giuridica. Una posizione
dominante viene comunque assunta subito dalla dottrina tedesca, che
eserciterà per lungo tempo una grande influenza, in
particolare nell'area latina. Il periodo preweimariano è
qualificato da autori come Lotmar e Sinzheimer. Il primo, che era un
romanista, seguì una metodologia storico-dogmatica. Il
secondo, uno tra gli esponenti più rappresentativi del
socialismo giuridico, accanto a Renner e a Radbruch, fu anche membro
dell'Assemblea di Weimar e contribuì all'elaborazione della
Costituzione; nel tempo apparve sempre più orientato verso le
metodologie sociologiche. Nel periodo weimariano nuove scuole
fioriscono (ancora Sinzheimer, e poi W. Kaskel, E. Jacobi e molti
altri). L'impatto del nazismo però è distruttivo,
tanto più che non pochi di questi autori appartenevano alla
razza ebraica.
In Italia, l'avvento del fascismo e dello Stato corporativo genera
un'abbondante produzione di monografie e di testi che, abbandonando
in massima parte i temi che erano stati di L. Barassi (soprattutto
il contratto di lavoro), faranno da chiosa ai fasti del regime,
anche se in qualche caso saranno raggiunti notevoli livelli di
analisi (N. Jaeger) e anche poco permeati dall'ideologia ufficiale
(G. Chiarelli). In Francia sembra dominare un orientamento
limpidamente esegetico; alcuni autori proporranno la confluenza del
diritto del lavoro nel diritto sociale, terzo genere accanto al
diritto pubblico e al privato (G. Gurvitch): tale idea vivrà
una breve stagione e lascerà una traccia più che altro
verbale (‛diritto sociale' è talvolta l'equivalente di
diritto del lavoro, particolarmente in Francia e in America Latina).
Nei paesi anglosassoni prevale invece in un primo tempo un metodo
strettamente ancorato alle esigenze empiriche di commento al diritto
vigente.
Fuori dell'orto giuridico, tuttavia, l'impiego del metodo storico o
storico-economico dà risultati di rilievo per la scienza
giuridica; val la pena di rammentare la scuola del Wisconsin creata
da J. R. Commons. Di notevole importanza, come canale tra l'economia
e il diritto, è l'opera di sodalizi scientifici come il
Verein für Sozialpolitik (si ram- menti il nome di L. von
Brentano) e l'American Economic Association. Il nesso si
spezzerà più tardi con il prevalere di indirizzi
formalistici nell'ambito delle varie e specifiche scienze sociali.
La circolazione internazionale della dottrina, a differenza di
quella sull'informazione legislativa (v. sopra, cap. 1), è
però a quel tempo scarsa, e si può dire che ogni
diritto del lavoro vive nella sua provincia nazionale, se si
eccettua la sensibile influenza della dottrina tedesca fino alla
caduta della Repubblica di Weimar. È nel secondo dopoguerra
che cominciano a porsi le basi per la formazione di una scienza
transnazionale del diritto del lavoro, assimilabile per questo
aspetto al diritto civile o a quello costituzionale. Ciò
avviene in parte per la politica di ravvicinamento perseguita dalle
organizzazioni internazionali e da quelle europee in particolare, ma
soprattutto grazie all'influenza di O. KahnFreund, allievo di
Sinzheimer, emigrato dalla Germania in Inghilterra per ragioni
razziali e posto perciò in condizione di confrontare due
culture giuridiche così diverse in contesti economici di
altrettanto avanzata industrializzazione. L'opera di Kahn-Freund,
anche quand'è volta a far comprendere le ragioni
dell'atteggiamento empirico dei giuristi inglesi, impiega, dove
occorre, categorie concettuali di provenienza eurocontinentale, e
ciò rende possibile la comparazione e la costruzione di
discorsi metodologicamente uniformi. Un'altra conseguenza è
che la stessa dottrina giuslavoristica inglese diventa, come si vede
nell'opera di K. W. Wedderburn, più omogenea al diritto
eurocontinentale.
In quest'ultimo (e nell'area linguistica spagnola, inclusiva di
quella latino-americana) le tendenze in atto sono diverse e,
naturalmente, anche contrastanti. Nella Repubblica Federale Tedesca
si ha per un periodo il predominio di giuristi formati sotto il
nazismo e orientati secondo un metodo formalistico temperato da un
uso piuttosto disinvolto della giurisprudenza degli interessi (H. C.
Nipperdey); cospicue appaiono ancora le influenze dell'organicismo
gierkiano (A. Nikisch). Ambedue queste tendenze interpretano in modo
notevolmente moderato il clima di restaurata libertà
sindacale ma appaiono certamente in sintonia con gli orientamenti
conservatori prevalenti nella nuova Germania. Negli anni sessanta
rinasce la scuola di Sinzheimer attraverso la mediazione di
Kahn-Freund (Th. Ramm), e si sviluppa la critica politica delle
concezioni giuridiche (W. Däubler); l'influenza di Kahn-Freund
è anche visibile in Scandinavia (F. Schmidt). In Francia la
prima opera sistematica è quella di P. Durand, a cui seguono
autori con forte sensibilità comparativistica, portati quindi
a inserirsi nel contesto della scienza comune del diritto del lavoro
di cui si parlava prima (G. Lyon Caen).
In Italia, dopo un periodo tutto sommato benefico di influenza delle
metodologie civilistiche (efficaci come sbarramento alle ideologie
fasciste, e anche forti di un alto livello tecnico: per tutti, Fr.
Santoro Passarelli e L. Mengoni), si assiste negli anni sessanta a
un radicale rinnovamento conseguente all'affermarsi di metodologie
sociologiche e di ‛politica del diritto' (G. Giugni, F. Mancini, U.
Romagnoli). Oggi è opinione comune che il diritto del lavoro
italiano sia uno dei campi sperimentali più fertili per il
rinnovamento metodologico di tutta la scienza giuridica (soprattutto
del diritto civile e della procedura civile). Una notevole
importanza sembra infine destinata ad assumere quest'area della
scienza giuridica in Spagna, dopo la fine della dittatura
franchista; assai notevole vi appare l'influenza della dottrina
italiana, come pure di quella tedesca e francese.
Il diritto del lavoro, dunque, come dimostra questo capitolo di
storia della cultura giuridica pur appena tratteggiato, non è
il commento tecnico di questa o quella legge nazionale, ma è
un campo fertile di esperienze e di rinnovamento della cultura
giuridica. In esso il superamento del tradizionale metodo dogmatico,
in una con l'impiego della critica politica e sociologica,
l'apertura interdisciplinare, la comparazione internazionale,
appaiono oramai elementi distintivi costanti.
3. I contenuti
In un primo tempo (più o meno a cavallo tra i due secoli) il
diritto del lavoro ha per oggetto la posizione di una serie di
consistenti limiti all'autonomia dei soggetti, diretti a contenere
le forme più intense di sfruttamento: restrizioni
all'occupazione dei fanciulli e delle donne, durata massima
dell'orario di lavoro, riposi settimanali, ecc. Questa sfera del
diritto del lavoro viene chiamata legislazione del lavoro o sociale
o protettiva. Posto che i vari divieti da essa previsti sono
sanzionati penalmente e che, in genere, alla loro osservanza sono
preposti servizi ispettivi facenti parte dell'amministrazione dello
Stato (factory inspectors in Gran Bretagna, ispettori del
lavoro in Francia e in Italia), si riconosce l'appartenenza di
questa sfera al diritto pubblico.
Un altro aspetto che viene regolato fin dagli inizi è quello
indennitario per gli infortuni e le malattie professionali. Il
meccanismo dell'assicurazione obbligatoria, una novità per
l'epoca (Germania 1884; Italia 1898), è impiegato per coprire
il rischio d'impresa per l'infortunio del lavoratore, un principio
che andava affermandosi nella giurisprudenza, ma che non costituiva
una soddisfacente protezione del lavoratore soprattutto nei casi di
fallimento o di cessazione dell'impresa. Con cadenze molto diverse
da paese a paese (primo, la Germania imperiale, ultimi, e tuttora
lontani dai livelli degli altri paesi, gli Stati Uniti) si
diffondono forme di copertura: di altri rischi: vecchiaia,
invalidità, disoccupazione, malattie non professionali.
Quando la tecnica assicurativa tende a essere sostituita dalla
copertura della finanza pubblica, e quando il diritto alle
prestazioni non ha più la sua fonte in un rapporto di lavoro
ma nella condizione di membro della comunità sociale, si ha
il passaggio dal sistema delle assicurazioni sociali a quello della
sicurezza sociale, come realizzato in Gran Bretagna nel secondo
dopoguerra (Piano Beveridge). In questo caso, la materia dei rischi
esce dal campo del diritto del lavoro ed entra in quello
dell'intervento pubblico diretto alla soddisfazione dei bisogni
sociali. Tale processo è in fase avanzata anche in Italia (M.
Persiani).
La regolamentazione legislativa del contratto o rapporto di lavoro
compare più tardivamente nella forma legislativa, e sovente
è limitata a particolari aspetti, o a particolari rapporti,
come quello degli impiegati, oggetto di speciale cura come ceto di
servizio della classe industriale. Tuttavia, giurisprudenza e
dottrina, anche in carenza totale o parziale di norme esplicite,
sono subito impegnate sul terreno dell'individuazione della
fattispecie del lavoro dipendente e delle regole da applicare ad
esso. È anzi questo il terreno di formazione del diritto del
lavoro come sistema scientifico ed è qui una delle parti
più importanti e vitali di tale disciplina.
In genere è stato considerato estraneo al diritto del lavoro
il rapporto di pubblico impiego, anche se (v. sotto, cap. 10) tale
esclusione è sempre meno condivisa.
Infine, la branca più accidentata, anche perché la
più sensibile al mutamento politico e all'interazione dei
rapporti e delle forze sociali, è il diritto sindacale. Esso
riguarda le condizioni di esistenza giuridica delle organizzazioni
costituite dai lavoratori e dai datori di lavoro per il
perseguimento dei loro interessi, nonché l'attività
delle stesse, con particolare riguardo alla stipulazione e agli
effetti dei contratti collettivi; e, infine, le forme
dell'autotutela, che del diritto sindacale costituiscono una
caratteristica saliente e unica. Questo insieme normativo si forma
all'inizio con la rimozione di divieti o di altri impedimenti
giuridici alla costituzione e attività delle coalizioni
sindacali, o allo svolgimento di talune forme di autotutela, e
soprattutto dello sciopero. Più tardi esso si può
evolvere in una disciplina di tipo garantistico, che frequentemente
viene accolta nel corpo dei principî costituzionali. Un tipo
di intervento che compare in Svezia e negli Stati Uniti negli anni
trenta e si diffonde altrove soprattutto negli anni settanta
è quello di promozione dell'attività sindacale.
La linea di spartiacque tra i vari sistemi è comunque il
riconoscimento e l'effettività del principio di
libertà sindacale. Da esso, che è carattere proprio e
distintivo di regime, dipendono caratteristiche differenziali
pressoché totali, quali non si riscontrano negli altri rami
del diritto del lavoro, dove è anzi in atto una tendenza a
marcate uniformità, anche tra regimi sociopolitici diversi.
Al di là di queste ripartizioni, poi, si può affermare
che il diritto del lavoro percorre in senso orizzontale quasi tutte
le divisioni tradizionali della scienza giuridica, configurando
così un diritto internazionale del lavoro, pubblico e
privato, un diritto penale, un diritto processuale del lavoro. Il
diritto processuale merita una specialissima menzione, perché
esso appare quasi sempre costruito su normative speciali o
addirittura su giurisdizioni speciali, con partecipazione sindacale
(corti del lavoro, probiviri), oppure su sistemi arbitrali regolati
dalla contrattazione collettiva. L'importanza del meccanismo
processuale è dovuta non soltanto alla funzione di
quest'ultimo di realizzare l'effettività delle norme, ma
anche al fatto che le decisioni enunciate da tali giurisdizioni
speciali o nell'ambito di tali procedimenti ad hoc, in
numerosi ordinamenti, hanno posto in essere il primo corpo normativo
sostanziale (E. Redenti) o ne alimentano tuttora il rinnovamento.
È oggi corrente, nella Repubblica Federale Tedesca, la
definizione di tali corti come ‛i veri maestri del diritto del
lavoro'. Appare anche degna di menzione la tendenza alla
valorizzazione dell'elemento collettivo, pur in una struttura
processuale che era stata costruita a misura della lite tra soggetti
individuali, e del potere dispositivo ad essi attribuito.
4. Il contratto di lavoro: origine e costruzione
giuridica
Nella citata quadripartizione del diritto del lavoro (diritto
sindacale, diritto del contratto o del rapporto di lavoro,
legislazione sociale, previdenza sociale), in realtà i due
settori rappresentativi ai fini di un esame critico delle
peculiarità di questa disciplina sono il primo e il secondo.
Quella che fu storicamente introdotta come legislazione sociale,
infatti, può essere utilmente trattata come limite
all'autonomia delle parti nel contratto di lavoro. A sua volta, il
diritto previdenziale si è distaccato dal ceppo originario e
si muove velocemente in una direzione propria.
La vicenda del contratto di lavoro è una delle più
significative dell'esperienza giuridica contemporanea. Lo scambio
tra lavoro e mercede, pressoché ignorato dalla codificazione
napoleonica (che vi dedica solo due articoli), oggi, se ponderato
sulla durata del rapporto che ne discende, è il contratto
statisticamente più frequente e certamente quello socialmente
più importante. La cessione di opera contro un compenso
è alle origini della stessa rivoluzione industriale che si
avvale del lavoro salariato, caratterizzato, a differenza di quello
servile, dalla massima mobilità, e non soggetto ai vincoli
giuridici che erano posti dall'antico regime vuoi nelle strutture
feudali, vuoi in quelle delle arti o corporazioni o gilde. Se la
società per azioni è la struttura giuridica che ha
consentito la raccolta e l'impiego dei capitali, il contratto di
lavoro è l'istituto che ha reso possibile l'organizzazione
della produzione su scala mai conosciuta, e quindi la riproduzione
del capitale stesso.
Il passaggio dai rapporti di soggezione personale, in cui si
svolgeva il lavoro per conto altrui nei sistemi feudali, alla libera
contrattazione della merce lavoro segue moduli molto diversi tra
loro, che lasceranno tracce nella stessa conformazione finale del
contratto di lavoro. Nei paesi latini, la frattura è forse
più netta, per la forza dirompente della codificazione; in
quelli tedeschi permangono fino alla prima guerra mondiale tipi di
rapporti di natura personale e quasi servile (come regolati dalle Gesindeordnungen di vari Stati); in America Latina si avverte a lungo
l'influenza dell'encomienda; nella common law,
lento e graduale, ma sicuro, è il passaggio dal contratto di
servizio (master and servant) a quello di lavoro (contract
of employment). La necessità di dare al lavoro
salariato un'adeguata veste giuridica è a ogni modo avvertita
dovunque. I giuristi dell'inizio del secolo (Lotmar, Barassi), in
armonia con le tendenze dell'epoca, cercheranno di dimostrare che il
contratto di lavoro era già scritto nel libro della perenne
saggezza giuridica dei Romani. In realtà, la locatio
conductio romana, come è stato validamente dimostrato
(L. Amirante), non ha nulla in comune con il contratto di cessione
d'opere da svolgere sotto le direttive di un imprenditore e
nell'ambito di un'organizzazione produttiva predisposta a tal fine
da quest'ultimo. L'operazione compiuta da questi giuristi fu di
individuare la fattispecie, e di lavorare sullo schema della
locazione (di cose e di servizi), il solo contemplato dai codici di
impronta napoleonica o dal diritto romano attualizzato in alcuni
ordinamenti (in Germania prima del 1900), per ricavarne una serie di
regole di condotta (per es., la garanzia del preavviso di recesso)
idonee a fornire un minimo di tutela al contraente prestatore
d'opere, compatibile con la massima mobilità del fattore
lavoro. E poiché, dominando ancora la grande sistematica
pandettistica, si riteneva per certo che il diritto non è
inventato dal giurista, ma trovato nelle fonti, il fondo
inesauribile a cui si attinse, di fronte alla carenza dei codici
borghesi, fu il diritto romano. In realtà, quel che oggi si
intende come rapporto di lavoro vive, fino a che non si desta la
coscienza sociale del problema, una vita di fatto più che di
diritto, ed è a tutti gli effetti un rapporto di dominio da
parte del contraente forte (A. Menger), occultato sotto lo schermo
del contratto.
Nei sistemi giuridici di common law l'evoluzione segue un
modulo diverso. Il rapporto di master and servant viene
fissato nel tardo sec. XVIII nell'elaborazione di W. Blackstone, ma
ancora con un'accentuazione degli elementi di status di
origine feudale rispetto ai principi di libertà contrattuale.
Questa elaborazione è parallela all'affermazione del factory
system e al contenzioso che si sviluppa intorno ad alcune
conseguenze indotte dall'accertamento di un rapporto di lavoro,
quale l'applicabilità di benefici previsti dalla Poor
law. La relazione master and servant viene poi
gradualmente rigenerata per opera di leggi speciali e di contratti
collettivi, o, ma con impatto meno sensibile, della giurisprudenza,
fino a perdere l'impronta di rapporto di dominio e convertirsi nel contract
of employment.
L'individuazione del moderno rapporto di lavoro richiede peraltro un
ulteriore passo oltre l'individuazione di un tipo contrattuale
distinto dalla locazione. Quest'ultima operazione era stata
realizzata dal Codice civile entrato in vigore in Germania il 1°
gennaio 1900, ma con uno schema sistematico non ancora coincidente
con quello su cui si sarebbe sviluppato il moderno diritto del
lavoro, in quanto orientato piuttosto a distinguere i contratti di
lavoro secondo il criterio, anch'esso di impropria derivazione
romanistica, dell'obbligo di svolgere un'opera, contrapposto a
quello di rendere servizi.
La subordinazione alle direttive dell'imprenditore come criterio di
individuazione del rapporto di lavoro costituisce l'ulteriore passo
innanzi, il momento finale di questo processo, ed esso si
generalizza rapidamente nei vari ordinamenti nel primo quarto di
secolo.
L'evento nuovo, portato dall'industrialismo, è infatti la
concentrazione del lavoro nell'ambito dell'organizzazione produttiva
di forma manifatturiera, che sostituisce gradatamente la commessa
esterna ai lavoranti a domicilio, propria delle prime fasi del
capitalismo. Sovente tuttavia questa modalità di prestazione
ha una fisionomia incerta, di difficile qualificazione: nei lavori
di specializzazione artigiana, e così pure nel lavoro a
cottimo, è ancora possibile intravvedere i segni del
contratto per un'opera definita o comunque misurabile nella
quantità, svolta, anche se all'interno della fabbrica, in
condizioni di autonomia esecutiva rispetto all'altro contraente, e
cioè al creditore di lavoro. Ma il cerchio si chiude mano
mano che si consolida la forma produttiva della manifattura, e
l'indice caratterizzante del contratto di lavoro è allora
definito nella subordinazione. Lo stesso lavoro a cottimo,
soprattutto a seguito della trasformazione che subisce per
l'introduzione dell'organizzazione scientifica del lavoro o
taylorismo, assume i caratteri di una variante retributiva del
lavoro subordinato. Lavoro a tempo e lavoro a cottimo, che in
origine, sempre nella prestazione operaia, sono ambedue fornitura di
lavoro retribuita a misura, si congiungono, anche per effetto della
pressione sindacale e del garantismo legislativo, in un rapporto
tendenzialmente continuativo.
L'asse portante di questo rapporto è il concetto di
subordinazione, che però è molto vago, se non
rarefatto, e certamente di difficile applicazione pratica. Tale
concetto comunque consente una costruzione unitaria del rapporto di
lavoro nei termini più elementari di scambio tra prestazione
e retribuzione, che ingloba via via tipi di attività con
origine diversa da quella del lavoro industriale (lavoro
impiegatizio, domestico, salariati agricoli, fino ai dirigenti
aziendali). Per effetto di questa operazione concettuale, peraltro,
il diritto del lavoro viene a perdere i caratteri dell'originario droit
ouvrier, e finisce in sostanza per coprire un'area
interclassista: la piccola borghesia impiegatizia dapprima (v. Pic,
19225, p. 4) e, gradatamente e in misura diversa nei vari
ordinamenti, la nuova classe dei managers.
In effetti, il riferimento alla condizione sociale proletaria o, il
che è lo stesso, alla condizione dell'operaio dell'industria,
è frequente tra scrittori di derivazione marxista o
appartenenti all'eterogenea area del socialismo giuridico (si
rammenti in particolare l'opera di Menger, che eserciterà per
altri aspetti una profonda influenza). Tuttavia, mentre la
letteratura giuridica marxista appare impegnata piuttosto sul fronte
del diritto sindacale, nella dottrina e nella pratica giudiziale si
impone il criterio formale della ‛dipendenza' o ‛subordinazione',
che non solo diviene l'elemento qualificante del rapporto ma anche,
sebbene con tonalità diverse (e con particolare accentuazione
in Italia), il presupposto per l'applicazione del diritto del lavoro
in generale. Il tentativo di qualificare più corposamente
l'elemento della subordinazione ricorre più volte con la
valorizzazione dell'elemento impresa o organizzazione del lavoro.
Questo orientamento, che persegue il superamento della concezione
atomistica e individualistica del contratto, viene enunciato in
Germania da giuristi di ispirazione socialista (H. Potthoff, H
Sinzheimer), che pongono in speciale evidenza il rapporto di potere
che discende dal contratto di lavoro. Esso si ripropone, tuttavia, e
con maggiore anche se effimero successo, nel clima culturale delle
dittature fasciste; il collegamento lavoro-impresa viene evocato per
rinsaldare il principio di autorità (Führerprinzip e
art. 2086 del Codice civile italiano) (W. Siebert) o quanto meno per
dare fondamento a una concezione organicista del rapporto di lavoro,
di ispirazione romantico-medievalista, impostata sulla
fedeltà del lavoratore e sulla protezione dell'imprenditore
(von Gierke, Nikisch). Nei paesi ad alto livello industriale, il
rapporto di protezione si presenta tuttora in Giappone, al di
là dello schema contrattuale, come la nota tipica della
prestazione di lavoro, soprattutto nella grande impresa. La
concezione opposta del rapporto di scambio, applicabile al lavoro
nell'impresa come a quello fuori di essa, domina invece,
pressoché incontrastata, nel mondo anglosassone (T.
Ascarelli), e prevale anche nei paesi a economia statizzata (v.
Weltner, 1970, p. 117).
Collaterale all'individuazione del rapporto di dipendenza è
quella, più densa di contenuto politico-sociale, della
posizione del lavoratore come contraente più debole (v.
Menger, 1890, p. 23; v. Commons e Andrews, 19364, p.
502). Kahn-Freund (v., 19772, p. 6) potrà pertanto
affermare che ‟l'oggetto principale del diritto del lavoro è
sempre stato, e mi azzardo a dire che sempre sarà, di
costituire una forza di bilanciamento atta a compensare la
diseguaglianza di potere contrattuale che è inerente, e tale
non può non essere, al rapporto di lavoro". Questa
constatazione è all'origine delle limitazioni poste
all'autonomia delle parti, in quanto comporta l'abbandono
dell'ipotesi di eguaglianza tra i due soggetti e del rapporto
contrattuale come effetto di un incontro tra volontà libere
ed eguali. Lo stesso problema, in altri ambienti culturali, viene
formulato accentuando gli aspetti di tutela della persona piuttosto
che quelli inerenti al rapporto di mercato: posto che il lavoro non
è assimilabile a un bene dato in locazione, e poiché
la prestazione coinvolge la personalità del lavoratore, ne
viene dedotta la necessità di limitare, nella determinazione
dei termini di scambio, una libertà che finisce per volgersi
a danno di una delle parti.
Sia che l'argomento venga fondato su basi socioeconomiche, sia che
riveli le tracce di un'ispirazione personalistica, l'esito di
diritto positivo è lo stesso, nel senso che il rilievo del
momento volontario viene progressivamente ridotto, fin quasi ad
annullarsi. I contenuti del contratto sono determinati da fonti
sovrastanti alle parti - le leggi o gli accordi collettivi - mentre
anche il momento della costituzione del rapporto viene sottoposto in
taluni ordinamenti a vincoli intensi (si pensi alle assunzioni
obbligatorie di soggetti a ridotta capacità lavorativa, o al
collocamento obbligatorio, come vige in Italia, per vero con scarsa
effettività).
Conseguentemente, numerose voci si sono levate in dottrina per
sostenere la non contrattualità del rapporto di lavoro. Nei
paesi di common law, tale problema è stato
formulato (A. V. Dicey) come un processo inverso rispetto al
passaggio dallo status al contratto, che aveva invece
caratterizzato il sec. XIX. D'altra parte, vi è da rammentare
che il diritto nordamericano, a differenza di quello inglese,
rifiuta in genere la nozione di contract of employment, e
privilegia il momento del rapporto (employment relationship);
e ciò anche a seguito della diversa efficacia e funzione del
contratto collettivo rispetto a quello del diritto britannico (v.
Wedderburn, 19712, p. 79; v. sotto, cap. 7).
È pur vero, tuttavia, che un nucleo di rilevanza della
volontà sussiste pur sempre, vuoi nella stipulazione di
condizioni più favorevoli di quelle prestabilite in sede
eteronoma - come è ammessa nella maggior parte degli
ordinamenti - vuoi nella costituzione del rapporto che richiede la
volontà delle parti, anche nei pur limitati casi in cui essa
è oggetto di costrizione: per esempio, quando il lavoratore
che non accetti un'offerta di lavoro adeguata perde determinati
benefici oppure quando il datore di lavoro sia obbligato ad assumere
i lavoratori di ridotta capacità lavorativa (obbligo a
contrarre). La soluzione del problema dipende in ultima analisi
dalla nozione di ‛contratto' che lo studioso premette
all'argomentazione (v. Rodotà, 1970, p. 25); nozione che oggi
è tutt'altro che univoca. Ove si accetti la concezione di
impronta giusnaturalistica del contratto come strumento di
libertà, arduo sarebbe infatti riferirvi la moderna
disciplina del rapporto di lavoro.
La nozione di contraente più debole viene in genere data come
coincidente con quella di dipendenza o subordinazione. Anche sotto
questo aspetto è dato individuare la contraddizione,
già posta in luce, tra la definizione del contratto e la
funzione economico-sociale del diritto del lavoro. Infatti la
condizione di contraente più debole copre un'area in taluni
casi più ampia del rapporto di dipendenza (questo dicasi per
esempio con riguardo a rapporti associativi in agricoltura o a certe
forme di agenzia o di lavoro autonomo continuativo con gli stessi
committenti); in taluni casi più circoscritta, dato che non
tutti i lavoratori subordinati sono economicamente ‛deboli' (questo
dicasi per tutte le alte posizioni direttive o tecniche). L'aver
privilegiato il criterio formale (la subordinazione nell'esecuzione
del rapporto) rispetto a quello reale (l'esistenza effettiva di uno
squilibrio di forza contrattuale) ha probabilmente contribuito a
distorsioni del sistema, poiché ha iperprotetto rapporti che
già si svolgevano in condizioni di relativo equilibrio, e ha
lasciato invece fuori rapporti sociali di intenso sfruttamento.
5. I limiti dell'autonomia individuale
Il diritto del lavoro, per l'aspetto che concerne il contratto di
lavoro, è un sistema di limiti all'autonomia privata. Esso si
realizza con le tecniche giuridiche dell'invalidità (per es.
nullità del contratto stipulato dal minore non provvisto di
capacità giuridica lavorativa o del patto di mutamento
peggiorativo delle mansioni); delle clausole imposte (per es.
nullità di clausole difformi dalla legge o dal contratto
collettivo e sostituzione di diritto con quelle previste da tali
fonti, tra cui principalmente quelle relative alla misura del
salario); dell'obbligazione risarcitoria (frequente nei casi di
licenziamenti illeciti, ma non qualificati come invalidi); e, non di
rado, della sanzione penale.
Una tecnica ‛promozionale', articolata su incentivi o sanzioni
positive (per es., la costituzione di un rapporto in caso di mancata
assunzione per motivi illeciti), appare negli anni più
recenti, soprattutto nelle leggi antidiscriminatorie (v. sotto, cap.
9).
La materia oggetto di queste norme restrittive dell'autonomia
privata è amplissima e variamente distribuita tra leggi e
contratti - né va sottaciuto l'influsso che per es. negli
Stati Uniti o in Italia hanno avuto le Costituzioni. A un sommario
esame, si possono indicare tra gli argomenti più ricorrenti
nella fonte legislativa: capacità di lavoro, forma del
contratto, durata massima del lavoro, ferie e festività,
sicurezza e igiene del lavoro, invalidità del contratto,
obbligazioni accessorie del datore di lavoro e del lavoratore,
licenziamenti. Tra gli argomenti propri piuttosto dei contratti
collettivi: minimi retributivi e classificazioni professionali,
lavoro straordinario, indennità relative alle condizioni di
lavoro, incentivi, cottimi e premi di produzione, trattamenti di
risoluzione del rapporto e, più di recente, livelli di
occupazione, controllo del decentramento industriale. Sovente,
comunque, la legislazione fissa i principi e i contratti collettivi
vi danno applicazione, ovvero questi ultimi introducono innovazioni
che la legge consolida e generalizza. A tali materie si aggiungono
ora le legislazioni contro la discriminazione, soprattutto razziale
e per sesso, che hanno la prima realizzazione con il Civil
rights act emanato negli Stati Uniti nel 1963. Inoltre,
è recentissima una tendenza a estendere l'area normativa
oltre la protezione degli interessi patrimoniali o del benessere
fisico, per fornire una tutela della libertà e dignità
del lavoratore nella vita di relazione in fabbrica (in Italia,
Statuto dei lavoratori, 1970). Ciò può essere
realizzato anche mediante l'attribuzione di specifiche competenze ai
consigli di fabbrica (RFT, 1972) o ai sindacati (Svezia, 1976).
Il progresso della normativa del contratto di lavoro segue comunque
due tracciati ideologicamente divergenti. Da una parte si ribadisce
la natura ‛personale' del rapporto, per cui il sistema delle
garanzie viene articolato sulla premessa, che è a un tempo
descrittiva e ottativa, del pieno coinvolgimento del lavoratore
nella vita dell'impresa e del dovere di fedeltà a
quest'ultima. L'esito politico coerente di tale concezione, che
presenta forti impronte organicistiche, è stato
l'attribuzione ai lavoratori di poteri di cogestione, in una con
l'attenuazione degli elementi di conflitto d'interessi con l'altra
parte: e questo è apparso il caso della Repubblica Federale
Tedesca. Dall'altra, soprattutto nei paesi anglosassoni, ma anche in
Francia o in Italia, l'orientamento di principio è piuttosto
nel senso di tutelare la persona, impedendo che venga coinvolta
nella sfera di interessi dell'imprenditore a cui, a costanza di
sistema politico e sociale, essa appare sostanzialmente estranea. La
linea di tendenza in questo caso è verso il potenziamento
delle garanzie giuridiche contro l'imprenditore, la riduzione dei
doveri del lavoratore al puro ambito della prestazione convenuta,
nonché verso il riconoscimento dei diritti di libertà
nei luoghi di lavoro. Tuttavia, ad onta delle diverse premesse
ideologiche, gli esiti sono sovente omogenei; così, a
proposito di esercizio della libertà sindacale (ma assai meno
in tema di sciopero) o di tutela della dignità del
lavoratore, sia nel posto di lavoro sia, anche con l'affermarsi del
principio dell'irrilevanza della vita privata nelle vicende del
rapporto (v. cap. 10), fuori di esso. La stessa partecipazione agli
organi dell'impresa, che ha celebrato i suoi fasti, come si
ricordava, nella Repubblica Federale Tedesca, è ora oggetto,
nel ben diverso ambiente culturale britannico, di una proposta
ufficiale (Rapporto Bullock, 1976).
Infine, la prevalenza degli elementi di collaborazione su quelli
conflittuali, nel nome della disciplina socialista del lavoro,
è connaturata all'ideologia giuridica dei paesi comunisti
dove, comunque, non è venuto meno l'apparato garantistico del
lavoratore nei confronti della proprietà collettiva (v.
Weltner, 1970, p. 172). Anche qui sono rilevabili tendenze non
uniformi. Così il riferimento alla disciplina socialista
(cfr. Codice del lavoro cecoslovacco, 1970 e il Codice del lavoro
della Repubblica Federale Tedesca, 1961), cui è propria
l'idea di una intensa fedeltà all'impresa, non compare nel
recentissimo Codice del lavoro polacco (1976), che (art. 12) impone
al lavoratore, in termini più cauti, il dovere di ‟impegnarsi
a conseguire dal proprio lavoro i migliori risultati possibili e di
manifestare a tal fine l'appropriato spirito di iniziativa
nonché ad aver cura dell'interesse e dei beni dell'azienda".
6. La libertà e l'organizzazione sindacale
Come abbiamo ricordato, per diritto sindacale si intende il sistema
di norme che si pone come cornice all'attività dei gruppi
organizzati. Condizione di esistenza del diritto sindacale è
pertanto che vi siano gruppi organizzati o coalizioni. I rapporti di
diritto sindacale sono rapporti tra ‛po teri collettivi': le
coalizioni dei lavoratori e le imprese, intese queste ultime come
‟accumulazioni di risorse materiali e umane che ne fanno un potere
collettivo" (v. KahnFreund, 19772, p. 6). La formazione
delle coalizioni operaie, in conflitto con il potere collettivo
delle imprese, è fenomeno tipico del sec. XIX, ed è
effetto indotto dall'industrialismo, anche se non sempre dalla
concentrazione del lavoro nelle manifatture (o factory system)
(v. Commons e altri, 1918, vol. I, p. 8, con riferimento alla storia
americana, in cui le prime coalizioni si formano nello stadio del
capitalismo mercantile).
La tipologia del diritto sindacale è variegata, e dipende a
sua volta dalla tipologia delle relazioni industriali in ciascun
determinato paese. Un quadro compiuto e analitico, al di là
della comparazione tra le istituzioni legali, potrebbe oggi essere
definito con l'ausilio della disciplina delle ‛relazioni
industriali' approfondita soprattutto nei paesi anglosassoni (v.
Sellier, 1976). Essa, secondo la definizione di Spyropoulos (v.,
1976, p. 17), ‟si riferisce ai modi con cui vengono stabilite e
applicate le norme di lavoro e ai modi con cui vengono adottate le
decisioni per distribuire tra i produttori i frutti
dell'attività produttiva". In questo ambito disciplinare sono
state elaborate tipologie differenziali, che tengono conto di
variabili, tra cui le principali sono: regime politico; livello
dell'industrializzazione; struttura del mercato del lavoro;
motivazioni e comportamenti dei soggetti (imprese, sindacati,
operatori pubblici). Ogni data combinazione delle variabili genera
un sistema di relazioni industriali; che è comunque un
sistema di norme di lavoro (v. Fox e Flanders, 1969).
Da un punto di vista rigorosamente giuridico, deve riconoscersi che
il diritto sindacale appare in tutti gli ordinamenti in cui è
ammessa l'esistenza del gruppo organizzato. Sotto questo aspetto,
pertanto, è dato affermare l'universalità del diritto
dei gruppi organizzati, apparendo ormai del tutto superate quelle
strutture legali rigorosamente individualistiche che, in polemica
con l'ancien régime, avevano improntato costituzioni
e codici del secolo passato.
Questa ‛universalità' del diritto sindacale, testimoniata
anche dalla quasi totale adesione delle nazioni all'OIL
(Organizzazione Internazionale del Lavoro), non vale peraltro a
sfumare la discriminante fondamentale, che è quella tra gli
ordinamenti caratterizzati dal riconoscimento e
dall'effettività della libertà sindacale, e quelli
invece dove questa, di diritto o di fatto, non è operante:
vuoi nei regimi autoritari, qualificati o no da ordinamenti
corporativi della produzione, vuoi nei regimi di modello sovietico,
per la particolare posizione che ivi assume il sindacato. In tali
sistemi, comunque, è dato sovente constatare una discrepanza
clamorosa tra la normativa, che consacra il principio di
libertà, e la realtà di fatto. Tali contraddizioni
hanno formato oggetto in alcuni casi di denunce o di interventi nel
seno di varie organizzazioni internazionali (Comitato per la
libertà sindacale dell'OIL, Comitato di esperti per
l'attuazione della Carta sociale europea presso il Consiglio
d'Europa).
In una trattazione che, come la presente, non si propone
direttamente obiettivi di comparazione giuridica, ma intende
piuttosto porre in luce i tratti più originali di questo ramo
del diritto, attingendo i dati significanti dei vari ordinamenti,
appare opportuno concentrare l'attenzione sulle strutture che
traggono origine dall'antagonismo tra capitale e lavoro, e che sono
perciò costruite sul rapporto ‛conflittuale' tra i poteri
collettivi dianzi rammentati. I sistemi conflittuali presuppongono:
a) un'identità dell'organizzazione sindacale del tutto
distinta da quella dello Stato e libera da ingerenze di
quest'ultimo; b) la disponibilità di strumenti di autotutela,
e perciò, principalmente, dello sciopero. L'antagonismo
conflittuale può avere o no connotazioni riconducibili alla
lotta di classe; quest'ultima appare pressoché irrilevante,
per esempio, in un sistema di relazioni industriali pur accesamente
conflittuale come quello degli Stati Uniti. Tale antagonismo non
viene a priori escluso, almeno sul piano teorico, in
regimi che si definiscono di dittatura del proletariato (cfr. per
esempio, la Costituzione cinese del 1975, che ammette la
libertà di sciopero).
Nel diritto sindacale così inteso acquistano rilevanza
centrale tre istituti o gruppi di istituti giuridici: la
libertà sindacale e il sindacato; il contratto collettivo di
lavoro e le procedure per la stipulazione di esso; le forme di
autotutela.
Prima di esaminare, sia pure in forma sintetica, tali istituti,
è peraltro necessario porre in rilievo una peculiarità
ulteriore di questo ramo del diritto, propria soprattutto dei
sistemi di antagonismo conflittuale; e cioè che la materia di
esso non si identifica sempre con quella dell'ordinamento giuridico
dello Stato, potendosi avere in taluni e non infrequenti casi una
produzione normativa ‛non azionabile' in sede di giurisdizione
statuale e rimessa a meccanismi sanzionatori interni allo stesso
sistema delle relazioni industriali. Tale fenomeno è visibile
nel sistema britannico dove, come si accennerà più
oltre, il contratto collettivo è una realtà viva e
operante, ma normalmente priva di enforceability diretta;
e lo stesso è stato riscontrato (v. Giugni, 1960) in alcuni
momenti e aspetti dei rapporti collettivi di lavoro in Italia.
Il tema della libertà sindacale, principio elevato a valore
costituzionale solo nelle costituzioni di questo secolo (Messico,
1917; Germania, 1919; Francia, 1946; Italia, 1948; RFT, 1949; Carta
delle Nazioni Unite, 1945) si pone in primo luogo con riferimento
agli individui, e acquista valore problematico soprattutto nel
profilo della cosiddetta libertà sindacale negativa, e
cioè della libertà di non aderire a una determinata o
a nessuna organizzazione sindacale. Tale problema è
particolarmente sentito nei paesi (soprattutto anglosassoni) in cui
è diffusa nelle sue numerose varianti la pratica dell'union
shop, in forza della quale l'iscrizione al sindacato diviene
condizione per l'occupazione. Qualora non si ritenga che la
libertà sindacale sia riferibile anche all'aspetto negativo
di essa, sorge un conflitto, che può tingersi di forti
cariche polemiche, con riguardo al principio, anch'esso a volte
costituzionalmente garantito, del diritto al lavoro. In questo
contrasto tra interesse collettivo e individuale, di non rara
ricorrenza nel diritto sindacale, l'obiettivo di rafforzare
l'organizzazione e rendere effettiva la libertà collide con
la costruzione della libertà stessa in termini rigorosamente
individualistici. La stessa consistenza del problema varia a seconda
che sia operante un sindacalismo unitario e non ideologico, oppure
un sindacalismo pluralistico fondato su differenze di credo
politico, che rendono più essenziale la garanzia del diritto
di non appartenenza, e cioè della libertà sindacale
negativa. Si può comunque rilevare, nel complesso, un
atteggiamento restrittivo da parte dei vari ordinamenti nei
confronti delle clausole di appartenenza obbligatoria: limitate
negli Stati Uniti, soprattutto dalle leggi statali (le leggi sul right
to work, vivacemente contrastate dal movimento sindacale),
esse sono state dichiarate incostituzionali dalla Corte federale del
lavoro della Repubblica Federale Tedesca.
Un ulteriore importante sviluppo viene dall'applicazione della
garanzia di libertà anche nei rapporti interprivati
(l'effetto di Drittwirkung, v. sotto, cap. 9), laddove la
concezione dei diritti di libertà come diritti pubblici
soggettivi vedeva come termine di essi solo lo Stato. Intesa in
questo senso, la libertà sindacale diviene diritto alla non
discriminazione da parte del datore di lavoro, e genera lo sviluppo
di tecniche giuridiche appropriate. Già in tal modo essa
acquisisce una dimensione collettiva come fattore di equilibrio
rispetto al potere ‛collettivo' dell'imprenditore.
Tale valenza collettiva appare naturalmente più netta quando
la normativa riguarda il sindacato in quanto tale. Si noti
però che negli ultimi decenni il problema della
qualificazione giuridica del sindacato inteso come associazione
è stato ridimensionato e condotto nei suoi giusti termini;
l'attribuzione della personalità giuridica è apparsa
di per sé come uno strumento valido soprattutto ai fini
patrimoniali, peraltro non tipici né di primaria importanza
nell'esperienza sindacale, ma non come presupposto necessario per
altri effetti di maggior rilievo.
L'associazione sindacale appare pertanto oscillare tra la figura
della persona giuridica vera e propria, forme di soggettività
attenuata (Francia) o di certificazione (Gran Bretagna, 1975) e la
qualificazione di associazione di fatto, ma pur sempre idonea a
costituire un centro di imputazione unitario per alcuni rapporti
giuridici (Italia, Repubblica Federale Tedesca). Una menzione a
parte meritano invece le rappresentanze aziendali, perché
sovente esse appaiono fondate sulla rappresentanza elettorale
anziché su quella associativa. Nell'ordinamento tedesco, e
fin dal tempo di Weimar, il consiglio di fabbrica non è
organo associativo né sindacale. Nell'esperienza italiana di
questi ultimi anni, il consiglio di fabbrica si è invece
sviluppato secondo un modulo riconducibile sul piano funzionale
all'organizzazione sindacale, mentre sul piano strutturale permane
una dicotomia tra l'associazione fondata sul principio di adesione e
l'istituzione aziendale alla cui formazione possono partecipare
tutti i lavoratori.
Nonostante la variabile qualificazione giuridica, l'associazione
sindacale presenta, in vario grado, ricorrenti forme di
capacità, come alcune legittimazioni processuali, la
legittimazione a stipulare contratti collettivi, a proclamare lo
sciopero o, sul piano pubblicistico, a designare rappresentanti in
corpi o collegi pubblici. A tal fine può essere richiesto il
requisito della rappresentatività, che è una
valutazione di effettività dell'organizzazione: così,
in Francia, dal 1971 la capacità contrattuale è
riservata ai sindacati rappresentativi; l'Employment protection
act emanato nel 1975 in Gran Bretagna impone invece il
requisito della indipendenza.
Una linea di tendenza in espansione è quella della normativa
di sostegno dell'attività sindacale, che è in
realtà un conseguente sviluppo della garanzia di
libertà sindacale, nelle forme di esercizio collettivo di
essa. Anche qui l'attività del sindacato, in genere, viene
presa in considerazione, per implicito o espressamente, in base alla
rappresentatività e cioè in ragione della rilevanza
sociale dell'attività dispiegata dal sindacato stesso. A
vantaggio di questo l'ordinamento riconosce specifiche
capacità o diritti, a cui corrisponde, generalmente, una
restrizione della sfera giuridica dell'imprenditore. Permessi
retribuiti per lo svolgimento dell'attività sindacale,
facoltà di indire assemblee anche nel luogo di lavoro,
diritto di affissione e di sede nei locali aziendali, diritto di
prelievo dei contributi: l'una o l'altra di queste forme
dell'attività sindacale trovano espliciti riconoscimenti
nella legislazione francese (1968), nello Statuto dei lavoratori
italiano (1970), nel Trade unions and labour relations act britannico
(1974). Si possono menzionare inoltre le sovvenzioni da parte degli
imprenditori previste da contratti collettivi nel Belgio. La legge
può infine intervenire a sancire veri e propri diritti di
informazione, di negoziazione o di codeterminazione: siamo allora
peraltro in un campo che non attiene più all'attività
sindacale in quanto tale ma ai rapporti tra i contrapposti poteri
collettivi, ed è materia che può essere affrontata
nell'ambito dei problemi connessi all'attività di
contrattazione collettiva, soprattutto nei suoi più recenti
sviluppi (v. sotto, cap. 10).
7. Il contratto collettivo di lavoro
Il contratto collettivo di lavoro è lo strumento che
stabilisce la misura e la qualità del rapporto di equilibrio
tra i due poteri collettivi antagonistici. Con il contratto
collettivo viene posta in essere una composizione temporanea del
conflitto, generato, il più delle volte, dalle
‛rivendicazioni' dei lavoratori: nulla impedisce peraltro che siano
l'imprenditore o la coalizione degli imprenditori a proporre proprie
rivendicazioni, e così avviene ad esempio quando il conflitto
insorge a seguito di riduzioni del personale.
Il contratto assume pertanto una funzione sociale di ‛trattato di
pace' (v. Scelle, 1922; v. Kahn-Freund, 19772, p. 122) e,
riguardo al suo contenuto, pur ribelle a ogni definizione
ontologica, esso può essere individuato in: a) norme che
regolano in via diretta i contenuti dei rapporti di lavoro; b) norme
che regolano le procedure per la determinazione delle prime, ponendo
vincoli ‟ai comportamenti e alle modalità d'azione delle
diverse organizzazioni formali e informali che fanno parte del
sistema di relazioni industriali" (v. Fox e Flanders, 1969). Questa
tipologia funzionale di contenuti corrisponde a quella tra norme di
condotta e norme sulla produzione giuridica, ben nota nella
giuspubblicistica, ma è stata resa nel diritto del lavoro,
coltivato soprattutto da scrittori di cultura civilistica, in base
alle differenze degli effetti discendenti da esse. Si è
così consolidata una distinzione, la quale trae origine dalla
dottrina tedesca (v. Sinzheimer, 1908, pp. 92 ss.) e appare
ampiamente diffusa (in Italia per opera di Messina, in Francia di
Durand), tra la parte normativa (ricollegabile a sua volta alla
specie del contratto normativo) e la parte obbligatoria del
contratto. La distinzione è importante e tuttora
attualissima; tuttavia essa, per la ragione anzidetta, può
risultare deviante rispetto a una cognizione funzionale
dell'istituto, ed è mal adattabile alle clausole o parti
procedurali e istituzionali (per es., commissioni miste, procedure
arbitrali e di conciliazione, fondi previdenziali) tutt'altro che
infrequenti nell'esperienza contrattuale.
La funzione primaria di composizione del conflitto è comune a
tutti i contratti che sono, per l'appunto, atti di composizione di
interessi. La tipicità del contratto qui in esame è
data dalla natura collettiva dei soggetti coinvolti, per cui gli
interessi in gioco divengono interessi collettivi. La funzione ‛di
pace' assume peraltro caratteri specifici dove e quando si prolunga
in un impegno di non modificare l'assetto di interessi per un tempo
determinato. In Germania fu acquisito fin dalle origini (v.
Sinzheimer, 1908, pp. 171 ss.) che ogni contratto collettivo
comprendesse come effetto naturale il dovere di tregua o di pace
sociale, nel senso che ne derivasse un obbligo per i sindacati
stipulanti di astenersi da scioperi inerenti alle materie regolate
dal contratto stesso, fino alla sua scadenza.
Il dovere di pace ‛relativo' (da distinguersi dal dovere ‛assoluto',
che è l'impegno, questa volta non implicito, a non ricorrere
all'azione diretta neppure per materie non regolate nel contratto),
è invece altrove ritenuto un effetto del contratto solo se
abbia formato oggetto di un esplicito accordo (clausola di tregua o
di no-strike). In paesi dove il diritto di sciopero ha un
riconoscimento costituzionale, in particolare in Italia e in
Francia, si è persino dubitato della validità di tali
clausole, in quanto comportano una rinuncia, sia pure temporanea,
all'esercizio di un diritto costituzionale. Al di là di tali
dispute, è dato constatare che l'intensità del vincolo
che deriva dal contratto è un riflesso, in sede di disciplina
legale, del grado di vocazione conflittuale del sindacato e/o di
accettazione del conflitto stesso da parte del sistema politico. Non
è casuale il fatto che la dottrina dell'obbligo di pace come
effetto naturale del contratto collettivo sia propria di un paese
dove i conflitti di lavoro sono fortemente contenuti, mentre, sia
pure in modo diverso, la vincolatività dei contratti nel
senso qui esaminato è stata ed è oggetto di accesa
controversia in Gran Bretagna, come in Italia e in Francia.
Sotto il profilo economico, il contratto collettivo, in quanto posto
in essere da una coalizione di operatori nel mercato del lavoro, o
(qualora anche gli imprenditori siano organizzati) da due coalizioni
contrapposte, è uno strumento limitativo della concorrenza;
tende cioè a creare un mercato monopolistico. Per tale
ragione esso, in passato, fu colpito negli Stati Uniti mediante la
legislazione anti-trust. Trattandosi di un mercato
caratterizzato da spiccati aspetti di imperfezione e di squilibrio,
la limitazione della concorrenza è tuttavia apparsa come un
fattore di normalizzazione del mercato stesso.
Tale funzione normalizzatrice può svolgersi in due modi: con
il controllo dell'accesso al lavoro e con l'imposizione della norma
comune (Webb). Il primo metodo si attua con il collocamento
sindacale, ed eventualmente con l'adesione obbligatoria (union
shop; v. sopra, cap. 6), integrata sovente da condizioni
restrittive di ammissione. Quest'ultima forma appare tipica del
sindacalismo di mestiere (v. sindacalismo).
Il secondo metodo è quello che si giova, soprattutto, del
contratto collettivo. Esso può essere orientato alla
determinazione dei minimi, derogabili dai soggetti individuali solo
con trattamenti più favorevoli ai lavoratori, e questo
è tipico della maggior parte dei paesi europei; oppure, come
negli Stati Uniti, può fissare le condizioni effettive, e in
tal caso il contratto collettivo vanifica praticamente quello
individuale.
È in ragione di tale funzione normalizzatrice del mercato che
si avverte la necessità di attribuire al contratto collettivo
la più ampia sfera di efficacia. E poiché negli
ordinamenti ispirati ai principî privatistici esso ha effetti
circoscritti agli stipulanti (sindacati e loro iscritti), si pone il
problema di generalizzarne l'area di applicazione.
Tale risultato può essere conseguito di fatto quando il tasso
di sindacalizzazione è molto elevato, mentre nel caso diverso
vengono in genere sperimentati vari meccanismi di estensione: da
quello dell'union shop, che indirettamente estende il
contratto a tutti i lavoratori dell'azienda, alla generalizzazione
del contratto a un intero ramo produttivo mediante un atto
normativo, fino all'efficacia direttamente erga omnes.
Quest'ultima fu introdotta in Italia dal regime corporativo e,
prevista dalla Costituzione, ma con norma rimasta inattuata (art.
39, comma 3), venne realizzata nel 1959 da una legge ‛transitoria',
che diede forza normativa ai contratti collettivi allora esistenti.
In questi ultimi anni il generale rafforzamento dei sindacati,
congiunto a indirizzi giurisprudenziali equitativi, hanno comunque
prodotto anche in Italia una situazione di quasi generalizzazione di
fatto. Si noti che, quando è elevata la sindacalizzazione,
anche dove è prevista la possibilità di estensione con
atto normativo, raramente a essa vien fatto ricorso (così
nella Repubblica Federale Tedesca).
Le due funzioni di regolamentazione dei rapporti di lavoro e di
controllo sul mercato (v. Kahn-Freund, 19772) appaiono
perciò strettamente connesse, fino a fondersi in una sola. La
variabile da prendere in considerazione è invece quella
relativa alla forza organizzativa del sindacato: dove questa
è rilevante, la norma comune si impone senza l'apporto della
forza statale, altrimenti questa viene evocata per consolidare i
risultati contrattuali.
Il fatto che il contratto collettivo e la legge spesso riguardino le
medesime materie e che sia frequente l'assunzione di norme
contrattuali in norme di legge o in provvedimenti muniti di pari
efficacia, sta a indicare che questo istituto, quanto ai contenuti,
è il più delle volte assimilabile a un atto normativo
generale e astratto. È però importante avvertire che
la cognizione di questo complesso sistema di regolamentazione dei
rapporti di lavoro sarebbe parziale ove, come accade di frequente
nelle trattazioni giuridiche, l'attenzione fosse circoscritta al
contratto collettivo in sé e per sé considerato e non
fossero presi in esame i nessi che collegano un contratto all'altro,
sia in senso temporale, sia con riguardo alle aree geografiche e
professionali coinvolte: vale a dire, il processo o sistema di
contrattazione. Nei cosiddetti sistemi ‛dinamici', come quello
britannico, il flusso di accordi continuativi, sovente mediati da
istituzioni paritarie, è di gran lunga più importante
del testo formale, via via rinnovato con modifiche a scadenza, che
segna piuttosto il ritmo della contrattazione nella tradizione
europea continentale e in quella statunitense. Ma anche in queste
ultime, a ben guardare, il momento dinamico esiste e si esprime
nell'applicazione dei testi tra una scadenza e l'altra; un momento
applicativo che, soprattutto quando è calato nella
concretezza dei rapporti aziendali, si svolge con integrazioni e
innovazioni che danno corpo, per l'appunto, a un modello dinamico.
Come tutti i modelli, anche quello che distingue tra forme statiche
e forme dinamiche è schematico, epperciò, se elevato a
dogma, può anche essere deformante. È certo comunque
che nell'esperienza sindacale dell'Europa continentale i contratti
collettivi appaiono sovente nella forma di codici professionali,
rispondenti a una funzione più spiccatamente normativa,
laddove il modello dinamico esalta piuttosto gli aspetti
procedimentali della contrattazione.
L'identità giuridica del contratto collettivo (natura
contrattuale, regolamentare, mista; v. Despax, 1966) è
notevolmente controversa, e si può dire che un dibattito
durato più di cinquant'anni non sia giunto a una conclusione
sicura. Che una produzione normativa possa avvenire anche con
l'impiego dello strumento contrattuale è noto al diritto
pubblico, e in particolare al diritto internazionale. I problemi che
si pongono in ordine al contratto collettivo riguardano soprattutto
la natura di esso in rapporto agli effetti giuridici. Così,
la non enforceability, salvo espressa volontà delle
parti, confermata dalla più recente legislazione britannica
(1974), qualifica il contratto collettivo come un'espressione di
autonomia sociale operante fuori della sfera dei rapporti assunti
come rilevanti dall'ordinamento statuale. Al contrario, è
abbastanza consolidata negli Stati Uniti l'opinione che il contratto
collettivo sia un accordo a contenuto normativo (legislative),
del tutto estraneo alle forme contrattuali tutelate dalla common
law; a simili, anche se più elaborate, conclusioni si
perviene dove, come in Germania o in Francia, è il diritto
positivo stesso ad attribuire al contratto collettivo una forza
imperativa diretta. Diverso è il caso in cui, in assenza di
una tale statuizione positiva, l'istituto venga ricondotto
nell'ambito del diritto comune delle obbligazioni, dove la deroga
dei soggetti individuali alla norma comune può essere
costruita solo in termini di inadempimento. Questa è stata la
vicenda di tutti gli ordinamenti di civil law prima
dell'emanazione di leggi ad hoc, e in particolare
dell'Italia prima e dopo il sistema corporativo, anche se ormai una
giurisprudenza consolidata, congiunta a indirette prescrizioni
legislative, ha in sostanza sancito l'effetto inderogabile e
configurato pertanto una funzione normativa imperativa, sia pure di
diritto privato.
Vero è che il contratto collettivo è un istituto con
tratti irriducibili sia alle fonti come categorizzate dal diritto
pubblico moderno, sia al contratto come definito dalle
codificazioni. La persistente difficoltà di costruzione
giuridica può pertanto in parte essere imputata alla
pervicace tendenza delle scuole giuridiche tradizionali a elevare le
proprie definizioni dei meccanismi normativi a essenze, a cui
debbono ricondursi per necessità logica tutte le forme
dell'esperienza giuridica. Tale vizio di metodo rende ovviamente
ardua più del necessario la definizione di un istituto che
è stato generato da rapporti sociali del tutto specifici
rispetto alla struttura statuale che produce la legge, così
come ai rapporti prevalentemente mercantili su cui si fonda la
vicenda storica del contratto; e che, in ultima analisi, si muove
secondo regole interne che non è apparso azzardato definire
come ‛esoteriche' (v. Kahn-Freund, 19772, p. 56).
8. Lo sciopero
Anche questo è un istituto tipico e inconfondibile del
diritto del lavoro, di cui si è tentato di tracciare analogie
più o meno plausibili con il diritto di resistenza o con i
poteri di veto. In realtà il fenomeno dello sciopero è
la diretta derivazione di due aspetti tipici dell'industrialismo e
cioè: a) la sostituzione del contratto di lavoro ai rapporti
servili o vincolati dell'età precedente: da questo punto di
vista lo sciopero è null'altro che il ritiro collettivo e
concertato della forza lavoro dal mercato; b) l'agglomerazione di
masse di lavoratori nelle manifatture, e la conseguente formazione
di condizioni favorevoli all'organizzazione di azioni collettive.
Lo sciopero risulta essere storicamente il primo modo di espressione
della protesta collettiva, che dà forma a coalizioni
più o meno temporanee, dalla cui graduale stabilizzazione ha
origine il sindacato (v. Kahn-Freund, 1954).
La prima reazione degli ordinamenti, in omaggio a una concezione
rigorosamente individualistica dei rapporti economici, è
dovunque repressiva: la coalizione per provocare il rialzo del
prezzo del lavoro è punita nei codici penali o dalla dottrina
della conspiracy. Quest'ultima è fondata sul
principio per cui ciò che è lecito al singolo (nel
nostro caso: il rifiuto del lavoro) può non esserlo se
attuato da più soggetti in forma concertata. All'inizio del
secolo, peraltro, appare abbastanza generalmente consolidato il
principio della non punibilità, ovvero dello
sciopero-libertà; il rifiuto del lavoro è
inadempimento, e come tale è perseguibile, ma solo in sede
civile. Gli stessi valori fondamentali dello Stato liberale
rendevano difficilmente sostenibile la negazione della
libertà di disporre del proprio lavoro contenuta nel divieto
delle coalizioni. Forme di repressione dello sciopero, anche se
episodiche, permangono negli Stati Uniti fino agli anni trenta. La
repressione è invece ripristinata e applicata con estremo
rigore nei regimi fascisti e in quelli di modello sovietico.
Il diritto di sciopero forma oggetto di garanzia costituzionale per
la prima volta nella Carta di Querétaro (Messico, 1917) e,
dopo la seconda guerra mondiale, nelle Costituzioni francese,
italiana e, più di recente, nella Costituzione portoghese del
1976. Interessa rilevare che tale riconoscimento si ha anche nella
Costituzione cinese del 1975 e si può infine aggiungere che
il diritto di sciopero è affermato da importanti Carte
internazionali, sia pure di variabile efficacia (art. 6 della Carta
sociale europea, 1965; art. 8 del Patto internazionale sui diritti
economici, sociali e culturali dell'ONU, 1966).
La novità del diritto di sciopero rispetto alla
libertà di sciopero viene essenzialmente individuata
nell'effetto che l'inadempimento all'obbligo di lavorare produce sul
rapporto di lavoro. Dove è ammesso che lo sciopero ha per
effetto la sospensione di quest'ultimo senza altra conseguenza che
la perdita del salario, si può affermare che esiste un vero e
proprio diritto di sciopero (v. Calamandrei, 1952). A parte i casi
del riconoscimento costituzionale, per cui non sorge problema,
l'effetto sospensione è ormai quasi generalmente acquisito
nell'ambito degli ordinamenti a libertà sindacale. Un analogo
risultato producono le norme che dispongono l'immunità dello
sciopero dalle varie conseguenze di common law.
Il diritto di sciopero, tuttavia, non si esaurisce necessariamente
nella sospensione, e anzi è improprio definire un diritto in
base agli effetti giuridici prodotti dall'esercizio di esso. E
infatti vanno riportati al contenuto del diritto anche alcuni
comportamenti, tutelati dalla legge in misura e modo variabile, che
costituiscono i vari elementi in cui si snoda l'azione dello
sciopero nel suo complesso: vale a dire, oltre la sospensione del
lavoro, la deliberazione, la diffusione e la propaganda, il
picchettaggio pacifico ecc. Anch'esse riferibili al contenuto del
diritto, perché dirette a garantirne l'effettività,
sono le norme che impediscono comportamenti ostativi, quali: la
sostituzione degli scioperanti, gli atti di discriminazione, la non
riammissione al lavoro a sciopero terminato. La sospensione del
lavoro è il fatto centrale, ma non è tutto, nello
svolgimento di uno sciopero; eppertanto la garanzia della
facoltà di astenersi dal lavoro, e cioè l'effetto
sospensivo, non è sufficiente a esaurire il contenuto del
diritto di sciopero.
Raramente lo sciopero si sottrae a una qualche forma di
regolamentazione dettata dalla legge o elaborata dalla
giurisprudenza o, infine, definita dai contratti collettivi o da
norme interne dei sindacati stessi. La regolamentazione si snoda in
genere in ragione di: a) i fini dello sciopero (economico, politico,
ecc.); b) le modalità di attuazione (preavviso, limiti alle
cosiddette forme anomale, salvaguardia degli impianti e servizi
essenziali, ecc.); c) i soggetti (lavoratori del settore privato,
dipendenti pubblici, funzionari, personale militare, ecc.); d) le
procedure di conciliazione e mediazione, l'arbitrato. La serie dei
problemi è vastissima e non è qui possibile darne
conto, apparendo invece utile tentare di definire i tratti
essenziali di un diritto comune, insieme con una indicazione degli
argomenti più dibattuti nel momento attuale.
In linea di massima, è dato riscontrare che la
titolarità dello sciopero è estesa ormai anche al
settore pubblico, se pure non alla totalità di esso (vedi per
es. l'eccezione dei funzionari o Beamte della Repubblica
Federale Tedesca e altrove, e quella pressoché generale dei
militari); lo sciopero politico è stato espressamente
dichiarato ammissibile solo in Italia (con la sentenza n. 290 del
1974 della Corte costituzionale); la salvaguardia dei servizi
essenziali è prevista da norme di legge o, come in Italia e
nella Repubblica Federale Tedesca, da orientamenti giurisprudenziali
o da forme di autodisciplina.
Raro è il ricorso a vere e proprie forme di arbitrato che,
d'altronde, nella sua versione obbligatoria, sarebbe difficilmente
compatibile con il diritto di sciopero, ma crescente appare
l'intervento degli organi politici nella mediazione dei conflitti o
nella preventiva determinazione dei limiti degli aumenti salariali
(politica dei redditi, guidelines). In altre parole,
mentre si è consolidato un ampio riconoscimento della
legalità del conflitto (se pur con scarti notevoli, basti
raffrontare la Repubblica Federale Tedesca all'Italia), crescenti
sono le tendenze verso forme di gestione politica di esso.
Ciò ha determinato anche la scarsa funzionalità degli
organi di mediazione di tipo paragiurisdizionale (v. Lyon Caen,
1974, p. 242), che, soprattutto per la suggestione delle singolari
esperienze dell'Australia e della Nuova Zelanda, avevano avuto una
certa diffusione nei primi decenni del secolo.
Un altro dato da registrare è, in generale, la scarsa
incisività della regolamentazione non sostenuta dal consenso
dei lavoratori organizzati oppure da quello di una vasta parte
dell'opinione pubblica. La vicenda dell'industrial relations act,
emanato nel 1971 in Gran Bretagna e abrogato solo tre anni dopo,
è stata la manifestazione più clamorosa di fallimento
di una regolamentazione imposta in pieno contrasto con i principali
destinatari; si può notare invece che le regolamentazioni
restrittive introdotte negli Stati Uniti nel 1947 e gradualmente
elaborate nella Repubblica Federale Tedesca dalla Corte federale del
lavoro, soprattutto nel periodo di presidenza del prof. H. C.
Nipperdey, abbiano sostanzialmente resistito alla più o meno
compatta ostilità dei sindacati. Al contrario, in Italia e in
Francia la resistenza di questi ultimi ha in pratica vanificato la
forza repressiva di leggi o di indirizzi giurisprudenziali,
concernenti peraltro soltanto conflitti o modalità di
conflitto particolarmente gravi per la collettività (servizi
pubblici) o per la controparte (gli scioperi cosiddetti articolati o
a scacchiera o a intermittenza).
Un particolare rilievo ha manifestato il problema dell'attribuzione
del diritto di sciopero ai singoli ovvero ai sindacati,
epperciò quello del trattamento del cosiddetto sciopero
selvaggio. La legittimità di quest'ultimo è ora
ammessa (Italia, Francia), ora negata (Repubblica Federale Tedesca,
Stati Uniti) e anche qui le scelte dell'ordinamento sono spie di
concezioni diverse del sindacato e dell'azione sindacale, a seconda
che venga privilegiato l'elemento di spontaneità e di
movimento ovvero quello dell'organizzazione.
Mentre in tema di sciopero, al termine di un'elaborazione
pluridecennale, alcuni punti fermi sono stati posti, più
aperti sono i problemi concernenti le altre forme di tutela: dalla
serrata degli imprenditori, che è illecita in Italia,
pienamente ammessa altrove (Svezia, per esempio), allo sciopero
bianco o alle varie forme di rallentamento concertato della
produzione e infine all'occupazione dell'azienda che, sovente usata
come mezzo di difesa da licenziamenti, è stata, in
quest'ultimo decennio, al centro di clamorose vicende in vari paesi
(più clamoroso di tutti, il caso Lip in Francia).
L'autotutela, questo aspetto singolare e nel contempo essenziale del
diritto sindacale, è apparsa restia a collocarsi in un ordine
statico e, così come indeterminati appaiono tuttora in alcuni
casi i limiti del diritto di sciopero, un cono d'ombra resta
proiettato sulle altre forme di azione diretta.
È apparsa abbastanza chiara, d'altronde,
l'ingovernabilità del fenomeno con i normali strumenti
sanzionatori, sia di tipo civile sia di tipo penale, che, anzi, nei
conflitti più generalizzati finiscono sovente per essere
accantonati o sostituiti da mediazioni politiche. Ciò
può indurre a importanti riflessioni sulla natura degli Stati
a democrazia sociale, nei quali il principio di legalità
può essere sottoposto a verifiche di consenso in conflitti
che, trascendendo o sfiorando i limiti della legalità,
pongono in essere soluzioni di continuità dell'ordine legale
stesso. Diversamente dalla rivoluzione o dallo sciopero generale
soreliano, tali vicende peraltro non sono state fattori di
rovesciamento dell'ordine legale ma hanno al più prodotto la
modificazione di equilibri politici nell'ambito della
continuità del sistema.
9. Le innovazioni delle strutture e delle tecniche
giuridiche
Il diritto del lavoro ha esercitato una profonda influenza sulla
trasformazione delle strutture giuridiche in cui esso si evolve, e
particolarmente di quelle riferibili al diritto costituzionale e al
diritto civile.
Un vero e proprio impatto sulle strutture dello Stato
rappresentativo si verifica invero soltanto nei regimi che
sostituiscono o integrano le rappresentanze politiche con quelle
sindacali: l'idea dello ‛Stato sindacale', abbastanza diffusa nei
primi decenni del secolo e proposta come alternativa alla crisi
dello Stato liberale, trova realizzazione nei regimi autoritari a
partito unico e si confonde con la concezione corporativa dello
Stato. Nelle costituzioni di modello sovietico, la partecipazione
sindacale agli organi rappresentativi assume la forma indiretta del
diritto di presentare candidati o di intervenire nella formazione
delle liste elettorali unitarie; essa perciò non genera una
sostanziale modificazione nella struttura rappresentativa, che
rimane impostata su base elettiva.
Di maggiore interesse è l'esame delle modificazioni
intervenute, presso i regimi di democrazia rappresentativa, nel
rapporto tra i poteri dello Stato. Sotto questo aspetto, i due
fenomeni di più spiccato rilievo sono: a) l'impulso alla
centralizzazione verificatosi negli Stati federali o anche a
struttura legislativa ‛composita' come il Regno Unito (v.
Kahn-Freund, 1976, p. 245), determinato in primo luogo, specie negli
Stati Uniti nella fase del New Deal, dall'esigenza
politica di superare le resistenze locali, e, in secondo luogo, da
quella di stabilire standard di condotta uniformi, vuoi per i
lavoratori, vuoi per gli imprenditori; b) l'assunzione di un ruolo
centrale da parte del Parlamento a seguito della diffusione di leggi
speciali che sovrastano le tradizionali fonti del diritto tra
privati (codici, common law) e parallelamente, soprattutto
nell'area di common law, comprimono la
discrezionalità del potere giudiziario. Tale effetto è
solo in parte controbilanciato dall'importante ruolo assunto dalle
Corti costituzionali, dove queste operano. L'intervento legislativo
si è cospicuamente esteso, nell'ultimo periodo, anche in Gran
Bretagna, dove l'‛astensione della legge' dal campo dei rapporti di
lavoro era diretta non già ad ampliare l'area
giurisdizionale, quanto invece, stante la natura ‛non azionabile'
delle fonti collettive, a porre ad essa un argine (v. Wedderburn,
19712, p. 23).
Infine, è soprattutto attraverso il varco aperto dal diritto
del lavoro che si è verificata la penetrazione dei diritti
costituzionali nella sfera dei rapporti interprivati. Negato negli
Stati Uniti, tale effetto (Drittwirkung) è stato
riconosciuto nella Repubblica Federale Tedesca soprattutto da parte
delle corti del lavoro (v. Ramm, 19742) e, con minori
resistenze, in Italia.
Il campo di elezione delle capacità di trasformazione del
diritto del lavoro è stato comunque il diritto privato. Le
nuove tecniche giuridiche in esso generate e sperimentate si sono
sovente rivelate capaci di effetti diffusivi su tutta l'area
privatistica. L'antica discussione sull'affrancamento del diritto
del lavoro dal diritto civile (v. Lyon Caen, 1974, p. 231) appare
forse superabile dal momento che quest'ultimo, aprendosi a nuovi
indirizzi metodologici, corre in un processo di trasformazione
parallelo a quello del diritto del lavoro.
Tra le nuove tecniche giuridiche introdotte o diffuse con il diritto
del lavoro, sembrano particolarmente meritevoli di elencazione le
seguenti.
1. Le norme imperative che si impongono alla volontà delle
parti e modificano direttamente il contenuto dei negozi da esse
posti in essere. La sostituzione della legge (o del contratto
collettivo) ai contenuti negoziali voluti effettivamente dalle parti
- successivamente largamente praticata anche nei contratti di
vendita, di somministrazione, di locazione ecc. - trasforma
profondamente l'essenza stessa del contratto che, da strumento per
produrre effetti giuridici voluti diviene un mezzo per realizzare
effetti legali, talvolta ignoti, o neppure prevedibili dai
contraenti (v. Rodotà, 1970).
L'imperatività - come si è rilevato (v. sopra, cap. 7)
- si estende anche ai contratti collettivi ed esprime in tal modo un
rapporto di prevalenza dell'interesse del gruppo sull'interesse
individuale. Tale rapporto appare ancor più evidente a fronte
del principio di irrinunciabilità da parte del lavoratore ai
benefici del contratto (come pure a quelli della legge), che viene
in genere derivato dal principio di inderogabilità.
2. L'obbligo a contrarre, quale viene stabilito ad esempio nelle
assunzioni obbligatorie di persone con minore capacità
lavorativa, colpisce l'autonomia contrattuale nel suo stesso momento
genetico. Non destano sorpresa pertanto la forte resistenza che vi
è ancora ad ammettere la costituzione coattiva del rapporto,
e le inclinazioni della giurisprudenza, quando manchino esplicite
norme positive, ad attestarsi sulla responsabilità
risarcitoria. Nel diritto sindacale emerge, invece, la distinta
figura dell'obbligo dell'imprenditore a negoziare, e cioè a
condurre le trattative per il contratto collettivo, senza peraltro
l'obbligo di venirne a termine. Ammesso dalle legislazioni svedese
(del 1936 e ampliata nel 1976; v. Schmidt, 1977, p. 80) e
nordamericana (1935), nonché dall'Industrial relations
act britannico (1971-1974), l'obbligo a negoziare è
in prevalenza negato dalla giurisprudenza italiana, nel quadro delle
numerose pronuncie in materia di repressione della condotta
antisindacale (art. 28 dello Statuto dei lavoratori). Si è
infatti ritenuta estranea alla considerazione del legislatore,
nell'atto in cui ha disposto una speciale tutela
dell'attività del sindacato, la materia dei rapporti di
quest'ultimo con la controparte, che oltretutto avrebbe affidato
alla discrezione del giudice la soluzione di complessi problemi di
rappresentatività e di legittimazione a negoziare.
L'Employment protection act (1975) britannico, infine, ha
configurato un obbligo del datore di lavoro a consultare il
sindacato e a fornirgli informazioni utili per la contrattazione;
può parlarsi, in proposito, di un obbligo a negoziare
attenuato.
3. L'incoercibilità delle obbligazioni di fare, principio
fortemente radicato nel diritto civile, anche se non privo di
eccezioni nella procedura civile francese e tedesca, è stata
incrinata dalle leggi limitative del potere di licenziamento, quando
esse hanno riconosciuto (il che non è di tutti gli
ordinamenti) il diritto alla reintegrazione. Infatti, se ancora
persiste l'impossibilità naturale di costringere
l'imprenditore a dar lavoro al prestatore reintegrato per ordine del
giudice, è stato chiarito che ciò non è
sufficiente a sostenere il dogma dell'incoercibilità,
perché appare pur sempre possibile la coazione indiretta
mediante l'impiego di sanzioni afflittive. Questo ha condotto,
almeno in taluni ordinamenti, a superare la soluzione
dell'erogazione indennitaria, variamente sperimentata, e sempre
risultata inidonea a garantire l'effettività della tutela dai
licenziamenti arbitrari. In ragione di questi sviluppi normativi si
è parlato di un ‛diritto al posto di lavoro' che, con enfasi
eccessiva, è stato talvolta assimilato ai diritti reali (su
tale argomento v. Meyers, 1964).
4. Non meno indebolito appare il concetto di corrispettività.
Il riconoscimento della continuità del rapporto, a volte con
retribuzione, nei casi di temporanea impossibilità della
prestazione, o, in ipotesi individuate in ragione di esigenze
politico-sociali (dalle ferie ai permessi retribuiti per
attività sindacale) ha reso impraticabile il ricorso al
principio dell'equilibrio tra le prestazioni nell'esecuzione del
contratto, o, più probabilmente, lo ha ridotto a operare in
un'area residuale che appare poi sempre più ristretta.
È oggi controverso se si debba ritener ammissibile la
sospensione della retribuzione per mancanza temporanea di lavoro,
come veniva tranquillamente dedotto, in passato, dal principio della
corrispettività, o se debba invece darsi per avvenuto il
trasferimento del rischio al datore di lavoro, fatta salva
naturalmente la possibilità di copertura assicurativa dello
stesso (per l'Italia, la Cassa integrazione guadagni).
5. Notevoli sono poi gli effetti indotti nelle tecniche
sanzionatorie. A parte l'introduzione della vigilanza amministrativa
sull'esecuzione di contratti privati, che fu a suo tempo un
innovazione cospicua, sempre più marcata appare oggi la
tendenza ad attribuire al giudice poteri di intervento con
fisionomia ingiuntiva, e a delineare forme di esecuzione non
più soltanto patrimoniale in funzione risarcitoria. Esempi
possono essere attinti dalla legislazione sindacale statunitense,
imitata dall'effimero Industrial relations act britannico;
dalla legislazione svedese (dove la condanna patrimoniale ai ‛danni
generali' è in realtà una sanzione); dallo Statuto dei
lavoratori italiano e dai nuovi comportamenti processuali da esso
sollecitati; nonché, infine, dalle leggi antidiscriminatorie,
compresa quella italiana (1977) sulla parità tra uomo e donna
nel lavoro. La funzione giurisdizionale, una volta destinata non
più soltanto a dirimere controversie tra possessori di beni,
bensì a garantire le regole del gioco nei conflitti
collettivi o la soddisfazione di interessi del lavoratore non
immediatamente traducibili in valori economici né a
realizzazione posponibile indefinitamente nel tempo, richiede
rapidità di procedure e ampiezza di mezzi istruttori ed
esecutivi che sono del tutto estranei al processo dispositivo
proprio della tradizione eurocontinentale.
In sintonia con questa linea di evoluzione appare l'attribuzione di
legittimazioni processuali al sindacato, per la tutela di interessi
propri o di gruppo; si noti, peraltro, che parallela a questo
rafforzamento dello strumento giurisdizionale opera la tendenza alla
devoluzione della materia contenziosa a sedi conciliative e
arbitrali, regolate nell'ambito della contrattazione collettiva. In
tale sede di ‛giurisdizione privata', azione individuale e azione
collettiva sfumano sovente le loro differenze, o, quanto meno, ha
luogo la devoluzione della prima al pieno controllo sindacale. Tale
è la caratteristica delle grievance procedures nordamericane,
che hanno origine nel ricorso aziendale e terminano in vere e
proprie decisioni arbitrali munite di piena efficacia giuridica.
6. Infine è emerso, soprattutto nell'ambito delle recenti
legislazioni antidiscriminatorie, come neppure la sanzione
afflittiva sia sufficiente per la realizzazione di alcuni obiettivi
di politica legislativa. Si profila allora il ricorso all'affirmative
action (v. Schmidt e altri, 1978), e cioè
l'intervento giurisdizionale ovvero amministrativo, diretto a
modificare le situazioni in atto, con mezzi quali: l'avviamento al
lavoro (con tecniche compulsive - v. sopra, punto 2 - ma anche, e
più frequentemente, persuasive) di soggetti appartenenti a
gruppi discriminati; la determinazione di condizioni di lavoro
conformi alle particolari esigenze di tali soggetti (quale l'obbligo
fatto all'imprenditore, negli Stati Uniti, di far ogni sforzo
ragionevole per adattare lo svolgimento del lavoro alle esigenze
delle minoranze religiose). L'azione affermativa viene qui
menzionata come tecnica giuridica: è evidente che essa
può dilatarsi in un indirizzo di politica generale (piena
occupazione, politica attiva della manodopera, qualificazione
professionale di gruppi sottoprotetti) e acquisire anche maggiore
efficacia, ponendosi però in una cornice estranea all'oggetto
della presente trattazione per divenire un capitolo di politica
sociale.
10. Le frontiere attuali del diritto del lavoro
Per tutta una serie di argomenti è particolarmente vivace il
susseguirsi di innovazioni normative; in taluni ordinamenti esse
già hanno avuto corso; in altri è intenso il dibattito
preparatorio e fortemente probabile l'innovazione stessa.
L'istituto che ha subito i più profondi mutamenti è
stato senza dubbio quello del licenziamento, che si è
radicalmente trasformato dalla forma ad nutum in un atto
motivato e sottoposto a controllo giudiziale. Con tale mutamento si
è praticamente chiuso il ciclo evolutivo che ha origine dal
contratto di fornitura di opere (v. sopra, cap. 4), misurabili nella
quantità a seconda delle esigenze della produzione e del
mercato, rimesse, a loro volta, alla libera valutazione
dell'imprenditore. Restano tuttavia aperti i problemi inerenti alla
reintegrazione effettiva nel posto di lavoro e quelli connessi ai
licenziamenti per riduzione del personale, frequentemente sottoposti
a controlli sindacali e amministrativi preventivi, ma in genere non
ritenuti assoggettabili a un controllo di motivi, che si
risolverebbe in un controllo sulla politica d'impresa.
Un altro settore in pieno sviluppo è quello della tutela del
lavoratore dalla discriminazione. La discriminazione antisindacale
è stata la prima a essere affrontata con le leggi di sostegno
dell'attività sindacale e dispone quasi dovunque di un
corredo ampio di difese giuridiche. Nel concetto di discriminazione
in senso più lato si annoverano tutti i casi in cui lo
squilibrio contrattuale tra le due parti è aggravato
dall'appartenenza del lavoratore a gruppi sociali emarginati o
minoritari. Vengono in rilievo primario, naturalmente, i gruppi
razziali ed etnici, gli stranieri e le minoranze linguistiche. Ormai
attualissimo è il problema dell'eguaglianza di
opportunità tra uomo e donna, al quale sono stati dedicati
alcuni tra i più recenti e significativi testi legislativi
(Stati Uniti, 1963 e 1972; Gran Bretagna, 1975; Italia, 1977). Giova
ricordare che la politica legislativa antidiscriminatoria ha
comportato l'adozione di tecniche giuridiche alquanto nuove e
più efficaci che non le normali invalidità
civilistiche. La stessa qualificazione del motivo discriminatorio
come illecito non è apparsa sufficiente a coprire l'intera
area del fenomeno: donde, nella normativa americana e britannica, il
ricorso al criterio statistico, per cui può essere
considerata discriminatoria la situazione in cui un gruppo risulti
statisticamente emarginato, a prescindere dalla ragione di tale
evenienza.
La discriminazione per motivi religiosi e politici è oggetto
di diretta attenzione legislativa, mentre appare meritevole di
menzione la tendenza, percepibile soprattutto nella giurisprudenza,
ad affermare l'irrilevanza della condotta privata nel rapporto di
lavoro (v. Schmidt e altri, 1978). Questi vari aspetti si muovono
secondo linee non parallele. L'irrilevanza della vita privata segue
dappresso i profondi mutamenti intervenuti nel costume e che
riguardano la condotta morale così come l'abbigliamento e
l'aspetto esterno, ecc. Essa è un aspetto del più
generale problema della tutela della privacy (vedi, nello
Statuto dei lavoratori italiano, il divieto di indagine in materia)
e, nel nostro caso, concorre ad accentuare la spersonalizzazione
legale del rapporto, in quanto assume il coinvolgimento della
persona come un dato di fatto da limitare con lo strumento giuridico
(v. anche, con riferimento alle dottrine più accentuatamente
personalistiche, il precedente cap. 4). In tema di discriminazione
religiosa, poi, val la pena di osservare che si è posto
addirittura il problema di adattare per quanto possibile i metodi di
lavoro alle esigenze di pratica di culto (così in
particolare, negli Stati Uniti, ma anche nei paesi europei con forti
aliquote di immigrati musulmani). La discriminazione politica,
infine, è oggetto di generale esecrazione, ma in
realtà si mantiene in forme attenuate o mascherate
soprattutto nel pubblico impiego, fino a emergere in alcuni casi in
tutta evidenza (vedi tra i regimi a pluralismo democratico, il caso
del Berufsverbot nella Repubblica Federale Tedesca).
Degna di rilievo, comunque, è l'affermazione, comune alla
Corte suprema americana e a quella della Repubblica Federale
Tedesca, che la semplice appartenenza a un partito ritenuto
sovversivo non è sufficiente a giustificare la
discriminazione.
Un vero e proprio campo di frontiera è costituito dal
pubblico impiego. Escluso tradizionalmente dal campo del diritto del
lavoro, anche in omaggio a una concezione acontrattuale e tutta
pubblicistica del rapporto, il pubblico impiego si appropria
gradualmente di tutti gli strumenti del diritto sindacale e, in
tutto o in parte, viene estesa a esso la fonte contrattuale
collettiva. In parallelo a tale processo viene messa in discussione
la natura stessa del rapporto e ne viene contestata la
acontrattualità: in effetti, la predeterminazione eteronoma
dei contenuti è ormai propria anche del rapporto privato,
mentre la ‛nomina' all'ufficio, che deve pur sempre essere accettata
dal preposto, appare come una mera variante procedimentale nella
formazione del contratto. Fatta eccezione per gli alti livelli
amministrativi (i Beamte del diritto tedesco), è
profezia avverabile quella che il pubblico impiego verrà
gradualmente attratto nel diritto del lavoro.
Nel rapporto di lavoro privato si profila d'altronde una nuova marca
di frontiera, che in parte appare invece già occupata
nell'impiego pubblico, e si tratta del diritto allo svolgimento
effettivo del lavoro. Dato per acquisito per le prestazioni di alto
valore tecnico o artistico (il caso esemplificato più
frequentemente è quello dell'interesse del cantante lirico
all'esecuzione della scrittura) ma negato nelle altre ipotesi, tale
restrizione appare sempre meno giustificata, a fronte di
orientamenti tendenti alla salvaguardia dello sviluppo e
dell'esperienza professionale. Mentre la realizzazione del diritto
al lavoro, principio o utopia della rivoluzione del 1848, appare,
nella sua pienezza, tema di politica sociale (v. Mancini, 1976, p.
67), il diritto allo svolgimento della prestazione sembra avviarsi,
in particolare nella giurisprudenza tedesca (v. Hueck e Nipperdey,
19637, vol. I, pp. 380 ss.), verso prospettive
sconosciute e irrealizzabili nella costruzione civilistica del
contratto di lavoro come mero scambio tra prestazione e
retribuzione.
Il rapporto lavoro-impresa resta infine il tema aperto alle
prospettive più problematiche e, a un tempo,
all'immaginazione creativa. Appare evidente che lo stesso concetto
di impresa, come mutuato dal diritto commerciale, è
insufficiente a inquadrare la normativa giuslavoristica (v. Lyon
Caen, 1974, p. 235). L'impresa, infatti, è trattata
dall'ordinamento giuridico nella specie di attività
dell'imprenditore sul mercato, non sotto il profilo, che qui invece
rileva, dell'organizzazione del lavoro. Più rispondente a
quest'ultima esigenza è apparso pertanto il concetto di Betrieb,
o di ‛unità produttiva', che esprime un fenomeno
organizzativo. Lungi dall'essere risolto, tuttavia, appare il
problema, pur antico come è antica la produzione in forma
manifatturiera, del collegamento tra la pluralità di rapporti
di lavoro che coesistono in una unità produttiva. La
posizione dell'imprenditore come unico titolare vale ai fini del
coordinamento a uno scopo comune; ma l'esecuzione dei molteplici
rapporti può comportare momenti di collaborazione diretta, o
anche di conflitto (per es. in caso di sciopero parziale), tra i
prestatori di lavoro.
Le dottrine organicistiche, più diffuse nell'area germanica,
sono state certamente in grado di affrontare il problema con
strumenti più adeguati che non quelle rigorosamente
contrattualistiche. Dalle premesse dottrinali, peraltro, emergono
esiti di politica del diritto molto diversi, poiché
l'affermazione di una solidarietà giuridica tra i lavoratori
può far affiorare una responsabilità degli uni per
comportamenti di altri (vedi ancora l'esempio dello sciopero
parziale, e inoltre i rallentamenti produttivi, le assenze non
giustificate, gli infortuni). Tale conclusione può apparire
incompatibile con la natura di un rapporto la cui caratteristica
è proprio l'assunzione da parte dell'imprenditore del rischio
per il risultato della prestazione lavorativa.
La verità è che il consenso intorno a determinate
premesse teoriche non trae radici dalla loro congruenza logica,
quanto piuttosto da una valutazione politica, e da ciò
discende che l'argomento non può essere disgiunto dal
problema che a esso soggiace: e cioè da quello dei rapporti
di potere nell'impresa. Quest'ultimo aspetto chiama direttamente in
causa la definizione dell'area di intervento del ‛potere collettivo'
dei lavoratori nel campo delle scelte economiche dell'imprenditore.
Trattasi del problema dei managerial rights o, visto
dall'altro lato, della partecipazione o codeterminazione dei
lavoratori alla gestione dell'impresa.
La linea di tendenza è molto marcata nel senso di una
contrazione dell'area di libera valutazione dell'imprenditore, e di
ciò vi sono indici o realizzazioni significative, occorse
quasi contemporaneamente negli anni più recenti: la
generalizzazione della cogestione nella RFT (1976), sia pur in forma
non esaurientemente paritaria; la sostituzione del principio di joint
regulation a quello di riserva delle managerial
prerogatives in Svezia (1976); il rapporto della Commissione
reale presieduta da lord Bullock in Gran Bretagna, contenente
proposte di cogestione paritaria; la contrattazione sugli
investimenti, iniziata in Italia a partire dal 1974. Senza dubbio,
questo è uno dei campi più fecondi di evoluzione, che
non potrà non sollecitare profonde revisioni nella stessa
dottrina giuridica. Le linee del mutamento, peraltro, sono
dipendenti da variabili di ordine politico, la cui valutazione
critica sarà materia di altri articoli (v., tra l'altro, sindacalismo).
11. Le ideologie e i modelli normativi
Le indagini sulle ideologie sottostanti alle dottrine giuridiche
hanno posto in rilievo come tra l'ideologia professata e
l'operazione concettuale che viene di volta in volta compiuta si
interpone un'opzione, a volte professa, a volte inconsapevole, per
un ‛modello' normativo che interpreta il diritto pubblico in
funzione di una scelta di politica del diritto espressa in un
linguaggio tecnico-giuridico (G. Tarello). Da questo punto di vista
si può affermare una relativa autonomia dei modelli normativi
rispetto alle ideologie, cosicché mentre apparirebbe povera
di risultati di rilievo una classificazione degli autori (o anche
delle decisioni) in ragione dell'ideologia degli stessi (o degli
estensori delle stesse), ben più feconda di risultati appare
la ricostruzione di modelli di riferimento a cui possano essere
accostati i protagonisti della vicenda del diritto del lavoro come
scienza sociale. Al solo fine di fornire un'ulteriore chiave di
lettura dell'argomento, è dato formulare, con larga
approssimazione, una classificazione nei termini che seguono: essa
viene elaborata con riferimento pressoché esclusivo agli
ordinamenti giuridici fondati sull'antagonismo conflittuale (v.
sopra, cap. 5).
1. Il modello del diritto di classe che, quando non è
affermazione retorica come appare frequentemente nei primi autori di
orientamento socialista, concepisce il diritto del lavoro (e quello
sindacale in ispecie) come struttura giuridica alternativa al
diritto borghese, immessa nell'ordinamento giuridico al fine di
lievitarne la trasformazione in senso socialista.
2. Il modello personalista e organicista, acclimatato nelle dottrine
di origine cattolica, ma non infrequente visitatore di quelle
socialiste (specie in Germania), in cui vengono esaltati i valori di
solidarietà professionale e/o anche interclassista. In tali
modelli, il diritto sindacale ruota intorno alla
autoresponsabilità delle categorie o delle professioni
organizzate, e il contratto di lavoro si intinge di contenuti
associativi o si collega a istituzioni collettive cogestionali. Il
transito verso i modelli corporativi veri e propri talvolta appare
agevole, e non richiede salti concettuali.
3. I diversi modelli d'impronta riformistica, che ripetono la loro
origine dal ‛socialismo giuridico' o dai vari movimenti di riforma
sociale, in cui viene in genere valorizzato il momento dell'azione
collettiva, ma è privilegiato nettamente l'intervento
legislativo a tutela del contraente più debole. Il nuovo
diritto non è però inteso come premessa e momento di
un processo di trasformazione, bensì piuttosto come un valore
in se stesso, idoneo a realizzare risultati definitivi, anche se
graduali, di giustizia sociale.
4. I modelli del conflitto industriale, elaborati soprattutto sulle
esperienze e condizioni storico-politiche dei paesi a capitalismo
avanzato, in cui confluiscono elementi di tradizione socialista,
anche marxista, in una con le concezioni competitive e
antagonistiche proprie del pensiero liberale. Coerente con questi
modelli è la valorizzazione della contrattazione collettiva e
della funzione del sindacato come ‛contropotere', di cui viene
sovente affermata la permanente necessità storica anche in
una prospettiva di trasformazione socialista compiuta.
Gli scrittori, le dottrine, le varie tendenze di politica del
diritto (legislative e giudiziali) analizzate in questa sede possono
essere ascritti all'una o all'altra voce della tipologia
testé enunciata, sebbene l'operazione presenti considerevoli
margini di incertezza e di rischio, dovuti al fatto che raramente le
operazioni concettuali dei giuristi vengono compiute con coerenza a
modelli di riferimento, atti a esplicitarne le valenze politiche. Le
stesse ricerche in tal senso appaiono scarse, anche se è
meritevole di segnalazione il fatto che contributi significativi si
sono avuti proprio in tema di diritto del lavoro (Tarello,
Däubler).
Enciclopedia delle Scienze
Sociali (1996)
di Alessandro Roncaglia e Marino Regini e Giuseppe Pera
LAVORO
Economia
di Alessandro Roncaglia
sommario: 1. Introduzione. 2. Il lavoro come
sacrificio e come fonte di ricompensa. 3. Il lavoro nelle
società precapitalistiche. 4. Capitalismo e divisione del
lavoro. 5. Lavoro produttivo e improduttivo. 6. La teoria classica
del valore-lavoro e la teoria marginalista del lavoro come fattore
di produzione. 7. Il mercato del lavoro. 8. Settori economici e
orari di lavoro nello sviluppo del capitalismo. 9. Evoluzione della
struttura economica e della stratificazione sociale: verso il
superamento del lavoro costrittivo? □ Bibliografia.
1. Introduzione
È necessario innanzitutto precisare che ci occuperemo del
lavoro solo dal punto di vista della teoria economica. Si tratta di
una semplificazione drastica, che comunque lascia un campo
vastissimo di problemi e teorie da passare in rassegna. La
considerazione dei problemi relativi al lavoro accompagna infatti il
cammino della riflessione sui temi economici per secoli, fin dagli
albori di quella che solo a partire da un'epoca relativamente
recente (XVII secolo circa) può essere considerata fra le
scienze sociali, l'economia politica. Né possiamo limitarci a
considerare le teorie oggi prevalenti, sia perché spesso
alcune tesi degli economisti del passato, pur cadute in un relativo
oblio, sono di un'attualità e un'importanza sorprendenti, sia
perché le teorie contemporanee incorporano concetti - a
cominciare da quello stesso di lavoro - ricchi di contenuti
acquisiti nel corso del tempo. Per vari aspetti, comunque,
sarà possibile rinviare ad altri articoli che approfondiscono
temi specifici o collaterali.
2. Il lavoro come sacrificio e come fonte di
ricompensa
Il tema del lavoro come condanna - e come condanna che riguarda
l'intero arco della vita terrena dell'uomo - è affiancato,
nella tradizione biblica, dal tema del frutto del lavoro come
ricompensa. Da un lato: "Il suolo sarà maledetto per causa
tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua
vita. Esso ti produrrà spine e triboli [...] mangerai il pane
col sudore della tua fronte finché ritornerai alla terra da
cui sei stato tratto; perché tu sei polvere e in polvere
ritornerai" (Genesi, 3, 17-19). Dall'altro lato: "L'anima del
pigro desidera e non ha nulla, ma l'anima dei diligenti sarà
soddisfatta appieno" (Proverbi, 13, 4).
Questi due temi costituiscono, in un certo senso, lo sfondo di ogni
riflessione economica, fino ai giorni nostri. Adam Smith (v., 1776)
parla del lavoro come toil and trouble, fatica e fastidio; la
tradizione marginalista, a partire da William Jevons (v., 1871),
considera il lavoro come 'disutilità' che si contrappone
all'utilità del prodotto. Quanto al tema della giustizia
distributiva, secondo il quale ciascuno dovrebbe ricevere una quota
del prodotto sociale proporzionale al suo contributo lavorativo,
esso non solo accompagna il dibattito medievale sul 'giusto prezzo'
(che corrisponde al costo di produzione, spesso ridotto al solo
lavoro) e sull'usura (che è condannata proprio perché
chi presta denaro non compie un'attività lavorativa), ma
è percepibile anche dietro la teoria del valore-lavoro degli
economisti classici, come dietro la teoria marginalista per la quale
in concorrenza ognuno riceve un reddito proporzionale al proprio
contributo al processo produttivo.Tuttavia le cose non sono
così semplici. La condanna dell'umanità al lavoro e la
giustizia distributiva non sono principî assoluti o, forse
meglio, pur essendo tali in un certo ambito, coesistono con
principî di segno opposto relativi all'organizzazione della
società.
Per tutta la storia conosciuta, le élites sono sfuggite, in
misura notevole se non del tutto, alla condanna al lavoro. Anzi, la
libertà dalla schiavitù del lavoro era considerata
elemento essenziale di superiorità rispetto alla gente
comune. Questo atteggiamento è chiarissimo
nell'ostilità verso qualsiasi attività economica, e in
particolare verso il lavoro manuale, da parte dei nobili anche
impoveriti nella fase di transizione verso il capitalismo.Solo agli
occhi dei pensatori utopisti e rivoluzionari ("il mondo capovolto"
di cui parla C. Hill: v., 1975) la divisione dell'umanità tra
lavoratori e signori esenti dal lavoro va superata, perché il
lavoro necessario per la sopravvivenza della società va
diviso fra tutti. Questa, anzi, è la caratteristica comune di
tutte le utopie socialiste degli ultimi secoli, da Thomas More (v.,
1516) e Tommaso Campanella (v., 1602) a Lafargue (v., 1883), fino a
Ernesto Rossi (v., 1946). Passando in rassegna le proposte di
società ideali e i connessi movimenti riformatori, Spini (v.,
1992) ne sottolinea i legami con i filoni più eretici del
protestantesimo. In fondo, lo stesso protestantesimo si qualifica
almeno originariamente come eretico, fra l'altro, proprio per
l'attribuzione di un valore positivo al lavoro, in quanto
l'elevazione sociale che esso consente su questa terra
corrisponderebbe alla manifestazione della benevolenza divina.
Com'è noto, Weber (v., 1904-1905) sostiene che questa
convinzione ebbe importanza centrale per l'affermazione del
capitalismo.Il significato attribuito al concetto di lavoro si
interseca qui con il tema della divisione del lavoro: un altro tema
ricorrente nella riflessione economica, che riguarda
contemporaneamente l'assetto politico e la stratificazione sociale,
il cambiamento tecnologico, lo sviluppo della produzione e la
distribuzione del reddito. Su questi temi ci soffermeremo più
avanti, dopo avere brevemente considerato l'organizzazione del
lavoro nelle società precapitalistiche.
3. Il lavoro nelle società
precapitalistiche
Nelle società schiavistiche dell'antica Grecia e dell'antica
Roma, com'è noto, l'obbligo al lavoro riguardava la grande
maggioranza della popolazione; inoltre, si trattava di una condanna
a una vita non solo di fatiche, ma anche di stenti. Del prodotto
sociale toccava agli schiavi e agli strati più bassi della
popolazione solo quanto bastava per mantenerli in vita e in
condizioni di continuare a lavorare; in caso di carestia, comunque,
gli schiavi erano i primi a morire. Non che questo rendesse agiata,
secondo gli standard moderni, la vita dei 'cittadini': quelli che, a
leggere la letteratura dell'epoca, sembrano i soli sulla scena. Una
stratificazione sociale rigida, generalmente basata sulle
qualità mostrate in fanciullezza, è indicata come
norma ottimale anche in opere quale la Repubblica di
Platone.
Poco migliore di quella degli schiavi è la vita dei servi
della gleba nelle società feudali del Medioevo. Legati alla
terra per obbligo di nascita, sono se non altro liberi di
organizzare il proprio lavoro - pur se, ancora una volta, la scarsa
produttività dell'agricoltura e il peso dei tributi da
corrispondere, a beneficio di nobiltà e clero, anche sotto
forma di lavoro (le corvées), li costringono a una vita di
stenti e di fatiche. Nella società feudale la vita economica
è organizzata essenzialmente sulla base di relazioni
ripetitive di tipo tradizionale, e solo limitatamente è
centrata sul mercato (v. Kula, 1962). Il rapporto tra signori
feudali e servi della gleba non corrisponde a quello tra
proprietario terriero e bracciante agricolo: il signore feudale
esercita contemporaneamente la sovranità politica e il
controllo economico sulle terre del suo feudo; i servi della gleba,
oltre a una parte del raccolto ottenuto sulle terre tradizionalmente
affidate alla loro cura (le terre servili), debbono al padrone anche
prestazioni lavorative sulle terre dominiche, il cui raccolto va
interamente al signore. Le difficoltà dei trasporti
ostacolano i commerci a lunga distanza di merci base; i commerci
sono essenzialmente limitati a beni di lusso, come le spezie, i
metalli preziosi, i merletti. Così il territorio è
suddiviso in un gran numero di unità produttive abbastanza
autosufficienti (il castello con le terre circostanti). Solo in
minima parte i beni necessari alla sussistenza - alcuni tipi di
cereali, tessuti, ecc. - sono oggetto di scambi contro denaro, in
genere in mercati che si svolgono a intervalli regolari nei centri
abitati principali, nei quali viene offerto il prodotto in
sovrappiù rispetto al normale autoconsumo dei produttori.
Anche l'attività lavorativa è prevalentemente regolata
dalla tradizione: in una fase in cui la stragrande maggioranza della
popolazione è dedita all'agricoltura, vengono comunemente
scambiati contro denaro solo i servizi di un numero estremamente
limitato di artigiani o professionisti.
4. Capitalismo e divisione del lavoro
Lo sviluppo graduale dei commerci e delle città dal Trecento
al Cinque-Seicento avvia una trasformazione radicale della struttura
sociale, sulle cui caratteristiche non ci soffermiamo (v. Cipolla,
1976). Quel che importa sottolineare qui è il cambiamento
drastico che subisce l'attività lavorativa con lo sviluppo
della divisione del lavoro non solo tra processi produttivi diversi,
ma anche e soprattutto all'interno di ciascun processo
produttivo.Come si è già accennato, il tema della
divisione del lavoro è ricorrente negli scritti su questioni
economiche fin dall'antichità. Tuttavia, la sua trattazione
subisce modifiche importanti, come riflesso delle modifiche della
divisione del lavoro nella realtà, negli scritti di autori
come William Petty (1623-1687) o Adam Smith.Innanzitutto, gli
scrittori dell'antichità classica sottolineano come effetto
della divisione del lavoro il miglioramento qualitativo del
prodotto: un aspetto evidente se, ad esempio, confrontiamo la
qualità dei mobili o dei vestiti rozzamente prodotti per il
proprio consumo dalla famiglia agricola a lato del proprio consueto
lavoro, con i prodotti del sarto o del falegname che hanno imparato
il mestiere in anni di apprendistato. Viceversa, Petty (v., 1899) -
e, dopo di lui, tutti gli studiosi della divisione del lavoro
manifatturiero, quando sorgono gli opifici e poi le fabbriche in cui
viene sfruttata la forza meccanica della macchina a vapore -
sottolineano l'aspetto quantitativo: l'effetto principale del
progresso nella divisione del lavoro consiste nell'aumento della
produttività, cioè della produzione media per
lavoratore, e quindi nella riduzione dei costi medi unitari.In
secondo luogo, la divisione del lavoro passa da oggetto di
osservazioni casuali a elemento centrale della teorizzazione sul
funzionamento dell'economia e più in generale della
società umana.
Così Adam Smith (v., 1776) concentra l'attenzione su due
fattori che determinano la ricchezza delle nazioni (sostanzialmente
identificata con il reddito pro capite, cioè con il reddito
nazionale di un paese diviso per il numero dei suoi abitanti): la
produttività di ciascun lavoratore e la quota dei lavoratori
produttivi sul totale della popolazione. Dietro il primo di questi
fattori, l'elemento cruciale è costituito dalla divisione del
lavoro, a sua volta legata all'allargamento dei mercati. Inoltre,
per Smith, come più tardi per autori quali Marx (v.,
1867-1894) e Weber (v., 1922), la divisione del lavoro è
anello di congiunzione decisivo tra struttura economica e struttura
sociale. Gli aspetti economici si collegano così a quelli
politici, e financo ai principî morali.Soffermiamoci su
quest'aspetto. Smith insiste sul fatto che la ripartizione dei
lavoratori tra i vari tipi di lavoro non avviene in base a
qualità originarie dei lavoratori stessi: è il
mestiere che plasma, col tempo, la natura del lavoratore. La
stratificazione sociale legata alla divisione del lavoro,
perciò, non deriva da differenze innate di capacità:
non può quindi essere considerata un fenomeno 'naturale'. Val
la pena di sottolineare la differenza tra questa posizione e quella
comune a un critico conservatore contemporaneo di Smith come Pownall
(v., 1776) e alla teoria marginalista della distribuzione (e dei
differenziali salariali), basata sulla dotazione originaria di
risorse e capacità di ciascun individuo.Smith considera
invece 'originaria' o 'naturale' la tendenza degli esseri umani a
entrare in rapporto gli uni con gli altri, e quindi a costituire una
società, al cui interno possono svilupparsi forme di
cooperazione come quelle insite nella divisione del lavoro. La
teoria economica, secondo Smith, ha per l'appunto il compito di
studiare il funzionamento di una società basata sulla
divisione del lavoro, e in cui quindi ciascun lavoratore collabora
per ottenere un prodotto di cui può non avere direttamente
bisogno, mentre deve procurarsi mezzi di produzione e di sussistenza
da altri.Più in generale, Smith vede la divisione del lavoro
come fonte di conseguenze positive e negative allo stesso tempo:
positive, dal punto di vista della crescita della
produttività e quindi del benessere economico generale;
negative per il carattere limitante della divisione del lavoro, che
condanna "la grande maggioranza della popolazione" a
un'attività monotona di scarso interesse con il concreto
rischio di un "abbrutimento". Secondo alcuni commentatori, Smith
precorre l'idea marxiana dell'alienazione derivante dalla
costrizione al lavoro diviso (in un'economia capitalistica, per il
lavoratore sono 'altro da sé' sia il prodotto del suo lavoro
sia i mezzi di produzione impiegati, entrambi di proprietà
del capitalista, sia il processo produttivo, di cui a causa della
divisione del lavoro controlla solo una parte: v. Marx, 1844).
Tuttavia, a differenza di Smith, Marx ritiene possibile il
superamento del lavoro costrittivo, al termine di un processo in cui
lo sviluppo delle forze produttive porta al regno della
libertà, dove "tutte le sorgenti delle ricchezze collettive
scorrono in abbondanza" (v. Marx, 1875; tr. it., p. 39). Smith
invece cerca di fare i conti con una realtà destinata a
permanere ricca di luci e di ombre, proponendo di favorire la
divisione del lavoro, in quanto decisiva per lo sviluppo economico,
ma allo stesso tempo di combatterne gli effetti negativi
(attraverso, fra l'altro, un intervento pubblico che garantisca a
tutti l'istruzione di base).
Sul legame tra divisione del lavoro e sviluppo economico si
soffermano vari economisti. Fra questi, Charles Babbage (v., 1832)
pone in luce due aspetti. Da un lato egli illustra come la
scomposizione di un'attività lavorativa complessa riduca i
costi di produzione in quanto permette di utilizzare lavoratori meno
qualificati, e quindi pagati meno (il cosiddetto primo principio di
Babbage). Infatti è sufficiente che ciascun lavoratore sia
dotato solo di una parte delle qualifiche necessarie a compiere
l'intero complesso delle operazioni lavorative di un determinato
ciclo produttivo. Dall'altro lato - il secondo principio di Babbage
- egli sostiene che lo sviluppo della divisione del lavoro, portando
a scomporre ogni operazione lavorativa nei suoi costituenti
elementari, favorirebbe la sostituzione delle macchine agli uomini,
riservando a essi le attività più nobili e complesse
di organizzazione del processo produttivo e ricerca dello sviluppo
tecnologico. Questi due aspetti compariranno in varie forme nel
successivo dibattito fra la tesi - assai diffusa tra i marxisti -
della tendenza a una proletarizzazione e depauperizzazione del
lavoratore e la contrapposta tesi del crescente contenuto
professionale delle attività lavorative. Su questi temi,
comunque, torneremo più avanti.
5. Lavoro produttivo e improduttivo
Come abbiamo accennato sopra, accanto alla produttività del
lavoro l'altro fattore della ricchezza delle nazioni identificato da
Smith è costituito dalla quota dei lavoratori produttivi sul
totale della popolazione. Per Smith era importante sottolineare la
centralità di questo fattore: sia per ribadire il ruolo
positivo del lavoro nella società (in contrapposizione, molto
probabilmente, all'atteggiamento diffuso nei paesi cattolici
dell'epoca di considerare il lavoro un marchio di inferiorità
sociale), sia perché, almeno nella sua fase iniziale, il
sistema capitalistico coesisteva con forti residui del sistema
feudale - dalle corti ai monasteri - che a parere di Smith
costituivano uno spreco di risorse e quindi un ostacolo allo
sviluppo economico. Non si trattava di un tema nuovo, naturalmente:
già molti scrittori utopisti (e alcuni non utopisti, come
Petty) avevano ricordato il peso per la società costituito da
quella parte della popolazione che non collabora alla produzione.
Campanella ad esempio, scrivendo nel 1602 rileva che a Napoli
lavoravano solo 50.000 persone su 300.000 abitanti.Lo stesso tema
della distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo era
già stato dibattuto a lungo prima di Smith. In genere,
è considerato produttivo il lavoro che contribuisce alla
ricchezza sociale. Tuttavia, possiamo intendere questa in due
accezioni (v. Perrotta, 1988): come insieme di valori d'uso e come
valore di scambio, cioè come potere d'acquisto. Per i
'bullionisti' del Cinquecento, che identificavano nell'oro e
nell'argento la ricchezza, è produttivo il lavoro che fa
affluire metalli preziosi nel paese. Tra gli scrittori del Seicento
- i cosiddetti mercantilisti - domina invece la prima accezione. In
un autore come Petty abbiamo una gerarchia di attività
produttive apparentemente collegata al contributo che ciascuna
può fornire al processo di accumulazione, ovvero al grado di
durevolezza del prodotto. Per i fisiocrati francesi, a metà
del Settecento, è produttivo il solo settore agricolo,
perché mette capo a un sovrappiù, mentre il settore
manifatturiero è considerato sterile, in quanto il prodotto
semplicemente incorpora il valore dei mezzi di produzione impiegati
(compresi i mezzi di sussistenza dei lavoratori).
In Smith non abbiamo una definizione univoca: il lavoro produttivo
è identificato con quello che mette capo a beni materiali, o
con quello che dà luogo a un profitto, mentre i lavori
improduttivi - che possono essere utili o inutili, ma Smith non
approfondisce questa distinzione - abbracciano sostanzialmente il
settore dei servizi. Possiamo forse interpretare la posizione di
Smith come centrata sull'identificazione del lavoro produttivo con
quello svolto all'interno del nucleo capitalistico dell'economia,
all'epoca ancora minoritario ma già chiaramente base della
forza economica del paese.In opposizione a Smith, e senza
comprenderne le motivazioni di fondo, con Jean-Baptiste Say (v.,
1803) si iniziò a considerare produttivo qualsiasi lavoro
utile, anche se diretto a fornire servizi, cioè 'beni
immateriali'. Questa impostazione è rimasta dominante anche
con l'affermazione della teoria marginalista del valore, che fonda
la determinazione del valore di scambio sul valore d'uso,
cioè sull'utilità dei vari beni o servizi. Tuttavia,
con la ripresa dell'impostazione degli economisti classici ad opera
di Piero Sraffa (v., 1960), alcuni aspetti almeno della distinzione
tra lavoro produttivo e improduttivo sono tornati ad attirare
l'attenzione degli economisti. È ipotizzabile, in
particolare, un collegamento tra questa distinzione e la maggiore o
minore funzionalità allo sviluppo economico delle diverse
attività lavorative.
6. La teoria classica del valore-lavoro e la
teoria marginalista del lavoro come fattore di produzione
Con la divisione del lavoro tra unità produttive diverse (e,
all'interno di ciascuna di queste, tra compiti diversi affidati ai
vari lavoratori) sorge la necessità di una rete di scambi.
Infatti, ogni unità produttiva ottiene un bene (o un gruppo
di beni) specifico al termine del processo produttivo, mentre per
produrre ha bisogno di altri beni come mezzi di produzione (materie
prime, macchinari, semilavorati) e mezzi di sussistenza per i
lavoratori impiegati nel processo produttivo. Come si è
accennato, nel Medioevo l'economia era basata su una serie di
unità locali in misura notevole autosufficienti. Gli scambi
riguardavano principalmente i beni di lusso, e solo in misura
marginale (rispetto alla dimensione dell'autoconsumo da parte degli
stessi produttori) quelli necessari alla vita normale dei lavoratori
agricoli, che costituivano la grande maggioranza della popolazione.
Scambi di bestiame e di attrezzi agricoli, oltre che di prodotti
dell'artigianato e di specifici prodotti agricoli, si verificavano
in occasione delle fiere, raduni di breve durata di mercanti e
acquirenti. I prezzi che si formavano nelle fiere (come i prezzi
delle merci trasportate per nave nei porti di sbarco) dipendevano in
modo cruciale dal rapporto occasionale, variabile nel tempo e da
luogo a luogo, tra la quantità di merci offerta in vendita e
il potere d'acquisto dei compratori.
In un certo senso, le teorie neoclassiche del prezzo basato
sull'equilibrio tra domanda e offerta, corrispondono alla struttura
economica tipica di una società feudale. Tuttavia tra gli
scrittori dell'epoca non troviamo teorie di questo tipo, in quanto
l'andamento degli scambi e dei prezzi non presenta quelle
regolarità che sono il presupposto necessario perché
sorga il problema di determinare i valori 'normali' delle variabili.
Le riflessioni sui fenomeni economici riguardano piuttosto il
problema del 'giusto prezzo', ovvero del comportamento che i
mercanti dovevano tenere per non macchiarsi dei peccati di frode e
violenza: un problema normativo, quindi, non interpretativo.Il
'giusto prezzo', in altri termini, era quel prezzo al quale era
moralmente lecito per il mercante vendere le proprie merci. Alcuni
commentatori dell'epoca identificano molto semplicemente tale prezzo
con quello liberamente accettato dai partecipanti all'accordo di
scambio. Altri, ritenendo mercanti e acquirenti non dotati di eguale
potere contrattuale, propongono un prezzo tale da permettere il
recupero dei costi di produzione. Altri ancora, semplificando questa
tesi tramite una riduzione dei costi di produzione ai soli costi di
lavoro, collegano i prezzi alla quantità relativa di lavoro
necessaria alla produzione delle varie merci. Abbiamo così
una rudimentale teoria del valore-lavoro, normativa più che
descrittiva.
La teoria del valore-lavoro riaffiora in William Petty, come
semplificazione di una teoria dei prezzi basata sull'elemento
oggettivo della difficoltà di produzione piuttosto che su
quello soggettivo delle preferenze di venditori e acquirenti (v.
Roncaglia, 1977). Adam Smith limita l'applicazione della teoria del
valore-lavoro contenuto (cioè direttamente o indirettamente
necessario alla produzione di una merce) a uno stadio primitivo
della società. In tale situazione, infatti, non si è
ancora verificata la suddivisione in classi sociali tra proprietari
terrieri, capitalisti (cioè proprietari dei mezzi di
produzione) e lavoratori: ogni lavoratore produce da sé i
suoi mezzi di produzione (l'arco per il cacciatore, l'amo e l'esca
per il pescatore), mentre la popolazione è sufficientemente
scarsa perché la terra su cui cacciare o pescare sia
disponibile per tutti. Per le società sviluppate Smith
propone una teoria del valore-lavoro comandato, secondo la quale il
valore di ogni merce è misurato dalla quantità di
lavoro che essa può acquistare (ed è quindi pari al
prezzo della merce diviso per il salario). Questa teoria,
ovviamente, presuppone che siano noti sia il prezzo della merce sia
il salario, e non costituisce quindi un tentativo di spiegare il
prezzo della merce stessa, ma semplicemente un tentativo di
misurarlo.
L'utilizzo del lavoro in questo senso, come misura del valore dei
beni, costituisce un criterio semplice e di significato intuitivo
per confrontare il valore di una stessa merce in paesi o in tempi
diversi: se ad esempio dico che una bicicletta vale venti ore di
lavoro in Italia (cioè che per comprarla occorre venti volte
il salario orario medio) mentre in Cina, o nell'Italia di un secolo
fa, valeva duecento ore di lavoro, mi esprimo in termini sicuramente
più significativi che se confrontassi grandezze eterogenee
come lire di oggi con lire di ieri, o lire con moneta cinese. Il
lavoro comandato, quindi, conserva tutt'oggi un ruolo nell'analisi
comparata dei sistemi economici e negli studi dello sviluppo
economico.
David Ricardo (v., 1817) e, sulla sua scia, Karl Marx (v.,
1867-1894) ripropongono la teoria del valore-lavoro contenuto anche
per le società capitalistiche: non solo come spiegazione -
che essi stessi ammettono essere imperfetta - di come vengono
determinati i prezzi relativi, ma anche, specie nel caso di Marx,
come espressione del 'valore assoluto' delle merci (Marx parla del
lavoro come della 'sostanza' del valore: v. Lippi, 1976). Sia le
difficoltà analitiche incontrate dalla teoria del
valore-lavoro, sia le implicazioni rivoluzionarie che ne avevano
tratto Marx e, prima di lui, i socialisti ricardiani (come ad
esempio Hodgskin: v., 1825), favoriscono comunque l'abbandono
dell'impostazione degli economisti classici e l'affermazione della
teoria del valore marginalista, basata sul confronto fra preferenze
dei soggetti economici e dotazioni originarie di risorse.
Nell'ambito della teoria marginalista tradizionale del valore e
della distribuzione, che a partire dalla fine dell'Ottocento e fino
ai giorni nostri domina incontrastata nei manuali di economia, il
lavoro è uno dei 'fattori di produzione'. Come per gli altri
fattori di produzione - terra e capitale -, e come per ogni altro
bene, il prezzo del lavoro corrisponde all'equilibrio tra
quantità domandata e quantità offerta. La domanda di
lavoro da parte delle imprese dipende dal contributo del lavoro al
processo produttivo; in base al postulato della produttività
marginale decrescente, l'utilizzo di dosi addizionali di lavoro
assieme a una dotazione invariata di capitale e terra genera aumenti
di prodotto man mano più piccoli. Poiché
l'imprenditore in concorrenza è disposto a impiegare dosi
aggiuntive di lavoro fin quando il costo - il salario - è
inferiore al ricavo - il valore del prodotto addizionale -, la
domanda di lavoro è funzione decrescente del salario reale.
L'offerta di lavoro da parte del lavoratore, viceversa, è
funzione crescente del salario reale: il lavoro è un
sacrificio, e in base al principio della penosità marginale
crescente ogni lavoratore percepisce come un sacrificio sempre
più pesante ogni dose successiva di lavoro prestato, e
richiede perciò un compenso crescente per fornire dosi man
mano maggiori di lavoro.
(Sottolineiamo qui la differenza tra il concetto di
produttività media, o produttività tout court, che
è quella di cui parla Smith nello spiegare la ricchezza delle
nazioni e sulla quale in genere concentrano l'attenzione gli
economisti classici, e il concetto di produttività marginale,
utilizzato dalla teoria marginalista. La produttività media
ha un immediato riscontro empirico, corrispondendo al rapporto tra
produzione complessiva e numero di lavoratori o ore di lavoro
impiegate nella produzione; la produttività marginale,
invece, indica le variazioni puramente virtuali di prodotto
corrispondenti a variazioni ipotetiche di un fattore di produzione,
ferme restando la tecnologia e le quantità utilizzate degli
altri fattori di produzione. La produttività del lavoro,
intesa come produttività media per ora lavorata, tende a
crescere nel tempo in seguito al progresso tecnico che si traduce in
nuove macchine, e quindi a un ritmo che dipende dall'ammontare degli
investimenti, in particolare di quelli in macchinari, che sono
stimolati da un aumento dei salari più rapido di quello delle
macchine, ma anche in seguito a piccoli miglioramenti introdotti nel
processo produttivo in base all'esperienza - il cosiddetto learning
by doing).
7. Il mercato del lavoro
Il modello che abbiamo appena descritto - la teoria marginalista del
lavoro come fattore di produzione - costituisce ovviamente solo una
base semplificata sulla quale è possibile innestare l'esame
di aspetti più specifici, tramite complicazioni successive.
In primo luogo, per quanto riguarda l'offerta di lavoro occorre
ricordare l'influenza di fattori demografici e sociali. Tramite i
tassi di natalità e mortalità, l'emigrazione e
l'immigrazione, questi fattori determinano l'andamento della
popolazione di un paese, e in particolare della popolazione in
età lavorativa. Gli stessi limiti dell'età lavorativa
dipendono da consuetudini sociali (come i tassi di
scolarità), norme (come le leggi sul lavoro minorile),
istituzioni (come il sistema pensionistico). Solo una parte della
popolazione in età lavorativa, comunque, fa parte della
popolazione attiva (persone che lavorano o che sono alla ricerca di
un lavoro). Il cosiddetto tasso di attività (o tasso di
partecipazione), cioè il rapporto tra popolazione attiva e
popolazione complessiva, che nei paesi sviluppati è in genere
compreso fra il 39 e il 45%, dipende anch'esso da fattori sociali ed
economici. Per individuarli, conviene calcolare i tassi di
attività specifici, per sesso e classi di età: ad
esempio, per le donne comprese tra i 30 e i 39 anni, il rapporto tra
occupate o in cerca di lavoro e totale delle donne in quella classe
di età. Confrontando i tassi di attività specifici tra
paesi diversi o, per uno stesso paese, tra periodi di tempo diversi,
si scopre che proprio i tassi di attività femminile
contribuiscono in misura determinante a spiegare le differenze nel
tasso di attività generale. Queste differenze dipendono,
ovviamente, da consuetudini sociali, in particolare relative alla
posizione della donna nella società, ma anche da fattori
economici quali l'andamento della domanda di lavoro e il tipo di
lavoro offerto: quando la disoccupazione è elevata, molti
potenziali lavoratori, e soprattutto molte potenziali lavoratrici,
rinunciano ai tentativi di trovare lavoro ed escono dalla
popolazione attiva. Se ricordiamo quanto diceva Smith a proposito
della ricchezza delle nazioni, che dipende sia dalla
produttività del lavoro sia dalla quota dei lavoratori
produttivi sul totale della popolazione, possiamo comprendere
l'importanza del tasso di attività e degli elementi che lo
determinano per il tenore di vita di un paese.In secondo luogo,
è chiaro che nel modello marginalista base illustrato sopra
la disoccupazione risulta nulla se il libero gioco della domanda e
dell'offerta è in grado di determinare un salario reale che
le renda eguali. L'esistenza della disoccupazione come dato di fatto
comune a tutte le economie capitalistiche richiede quindi
spiegazioni specifiche (o critiche al modello teorico, come quelle
di Keynes, che qui non possiamo considerare; per Keynes,
l'occupazione dipende sostanzialmente dalla domanda di lavoro, e
quindi dalle decisioni degli imprenditori su quanto e come
produrre).
Le spiegazioni della disoccupazione nell'ambito della tradizione
marginalista si richiamano, per un aspetto o per l'altro, alle
deviazioni del mercato del lavoro dall'ideale della concorrenza
perfetta. Ad esempio, il salario può risultare troppo elevato
rispetto al livello di equilibrio che assicurerebbe la piena
occupazione, a causa del potere contrattuale dei sindacati o a causa
di limiti nell'informazione disponibile o di difficoltà nel
controllare l'efficienza dei lavoratori. Ancora, le informazioni
disponibili sul mercato del lavoro possono essere insufficienti e
generare decisioni errate (ad esempio, nella scelta delle
qualifiche: troppi laureati in lettere e troppo pochi ingegneri).
Infine, l'aggiustamento ai cambiamenti che si verificano nella
realtà (ad esempio, le migrazioni dalle aree e dai settori in
declino a quelli in crescita) può risultare incompleto o
troppo lento; è necessario tempo anche per la ricerca della
prima occupazione o per la ricerca di un'occupazione migliore da
parte di chi ha lasciato per insoddisfazione il suo posto di lavoro,
e che per il momento risulta disoccupato. Istituzioni quali gli
uffici di collocamento o le agenzie del lavoro hanno un ruolo
importante nel far fronte ad alcuni di questi problemi, che hanno
comunque un loro peso anche nell'opinione di quanti non accettano la
teoria marginalista. La segmentazione del mercato del lavoro in
mercati specifici - differenziati per territorio, per settori di
attività e soprattutto per qualifiche - è l'estensione
più ovvia e immediata della teoria di base. I differenziali
salariali - territoriali, settoriali e di qualifica - vengono
comunque a dipendere dal gioco della domanda e dell'offerta su
ciascun mercato specifico. In particolare, i differenziali per
qualifica debbono compensare le spese sostenute dal lavoratore
qualificato per l'investimento addizionale in costi di formazione
rispetto al lavoratore comune (v. Blaug, 1972). Lungo queste linee
può essere analizzata anche la distinzione tra lavoro
dipendente e lavoro autonomo: nel secondo caso, oltre a un
differenziale retributivo corrispondente alle eventuali differenze
di qualifica, il reddito incorporerà anche la retribuzione
del capitale utilizzato e del rischio. Quest'ultimo elemento - gli
investimenti in 'capitale umano', cioè le spese sostenute sia
dallo Stato sia dal singolo perché il lavoratore acquisisca
una maggiore capacità professionale e quindi migliori
prospettive di guadagno - ha assunto notevole rilievo nella moderna
teoria dello sviluppo economico. Infatti la maggiore qualificazione
della forza lavoro viene comunemente valutata come uno dei
principali fattori di sviluppo economico oltre che come uno dei
principali fattori di competitività internazionale (v., ad
esempio, Reich, 1991).
La considerazione delle differenze di qualifica tra lavoratori porta
a rappresentare la classe lavoratrice come un insieme non omogeneo
al suo interno. La semplice dicotomia tra lavoro comune e lavoro
qualificato o tra lavoro semplice e lavoro complesso (dove l'accento
viene posto nel primo caso sulla formazione e la capacità
professionale del lavoratore, e nel secondo caso sulle
caratteristiche di maggiore o minore complessità del processo
lavorativo) viene sostituita da un'articolazione in ceti, prestando
attenzione anche a elementi quali differenze di posizione sociale
(potere e prestigio oltre che reddito). Si riconosce così che
i differenziali salariali non rispondono a puri criteri di mercato
ma incorporano un importante elemento di tradizione sociale.
Per analogia possiamo ricordare qui anche i differenziali salariali
per sesso: le differenze tra uomini e donne, che si sono ridotte nel
tempo ma sono tutt'altro che scomparse, riguardano sia i livelli
retributivi per eguali qualifiche e grado, sia la difficoltà
di fare carriera a parità di livello d'istruzione. In alcuni
paesi, come gli Stati Uniti, sono rilevanti e oggetto di un'ampia
messe di studi anche i differenziali retributivi etnici.Ricordiamo
infine che mentre in vari paesi arretrati è importante la
piccola proprietà contadina, nei paesi capitalistici avanzati
è tutt'altro che trascurabile la quota dei lavoratori
autonomi nella popolazione attiva (piccoli commercianti, artigiani,
liberi professionisti). Di fronte a questa molteplicità di
elementi di differenziazione tra lavoratori, anche le moderne
analisi della struttura sociale considerano generalmente
inappropriata la visione dicotomica della società (proletari
e capitalisti) tipica della tradizione marxista più
ortodossa. Poiché le differenze di collocazione nel mondo del
lavoro - come nel caso della distinzione tra lavoratori dipendenti e
autonomi - influiscono sulla 'visione del mondo' e quindi
sull'orientamento politico, pur non determinandolo in modo rigido,
la stratificazione per ceti sociali e la sua evoluzione nel corso
del tempo costituiscono fattori essenziali nello studio delle
vicende politiche (v. Sylos Labini, 1974).
8. Settori economici e orari di lavoro nello
sviluppo del capitalismo
Solo quando si considera il mondo del lavoro nella sua articolazione
diviene possibile cogliere l'enorme ampiezza dei cambiamenti
intervenuti in esso nel corso degli ultimi decenni, e delle
differenze tuttora esistenti tra paesi diversi.Se consideriamo le
cose secondo una prospettiva di più lungo periodo, i
cambiamenti sono tali da implicare una modifica delle stesse
categorie utilizzate per l'analisi. All'inizio del Settecento, le
statistiche elaborate dagli aritmetici politici (Gregory King,
Charles Davenant) classificavano reddito e lavoratori non in base al
settore di attività ma in base a ripartizioni territoriali:
una visione che riflette la frammentazione dell'economia nazionale
in unità locali non necessariamente autosufficienti ma assai
meno legate fra loro di quanto avvenga oggi. Solo in seguito si
afferma la suddivisione per settori economici. Anche in questo caso,
però, le categorie comunemente utilizzate nel recente passato
- agricoltura, industria, servizi - tendono oggi a essere sostituite
da nuove categorie, con la distinzione tra servizi destinati e non
destinati al mercato (o tra servizi pubblici e privati), mentre
sempre meno peso viene attribuito alla distinzione tra agricoltura e
industria.La ragione di queste tendenze recenti può essere
compresa se guardiamo alle modifiche intervenute negli ultimi
decenni nelle quote dei lavoratori impiegate rispettivamente
nell'agricoltura, nell'industria e nei servizi. Quella che Colin
Clark (v., 1951²) ha battezzato, alquanto impropriamente,
'legge di Petty', prevede che nel tempo la quota del lavoro occupata
nell'agricoltura tenda a diminuire, e che crescano quelle occupate
nell'industria e nei servizi. Se consideriamo i dati più
recenti, vediamo che nei paesi più sviluppati il peso degli
occupati in agricoltura è ormai drasticamente ridotto, mentre
la quota degli occupati nell'industria, dopo essere cresciuta per
vari decenni fino a raggiungere quasi il 50% dei lavoratori, ha
iniziato a ridimensionarsi a vantaggio della quota degli occupati
nei servizi, pubblici e privati, che in molti paesi cosiddetti
'postindustriali' ha ormai superato il 60%.
Lo stesso fenomeno può essere colto da un altro punto di
vista, confrontando la struttura dell'occupazione in paesi a livelli
diversi di sviluppo. L'agricoltura ha un ruolo ancora dominante nei
paesi a più basso reddito, mentre nei cosiddetti paesi di
nuova industrializzazione diminuisce la quota degli occupati in
agricoltura e aumenta quella degli occupati nei servizi e
soprattutto nell'industria; quest'ultima quota è superiore a
quella che riscontriamo nei paesi postindustriali, dove è
nettamente dominante l'occupazione nei servizi. Rispetto al profilo
dell'evoluzione storica, il confronto tra paesi a diversi livelli di
sviluppo mostra oggi una quota relativamente maggiore di occupati
nei servizi - specie nei servizi pubblici - nei paesi a basso e
medio reddito.
Per quanto riguarda le prospettive per il futuro, non sembra
opportuno ricorrere a estrapolazioni delle tendenze più
recenti, come fanno molti 'futurologi' che prevedono una continua
crescita del settore dei servizi. Questa è dipesa, nella fase
più recente, da tre circostanze che non è detto
persistano in futuro. Il primo elemento è costituito dalla
crescente quota di domanda dei consumatori finali rivolta ai servizi
- in particolare per il tempo libero, per l'istruzione, per cure
mediche - , considerati 'beni superiori', cioè beni non di
prima necessità, la cui domanda cresce d'importanza al
crescere del reddito. In secondo luogo abbiamo l''esternalizzazione'
di molti servizi per la produzione, cioè il ricorso da parte
delle imprese a fornitori esterni per servizi legali, di
contabilità, di ricerche di mercato e simili, in precedenza
svolti all'interno delle stesse imprese manifatturiere. In terzo
luogo ricordiamo la minore crescita della produttività nel
settore dei servizi rispetto a quella verificatasi nell'agricoltura
e nell'industria manifatturiera.
È plausibile che il primo dei tre elementi appena indicati
persista almeno nel futuro prossimo. Anche per il secondo elemento
è possibile che non sia stata ancora raggiunta la soglia di
saturazione, di fronte alle crescenti esigenze di
flessibilità delle imprese. Per il terzo elemento, tuttavia,
le cose potrebbero cambiare notevolmente, se l'impatto della
microelettronica riguarderà il settore dei servizi più
che gli altri settori. Inoltre, l'espansione del settore pubblico
collegata alla crescita dei servizi destinati al mercato sembra aver
raggiunto un limite difficilmente valicabile in vari paesi a causa
delle reazioni sempre più vive a un'elevata pressione
fiscale. Un rallentamento della crescita dei servizi (in Italia nel
1994 per la prima volta questo settore ha conosciuto un calo in
assoluto nel numero degli occupati) può dar luogo non
semplicemente a nuove tendenze nella struttura settoriale
dell'occupazione, ma a un crescente problema di disoccupazione
tecnologica. Di fronte a questo problema, uno degli sbocchi
più frequentemente proposti richiama una delle principali
tendenze di lungo e lunghissimo periodo che caratterizzano il mondo
del lavoro, quella alla riduzione degli orari di lavoro
(giornalieri, settimanali, annui e riferiti all'intero arco di vita
attiva del lavoratore: v. tabella).
Occorre sottolineare, comunque, che la tendenza di lungo periodo a
una riduzione delle ore lavorate si afferma su una base di
oscillazioni collegate all'andamento della congiuntura economica. In
particolare, gli orari lavorativi di fatto seguono un andamento
grosso modo prociclico (cioè crescono nelle fasi di
espansione dell'economia e diminuiscono nelle fasi di rallentamento
congiunturale), mentre gli orari contrattuali si mostrano sensibili
soprattutto ai problemi di competitività internazionale dei
singoli paesi. Infatti un paese non può perseguire
isolatamente una politica di riduzione degli orari di lavoro senza
correre il rischio di peggiorare la propria competitività
internazionale, e quindi di aggravare anziché ridurre la
propria disoccupazione. A parità di lavoratori occupati,
l'aumento della produttività oraria si deve tradurre in
maggiore produzione o in minori orari di lavoro. Nel corso
dell'ultimo secolo, la riduzione degli orari di lavoro ha assorbito
una quota degli aumenti di produttività oraria pari grosso
modo a un terzo, mentre due terzi si sono tradotti in aumento della
produzione pro capite.
Di fronte a questa situazione, i sostenitori di una società
più attenta alla salvaguardia dell'ambiente, e quindi meno
orientata verso la produzione materiale, ritengono che sarebbe
necessario uno sforzo coordinato per modificare quelle proporzioni,
perseguendo una drastica riduzione del tempo dedicato al lavoro a
favore di quello dedicato alla cultura e ad attività libere.
In questo senso, le più recenti tendenze dell'ecologismo
più radicale si ricollegano a quei filoni del socialismo
utopistico, ai quali si è accennato sopra, che auspicano
riforme della società dirette ad assicurare una radicale
riduzione del lavoro complessivo richiesto per il funzionamento
della società accompagnata da una sua più equa
riallocazione. Quest'ultimo problema concerne in particolare i
lavori meno gradevoli, ma pur sempre necessari; per quanto riguarda
quei servizi personali la cui prestazione può avere valore in
sé - ad esempio, l'assistenza agli anziani e ai malati -
è possibile favorire il ricorso al volontariato; per altre
attività lavorative che non hanno questo tipo di
gratificazione - ad esempio, la raccolta delle immondizie - è
stato proposto il ricorso a un 'esercito del lavoro', in modo che
ogni cittadino dedichi una parte limitata della sua vita a
prestazioni di questo tipo, senza che nessuno sia condannato a esse
per tutta la durata della propria vita attiva; questa proposta
dunque ha finalità diverse da quella, analoga ma diretta
principalmente a combattere la disoccupazione, di affidare a
disoccupati, per periodi di tempo limitati, l'esecuzione di lavori
socialmente utili in cambio di un salario minimo.
9. Evoluzione della struttura economica e della
stratificazione sociale: verso il superamento del lavoro
costrittivo?
L'immagine del lavoro ereditata dai testi ottocenteschi o della
prima metà di questo secolo (e da film come Tempi moderni di Chaplin) e collegata all'immagine dell'operaio comune
utilizzato alla catena di montaggio appare non totalmente superata -
specie se guardiamo ai paesi in via di sviluppo, nei quali vengono
decentrate le attività produttive a minore contenuto
professionale - ma poco adeguata a cogliere le tendenze in atto
nella fase più recente, specie nei paesi postindustriali. In
questa fase ha ripreso vigore la crescita delle piccole e medie
imprese, dotate di una maggiore flessibilità, spesso
organizzate in 'distretti industriali'; in parallelo, si è
avuto uno spostamento d'importanza dalle tecnologie basate sulla
divisione scientifica del lavoro (Taylor) e sulle catene di
montaggio a tecnologie più flessibili permesse dallo sviluppo
della microelettronica e basate sulle macchine a controllo numerico.
Inoltre, l'alternanza tra il primo e il secondo principio di Babbage
- un frazionamento delle attività lavorative diretto a
ridurne il contenuto di professionalità e quindi a ridurre il
costo del lavoro, e la sostituzione con macchine delle
attività più semplici - genera sia una tendenza di
lungo periodo all'arricchimento delle capacità professionali
(e soprattutto dell'istruzione di base) richieste ai lavoratori, sia
una crescente varietà di mestieri e professioni. Se a questa
tendenza si unisce quella alla diffusione dell'azionariato popolare
(in vari paesi, in particolare negli Stati Uniti e in Germania,
tramite un ruolo centrale dei fondi pensionistici), possiamo
cogliere una situazione in cui la dicotomia di classe tra lavoratori
e capitalisti perde importanza rispetto alla stratificazione per
ceti sociali. In questa stessa direzione potrebbe operare una
maggiore diffusione del cooperativismo nella produzione, già
proposta nell'Ottocento da un filone del 'socialismo ricardiano'
(Robert Owen, William Thompson) e da John Stuart Mill, le cui idee
furono praticamente sommerse dall'ostilità delle ideologie
marxiste e comuniste, che privilegiavano invece la proprietà
pubblica dei mezzi di produzione. Fra l'altro, la diffusione del
cooperativismo potrebbe essere favorita dal crescente contenuto
professionale delle attività lavorative e quindi dalle
crescenti difficoltà di controllare l'adeguatezza delle
prestazioni dei lavoratori dipendenti.Il progresso tecnico apre
dunque spazi notevoli: riduzione degli orari di lavoro,
arricchimento professionale di molte attività lavorative,
miglioramenti nell'ambiente di lavoro.
Allo stesso tempo pone problemi difficili: disoccupazione
tecnologica, differenziazioni sociali, effetti sull'ambiente. In
questo contesto, l'analisi delle tendenze in atto nel mondo del
lavoro non può essere disgiunta dallo studio di proposte
d'intervento. Fra queste, quelle forse più interessanti, non
solo in via diretta ma anche per cogliere meglio le
potenzialità della situazione in cui viviamo, sono le
più radicali e solo apparentemente più utopistiche.
Infatti, può apparire decisamente irrealistica la prospettiva
suggerita da Marx di una liberazione completa dal lavoro
costrittivo; ma assai meno irrealizzabili, almeno in linea di
principio, appaiono le proposte di inserire sulla tendenza secolare
alla riduzione del tempo dedicato al lavoro nell'arco della vita
umana riforme anche radicali - come la promozione di lavori non
produttivi di merci o servizi vendibili ma socialmente utili o
l'istituzione di un 'esercito del lavoro' sulle linee sopra indicate
- per ripartire in modo più equo sull'intera popolazione il
carico ineliminabile del lavoro costrittivo e ridurre il peso delle
differenziazioni sociali. Come si vede, comunque, il tema del lavoro
è indissolubilmente legato a quello degli assetti della
società: le trasformazioni in corso nel campo del lavoro,
ricordate sopra, non potranno non avere effetti profondi
sull'organizzazione delle società umane e sulla nostra vita.
Sociologia
di Marino Regini
sommario: 1. Introduzione. a) Lavoro
dipendente e non. b) Il lavoro gerarchicamente subordinato.
c) Il futuro del lavoro tra vecchio e nuovo. 2. Il lavoro
nelle economie capitalistiche. a) I mercati del lavoro e le
altre istituzioni regolative. b) Tendenze alla
flessibilità. c) Il lavoro fuori dal mercato
capitalistico. 3. Il lavoro nell'impresa. a) Il
taylor-fordismo e le conseguenze del mutamento tecnologico. b) La riorganizzazione post-fordista del lavoro. c) Tra
forza lavoro e risorse umane. d) Le attività
terziarie e le forme di lavoro atipico. 4. La
centralità sociale del lavoro e le sue trasformazioni. □
Bibliografia.
1. Introduzione
Il lavoro è un'attività sociale complessa, a cui gli
studiosi di scienze sociali hanno guardato in modi differenti e con
differenti interessi, a seconda delle preoccupazioni che prevalevano
nei diversi periodi storici. Negli ultimi vent'anni, ad esempio, vi
è stato uno spostamento significativo dell'attenzione dai
problemi della qualità a quelli della quantità di
lavoro. Se fra gli anni cinquanta e settanta la preoccupazione
dominante era infatti quella della 'umanizzazione' del lavoro - una
preoccupazione giustificata dai metodi di lavorazione prevalenti e
da una visione pessimistica degli effetti del progresso tecnico -
negli anni ottanta, entrato in crisi il modello del Welfare State
keynesiano che garantiva pieno impiego e sicurezza sociale,
l'attenzione si è spostata verso i problemi della
disoccupazione e delle conseguenti opportunità di
redistribuire il lavoro, di accorciarne i tempi, e così via.
Ma ciò non significa che la riflessione sulla natura e sul
futuro del lavoro sia diventata obsoleta. Anzi, proprio il dibattito
su occupazione e disoccupazione ha indotto a riprendere quella
riflessione, che ha toccato tre aspetti principali. Il primo, solo
apparentemente definitorio, riguarda la stessa nozione di lavoro e
ciò che essa ricomprende. Lavoro è sinonimo di
occupazione, o è una categoria in cui rientrano anche altri
tipi di rapporto sociale (v. Pahl, 1988)? È facile, ma tutto
sommato poco significativo, osservare che, in realtà, anche
quelli che vengono definiti come disoccupati e inoccupati spesso
lavorano nell'economia nascosta e in quella irregolare. Più
importante è notare che, se si adotta una definizione di
lavoro, in contrapposizione a quella di tempo libero, troppo
ricalcata su quella di occupazione - cioè come 'qualcosa che
dobbiamo fare, che preferiremmo non fare, e per cui veniamo pagati'
(v. Grint, 1991, p. 11) - si rischia di non considerare come
attività lavorativa né il lavoro domestico né
le molte forme di lavoro volontario. Decidere che cosa è
lavoro e che cosa non lo è dipende insomma dalla definizione
sociale, storicamente variabile, delle diverse attività
umane; e in particolare dipende dal grado di egemonia che alcune
forme di lavoro esercitano nei diversi periodi storici.
Il secondo aspetto della riflessione sul lavoro riguarda la sua
natura, e quindi la valutazione sociale che di esso viene data.
Partendo ancora una volta dai problemi della disoccupazione, si
può notare che il lavoro che si cerca o che viene a mancare
ha al tempo stesso la natura di labor - che nel significato latino
comprende le nozioni di fatica, pena, sacrificio - e di opera,
cioè di attività che strutturano la vita e che
forniscono identità sociale (v. Touraine, 1986, p. 195). I
due aspetti sono presenti in misura variabile nei diversi tipi di
lavoro, che tuttavia ha sempre, inevitabilmente, una natura ambigua
e contraddittoria. Da un lato è il simbolo della punizione
per il peccato originale e della costrizione presente nella
condizione umana: 'si lavora perché si deve'. In quanto tale
implica non solo fatica e sacrificio, ma per lo più anche
subordinazione ed eteronomia. Dall'altro, è un mezzo con cui
l'individuo può dimostrare a se stesso e agli altri quanto
vale: 'si lavora per affermare le proprie capacità'. Dunque
il lavoro è uno strumento non solo di reddito, ma anche di
status, di autorealizzazione, di identità sociale; tanto che
"chi non ha un lavoro, molto spesso trae la propria
autoconsiderazione o il prestigio sociale da altri a lui prossimi,
come i genitori, il coniuge, i quali hanno un'occupazione" (v.
Dahrendorf, 1988, p. 114). L'enfasi posta dagli scienziati sociali
sull'uno o sull'altro di questi caratteri del lavoro dipende, come
vedremo, non solo da convinzioni metascientifiche, ma anche dalla
diversa lettura dei processi di mutamento che lo hanno interessato.
Le trasformazioni del lavoro hanno per effetto di potenziare il
primo o il secondo di questi caratteri contraddittori? E l'idea di
una nuova società deve contenere in sé quella di una
liberazione dal lavoro - attraverso una drastica riduzione
dell'orario e un'ampia ripartizione sociale delle attività
faticose e alienanti in nessun modo eliminabili - o di una
liberazione nel lavoro, valorizzando cioè sempre di
più le componenti di autonomia, responsabilità e
autorealizzazione che dipendono dal modo di disegnare i lavori (v.
Gorz, 1988)?
Infine, il terzo aspetto della riflessione riguarda il futuro del
lavoro e della sua centralità sociale nei paesi industriali
avanzati. La contrazione dell'occupazione dipendente e la riduzione
dell'attività lavorativa stabile nell'esperienza di vita
degli individui hanno l'effetto di ridimensionare la
centralità sociale del lavoro, e addirittura portano alla
'fine della società del lavoro' (v. Dahrendorf, 1980; v.
Offe, 1983), o implicano semplicemente una maggiore diversificazione
delle esperienze lavorative, cioè il passaggio 'dal mondo del
lavoro a quello dei lavori' (v. Accornero, 1992)?
La riflessione su questi diversi aspetti del lavoro ha posto fine a
una lunga e curiosa disattenzione della teoria sociale e politica
contemporanea nei confronti di questo fenomeno centrale della vita
umana (v. Gallino, 1988, p. 138). Se nell'International
encyclopaedia of social sciences addirittura non si trova una
voce Work (ma solo quelle affini di Workers, Labor force e
Occupations and careers), il dibattito fra gli studiosi di scienze
sociali si è invece acceso più di recente sui temi
sopra indicati inerenti ai confini, alla natura, e al futuro del
lavoro.L'emergere di questo dibattito è rivelatore di
profondi mutamenti avvenuti nella forma 'tipica' del lavoro come lo
abbiamo conosciuto in questo secolo, cioè il lavoro
dipendente (o lavoro salariato) e gerarchicamente subordinato,
svolto normalmente a tempo pieno all'interno di un'organizzazione.
È la contrazione e al tempo stesso la trasformazione di
questo tipo storicamente determinato di lavoro che legittima gli
interrogativi più astratti su che cosa rientri nella
definizione di lavoro e su quali siano le tendenze prevedibili.Nei
prossimi paragrafi, dunque, dovremo analizzare brevemente le
caratteristiche del lavoro dipendente (v. § 1a) e
gerarchicamente subordinato (v. § 1b), per poi valutare la
portata dei suoi mutamenti e delle possibili alternative (v. §
1c). Questi temi verranno poi ripresi per esteso nei capitoli
successivi.
a) Lavoro dipendente e non
L'occupazione alle dipendenze, o lavoro salariato, non è che
una delle forme possibili di lavoro, anche se è quella che ha
dominato la vita economica e il pensiero sociale dopo l'affermazione
del capitalismo. Il concetto del posto di lavoro fisso come fonte
pressoché esclusiva del reddito personale è emerso per
la prima volta nell'Ottocento. Benché un mercato del lavoro
sia esistito in molti paesi europei per diversi secoli, infatti,
un'occupazione regolare a tempo pieno non era la norma, e il reddito
ricavato dal lavoro salariato costituiva solo una componente non
essenziale al mantenimento dell'individuo e della famiglia (v. Pahl,
1988, p. 12). Nonostante la specificità storica della nozione
di occupazione dipendente e il periodo relativamente breve in cui si
è affermata, ben presto essa viene a coincidere, nell'analisi
sociale non meno che nel senso comune, con quella di lavoro tout
court. Il manuale americano più usato negli anni cinquanta,
ad esempio, definisce il lavoro come "occupazione permanente nella
produzione di beni e servizi in cambio di una retribuzione" (v.
Dubin, 1958).
È difficile sostenere che questa forma di lavoro non conservi
anche oggi la sua centralità; essa ha tuttavia subito
trasformazioni rilevanti, e soprattutto una notevole contrazione.
L'aumento della disoccupazione cui si è accennato sopra non
ne è che una delle cause. Le altre vanno ricercate
nell'estensione e nel prolungamento del sistema di istruzione e di
quello pensionistico, che hanno sottratto al mercato del lavoro
quote crescenti di popolazione in età giovanile e in
età anziana, nonché nella generalizzata riduzione
dell'orario di lavoro.In diversi paesi, a questa contrazione del
lavoro dipendente ha fatto invece riscontro una crescita del lavoro
professionale e autonomo (artigiani, commercianti, lavoratori
free-lance). E, soprattutto, non vi sono segnali che sia in calo il
lavoro domestico, svolto in modo preponderante dalle donne,
benché in molti paesi l'organizzazione familiare del lavoro
abbia subito mutamenti rilevanti.
b) Il lavoro gerarchicamente subordinato
Anche la forma di lavoro gerarchicamente subordinato e svolto
all'interno di un'organizzazione, che implica la
disponibilità temporale piena del lavoratore a prestazioni
standardizzate piuttosto che l'offerta di una prestazione specifica,
è una costruzione sociale relativamente recente, esito di un
duplice processo (v. Chiesi, 1990).Il processo più noto e
ampiamente richiamato è quello che, nel corso di questo
secolo, ha portato alla costituzione della grande impresa -
un'impresa che produce in grande serie beni standard, mediante l'uso
di macchine e di una forza lavoro che svolge compiti routinizzati.
L'esigenza fondamentale che si poneva rispetto a quest'ultima era
quella del controllo e della standardizzazione della prestazione, e
a tale esigenza hanno a lungo risposto l'innovazione tecnologica
nella fabbrica e negli uffici, e i metodi di organizzazione del
lavoro, o 'concetti di produzione' prevalenti (v. Kern e Schumann,
1984).
Nei paesi industriali avanzati, un secondo processo si è poi
affiancato al primo nel sancire la centralità del lavoro
gerarchicamente subordinato e nell'assicurare il conseguimento di
una standardizzazione, uniformità e 'rigidità' della
prestazione lavorativa. Si tratta del costituirsi di sistemi di
relazioni industriali volti alla tutela contrattuale di un tale
rapporto di lavoro, e quindi alla sua stabilizzazione. Se
l'organizzazione della grande fabbrica o dell'ufficio tradizionale
era di fatto un sistema di regole relativamente uniformi, i sistemi
di relazioni industriali che le corrispondevano consistevano in
pratica nella contrattazione di queste regole secondo criteri
altrettanto uniformi e standardizzati (v. Regini, 1991, pp.
149-150).Anche il lavoro gerarchicamente subordinato e svolto a
tempo pieno in un'organizzazione, tuttavia, ha subito profonde
trasformazioni e si è quantitativamente ridimensionato. Sono
invece fortemente cresciute forme ibride fra lavoro subordinato e
lavoro autonomo, ovvero forme di lavoro atipico.
c) Il futuro del lavoro tra vecchio e nuovo
Dunque, le trasformazioni del lavoro - quelle recenti e quelle
prevedibili - appaiono importanti, ma né dirompenti né
univoche. La forma 'tipica' del lavoro dipendente e gerarchicamente
subordinato conserva ancora un predominio economico e sociale
rilevante. Accanto a questa forma tipica, altri generi di lavoro
riconquistano un'attenzione a lungo perduta o negata - è il
caso del lavoro autonomo e di quello domestico - o si presentano
come novità alla ricerca di un consolidamento - è il
caso dei vari lavori atipici.Anche le conseguenze dei processi di
mutamento appaiono spesso ambigue e contraddittorie. È
così, ad esempio, per quanto riguarda la duplice natura del
lavoro. Con un trend iniziato da alcuni decenni, e che ha conosciuto
una forte accelerazione nell'ultimo, il grado di fatica, di
sacrificio, di costrizione è fortemente diminuito per quasi
tutte le mansioni (v. Bonazzi, 1993) - anche se ciò ha reso
per certi versi ancor più evidente il limite contro cui tale
diminuzione si scontra, rappresentato dal permanere degli aspetti di
subordinazione e di eteronomia nella maggior parte dei lavori.
Tuttavia, alla diminuzione della componente di labor non ha fatto
sempre riscontro un aumento di quella di opera, se non per alcune
categorie professionali. Le possibilità di autorealizzazione
attraverso il lavoro sono un aspetto intorno al quale si ricreano
nuovi dualismi, fra gruppi occupazionali che ricavano dal lavoro
soddisfazione e prestigio sociale e altri gruppi che continuano a
scorgervi soltanto sacrificio e costrizione, sia pure attenuati.
Mentre i secondi cercano di circoscrivere nel tempo e
nell'esperienza di vita l'attività lavorativa, i primi si
identificano sempre di più in tale attività. "Nulla
caratterizza meglio le posizioni superiori del fatto che i loro
appartenenti si lamentano di continuo d'aver troppo lavoro da
svolgere [...]. Il grande consumo di lavoro è diventato il
moderno equivalente del grande consumo di agiatezza" (v. Dahrendorf,
1988, p. 120).
2. Il lavoro nelle economie capitalistiche
È nelle economie capitalistiche che si sviluppa la forma del
lavoro dipendente o lavoro salariato, regolata da un mercato anomalo
qual è il mercato del lavoro e, successivamente, anche da
istituzioni politiche e associative, mediante la legislazione, la
contrattazione collettiva, le politiche del lavoro. Nel corso di
questo secolo, tale forma di lavoro assume quelli che oggi
consideriamo i suoi caratteri standard, e che recentemente sono
stati sottoposti a trasformazioni più o meno accentuate.
Anche nelle economie capitalistiche, tuttavia, rimangono in vita
forme di lavoro non salariato, alcune delle quali hanno di recente
riguadagnato un'attenzione da tempo perduta.
a) I mercati del lavoro e le altre istituzioni regolative
Un mercato è un meccanismo regolativo che consente la
formazione del prezzo di un bene attraverso contrattazioni
formalmente libere fra chi domanda e chi offre il bene stesso.
Quando il bene scambiato è quella merce decisamente anomala
costituita dal lavoro umano, si parla di mercato del lavoro. In
realtà, vi sono diversi mercati per diversi tipi di lavoro.
La domanda di lavoro è fortemente differenziata in base alle
competenze richieste (se un'impresa ha bisogno di un ingegnere non
assume ovviamente un cameriere) e in base ad altre caratteristiche.
Ma anche l'offerta (cioè l'insieme delle persone disponibili
a ricoprire un posto di lavoro) è diversificata per livello
di istruzione, qualifica, esperienza lavorativa, nonché per
età, sesso, provenienza etnica, ecc. Proprio perché le
caratteristiche della domanda e dell'offerta di lavoro sono
così eterogenee, sarebbe costosissimo e inefficiente, se non
impossibile, utilizzare metodi amministrativi per coprire i posti di
lavoro disponibili in un'economia sviluppata. Il mercato del lavoro
si è invece rivelato uno strumento semplice e relativamente
efficiente per fissare i livelli retributivi relativi (quindi i
differenziali salariali) per le diverse figure professionali,
imprese, aree geografiche e settori industriali. Tuttavia, esso
presenta anche molti limiti e problemi di funzionamento, e i suoi
esiti suscitano forti opposizioni, così che, storicamente, ha
dovuto essere affiancato e in parte sostituito da altre istituzioni
regolative. In primo luogo, vi sono aspetti del lavoro che il
mercato non può regolare.
A differenza dei livelli retributivi, le condizioni in cui viene
effettuata la prestazione lavorativa, o condizioni di lavoro - quali
i ritmi di lavoro, le condizioni ambientali, o il grado di
coinvolgimento nelle decisioni - vengono variamente regolate dalla
gerarchia aziendale, dalla legislazione o dalla contrattazione
collettiva. Così pure, non è il mercato del lavoro che
può determinare interamente il livello desiderabile di
occupazione complessiva (o di domanda di lavoro aggregata), o quello
di garanzia del reddito per chi esca temporaneamente o
permanentemente dal mercato del lavoro stesso. A ciò
provvedono solitamente, in varia misura, le politiche statali, o la
concertazione fra gli interessi organizzati. In secondo luogo, il
ricorso al mercato può rivelarsi in vari casi meno efficiente
dell'uso di meccanismi organizzativi. È questa, ad esempio,
la ragione per la quale, per ricoprire posizioni relativamente
qualificate, si sono diffusi quelli che gli economisti americani
Doeringer e Piore (v., 1971) hanno chiamato 'mercati del lavoro
interni', in contrapposizione a quelli 'esterni'. In molte imprese,
soprattutto dove la produzione è altamente specifica e dove
l'esperienza lavorativa e l'identificazione dei lavoratori con
l'impresa stessa sono beni preziosi, le posizioni superiori vengono
infatti ricoperte mediante promozione interna - cioè mediante
meccanismi organizzativi - anziché mediante ricorso al
mercato 'esterno'.Infine, lo scambio che ha luogo nel mercato del
lavoro è uno scambio diseguale.
Benché la retribuzione e i termini del rapporto di lavoro
vengano stabiliti attraverso una contrattazione formalmente libera,
infatti, il potere di mercato - e quindi contrattuale - del datore
di lavoro è di solito enormemente superiore a quello del
lavoratore. Tranne che per figure professionali di difficile
reperibilità, la domanda di lavoro è normalmente
inferiore all'offerta e non ha le caratteristiche di urgenza e
talvolta di drammaticità di quest'ultima. In tutti i paesi,
la legislazione è intervenuta in diversa misura a temperare
questa disuguaglianza presente nei mercati del lavoro, ponendo
limiti alla facoltà delle imprese di licenziare, favorendo
l'assunzione dei più deboli tra quanti si offrono su tale
mercato, e così via. In tutti i paesi, inoltre, l'azione
collettiva dei lavoratori, che ha portato alla formazione di
sindacati, ha contribuito a trasformare lo 'scambio atomistico' che
avviene nel mercato del lavoro in 'contrattazione collettiva' e
talvolta in 'scambio politico' (v. Pizzorno, 1977), alterando
così profondamente la natura di tale mercato.Nelle economie
capitalistiche contemporanee, dunque, il mercato del lavoro è
ancora il meccanismo principale per fare incontrare la domanda e
l'offerta e per consentire che il lavoro si svolga nella forma
tipica dell'occupazione dipendente. Ma gli altri meccanismi
regolativi - dalle gerarchie aziendali allo Stato, alla
contrattazione collettiva - hanno assunto un ruolo fondamentale sia
nel fornire all'occupazione dipendente quei caratteri che
consideriamo 'tipici' (quali il contratto a tempo indeterminato e
con orario standard), sia nell'assecondarne i principali mutamenti.
b) Tendenze alla flessibilità
Se la forma di lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato
è una costruzione sociale relativamente recente, ancor
più recenti sono alcune tendenze al suo parziale
ridimensionamento.In primo luogo, è l'aspetto del tempo pieno
ad avere subito una ridefinizione. Già le prime lotte
sindacali per la riduzione della giornata di lavoro e la
legislazione sulla sua durata avevano messo in evidenza che il
significato di tale termine è socialmente variabile e va
perciò giuridicamente definito. Tuttavia, nonostante la
drastica riduzione della giornata e della settimana lavorative dagli
inizi del capitalismo a oggi, l'idea che il lavoro dipendente non
potesse che assorbire la gran parte della vita attiva di una persona
era rimasta sostanzialmente immutata fino al secondo dopoguerra.
È solo con la crescita del benessere nelle società
industriali avanzate, e in particolar modo con il forte aumento del
tasso di attività femminile (che in alcuni settori porta a
una vera e propria femminilizzazione della forza lavoro), che si
diffondono forme di lavoro a tempo parziale, organizzate secondo
diverse modalità. Su diciannove paesi dell'area OECD, nel
1979 soltanto tre avevano una percentuale di occupati part-time
superiore al 20% degli occupati totali; ma nel 1990 questi paesi
erano divenuti sette (v. OECD, 1991, p. 46).
In secondo luogo, l'idea del lavoro a tempo indeterminato in cui si
svolgono stabilmente le stesse mansioni per una retribuzione
anch'essa prefissata - idea che si era affermata in questo secolo
come esito della contrattazione sindacale non meno che
dell'intervento statale - viene anch'essa messa in discussione negli
anni ottanta. In questo decennio, l'esigenza delle imprese di
rispondere in modo più agile e tempestivo alle turbolenze dei
mercati porta ovunque a richieste di 'flessibilizzazione' del
rapporto di lavoro. Queste richieste sono in taluni casi -
particolarmente nei paesi anglosassoni - assecondate da propositi
politici di deregulation; in altri paesi - ad esempio in Germania e
in Italia - vengono di fatto contrattate con i sindacati (v. Regini,
1991).
Il primo obiettivo delle imprese è quello di ottenere
maggiore flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del
lavoro (si parlerà allora di flessibilità numerica o
esterna), contravvenendo così al carattere di sostanziale
stabilità - difficoltà di licenziamento, divieto di
assunzioni a tempo determinato - che i posti di lavoro erano venuti
assumendo negli anni sessanta e settanta nelle economie industriali
avanzate. Mentre la flessibilità esterna o numerica ha
giocato un ruolo chiave nella ristrutturazione industriale dei tardi
anni settanta e primi anni ottanta, un'importanza sempre maggiore
è stata in seguito assunta dalla flessibilità interna
o funzionale - cioè la possibilità di impiegare un
lavoratore in mansioni diverse - e da quella temporale - vale a dire
la possibilità di modulare il tempo effettivo di lavoro sulle
esigenze della produzione. Molte delle imprese che avevano cercato
in un primo momento un tipo di riaggiustamento basato su una
contrazione dell'organico, infatti, non hanno tardato a scoprire che
la riorganizzazione delle mansioni, lo sviluppo professionale della
forza lavoro e l'elasticità dell'orario potevano costituire
fattori di competitività ancora più importanti.Infine,
l'egemonia del lavoro dipendente a tempo indeterminato è
messa in discussione dalla crescita - che negli ultimi vent'anni ha
interessato in varia misura tutti i paesi industrialmente avanzati -
del numero e dell'importanza dei lavoratori con uno status incerto
nel mercato del lavoro. Gli esempi sono svariati: dai lavoratori
dipendenti che svolgono anche un lavoro in proprio, talvolta
preparandosi a diventare piccoli imprenditori, a quanti sono usciti
dal mercato del lavoro regolare con un pensionamento anticipato che
poi lavorano nell'economia informale, a coloro che svolgono un
lavoro free-lance, spesso intrattenendo un rapporto continuativo e
di fatto stabile con un'impresa.
c) Il lavoro fuori dal mercato capitalistico
Come si è più volte accennato, anche in un'economia
capitalistica non tutto il lavoro assume la forma standard del
lavoro dipendente e retribuito. Tre altri tipi principali di lavoro
hanno mantenuto una rilevanza quantitativa durante tutto lo sviluppo
capitalistico, benché offuscati dall'egemonia della forma
standard, e mostrano oggi una ripresa di importanza economica o
sociale. Si tratta del lavoro autonomo e professionale, del lavoro
domestico e di quello volontario.Le professioni liberali sono
naturalmente una forma di occupazione antica, per le cui
caratteristiche particolari esse vengono solitamente trattate sotto
una categoria diversa - definita appunto 'professione' - da quella
di lavoro. Altre figure sociali (artigiani, commercianti, ecc.)
svolgono invece un'attività lavorativa normalmente in forma
self-employed, cioè indipendente. Sia le interpretazioni
evoluzioniste dell'analisi di Karl Marx, sia le teorie della
modernizzazione industriale (v. Kerr e altri, 1960) hanno fatto a
lungo considerare queste figure sociali come un residuo
precapitalistico o preindustriale, quindi destinato a una
inevitabile perdita di importanza, se non all'estinzione. In diversi
paesi industrialmente avanzati, invece, la quota dei lavoratori
autonomi sul totale della forza lavoro è andata aumentando a
partire dagli anni settanta (v. OECD, 1986), in conseguenza sia del
formarsi di nuove figure professionali e imprenditoriali create
dallo sviluppo economico, sia di politiche di sostegno pubblico
volte a ottenere consenso (v. Berger e Piore, 1980).
Il lavoro domestico è stato tradizionalmente svolto dalle
donne che - ancor oggi si usa dire - 'non lavorano', cioè che
non hanno un'occupazione dipendente. Se il linguaggio comune
è rivelatore del perché questa categoria di lavoro sia
stata a lungo esclusa dal concetto di lavoro più in generale,
l'arbitrarietà di questa esclusione emerge non appena si
consideri che le stesse attività di cui consiste il lavoro
domestico possono costituire parte del lavoro salariato
nell'economia formale. Ciò vale non solo per le
attività svolte nell'abitazione in senso stretto, ma anche
per molte altre al di fuori di essa, quali il giardinaggio, la
manutenzione dell'auto o l'accompagnare i figli a scuola. D'altro
canto, le possibilità per le donne di presentarsi sul mercato
del lavoro sono state limitate e determinate dalle loro
attività domestiche, dando luogo a modelli occupazionali
basati sulle distinzioni di sesso. Per diverse ragioni, è
dunque difficile non considerare il lavoro dipendente e quello
domestico come strettamente connessi fra loro (v. Grint,
1991).Infine, il lavoro volontario è diventato più
importante con la moltiplicazione dei servizi sociali connessi
all'espansione del Welfare State e della cittadinanza sociale. La
crisi fiscale dello Stato e la caduta di qualità dei servizi
sociali che ne è seguita ha in molti paesi dato nuovo impulso
al volontariato - chiamato spesso anche 'terzo settore' - quale
alternativa alle deficienze dello Stato, del mercato e della
famiglia nel fornire prestazioni sociali.
3. Il lavoro nell'impresa
La grande impresa e l'amministrazione pubblica sono i due contesti
organizzativi nei quali il lavoro salariato ha assunto le
caratteristiche tipiche della sua forma standard: non già
lavoro svolto autonomamente per quanto riguarda gli strumenti e le
procedure lavorative - come nel caso degli artigiani o dei
professionisti - ma lavoro 'gerarchicamente subordinato'.
È nell'impresa industriale che le grandi problematiche poste
da questo tipo di lavoro si sono originariamente sviluppate. Ed
è alla grande impresa industriale che si è rivolta in
via prioritaria l'attenzione delle scienze sociali interessate al
tema del lavoro e dei suoi effetti sulle persone. Dal vecchio
dibattito sulle conseguenze del mutamento tecnologico - intorno a
cui si sono sviluppate gran parte della sociologia industriale e
della psicologia del lavoro - e sull'umanizzazione del lavoro in una
fase di parcellizzazione elevata delle mansioni, si è passati
più di recente alle discussioni sul superamento
dell'organizzazione del lavoro taylor-fordista, sulla sua portata e
sui nuovi modelli emergenti.
Contemporaneamente al superamento del fordismo, tuttavia, due forme
di lavoro al di fuori del tipo standard hanno acquistato rilevanza
sociale: si tratta del lavoro nel settore dei servizi - che come
vedremo racchiude in sé tipi di prestazione fortemente
differenziati dal punto di vista qualitativo - e di quella
costellazione di forme di lavoro che si usa ormai definire
'atipico'.
a) Il taylor-fordismo e le conseguenze del mutamento tecnologico
Negli anni cinquanta e sessanta le scienze sociali scoprirono i
problemi del 'macchinismo' prima e dell'automazione poi, e delle
profonde conseguenze che essi provocavano sul lavoro in termini di
parcellizzazione delle mansioni (v. Friedmann, 1946) e di
alienazione (v. Blauner, 1964). Gli studiosi si divisero fra chi
vedeva il macchinismo come una tendenza secolare a dequalificare il
lavoro umano e chi invece, con una visione dialettica presa in
prestito dal marxismo, lo considerava come una semplice fase in
procinto di essere superata da quella dell'automazione, che avrebbe
portato a una ricomposizione e riqualificazione del lavoro (v.
Touraine, 1955; v. Mallet, 1963). La sociologia del lavoro francese,
in particolare, sviluppò un ampio filone di analisi intorno a
tali questioni (v. Friedmann e Naville, 1961). E negli anni settanta
questo dibattito fra pessimisti e ottimisti riprese, particolarmente
influenzato da lavori come quello di Braverman (v., 1974), che
vedeva nella razionalizzazione capitalistica un processo
inevitabilmente destinato a 'degradare' il lavoro professionalmente,
a renderlo più pesante e a peggiorare le condizioni
lavorative.Questi orientamenti dell'analisi sociologica del lavoro
derivavano dal fatto che, fino alla metà degli anni settanta,
la produzione industriale nei paesi capitalistici sviluppati si era
andata organizzando secondo i principî fordisti (v. Piore e
Sabel, 1984; v. Boyer e Wolleb, 1986), collegati a una
organizzazione del lavoro di ispirazione taylorista che implicava
appunto parcellizzazione delle mansioni e dequalificazione. A
cavallo del secolo, l'ingegnere americano Frederick W. Taylor
sostenne infatti che vi era one best way di organizzare il lavoro in
fabbrica: osservare attentamente come veniva eseguita ciascuna
mansione, scomporla nei suoi movimenti elementari, misurare i tempi
necessari a eseguirli, e ridefinire poi la mansione stessa in modo
rigido e standardizzato, senza alcuna autonomia per gli esecutori
(v. Taylor, 1911).
Ciò naturalmente implicava una netta separazione fra
concezione ed esecuzione del lavoro, che costituiva del resto il
principio guida della produzione di massa. L'efficienza della
produzione di massa dipende infatti dalle economie di scala; e per
ottenere economie di scala, come sappiamo da Adam Smith, è
necessario suddividere il lavoro in una serie di operazioni
altamente parcellizzate, alcune delle quali possono venire
meccanizzate, precisamente per il fatto che sono state semplificate,
mentre le altre possono venire eseguite da lavoratori non
specializzati, per la stessa ragione (v. Smith, 1776). Questa
divisione del lavoro richiedeva un complesso sistema di controlli. I
capi controllavano che gli operai si attenessero alle norme; una
divisione incaricata del controllo di qualità verificava i
risultati ottenuti dai capi; e un settore 'aggiustaggio' a valle
delle linee di montaggio riparava i difetti che erano sfuggiti ai
continui controlli. Essendo le mansioni così parcellizzate,
non vi era motivo di acquisire un'ampia qualificazione sul lavoro o
vaste conoscenze di base. La maggior parte degli operai - e dei
managers - perciò imparava sul lavoro. Gli operai
percorrevano una carriera di mansioni semiqualificate, ciascuna
delle quali richiedeva una certa familiarità con la mansione
precedente (v. Regini e Sabel, 1989).Naturalmente, si tratta di una
descrizione idealtipica. Il taylor-fordismo si diffuse in modo
diseguale nei paesi industriali, e con ritardo notevole in alcuni di
questi (v. Boyer e Wolleb, 1986). Ma il 'caso da manuale'
tratteggiato sopra chiarisce perché le preoccupazioni diffuse
fino a tutti gli anni settanta fossero quelle di una umanizzazione
del lavoro - o, a seconda dell'ideologia prevalente, di una
organizzazione del lavoro non capitalistica.
b) La riorganizzazione post-fordista del lavoro
Molti studi in diversi paesi ci hanno mostrato come, negli anni
settanta e ottanta, si sia passati dal predominio dell'impresa
taylor-fordista a una crescente diversificazione dei modi di
organizzare l'impresa, la produzione e il lavoro (v. Piore e Sabel,
1984; v. Kern e Schumann, 1984; v. Boyer e Wolleb, 1986). Se si
prescinde per il momento da tali differenze (per le quali v. §
3c), si può parlare in generale dell'emergere di un sistema
post-fordista e post-taylorista, basato sulla necessità di
rispondere in modo flessibile, tempestivo e differenziato alla
crescente instabilità dei mercati. Dai tardi anni settanta in
poi, la frammentazione dei mercati di massa e le continue
oscillazioni nel livello e nella composizione della domanda appaiono
infatti come fenomeni generali, quasi universali. E questa
accresciuta instabilità dei mercati ha costretto le imprese a
mettere in discussione il principio guida della produzione di massa,
cioè la separazione fra concezione ed esecuzione.
Le conseguenze sul lavoro nell'impresa sono, almeno potenzialmente,
di enorme portata. La piena utilizzazione delle capacità dei
lavoratori non viene, infatti, più ostacolata dal dogma
taylor-fordista. La ricerca di maggiore efficienza può
cessare di fondarsi sull'esasperata suddivisione delle operazioni e
sulla rigida frammentazione dei compiti, per puntare invece sullo
strumento opposto, vale a dire l'integrazione delle mansioni e
l'ampliamento della sfera di responsabilità del lavoratore
(v. Kern, 1992, p. 64). Nei nuovi sistemi di produzione flessibile,
insomma, operai altamente qualificati dovrebbero sostituire gli
operai a bassa o media qualificazione.In effetti, alcune ricerche
hanno documentato che si sta invertendo la precedente tendenza a
separare nettamente i compiti di esecuzione da quelli di concezione;
che per molti lavoratori aumenta il contenuto professionale delle
mansioni; che mutano sia il controllo sul lavoro, sia le funzioni
della gerarchia e delle regole che intorno a questo problema erano
state create. Con una sintesi efficace, anche se certamente
ottimistica, si può dire che nei 'nuovi concetti di
produzione' l'intelligenza umana viene vista come una risorsa da
utilizzare al meglio nel luogo di lavoro anziché come un
vincolo intorno al quale costruire un sistema di regole che la
disciplini (v. Kern e Schumann, 1984).
Secondo altre ricerche, vi è una crescita dell'astrazione e
della 'complessificazione' del lavoro. Astrazione nel senso che il
lavoro consiste sempre più nella capacità di
interpretare dati più o meno formalizzati proposti dai
dispositivi di controllo degli automatismi; complessificazione in
quanto aumenta la parte di attività cerebrale e mentale, che
si traduce ad esempio nello sforzo di sottoporre a un controllo
quasi permanente i vari circuiti e collegamenti fra macchine, a
scopo di regolazione o di diagnosi (v. Coriat, 1990, p. 219). Ma gli
effetti dei sistemi post-fordisti sul lavoro non sono soltanto, e
neppure principalmente, relativi alla qualificazione tecnica
richiesta. È soprattutto la dipendenza gerarchica e
organizzativa dei lavoratori - che era imposta dal taylor-fordismo -
a diminuire, mentre aumentano nettamente le loro possibilità
di coinvolgimento, partecipazione e controllo (v. Accornero, 1992,
p. 99). Molti lavoratori vengono così a condividere in
qualche misura l'orizzonte degli obiettivi aziendali, a differenza
di quanto accadeva in precedenza, quando tali obiettivi venivano
passivamente accettati o, occasionalmente, messi in discussione (v.
Burawoy, 1979).
c) Tra forza lavoro e risorse umane
Le tendenze di mutamento sopra delineate rappresentano
generalizzazioni assai ampie, utili principalmente a confrontare le
caratteristiche che il lavoro industriale può assumere nella
nuova fase con quelle tipiche del periodo taylor-fordista. Ma il
quadro che emerge dalla crisi del fordismo è assai più
variegato e incerto. I modelli organizzativo-produttivi secondo cui
si è andata riorganizzando la grande impresa industriale
negli anni ottanta sono diversi, e a ciascuno di essi corrisponde un
diverso ruolo assegnato al lavoro.
Un primo modello è quello che è stato chiamato
'produzione diversificata di qualità' (v. Streeck, 1992);
esso è proprio di imprese che puntano a competere sulla
qualità dei prodotti più che sul prezzo. In questo
modello un ruolo cruciale è svolto dalla elevata e ampia
qualificazione della forza lavoro a tutti i livelli, dalla sua
capacità di integrare diversi compiti nonché di
cambiare e imparare rapidamente nuove mansioni, e dal suo
coinvolgimento negli obiettivi aziendali di miglioramento costante e
di innovazione incrementale. Da ciò consegue l'utilizzo di
una quota molto ampia di forza lavoro con una formazione
professionale - sia di base sia specifica per l'azienda - estesa,
con capacità sociali quali iniziativa, attitudine al problem
solving e alla collaborazione con gli altri, e con una buona dose di
identificazione con la cultura aziendale. Un secondo modello, che
può essere definito 'produzione di massa flessibile' (v.
Boyer, 1988), è invece basato sulla produzione di massa di
una varietà di beni (anziché di beni standard come nel
fordismo classico), per rispondere alla variabilità della
domanda senza rinunciare a contenere i prezzi. L'automazione
programmabile, che consente di produrre in massa un'ampia gamma di
prodotti, riduce drasticamente sia la domanda di figure
professionali a bassa qualificazione (operai di produzione e
impiegati amministrativi), sia l'utilizzo delle competenze tecniche
del personale mediamente qualificato, al quale vengono soprattutto
richieste adattabilità al mutamento e cooperazione. La
domanda di qualificazioni elevate si concentra invece su alcuni
gruppi cruciali, come i quadri, i tecnici e il personale dell'area
commerciale. Ne deriva una netta segmentazione fra personale ad alta
qualificazione, appartenente a questi gruppi professionali, e
personale a medio-bassa qualificazione, con competenze
obsolete.Infine, un terzo modello è quello giapponese del
just-in-time e della lean production, o 'toyotismo', che basa la
propria competitività in parte sul prezzo dei prodotti, in
parte sulla loro qualità (v. Dore, 1987; v. Bonazzi, 1993).
Rispetto al fordismo tradizionale, esso comporta una assai
più ampia valorizzazione delle risorse umane. Resta la
divisione fra funzioni di progettazione e funzioni esecutive, ma
assai più attenuata. Vi è uno sforzo collettivo teso a
favorire e utilizzare conoscenze diffuse piuttosto che alla loro
concentrazione nell'ambito di una ristretta élite, una
maggiore attenzione allo sviluppo delle risorse umane complessive, e
un minore distacco fra il mondo della scuola e quello del lavoro. Il
lavoro di squadra e i circoli della qualità, che insieme
all'automazione programmabile e ai macchinari polivalenti sono
caratteristiche tipiche dell'organizzazione della produzione di tipo
giapponese, rappresentano sia schemi organizzativi sia una politica
di coinvolgimento pieno dei lavoratori nell'impresa. Questo modello
si basa infatti su un elevato grado di consenso e di partecipazione
dei lavoratori anche ai livelli più bassi, e su una
condivisione di fatto degli obiettivi aziendali. A tale
coinvolgimento fa peraltro da supporto una struttura fortemente
dualistica del mercato del lavoro, che prevede, per l'ampia quota di
lavoratori occupati nelle grandi imprese, la stabilità
dell'occupazione sotto forma dell'impiego a vita, mentre ne scarica
i costi sul resto della forza lavoro che opera nel mercato
secondario.
Il dualismo fra i lavoratori che sono fortemente beneficiati dai
nuovi modi di organizzare il lavoro e quelli che da tali benefici
restano esclusi non è del resto limitato al caso giapponese.
Anzi, l'impresa flessibile - a qualunque dei modelli indicati
appartenga - è fortemente caratterizzata da un nucleo
centrale di lavoratori polivalenti e da una periferia di
subfornitori, lavoratori a domicilio e categorie varie di lavoro
temporaneo (v. Pahl, 1988, p. 171). E anche all'interno dei
dipendenti stabili, vi è chi individua alcuni gruppi che
vengono valorizzati dai mutamenti in corso, altri che vengono
esclusi, e altri ancora che vengono destabilizzati (v. Coriat,
1990); sembra pertanto che un effetto diretto delle nuove strategie
post-fordiste possa essere proprio quello della segmentazione. Non
è dunque un caso che, anche nelle nuove concezioni
manageriali, una parte dei lavoratori venga considerata come
'risorse umane', mentre un'altra parte rimane semplice 'forza
lavoro'.
d) Le attività terziarie e le forme di lavoro atipico
La 'scoperta' della crescente importanza e al tempo stesso delle
peculiarità del lavoro nei servizi è una conseguenza
indiretta del dibattito sulla società postindustriale, che ha
avuto largo spazio nelle scienze sociali particolarmente negli anni
settanta (v. Bell, 1973). In un primo momento, l'attenzione degli
osservatori si è concentrata sugli aspetti quantitativi della
trasformazione sociale in corso: in particolare, sul fenomeno comune
a tutti i paesi avanzati di un costante declino dell'occupazione
industriale e di una crescita dei posti di lavoro nel settore
terziario. In seguito ci si è resi conto anche delle
intrinseche differenze di attività che consistono
nell'offrire servizi anziché produrre beni. Quando si tratta,
in particolare, di offrire servizi alla persona, si verifica spesso
una certa intermittenza delle prestazioni, una flessibilizzazione
dell'orario rispetto a quello standard, un proliferare delle
richieste di tempo parziale, e così via.
Poiché tali fenomeni hanno marginalmente interessato anche il
settore industriale, forte è stata la tentazione di
individuare una tendenza alla 'terziarizzazione' del lavoro tout
court, cioè alla generalizzazione di tratti tipici del lavoro
nei servizi a tutte le attività che si svolgono nella
società postindustriale. Ma si tratta di scenari assai
semplicistici, derivanti da una visione unilineare del mutamento,
che hanno presto lasciato il campo a un quadro molto più
articolato e sfumato, che emerge in particolare dal confronto fra le
diverse traiettorie di sviluppo seguite dai paesi industriali
avanzati. Le ricerche di Esping-Andersen (v., 1990, pp. 191 ss.), ad
esempio, mostrano come tre paesi industrialmente avanzati quali gli
Stati Uniti, la Germania e la Svezia presentino non solo livelli di
terziarizzazione differenti, ma anche strutture occupazionali assai
diverse, con differenti proporzioni di lavori qualificati e lavori
dequalificati.
Lavoro terziario non è, infatti, sinonimo di lavoro
più ricco e gratificante, come spesso si sostiene. Se il
cosiddetto terziario avanzato - cioè le attività di
servizio all'impresa quali marketing, pubblicità, consulenza
fiscale, ecc., tradizionalmente svolte dentro l'impresa stessa e poi
largamente esternalizzate a causa della crescente specializzazione -
ha visto in effetti lo sviluppo di nuove professioni altamente
qualificate, ciò non si è invece verificato che in
piccola parte nelle attività di servizio alla persona. Che il
contesto lavorativo sia una grande organizzazione pubblica, come un
ospedale o una piccola impresa privata, come un bar o un servizio di
recapito postale celere, l'universo emergente dei lavori in questo
campo vede una netta prevalenza di quelli dequalificati, cioè
del cosiddetto terziario manuale (v. Esping-Andersen, 1990).
Se non vi è stata, dunque, una terziarizzazione del lavoro,
si è invece avuta una generale crescita delle forme di lavoro
'atipico', sia pure con alcune differenze nei vari paesi. Per lavori
atipici si intendono generalmente quelle attività che mancano
di uno o più requisiti del lavoro subordinato standard (v.
Chiesi, 1990). Si tratta dunque di una nozione residuale; come nel
caso della società 'postindustriale' o dell'organizzazione
produttiva 'post-fordista', la mancanza di un termine appropriato
indica la relativa incertezza sulla reale natura del fenomeno.
È facile cogliere che cosa lo distingue dalle realtà
tradizionali a cui lo si contrappone, ma meno facile identificarne
in positivo gli elementi costitutivi. Esempi di queste forme di
attività atipiche sono il lavoro free-lance (o prestazione
senza vincolo di subordinazione), il lavoro a domicilio, i rapporti
a termine, quelli stagionali, quelli retribuiti a risultato, i casi
di secondo lavoro. Rilevanti sono anche i casi ibridi fra lavoro
dipendente e attività professionale (come quelli di chi
svolge una professione alle dipendenze di una organizzazione
pubblica o privata) e fra lavoro subordinato e attività
imprenditoriale (come nei contratti di franchising o per molti
subfornitori strettamente legati a un'impresa più grande).
Come è stato osservato (v. Accornero, 1992, p. 101), in
questo caso la natura residuale del termine corrisponde bene alla
tradizionale marginalità di queste attività rispetto
al mondo del lavoro ufficiale. Stati e sindacati, legislazione e
contrattazione, hanno a lungo perseguito l'obiettivo di una
uniformazione sociale e di una stabilizzazione del lavoro; e in
questa ottica le forme diverse dal lavoro subordinato standard
venivano mal tollerate. Ma, a partire dagli anni ottanta,
l'imperativo aziendale della flessibilità e la
diversificazione degli stili individuali di vita hanno contribuito
ad aumentarne la legittimità sociale, e ne hanno quindi
consentito una notevole espansione.
4. La centralità sociale del lavoro e le
sue trasformazioni
I mutamenti che hanno determinato le nuove caratteristiche del
lavoro fin qui discusse hanno dato vita, negli ultimi quindici anni,
a un acceso dibattito fra gli studiosi di scienze sociali sul futuro
del lavoro stesso.Un interrogativo emerge con forza quando si
discute sul futuro del lavoro: nella nuova società
(postindustriale, postmoderna, neoindustriale, o comunque la si
voglia definire) che si va delineando, il lavoro continuerà
ad avere quella centralità che indubbiamente ha avuto nella
fase della società industriale? Continuerà a
strutturare le condizioni e il tempo di vita della gente, a
costituire la base della stratificazione sociale, a influenzare
profondamente il sistema dei valori sociali? La centralità
sociale del lavoro è un fenomeno moderno, legato
all'affermarsi del mercato e all'idea che le chances di reddito e di
vita degli individui dipendano dal suo operare. Per gli antichi
Greci, ad esempio, il lavoro non era affatto un valore, ma era anzi
il segno di una condizione sociale inferiore, mentre l'opposto era
per le attività del tempo libero. È solo da quando,
per reclutare i potenziali lavoratori, ci si deve affidare al
'libero' scambio sul mercato del lavoro anziché a strumenti
coercitivi o alla tradizione, che un'ideologia del lavoro - tesa a
nobilitare anche le attività più faticose, sporche e
abbrutenti - si sviluppa in Europa, come complemento dell'etica
protestante.
Tuttavia questa centralità - che si è tradotta nel
progressivo affermarsi di una vera e propria 'società del
lavoro' - è messa oggi in discussione da una importante
scuola di pensiero (v. Dahrendorf, 1980; v. Offe, 1983; v. Handy,
1984; v. Gorz, 1988). Secondo Dahrendorf - che è stato
l'iniziatore di questo dibattito e probabilmente il più
importante degli autori che vi hanno partecipato - il fattore
cruciale di questa perdita di centralità va individuato nel
fatto che il lavoro, in conseguenza dei processi di riduzione degli
orari, di allungamento del periodo scolare o formativo, di
anticipazione del pensionamento, e di estensione e organizzazione
del tempo libero, ha assunto un ruolo meno importante nella vita
umana (v. Dahrendorf, 1988). Il lavoro inteso come occupazione
retribuita è diventato socialmente scarso, e da ciò -
richiamandosi a Hannah Arendt (v., 1958) - si fa discendere un
passaggio dal regno del 'lavoro' eteronomo a quello
dell''attività' autonoma, intesa come ciò che facciamo
come risultato delle nostre intenzioni, desideri e interessi (v.
Dahrendorf, 1988, p. 113).
Questa impostazione utopica è fortemente criticata da altri
autori, alcuni dei quali giungono ad affermare l'opposto:
cioè che "il lavoro sta diventando la questione personale,
sociale e politica cruciale degli ultimi anni di questo secolo" (v.
Pahl, 1988, p. 1). A ben vedere, la ragione della diatriba sta
precisamente nelle diverse nozioni di lavoro, e nei modi di
considerarne le trasformazioni, che abbiamo discusso in questo
articolo. Se si considera solo quella forma tipica costituita
dall'occupazione dipendente (per lo più maschile e
manifatturiera) in contesti organizzati, allora non vi sono dubbi
sulla sua notevole contrazione e quindi sulla crisi della
società del lavoro. Ma l'analisi precedente ha mostrato che
emergono nuovi modi di lavorare e che il lavoro si trasforma e
assume nuove caratteristiche e nuovi significati, senza per questo
ridurre il suo ruolo complessivo nella società e nella vita
degli individui. Dunque, la centralità sociale del lavoro
stesso non appare intaccata. Da un punto di vista generale, si
può rilevare come il sistema dei valori sociali resti ancora
largamente centrato sul lavoro. La crisi della sua forma tipica, e
la conseguente diversificazione delle esperienze lavorative, ha
fatto definitivamente tramontare le vecchie subculture fortemente
omogenee e ha contribuito ad articolare il tessuto sociale e il
quadro dei valori che lo reggono; ma non sembra aver diminuito il
ruolo del lavoro come fonte di identità, di socialità
e di orientamento politico-culturale - oltre che di stratificazione
sociale, come continuano a documentare anche le ricerche più
recenti. Dal punto di vista soggettivo di chi lavora, le molte
ricerche esistenti sugli atteggiamenti verso il lavoro sembrano
indicare, da un lato, un diffuso rifiuto a farne la principale fonte
di senso e di strutturazione della propria vita, ma, dall'altro
lato, il permanere del suo ruolo come strumento di valutazione di
sé e di autostima sociale. Ciò che è più
importante notare, tuttavia (v. Littler, 1985, p. 278), è che
il significato attribuito al lavoro varia profondamente per uomini e
donne, per i lavoratori occidentali e per quelli asiatici, e
così via. Il che rende ancora più azzardata qualunque
generalizzazione sulla centralità futura del lavoro
nell'esperienza soggettiva.
Diritto
di Giuseppe Pera
sommario: 1. Concetti generali. 2. La
rivoluzione industriale. 3. La questione operaia. 4. Il
sindacalismo. 5. Il sindacalismo e la legge. 6. L'intervento
pubblico. 7. La soluzione collettivistica. 8. L'alternativa
corporativistica. 9. L'evoluzione inglese. 10. L'evoluzione
nordamericana. 11. Il Giappone. 12. L'evoluzione nel continente
europeo. 13. Previdenza e sicurezza sociale. 14. L'evoluzione
italiana. 15. La crisi e le sue implicazioni. 16. Il costo del
lavoro. □ Bibliografia.
1. Concetti generali
Il diritto del lavoro, genericamente inteso, presenta ripartizioni
interne. In primo luogo il diritto sindacale, cioè quanto
attiene alla posizione giuridica delle associazioni professionali,
alla contrattazione collettiva, ai mezzi di autotutela (sciopero e
serrata). In secondo luogo il diritto del lavoro in senso stretto,
cioè il rapporto tra le parti del contratto di lavoro, datore
di lavoro e lavoratore. In terzo luogo almeno la previdenza sociale
(v. cap. 13). Il diritto del lavoro, quindi, comprende tutto quanto
attiene, in senso strumentale-istituzionale o di regolamentazione
dei rapporti, alla condizione del lavoro e alla sua tutela
nell'esperienza giuridica. Si può anche dire che esso
riguarda, in senso lato, i diritti che derivano dal fatto di
lavorare alle dipendenze e a favore di un terzo; ivi compresa la
libertà di attivarsi per la tutela mediante la coalizione di
quanti si ritengono accomunati dal medesimo interesse. Si tratta di
un diritto sviluppatosi all'incirca nella seconda metà
dell'Ottocento e giunto a maturazione nell'ultimo cinquantennio;
esso fa corpo con le vicende politico-sociali verificatesi dopo la
Rivoluzione francese e non è possibile 'depurarlo' dalle
esigenze emerse nel corpo sociale durante tale periodo.
2. La rivoluzione industriale
La rivoluzione industriale, sviluppatasi dapprima in Inghilterra
verso la metà del Settecento e poi, con notevoli scarti nel
tempo, in diversi altri paesi, ha costituito sul piano sociale
l'humus in cui sono nate e si sono precisate le esigenze e le forze
motrici di questo settore del diritto rispetto a quello tradizionale
borghese. Per cercare di capire questa evoluzione non se ne possono
trascurare le origini, anche se poi, nella sua fase matura, questo
diritto si è andato estendendo oltre l'industria, in tutti i
settori dell'economia e anche, talora, oltre l'ambito del lavoro
subordinato in senso stretto. Ad esempio oggi il diritto italiano
considera, almeno in parte e solo a certi fini, anche il lavoro
cosiddetto 'parasubordinato', cioè le forme di
collaborazione, di per sé autonoma, prevalentemente
personale, allorquando essa sia continuativa e coordinata dal
committente (Codice di procedura civile, art. 409 n. 3).
3. La questione operaia
Durante la rivoluzione industriale, nelle manifatture e poi nelle
fabbriche, andò sorgendo una nuova classe sociale, quella
degli operai o proletariato, formata da persone strappate ai lavori
agricoli o artigianali, il cui unico bene era la propria forza
lavoro in senso materiale, posta al servizio dell'imprenditore (ma
quando ciò non era possibile si determinava il dramma della
disoccupazione) e da questi comandata (il datore di lavoro aveva il
potere giuridico di comandare in ordine alla prestazione e alla
disciplina nel luogo di lavoro, e poteva altresì sanzionare
in via disciplinare le eventuali disobbedienze). La rivoluzione
industriale, con la sua produzione di massa, cancellò
pressoché interamente i vecchi mestieri e indusse le classi
dirigenti a eliminare le vecchie forme assistenziali di soccorso al
pauperismo. Si formò così una vasta 'armata di
riserva' di manodopera disponibile alla quale era sempre possibile
attingere, secondo la ferrea legge del rapporto tra domanda e
offerta di lavoro nel mercato, con salari fissati al minimo
indispensabile per la sopravvivenza. In tal modo, come notò
Marx, la condizione dell'operaio moderno risultò per un certo
aspetto peggiorata rispetto a quella dello schiavo
dell'antichità o del servo della gleba. Il padrone doveva
comunque alimentare lo schiavo affinché questo suo bene si
conservasse, mentre l'imprenditore poteva, senza problemi, liberarsi
del lavoratore di cui non aveva più bisogno, licenziandolo.
Si ebbe così la cosiddetta 'dittatura contrattuale' dei
datori di lavoro. Secondo le categorie del diritto borghese, il
vincolo che legava datore e lavoratore era, formalmente, un 'libero'
contratto, stipulato con il consenso del collaboratore. Ma, in
concreto, le condizioni di questo contratto erano fissate dalla
parte datoriale e l'operaio doveva accettarle o rinunciare al lavoro
riducendosi alla disoccupazione e alla fame. Ancora oggi, del resto,
le condizioni di lavoro, di norma, sono dettate unilateralmente
dalla parte datoriale, in un contratto d'adesione; ma vi sono
precisi limiti al potere datoriale fissati dalla legge e dalla
contrattazione sindacale. Come talora è stato detto, si
è almeno passati dalla monarchia assoluta a quella
'costituzionale'. Si deve poi ricordare che, per molto tempo, i
lavoratori come classe furono svantaggiati anche sul piano politico.
Nei regimi costituzionali a 'democrazia censitaria' il voto era
limitato per ragioni di cultura e di censo (e di norma la cultura
era legata al censo). In Italia, ad esempio, il suffragio universale
maschile si ebbe solo nel 1913 (quello femminile nel 1946). Tutto
giocava contro le classi lavoratrici, anche sul piano processuale:
per il Codice Napoleonico, nel dubbio, il giudice doveva credere al
padrone e non attribuire attendibilità al lavoratore.Non vi
era nulla di artificiale in questa concezione, dato che essa
scaturiva dalle teorie rigide del primo liberismo, secondo le quali
la legge della società era quella della concorrenza degli
egoismi individuali e il potere doveva essere riservato a quanti
avessero vinto nella dura lotta per l'esistenza.
4. Il sindacalismo
La risposta naturale a tale situazione fu lo sviluppo delle
organizzazioni sindacali, dapprima in forma di coalizioni
temporanee, sorte per conflitti specifici, e poi in forma di
associazioni stabili. In linea generale, il sindacato è il
raggruppamento di quanti nel mondo del lavoro (lavoratori e datori)
ritengono di essere accomunati da un identico interesse nei
confronti della controparte, secondo lo schieramento di classe.In
termini più specifici, il sindacalismo dei lavoratori nasce
dalla consapevolezza dell'impotenza individuale di fronte al
padrone; da qui l'imperativo di raccogliersi in un 'fascio' e di
costringere gli imprenditori a trattare con l'entità
collettiva. Ne deriva il contratto collettivo, cioè la
regolamentazione, tra padronato e sindacato, delle condizioni di
lavoro, al fine di determinare i diritti rispettivi delle parti del
contratto individuale di lavoro (parte normativa) nonché i
salari (i primi contratti ebbero a oggetto esclusivo la
determinazione della tariffa salariale, per cui si chiamarono
'concordati di tariffa'). Lo strumento per piegare il padronato alla
trattativa è lo sciopero, cioè l'astensione generale
dal lavoro. Sindacato, contratto collettivo, sciopero sono i tre
pilastri dell'azione dei lavoratori. Di fronte al sindacato
c'è in un primo momento la singola impresa, che può
ben essere parte della contrattazione (contratto collettivo
aziendale); ma anche le imprese formano col tempo le loro
organizzazioni sindacali: si tratta, in questo caso, di un
sindacalismo di risposta a quello dei lavoratori. Dopo di che tra il
sindacalismo dell'una e dell'altra sponda si stabiliscono
persistenti relazioni conflittuali, nel giuoco al compromesso
periodico. Si hanno, così, le relazioni industriali
(espressione d'origine anglosassone); ma è meglio parlare,
data la diffusione del fenomeno oltre i confini dell'industria, di
relazioni sindacali.
Il sindacalismo presenta una grande varietà di strutture
organizzative. In tutti i paesi, nelle prime esperienze, il
sindacato fu in prevalenza di mestiere, cioè un
raggruppamento di lavoratori accomunati dalla stessa qualifica
professionale specifica (ad esempio i carpentieri), che operava in
qualsivoglia settore dell'attività economica. Nella prima
fase, per quanti avevano una qualificazione professionale precisa,
fu facile organizzarsi, mentre restava esclusa la gran massa della
manodopera non qualificata. Tali organizzazioni esprimevano i
mestieri dell'epoca preindustriale e pertanto in ogni tipo
d'industria l'imprenditorialità aveva a che fare con
più organizzazioni sindacali: si componeva il conflitto con
un certo sindacato e subito dopo ne sorgeva un altro con un diverso
sindacato, con inevitabili complicazioni.
In una fase successiva (allorché si organizzò anche la
manodopera generica) in tutti i paesi si passò a un diverso
modello, ancor oggi prevalente, quello del sindacato d'industria,
che raggruppa tutti i lavoratori di ogni tipo di
professionalità e livello secondo i diversi settori: ad
esempio metalmeccanico, tessile, ecc. Quando oggi, con formula
abbreviata, parliamo di sindacato 'dei chimici' alludiamo non solo
ai lavoratori che hanno competenza specifica per la chimica, ma a
tutti i dipendenti dell'industria chimica: i chimici, ma anche gli
impiegati amministrativi, i custodi, tutti coloro che lavorano in
questo tipo d'impresa, dal più basso al più alto
livello, con l'esclusione dei dirigenti, che hanno una loro
specifica organizzazione sindacale. Lo stesso avviene, in Italia,
per la nuova categoria dei quadri, riconosciuta con una legge del
1985. Altre organizzazioni di mestiere sono sorte ultimamente per
specifiche professionalità, in dissenso con il sindacalismo
tradizionale onnicomprensivo, accusato di praticare una politica
egualitaria; questo è avvenuto, ad esempio, nel caso dei
macchinisti delle ferrovie. Per altro verso il sindacato è
una organizzazione complessa. In Italia e in Francia sussistono
varie confederazioni (o centrali) divise, almeno originariamente,
secondo la diversa ispirazione ideologica e, talora, anche
partitica. La confederazione è un'associazione complessa, una
associazione di associazioni; in essa confluiscono i diversi
sindacati di categoria, ognuno dei quali ha le sue strutture
territorialmente decentrate: sindacati provinciali, comunali, ecc. A
livello periferico esistono orizzontalmente istanze di collegamento
tra le organizzazioni periferiche dei diversi sindacati, in funzione
di servizi comuni (immobili, impiegati, ecc.). In Italia,
tradizionalmente, queste istanze di collegamento sono rappresentate
dalle camere del lavoro. Le diverse istanze sindacali sono, ai vari
livelli, agenti contrattuali, parti stipulanti della contrattazione
collettiva. In Italia le confederazioni stipulano talora, per
questioni generalissime che interessano tutto il mondo del lavoro
(ad esempio in tema di scala mobile dei salari, v. cap. 16, o per le
rappresentanze sindacali a livello d'impresa), accordi
interconfederali. Agenti contrattuali massimi sono i sindacati
nazionali di categoria, che stipulano, appunto, il contratto
collettivo nazionale, una sorta di piccolo codice a portata
normativa, con la regolamentazione delle condizioni di lavoro.
Possono esservi, inoltre, contratti provinciali e, soprattutto,
contratti aziendali, con delicati problemi in ordine ai rapporti tra
i contratti di diverso livello. Tutto questo è costitutivo
della normativa dei rapporti di lavoro; del resto, il Codice civile
afferma, in linea generale, che il contratto ha forza di legge tra
le parti.
5. Il sindacalismo e la legge
Quale sia in concreto la situazione del sindacalismo risulta dalla
diversa qualificazione dello sciopero nei vari ordinamenti. Secondo
una fortunata formula di Calamandrei, storicamente lo sciopero
è stato variamente qualificato o come reato o come
libertà o come diritto.Alle origini il regime fu ovunque di
repressione legale; nel pieno della Rivoluzione francese la legge Le
Chapelier proscrisse le organizzazioni professionali. Il delitto di
coalizione (formalmente anche di serrata, cioè la sospensione
dell'attività per decisione imprenditoriale a fini di lotta
sindacale) fu presente nelle varie legislazioni e nei diversi
codici.
Nella più arcaica concezione liberistica, infatti, il
sindacalismo era valutato negativamente, come un assurdo tentativo
di intralciare il libero giuoco naturale della concorrenza nei
rapporti tra offerta e domanda di lavoro. Il salario era considerato
un prezzo di mercato come tutti gli altri.Con tempi diversi nei vari
paesi, il reato venne poi soppresso e la legge penale non
considerò più tale lo sciopero: il sindacato si era
imposto con la sua grande capacità di lotta. Maturò
quindi una diversa concezione neoliberale (rappresentata in Italia
da Einaudi) secondo cui la libertà sindacale dei lavoratori
costituiva una naturale libertà di tutela degli interessi,
alla pari delle altre libertà. Si passò, così,
alla tolleranza legale. Non si trattava, tuttavia, di una
libertà garantita in senso proprio, in quanto, sul piano del
rapporto individuale di lavoro, secondo le tradizionali categorie
privatistiche, era diffusa l'opinione che lo sciopero, come rifiuto
del lavoro dovuto per contratto, si traducesse in inadempimento
contrattuale suscettibile di sanzioni disciplinari o di
licenziamento. Ma di fatto, in una situazione sindacalmente forte,
queste reazioni padronali restarono solo teoriche.
Nella terza e ultima fase, formalmente compiuta in alcuni
ordinamenti contemporanei (ad esempio in Italia con l'art. 40 della
Costituzione, che riprese il preambolo della Costituzione francese
del 1946), lo sciopero diventa diritto su tutti i piani, senza
possibilità di sanzioni penali o civili.Spesso i patti di
lavoro sono socialmente iniqui ed è giusto, si disse, che i
lavoratori abbiano un'arma per ricondurli a equità. Solo
eccezionalmente i fatti di azione diretta sono inibiti ed espongono
a possibili reazioni: nel nostro ordinamento, per ragioni di
sicurezza, lo sciopero è impedito nelle attività
nucleari e, di recente, sono state introdotte sanzioni anche nella
legge sullo sciopero dei servizi pubblici essenziali.
6. L'intervento pubblico
Negli ordinamenti contemporanei vi è un intreccio costante
tra regolamentazione sindacale-contrattuale e disciplina di legge.
Lungo tutto il corso dell'Ottocento vennero progressivamente
approvate le diverse leggi sul lavoro, in modo però del tutto
episodico e occasionale. A poco a poco gli Stati abbandonavano il
dogma del non intervento in questioni economico-sociali (proclamato
dall'originario liberismo assoluto) e in diverse occasioni si
reputò inevitabile l'intervento statale per ragioni di ordine
pubblico. Si sviluppò, così, un corpo di leggi
variamente denominato come legislazione sociale, operaia ecc.In
linea generale, il primo intervento fu ovunque quello a tutela delle
cosiddette 'mezze forze', cioè bambini e donne. Durante la
prima rivoluzione industriale questi lavoratori di ridotte
capacità fisiche (anche bambini in tenera età) vennero
utilizzati su larga scala e questo determinò forti
preoccupazioni, soprattutto nelle diverse correnti del filantropismo
sociale (molti esponenti socialisti infatti erano medici), per le
ripercussioni che ciò poteva avere sulla loro
salute.Successivamente, e in particolare in questo secolo, lo
sviluppo della legislazione è stato ingente, e ha interessato
praticamente tutti gli aspetti centrali dei rapporti di lavoro. In
taluni ordinamenti, come quello italiano a partire dal 1948, la
legislazione del lavoro è costituzionalmente dovuta. Per la
nostra Costituzione il lavoro deve essere protetto in tutte le forme
e applicazioni, lo Stato deve garantire il diritto al lavoro, una
giusta retribuzione, la disciplina dell'orario, ecc.In epoca
più recente è stata adottata una legislazione
limitativa dei licenziamenti, per i quali si richiede un
giustificato motivo che deve essere comprovato dal datore di lavoro.
Nella combinazione di legge e di contrattazione sindacale, ben poco
spazio resta quindi per la terza fonte regolatrice dei rapporti di
lavoro, cioè per il contratto individuale.
7. La soluzione collettivistica
Tutto quanto è stato detto finora si è verificato
nelle società borghesi-capitalistiche tradizionali, rimaste
immutate nei loro pilastri malgrado il forte condizionamento che
esse hanno subito nella direzione del benessere sociale. Per avere
un quadro completo del problema, si deve aggiungere che questa
evoluzione del sistema ha conosciuto delle alternative radicali,
perseguite storicamente nell'ambito del filone socialcomunista, che
tendevano a una piena emancipazione dei lavoratori attraverso un
cambiamento del sistema stesso. Per i socialisti d'ispirazione
marxista, che partivano dall'interpretazione della storia come lotta
di classe, il cambiamento finale doveva verificarsi con l'integrale
collettivizzazione dell'economia e con l'egemonia proletaria. Il
Partito Socialista Italiano, ad esempio, si costituì a Genova
nell'agosto del 1892, ponendosi l'obiettivo minimo della lotta dei
'mestieri' (cioè sindacale) nonché l'obiettivo della
lotta politica per la distruzione integrale dell'ordine borghese. In
quasi tutta l'Europa continentale, e in particolare nel centro e nel
nord, di fatto si ebbe uno sviluppo in senso
social-democratico-riformista, grazie alla diffusione di potenti
movimenti sindacali legati a forti partiti presenti con
rappresentanti sempre più numerosi nelle aule parlamentari e
orientati verso una politica gradualistica dei piccoli passi. Un
cambiamento radicale si ebbe nell'ex impero zarista con la
Rivoluzione dell'ottobre 1917 e l'avvento al potere, in forme
dittatoriali, del partito comunista bolscevico. L'economia venne
pressoché interamente collettivizzata, con la motivazione che
ora i lavoratori erano al governo. Nell'ambito dell'economia
pianificata venne meno il sindacalismo con le sue funzioni
tradizionali. I salari costituivano solo, ovviamente, un capitolo
del piano economico quinquennale; inoltre, essendo il partito della
classe operaia al governo, lo sciopero non aveva più ragion
d'essere. I sindacati sopravvissero come 'cinghie di trasmissione'
tra il partito e le masse; a essi vennero conferite funzioni
importanti di gestione del sistema previdenziale. Dopo il secondo
conflitto mondiale questo modello venne esteso di massima alle
'democrazie popolari' dell'Est e si affermò poi in tutti i
paesi a egemonia comunista. Com'è noto questo sistema
è crollato nel 1989. Ora in quei paesi si va, confusamente e
con molte tensioni, verso la privatizzazione dell'economia e verso
il mercato. Sono tornati i sindacati in senso tradizionale ed
è tornato, di fatto, lo sciopero. È una evoluzione in
corso, di cui non è facile prevedere gli sbocchi.
8. L'alternativa corporativistica
Nel tentativo di risolvere la questione sociale è stata anche
praticata un'altra alternativa volta ad affermare la collaborazione
di classe in luogo della lotta. Prima di descrivere brevemente le
diverse soluzioni organiche, occorre ricordare che vi sono sempre
stati, nell'ambito dei più diversi filoni ideologici, anche
in quello di un liberalismo socialmente illuminato, numerosi
tentativi orientati a eliminare, o quanto meno a ridurre,
l'antagonismo di classe: ad esempio associando i lavoratori (e le
loro organizzazioni rappresentative) alla gestione delle aziende
(nella convinzione che se i rappresentanti del lavoro avessero
partecipato ai consigli di amministrazione si sarebbero resi conto
dei vincoli economici alle contrattazioni); oppure dando vita
all'azionariato operaio, cioè facendo diventare i lavoratori
compartecipi del capitale. Si potrebbe anche ricordare il contributo
di Mazzini ("capitale e lavoro nelle stesse mani"), ma le soluzioni
organiche tentate sono state quella cattolica e quella
autoritario-fascista. La scuola cristiano-sociale (espressa nelle
encicliche Rerum Novarum di Leone XIII e Quadragesimo
Anno di Pio XI) partiva da una denuncia dei mali sociali
indotti dal capitalismo liberista non meno violenta di quella dei
socialisti, imputando ai liberali di aver dimenticato che l'uomo,
oltre che cittadino, è anche produttore, concretamente
inserito in un tessuto di corpi intermedi. Si riconosceva la piena
legittimità della tutela degli interessi di categoria e,
quindi, del sindacato; i conflitti del lavoro però non
dovevano degenerare nelle forme rovinose della lotta di classe
contro l'interesse generale superiore e doveva essere istituita una
magistratura del lavoro per affrontarli pacificamente. I teorici di
questo corporativismo (ad esempio Giuseppe Toniolo) rispolveravano
quello medievale. Infine si auspicava, sul piano costituzionale,
l'introduzione di un senato rappresentativo delle professioni e
delle autonomie accanto alla camera politica. Questa scuola,
tuttavia, non tradusse mai in realtà le sue idee (fatta
eccezione, forse, per l'esperimento Dollfuss, in Austria, tra le due
guerre). Diverse forme di attuazione ebbe invece, nello stesso
periodo, il corporativismo d'ispirazione nazionalistico-autoritaria
di destra; ma con non trascurabili differenze tra i diversi paesi.
Antesignana fu l'esperienza fascista italiana. Come nel caso dei
cristiano-sociali, queste esperienze intesero superare sul piano
ideologico i due estremismi, ritenuti egualmente negativi, del
liberalismo e del socialismo; anch'esse ricercarono, nella
collaborazione tra le classi, il perseguimento dell'interesse
superiore della nazione e dello Stato: una via intermedia che
intendeva riaffermare l'assetto privatistico-proprietario ma con un
incisivo condizionamento sociale. Si ebbe una prima fase
esclusivamente sindacale e una seconda definita più
propriamente corporativa.
Nell'aprile del 1926 venne varata la fondamentale legge Rocco e nel
1927 il Gran Consiglio del Fascismo approvò la Carta del
lavoro, che esprimeva i principî generali dell'ordinamento,
tradotti poi sul piano giuridico da una successiva legge del 1941.
Secondo tali principî, l'inquadramento collettivo delle
categorie veniva realizzato dall'alto, attraverso provvedimenti
ministeriali, ma si ammetteva il riconoscimento giuridico di una
organizzazione sindacale per ogni categoria. Più
precisamente, pur venendo riaffermata la libertà sindacale
sul piano teorico e quindi una possibile pluralità di
organizzazioni, il governo poteva del tutto discrezionalmente
riconoscere un solo sindacato; requisito sufficiente e necessario
era la rappresentatività di almeno il 10% della categoria
(quindi non la maggioranza) e il fatto che l'organizzazione fosse
diretta da uomini di "sicura fede nazionale" (cioè fascista);
nel contempo, i precedenti sindacati liberi venivano sciolti. Il
sindacato riconosciuto acquisiva la personalità giuridica di
diritto pubblico (con soggezione al controllo sugli atti da parte
degli organi di governo) e quindi si vedeva riconosciuta la
rappresentanza legale della categoria. In ragione di questa
rappresentatività esclusiva, il contratto collettivo diveniva
generalmente obbligatorio; mentre nel contratto individuale erano
possibili pattuizioni difformi rispetto al contratto collettivo solo
se più favorevoli al lavoratore (Codice civile, art. 2077).
La pubblicistica del regime esaltò questa 'conquista', a
seguito della quale si affermava che era stato raggiunto un
risultato che le vecchie democrazie parlamentari avevano invano
perseguito.
Per la risoluzione dei conflitti collettivi di lavoro era inibito,
invece, il ricorso allo sciopero e alla serrata, che tornavano a
essere reati; in caso di conflitto si doveva far ricorso alla
magistratura del lavoro, che poteva emanare una sentenza sostitutiva
del contratto collettivo mancato.La fase cosiddetta corporativa,
iniziata formalmente nel 1930 e mai giunta a conclusione (come fu
ufficialmente riconosciuto), mirava alla realizzazione di un
obiettivo più ambizioso: la programmazione dell'economia non
secondo il modello dirigistico sovietico, ma sulla base
dell'autogoverno dei produttori, anche se subordinato all'interesse
superiore. Più precisamente, per ogni settore dell'economia i
vari sindacati sarebbero stati collegati in un'entità di
diritto pubblico, la corporazione, che poteva regolamentare le varie
attività emanando ordinanze corporative. Le corporazioni
vennero costituite nel 1934, ma furono scarsamente incisive;
successivamente venne soppressa la vecchia Camera dei deputati e in
suo luogo, nel 1939, venne costituita la 'Camera dei fasci e delle
corporazioni', che riuniva i due massimi organi direttivi del
partito e delle corporazioni; chi occupava certe cariche era
automaticamente consultore nazionale, per il principio della
rappresentanza 'istituzionale' (in base al quale colui che occupa
certe posizioni è automaticamente rappresentativo).Il modello
italiano venne largamente ripreso dal Portogallo, sotto la dittatura
di Salazar. Seguì l'esperienza spagnola del franchismo, ma
con notevoli differenze rispetto all'originale; ad esempio la
contrapposizione di classe, formalmente mantenuta nel modello
italiano, venne eliminata in Spagna con il sindacato misto, che
raggruppava insieme datori di lavoro e lavoratori.
Ideologicamente ispirata a questi principî fu anche
l'esperienza nazionalsocialista, peraltro assai diversa sul piano
istituzionale. In Germania tutti i vecchi sindacati vennero
soppressi e non vennero sostituiti da organizzazioni legate al
regime. Il Fronte Tedesco del Lavoro era una colossale
organizzazione non sindacale, che raggruppava datori e lavoratori
con compiti propagandistici e dopolavoristici. Tutto venne impostato
rigidamente secondo il Führerprinzip. Al vertice del sistema
c'era il Führer con i suoi ministri; non erano ammesse
entità antagonistiche, in quanto non era possibile incrinare
il principio dell'unità totalitaria. Nelle imprese il datore
di lavoro, assistito soltanto da un 'consiglio di fiducia' reclutato
fra il personale, era egualmente il capo, subordinato al governo ma
con pienezza di poteri sui lavoratori.Tentativi di soluzione
corporativa furono attuati, sempre tra le due guerre, in altri paesi
europei a regime autoritario e anche altrove: si pensi, ad esempio,
al Brasile di Vargas. Nel secondo dopoguerra, inoltre, si
affermò in Argentina il regime di Peron, con sue specifiche
particolarità.
9. L'evoluzione inglese
L'Inghilterra ha conosciuto per prima lo sviluppo del sindacalismo
(con le Trade Unions: unioni di mestiere), in quanto in questo
paese, già nel Settecento, la rivoluzione industriale
cominciò a svilupparsi in proporzioni imponenti (al punto che
l'agricoltura diventò marginale nell'ambito del sistema
economico complessivo).Già nel 1824-1826 vennero approvate
leggi che attenuarono un poco il regime di repressione legale del
sindacalismo. Da allora lo sviluppo sindacale fu inarrestabile;
inoltre, intorno agli anni sessanta del secolo scorso si
attuò per la gran parte il passaggio dal sindacato di
mestiere a quello d'industria (anche se la prima formula è
sopravvissuta). Con le leggi del 1871 (Trade Union act) e del 1875
(Conspirancy and protection of property act) sul piano penalistico
si determinò il passaggio alla tolleranza legale del
sindacato; questa trasformazione avvenne, singolarmente, a opera di
una maggioranza conservatrice nell'ambito di una contrapposizione
elettorale con i liberali. Merita sottolineare con quale tecnica si
sia attuato questo passaggio nel particolare contesto del diritto
britannico. In un paese che non aveva e non ha costituzione scritta
e dove impera la common law, la riforma si realizzò in
termini di immunità dalle possibili interferenze
statuali-legali; nel senso che, rispetto ai fatti di azione diretta
in ambito sociale, la legge negava la possibilità di azione
in giudizio; i sindacalisti, cioè, non potevano più
essere incriminati per i loro specifici comportamenti.
Si ebbe così lo sviluppo del diritto del lavoro,
caratterizzato da un basso tasso di regolamentazione legislativa,
più accentuato solo rispetto a taluni aspetti (ad esempio la
tutela delle 'mezze forze') e arricchito attraverso la
contrattazione collettiva, che pure non era nemmeno essa formalmente
riconosciuta nell'ordinamento. Il contratto collettivo non prevedeva
sanzioni legali, ma valeva di fatto, come 'contratto tra
gentiluomini', il cui rispetto era legato alla forte presenza delle
organizzazioni sindacali. Strumento specifico dell'egemonia
sindacale furono le cosiddette clausole di sovranità
sindacale (largamente diffuse anche nel diritto statunitense):
clausole di varia intensità cogente, con l'obbligo per il
datore di lavoro di assumere solo lavoratori iscritti al sindacato o
con l'obbligo per i lavoratori dell'impresa di iscriversi al
sindacato entro un certo termine, pena il licenziamento. Da queste
clausole derivarono controversie che si sono trascinate fino a epoca
recente.
Immediatamente dopo si aprì un nuovo capitolo sul piano dei
rapporti tra sindacalismo e legge. Se non era più possibile,
di massima, perseguire penalmente per i fatti d'azione diretta, era
tuttavia possibile, secondo i principî della common law, agire
civilmente contro il sindacato promotore dello sciopero, proponendo
azione risarcitoria per i danni conseguenti all'ingiustificata
'rottura' degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro. Si
sviluppò pertanto una massiccia offensiva giudiziaria (ad
esempio l'affare Taff Vale), che ottenne dai giudici numerose
sentenze di condanna di facile esecuzione sul non irrilevante
patrimonio delle Unioni. Si decise allora di agire sul piano
politico-parlamentare, cercando di far approvare una legge che
riconoscesse l'immunità sindacale anche sul piano civile. In
occasione delle elezioni del 1900 vennero eletti alcuni deputati
legati ai sindacati e poco dopo venne costituito il Partito
Laburista: un partito con caratteristiche peculiari formato non solo
attraverso adesioni individuali, secondo il modello continentale
(partito 'territoriale'), ma soprattutto grazie all'affiliazione dei
sindacati, nonché di altre organizzazioni del lavoro. In
quanto tale, questo partito raggruppava formalmente milioni di
aderenti (che erano individualmente liberi di votare per uno degli
altri due partiti, il conservatore e il liberale). Si ebbe
così, senza alcun ideologismo, il partito del lavoro,
caratterizzato da un legame organico col sindacalismo che solo
recentemente è venuto meno. La battaglia venne vinta e con
una legge del 1906 (Trade disputes act) vennero 'tagliate le unghie'
alla magistratura.
Successivamente sorse una questione legale in ordine alla
liceità o meno del finanziamento sindacale del partito
politico. Un operaio, certo Osborne, fece causa per impedire al
sindacato di versare parte della sua contribuzione al partito. Venne
quindi approvata una legge, nel 1913, che legalizzò tale
forma di finanziamento, prevedendo tuttavia la facoltà
individuale di sottrarvisi. A questo punto il sistema britannico di
'democrazia industriale' era consolidato, arrivando spesso a
costituire un modello per gli stranieri (ad esempio nella
teorizzazione di Luigi Einaudi).Pochi cenni sugli sviluppi
successivi. A seguito del grande sciopero del 1926 nel settore del
carbone, l'anno successivo venne emanata una legge 'antisindacale',
che prevedeva talune restrizioni per il diritto di sciopero e altre
limitazioni. Il Partito Laburista, vittorioso nel 1945, per 'onor di
firma' fece abrogare la legge del 1927, anche se per diversi anni,
nel difficile periodo del dopoguerra, venne istituito l'arbitrato
obbligatorio per i conflitti di lavoro con proibizione dello
sciopero. Si tornò poi alla normalità, ma
reiteratamente, sia coi governi conservatori che con quelli
laburisti, le relazioni industriali furono rimesse in discussione,
in particolare sul punto decisivo della politica dei redditi. Infine
con il governo conservatore degli anni ottanta, nel quadro di
declino della potenza britannica, il sistema è profondamente
cambiato, con decisivi interventi legislativi che hanno scalzato
l'antica egemonia dell'unionismo, riportando il sistema verso il
modello continentale.
10. L'evoluzione nordamericana
Nella grande democrazia nordamericana il sindacalismo e il diritto
del lavoro si sono sviluppati tardivamente, non già per un
ritardo della rivoluzione industriale, ma a causa di altri specifici
fattori; in particolare perché, fino alla fine
dell'Ottocento, vi era la 'frontiera aperta' dall'Atlantico verso il
Pacifico. Offrendo la possibilità di spostarsi per acquisire
nuove terre, essa costituiva la grande valvola di sfogo di tutte le
potenziali tensioni sociali, in una situazione caratterizzata da un
naturale individualismo.Un ruolo importante ebbe anche la struttura
federale, nel giuoco delle competenze tra i singoli Stati e la
Confederazione; quest'ultima era costretta a cercare di far passare
i primi interventi di legislazione sociale tra le maglie strette
della competenza federale. I primi interventi a favore delle 'mezze
forze' furono pertanto presentati come atti tesi a disciplinare il
commercio 'interstatale', nel senso che la Confederazione poteva
inibire la circolazione dei prodotti provenienti da fabbriche ove
era diffuso uno sfruttamento indiscriminato di queste forze.
Solo sul finire dell'Ottocento si ebbe un certo sviluppo del
sindacalismo. A parte l'azione pionieristica e presindacale
dell'associazione detta dei 'Cavalieri del lavoro', costituitasi nel
1869, solo nel 1881 si costituì la Federazione Americana del
Lavoro come centrale dei sindacati di mestiere. Nel 1938 si ebbe una
scissione che portò alla costituzione del Congresso delle
Organizzazioni Industriali (CIO), basato sulla diversa formula
organizzativa del sindacalismo d'industria; successivamente le due
centrali si sono collegate tra loro. La caratteristica specifica del
sindacalismo statunitense è la neutralità ideologica:
mentre in Europa il sindacalismo è sempre stato variamente
collegato a partiti politici, in America il movimento ha sempre
accettato l'ideologia corrente della libera impresa e del mercato.
Ma questo non significa totale disimpegno politico. Posto che dei
due partiti tradizionali, il repubblicano e il democratico, il
secondo ha una maggiore attenzione per il mondo del lavoro, il
sindacalismo solitamente lo appoggia secondo la parola d'ordine
'aiutare gli amici e punire i nemici', cioè far eleggere
possibilmente parlamentari favorevoli al mondo del lavoro e
boicottarne gli avversari. Anche negli Stati Uniti si ebbe un lungo
periodo di repressione legale dell'attività sindacale,
seguito poi da un graduale passaggio alla tolleranza, seppure nella
decisa opposizione del mondo imprenditoriale, che spesso
cercò di dar vita a forme rappresentative del personale poste
sotto il suo controllo (company unions o sindacalismo 'giallo').
Dopo alcuni interventi ispirati alla tolleranza, soprattutto per
inibire o contenere la pratica delle ingiunzioni giudiziarie
antisindacali (come la legge Norris-La Guardia del 1932, a seguito
della grande crisi del 1929), la svolta decisiva si ebbe col New
Deal di Roosevelt e col riconoscimento della libertà d'azione
sindacale. Ma un primo intervento in questo senso si scontrò
con l'opposizione della Corte Suprema, per cui il Presidente
reagì minacciando una diversa composizione della Corte
medesima. Si arrivò così alla legge Wagner del 1935,
secondo la quale i lavoratori erano chiamati a esprimere in libere
votazioni la loro volontà in materia, nell'ambito di units
discrezionalmente determinate in vario modo (al livello di singola
azienda, a diverso raggio territoriale, di categoria)
dall'Amministrazione. In base a tale legge, i lavoratori possono
rifiutare il sindacato preferendo la libertà del contratto
individuale, oppure possono conferire la rappresentanza a un
sindacato che ne ha l'esclusiva per un periodo predeterminato e che
deve essere accettato dalla controparte datoriale. Nel 1947 si ebbe
poi la legge Taft-Hartley, a carattere nettamente restrittivo;
ultimamente si è avuta una svolta in senso nettamente
liberistico durante la presidenza Reagan, mentre è ancora in
via di realizzazione la virata impressa dall'attuale amministrazione
Clinton.In quest'immenso paese il sindacalismo è stato ed
è egemone solo in aree ristrette, mentre nel complesso il
grado di sindacalizzazione è assai più basso della
media europea.
11. Il Giappone
Un breve cenno merita l'esperienza giapponese, così lontana
da quella occidentale. Formalmente il Giappone riconosce la
libertà sindacale con le sue tipiche manifestazioni; di
fatto, vi sono però alcune peculiarità che
fondamentalmente non hanno base in testi formali di legge,
bensì nella concezione sociale diffusa in un paese in cui il
sottofondo feudale-patriarcale è tuttora presente. Vi
è una netta distinzione tra la manodopera assunta in forma
stabile e il precariato. Di norma, per la copertura dell'organico
permanentemente necessario, i lavoratori assunti, salva l'ipotesi
della giusta causa, restano in servizio per tutta la vita, fino al
pensionamento, in un rapporto di fedeltà all'impresa; vi
è poi la grande massa della manodopera precaria e fluttuante,
utilizzata a seconda dell'andamento della congiuntura. In sostanza
siamo quindi in presenza di un contesto in cui domina l'ideologia
comunitaria e solidaristica. Secondo lo stesso ordine d'idee, le
imprese sogliono assumere, una volta all'anno, una certa aliquota di
lavoratori, anche se non suscettibili di utile impiego
nell'immediato. Sotto questo aspetto l'impresa opera come
istituzione sociale. Anche altrove, del resto, al di là del
dato formale, si risente l'influsso di convinzioni radicate nel
comune sentire. In Germania, ad esempio, domina tuttora la
convinzione che i pubblici dipendenti, in quanto al servizio della
nazione, debbano di massima astenersi dallo sciopero.
12. L'evoluzione nel continente europeo
In tutti i paesi dell'Europa occidentale e settentrionale si
è avuto lo stesso processo di avanzata del sindacalismo e di
incremento della legislazione sociale. Specialmente nella prima
fase, il sindacalismo fu spesso diviso in centrali di diversa
ispirazione ideologica: socialdemocratica, socialcristiana e talora
liberale, come nel caso della Germania imperiale. Un incremento
particolarmente rilevante della legislazione sociale si ebbe nella
Germania di Weimar tra le due guerre; un incremento che aveva come
punto di riferimento la Costituzione del 1919 con la sua larga
ispirazione sociale, anche se restava inattuato il disegno di
combinare armoniosamente il parlamentarismo d'ispirazione liberale
con la strutturazione consiliare in materia
economico-sociale.Marcate sono state, e in parte sono tuttora, le
differenze tra i paesi latini e gli altri. In Francia, in Italia e
anche in Spagna il sindacalismo è più nettamente
diviso secondo l'ispirazione ideologica; nel primo paese fu a lungo
egemone nella CGT il sindacalismo rivoluzionario teorizzato da
Sorel. In questo paese il sindacato non ha mai avuto un forte
livello di rappresentatività e ciò ha determinato
talora conflitti tra base e apparato. Il sindacalismo dei paesi
latini è generalmente più turbolento, come risulta in
particolare dalle modalità dello sciopero: di norma si
ricorre infatti allo sciopero articolato, a singhiozzo (alternando
astensione dal lavoro e ripresa, almeno formale, dello stesso), a
scacchiera (a turno tra i vari reparti) o altrimenti in varia
combinazione, con l'obiettivo di disorganizzare al massimo la
produzione, col minimo danno per i lavoratori in termini di
riduzione retributiva. Tutto questo ha determinato aspri dibattiti
dottrinari, e soprattutto giurisprudenziali, in merito alla
distinzione tra forme lecite e non di azione diretta.
Nei paesi nordici la situazione è del tutto diversa. Il
sindacalismo è forte e compatto ed è in genere
collegato ai partiti socialdemocratici, che in molti casi guidano
anche il governo, e ha al suo attivo imponenti realizzazioni di
tutela sociale. Secondo quanto emerge in larga parte della
pubblicistica, in questi casi saremmo in presenza di un sistema
'neocorporativo' o 'neocorporato', basato sul confronto e l'accordo
tra il governo e le parti sociali fortemente istituzionalizzate sul
piano associativo, dove la pace negli ambienti di lavoro è
normale e la lotta eccezionale.
13. Previdenza e sicurezza sociale
Parallelamente al processo descritto si è andata sviluppando
ovunque la previdenza sociale, istituto che fa parte in senso lato
del diritto del lavoro. Oltre al posto di lavoro e a una giusta
retribuzione, occorre garantire una tutela per il lavoratore
ammalato, vittima di un infortunio del lavoro o collocato a riposo
per l'età avanzata. Il sistema al quale si è fatto
ricorso è quello della previdenza sociale basata
sull'assicurazione obbligatoria. A questo fine vengono creati
istituti ad hoc; datori di lavoro e lavoratori debbono
obbligatoriamente versare all'ente preposto al settore contributi
proporzionali alle retribuzioni; se si verifica uno degli eventi
considerati (infortunio, malattia, pensionamento, ecc.), l'ente
verrà chiamato a erogare prestazioni sanitarie e prestazioni
economiche periodiche (pensioni o rendite).
Il sistema si sviluppò organicamente negli ultimi decenni
dell'Ottocento nei paesi di lingua tedesca. Bismarck combinò
politicamente le leggi antisocialiste e la Kulturkampf, vanamente
sperimentate contro socialdemocratici e cattolici, con una forte
politica previdenziale che, in un disegno organico, prese l'avvio
con apposite istituzioni per la tutela in caso di malattia
(istituzioni che vennero conservate, dopo la prima guerra mondiale,
nelle provincie redente conquistate dall'Italia). In questo modo,
nei paesi di lingua tedesca, i governi si garantirono la
fedeltà delle masse lavoratrici alle istituzioni, come si
poté verificare nel primo e nel secondo conflitto mondiale.
Questa politica ebbe ulteriori impulsi nel secondo dopoguerra, in
particolare, a partire dal 1945, nell'Inghilterra a governo
laburista, dove ebbe corso il programma di protezione di Beveridge,
detto 'dalla culla alla bara'. In alcuni casi si passò dal
sistema di previdenza a quello di sicurezza sociale: mentre nella
previdenza la tutela era riservata, specialmente alle origini, ai
lavoratori in senso stretto, la sicurezza intende tutelare il
cittadino (e anche lo straniero) in quanto tale, a prescindere dalla
sua collocazione nel mondo del lavoro. Un esempio di sicurezza
sociale si è avuto, almeno formalmente, in Italia, con
l'istituzione nel 1978 del Servizio Sanitario Nazionale garantito a
tutti (e con questo non siamo più nell'ambito del diritto del
lavoro, ma in quello del diritto amministrativo). Il prodotto di
queste evoluzioni è il Welfare State, o Stato del benessere,
recentemente entrato in crisi per la constatata impossibilità
di poter garantire tutto a tutti. In questo contesto è stato
talora adottato il 'salario di cittadinanza', in base al quale il
soggetto ha diritto a una tutela economica, anche se non collocato
nel mondo del lavoro.
14. L'evoluzione italiana
In Italia lo sviluppo del sindacalismo operaio in senso proprio si
ebbe solo a partire dall'ultimo decennio dell'Ottocento, in quanto
soltanto allora si verificò un sia pur limitato sviluppo
industriale. Prima di tale data vi erano stati movimenti popolari
non direttamente legati alla classe operaia, di diversa ispirazione
ideologica: dapprima il filantropismo moderato, poi i mazziniani e
quindi l'anarchismo internazionalista. In Italia, anzi, venne prima
creato il partito della classe operaia e poi il sindacato: infatti
il Partito Socialista si costituì a Genova nell'agosto del
1892, mentre la Confederazione Generale del Lavoro, sempre
d'ispirazione socialista, si costituì nel 1906. Accanto al
sindacalismo socialista si formò poi quello d'ispirazione
cattolica e quello estremista dei sindacalisti rivoluzionari.
Il primo periodo fu caratterizzato, anche in Italia, dalla
repressione legale. Il Codice penale sardo del 1859, primo
dell'Italia unita (fatta eccezione per la Toscana, che
conservò il più illuminato codice del 1853), puniva
scioperi e (in teoria) serrate. Il Codice Zanardelli del 1889 non
contemplava più esplicitamente i reati di azione diretta.
Dopo i tumultuosi eventi dell'ultimo decennio, caratterizzati da
turbative dell'ordine pubblico (Fasci siciliani, fatti della
Lunigiana del 1894 e di Milano del 1898) e dalla prospettiva
politica del sonniniano 'ritorno allo Statuto' non parlamentare del
1848, con l'avvento del neoliberalismo, rappresentato da Giolitti e
teorizzato da Einaudi, ci si avviò alla tolleranza, al libero
sviluppo dei sindacati e alla prima contrattazione collettiva. Si
ebbero così le prime leggi sociali per le 'mezze forze' e per
l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (1898 e 1904). Si
posero anche le fondamenta del diritto del lavoro in senso stretto,
attraverso l'esperienza giurisprudenziale dei probiviri. Nelle
diverse categorie, in base a una legge del 1893, si potevano
costituire collegi eletti da datori di lavoro e lavoratori con
presidente imparziale, con il compito di risolvere i conflitti del
lavoro. Poiché questi giudici non avevano a disposizione
leggi specifiche, dovevano giudicare secondo equità.
Attraverso il ripetersi dei lodi (nel primo periodo studiati
organicamente da Enrico Redenti), si vennero precisando delle regole
in realtà nuove, che costituirono i primi elementi di un
nuovo diritto. Solo nell'ultimo scorcio dell'età liberale si
ebbe la prima legge organica sul rapporto di lavoro; organica, ma
parziale, perché riferita solo agli impiegati (1919 e 1924).
Allo Stato liberale subentrò il corporativismo fascista, di
cui si è già detto (v. cap. 8). Oltre alla disciplina
giuridica del sindacalismo secondo i principî fascisti,
durante il ventennio vennero anche emanate molte e importanti leggi
in materia di lavoro: ad esempio sull'orario di lavoro, sul riposo
settimanale, sul lavoro delle donne e dei fanciulli, ecc., alcune
delle quali sopravvivono tuttora. Nel 1942, col nuovo Codice civile,
si ebbe la prima organica regolamentazione del rapporto individuale
di lavoro, che non fu però di tipo corporativo ma, nella
sostanza, liberale, in quanto consacrava la piena libertà di
licenziamento (mentre il franchismo spagnolo aveva coerentemente
introdotto la regola del giustificato motivo). Venne altresì
completato l'edificio della previdenza sociale, allorché si
aggiunse all'assicurazione contro gli infortuni quella per
invalidità, vecchiaia e superstiti e quella per le malattie
(1943). Caduto il fascismo, si tornò al libero sindacalismo,
in un primo momento organizzato unitariamente per l'accordo delle
tre grandi correnti: comunista, democristiana e socialista. A
partire dal 1949, il movimento sindacale si divise nuovamente in tre
centrali, CGIL, CISL, UIL, e in altre organizzazioni autonome in
conseguenza della guerra fredda e della dura contrapposizione in
atto col Partito Comunista. Riprese anche la contrattazione
collettiva ma, non essendosi attuata la previsione costituzionale
(art. 39) circa il riconoscimento del sindacato e l'efficacia
generalizzata dei contratti stipulati dai sindacati maggiormente
rappresentativi, si concluse che il contratto cosiddetto 'di diritto
comune' valeva solo per le imprese sindacalmente affiliate.
L'impatto sociale negativo di questa conclusione venne attenuato
attraverso la consolidata giurisprudenza sulla giusta retribuzione,
ai fini della determinazione del salario, facendo i magistrati
riferimento alle tariffe sindacali. L'esercizio dello sciopero,
garantito dalla Costituzione come diritto, non conobbe alcuna
restrizione.
Nel primo quindicennio postbellico non vi furono significative
evoluzioni del diritto del lavoro: erano i tempi difficili della
ricostruzione, caratterizzati dal contenimento dei salari praticato
spontaneamente dalle parti sociali (vi fu un accordo
interconfederale in questo senso, definito specificamente 'di tregua
salariale'). Le decisioni in materia salariale vennero avocate alle
confederazioni e solo nel 1954 venne ripristinata la competenza dei
sindacati di categoria.
La situazione si mise in movimento a metà degli anni
cinquanta con il cosiddetto 'miracolo economico', durante il quale
divenne prevalente l'economia industriale e si verificarono grandi
spostamenti di manodopera dal sud al nord. Nel decennio successivo,
nella stagione politica del centro-sinistra che vide l'accesso dei
socialisti al governo, cominciarono a raccogliersi i frutti di
alcune grandi inchieste parlamentari degli anni cinquanta sulla
disoccupazione, sulla miseria e, in generale, sulle condizioni dei
lavoratori. Del 1962 è la legge che limita la
possibilità di assunzioni a termine; del 1963 è quella
sul divieto di licenziamento della donna a causa di matrimonio. Nel
giugno del 1965 la Corte Costituzionale statuisce la non decorrenza
della prescrizione dei diritti in costanza di rapporto (allorquando
- si preciserà poi - non vi siano adeguate garanzie contro il
licenziamento arbitrario). Finalmente, nel luglio 1966, viene
emanata la legge che introduce la regola del giustificato motivo per
i licenziamenti individuali; ma tale tutela opera solo nei confronti
dei datori di lavoro che occupano più di 35 dipendenti (le
piccole e piccolissime unità sono privilegiate) ed è
una tutela debole: in pratica il datore se la cava pagando una
penale oscillante tra 5 e 12 mensilità di retribuzione.
Dal 1962, oltre alla tradizionale contrattazione collettiva a
livello nazionale di categoria, comincia la pratica della
contrattazione articolata a livello di azienda o di gruppo. A
partire da tale data la conclusione del conflitto a livello
nazionale non garantisce affatto la pace in azienda dove, anzi, il
conflitto spesso si riaccende aprendo un capitolo dei più
tormentati. Illustri giuristi affermano che il contratto collettivo
obbliga solo gli imprenditori, mentre lascia liberi i lavoratori di
riprendere il conflitto a qualsiasi livello per ulteriori
rivendicazioni. È nello stesso periodo che viene enunciata la
teoria del salario 'variabile indipendente', in base alla quale si
deve corrispondere ai lavoratori la retribuzione sufficiente, quali
che siano le condizioni delle imprese e dell'economia in generale.
Sopravviene quindi la contestazione e l'autunno 'caldo' del 1969,
con lotte sindacali di notevole durezza che vanno spesso oltre il
limite della legalità; le violenze contro i crumiri, specie
tra gli impiegati, sono all'ordine del giorno. In questo clima viene
varata la legge sullo Statuto dei diritti dei lavoratori, emanata
nel maggio 1970. Questa legge fondamentale, in sé di ottimi
principî, ma stravolta nelle applicazioni prevalenti, da una
parte garantisce il rispetto della personalità morale del
lavoratore nell'ambito dei rapporti di lavoro, dall'altra prevede la
costituzione in azienda di un vero e proprio 'contropotere
sindacale', con la formazione di rappresentanze sindacali
nell'ambito dei sindacati affiliati alle confederazioni maggiormente
rappresentative e con una serie di diritti conseguenti (ad esempio
di assemblea, di permessi e aspettative), e col prelevamento dei
contributi sindacali sulle retribuzioni, cosicché il datore
diventa un comodo esattore per conto delle organizzazioni. Ne segue
una sorta di abusivismo a livello di massa, mentre l'assenteismo
giustificato con compiacenti certificazioni mediche tocca punte
elevate. La bilancia dei rapporti si è ormai del tutto
spostata.Il ciclo si conclude nel 1973 con la legge sul processo del
lavoro, demandato al pretore giudice monocratico, con la normale
efficacia esecutiva della sentenza di primo grado e con la
rivalutazione automatica dei crediti di lavoro. Sul piano della
contrattazione collettiva il ciclo del 1973 è segnato
dall'inquadramento unico retributivo delle diverse categorie
(impiegati, intermedi, operai); quello del 1976 per l'introduzione
dei diritti d'informazione, cioè l'obbligo per la parte
imprenditoriale di comunicare periodicamente alla parte sindacale
numerose informazioni. Questa richiesta, formulata inizialmente in
chiave di ulteriore e accentuata conflittualità, poi, invece,
nella crisi presto sopravvenuta, è sembrata piuttosto
favorire possibili sviluppi concertativi e partecipativi nella
gestione delle aziende.
15. La crisi e le sue implicazioni
La situazione comincia a cambiare dapprima con la crisi petrolifera
del 1973 e quindi con le successive ondate di una recessione che
dopo venti anni non ha ancora esaurito i suoi effetti. Mentre
continua l'onda lunga ispirata, anche per forza d'inerzia, dalla
precedente impostazione del movimento, l'intero assetto dei rapporti
di lavoro viene rimesso in discussione o da destra o in forma
autocritica. Si lamenta autorevolmente che l'impresa sia irretita e
impacciata da 'lacci e laccioli' derivanti dalla rigidità del
fattore lavoro. In tutti i paesi si caldeggia la flessibilità
nella gestione della forza lavoro, mentre si depreca ogni vincolismo
eccessivo. Ovunque si invoca una deregolamentazione delle condizioni
di lavoro (il che porterebbe in pratica alla fine del diritto del
lavoro) o quanto meno una larga delegificazione della materia,
mentre si auspica che la legge lasci degli spazi agli aggiustamenti
possibili con la contrattazione sindacale.
Negli stessi anni comincia a crescere la disoccupazione, alla quale,
almeno in Italia, si pone riparo con l'utilizzazione sempre
più intensa della 'cassa integrazione'; una cassa gestita
dall'INPS, che eroga una sostanziosa indennità nel caso di
sospensione del lavoro o di riduzione dell'orario (di fatto molti
lavoratori sono rimasti in cassa integrazione per anni e si sono
verificati perfino casi di imprese 'fantasma', esistenti cioè
solo sulla carta, create esclusivamente ai fini della formale
imputazione di rapporti di lavoro inesistenti, e quindi come
presupposto della tutela).
La legislazione e la contrattazione si sono mosse e si muovono in
vario modo per tamponare la crisi: tutte le occasioni di occupazione
sono comunque coltivate; le possibilità di contratti a
termine sono cresciute, e si è infine consentito che la
contrattazione collettiva preveda ulteriori casi oltre quelli
stabiliti dalla legge. Inoltre, superando l'ostilità
sindacale che ha sempre preferito il lavoro a tempo pieno, si
ammette formalmente il contratto a tempo parziale; si introducono i
contratti di solidarietà, con i quali i lavoratori accettano
riduzioni di orario, con proporzionale riduzione del salario al fine
di evitare i licenziamenti collettivi, contratti sostenuti da forti
incentivi garantiti dallo Stato. Nel contempo si proclama la
volontà di una svolta partecipativa che, coinvolgendo le
organizzazioni dei lavoratori nella gestione delle aziende,
favorisca un costruttivo dialogo sociale, in un sistema complessivo
di compromesso a tre: tra parti sociali contrapposte e parte
pubblica.Infine, con la legge 146 del 1990, si disciplina lo
sciopero nei servizi pubblici essenziali, dannoso per la
collettività e quindi anche per i lavoratori. In questo
settore la legge prescrive attualmente tre regole: preavviso minimo
di 10 giorni; comunicazione della durata dello sciopero;
assicurazione, in ogni caso, delle prestazioni indispensabili per
garantire il rispetto dei diritti fondamentali dell'utenza. Per
garantire l'equo contemperamento nel rispetto dei principî
della legge, si è costituita una Commissione di garanzia.
16. Il costo del lavoro
Negli ultimi anni si è lamentato da più parti che il
costo del lavoro è eccessivo, anche perché comprende
una contribuzione previdenziale mediamente pari a circa il 50% dei
trattamenti retributivi. I tentativi di risposta a tale problema
costituiscono un capitolo particolarmente aspro e controverso in
questa lunga fase di assestamento del diritto del lavoro, che dura
ormai da vent'anni. Si è seguita, in generale, una politica
di contenimento del costo del lavoro, che ha ottenuto qualche
risultato. Nel 1976, ad esempio, vennero praticamente confiscati in
buoni del tesoro, per due anni, gli aumenti retributivi per i
livelli più elevati. Un accordo interconfederale incise poi
sull'ammontare dell'indennità di anzianità; ne
derivò una controversia nella quale ebbe modo di interloquire
anche la Corte Costituzionale. L'intera materia venne disciplinata,
nel 1982, da una nuova legge che sostituì alla vecchia
indennità un nuovo istituto, il 'trattamento di fine
rapporto', assai meno oneroso per le imprese.Per molti anni si
è anche trascinata la vertenza relativa al meccanismo di
rivalutazione automatica dei salari, detto della 'scala mobile',
istituito per neutralizzare le conseguenze dell'inflazione. Si
seguiva l'andamento dei prezzi per la famiglia tipo e ciò
comportava periodicamente l'aumento in scatti dell'indennità
di contingenza. Questo meccanismo, che alimentava ulteriormente
l'inflazione, è stato definitivamente abolito nel 1992-1993.
Ora si prevede solo che, in caso di ritardo nei rinnovi
contrattuali, scatti un'indennità (destinata a sparire con la
rinnovata tariffa salariale) detta 'carsica'.
L'ultimo risultato è l'accordo trilaterale (parti sociali e
governo) del 23 luglio 1993 per la risistemazione del sistema
contrattuale. Le parti si sono impegnate a perseguire la politica
dei redditi e a far sì che gli aumenti salariali siano
mantenuti nei limiti dell'inflazione programmata. Il contratto
collettivo nazionale di categoria ha ora cadenza quadriennale per la
parte normativa e biennale per la parte economica. La contrattazione
articolata è ammessa, ma nelle sole materie cui rinvia il
contratto nazionale, evitando così duplicazioni rispetto al
livello più generale. Si prevedono anche innovazioni per i
contratti di solidarietà a tempo parziale, di formazione e
lavoro, con l'introduzione di 'salari d'ingresso'. È ammesso
anche il lavoro 'in affitto' da parte di entità che
dovrebbero essere soggette a un rigoroso controllo. Infine si
procede verso un sistema di rinnovo delle rappresentanze sindacali
aziendali su base elettiva, un sistema che dovrebbe essere volto ad
accertare l'effettiva consistenza rappresentativa dei vari
sindacati, abbandonando quello precedente, fondato sulla
rappresentatività 'presunta' delle organizzazioni affiliate a
CGIL, CISL, UIL. Queste le principali innovazioni in un settore che,
in gran parte, attende ancora ulteriori trasformazioni.
Enciclopedia del
Novecento III Supplemento (2004)
di Igor Piotto, Mario Rusciano
di Igor Piotto e Mario Rusciano
LAVORO
Organizzazione del lavoro di Igor Piotto
sommario: 1. Introduzione. Le vie di
uscita dalla crisi del taylorismo. 2. I principî essenziali
del just in time. a) Eliminazione degli sprechi e
'fabbrica minima'. b) Rapporto dell'impresa con i suoi
fornitori. c) Polivalenza professionale dei lavoratori e
gerarchie intermedie. d) La qualità totale.
3. Cambiamenti qualitativi nella prestazione di lavoro: dalla
'mansione' alla 'missione'. 4. Dalla lean production alla
produzione modulare. 5. Conclusioni. Problemi e prospettive. □
Bibliografia.
1. Introduzione. Le vie di uscita dalla crisi del
taylorismo
Con il concetto di 'organizzazione del lavoro' si vuole indicare la
concomitanza di tre ordini di fattori necessari a conseguire gli
obiettivi produttivi desiderati: la divisione tecnica delle
attività lavorative (suddivise in compiti), la loro
integrazione e attribuzione a uomini e macchine in relazione alle
caratteristiche professionali dei primi e ai vincoli tecnologici
delle seconde, e infine il loro coordinamento (funzionale, temporale
e spaziale) in ragione delle interdipendenze presenti nel processo
produttivo.
L'integrazione delle attività prevede che singoli compiti
siano incorporati in specifici ruoli organizzativi per quanto
riguarda sia le relazioni di subordinazione che percorrono la catena
del comando, sia le relazioni orizzontali di cooperazione tra ruoli
appartenenti allo stesso livello gerarchico. Il coordinamento
interviene sulle interdipendenze tra le attività lavorative
attraverso meccanismi gerarchici operanti su linee verticali o
attraverso meccanismi di adattamento reciproco basato su decisioni
congiunte.
La divisione del lavoro è una "caratteristica ineliminabile
dell'impresa industriale" (v. Pichierri, 1979, p. 135); le diverse e
articolate forme attraverso cui si esprime sono date dalla natura e
dalla combinazione di questi due concetti. Nel taylorismo - che
rappresenta l'estremizzazione 'scientifica' degli studi
precedentemente avviati da Smith (v., 1776) e da Babbage (v., 1833)
circa la correlazione tra efficienza e specializzazione della
prestazione lavorativa - tale combinazione produce un modello
organico finalizzato a irreggimentare il lavoro in mansioni
ripetitive, parcellizzate, standardizzate e integrate in rigide
catene di comando gerarchico-burocratiche (v. Bonazzi, 1998).
In questa sede, partendo dalla definizione data di organizzazione
del lavoro, si procederà con l'analisi dei nuovi modelli
produttivi emersi con la crisi del taylor-fordismo; una crisi,
annunciata negli anni settanta e proseguita sino alla metà
del decennio successivo, che ha segnato la fine di una condizione di
egemonia sulle culture organizzative delle società
industrializzate durata più di mezzo secolo.
In questi anni la produzione su vasta scala di beni standardizzati,
la cosiddetta produzione di massa, subì una battuta d'arresto
causata principalmente dalla differenziazione dei mercati e dal
conseguente ampliamento dell'offerta di prodotti non più
soddisfacibile con l'architettura dell'organizzazione scientifica
del lavoro (ibid.), la quale, per via delle sue intrinseche
rigidità, non era più in grado di assorbire le
incertezze economiche generate da un ambiente di mercato in continua
trasformazione; le decisioni organizzative non potevano più
fare riferimento a routines e certezze consolidate (v.
March e Simon, 1958). Per far fronte a tali incertezze, il management aziendale fu così costretto a ricorrere a misure di
flessibilità in grado di mettere le imprese nelle condizioni
di rispondere ai tempi stretti delle fluttuazioni ambientali,
rappresentate da una crescente diversificazione della domanda di
prodotti/servizi sino agli estremi di una loro 'personalizzazione'
in base alle specificità del cliente. L'introduzione delle
nuove tecnologie meccatroniche - dai sistemi CAD/CAM (Computer
Aided Design/Manufacturing) alla CIM (Computer
Integrated Manufacturing) - aveva alimentato la convinzione
che si potesse configurare un sistema produttivo, particolarmente
nel settore industriale, ad alta automazione e ridurre con il
supporto delle tecnologie informatiche la rigidità dei
programmi di produzione. Si andava così diffondendo l'idea
che le imprese avrebbero potuto conseguire alti livelli di
efficienza quanto più consistenti fossero stati gli
investimenti di carattere tecnologico; questo orientamento avrebbe
consentito anche una riduzione degli organici e un conseguente
allentamento del potere vulnerante dei lavoratori, specie in
contesti ad alta conflittualità sociale.
L'automazione non richiama solo processi meccanizzati, ma rimanda
anche a proprietà di autoregolazione da parte delle
tecnologie; questo passaggio, oltre a costituire un fattore di
indiscusso vantaggio, fu anche all'origine delle difficoltà
che la fabbrica ad alta automazione incontrò nel corso della
sua sperimentazione.
L'intreccio delle tecnologie meccatroniche e di quelle informatiche
si rivelò efficace nell'inglobare parti della
complessità nel processo produttivo, il quale richiedeva
interventi di regolazione che non potevano avvenire per via
automatica; in altre parole, era necessaria una valorizzazione del
lavoro vivo quale risorsa di controllo e di conduzione degli
impianti. In termini più generali, la via ipertecnologica
alla flessibilità organizzativa comportava forme di
decentramento decisionale per i lavoratori esecutivi incompatibili
con la concezione taylor-fordista di gerarchia affermatasi sino a
quel momento (v. Bonazzi, 1993).
L'utopia tecnocratica della fabbrica ad alta automazione non divenne
mai una prospettiva realizzabile; la sua architettura non
mutò gli assetti gerarchici precedenti e lasciò
irrisolto il legame tra la complessità dei processi
automatizzati e le interdipendenze che si venivano a determinare al
loro interno. Questa esperienza mise in luce come il lavoro umano
non avesse affatto il ruolo residuale ipotizzato nell'orientamento
iniziale, soprattutto nelle fasi in cui risultavano determinanti gli
interventi di regolazione del processo produttivo.
Lo spostamento verso una prospettiva antropocentrica (v.
Brödner, 19852) di organizzazione della produzione
favorì la ricerca di vie d'uscita dalla crisi del taylorismo.
È in questo contesto che l'organizzazione del lavoro adottata
negli stabilimenti automobilistici della Toyota - definita just
in time - riuscì ad attrarre l'attenzione del mondo
manageriale dei paesi a capitalismo avanzato e - grazie alla
concettualizzazione elaborata principalmente da Taiichi Ohno (v.,
1978) e Yasuhiro Monden (v., 1983) su queste esperienze
organizzative - a esercitare su di esso una ormai indiscussa
egemonia culturale.
A partire dal lavoro di ricerca di James P. Womack, Daniel T. Jones
e Daniel Roos (v. Womack e altri, 1990), che per primi analizzarono
le ragioni del successo del modello giapponese in particolare
nell'industria statunitense, l'espressione just in time trovò un'altra definizione e venne convertita in quella di
'produzione snella' (lean production) - una differenza non
puramente terminologica. Il just in time sperimentato alla
Toyota giapponese costituisce l'idealtipo, weberianamente inteso, di
una politica dell'organizzazione della produzione in cui la
dimensione sociale e quella tecnologica convergono nel definire un
modello considerato capace di assorbire la varianza di mercati
dinamici. Quando è stata esportata al di fuori del contesto
giapponese, questa 'politica organizzativa' ha richiesto modifiche
di 'riaggiustamento', non tali, peraltro, da snaturare la concezione
originaria; il concetto di 'produzione snella' denota così il
carattere ibrido che di volta in volta può assumere il just
in time a seconda delle specificità dei sistemi locali
(v. Negrelli, 2000), nazionali e dei settori industriali in cui
trova applicazione (v. Abo, 1994; v. Kochan e altri, 1997).
I nuovi modelli di organizzazione del lavoro e della produzione,
maturati con la crisi del taylorismo, si sono affermati inizialmente
nel settore industriale; specificamente, sono state le grandi
imprese automobilistiche (GM, Chrysler, Toyota, Volkswagen, Opel,
FIAT, Renault) a trainare la loro espansione. Solo successivamente
il just in time è diventato un riferimento
organizzativo per altri settori produttivi, in particolare il
terziario. Dati i limiti imposti da questo articolo, non potremo
analizzare la diffusione del modello just in time nelle
imprese non industriali. Pertanto, focalizzeremo l'attenzione
esclusivamente sul lavoro industriale e la sua organizzazione.
2. I principî essenziali del just in
time
Il just in time può essere definito come un
"sistema produttivo che garantisce la continua e perfetta simmetria
tra l'offerta dei beni prodotti e la domanda che proviene dal
mercato" (v. Monden, 1983; tr. it., p. 7); l'incontro tra le due
curve avviene grazie a una razionalizzazione dei processi
organizzativi che si compone di quattro aspetti essenziali (v.
Gohlar e Stamm, 1991): eliminazione degli sprechi e snellimento dei
processi organizzativi, rapporti con i fornitori, polivalenza
professionale dei lavoratori e qualità.
a) Eliminazione degli sprechi e 'fabbrica minima'
La strategia dell'eliminazione degli sprechi consiste nella
progressiva riduzione di tutte quelle risorse che risultano
ridondanti o che hanno una funzione marginale nella produzione di
valore. Si delinea una sorta di 'fabbrica minima', nella quale
tendono a scomparire, o ad assottigliarsi in modo consistente, gli stocks di magazzino e i relativi costi di gestione. Gli stocks nella produzione di massa costituivano certamente una fonte di
costi, ma consentivano anche di assorbire sia le criticità
interne, dovute a problemi di rallentamento, guasti e perdite di
produzione, sia quelle esterne, derivanti dalle oscillazioni di
mercato.
L'obiettivo del just in time è quello di utilizzare
i fattori di produzione (materiali, tecnologie e forza lavoro) in
modo strettamente circoscritto a quanto viene richiesto dal cliente
in un dato momento, e più estesamente dal mercato. Da qui
deriva una complessiva ridefinizione dei tempi organizzativi
dell'impresa. In primo luogo, sulle linee di produzione devono
giungere semilavorati e componenti nella misura e nei tempi
previsti; il sincronismo dei tempi di lavoro e di movimentazione
delle risorse materiali diventa un vincolo organizzativo che
struttura l'intero impianto del just in time.
Inoltre, negli impianti industriali questo sincronismo viene
favorito da una disposizione spaziale degli impianti (layout)
che riduce i problemi di incertezza nei flussi produttivi. Le
singole unità produttive vengono strutturate secondo una
forma a 'U', accentuando la dimensione orizzontale del coordinamento
nei gruppi di lavoro e favorendo sia la mobilità dei
lavoratori tra le postazioni dell'unità - con un utilizzo
efficace delle risorse umane, specie nei momenti di maggiore
criticità (v. Suzaki, 1993) - sia una distribuzione dei tempi
di lavoro non più imposta, come nel sistema tayloristico,
attraverso un'analisi 'scientifica' di microgesti e microtempi, ma
piuttosto ripartita nel gruppo di lavoro a seconda delle
necessità produttive che si presentano in un dato momento (v.
Coriat, 1991).
Infine, l'assottigliamento dei 'tempi morti', determinato dalla
contrazione dei tempi di attrezzaggio e di quelli di attraversamento
del prodotto, contribuisce ad alleggerire il carico dei magazzini
necessario a garantire continuità nella fornitura di
materiali alle fasi del processo produttivo.
La riduzione dei tempi morti e delle scorte non va unicamente intesa
come operazione di bilancio aziendale, finalizzata all'eliminazione
degli sprechi e quindi dei costi ridondanti; essa è
inseparabile dalla strategia del 'miglioramento continuo' (in
giapponese, kaizen), ovvero dalla mobilitazione di tutte
le risorse, prevalentemente umane, impegnate nel processo produttivo
e chiamate a un'attività di individuazione e sperimentazione
di interventi migliorativi del processo di lavoro e del prodotto (v.
Bonazzi, 1993). Questa specifica correlazione disegna un modello
organizzativo nel quale i flussi produttivi sono costantemente
impegnati a integrare - secondo l'efficace formula della innovation
mediated production suggerita da Martin Kenney e Richard
Florida (v., 1993) - innovazione e produzione, lavoro manuale e
lavoro intellettuale in modo pressoché indissolubile.
b) Rapporto dell'impresa con i suoi fornitori
Il sistema del just in time comporta anche un'inversione
della direzione del processo produttivo: nel fordismo, attraverso
piani consistenti di programmazione produttiva a medio e lungo
termine, l'impresa era in grado di determinare con largo anticipo il
volume e la qualità dei consumi; ora mercati frammentati e
fortemente variabili non consentono più produzioni
standardizzate su grande scala. La crescente domanda di prodotti
diversificati 'traina' il processo produttivo, offrendo margini
molto ristretti per la programmazione temporale degli ordini. Come
rimarcato da Monden (v., 1983), la simmetria tra domanda e offerta
richiede un'organizzazione non dispersiva e fortemente adattabile ai
mutamenti nell'indirizzo delle richieste. In questo contesto, la
catena di fornitura di un prodotto viene profondamente modificata; i
rapporti tra l'impresa e i suoi fornitori non si risolvono
unicamente nella scelta dell'economicità della fornitura. La
richiesta rivolta dal cliente è quella di una prestazione che
coinvolga il fornitore, soprattutto quello di primo livello, anche
nella 'ingegnerizzazione' del prodotto. Vengono richiesti alti
livelli di cooperazione che spingono le imprese di fornitura
più a ridosso dell'impresa finale nella progettazione del
prodotto, oltre che nella sua fabbricazione; l'obiettivo è
trasferire sul terreno delle relazioni di fornitura una strategia di
incremento degli standard di qualità e una riduzione di quei
costi causati dall'utilizzo ridondante delle risorse.
La progettazione congiunta dei prodotti presenta anche il vantaggio
di alimentare economie di apprendimento; ovvero la produzione di
"quasi-rendite relazionali" (v. Aoki, 1988) rappresentate dal
patrimonio di conoscenze, specifiche e localizzate, che provengono
dal rapporto di collaborazione tra le imprese, le quali però
non possono essere assimilate unilateralmente da uno dei partners contrattuali senza mettere a rischio la riproduzione di
comportamenti cooperativi.
Sul versante organizzativo interno della singola impresa,
l'inversione della direzione del processo produttivo necessita di un
"sistema di informazione per controllare armoniosamente le
quantità da produrre in ciascuna fase di lavoro" (v. Monden,
1983; tr. it., p. 5). Questo spiega perché la semplificazione
dei criteri di approvvigionamento introdotta dal kanban costituisca una delle innovazioni più radicali del just
in time sul piano della logistica e della struttura aziendale
di incanalamento ed elaborazione delle informazioni.
Letteralmente kanban significa 'cartellino', e sta a
indicare una scheda che viene applicata su particolari raccoglitori
di componenti per regolare il flusso di materiali allo scopo di
evitare le ridondanze e gli sprechi. È un sistema di
semplificazione dei criteri di approvvigionamento che può
avere ripercussioni sui rapporti tra le unità produttive:
infatti, i lavoratori dislocati in una unità produttiva a
valle del processo produttivo diventano i clienti dell'unità
produttiva situata a monte. Questa disposizione logistica rende
praticabile la sincronizzazione dei processi, proprio perché
consente alle singole unità di lavoro di modulare la
quantità della produzione attraverso i continui feedback provenienti dalle unità successive, le quali instaurano
reciprocamente rapporti di cooperazione e competizione improntati
alla logica di mercato di cliente e fornitore: tale relazione entra
in concorrenza con il criterio gerarchico che invece vantava un
indiscusso primato nei meccanismi di strutturazione dell'impresa
taylor-fordista.
c) Polivalenza professionale dei lavoratori e gerarchie
intermedie
La gerarchia non scompare, ma l'organizzazione si trova costretta,
per esigenze di competitività, a riconoscere una maggiore
autonomia decisionale alle strutture periferiche
dell'organizzazione, soprattutto quelle con funzioni esecutive.
Verso la fine degli anni ottanta cresce nel management aziendale la consapevolezza che gli interventi di risoluzione dei
problemi devono essere elaborati il più possibile a ridosso
dei contesti in cui si manifestano le maggiori criticità.
La tecnica logistica del kanban si inserisce in questo
nuovo orientamento, rendendo possibile il decentramento di compiti
di micro-regolazione giornaliera del flusso produttivo, i quali
erano, nel taylorismo, prevalentemente concentrati in strutture
centralizzate di staff non direttamente coinvolte nel
processo produttivo (uffici di programmazione e avanzamento della
produzione). Questo spostamento decisionale (dal livello di
stabilimento al livello di officina), per quanto sempre parziale,
richiede che il lavoro esecutivo venga investito di una maggiore
discrezionalità e sia accompagnato da richieste sempre
più frequenti di polivalenza professionale.
La decentralizzazione di alcuni dei compiti di regolazione rende
impraticabile la parcellizzazione del lavoro in 'microgesti', che
aveva determinato per decenni il controllo sulla gestualità
operaia, mettendo in tal modo in discussione uno dei principî
fondanti la visione tecnocratica del taylorismo, quello della
presunta oggettività scientifica dei criteri di formazione
delle decisioni.
Si afferma, invece, nell'indirizzo manageriale, una prospettiva
gestionale che stempera il modello decisionale autoritario e tende a
sostituirlo con la sperimentazione di forme di lavoro di gruppo
ritenute maggiormente efficienti sul terreno della
flessibilità produttiva.
Al gruppo di lavoro sono demandati compiti gestionali che si
estendono alla manutenzione ordinaria degli impianti,
all'elaborazione delle procedure di lavoro, alla gestione di parti
del processo produttivo. Il team è considerato una
'cellula produttiva' nella quale, sotto la supervisione di una
struttura di coordinamento individuata nel team leader e
nei tecnici (tecnologi, metodisti, manutentori), si combinano
professionalità polivalenti in grado di governare la domanda
di qualità e diversificazione dei prodotti che proviene da
mercati variabili.
L'obiettivo organizzativo del lavoro di gruppo è quello di
favorire la socializzazione di compiti e funzioni che prima erano
demandati a strutture tecniche di staff laterali al
processo produttivo, con risvolti rilevanti sullo stesso profilo
professionale del management intermedio (capireparto,
capisquadra), non più riconducibile, almeno sotto il profilo
teorico, al ruolo di 'vicariato' della direzione aziendale o di shock
absorber (v. Walker e altri, 1956) delle tensioni tra management e lavoratori esecutivi.
Il ricorso a espressioni anglosassoni come quella di team
leader in sostituzione del più noto termine
'caposquadra' richiama certamente la natura indiscutibilmente
autoritativa del ruolo, ma mette comunque in rilievo la dimensione
collegiale dell'attività decisionale che queste figure del management intermedio assumono nel sistema just in time. Il
responsabile del team mantiene un ruolo di 'comando'
soprattutto nell'allocazione delle risorse (definizione dei percorsi
professionali e di mobilità interna al gruppo, sistemi
premianti e di incentivazione), ma a tale ruolo si affiancano
competenze di coordinamento dei gruppi di lavoro e di gestione degli
interventi di miglioramento incrementale (processo/prodotto).
d) La qualità totale
L'ultimo tassello che compone il complesso sistema del just in
time è la qualità totale. È questo il
concetto che percorre tutta l'elaborazione teorica e la prassi del
modello giapponese.
L'attenzione manageriale per il sistema della qualità non
nasce con la scoperta del modello giapponese, verso la fine degli
anni ottanta, ma si focalizza prevalentemente sul ricorso a metodi
di natura statistica quali strumenti privilegiati per verificare la
qualità della performance aziendale.
Le tecniche statistiche non sono state trascurate da quanti hanno
più marcatamente contribuito a elaborare il concetto di
qualità totale in chiave organizzativa (v. Juran, 19743;
v. Deming, 1982); piuttosto, tali tecniche diventano operative
all'interno di una struttura organizzativa ampiamente modificata. Il
mutamento è prima di tutto di ordine culturale: l'incremento
di prodotti progettati e ingegnerizzati in base alle richieste di
gruppi ristretti di clienti richiede una competitività che
non è conseguibile solo attraverso un abbassamento dei costi,
ma deriva anche dall'offerta qualitativamente superiore a quella dei
concorrenti di mercato.
In questa prospettiva la ricerca della qualità non può
essere ancorata a una specifica funzione aziendale di cui si compone
un'impresa. Essa è un principio organizzativo - sintetizzato
nel lessico manageriale dall'espressione total quality
management - che struttura l'organizzazione, è il
criterio di riferimento nella progettazione dei processi e dei
prodotti, e costituisce pertanto il nucleo fondante di tutto il just
in time. Ciascun sottosistema aziendale (logistica,
produzione, marketing, servizi, approvvigionamenti,
sviluppo delle tecnologie e delle risorse umane) deve attivare al
proprio interno misure tese a ridurre il saldo negativo tra la
prestazione attesa e quella effettivamente realizzata.
Sul versante dell'organizzazione del lavoro, il risalto dato alla
qualità trova riscontro nel concetto di autocontrollo: con
esso si indica la gamma di nuove responsabilità assegnate ai
singoli lavoratori, anche quelli che ricoprono ruoli esecutivi, di
monitoraggio e verifica di standard qualitativi circa i prodotti e
parti specifiche del processo produttivo. Con l'autocontrollo si
rafforza l'obiettivo di assegnare alla riduzione di scarti e difetti
un ruolo determinante nell'integrazione delle funzioni e delle
attività dell'impresa.
3. Cambiamenti qualitativi nella prestazione di
lavoro: dalla 'mansione' alla 'missione'
La diffusione della produzione snella comporta che il lavoro operaio
sia prevalentemente caratterizzato da attività di
'micro-regolazione' degli impianti e della gestione di obiettivi
produttivi, e questo può essere considerato l'archetipo della
configurazione emergente del lavoro esecutivo industriale (v. Kern e
Schumann, 1984; v. Cerruti, 1994).
La conduzione di processi sincronizzati comporta un arricchimento
del contenuto delle informazioni da elaborare insieme a un
ampliamento delle competenze possedute. Con il just in time il singolo lavoratore deve sviluppare un rapporto attivo con il
sistema informativo, che implica la convergenza di due specifiche
"logiche di incremento" (v. Rieser, 1992).
Da un lato, si estende la discrezionalità del lavoratore
nella scelta di soluzioni non programmabili per via gerarchica, o
non totalmente incorporabili nelle tecnologie di processo. Un
esempio è dato dal concetto di 'autonomazione', neologismo
ricavato dalla contrazione di automazione e autonomia, col quale si
indica la possibilità da parte degli operatori di arrestare
automaticamente la linea di produzione ogni qual volta si presentano
delle criticità. Questo potere di interdizione riconosciuto
agli operatori è di estrema importanza per comprendere la
logica che ispira siffatto modello organizzativo; esso assegna un
ruolo attivo al lavoro esecutivo e lo colloca in una posizione
cruciale nel perseguimento delle strategie di controllo di
qualità. Nonostante l'entusiasmo con cui è stato
accolto il principio dell'autonomazione, esso resta in molti casi
scarsamente perseguito, per il permanere di una rigidità
temporale dei programmi di produzione, ma anche per ragioni che
vanno ricercate nella difficoltà, soprattutto dei quadri
intermedi, di emanciparsi dai condizionamenti culturali del
taylorismo, i quali portano a guardare con sospetto qualsiasi
modifica organizzativa che vada nella direzione di un riconoscimento
di discrezionalità al lavoro esecutivo.
Dall'altro lato, aumentano le informazioni che il singolo è
chiamato a gestire. La 'de-gerarchizzazione' del flusso di
informazioni, di cui il sistema kanban è
l'espressione più visibile, richiede al lavoratore un ruolo
di 'microterminale attivo' nello scambio delle informazioni, che si
esplica essenzialmente nella capacità di micro-regolazione
degli impianti e nell'individuazione dei segnali deboli che possono
provenire dal processo produttivo (v. Rieser, 1992). Quello
informativo diventa dunque il 'sistema nervoso' di tutti i processi
produttivi. Strutturato secondo una logica di "concentrazione senza
accentramento" (v. Bennett, 1994), il sistema informativo nel just
in time richiede sedi decentrate di incanalamento ed
elaborazione delle informazioni. Questa tendenza però non
comporta, realisticamente, la completa destrutturazione del
monopolio di competenze riconosciuto nel taylorismo alle figure
gerarchiche elevate o di staff, quanto invece il
restringimento, variabile, del loro raggio di intervento. Ma
soprattutto, attraverso l'utilizzo delle tecnologie informatiche, la
visione complessiva del circuito informativo dell'impresa viene
concentrata in specifiche memorie tecniche e monitorata in 'presa
diretta' con l'andamento della produzione.
Nel just in time vincoli di ordine tecnologico,
organizzativo (la sincronizzazione dei processi produttivi tra le
unità di lavoro) e informativo (il sistema kanban)
delineano il profilo di una prestazione sempre meno focalizzata sul
controllo della 'dimensione materiale del lavoro', a vantaggio del
controllo sulla 'dimensione processuale del lavoro' (v. Kern, 1991),
determinando un cambiamento di prospettiva che va nella direzione di
quello che Kazuo Koike (v., 1988) ha definito come "white-collarization
of blue collars". Questa tesi può risultare
eccessivamente ottimistica, ma il dato importante è che il
mutamento delle caratteristiche qualitative della prestazione, in
particolare industriale, costituisce la rottura più
significativa rispetto ai vincoli che l'organizzazione tayloristica,
incardinata sulla disciplina della corporeità operaia,
imponeva al lavoro esecutivo. In quel caso la scarsa
variabilità delle mansioni era accompagnata dalla ricerca da
parte del management intermedio di soluzioni operative
finalizzate, attraverso la proceduralizzazione delle operazioni
imposta per via gerarchica, a ridurre in modo crescente i margini di
libertà riconosciuti al lavoro esecutivo.
Come è stato messo in rilievo dalla Scuola delle relazioni
umane (v. Roethlisberger e Dickson, 1939), anche nell'organizzazione
più restrittiva le maglie del controllo gerarchico non sono
in grado di trattenere tutte le relazioni sociali che prendono forma
al suo interno. Ulteriori studi hanno sottolineato che
l'informalità nelle relazioni di lavoro non contiene
unicamente aspetti di "disfunzionalità" (v. Crozier, 1963):
l'informalità, nell'impresa tayloristica, ha fornito al
lavoratore maggiori possibilità di negoziazione delle
condizioni di lavoro con la gerarchia aziendale e, al tempo stesso,
ha consentito all'organizzazione di mantenere una condizione di
stabilità rispetto alle criticità esterne e interne a
essa.
Nel sistema just in time il singolo lavoratore non
è più chiamato a rispettare 'vincoli espliciti di
obbedienza' definiti dalla direzione e dagli staff tecnici
secondo una logica di 'conformità alla regola'; da qui deriva
che la qualità della prestazione di lavoro non può
essere correlata allo scostamento del comportamento umano dalle
regole formali. L'aspetto prescrittivo della norma non cessa di
esercitare la sua influenza, ma si traduce in 'obblighi impliciti di
produzione' (v. De Terssac, 1992), ovvero in regole 'invisibili',
implicite, che sono in grado di assicurare una cooperazione attiva
nella gestione degli obiettivi di produzione (normalizzazione degli
stati di criticità e continuità del processo
produttivo). Queste 'regole invisibili' costituiscono un tessuto di
significati condivisi, che indirizzano il singolo lavoratore nelle
sue scelte di 'attenzione' e svolgono così una funzione
'metaregolativa dell'azione'.
La dicotomia formale/informale si rivela, dunque, inadeguata a
cogliere il mutamento qualitativo della prestazione di lavoro,
soprattutto alla luce dell'indebolimento del concetto di mansione,
intesa come aggregato di compiti e considerata dal sistema
tayloristico come l'unità elementare nella progettazione dei
compiti esecutivi, a vantaggio di quello di 'missione', che denota
una maggiore complessità organizzativa. La missione richiede
un elevato grado di cooperazione attiva e la disponibilità ad
attivare in modo continuativo interventi specifici e polivalenti,
difficilmente programmabili nelle singole fasi operative e quindi
meno soggetti a un monitoraggio parcellizzato. Tale attività
micro-regolatrice fa emergere un patrimonio variegato di astuzie
conservate in forma tacita e maturate nel corso dell'esperienza;
questa visibilità fornisce al management la
possibilità di appropriarsi di quella conoscenza produttiva
che, nel sistema tayloristico, i lavoratori custodivano e
utilizzavano quale risorsa difensiva rispetto alla
pervasività del controllo gerarchico.
Il merito di Ohno (v., 1978) fu quello di comprendere che gli
incrementi di produttività non erano conseguibili frantumando
le mansioni degli operai professionali, con la degradazione del loro
ruolo organizzativo e sociale, ma sovraccaricando il loro impegno
lavorativo. Tale sovraccarico, unito all'eliminazione degli stocks di magazzino, avrebbe causato una tensione del processo produttivo,
richiesto un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nelle
attività di regolazione, e conseguentemente esteso le
prerogative manageriali di controllo sul sapere produttivo.
Infatti, il lavoro subisce un processo di "simbolizzazione pubblica
dell'esperienza" (v. Zuboff, 1988): astuzie nascoste ed esperienze
professionali vengono alla luce e, attraverso il supporto di
tecnologie informatiche, codificate in artefatti cognitivi,
incorporate nelle memorie tecniche dell'organizzazione, favorendo
così l'aggiornamento continuo delle conoscenze utilizzabili.
Anzi, l'attivazione di circuiti virtuosi di conversione della
conoscenza da tacita a esplicita è stata assunta quale
elemento distintivo di superiorità della produzione snella
sul modello taylor-fordista (v. Nonaka e Takeuchi, 1995).
Il lavoro è sempre il prodotto della combinazione dinamica di
vincoli e autonomia nella divisione tecnica, nell'integrazione e
distribuzione delle attività. Nel just in time i
dispositivi di controllo aziendale divengono più pervasivi
che in passato (v. Sewell e Wilkinson 1992; v. Baremberg, 1994; v.
Delbridge, 1998). Il modello autoritario, fondato sul principio
dell'organizzazione gerarchico-burocratica, è stato
sostituito da un nuovo modello di autorità che si avvale di
forme di comando meno visibili, non più espresse in forma
imposta ma attraverso l'interiorizzazione, da parte dei subordinati,
di quei vincoli impliciti di obbedienza che Gilbert De Terssac (v.,
1992) ha individuato quale criterio strutturante i modelli
flessibili di organizzazione del lavoro.
Il rafforzamento del controllo aziendale sui comportamenti umani non
avviene più tramite la funzione disciplinare della norma, ma
attraverso le 'politiche di produzione' (incentivi di natura
economica e psicologica, responsabilizzazione). Viene aggredita la
natura intrinseca della norma esplicita, quella di essere da un lato
strumento di pressione ma, dall'altro, anche un vincolo all'arbitrio
nelle relazioni di potere; non è infatti casuale che la
definizione delle norme esplicite sia stata uno dei terreni di
maggior conflitto nelle relazioni industriali fordiste. Si affermano
relazioni di potere capaci di condizionare i comportamenti umani in
modo più restrittivo di quanto non accadesse nel taylorismo,
senza però riproporre la struttura verticale e autoritaria
della trasmissione degli ordini.
Finora si è parlato indistintamente di polivalenza, ma non si
tratta di un concetto che rimanda a condizioni di lavoro e
professionali omogenee. Il just in time contiene almeno
due tipologie di polivalenza: verticale e orizzontale.
La prima rimanda a competenze necessarie alla conduzione di impianti
appartenenti a diverse famiglie tecnologiche e a svolgere funzioni
eterogenee per contenuto tecnico (v. Cerruti e Rieser, 1989). Qui la
polivalenza verticale consente al lavoratore di interagire in misura
decisiva sia all'interno del proprio gruppo professionale di
appartenenza, con attività di problem solving, sia
al di fuori di esso, con relazioni di interscambio informativo con
il personale di staff (tecnologi, metodisti, manutentori,
uffici tecnici e di progettazione), garantendo così una
continuità tra gestione della produzione e innovazione. In
questo frangente l'aumento di discrezionalità, spesso
rafforzato da un ampliamento delle opportunità di formazione
e apprendimento, è accompagnato dalla intensificazione dei
ritmi di lavoro (v. Parker e Slaughter, 1995).
Sull'altro versante la polivalenza orizzontale richiama competenze
deboli, che permettono al lavoratore di muoversi entro uno scenario
più limitato di postazioni, caratterizzate da un contenuto
tecnico affine e da impianti che fanno parte di una stessa "famiglia
tecnologica" (v. Cerruti e Rieser, 1989). La forza lavoro è
dislocata in contesti statici di apprendimento, con scarse
possibilità di rigenerazione del patrimonio professionale e
cognitivo, da cui deriva un restringimento delle opportunità
di mobilità interaziendale.
Questa distinzione aiuta a capire la natura ibrida
dell'organizzazione. L'egemonia culturale esercitata da un modello
di riferimento (è questo attualmente il peso del just in
time nell'orientamento manageriale) convive con segmenti
organizzativi ancora strutturati secondo modalità
tayloristiche di subordinazione della forza lavoro, spesso
sottoposta a processi di spersonalizzazione soffocante. È
questo il caso di imprese che hanno uno scarso ruolo nella catena
del valore del prodotto, mentre conservano un ruolo non marginale
nella catena del processo; ad esempio, le migliaia di piccole
imprese che rimandano all'esperienza delle maquiladoras messicane dislocate ai confini con gli Stati Uniti e impegnate in
produzioni fortemente standardizzate, nelle quali opera una forza
lavoro altamente intercambiabile, di sesso femminile e con limitate
possibilità di crescita professionale.
D'altra parte, non va trascurata la pluralità di forme
organizzative e di prestazioni lavorative che si sono sviluppate
all'ombra dell'impresa a produzione di massa, ma che non si sono mai
affermate come alternativa praticabile al taylor-fordismo. È
questo il caso, nel contesto italiano, del modello della
"specializzazione flessibile" (v. Piore e Sabel, 1984; v. Barca e
Magnani, 1989; v. Brusco, 1989), caratterizzato dalla maggiore
elasticità posseduta da piccole e medie imprese
nell'utilizzare competenze professionali e tecnologie in modo
sufficientemente versatile da soddisfare bisogni crescenti di
diversificazione della domanda (introduzione di nuovi prodotti,
personalizzazione dei prodotti/servizi e modifiche dei processi di
lavorazione).
Nel contesto internazionale una potenziale alternativa
all'organizzazione del lavoro taylorista, ma implicitamente anche al just in time, è stata quella sperimentata in Svezia,
sul finire degli anni ottanta, negli stabilimenti della Volvo di
Uddevalla e Kalmar. In quell'occasione venne adottato come criterio
di progettazione organizzativa il principio della 'ricomposizione
delle mansioni', in aperta polemica con la logica della
parcellizzazione dei compiti e dei movimenti di origine
tayloristica. Vennero formati gruppi di lavoro dotati di ampia
autonomia nella ripartizione dei compiti e dei tempi di lavoro (pur
all'interno di programmi produttivi definiti dalla direzione),
composti da operai altamente qualificati in grado di gestire interi
segmenti del processo produttivo. Il progetto venne interrotto
all'inizio degli anni novanta, per ragioni di competitività
del prodotto non tanto sul versante della qualità, quanto su
quello dei tempi di consegna dei prodotti e dei costi.
Quell'esperienza, anche per la nicchia di mercato in cui andava a
inserirsi (la fascia alta della produzione automobilistica), non
riuscì mai a proporsi come alternativa praticabile rispetto
al modello giapponese del just in time.
Non va sottovalutato il legame che unisce la polivalenza nella
specializzazione flessibile e nel caso svedese con la filosofia
della gestione delle risorse umane avanzata dal just in time,
soprattutto sul versante della progressiva "risoggettivazione del
lavoro operaio" (v. Revelli, 1997). Sottolineare questa
continuità è utile per far luce sulle molteplici
esperienze organizzative e produttive che sono maturate tra gli
interstizi del modello taylor-fordista, ma è altrettanto
necessario mettere in rilievo che la valorizzazione delle risorse
umane e delle capacità cognitive e professionali che queste
esprimono, pur con consistenti differenziazioni interne, ha potuto
rappresentare un'alternativa quando ha soddisfatto esigenze di
rinnovamento organizzativo nelle grandi imprese finali di produzioni
di beni e servizi, emancipandosi dall'ambito ristretto della
sperimentazione di mercati periferici o di nicchia.
4. Dalla lean production alla produzione
modulare
Il riconoscimento del mercato quale principio di strutturazione
degli assetti aziendali costituisce una delle svolte più
innovative introdotte dal modello giapponese, in aperta rottura con
quello esclusivamente gerarchico di matrice taylor-fordista.
L'introduzione dei principî del just in time ridisegna il profilo della prestazione lavorativa sottoponendola a
nuovi vincoli esecutivi e a gerarchie intermedie, mentre sul fronte
dei rapporti con le imprese di fornitura la sincronizzazione
logistica (movimentazione materiali, incanalamento informazioni) si
traduce in una crescente necessità di integrare i rapporti
tra cliente e fornitore attraverso l'intensificazione dei momenti di
'progettazione congiunta' dei prodotti e dei servizi.
Nei primi anni novanta, quando il modello just in time si
trovava in fase di piena espansione, il concetto di 'riduzione degli
sprechi' - che aveva aperto una breccia innovativa nella riflessione
manageriale - è stato nuovamente rielaborato, proseguendo e
intensificando la strategia dell'alleggerimento delle funzioni e
degli organici aziendali. Un primo tentativo risale all'elaborazione
del concetto di re-ingegnerizzazione dei processi organizzativi (v.
Hammer e Champy, 1993), che vede nella 'esternalizzazione' (outsourcing),
ovvero nell'affidamento all'esterno delle attività che non
risultano cruciali nella catena del valore dell'impresa, la via
più efficiente per conseguire un vantaggio competitivo sul
mercato.
Quello dell'outsourcing è un concetto poliedrico che
può rimandare a significati tra loro molto differenti a
seconda dell'oggetto che viene esternalizzato (che cosa), delle
modalità contrattuali di trasferimento (come), delle ragioni
che ispirano tale strategia (perché). Tuttavia, nella
comunità scientifica c'è una sostanziale convergenza
verso una definizione piuttosto versatile; per outsourcing si intende quel processo che accompagna la decisione delle imprese
di cedere a fornitori la proprietà o la gestione operativa di
parti del processo produttivo.
Soprattutto con la cessione della proprietà di parti del
processo produttivo, che rappresenta la modalità più
radicale di esternalizzazione, il ciclo produttivo dell'impresa
cedente viene scomposto in una rete di proprietà distinte;
quello che prima veniva realizzato all'interno di una struttura
aziendale autonoma, sotto il profilo dei confini societari, ora
è l'esito di attività che sono riconducibili al
concorso di aziende giuridicamente autonome. La ricomposizione del
processo produttivo viene garantita da un fascio di contratti di
appalto, stipulati dall'impresa cedente e dall'impresa che
acquisisce o gestisce le attività esternalizzate.
A seguito di queste considerazioni, si può definire
'multisocietaria' quella impresa che si configura come un
'contenitore' di realtà societarie diverse e autonome
impegnate a condividere un comune 'spazio' di produzione; con questo
termine si intende descrivere quel modo di organizzazione della
produzione, adottato da una singola impresa, che consiste nella
cessione a imprese esterne, prevalentemente tramite contratto di
compravendita, della proprietà di funzioni aziendali (outsourcing),
prossime al core business, e nella internalizzazione
operativa (insourcing), tramite un contratto d'appalto di
fornitura, delle loro attività nel sito produttivo
originario, mediante il ricorso a un'architettura modulare del
prodotto, dei processi e della catena di fornitura.
La modularizzazione è la soluzione organizzativa che rende
possibile il trasferimento delle attività esternalizzate
nell'area operativa dell'impresa cedente, e può riguardare la
configurazione dei processi e la progettazione del prodotto. Sul
versante dei processi, la modularizzazione prevede che interi
sistemi di componenti vengano prodotti e combinati da fornitori
specializzati operanti nel sito produttivo dell'impresa finale su
linee di sotto-assemblaggio. Ciò determina un
riposizionamento spaziale del fornitore 'sulle linee del cliente
finale', insieme a una nuova configurazione degli assetti
organizzativi e della dotazione tecnologica. Più articolata
risulta la modularizzazione del prodotto. Infatti, il 'prodotto'
viene inteso come un 'sistema di componenti', ciascuno dei quali
può essere a sua volta scomposto in sotto-unità, e le
loro interdipendenze tecnologiche sono definite da una comune logica
di progettazione. Il baricentro dell'attività produttiva
diventa il modulo, che rappresenta l'unità elementare, quindi
non ulteriormente scomponibile, dell'intera architettura del
prodotto. La combinazione variabile dei moduli indipendenti, che
interagiscono attraverso interfacce standardizzate di connessione
(v. Sanchez e Mahoney, 1996), può così determinare un
ampliamento dell'offerta e dare origine a diverse soluzioni dello
stesso prodotto.
La simultaneità dei processi di esternalizzazione e
internalizzazione descrive un doppio movimento contraddittorio e
rappresenta un elemento distintivo rispetto alle strategie di
decentramento produttivo e deverticalizzazione degli assetti
aziendali adottate dalle grandi imprese italiane nella prima
metà degli anni settanta (v. Barca e Magnani, 1989); in quel
caso, infatti, l'impresa cessionaria e quella cedente non
condividevano lo stesso spazio produttivo, non si verificava,
cioè, la condizione di internalizzazione delle
attività cedute.
Con l'esternalizzazione l'impresa cedente sposta sui fornitori parti
del rischio di impresa legato a un prodotto, ma allo stesso tempo
chiede agli stessi di operare in prossimità o all'interno dei
suoi impianti produttivi. Il passaggio della internalizzazione del
fornitore nel sito dell'impresa finale rende possibile la riduzione
dei costi, ma soprattutto favorisce il trasferimento di conoscenze
esperte; qui la relazione di fornitura non riguarda solo lo scambio
di prodotti o semilavorati, ma concerne l'instaurazione di economie
di apprendimento e innovazione che derivano dalla fusione di due
sistemi tecnologici.
Sul piano propriamente organizzativo del lavoro, con l'impresa
modulare la prestazione non subisce radicali mutamenti; tuttavia,
l'offuscamento dei confini dell'impresa stessa e, sull'altro
versante, l'aumento dei punti di integrazione tra le attività
aziendali generano nuove richieste di professionalità, ovvero
aree di compiti che si espandono nei ruoli preesistenti e si vanno a
innestare sulle trasformazioni già introdotte dal modello
giapponese. In particolare, diventa cruciale la presenza di
'produttori di integrazione' (management intermedio, operai
e impiegati altamente qualificati privi di ruolo gerarchico), i
quali operano ai confini dell'impresa, intrattengono comunicazioni
tecniche con clienti e fornitori, e hanno il compito di elaborare
efficacemente informazioni e dati in modo da facilitare la
collaborazione tra le imprese (v. Butera e altri, 1997). Queste
professionalità di integrazione sono il segno di una
'sfasatura' tra le attività del sito produttivo, che
può essere ricomposta se l'integrazione non incontra
ostacoli, ma che in taluni casi può causare diseconomie
organizzative dovute alla presenza di relazioni competitive tra
ruoli ridondanti o sovrapposti.
Il profilo di questa popolazione lavorativa si compone di due aree
distinte di competenza. In primo luogo, essa svolge attività
di 'integrazione organizzativa', che consistono nel mettere in
collegamento studi progettuali, saperi specialistici, risorse umane
e finanziarie; in secondo luogo, essa costituisce una risorsa di
supporto nella gestione dei contratti commerciali tra le imprese del
sito produttivo; infatti, questo lavoro di scambio e integrazione di
risorse non è facilmente governabile attraverso i contratti,
i quali tutelano solo in parte le imprese dai rischi di opportunismo
(pre- e post-contrattuale) degli altri partners aziendali,
rendendo così necessaria la presenza di altre figure
professionali, come il management intermedio, o, in un
numero minore di casi, lavoratori altamente qualificati esterni alla
catena di comando aziendale.
I produttori di integrazione definiscono un insieme di
professionalità che vanno a integrare il modello giapponese
di articolazione delle competenze, qualificandosi come una sorta di
ulteriore specificazione della polivalenza verticale.
5. Conclusioni. Problemi e prospettive
Il primato della dimensione processuale del lavoro nei nuovi modelli
di produzione ha determinato il passaggio della relazione di lavoro
da una condizione contrassegnata dallo 'scambio di certezze' (gesti,
movimenti, operazioni, ritmi, orari) - espressione di una visione
onnicomprensiva della razionalità produttiva - a una
condizione sempre più caratterizzata da uno 'scambio di
impegni' (impegno attivo nel raggiungimento di sotto-obiettivi
produttivi, connessione di più fonti informative, intervento
sui fattori di criticità), dove invece si afferma una visione
limitata della razionalità, proprio perché tali
impegni non sono facilmente programmabili e comportano continui
aggiustamenti in fase esecutiva. La prestazione di lavoro, pur con
le sue profonde differenziazioni in termini di competenze possedute,
richiede l'impiego continuo di risorse specifiche (conoscenze
esperte), che costituiscono una delle leve più importanti per
far fronte alle criticità che scaturiscono da processi
produttivi complessi e - per i loro vincoli organizzativi
(sincronizzazione tempistica e progettuale, integrazione delle
attività interaziendali) - fragili. Allo stesso tempo, una
quota consistente dei contenuti della prestazione di lavoro viene
sottratta alla possibilità di standardizzazione e
programmazione capillare, determinando così un indebolimento
degli strumenti tradizionali di valutazione del lavoro erogato (v.
Goldthorpe, 2000).
Certamente, il just in time e successivamente l'impresa
multisocietaria hanno favorito, con il decentramento decisionale, la
creazione di nuovi spazi di discrezionalità per il lavoro
esecutivo e lo sviluppo di prestazioni polivalenti. Questo non
è stato sufficiente ad accelerare la sperimentazione di nuove
forme di umanizzazione del lavoro, spesso contrastate dall'emergere
di condizioni di subalternità e di catene di comando non
più incardinate sul 'ruolo', ma sul sapere posseduto e sulle
opportunità di apprendimento e accrescimento delle
competenze.
All'interno di un'impresa, o di un sistema di fornitura, convivono
'destini' professionali e condizioni di lavoro sempre più
determinati dal divario tra una popolazione lavorativa impegnata
nelle attività strategiche dell'impresa, inserita in circuiti
virtuosi di apprendimento, a cui vengono richieste prestazioni
specifiche difficilmente standardizzabili e per questo soggette a
rapporti fiduciari da parte del management, e una
popolazione lavorativa a polivalenza debole, che opera in condizioni
di continuità con la tradizione tayloristica e si trova
maggiormente esposta alla precarietà del rapporto di lavoro.
Tenuto conto dei limiti analitici delle schematizzazioni
dualistiche, questa divaricazione delle traiettorie professionali e
delle condizioni di lavoro può essere indicativa di una
polarizzazione che rischia di sostituire, come ha fatto notare Aris
Accornero (v., 1997), quella taylor-fordista tra colletti bianchi e
colletti blu.
Tuttavia, tale polarizzazione non va intesa in modo deterministico e
non ripropone una prospettiva pessimistica circa le conseguenze che
la razionalizzazione produttiva dell'impresa capitalistica
genererebbe, con una complessiva tendenza all'impoverimento dei
contenuti e delle condizioni di lavoro (v. Braverman, 1974). La
traiettoria della produzione snella, come abbiamo visto, va in una
direzione opposta e sollecita piuttosto la regolazione di un nuovo
rapporto tra lavoro e conoscenza, soprattutto per quanto concerne i
rapporti di lavoro e la gestione delle risorse umane nell'impresa.
Infatti, la regolazione del rapporto di lavoro, calibrata
sull'organizzazione taylor-fordista, si rivela inadeguata a
comprendere e regolare la prestazione di lavoratori impegnati in
attività di gestione di micro-obiettivi, conduzione di
impianti, integrazione organizzativa; e questo vale non solo per le
figure ad alta professionalità, ma anche per lavoratori meno
qualificati. Il rapporto tra lavoro e conoscenza viene sempre
più determinato dallo scambio di beni immateriali, e
ciò genera un crescente indebolimento dell'efficacia dei
contratti, a partire dalla capacità di aderire alle
condizioni materiali dell'organizzazione del lavoro e quindi alla
fenomenologia della prestazione individuale.
Inoltre, la divisione tecnica del lavoro produce sempre una
stratificazione del potere organizzativo; nei modelli snelli di
organizzazione del lavoro l'accesso al sapere può determinare
i confini entro i quali maturano nuove disuguaglianze e quindi nuovi
assetti di dominio, non più basati sulla standardizzazione
delle mansioni, ma sulla inclusione o esclusione dei singoli
lavoratori da opportunità di arricchimento del loro
patrimonio cognitivo e professionale. Questo rischio viene
ulteriormente aggravato dal ritardo nell'introduzione di nuovi
criteri di valutazione delle competenze professionali all'interno
degli stessi contratti di lavoro.
Sul versante della gestione delle risorse umane, occorre ricordare
che il lavoro contiene una particolare specificità: la
prestazione lavorativa è fisicamente inseparabile dalla
persona che la eroga, e questo rende cruciale il tema del consenso e
della cooperazione dei singoli. Il comportamento manageriale risulta
fortemente condizionato da questo 'vincolo' strutturale del lavoro
vivo, soprattutto alla luce del ruolo crescente e strategico assunto
dalla conoscenza nel governo dei processi produttivi. Si determina
nel management aziendale un mutamento nelle strategie di
costruzione del consenso, sempre meno orientate a oscurare i fattori
di conflitto che possono derivare dalla erogazione dello sforzo
fisico - come aveva efficacemente messo in rilievo Michael Burawoy
(v., 1979) osservando i "giochi di produzione" - e sempre più
impegnate a creare condizioni favorevoli per convertire il sapere
tacito dei singoli lavoratori (informazioni, pratiche, metodologie)
in conoscenze esplicite utilizzabili da tutta l'organizzazione,
attivando così un processo di espropriazione del patrimonio
professionale individuale.
Complessivamente, la debolezza dei meccanismi di regolazione del
rapporto tra lavoro e conoscenza e, non da ultimo, i ritardi nella
modifica dell'istituto contrattuale, hanno agevolato l'impegno delle
imprese nel riconfigurare unilateralmente i sistemi di gestione
delle risorse umane, prime fra tutte le misure di 'fidelizzazione'
dei lavoratori come parte integrante di una strategia più
complessiva di produzione del consenso aziendale. A fianco del
filone classico della scuola motivazionalista - che trae nuovamente
vigore dalla prospettiva del comunitarismo aziendale, anche in
relazione al fascino esercitato dalla prospettiva giapponese
dell'impresa-comunità (v. Dore, 1987), dove non è
trascurabile il ruolo che la cultura aziendale esercita nel
rafforzare il controllo normativo sui comportamenti individuali - si
sviluppano interventi finalizzati a produrre comportamenti
cooperativi per mezzo di un coinvolgimento dei dipendenti in
'processi distributivi' di natura economica e finanziaria. Questo
determina una accentuazione della flessibilità retributiva:
una parte del rischio di impresa viene incorporata nel salario -
attraverso forme di azionariato dei dipendenti, oppure, più
diffusamente, tramite l'agganciamento del salario a parametri
variabili di produttività, qualità e
redditività dell'impresa - quale contrappeso alla incertezza,
da parte del management, circa i risultati della
produzione.
Più limitata è l'esperienza della costruzione del
consenso attraverso modelli di coinvolgimento dei dipendenti tramite
la partecipazione collettiva ai 'processi decisionali' dell'impresa
o del sito produttivo (nel caso dell'impresa multisocietaria), che
invece presuppongono trasferimenti di quote di autorità dal management ai dipendenti e consentono a questi ultimi di esercitare un ruolo
attivo nella determinazione delle scelte organizzative, con
conseguenze sulla qualità della vita di lavoro (v. Baglioni,
2001).
La sfida della partecipazione nelle sue diverse articolazioni,
distributiva e decisionale, raccoglie insieme i nodi cruciali dei
mutamenti che hanno investito il lavoro e la sua organizzazione. In
particolare, il legame tra consenso e sapere ridefinisce i contorni
della conflittualità e della cooperazione nell'impresa, ma
apre anche la via alla sperimentazione di modalità
organizzative capaci di accrescere il potenziale di apprendimento,
arginare nuove disuguaglianze e riconoscere al lavoro vivo spazi di
autonomia ed emancipazione rimasti sinora allo stato di
potenzialità.
Diritto del lavoro di Mario Rusciano
sommario: 1. Il paradosso della fine del
lavoro e il cambiamento del diritto del lavoro. 2. Specialità
del diritto del lavoro e immutabilità del suo codice
genetico. 3. Lo scenario del cambiamento. a) Innovazione
tecnologica, trasformazioni economico-produttive e
flessibilità. b) II ruolo del sindacato. c) Dalla 'contrattazione' alla 'concertazione'. 4.
Terziarizzazione del conflitto e limiti allo sciopero nei servizi
essenziali. 5. Europeismo e regionalismo nel diritto del lavoro. 6.
L'evoluzione del sistema delle fonti. 7. Unione Europea e diritto
del lavoro. 8. Il policentrismo normativo: regionalizzazione e
delegificazione. 9. Nuove funzioni del contratto collettivo. 10. Il
primato della Costituzione a difesa dei diritti fondamentali dei
lavoratori. 11. Il ruolo della giurisprudenza: giudici, arbitri e Authorities.
12. L'estensione del diritto del lavoro. a) Tutela nel
contratto e nel mercato del lavoro. b) Dal lavoro ai
lavori. c) Diritto del lavoro e pubblico impiego.
13. Flessibilità delle tecniche giuridiche. a) Norma
inderogabile. b) Controllo sindacale. c) Norma
incentivante. d) Autonomia individuale. e) Soft
law. □ Bibliografia.
1. Il paradosso della fine del lavoro e il
cambiamento del diritto del lavoro
Nel passaggio dal XX al XXI secolo, alla svolta del millennio, non
manca chi, specie tra i sociologi, arriva a profetizzare la 'fine
del lavoro' e, dunque, del diritto del lavoro, quale insieme di
regole (legali e convenzionali) che disciplinano il fenomeno del
lavoro nella sua moderna complessità: dai rapporti
individuali a quelli collettivi e sindacali, dai meccanismi del
mercato del lavoro ai rischi esistenziali dei lavoratori durante e
dopo la vita lavorativa. Partendo dall'idea secondo cui
l'innovazione tecnologica (delle comunicazioni, dell'informatica,
ecc.) determinerà la progressiva sostituzione del lavoro
umano con macchine sempre più complete e perfette in quasi
tutti i settori produttivi, si giunge a ipotizzare un "mondo senza
lavoratori", tale da lanciare "la comunità mondiale nella
Terza grande rivoluzione industriale" e nell'"era post-mercato" (v.
Rifkin, 1995; tr. it., pp. 15-16).
Un'ipotesi del genere è paradossale: se non altro
perché il superamento di un certo modo di lavorare non
elimina la necessità del lavoro umano e non può,
quindi, tradursi nella scomparsa dei milioni di persone che, nelle
diverse attività produttive o nei servizi, rispondono a
questa necessità, impiegando le proprie energie alle
dipendenze (o, comunque, nell'interesse) di altri, allo scopo di
ottenere in cambio non solo un reddito, ma anche identità,
inclusione e promozione sociale. Tuttavia, quell'ipotesi fa
riflettere su un fenomeno evidente: il rapido cambiamento della
morfologia del lavoro, provocato dal cambiamento radicale
dell'organizzazione economica e produttiva, in corso da una ventina
d'anni (v. Accornero, 1994). Ovviamente, il cambiamento del lavoro
produce il cambiamento del diritto del lavoro. Mutando
modalità, quantità e qualità della prestazione
d'opera, mutano pure le condizioni economico-sociali e giuridiche
dello scambio tra lavoro e retribuzione: sia sul piano individuale,
sia su quello collettivo. Un cambiamento epocale, come vedremo.
2. Specialità del diritto del lavoro e
immutabilità del suo codice genetico
Per la verità, in Italia, il diritto del lavoro, nato dalla
rivoluzione industriale (fine Ottocento-primi Novecento), ha
conosciuto nell'arco di un secolo altri cambiamenti, analoghi se non
eguali, dovuti all'intrinseca natura di ramo del diritto capace di
registrare i fatti economico-politici e socio-antropologici legati
all'uso delle energie lavorative, per temperare, e non vanificare,
le istanze del sistema capitalistico del quale esso costituisce un
effetto e, nello stesso tempo, uno strumento essenziale (v.
Ascarelli, Norma..., e Ordinamento..., 1959).
La subalternità del diritto del lavoro (soprattutto)
all'economia, se per un verso lo costringe a cambiare spesso
'pelle', a ridefinire i suoi confini, a rivedere costantemente le
sue tecniche, per un altro verso ne rende immutabile la ratio naturale: proteggere chi, non possedendo altro che energie
psico-fisiche, le offre a chi, potendo invece permettersi
economicamente un'organizzazione produttiva o personale, domanda di
'comprare' o 'affittare' (secondo le concezioni dei giuristi di
inizio Novecento) le medesime energie per utilizzarle a propri fini.
È vero che, dal punto di vista giuridico, questo scambio
avviene con un contratto, ma è vero pure che, nel contratto
di lavoro, i soggetti contraenti solo formalmente sono eguali;
sostanzialmente, invece, il lavoratore è, per definizione,
contraente debole: se vuole lavorare, deve accettare le condizioni
del datore di lavoro, il cui 'dispotismo contrattuale' nasce dal
fatto che molte persone sono disposte a lavorare a quelle
condizioni. Inoltre, a differenza degli altri rapporti obbligatori,
nel rapporto che nasce dal contratto di lavoro come contratto di
durata, anzitutto, sono implicati non soltanto valori economici, ma
anche la persona del lavoratore, dato il carattere personale
dell'adempimento, nel tempo, dell'obbligazione lavorativa; e, in
secondo luogo, è il creditore a decidere - quasi momento per
momento - la prestazione del debitore. Il lavoratore, infatti,
è "legato da un vincolo che, fra tutti i vincoli di contenuto
patrimoniale, è il solo a porre, sia pure per
necessità istituzionale, un soggetto alle dipendenze di un
altro soggetto" (v. Santoro Passarelli, 1985, p. 17). Questa
specialità del rapporto (non a caso concepito, all'inizio,
come locatio operarum) spiega la specialità del
diritto del lavoro (v. Scognamiglio, 1960), caratterizzato dalla
penetrante ingerenza della legge (e della contrattazione sindacale)
nell'autonomia negoziale individuale. E spiega la compresenza, in
esso, di modelli e logica sia del diritto privato, sia del diritto
pubblico. Inoltre, siccome l'organizzazione produttiva richiede
l'impiego di molti lavoratori, particolare rilievo assume la
dimensione sociale del rapporto di lavoro: quanti, per vivere, sono
legati da un rapporto di lavoro con un imprenditore, ben presto si
coalizzano per rivendicare più denaro e più potere,
sostituendo così alla debolezza del singolo la forza del
gruppo. Dalla sintesi degli interessi individuali di un gruppo
omogeneo nasce l'interesse collettivo, pietra angolare
dell'organizzazione sindacale nelle sue varie articolazioni (di
azienda, di mestiere, di categoria e confederale), la quale mira
appunto a contrattare collettivamente con la controparte migliori
condizioni di lavoro e di vita: se necessario, sostenendo le
rivendicazioni con la lotta, anche aspra (sciopero, ecc.).
Con un fenomeno sociale di queste proporzioni devono fare i conti
tutte le ideologie politiche del XX secolo. Ecco perché,
storicamente, nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista
(instauratore, dal 1926, dell'ordinamento corporativo) e poi, da
questo, allo Stato sociale, fondato sulla Costituzione repubblicana
del 1948 - frutto dell'intesa antifascista tra cattolici, comunisti,
socialisti e liberali -, ciò che cambia, nel diritto del
lavoro, è il segno, l'intensità o, se si vuole, la
filosofia della tutela, ma resta inalterato, almeno in linea
teorica, il suo codice genetico di ordinamento protettivo di quanti
traggono dal lavoro i mezzi di sussistenza: insomma, un "diritto a
misura d'uomo" (v. Romagnoli, 1995, p. 19). In tal senso il diritto
del lavoro serve a tenere sotto controllo l'antica questione
sociale, che cambia storicamente, ma continuamente si ripropone e
costringe il legislatore a intervenire per motivi di ordine
pubblico, per evitare, cioè, che le insopprimibili tensioni
tra datori di lavoro e lavoratori in merito a una distribuzione equa
(tra profitti e salari) della ricchezza prodotta sfocino in veri
scontri sociali, sempre deleteri per la crescita economica e civile
di una democrazia industriale.
3. Lo scenario del cambiamento
a) Innovazione tecnologica, trasformazioni economico-produttive
e flessibilità
Le trasformazioni del diritto del lavoro negli ultimi vent'anni,
oltre che alla crisi economica di fine anni settanta-primi anni
ottanta - la quale ha reso predominanti, per le imprese, gli
obiettivi della riduzione del costo del lavoro e dell'aumento della
produttività - sono da imputare alla diffusione delle nuove
tecnologie che hanno provocato ristrutturazioni e riconversioni
aziendali senza precedenti. L'innovazione tecnologica, come è
noto, incide pesantemente sulla prestazione di lavoro. Gli strumenti
elettronici e informatici o si sostituiscono del tutto al lavoro
umano, oppure, pur semplificando e velocizzando il processo
produttivo, impongono ai lavoratori nuovi ritmi, sottoponendoli, per
giunta, a nuovi e penetranti controlli che spesso ne compromettono
la privacy. Di conseguenza, o i lavoratori vengono espulsi
da tale processo, oppure la prestazione diviene meno faticosa in
senso tradizionale e più faticosa in senso moderno, aprendo
nuovi problemi di sicurezza del lavoro. In ogni caso, si verificano
straordinari sommovimenti sociali: chi conserva il lavoro deve
accettare ritmi e vincoli nuovi; chi lo perde deve riciclarsi per
trovare altra occupazione, magari facendo, anziché l'operaio
metalmeccanico, il maestro di tennis!
Ma la diffusione delle nuove tecnologie, per intuibili reazioni a
catena, incide sul sistema economico anche in altri sensi. Col
superamento dei confini geografici e delle barriere nazionali, essa
rivoluziona i mercati di beni e servizi, ne favorisce la
globalizzazione e provoca fusioni societarie, decentramenti
produttivi, trasferimenti d'azienda ed esternalizzazioni, tutte
iniziative capaci di fronteggiare - si ritiene - la spietata
competizione mondiale tra imprese e, persino, tra sistemi produttivi
nazionali. Non esistendo autorità sovranazionali e regole
universali di governo della globalizzazione, sono le grandi
società multinazionali, guidate dalla logica privatistica
della convenienza, a dettare legge in materia, attraverso scelte
economico-finanziarie che sconvolgono mercati e occupazione.
Si tratta infatti di scelte che, oltre ad accendere nuove
conflittualità sociali da un capo all'altro della Terra (si
pensi al fenomeno del movimento no global, ecc.),
comportano di solito esuberi di manodopera, spesso professionalmente
'vecchia', e licenziamenti per riduzione di personale.
Parallelamente, le migrazioni di proporzioni bibliche dall'Est e dal
Sud del mondo verso l'Occidente consentono lo sfruttamento di
ingenti masse di immigrati, disposti a fare qualunque lavoro
(regolare o irregolare, e soprattutto i lavori umili) che i
cittadini della società opulenta si rifiutano di fare,
sebbene si tratti spesso di lavoratori espulsi dal sistema
industriale in età matura e quindi incapaci di apprendere un
nuovo mestiere per mantenersi attivi. Senza contare che, negli
ultimi trent'anni, il mercato del lavoro ha visto, in tutti i
settori, un incremento della presenza (non più irregolare)
delle donne, grazie al cambiamento culturale di fine anni sessanta.
Si tratta di processi di enorme portata, che stanno generando vere e
proprie mutazioni socio-antropologiche, con notevoli costi umani.
Tra di essi, due meritano una particolare attenzione, se si vuol
comprendere il cambiamento del lavoro e del diritto del lavoro. In
primo luogo, la sostituzione della grande impresa
taylorista-fordista con piccole unità produttive che
utilizzano pochi addetti, spesso temporanei. In secondo luogo, la
terziarizzazione dell'economia, con il conseguente spostamento
dell'occupazione dall'industria ai servizi. Al centro di questi
fenomeni sta l'esigenza di flessibilità del lavoro (mansioni,
tempi e luogo della prestazione, ecc.), indispensabile al nuovo modo
di produrre e di organizzare i servizi (dal commercio al terziario
avanzato, ai servizi del tempo libero, ecc.).
Tutto ciò rivoluziona non solo modi e tempi di lavoro, ma
anche stili di vita, fino a mettere in discussione i modelli
culturali fondati sulla stabilità del lavoro in fabbrica.
Tramonta la classica figura sociale del 'lavoratore' -
maschio-capofamiglia, occupato a tempo pieno e indeterminato
nell'industria privata, per lo più di dimensione medio-grande
- da sempre tipica destinataria della tutela del diritto del lavoro
(v. D'Antona, 1998), e con essa tramonta il diritto del lavoro nato
nell'industria, mentre prendono forma nuove regole plasmate sulle
esigenze produttive più diverse. Si apre così la
'stagione della flessibilità'.
b) Il ruolo del sindacato
Prima ancora che sulla politica del diritto del lavoro, la stagione
della flessibilità ha pesanti effetti sul sistema dei
rapporti sindacali, concepito in Italia, dagli anni sessanta in poi,
come ordinamento autonomo rispetto all'ordinamento dello Stato
(seppure con questo collegato). Tale concezione si basa su una
lettura, realistica e avanzata, del 1° comma dell'art. 39 della
Costituzione - secondo cui "l'organizzazione sindacale è
libera" - e sulla mancata attuazione dei commi successivi al primo,
nei quali si disegnava un meccanismo di riconoscimento statale dei
sindacati, mediante registrazione di quelli 'democratici', e di
rappresentanza unitaria proporzionale dei medesimi, per la
stipulazione di contratti collettivi erga omnes (v.
Giugni, 1960). La centralità del sistema sindacale autonomo,
nel diritto del lavoro, costituisce un dato indiscusso (per il
legislatore, per la dottrina e per la giurisprudenza) finché
le maggiori Confederazioni sindacali (CGIL, CISL, UIL) riescono ad
aggregare gli interessi collettivi di milioni di lavoratori delle
grandi imprese industriali e delle grandi categorie operaie. Grazie
all'omogeneità, di massima, degli interessi rappresentati,
non è difficile l'identificazione dell'interesse del singolo
lavoratore con un interesse collettivo ampio, che per tradizione il
sindacato difende, seguendo soprattutto il paradigma degli operai
dell'industria. Ma la scomparsa della grande fabbrica e della figura
antropologica del lavoratore standard, nonché l'atomizzazione
del lavoro fuori della fabbrica diversificano e frammentano gli
interessi di chi lavora, rendendo assai difficile il compito di
aggregarli. A questa difficoltà si aggiunge la comprensibile
ritrosia dei lavoratori flessibili a iscriversi al sindacato,
ritrosia dovuta alla diffidenza, alle discriminazioni e alle
rappresaglie da parte dei datori di lavoro. Precarietà del
lavoro e moltiplicazione di nuovi mestieri, gruppi e categorie
professionali abbassano l'indice di sindacalizzazione, dando vita,
però, a nuove conflittualità, tanto da far prevedere
che in futuro più diversificato, diffuso e precario
sarà il lavoro, più spontaneo, multiforme e
incontrollabile sarà il conflitto. In altre parole, è
difficile pensare che i modelli variabili di organizzazione del
lavoro e di uso delle risorse umane - tra i quali il datore di
lavoro può scegliere a suo piacimento, aggravando la
solitudine e la debolezza contrattuale del lavoratore - non
finiscano col rompere la coesione sociale cementata da eguaglianza e
solidarietà, pilastri dell'esperienza collettiva del lavoro e
dell'ordinata convivenza civile.
Logicamente, il superamento della grande impresa, la diffusione di
piccole unità produttive (con pochi addetti e assenza
sindacale), la terziarizzazione dell'economia e la gestione
più flessibile di criteri e regole di scambio della
forza-lavoro rendono ormai inutile o impraticabile il controllo
sindacale dei poteri del datore nei luoghi di lavoro (previsto dallo
Statuto dei lavoratori, legge 20 maggio 1970, n. 300, e plasmato sul
ricordato modello di relazioni industriali nella grande impresa di
quarant'anni fa), vera linfa del potere sindacale. Ciò mette
in crisi quel congegno, tipico del diritto del lavoro (e fissato,
appunto, nello Statuto), per cui tutela individuale e tutela
collettiva dei lavoratori interagiscono in un sistema circolare:
attraverso il potenziamento del sindacato, come contropotere
nell'impresa, si arriva a rendere effettivo l'esercizio dei diritti
individuali e, attraverso la garanzia legale dei diritti individuali
dei lavoratori, specie del diritto alla stabilità reale del
posto di lavoro (art. 18 dello Statuto), si rafforza
l'attività sindacale nei luoghi di lavoro.
Ora la crisi del sindacalismo operaio fa vacillare lo storico ruolo
sociale del sindacato (v. Cella, 1999, p. 111). In effetti esso vive
oggi una crisi senza precedenti - e, secondo alcuni, addirittura
irreversibile - anche a causa di vecchi nodi non risolti. Primo fra
tutti il problema della rappresentanza sindacale (v. Rusciano, 2003,
pp. 216 ss.), al quale il legislatore ha tentato di rispondere in un
primo tempo, negli anni settanta, attraverso il ricorso alla figura
del sindacato maggiormente rappresentativo, e poi, vista la crisi di
tale criterio (culminata con l'abrogazione referendaria, nel 1995,
della lettera a dell'art. 19 dello Statuto dei lavoratori),
attraverso la recente introduzione della figura del sindacato
comparativamente più rappresentativo. Tuttavia, queste figure
sono adatte a fasi in cui la rappresentatività è
indiscussa o abbastanza accettata dalla coscienza collettiva; ma
quando è messa in dubbio la legittimazione stessa del
sindacato, è giocoforza andare alla ricerca di nuovi criteri,
tanto di aggregazione degli interessi collettivi, quanto di
acquisizione e misurazione del consenso (democrazia sindacale). Non
meraviglia, allora, che il sindacato stesso fatichi, oggi, a trovare
la strada per farsi portatore di interessi più ampi, non solo
tra i lavoratori occupati, ma anche tra quelli aspiranti a
un'occupazione e persino tra i pensionati.
A queste figure standard vanno inoltre aggiunti i lavoratori
flessibili, nonché quelli para-subordinati o coordinati e
continuativi. Per questa via, il sindacato finirà col
rappresentare l'istanza protettiva del "lavoratore in quanto
cittadino" (v. Romagnoli, 2001, p. 818). Del resto, già da
qualche tempo, esso si atteggia anche a erogatore di servizi
(assistenza legale, fiscale, ecc.). Questa penetrazione sindacale
nel nuovo mondo del lavoro non scioglie di per sé i nodi
della rappresentatività e della democrazia sindacale, per
risolvere i quali occorre un (non facile) intervento legislativo, da
tempo atteso. Perciò lascia perplessi la strada del tutto
diversa, imboccata dal legislatore con la legge 14 febbraio 2003, n.
30, e con il relativo decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276:
che, senza nulla stabilire circa i criteri di misurazione della
rappresentatività e di sostegno della democrazia sindacale,
assegnano comunque al sindacato nuove funzioni istituzionali, le
quali richederebbero, invece, proprio la fissazione di codesti
criteri. E infatti, prevedere la partecipazione 'insieme' alla
contrapposta rappresentanza datoriale, a 'enti' od 'organismi
bilaterali' - con compiti di mediazione tra domanda e offerta di
lavoro, di formazione, di certificazione del tipo di rapporto di
lavoro e di attestazione dell'esercizio, da parte del lavoratore,
del potere dispositivo dei propri diritti, ecc. - significa affidare
al sindacato funzioni parapubbliche. Le quali, oltre a essere
estranee al nostro attuale sistema (evocando, anzi, la passata
esperienza corporativa), trovano il sindacato medesimo non
attrezzato giuridicamente. In realtà, per essere esercitate
con efficacia, tali funzioni esigono appunto certezza giuridica
sulla rappresentatività e sulla democrazia sindacale.
c) Dalla ' contrattazione' alla 'concertazione'
L'inserzione del sindacato in un ente bilaterale, con funzioni
parapubbliche, esprime bene la metamorfosi e la confusione della
rappresentanza degli interessi generate dalle trasformazioni del
lavoro. La stessa inserzione, peraltro, è coerente con una
stagione politica incline a ridisegnare il ruolo del sindacato,
alterandone l'identità: nell'ente bilaterale,
l'alterità delle posizioni rappresentative dei contrapposti
interessi si smarrisce nella forzosa ricerca di posizioni comuni.
Insomma, le difficoltà, per il sindacato, di svolgere il
ruolo genuino di rappresentante degli interessi collettivi omogenei
dei lavoratori (di una categoria, di un'impresa), secondo il modello
della partecipazione conflittuale, lo caricano, per uno strano gioco
di compensazione, di ruoli nuovi, per lo più istituzionali:
da quello di semplice interlocutore dei pubblici poteri a quello di
gestore di funzioni, nell'ente bilaterale. E difatti nell'ultimo
decennio, mentre prende corpo, come vedremo, una tendenza
legislativa a investire di nuove funzioni la contrattazione
collettiva, si diffonde pure il metodo della concertazione sociale:
i pubblici poteri mirano ad acquisire consenso sulle impopolari
decisioni di politica economica, con il coinvolgimento
responsabilizzante del sindacato e delle associazioni
imprenditoriali. Il cosiddetto 'modello neocorporativo' si comincia
ad affermare proprio con la conclusione di grandi accordi
triangolari (per lo scambio politico-economico tra governo,
imprenditori e sindacati), i cui contenuti influenzano poi
legislazione e contrattazione.
Negli accordi di concertazione dell'ultimo decennio (il Protocollo
sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti
contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema
produttivo, del 23 luglio 1993; l'Accordo per il lavoro,
del 24 settembre 1996; il Patto sociale per lo sviluppo e
l'occupazione, del 22 dicembre 1998, il cosiddetto 'Patto di
Natale'; il Patto per l'Italia - Contratto per il
lavoro, del 5 luglio 2002) temi cruciali, come la politica
dei redditi e di contenimento dell'inflazione, si intrecciano con
nuovi obiettivi e priorità: dalla politica della spesa
pubblica e dell'occupazione, alla riforma del mercato del lavoro (e,
più in generale, del Welfare State), dalla
previsione di assetti della contrattazione collettiva (con una
precisa distinzione di competenze tra contrattazione nazionale e
decentrata), sino alla formalizzazione delle procedure della stessa
concertazione (nel 'Patto di Natale' del 1998). Alla fine degli anni
ottanta e negli anni novanta, poi, la concertazione, oltre che a
livello 'macro' (di sistema economico), si è sviluppata a
livello 'meso' (di categoria) e 'micro' (di impresa), dando vita sia
a una contrattazione aziendale, orientata alla partecipazione dei
lavoratori, sia a una nuova contrattazione territoriale, che si
traduce nei patti territoriali e nei contratti d'area.
Il modello neocorporativo, se mantenuto entro confini sorvegliabili,
ha dei vantaggi: basta ricordare che, senza gli accordi del
1992-1993 tra governo e parti sociali, l'Italia non avrebbe
raggiunto una situazione economica compatibile con i parametri di
Maastricht per la realizzazione dell'unità monetaria europea.
Ma con questo modello, mentre si rafforza il sindacato-istituzione,
fatalmente si indebolisce il sindacato-movimento: lo squilibrio tra
queste due anime, specie in una stagione politica che presenta i
tratti prima richiamati, è socialmente nefasto, perché
accentua sia l'antagonismo sociale di aggregazioni spontanee o
extrasindacali (Cobas, Rappresentanze di base, ecc.), sia i
conflitti endosindacali, fino a spaccare l'interesse dei lavoratori:
un tempo divisi da ragioni ideologiche, oggi divisi da un
bipolarismo politico all'italiana, non privo di contraddizioni (si
veda il Patto per l'Italia del 5 luglio 2002, firmato
dalla CISL e dalla UIL e contestato duramente dalla CGIL).
4. Terziarizzazione del conflitto e limiti allo
sciopero nei servizi essenziali
La terziarizzazione dell'economia, di cui si è detto,
comporta la terziarizzazione del conflitto sociale: l'asse del
conflitto si sposta dall'industria ai servizi. Qui la frammentazione
degli interessi collettivi è vistosa: fioriscono più
sindacati autonomi, di taglio corporativo, magari con pochi
iscritti, ma con grande potere vulnerante, dato il tipo di
organizzazione del lavoro. Ora, quando il conflitto tocca servizi
pubblici essenziali, dove l'utenza è più vulnerabile,
oltre che inerme, la necessità di tutelare l'interesse
generale diviene ineludibile (v. Treu, 2001, p. 221). Fallito il
tentativo delle Confederazioni sindacali, vent'anni fa, di
raggiungere, con l'autoregolamentazione, l'ambizioso obiettivo di
contemperare diritto di sciopero (ex art. 40 Cost.) e
diritti dei cittadini costituzionalmente tutelati, è
intervenuta la legge 12 giugno 1990, n. 146 (in parte modificata
dalla legge 11 aprile 2000, n. 83). Una normativa di grande rilievo
politico-sindacale e tecnico-giuridico: in essa si sceglie un
meccanismo di regolazione adeguato alla complessità e
delicatezza del fenomeno da regolare e all'esigenza di rispetto
concreto delle regole. Quelle legali sono ridotte al minimo
(preavviso di sciopero, comunicazione della durata, delle
modalità di attuazione e delle motivazioni), mentre il
compito più importante, cioè l'individuazione delle
prestazioni indispensabili in caso di sciopero, è affidato
alla contrattazione (ai cosiddetti 'accordi sulle prestazioni
indispensabili'), la quale, riferendosi a specifiche realtà
organizzative, produce regole diversificate (per settore, azienda,
ente, categoria) aderenti al contesto e accettate dai destinatari.
Completa il meccanismo regolativo l'istituzione di un'apposita
Commissione di garanzia dell'attuazione della legge, cui spetta
valutare l'idoneità degli accordi, dettare una provvisoria
regolamentazione (quando mancano gli accordi), segnalare
all'autorità amministrativa le misure necessarie, da adottare
con apposita ordinanza (la vecchia precettazione), per evitare "un
pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona
costituzionalmente tutelati" (art. 8, l. 146), e infine comminare
sanzioni, collettive e individuali, in caso di violazione delle
regole.
5. Europeismo e regionalismo nel diritto del
lavoro
Sul diritto del lavoro degli ultimi anni hanno inciso anche i
cambiamenti del quadro politico-istituzionale, dovuti alla parallela
crescita, nella vita economica e sociale, della dimensione europea e
della dimensione locale (tendenze solo apparentemente contrastanti,
perché l'ampliamento dei confini geografici accresce, nelle
persone, tanto l'aprirsi al mondo, quanto il rinchiudersi nei
confini della propria realtà territoriale). Da una parte,
dunque, il processo di integrazione comunitaria (culminato a
Maastricht, nel 1992, con l'istituzione dell'Unione Europea, e
rafforzatosi ad Amsterdam, nel 1997, e a Nizza, nel 2000) comporta
l'apertura delle frontiere del diritto del lavoro, non potendo certo
esso restare, nell'era della globalizzazione, un diritto
esclusivamente nazionale, chiuso entro i confini dello Stato.
Dall'altra parte, il progressivo affermarsi, a livello nazionale,
della cultura del federalismo - basata sull'idea che lo sviluppo
economico e sociale deve contare prevalentemente sulle risorse
(economiche, umane) delle comunità locali ed essere gestito
dai poteri locali - fa sempre più sentire, negli ultimi anni,
l'esigenza di una maggiore rilevanza delle realtà
territoriali anche nel diritto del lavoro.
L'istanza di federalismo trova il suo sbocco politico-istituzionale
nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che riforma, in
modo tecnicamente criticabile, il titolo V, parte II, della
Costituzione nel duplice senso: a) di realizzare un nuovo e
paritario riparto di competenze legislative tra Stato e Regione,
attribuendo a quest'ultima un'ampia potestà legislativa,
nonché la potestà regolamentare (art. 117); b) di
costituzionalizzare il 'principio di sussidiarietà' (art.
118), con l'ampliamento delle funzioni amministrative di Regioni ed
Enti locali (il cosiddetto 'federalismo amministrativo'; v.
Mariucci, 2001). La Regione assume una posizione centrale nel nuovo
assetto istituzionale, con ripercussioni sulle fonti del diritto,
anche del lavoro, e col rischio di aumentare, anziché
ridurre, antichi divari territoriali.
6. L'evoluzione del sistema delle fonti
I mutamenti del quadro istituzionale si ripercuotono sulle fonti del
diritto, sebbene il diritto del lavoro ne risenta meno, in quanto in
esso, accanto alle fonti in senso formale (Costituzione, legge,
normativa subprimaria), hanno da sempre notevole peso le fonti in
senso materiale: dalle prassi sindacali di partecipazione e
concertazione - al centro delle quali si collocano contratti
collettivi e accordi sindacali - alla giurisprudenza. A dire il
vero, nell'ultimo ventennio, pure i metodi e i contenuti delle fonti
in senso materiale vengono messi a dura prova dalle trasformazioni
del lavoro e dalla frammentazione degli interessi che ne deriva,
perché si reggono proprio sulla coesione e su un certo
stabile equilibrio degli interessi. Ciò rende complicate
tanto la contrattazione, quanto le decisioni giurisprudenziali,
condizionate dalla realtà economico-produttiva, ma nello
stesso tempo tese a incidere, a loro volta, su tale realtà,
onde evitarne pericolose distorsioni sociali. Sta di fatto che, in
un contesto del genere, l'operazione non è semplice, sebbene
soltanto la contrattazione e la giurisprudenza possano davvero
ricondurre a sistema armonico tante regole, originate dall'intreccio
di atti formali e comportamenti materiali. Specie in tempi critici,
il piano formale prevale, benché talmente affastellato (per
il moltiplicarsi di 'atti', 'fatti' e 'livelli' di formazione delle
regole) da mettere in difficoltà gli interpreti e gli
operatori più esperti. A ogni modo, può dirsi che
oggi, alla stregua dell'intera produzione giuridica (formale e
materiale), il diritto del lavoro si presenti a tre dimensioni:
europea, regionale e nazionale (che resta comunque la più
consistente).
7. Unione Europea e diritto del lavoro
Nella produzione giuridica sul lavoro è penetrata una logica
europea, in virtù dei condizionamenti dell'Unione Europea, a
partire dai contenuti dello stesso Trattato istitutivo della
Comunità Europea, nella versione modificata dei Trattati di
Maastricht, nel 1992, di Amsterdam, nel 1997, e di Nizza, nel 2000
(come, per esempio, la compatibilità delle regole nazionali
sul lavoro col diritto comunitario della concorrenza: in proposito,
v. Sciarra, 2000). Condizionamenti che aumenteranno (assieme alle
difficoltà politiche) con l'allargamento dell'Unione ai paesi
che attendono di farne parte e che hanno ordinamenti diversi, oltre
ad avere differenti caratteristiche socio-antropologiche ed
economiche e, in genere, più bassi standard di tutela del
lavoro (retribuzioni, ecc.). Ma, già oggi, il diritto del
lavoro deve adeguarsi ai minimi di tutela, dettati dalle direttive
comunitarie - sempre più numerose negli ultimi anni, e
riguardanti una varietà crescente di profili del rapporto e
del mercato del lavoro (per esempio: pari opportunità,
congedi parentali, sicurezza nei luoghi di lavoro, trasferimenti
d'azienda, rapporti flessibili, ecc.) -, per le quali esiste, per
gli Stati membri, l'obbligo di trasposizione negli ordinamenti
interni.
Questa influenza del diritto comunitario sul diritto del lavoro
nazionale, iniziata nella seconda metà degli anni settanta -
in coincidenza con una maggiore sensibilità della
Comunità per la tutela del lavoro nelle crisi economiche e
ristrutturazioni industriali - si è intensificata negli
ultimi anni, con l'apertura dell'Unione Europea alla politica
sociale, realizzatasi dapprima col Protocollo sociale allegato al
Trattato di Maastricht del 1992, e in seguito con le modifiche al
Trattato istitutivo della CE, contenute nel Trattato di Amsterdam
del 1997 e nel Trattato di Nizza del 2000 (v. Roccella e Treu,
2002). Ormai l'influenza comunitaria sugli ordinamenti nazionali
(che, come vedremo, riguarda contenuti e tecniche giuridiche) si
può considerare diffusa, sebbene talora politicamente
strumentalizzata: non più solo circoscritta, cioè, al
rispetto di regole e limiti, posti da fonti vincolanti, ma
esercitata, da una parte, mediante la stessa azione comunitaria -
che spesso è accompagnata dalla predisposizione di atti e
documenti di varia origine ed efficacia (raccomandazioni, libri
bianchi, ecc.) - e, dall'altra, mediante la promozione del
cosiddetto 'dialogo sociale europeo', considerato uno strumento
privilegiato con cui perseguire l'equilibrio di interessi richiesto
per contemperare competitività e socialità a livello
comunitario (v. Treu, 2001, p. 91). Del resto, l'unica
controindicazione all'adeguamento al diritto comunitario del diritto
nazionale - l'eventuale abbassamento del livello delle tutele
previste da quest'ultimo - viene evitata mediante il 'principio di
non regresso' (inserito nelle direttive sociali), per cui il diritto
nazionale prevale, in tal caso, su quello comunitario.
8. Il policentrismo normativo: regionalizzazione e
delegificazione
Nell'ordinamento interno del lavoro, il cosiddetto 'policentrismo
normativo' prende forma insieme all'affermarsi del livello europeo
della produzione di regole e all'esigenza di una nuova distribuzione
del carico legislativo tra i livelli nazionale e regionale:
distribuzione che modifica il tipico tratto statuale e nazionale del
diritto del lavoro, per effetto della non felice riforma del titolo
V della Costituzione. Ma, sforzandosi di guardare in positivo tale
riforma, la valorizzazione del livello regionale può offrire
l'opportunità di un avvicinamento di alcuni aspetti del
diritto del lavoro alle realtà economico-sociali dei diversi
territori, cosa che in precedenza avveniva soltanto attraverso la
contrattazione locale (patti territoriali, contratti d'area, ecc.),
oppure attraverso la devoluzione alle Regioni di potere normativo
attuativo e tramite il decentramento di funzioni e compiti
amministrativi.
Sia chiaro: il nucleo duro del diritto del lavoro - vale a dire la
disciplina del contratto individuale e le garanzie minime di tutela
del lavoro - continua a essere di competenza 'esclusiva' del
legislatore nazionale (facendo parte dell'"ordinamento civile" e dei
"livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale": così, testualmente, l'art. 117, comma 2, lett. l
ed m della Costituzione), mentre le Regioni acquistano competenza
legislativa 'concorrente' in talune materie, riconducibili ai
profili amministrativi della "tutela e sicurezza del lavoro" (v.
Rusciano, 2001), e competenza 'esclusiva' per altre (come, per
esempio, la formazione).
Il nuovo ruolo che si va delineando per le Regioni in materia di
lavoro, se da un lato, come già detto, consente di dar vita a
discipline più rispondenti a specifiche esigenze
territoriali, dall'altro comporta qualche rischio: quello, in
particolare, di una 'balcanizzazione' del diritto del lavoro,
risultante da talune letture troppo audaci e disinvolte del
principio di sussidiarietà, le quali conducono alla
disuguaglianza regionale eletta a sistema (a discapito delle regioni
meridionali), che può risultare assai insidiosa per la
coesione sociale e, in ultima analisi, per gli stessi interessi
economici nazionali.
Oltre che della spinta verso la regionalizzazione, il policentrismo
normativo è conseguenza della tendenza alla delegificazione,
all'attribuzione cioè, da parte del legislatore, del potere
di regolare materie prima disciplinate dalla legge a fonti
subprimarie (i regolamenti 'autorizzati' o 'di delegificazione').
È vero che gli obiettivi di questo processo -
diversificazione, semplificazione e snellezza normativa - sono
apprezzabili sul piano della tecnica legislativa in generale, e
quindi anche per il diritto del lavoro, ma è altrettanto vero
che il medesimo processo contiene il germe della frammentazione,
assai pericoloso per un ordinamento che voglia garantire un certo
livello di eguaglianza sostanziale, solidarietà e pace
sociale, in un delicato equilibrio di interessi e valori.
9. Nuove funzioni del contratto collettivo
Quando si parla di delegificazione, nel diritto del lavoro, si
allude anche all'attribuzione di potere normativo ai contratti
collettivi. Questo metodo, nella sua versione moderna, viene
utilizzato a cavallo degli anni settanta e ottanta e si afferma
pienamente nella seconda metà degli anni ottanta e negli anni
novanta, come conseguenza sia dei cambiamenti economici,
organizzativi e produttivi - che richiedono discipline concordate e
differenziate, secondo le diverse situazioni concrete -, sia della
valorizzazione di principio degli accordi sindacali a opera della
legislazione promozionale degli anni settanta (in primis,
dello Statuto dei lavoratori). E così, sempre più
spesso il legislatore, invece di intervenire direttamente in una
materia, delega agli accordi sindacali la funzione di attuare,
integrare o sostituire la normativa di determinati istituti, per lo
più in tema di mercato del lavoro e di gestione delle crisi
aziendali, talora riconoscendo al contratto collettivo la
facoltà di introdurre discipline peggiorative rispetto a
quelle di legge. Tale orientamento nasce, per un verso, dalla
necessità di coinvolgere il sindacato nell'adozione di misure
forse vantaggiose per l'economia, ma non vantaggiose, almeno
nell'immediato, per i singoli lavoratori (v. Mengoni, 1988, p. 25),
e, per altro verso, dalla natura della contrattazione collettiva,
che oltre a costituire il luogo naturale del contemperamento delle
esigenze dell'impresa e di quelle dei lavoratori, riesce anche a
soddisfare il bisogno di elasticità e di adattamento delle
regole alle diverse situazioni particolari.
Il contratto collettivo, da strumento di autoregolazione degli
interessi delle contrapposte parti sociali, nato per svolgere la
funzione normativo-acquisitiva, assume allora anche nuove funzioni
(v. Persiani, 1999): da quella definita 'di autorizzazione', che
concede alle parti individuali di scegliere un tipo contrattuale
flessibile (per esempio, art. 23, legge 28 febbraio 1987, n. 56, sul
contratto a termine; legge 24 giugno 1997, n. 196, sul lavoro
interinale; legge 18 dicembre 1984, n. 863, e decreto legislativo 25
febbraio 2000, n. 61, sul part time), a quella chiamata
'gestionale' o 'ablativa', per la gestione di crisi e
ristrutturazioni aziendali che hanno inevitabili ricadute
occupazionali (per esempio, il contratto di solidarietà
difensivo, ex art. 1, legge 863 del 1984; gli accordi
sindacali sui criteri di scelta dei lavoratori da licenziare
collettivamente, ex art. 5, comma 1, legge 23 luglio 1991,
n. 223); dalla funzione di individuare le prestazioni indispensabili
in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali (legge 12 giugno
1990, n. 146), a quella relativa alla disciplina del lavoro nelle
pubbliche amministrazioni (decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165); a quella, infine, più recente e assai importante, di
attuazione delle direttive comunitarie (ex art. 137, par.
3, del Trattato CE in precedenza citato).
Il moltiplicarsi delle funzioni del contratto collettivo conferma la
rilevanza, nel diritto del lavoro, del ruolo svolto dalla fonte
extrastatuale autonoma, accanto alle classiche fonti eteronome. In
molti casi, il contratto collettivo viene a essere lo strumento
tecnico-giuridico di acquisizione del consenso a politiche
legislative che avrebbero avuto difficoltà a realizzarsi
compiutamente nella sola dimensione eteronoma, al di fuori
cioè della tipica espressione dell'autonomia sociale. In
queste ipotesi, però, è evidente che la cura degli
interessi pubblici (o, se si vuole, il perseguimento dell'interesse
generale, richiesto alla contrattazione) comporta inevitabilmente la
riduzione, da parte del legislatore, degli spazi di tale autonomia,
che appare così vincolata nei fini. La contrattazione,
indirizzata dalla legge nello svolgimento dei compiti regolativi a
essa delegati, non di rado viene, per così dire,
funzionalizzata: emblematico l'esempio del contratto collettivo del
pubblico impiego ex decreto legislativo 165 del 2001 (v.
Rusciano, 2003) o quello degli accordi sulle prestazioni
indispensabili ex legge 146 del 1990.
È appena il caso di notare, a questo proposito, che
l'arricchimento dei contenuti e delle funzioni del contratto
collettivo non è privo di paradossi: oltre a quello,
già segnalato, di sottolineare il ruolo istituzionale del
sindacato, va ricordato il paradosso della sproporzione tra il ruolo
sostanziale di fonte giuridica del contratto collettivo e la sua
natura privatistica, che molti si ostinano a qualificare 'di diritto
comune' perché in alcuni casi ha un'efficacia limitata ai
soli aderenti alle associazioni stipulanti. Infine, va segnalato il
paradosso dell'inadeguatezza delle soluzioni di volta in volta
adottate provvisoriamente dal legislatore, mentre si avverte sempre
più la necessità di individuare criteri certi di
legittimazione dei soggetti sindacali, al fine di evitare, per
esempio, che l'intensificarsi della contrattazione gestionale
(ablativa) mini alla base la funzione di rappresentanza del
sindacato, quando i lavoratori si oppongono, in sede giudiziaria,
alle previsioni contrattuali derogatorie o peggiorative dei
preesistenti standard di trattamento.
10. Il primato della Costituzione a difesa dei
diritti fondamentali dei lavoratori
Il rischio che la moltiplicazione e diversificazione dei livelli di
produzione normativa - sommati alla precarizzazione del lavoro e a
qualche cedimento sindacale - conducano alla dispersione, se non
alla perdita, delle principali garanzie dei lavoratori viene
comunque scongiurato dal primato della Costituzione, che, essendo
'rigida', occupa formalmente il vertice nella gerarchia delle fonti
statuali e impone il rispetto dei diritti fondamentali dei
lavoratori, espressamente sanciti. Il lavoro occupa un posto
centrale nella Costituzione italiana del 1948: è elevato a
fondamento stesso della Repubblica democratica (art. 1) e sancito
come diritto-dovere del cittadino (art. 4), in un quadro di
solidarietà sociale (art. 2) e di eguaglianza formale e
sostanziale (art. 3). Nel titolo III della parte I della
Costituzione, dedicato ai "Rapporti economici" - che si apre con la
solenne affermazione della tutela del lavoro "in tutte le sue forme
e applicazioni" (art. 35) -, sono previste le principali situazioni
giuridiche (individuali, collettive e sindacali) relative ai
lavoratori: dal diritto all'equo trattamento economico e normativo
(art. 36: su retribuzione, orario di lavoro, riposo settimanale e
ferie) al diritto alla parità tra lavoratori e lavoratrici
(art. 37, comma 1); dalla tutela del lavoro dei minori e dei
disabili (artt. 37, comma 3, e 38, comma 3) ai diritti di sicurezza
sociale (art. 38, commi 1 e 2) e alla formazione professionale (art.
35, comma 2); dal diritto di organizzazione sindacale e di sciopero
(artt. 39 e 40) al diritto di partecipazione dei lavoratori alle
politiche aziendali (art. 46), fino all'ipotesi che a
"comunità di lavoratori" venga affidata la gestione di
imprese (di "servizi pubblici essenziali", di "fonti di energia" o
in "situazioni di monopolio") con "carattere di preminente interesse
generale" (art. 43). In ciò la Costituzione italiana - pur in
una rilettura moderna, adatta alle trasformazioni del quadro
strutturale - si pone all'avanguardia tra le Costituzioni europee,
con un modello originale di economia sociale di mercato la cui
filosofia è racchiusa nell'art. 41, là dove viene
sancita la libertà di iniziativa economica privata,
precisando però che essa "non può svolgersi in
contrasto con l'utilità sociale o in modo da recar danno alla
sicurezza, alla libertà e alla dignità umana".
La modernità del dato costituzionale trova riscontro
nell'ordinamento comunitario, che tende a una tutela forte (rectius,
di tipo costituzionale) dei diritti sociali. Dopo importanti
decisioni, in materia, della Corte di Giustizia, si è giunti
all'emanazione, nel dicembre 2000, di una Carta dei diritti
fondamentali dell'UE: in vista della Costituzione dell'Unione, tra i
diritti fondamentali dei cittadini europei hanno trovato grande
spazio i diritti del lavoro, sempre più riconducibili ai
diritti di cittadinanza (v. Ballestrero, 2000).
11. Il ruolo della giurisprudenza: giudici,
arbitri e Authorities
Nel diritto del lavoro, un ruolo importante, spesso
'creativo', viene da sempre svolto dalla giurisprudenza, annoverata
ormai comunemente tra le fonti extralegislative. È
sufficiente ritornare alle radici della disciplina e riflettere sul
ruolo decisivo dell'esperienza dei 'Collegi dei probiviri', che, a
cavallo tra Ottocento e Novecento, hanno prodotto principî e
regole (non solo sui rapporti individuali di lavoro, ma anche sulle
nascenti relazioni sindacali e sulle prime forme di contrattazione
collettiva) che sono stati poi in gran parte recepiti nella
successiva legislazione e, infine, nel Codice civile del 1942. Anche
in seguito, la giurisprudenza, soprattutto con la sua
interpretazione evolutiva, spesso anticipa linee poi accolte dalla
legge o dalla contrattazione, talvolta esercitando una sorta di
supplenza di un legislatore inerte o di un sistema sindacale non
maturo. L'attività interpretativo-creativa dei giudici
risulta preziosa anche perché soddisfa l'esigenza di una
produzione di regole aderenti alla realtà dei rapporti
sociali. Basti dire che vi sono addirittura intere aree della
materia rimaste per molto tempo regolate esclusivamente dalla
giurisprudenza, la quale viene perciò considerata una delle
sedi parallele di produzione del diritto del lavoro, sebbene nel
sistema italiano (non basato sulla common law, e quindi
sul valore vincolante del precedente) essa non sia stricto iure fonte del diritto e al giudice spetti soltanto il compito di
interpretare e applicare la norma.
Ciò nonostante, il diritto giurisprudenziale ha accompagnato
le metamorfosi del lavoro anche negli ultimi vent'anni e tuttora
continua a svolgere una funzione determinante nella produzione delle
regole: o perché lo stesso legislatore, in una determinata
materia, formula norme in bianco e/o norme elastiche che solo il
giudice può completare, valutando il caso concreto
(dall'individuazione del lavoro subordinato, alla precisa
distinzione concettuale tra 'giusta causa' e 'giustificato motivo'
di licenziamento, dalla nozione di 'condotta antisindacale' al
requisito delle 'ragioni produttive' per stipulare contratti a
termine, ecc.), ovvero perché la stessa giurisprudenza
individua l'utilizzo innovativo di strumenti processuali (quale, per
esempio, l'art. 700 del Codice di procedura civile) capaci di
ripristinare con urgenza i diritti del lavoratore, nel fondato
timore di un loro grave e irreparabile pregiudizio.
Non c'è da meravigliarsi che, in una società
complessa, conflittuale e caratterizzata dalla segmentazione degli
interessi, cresca il ruolo del giudice. In fondo è
inevitabile - benché in astratto sia auspicabile il contrario
- che tanto le parti sociali quanto il legislatore tendano a
rimettere al giudice la soluzione di molteplici nodi giuridici;
questi ultimi, infatti, non possono essere sciolti in sede di
contrattazione oppure tramite lo strumento legislativo a causa del
carattere spesso compromissorio - e, perciò, equivoco e
contraddittorio - delle regole (contrattuali o legali) e, più
in generale, a causa della difficoltà di emanare norme che
contemplino una vastissima varietà di ipotesi e situazioni.
D'altronde questo problema, se nel diritto del lavoro è
eclatante, non è sconosciuto agli altri rami
dell'ordinamento: la complessità della 'società
postindustriale' richiede la presenza di sedi e di soggetti,
più o meno istituzionali, preposti alla composizione dei
conflitti, soprattutto collettivi, in grado di dettare regole certe,
condivise e accettate perché vicine alla realtà da
regolare. Perciò, oltre che quella dei giudici, cresce
l'importanza (sebbene discussa) sia dei 'Collegi di conciliazione e
di arbitrato', sia delle Authorities, che toccano pure i
lavoratori, o direttamente, come la Commissione di garanzia della
legge sullo sciopero, o indirettamente, come il Garante della privacy e l'Antitrust (v. Rusciano, Utenti senza...,
1996, p. 73). Sorprende, piuttosto, che a tale importanza
legislatore e governo non abbiano adeguato, in proporzione,
l'organizzazione della giustizia, le cui disfunzioni finiscono per
vanificare il riconoscimento formale delle garanzie dei lavoratori,
contenute nelle norme elastiche di origine legale o contrattuale, e
la particolare tutela processuale, introdotta con la legge 533 del
1973 sul processo del lavoro. Ma questo problema riguarda ormai
tutti i cittadini, fino a investire la stessa tenuta dello Stato di
diritto.
12. L'estensione del diritto del lavoro
a) Tutela nel contratto e nel mercato del lavoro
Le metamorfosi del lavoro, oltre a incidere sul sistema delle fonti,
ampliano i confini del diritto del lavoro. Va sottolineato anzitutto
che, di fronte ai problemi pressanti della disoccupazione, specie
nel settore dell'industria - problemi derivanti dalle trasformazioni
produttive e dalla crisi economica della seconda metà degli
anni settanta, più volte ricordate -, l'obiettivo primario
degli anni ottanta e novanta, non solo a livello nazionale ma anche
in ambito comunitario, è stato quello di incrementare, o
almeno mantenere, i livelli occupazionali. Un obiettivo che permane
e che anzi, in Italia, è quanto mai attuale a seguito della
crisi, per esempio, di un settore trainante come quello
automobilistico (e del suo indotto) e dei connessi rischi di un
lento ma inesorabile declino del sistema industriale nazionale.
Ciò significa che il diritto del lavoro, nato per la tutela
del contraente debole circoscritta al rapporto di lavoro, estende il
suo raggio d'azione al mercato del lavoro, ampliando così la
sfera dei destinatari della tutela: il prototipo di essi non
è più solo il lavoratore occupato, ma anche chi aspira
a un'occupazione, in quanto è 'non ancora' o 'non più'
occupato. Il punto di partenza di siffatto processo sta
nell'acquisita consapevolezza che il contratto di lavoro,
diversamente dagli altri contratti, si costituisce, si modifica e si
estingue dentro una ben definita (benché ampia) struttura
economico-sociale, appunto il mercato del lavoro, che risente
dell'andamento del ciclo economico. Non si può allora
trascurare che la persona umana è direttamente implicata
anche in tale struttura: prima dell'instaurazione o dopo
l'estinzione di un rapporto di lavoro. Sicché l'esigenza di
tutela di quanti non sono ancora lavoratori dipendenti, o non lo
sono più e aspirano perciò a un'occupazione, è
pressante né più né meno di quella di coloro
che hanno un rapporto di lavoro. Anzi, forse è maggiore,
perché la posizione dei primi è certamente più
debole.
Il diritto del lavoro, dunque, va configurandosi come un insieme di
regole volte a correggere non solo il dispotismo contrattuale del
singolo datore, ma anche la manifestazione totalmente libera e
spontanea delle forze e degli interessi nel mercato del lavoro, al
fine di evitare quelle distorsioni sociali che possono derivare dal
perenne e naturale squilibrio tra domanda e offerta. Peraltro,
questa nuova funzione trova pur sempre titolo nel codice genetico
del diritto del lavoro: se esso, per principio, tende alla tutela
del lavoratore, è naturale che consideri quest'ultimo non
solo quale contraente debole, ma anche quale persona economicamente
subalterna e socialmente sottoprotetta. E non c'è bisogno di
dire che tali condizioni sono, di solito, due facce della stessa
medaglia.
La legislazione sul mercato del lavoro degli ultimi vent'anni - dopo
una fase iniziale in cui, a causa delle congiunture economiche, ha
assunto i caratteri di una legislazione dell'emergenza e, in
seguito, di una legislazione della crisi - si pone l'obiettivo di
rendere le regole del lavoro rispondenti alle nuove e mutevoli
esigenze dell'organizzazione dell'azienda, in una logica di
contemperamento tra esigenze protettive ed esigenze produttive,
supponendo che una maggiore attenzione a queste ultime incentivi gli
investimenti delle imprese e, in tal modo, crei nuove occasioni di
lavoro. È questa la ratio della legislazione sulla
flessibilità, che cerca di rispondere alla domanda delle
imprese di rendere flessibili i rapporti e le condizioni di lavoro
(v. Treu, 2001, p. 25). In tale legislazione rientra, da una parte,
la disciplina dei rapporti di lavoro 'flessibili' o 'atipici' (part
time, lavoro a termine, lavoro interinale, lavoro 'a
chiamata', lavoro occasionale e accessorio, job sharing,
apprendistato, contratti 'formativi', ecc.), i quali si discostano
dai canoni del rapporto di lavoro 'tipico' o standard, a tempo pieno
e indeterminato (la 'flessibilità in entrata'); da un'altra
parte, la previsione di tutele del lavoro dipendente, ridotte e
differenziate a seconda delle diverse realtà organizzative e
delle caratteristiche concrete del lavoro (per esempio,
l'allentamento dei vincoli e limiti all'estinzione del rapporto di
lavoro consente, a volte, maggiore flessibilità in uscita,
come nel caso del superamento della "reintegrazione nel posto di
lavoro", di cui all'art. 18, legge 300 del 1970: sull'argomento, v.
Accornero, 1999; v. Napoli, 2002).
Accanto all'obiettivo della flessibilità, la legislazione sul
mercato del lavoro si pone quello del potenziamento degli strumenti
per favorire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, adatti
cioè a creare nuove occasioni e opportunità d'impiego.
Viene anzitutto privatizzato, oltre che decentrato, il vecchio
collocamento, facendone un servizio non burocratico, con l'apporto
anche delle società fornitrici di lavoro interinale (legge n.
196 del 1997), oggi superate in seguito al decreto legislativo n.
276 del 2003, che ha istituito varie 'Agenzie per il lavoro' (art.
4) e ha, in particolare, introdotto la cosiddetta 'somministrazione
di lavoro' (alla quale è dedicato l'intero titolo III). Si
tenta inoltre di realizzare, negli interventi sull'occupazione,
l'integrazione tra servizi per l'impiego, politiche attive del
lavoro e politiche formative, con una particolare attenzione al
ruolo della formazione professionale, da intendere come formazione
continua e permanente, capace di rimettere sul mercato del lavoro
soggetti espulsi per l'obsolescenza della loro
professionalità. Un'esigenza, in Italia, sempre trascurata,
ma sempre più sentita, date le ricorrenti riconversioni
produttive, le quali, per la maggior parte dei lavoratori, rendono
illusoria l'idea di fare lo stesso lavoro per tutta la vita e li
costringono a imparare mestieri diversi, in archi temporali
più o meno definiti.
È evidente che tali misure tendono a valorizzare, almeno in
teoria, le caratteristiche peculiari delle differenti realtà
territoriali, dovendosi sempre più tener conto dei vari
mercati del lavoro, alimentati da risorse (umane e finanziarie)
locali, con interventi differenziati di politica attiva del lavoro,
molti dei quali di competenza, ovviamente, delle Regioni e degli
Enti locali. Così, per esempio, la crisi dell'automobile
nell'area torinese spinge a ipotizzare l'utilizzazione, nella stessa
area, in agricoltura o nell'agroalimentare (settori anch'essi
modernizzati dalle nuove tecnologie), degli operai espulsi dal
settore automobilistico. In altri casi, invece - specie nel Sud,
dove esiste una grave disoccupazione strutturale -, l'espulsione di
lavoratori dall'industria, per la chiusura di un'impresa, spesso si
traduce nella definitiva disoccupazione dei medesimi e nella
necessità di ricorrere ad ammortizzatori sociali, cioè
a mezzi di sostegno (di almeno una parte) del reddito, finanziati
dalla collettività (cassa integrazione guadagni,
indennità di mobilità breve o lunga, prepensionamenti,
ecc.).
Certo, la rimodulazione della tutela sull'andamento del mercato (o
dei mercati) del lavoro, piuttosto che sul contratto (e sul
rapporto), pone il problema - a volte enfatizzato, a volte
sottovalutato - dell'interdipendenza e dell'equilibrio, in termini
di costi aziendali e/o pubblici, tra tutele nel rapporto e tutele
nel mercato. Problema che non ha 'una' soluzione e, tanto meno, una
soluzione una volta per tutte. La complementarità di ambedue
le tutele è la sfida più ardua che attende il diritto
del lavoro nel XXI secolo.
b) Dal lavoro ai lavori
L'esigenza di una maggiore flessibilità del lavoro, imposta
dall'innovazione tecnologica e dalla globalizzazione dei mercati,
viene soddisfatta dalle imprese soprattutto grazie all'allentamento
dei vincoli nel lavoro subordinato. Non manca però un'altra
strada, forse anche più comoda e conveniente economicamente:
quella del ricorso a prestazioni di lavoro non subordinato. Si
è parlato molto, negli anni novanta, di una vera e propria
'fuga dalla subordinazione', per indicare la notevole diffusione non
solo del lavoro autonomo e del lavoro in cooperativa, ma soprattutto
del lavoro prestato in collaborazione coordinata e continuativa e,
in generale, del lavoro 'parasubordinato'. Tali forme di lavoro
vengono anch'esse denominate, sempre con termine improprio e
ambiguo, 'lavori atipici', perché, in astratto, si
allontanano dal 'lavoro subordinato tipico', che sarebbe contemplato
nell'art. 2094 del Codice civile. In realtà, tale articolo,
più che prevedere una "fattispecie tipica" di contratto di
lavoro, definisce il "prestatore di lavoro subordinato" colui che
"si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa,
prestando il proprio lavoro [...] alle dipendenze e sotto la
direzione dell'imprenditore".
Ovviamente, in questi casi, non si deve parlare tanto di
flessibilità, quanto di assenza di tutela: se si sta fuori
della fattispecie (o della definizione) del lavoro subordinato, non
si applica il diritto del lavoro. In realtà, però,
proprio gli sviluppi degli ultimi anni - ossia il patologico
intensificarsi del ricorso al 'lavoro non subordinato' - fanno
dubitare della possibilità di pensare ancora il diritto del
lavoro come un ordinamento applicabile soltanto in presenza
dell'unica fattispecie legale ex art. 2094. È il
problema della legalizzazione e della disciplina di queste forme
altrettanto atipiche di lavoro - entrate indirettamente e quasi di
soppiatto nell'ordinamento, grazie all'elaborazione fattane in
trent'anni circa da dottrina e giurisprudenza, valorizzando l'art.
409 del Codice di procedura civile (riformulato, nel 1973, dalla
citata legge 533 sul processo del lavoro) - per garantire a esse
alcune tutele e compensare così, almeno in parte, la
situazione di debolezza e di sottoprotezione in cui, in assenza di
norme, spesso versano questi lavoratori atipici.
L'alternativa è, in sostanza, tra due modelli: la creazione
per legge di un tertium genus, il lavoro 'coordinato' -
accanto al lavoro 'subordinato' e 'autonomo' - cui riconoscere
alcune tutele, riguardanti rapporto individuale (salute e sicurezza,
malattia e maternità, libertà e dignità,
divieto di discriminazioni, criteri d'uso della prestazione e
calcolo del corrispettivo), diritti sindacali e previdenziali;
oppure l'allestimento di uno statuto dei lavori che individui uno
zoccolo duro e inderogabile di diritti fondamentali, di garanzie
minime da applicare a tutte le forme di lavoro, indipendentemente
dalla qualificazione giuridica del rapporto, e la creazione di un
sistema di tutele ulteriori, a geometria variabile, modulate e
diversificate a seconda del grado effettivo di subordinazione (v.
Treu, 2001, p. 196). Oggi il legislatore, non so quanto felicemente,
ha scelto la prima strada, legalizzando il cosiddetto 'lavoro a
progetto' (artt. 61-69 del decreto legislativo n. 276 del 2003): una
nuova fattispecie il cui riscontro nella realtà del lavoro
sarà tutto da verificare.
In realtà, la questione ha una rilevanza soprattutto sul
piano formale, in quanto la subordinazione continua a essere il
principale modello di utilizzazione del lavoro altrui, di modo che
la qualificazione di un rapporto giuridico avente a oggetto il
lavoro difficilmente può uscire dalla dicotomia
'autonomia/subordinazione'. Non ci si riesce neppure escogitando
nuove formule, come quelle della legge 3 aprile 2001, n. 142, sul
rapporto di lavoro del socio di cooperativa, ove si ritrova un
ambiguo intreccio tra rapporto associativo e rapporto di lavoro "in
qualsiasi forma", in linea con i tentativi di destrutturazione
normativa dei rapporti di lavoro.
In fondo, è questo il senso della sentenza n. 121 del 1993
della Corte costituzionale: proprio per frenare la diffusione di
rapporti di lavoro "in frode alla legge", la Corte afferma che il
quadro dei diritti costituzionali dei lavoratori impedisce comunque
(e persino al legislatore) di non qualificare formalmente come
subordinati quei rapporti di lavoro che sostanzialmente ne hanno
tutte le caratteristiche. Una posizione così chiara non
può essere scalfita neanche dalla 'certificazione', nella
quale l'organo pubblico o l'ente bilaterale qualifica la relazione
di lavoro sulla base delle dichiarazioni delle parti. Sarà
sempre e soltanto il concreto svolgimento del rapporto a fornire al
giudice, ex post, i dati per la sua esatta qualificazione
giuridica. In un'epoca in cui l'obiettivo della qualità
totale, in un sistema di forte competizione globale, induce
l'imprenditore a esigere dal lavoratore massima collaborazione e
assoluta fedeltà, senza dare in cambio alcuna
stabilità, non è priva di effetti l'esistenza di un
invalicabile limite costituzionale alla flessibilità dei
rapporti di lavoro.
c) Diritto del lavoro e pubblico impiego
Un ampliamento eclatante, nell'ultimo ventennio, del diritto del
lavoro è costituito dalla legislazione che unifica con i
rapporti privati, nell'ordinamento comune del lavoro, i rapporti
nelle amministrazioni pubbliche (persino quelli dell'alta
burocrazia), prima rientranti nel diritto amministrativo e
disciplinati, in via esclusiva e unilaterale, da leggi e da fonti
subprimarie statali, nonché da atti amministrativi, per
garantire, in applicazione del principio di legalità,
l'imparzialità dell'azione amministrativa, secondo una
lettura un po' datata dell'art. 97, comma 1, della Costituzione. Si
tratta, in realtà, di un processo lungo, complesso e
stratificato, iniziato circa a metà degli anni settanta. Un
processo che però - dopo la tappa intermedia della
legge-quadro 29 marzo 1983, n. 93, ispirata a una logica
compromissoria e non priva di contraddizioni - ha cominciato a
realizzarsi in toto con il decreto legislativo 3 febbraio
1993, n. 29, attuativo della delega contenuta nella legge 23 ottobre
1992, n. 421, e che ha continuato a svilupparsi nell'arco
dell'ultimo decennio, con varie modifiche e integrazioni
dell'impianto originario (dai decreti del 1993, correttivi del
decreto legislativo 29/1993, a quelli attuativi della delega 15
marzo 1997, n. 59, cioè i decreti legislativi 4 novembre
1997, n. 396, 31 marzo 1998, n. 80, e 29 ottobre 1998, n. 387; fino,
poi, al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che riordina
l'intera disciplina, benché pur esso modificato dalla legge
15 luglio 2002, n. 145, in talune parti riguardanti, in particolare,
la dirigenza statale).
La riforma realizza due obiettivi, caldeggiati negli ultimi decenni
dalle confederazioni sindacali e condivisi anche dal mondo
imprenditoriale e da quanti lamentano, guardando ai parametri
europei, la proverbiale inefficienza della burocrazia italiana, per
via di privilegi, scarsi controlli e anche eccessiva
stabilità del personale. Il primo obiettivo è la
'unificazione normativa', di cui si è detto - capace di
introdurre eguaglianza tra lavoratori privati e pubblici e controllo
sociale della burocrazia -, con l'applicazione al rapporto di lavoro
pubblico della disciplina del capo I, titolo II, del libro V del
Codice civile e delle leggi sul lavoro nell'impresa, pur,
naturalmente, con il mantenimento di alcuni tratti di
specialità della disciplina, dovuti alle peculiarità
del lavoro pubblico rispetto a quello privato, scontata la
diversità dell'interesse perseguito (interesse generale, nel
primo caso; interesse privato, nel secondo). Il secondo obiettivo
è la 'contrattualizzazione' del rapporto di lavoro dei
pubblici dipendenti, vale a dire la relativa regolazione tramite
contratti individuali e collettivi, anche se, come già detto,
le peculiarità del pubblico impiego spingono il legislatore a
disegnare un modello di contratto collettivo dai tratti molto
singolari, quanto a natura, struttura ed efficacia, per l'importanza
della funzione a esso affidata (v. Rusciano, 2003). Coerentemente
con la contrattualizzazione, completa la riforma il passaggio alla
cognizione del giudice ordinario delle controversie di lavoro dei
pubblici dipendenti, dopo più di settant'anni di
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Si tratta, evidentemente, di un grande processo di trasformazione
dei rapporti di lavoro pubblico. Un processo che affonda le sue
radici, anzitutto, nel dato politico-istituzionale (visto il ruolo
che, nella società, riveste non da oggi la burocrazia, e che
la legge vuole tenere ben distinto da quello della politica), ma che
comporta cambiamenti di tipo economico-sociale, sindacale e, in
senso lato, culturale, e che, probabilmente, influenzerà in
futuro l'evoluzione stessa di tutto il diritto del lavoro,
rafforzandone le caratteristiche di "diritto della gestione delle
risorse umane in ogni tipo di organizzazione" (v. Rusciano, 1993).
13. Flessibilità delle tecniche giuridiche
Quando nel linguaggio corrente si parla di 'flessibilità del
lavoro', si allude all'aumento della discrezionalità offerta
dall'ordinamento al datore di lavoro: quest'ultimo può
infatti scegliere tra diversi modelli di rapporto e gestire
contenuti e tempi della prestazione d'opera, secondo la convenienza
dell'impresa. È naturale che siffatto obiettivo, per la sua
complessità, venga raggiunto mediante la predisposizione di
vari strumenti (o tecniche giuridiche). Certamente ogni tecnica
è frutto del contesto storico-giuridico nel quale
l'ordinamento interviene, ma ciò non vuol dire che una
tecnica nuova si sostituisca del tutto alla vecchia; vuol dire
piuttosto che si arricchisce il ventaglio degli strumenti tra i
quali scegliere il più appropriato alle diverse esigenze che
l'ordinamento medesimo vuole soddisfare. Si può così
parlare anche di una 'flessibilità delle tecniche giuridiche'
di tutela del lavoro.
a) Norma inderogabile
Poiché il diritto del lavoro nasce per correggere lo
squilibrio tra le parti del contratto di lavoro, la tecnica
tradizionale è quella della inderogabilità (da parte
delle clausole individuali, tranne se più favorevoli al
lavoratore), attribuita alle norme, legali e collettive, di tutela
del lavoratore, e della sostituzione automatica, a opera di queste
ultime, delle eventuali clausole difformi (artt. 1339, 1418, comma
1, 1419, comma 3, e 2077 Cod. civ.). Si blocca così
l'eccessivo potere contrattuale del datore di lavoro, limitandone
l'autonomia negoziale e, per altro verso, si invalida l'esercizio,
da parte del lavoratore, del potere di disposizione dei propri
diritti (art. 2113 Cod. civ.; v. De Luca Tamajo, 1976).
b) Controllo sindacale
La tecnica della norma inderogabile ha una sua rigidità
formale, non appropriata alla tutela sostanziale del lavoratore. In
effetti, nella relazione giuridica tra datore e lavoratore ha
maggiore rilevanza il rapporto come concreta esecuzione del
contratto, che è atto formale contenente il regolamento degli
interessi (integrato dalle norme inderogabili). Ora, tale tecnica,
imperniata più sul contratto che sul rapporto, rivela la sua
efficienza solo quando, concluso il secondo, venga (eventualmente)
affidata al giudice la valutazione della regolarità del
primo. Ciò non è nell'interesse del lavoratore, che ha
da essere tutelato giorno per giorno durante il rapporto, ma (forse)
non è nell'interesse neppure del datore di lavoro, che,
magari a distanza di anni, si vede chiamato davanti a un giudice cui
spetta riscrivere regole e cifre di un vecchio contratto. Nasce
così, negli anni settanta, la tecnica del controllo
sindacale: piuttosto che prevedere norme inderogabili, che limitano
in modo astratto il potere imprenditoriale, il legislatore affida
alle rappresentanze dei lavoratori in azienda - secondo la logica di
politica del diritto dello Statuto dei lavoratori - il compito di
concordare con la controparte imprenditoriale i contenuti della
tutela e di verificarne l'effettiva applicazione (v. De Luca Tamajo,
1978). Questa tecnica presenta dei vantaggi cui si è
già avuto occasione di accennare: anzitutto, la tutela viene
plasmata sulle reali esigenze dei lavoratori in un determinato
contesto produttivo; in secondo luogo, si valorizza e si promuove
l'attività sindacale nei luoghi di lavoro; infine, si apre la
strada, prima, alla 'partecipazione conflittuale' in azienda e, poi,
alla 'concertazione sociale' anche fuori dell'azienda, fino ad
arrivare alla 'concertazione legislativa'. Una prassi, quest'ultima
(diffusasi soprattutto negli ultimi vent'anni), di negoziazione
preventiva, tra legislatore e rappresentanze degli interessi, del
contenuto di futuri provvedimenti legislativi (riguardanti
specialmente problemi di rilevanza politico-economica e sociale),
sul quale il legislatore vuole dettare regole condivise (o
addirittura concordate) con i destinatari delle stesse, al fine di
garantirne l'effettività applicativa ('leggi negoziate').
c) Norma incentivante
Negli ultimi anni, la crisi della inderogabilità (oltre che
per le ragioni appena dette, anche per l'avanzare del lavoro
irregolare e sommerso cui i datori ricorrono per sfuggire alle norme
inderogabili di tutela dei lavoratori), il ridimensionamento del
controllo sindacale in azienda (per le ragioni più volte
ricordate) e la prevalenza dei problemi del mercato del lavoro e
della flessibilità (per la riduzione dell'occupazione) hanno
spinto ad adottare la tecnica della norma incentivante:
quest'ultima, anziché imporre limiti al potere
imprenditoriale (con norme inderogabili e/o col controllo
sindacale), prevede benefici e sanzioni promozionali per incentivare
comportamenti e realizzare obiettivi voluti dalla legge (ad esempio, bonus per assunzioni, incentivi
all'imprenditorialità, specie giovanile e femminile, azioni
positive, ecc.; v. Ghera, 1979, p. 362).
d) Autonomia individuale
Di recente, poi, sempre per soddisfare le crescenti esigenze di
flessibilità, piuttosto che l'autonomia collettiva, è
stata rilanciata l'autonomia contrattuale individuale: in pratica si
è ridotto e modificato il ruolo del contratto collettivo (e,
dunque, del sindacato). Questa scelta del legislatore, che si
rinviene, per esempio, nelle discipline dei lavori flessibili degli
anni 2000-2001 (decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, sul part
time; decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, sul
contratto a termine), lascia perplessi, perché i casi in cui
il lavoratore può scrollarsi di dosso i panni del contraente
debole (in pratica: è subordinato dal punto di vista
tecnico-funzionale, non lo è dal punto di vista personale e
psicologico) sì da poter regolare da solo i propri interessi,
non sono molti (essi sono circoscritti per lo più ad alte e
sofisticate professionalità). Se allora il prevalere
dell'autonomia individuale si limita a questi casi, se ne può
ammettere la legittimità (oltre che l'utilità),
essendo evidente che l'aumento della professionalità fa
diminuire la subordinazione. Altrimenti, esso non fa altro che
accentuare la debolezza e la solitudine del lavoratore e, quindi,
non può sottrarsi alla censura di incostituzionalità.
e) Soft law
Infine, è importante registrare la tendenza a importare
nel nostro ordinamento strumenti regolativi propri dell'ordinamento
comunitario o di altri paesi europei, come le soft laws e
i codes of practice (v. Snyder, 1993): regolamentazioni
leggere, non cogenti (somiglianti, ma non paragonabili, alle nostre
norme dispositive), le quali, più che altro, si limitano a
fissare obiettivi o ad auspicare in alcune aree 'buone pratiche' per
orientare l'attività dei soggetti destinatari senza
costringerli a uno specifico comportamento. Si tratta di una tecnica
abbastanza distante, dunque, da quella della norma inderogabile, la
quale, invece, non lascia spazio a libere pattuizioni, se non in
senso più favorevole al lavoratore. Sulla capacità di
tale tecnica - nata in contesti giuridico-culturali assai diversi
dal nostro, fosse anche solo per i livelli etici più elevati
che ne costituiscono il terreno naturale di coltura - di realizzare
una compiuta tutela del lavoro è difficile ora pronunziarsi,
perché non ancora abbastanza collaudata. Nel collaudo,
comunque, andrà valutata la legittimità costituzionale
di siffatto mezzo rispetto al fine (di tutela del lavoro), che
verrebbe sicuramente a mancare, se esso dovesse rivelarsi incapace
di garantire l'effettività dei diritti costituzionali dei
lavoratori.
Dizionario di Storia
(2010)
Lavoro
Complesso delle energie fisiche e intellettuali che l’uomo
traduce nella creazione di oggetti, beni o opere di utilità
individuale o collettiva; rappresenta una delle principali chiavi
di lettura per comprendere l’evoluzione delle diverse
società storiche e della specie umana, più in
generale. La definizione stessa di preistoria, delle sue distinte
età, si fonda sul valore assegnato per convenzione alla
comparsa dei primi utensili. Dalla pietra al ferro, il cammino
dell’uomo verso la storia (verso la conquista della scrittura,
dell’agricoltura e dell’allevamento, accompagnata dalla nascita
dei primi insediamenti) fu già caratterizzato da
innovazioni tecniche e dallo sviluppo di nuovi ambiti del sapere,
la cui applicazione pratica ebbe il determinato scopo di
migliorare la produzione delle risorse necessarie alla
sopravvivenza della comunità, accelerando il processo di
suddivisione dei ruoli produttivi (anzitutto tra i sessi), e la
gerarchizzazione sociale e politica.
L’Età antica. Lavoro
schiavile e lavoro libero. La fisionomia delle
civiltà più antiche fu contrassegnata da molteplici
mansioni lavorative, ovvero da un livello di specializzazione
produttiva e intellettuale già elevato. Alla base del
sistema economico, sociale e politico si collocò il l.
schiavile, fondato sull’esistenza di individui non liberi,
considerati proprietà della comunità o di taluni
suoi membri; possedere servi garantiva il diritto di esigerne le
più varie prestazioni lavorative, in cambio delle garanzie
minime di sostentamento. Una consistente parte delle opere
pubbliche e monumentali dell’antichità venne realizzata
mediante l’impiego di schiavi (dalle fortificazioni ai luoghi di
culto, dalle imprese di controllo del regime dei fiumi alla
costruzione di porti, edifici amministrativi e arterie viarie), ma
questa tipologia di lavoratori, uomini e donne, fu indispensabile
anche per lo sviluppo delle attività private
(dall’agricoltura ai commerci, dall’artigianato ai lavori
domestici), ed ebbe talora impieghi di carattere militare. Gli
studi prodotti negli ultimi decenni sono tuttavia orientati a
interpretare in modo meno rigido il quadro socioeconomico del
mondo antico, e cioè a porre in evidenza il nesso tra il l.
dei servi e quello degli uomini liberi, anche sul piano della
cooperazione e dell’interscambio materiale, culturale e persino
affettivo, specie entro la dimensione familiare, del forno o della
bottega. In quest’ottica, il l. poté anche rappresentare
una chance di emancipazione dalla schiavitù e di
ascesa sociale, ove la legislazione lo consentiva; un fenomeno che
è ormai documentato per la civiltà egizia e presso i
fenici, come pure in Grecia e a Roma. Il contributo
dell’archeologia ha assicurato importanti avanzamenti alla ricerca
storica, consentendole di riportare in luce un panorama di
mestieri e professioni ben più ricco e articolato di quanto
si ritenesse in passato. Per l’Egitto, accanto ai noti profili
dell’architetto Kha, del giudice Gemenefherback e di numerosi
scribi (funzionari, amministratori), sepolti assieme agli
strumenti (reali o figurati) del loro l., possiamo oggi
tratteggiare un mondo di agricoltori e allevatori di bestiame,
proprietari di miniere e persino di birrifici, di ricchi
artigiani, artisti, tessitrici, né mancarono operai e
piccoli contadini, miseri ma liberi, impiegati anche per la
costruzione di piramidi e grandi opere pubbliche (solo di rado al
fianco o in sostituzione degli schiavi). Il codice di Hammurabi
(2° millennio a.C.) testimonia l’esistenza di svariate
professioni anche in area mesopotamica (legate alla medicina, ai
commerci, alla produzione di cibi, bevande, armi e utensili),
regolamentate in modo specifico e rigoroso, né vanno
dimenticati i maestri d’ascia e i vetrai fenici, gli artisti
dell’oreficeria etrusca e quelli della produzione ceramica (dal
Mediterraneo alla Cina, già di età protostorica),
accanto ai pescatori e ai domatori di animali (Creta) e agli
agrimensori (Valle dell’Indo). Anche il mondo ellenico evolse
gradualmente verso un assetto socio-economico più largo e
più duttile, che in specie a partire dalla costituzione del
sistema coloniale giunse a concedere apprezzabili spazi alle
professioni e ai mestieri maschili, supportati talora dal l. dei
servi e delle donne (nell’artigianato e nel piccolo commercio
soprattutto). La società ateniese del 5°-4° sec.
a.C. fu animata anche da figure di intellettuali come Socrate,
figlio di uno scultore e di una levatrice (in base alla
tradizione), o Fidia, emblema del nuovo rilievo conquistato dai
grandi artisti. Dai ritrovamenti archeologici e dalle fonti
letterarie (si pensi al teatro di Aristofane), emerge d’altro
canto un variegato universo di scrittori, sofisti, attori, musici,
ginnasti, etère, e poi meteci, individui in prevalenza
originari delle colonie (e perciò esclusi dal godimento dei
diritti politici), assurti in taluni casi a ruoli di prestigio,
mediante l’esercizio delle professioni mercantili, mediche o
intellettuali (Ippocrate, Erodoto, Gorgia). La distanza che
separava ormai il panorama ateniese dalla società ellenica
delle origini, caratterizzata dal prevalente modello della
famiglia come autonoma realtà produttiva e da una rigida
suddivisione in classi, si coglie bene nel confronto tra Atene e
Sparta, città-Stato che conservò istituzioni e
costumi di impronta dorica, tradottisi nella forte autorità
esercitata dall’aristocrazia guerriera (spartiati) sulle classi
lavoratrici che ne garantivano la sopravvivenza materiale: perieci
e iloti. Neppure la condizione degli iloti, schiavi di
proprietà statale, conobbe variazioni di rilievo, ma a
partire dal 5° sec. a.C. si intensificò il fenomeno
delle loro periodiche rivolte, un aspetto che appare
indissolubilmente intrecciato al declino dell’egemonia spartana.
L’età ellenistica fu invece contrassegnata dalla
progressiva diminuzione della manodopera servile e dalla
diffusione di scuole per le arti, i mestieri e le professioni. Al
contrario, nella società romana, l’incidenza della
componente schiavile aumentò progressivamente fino agli
ultimi secoli dell’impero, suscitando il malcontento della plebe.
Rispetto alla cronica piaga della disoccupazione plebea (di larghe
fasce della popolazione romana la cui sopravvivenza dipendeva da
lavori occasionali o piccoli espedienti), la categoria degli
schiavi fu interessata da un intenso processo di suddivisione e
specializzazione del lavoro. L’istituto della manumissio prevedeva inoltre che il rapporto tra schiavo e dominus potesse evolvere in quello tra liberto (schiavo liberato) e patronus.
A fronte dell’obbligo di prestazioni di l. gratuite, il percorso
di emancipazione dei liberti si concluse generalmente
nell’acquisizione della cittadinanza romana e fu talora
contrassegnato da concessioni tese a favorire l’inserimento di
questa categoria in determinati mestieri o ambiti produttivi.
Alcuni liberti si distinsero per il successo ottenuto nei
commerci, per meriti intellettuali (Fedro, Terenzio), militari o
politici. Fu verosimilmente un liberto anche il fornaio Eurisace,
il cui sepolcro riproduce dettagli e strumenti anche minuti del
mestiere che lo rese un cittadino agiato. Come i fornai, anche gli
altri esponenti delle arti meccaniche (artigiani, mercanti, osti,
medici, attori) si dotarono di sodalizi con funzioni grosso modo
equivalenti a quelle dei collegi delle professioni liberali (i
forensi, i gromatici), e con Traiano (98-117), quando l’impero
raggiunse la sua massima estensione e la capitale si
trasformò in una gigantesca città di consumi, le
associazioni di mestiere divennero alcune centinaia. La
trasmissione dell’arte avveniva solitamente nell’ambito familiare
o dipendeva dalle tradizioni peculiari di alcune regioni,
risalenti talora all’epoca preromana (quella della ceramica e
della lavorazione del bronzo in Etruria, l’artigianato del vetro
in Campania). In questo contesto economico e sociale, si crearono
opportunità di iniziativa anche per le donne di condizione
plebea, quelle che come Atistia, moglie di Eurisace, affiancarono
il consorte nella conduzione dell’attività familiare, o
figure come Eumachia, patrona dei fullones e degli infectores di Pompei (lavandai e tintori) che questi ultimi vollero ritratta
all’interno del luogo che fu sede del loro mestiere. Più in
generale, anche a Roma, il l. femminile rimase prevalentemente
legato allo svolgimento delle mansioni domestiche, di alcuni
lavori agricoli e alla cura della prole, come spiegano i semplici
oggetti di innumerevoli corredi funerari (fusi, rocchetti,
stoviglie). Nella sfera pubblica, il l. della donna fu solo
eccezionalmente disgiunto da quello dell’uomo (padrone, padre,
marito), come nei casi di vedove, levatrici, fattucchiere o
prostitute, mentre la donna di condizione aristocratica non
svolgeva alcuna mansione di carattere lavorativo al di fuori della domus. Il diritto romano prestò inoltre
particolare attenzione alla regolamentazione del l. nelle campagne
e dei rapporti socio-economici del mondo agricolo; figure
caratteristiche di quest’ultimo furono il libero agricoltore o
allevatore (spesso un piccolo proprietario, talora un veterano
dell’esercito), il bracciante salariato e la manodopera schiavile
(posseduta o affittata in occasione dei raccolti). In questo
contesto, a partire dal tardo impero, assunse notevole importanza
il colonato, istituto in base al quale i coloni (in origine liberi
contadini affittuari di un latifondista) si trasformarono in
dipendenti di un dominus, e quindi in manodopera
soggetta a prestazioni di l. gratuite.
L’Età medievale. Città
e curtes: il lavoro tra dinamismo e immobilismo. Tra 5° e 8° sec., nel quadro della transizione verso
l’economia curtense, la condizione dei contadini concessionari
delle terre del signore (pars massaricia) si
avvicinò ulteriormente a quella dei servi di quest’ultimo,
variamente impiegati nella pars dominica, cioè la
porzione della villa che divenne residenza dello stesso dominus/feudatario
e gradualmente attrasse anche artigiani e piccoli amministratori.
Il declino del potere imperiale in Occidente e le invasioni
barbariche avevano determinato la rapida crisi delle città
e del sistema economico tradizionale, incoraggiando il
trasferimento della popolazione urbana nelle curtes,
centri nevralgici di una nuova economia rurale di sussistenza.
Alla contrazione dei commerci, alla pressoché totale
scomparsa della mercatura di lungo raggio, si accompagnò un
fenomeno che rimane in larga parte oscuro: nel giro di poche
generazioni, il prezioso patrimonio di arti e mestieri che aveva
caratterizzato la storia romana scomparve. L’archeologia medievale
ha variamente attestato la dispersione di questo know-how,
che si tradusse soprattutto nella perdita di tutte quelle
maestranze specializzate nella manutenzione di strade, ponti,
porti, acquedotti, terme e altri edifici pubblici, come pure nella
vigilanza notturna e nello spegnimento di incendi (mansioni degli
antichi vigiles). Numerose figure dell’amministrazione
imperiale vennero invece recuperate all’interno della compagine di
governo pontificia, dei regni romano-barbarici e di quello franco,
in particolare; giovani realtà politico-statuali il cui
rafforzamento dipese in larga misura dal contributo di questi
burocrati (tabularii, tabelliones ecc.). Il
notaio rappresenta invece un nuovo profilo professionale,
all’interno dell’Europa altomedievale, evolutosi nei secoli
attraverso l’esercizio di funzioni (di certificazione,
interpretazione, archiviazione e conferimento della publica
fide) che furono di capitale importanza per lo sviluppo dei
commerci, la regolamentazione delle disposizioni ereditarie e
degli stessi rapporti di lavoro. Dall’età carolingia alla
rinascita tardomedievale, la civiltà europea fu
contrassegnata da una lenta ma incessante ripresa economica,
sociale e politica, che può essere efficacemente
argomentata rimanendo nell’ottica della storia delle arti e delle
professioni; un processo in cui tornò a essere protagonista
la città. Rispetto alla rigidità normativa che aveva
fossilizzato ogni aspetto del l. libero e servile nelle campagne
(dal servo della gleba al mezzadro), la crescita dei centri urbani
(di impianto romano o di nuova fondazione), la costituzione dei
primi circuiti fieristici, la nascita di nuove e potenti
associazioni di mestiere, come pure dei collegi professionali
(notai, medici) e delle università (anche per le
professioni mediche, come a Salerno), sono fenomeni emblematici
del dinamismo commerciale, produttivo e intellettuale che
investì l’Europa mediterranea e continentale.
L’autorità e il prestigio conquistato da alcuni sodalizi di
arti e mestieri marcò in modo talora significativo
l’architettura e la toponomastica urbana, traducendosi cioè
nella realizzazione di edifici (banchi, logge, opifici, luoghi di
culto) strettamente connessi all’esercizio di determinati lavori.
Anche le committenze artistiche sono una testimonianza preziosa
per comprendere l’evoluzione della stessa idea di l.,
perché consentono di indagare il piano delle appartenenze e
delle identità socio-professionali, fino ad attestare la
comparsa di atteggiamenti che somigliano a un vero e proprio
orgoglio di categoria (Orsanmichele a Firenze, chiesa delle arti).
L’Età moderna. Il
lavoro come liberazione o coercizione di forze. Nella Napoli del 16° sec., una delle città più
ricche e popolose d’Europa, accanto a svariate tipologie di
artigiani, mercanti e pubblici ufficiali (tutte quelle figure che
caratterizzavano ormai l’articolata fisionomia amministrativa
degli Stati moderni, dagli alti magistrati ai semplici scrivani),
prosperarono individui che si professarono appartenenti a
categorie del tutto nuove, che spesso è anzi impossibile
definire se non adottando terminologie ante litteram (la
mediazione finanziaria o «arte de far trovar denari»).
Questa liberazione di forze ed energie fisiche e intellettuali,
anche come rinnovamento delle conoscenze e delle tecniche
lavorative e professionali, rappresenta una delle due fondamentali
linee interpretative della stessa Età moderna, ed è
un processo che investì pure il mestiere delle armi,
evolutosi dalle antiche compagnie di mercenari di ventura (in cui
militarono contadini e braccianti costretti ad allontanarsi
occasionalmente dalle campagne) fino alla nascita dei primi
eserciti moderni, composti di specialisti della guerra. Il mercato
di queste nuove professionalità non conobbe confini di
patria e di cultura, come dimostra il caso dei numerosi esperti di
marineria e guerra di corsa reclutati entro la compagine militare
dell’impero ottomano. L’altra faccia della medaglia, ossia
l’interpretazione (di impostazione marxista) dell’evo moderno come
epoca di coercizione dell’uomo, in specie sul piano delle
coordinate giuridico-politiche in cui rimasero inscritti i
rapporti di l., è ricorrente nella lettura di taluni
fenomeni come il ritorno del l. schiavile (introdotto dai
colonizzatori europei a danno delle popolazioni indigene e
africane nelle Americhe), le rivolte contadine (➔ jacquerie) che
venarono la storia europea fino al termine dell’antico regime, o
l’irrigidimento statutario e l’intensa conflittualità che
finirono col caratterizzare la vita delle arti e dei mestieri.
Serrate corporative che, in specie a partire dal 17° sec.,
tesero a salvaguardare i privilegi di categoria (ma anche quelli
di maestri e proprietari di bottega rispetto a dipendenti e
apprendisti), e che per lo più si tradussero in meccanismi
di mutuo soccorso e di cooptazione all’arte tanto ferrei da
escludere la possibilità di accesso a essa da parte di
individui che vi fossero estranei per nascita. D’altro canto,
proprio nel corso della crisi del Seicento, si posero alcune
importanti premesse per il definitivo superamento dei tradizionali
rapporti di potere che condizionavano i diversi ambiti del l.,
nelle città e nelle campagne. Il mondo rurale, che incluse
oltre l’80% della popolazione europea, fino alla Rivoluzione
industriale, sebbene caratterizzato da una maggiore
staticità rispetto al panorama urbano, non fu immune da
importanti trasformazioni e rivoluzioni. Anzitutto, in Europa
occidentale, le antiche corvées vennero
gradualmente sostituite dal pagamento di censi in denaro; la
definizione di servitù della gleba (la cui effettiva
abolizione si colloca al termine dell’Età moderna) risulta
in larga parte impropria per descrivere un quadro che almeno a
partire dal 16° sec. è sostanzialmente fatto di terre
signorili o soggette all’autorità ecclesiastica, e tenures non feudali: quelle demaniali e quelle affittate o possedute da
patrizi, notabili borghesi, ma anche da contadini. Alla
ricomparsa, dopo secoli, della libera proprietà contadina
(come pure di vaste aree di microproprietà, ad agricoltura
intensiva) e del bracciantato salariato, si affiancò
l’operosità talora caratteristica di altre figure
intermedie tra la grande proprietà fondiaria e la
manodopera (mezzadri, massari, fittavoli). Figure che in taluni
casi seppero trarre vantaggio dalla crisi dei poteri tradizionali
(l’indebitamento dell’aristocrazia, l’alienazione del latifondo
ecclesiastico, l’allargamento del mercato dei feudi) per
incamerare vasti patrimoni terrieri o per avviare processi di
modernizzazione delle tecniche agricole o di vera e propria
protoindustrializzazione. È un fenomeno illustrato in sommo
grado dall’Inghilterra, i cui caratteri economici, sociali e
politici furono tali da innescare la Rivoluzione industriale,
processo che cambiò radicalmente la storia del l., ponendo
termine all’antico regime.
L’Età contemporanea. Dalla
fabbrica al quarto settore: uomini e donne verso il lavoro come
diritto inviolabile. L’avvento del sistema di
fabbrica e del capitalismo ha stimolato la nascita della Labour
history, ambito della ricerca sociologica, filosofica, giuridica e
storiografica che ha assunto il carattere di vera e propria
disciplina, nel corso del Novecento (stimolata soprattutto dalla
vasta riflessione di K. Marx, e dai contributi di F. Engels, F.M.
Eden). Essa ha il compito di studiare il l. in chiave di sviluppo
tecnologico e di assetti produttivi, finanziari e sociali (mercato
del l. e oscillazioni salariali, condizioni delle classi
lavoratrici), accanto al nesso tra l. e storia politica (le riforme
sociali, la nascita di associazioni, movimenti, sindacati, camere
del l. e partiti degli operai e dei lavoratori). In una panoramica
di grande scala, vanno evidenziate anzitutto la scomparsa delle
tradizionali corporazioni di mestiere (abolite dal riformismo
illuminato del 18° sec. o nel corso dell’Ottocento) e
l’abolizione della servitù della gleba anche in Europa
orientale, accanto alla crescita dei lavoratori urbani. Le
città europee, e in specie i centri di maggiore rilevanza
industriale, divennero meta di sostenuti flussi migratori
provenienti dalle campagne. Con la prospettiva di esistenze spesso
miserabili, uomini, donne e bambini ingrossarono a dismisura le file
del ceto salariato, impiegato nelle fabbriche o in altre
attività (garzoni, domestici). La conflittualità
sociale crebbe rapidamente, con esiti talora drammatici, mentre il
capitale, gli strumenti della produzione e inizialmente anche il know-how si separarono dal l., divenendo una prerogativa di datori o
supervisori del l. in fabbrica. L’Inghilterra del 19° sec. fu
teatro di violente proteste contro le macchine (➔ luddismo), della
nascita delle prime organizzazioni sindacali (Trade unions, 1824) e
di movimenti come quello cartista (1839), che inaugurarono la strada
delle rivendicazioni politiche, da parte di larghe frange di
lavoratori, favorendone la coesione e il coordinamento,
incoraggiando la formazione di una cultura operaia e di una
embrionale coscienza di classe. L’approssimarsi di una nuova fase
dell’industrializzazione (la cosiddetta seconda Rivoluzione
industriale), corrispondeva all’avvento di un’epoca ormai matura per
il graduale accoglimento delle rivendicazioni (economiche ma anche
sociali e politiche) avanzate da categorie di lavoratori ora
numerose, organizzate e coese. Le spinte economiche del secondo
Ottocento, l’esigenza di aumentare in quantità e
qualità la produzione di beni e servizi rendevano d’altra
parte superato il problema del macchinismo, nel quadro di una
costante crescita di valore della manodopera specializzata e delle
macchine perfezionate, a un tempo. Una significativa parte della
manodopera non specializzata (proveniente in specie da aree
scarsamente industrializzate, come il Meridione italiano) produsse
invece nuovi fenomeni migratori, ora diretti verso l’Europa
continentale e le Americhe. In quegli stessi decenni, la maggior
parte degli Stati occidentali dovette pertanto dotarsi di normative
atte a disciplinare la durata, le caratteristiche e le
modalità del l. salariato, fissando, in taluni casi, i minimi
salariali e stipendiali (Inghilterra, 1802, 1867-91; Francia, 1848,
1874; Svizzera, 1874-90; Italia, 1871-1886; USA e Canada, 1867-94).
Guardando al piano delle sostanziali conquiste giuridiche, è
invece necessario attendere il primo dopoguerra e anzi la fine del
secondo conflitto mondiale perché si elabori, in tutto
l’Occidente, un diritto del l. conforme al rispetto dell’infanzia e
dei fondamentali obiettivi raggiunti da uomini e donne (abolizione
del l. minorile, giornata lavorativa di 8 ore, diritto di sciopero,
festività, previdenza). Lavoratori su cui anzi specificamente
si fonda il dettato costituzionale di alcune tra le più
giovani democrazie europee (così nel caso italiano): è
il traguardo del l. come diritto inviolabile, da cui derivano
diritti ulteriori, celebrato in occasione della festività
internazionale del 1° maggio (istituita negli USA, negli anni
Ottanta del 19° sec.). Una conquista che scaturì da
ennesime battaglie sociali e politiche (il biennio rosso, 1919-20,
le agitazioni americane dopo la crisi del 1929), come pure dal
rilevante contributo di alcuni dei massimi pensatori dell’Otto e del
Novecento (si pensi al dibattito sulla divisione del l. e sul
taylorismo, che ha impegnato studiosi marxisti e liberisti).
Rispetto allo scenario mondiale degli ultimi decenni, il l. è
tornato a rappresentare un tema-chiave della riflessione politica,
giuridica, sociologica, filosofica e storiografica, sotto lo
stimolo, da un lato, delle recenti tendenze dell’economia di mercato
(la complessità dei sistemi produttivi, la continua esigenza
di ristrutturarne i comparti, la nascita del cosiddetto quarto
settore), e d’altro canto la persistente piaga (in Asia e in Africa,
in particolare), di nuove forme di schiavitù e dello
sfruttamento del l. femminile e minorile, in specie.