Inflazione
Vocabolario on line
inflazióne s. f. [dal lat. inflatio -onis «enfiamento, gonfiatura»,
der. di inflare «gonfiare»; il sign. economico è sorto negli Stati
Uniti d’America (ingl. inflation) dopo la guerra di secessione
(1861-1865)]. –
1. In economia, aumento prolungato del livello medio generale dei
prezzi, o anche diminuzione prolungata del potere d’acquisto (cioè
del valore) della moneta, le cui cause vengono in genere individuate
in una crescita eccessivamente rapida della quantità di moneta in
circolazione, in un eccesso di domanda globale determinato da altre
cause, o in una pressione al rialzo dei costi (i. da costi, distinta
dall’i. da domanda perché, a differenza di questa, è accompagnata da
recessione produttiva e viene, pertanto, designata anche con i
termini di stagflazione o i. recessiva); è un fenomeno complesso,
che i governi cercano di contrastare e controllare, in quanto ha
forti conseguenze negative sia sulla produzione e l’occupazione, sia
sulla distribuzione del reddito tra i gruppi sociali. Locuzioni:
andare verso l’i.; l’i. è ormai in atto; tasso d’i., la variazione
del livello dei prezzi, espressa in termini percentuali e
generalmente calcolata su base annua; provvedimenti intesi a frenare
l’i. (o a contenere il tasso d’i.); i. galoppante, che procede con
tale rapidità da potersi ritenere fatalmente avviata verso
l’annullamento del valore della moneta; i. strisciante (dall’ingl.
creeping inflation), leggero ma progressivo slittamento del potere
d’acquisto che può anche in un primo momento passare inosservato o
quasi, ma che, se non è tenuto sotto controllo, può raggiungere a
poco a poco livelli pericolosi. È detto iper-inflazione, secondo una
convenzione adottata da molti studiosi, l’incremento percentuale del
livello dei prezzi superiore al 50% al mese: va distinta dalla
svalutazione, che è la perdita di potere d’acquisto di una moneta in
termini di altre monete, anche se i due fenomeni sono spesso
collegati.
Dizionario di Economia e Finanza
(2012)
Strumenti di misura, costi e benefici dell’inflazione
Indici dei Prezzi al Consumo (IPC). Gli indici (di Laspeyres, a base
fissa) dei prezzi al consumo comunemente utilizzati dagli istituti
di statistica (ISTAT, in Italia; Eurostat per l’IPCA (➔),
nell’Unione Europea) per misurare mensilmente l’inflazione al
consumo, tendono a sovrastimare l’inflazione effettiva. I pesi
costanti per le categorie che compongono il paniere di consumo medio
non tengono conto della sostituzione che i consumatori fanno a
favore dei beni il cui prezzo relativo aumenta rispetto ad altri
beni simili. Inoltre, è difficile per gli statistici distinguere tra
inflazione generale e aumenti di prezzi giustificati da
miglioramenti della qualità. La percezione dell’inflazione di
determinate categorie di consumatori (pensionati, soggetti ad alto o
basso reddito ecc.), dati i loro panieri di spesa, può differire da
quella generale, che si basa sul paniere di spesa del consumatore
medio. Al fine di meglio cogliere situazioni di disagio
economico-sociale, si costruiscono dunque anche indici
dell’inflazione al consumo per tipo di consumatore.
In alcuni Paesi, l’IPC viene depurato dall’effetto una tantum di
provvedimenti di politica economica (come le variazioni delle
aliquote dell’IVA) e dell’andamento dei prezzi, con ampie
fluttuazioni temporanee, di alcune categorie di beni (prodotti
agricoli, petrolio, altre materie prime importate). L’obiettivo è
una misura dell’inflazione meno erratica (da qui il termine core
inflation, ovvero inflazione di fondo), quindi più utile per guidare
le azioni delle banche centrali, che hanno per compito (mandato) di
mantenere la stabilità monetaria (➔). Le banche centrali decidono
sui tassi d’interesse con riferimento a stime dell’inflazione attesa
a distanza di almeno un anno. È questo il ritardo minimo che gli
studi indicano per gli effetti sull’inflazione della politica
monetaria.
Inflation targeting. Una strategia di politica monetaria adottata da
molti Stati a partire dal 1990 è l’inflation targeting, che
specifica il mandato sulla stabilità monetaria sotto forma di un
livello (o di un intervallo di valori) del tasso di inflazione
obiettivo che la banca centrale si impegna a ottenere e di cui si
rende direttamente responsabile di fronte alle autorità politiche e
all’opinione pubblica. Alla banca centrale, quasi sempre
istituzionalmente indipendente dal governo, sono attribuiti larghi
margini di libertà nell’uso degli strumenti a sua disposizione, a
partire dai tassi d’interesse di mercato monetario.
Inflazione dannosa e inflazione positiva. Con riferimento alle cause
dell’inflazione, si distinguono l’inflazione da costi, quando
l’aumento dei prezzi da parte delle imprese è dovuto agli aumenti
dei costi di produzione (per es. salari, energia, materie prime
importate) e l’inflazione da domanda, quando l’aumento dei prezzi è
dovuto a un eccesso di domanda aggregata, spesso reso possibile da
una crescita della moneta, rispetto all’offerta o prodotto
potenziale (discrepanza nota anche come output gap).
Un’inflazione più alta si associa a una maggiore variabilità, il che
accresce l’incertezza degli agenti nel distinguere tra mutamenti nei
prezzi relativi e andamento del livello generale dei prezzi, con
conseguenze negative sulle scelte ottimali di consumo, investimento
e risparmio, spreco di risorse, ridotta funzionalità della moneta
come riserva di valore se il potere d’acquisto diminuisce nel tempo.
In un’economia aperta, l’aumento dei prezzi, se non varia il tasso
di cambio, rende più costosi in termini relativi beni e servizi
prodotti nel Paese rispetto a quelli esteri, favorendo le
importazioni e scoraggiando le esportazioni. La svalutazione del
cambio, per riguadagnare competitività di prezzo, può non essere
efficace se l’incremento dei prezzi dei beni e servizi importati
(cosiddetta inflazione importata) si traduce in un’ulteriore
crescita dei prezzi, di dimensione tale da annullare il beneficio
sperato. Occorre poi distinguere tra inflazione attesa e inattesa.
Anche nel caso di inflazione attesa, gli operatori economici non
sono in generale in grado di proteggersi dalla perdita di potere
d’acquisto, poiché ciò dipende dal grado di adattamento
all’inflazione delle istituzioni (sistema fiscale eventualmente
indicizzato ai prezzi, contabilità a costo storico o a prezzi di
rimpiazzo, con deducibilità degli oneri finanziari nominali o
corretti per l’inflazione, contratti di debito a tassi nominali
fissi o rivedibili, con capitale indicizzato ai prezzi o no,
meccanismi di indicizzazione di salari, pensioni eccetera). I costi
maggiori sono comunque relativi all’inflazione inattesa, per gli
effetti poco trasparenti di redistribuzione, da creditori a debitori
(tra cui lo Stato, secondo la teoria fiscale dell’inflazione).
Questi costi emergono quando i tassi d’interesse contrattuali non
tengono conto della variazione effettiva del potere d’acquisto
(ovvero alla scadenza il tasso d’interesse reale può risultare
negativo).
L’aggiustamento dei prezzi e dei salari relativi può essere
agevolato da un’inflazione positiva, purché bassa. In presenza di
rigidità verso il basso dei prezzi (menu cost) e dei salari
nominali, anche per considerazioni di stigma sociale legate a
riduzioni del salario nel corso della vita lavorativa, mutamenti dei
salari reali relativi, per incentivare riallocazioni spontanee dei
lavoratori da settori produttivi in declino ad altri in espansione,
possono realizzarsi a costi sociali minori mantenendo fermi i salari
nominali nei settori in crisi, dunque con salari reali in riduzione
data l’inflazione positiva, e aumentandoli in misura pari o
superiore all’inflazione negli altri. La politica monetaria può
trovarsi in difficoltà a contrastare i rischi di recessione o di
deflazione. Può essere costretta a stimolare la domanda aggregata
con riduzioni dei tassi d’interesse reali, se non ha margini per
diminuire significativamente i tassi d’interesse nominali. Ciò può
verificarsi se i tassi nominali sono già nulli o quasi. In questo
caso la politica monetaria può, con acqusti di titoli sul mercato,
produrre una espansione quantitativa della moneta, abbassando anche
i tassi d’interesse a lungo termine e stimolando così gli
investimenti. Mentre un’inflazione elevata, dunque, è certamente
dannosa per un’economia, vi sono ragioni per preferire un’inflazione
bassa piuttosto che nulla; la deflazione, inoltre, è comunque molto
più deleteria dell’inflazione, perché innalza il peso reale del
debito.
Enciclopedia Italiana - IV
Appendice (1979)
INDICE
LA TESI DEI MONETARISTI
LA TESI DEI MONETARISTI E L'INFLAZIONE DA DOMANDA
L'INFLAZIONE DA COSTI
L'INFLAZIONE STRUTTURAL E LA TRASMISSIONE INTERNAZIONALE
DELL'INFLAZIONE
ULTERIORI CONSIDERAZIONI SULLE CAUSE DELL'INFLAZIONE
LE MISURAZIONI QUANTITATIVE DELL'INFLAZION
EEFFETTI DELL'INFLAZIONELE POLITICHE ANTINFLAZIONISTICHE
BIBL
di Giovanni Palmerio
INFLAZIONE (XIX, p. 214; App. II, 11, p. 33). - Definizione. - Per
i. s'intende un aumento prolungato del livello dei prezzi, che può
essere di diversa entità. Se l'incremento è molto forte, si parlerà
d'i. galoppante; se è limitato, invece, d'i. strisciante.
In certi paesi e in dati periodi storici, per es. in molte nazioni
dell'Europa occidentale durante il secolo scorso, vi è stata una
stabilità dei prezzi quasi assoluta: allora un aumento del 10% in un
anno rappresentava già un'i. galoppante o quasi. Viceversa in altri
momenti alcuni paesi, come certe nazioni del Sud America in questo
secolo, hanno conosciuto aumenti dei prezzi fino al 100 o al 200% in
pochi mesi e hanno avuto lunghi periodi in cui questi crescevano
ogni anno del 30 o 40%. In questo caso la definizione d'i.
galoppante o strisciante naturalmente mutava.
Le opinioni degli studiosi divergono quando si tenta di analizzare
le cause del fenomeno. Alcuni infatti lo attribuiscono a fattori
monetari, altri a cause reali.
La tesi dei monetaristi
Secondo i monetaristi, i prezzi aumentano tutte le volte che la
quantità di moneta in circolazione cresce più rapidamente delle
merci prodotte. Diversi esempi storici mostrano la validità di
questa affermazione.
Nel secolo 16°, poco dopo la scoperta dell'America, furono importati
dal nuovo mondo grandi quantitativi di metalli preziosi e in
particolare di oro. A quell'epoca il circolante era costituito quasi
esclusivamente da monete metalliche, il cui valore normalmente
corrispondeva a quello intrinseco, cioè al prezzo di mercato della
quantità di oro o altro metallo contenuto nella moneta stessa.
Esisteva il diritto di coniazione, per cui un individuo poteva
portare oro alla zecca e ottenere in cambio monete. L'importazione
dei metalli preziosi dalle Americhe determinò quindi un forte
aumento della circolazione, ma le merci esistenti nel sistema
economico rimanevano le stesse, per cui la maggiore quantità di
moneta nelle mani degl'individui generò semplicemente un notevole
incremento dei prezzi.
Un altro episodio molto noto è quello della grande inflazione
tedesca appena dopo la prima guerra mondiale. Per pagare i suoi
debiti nei confronti dei cittadini, il governo fece ricorso alla
banca centrale, chiedendole di stampare enormi quantità di carta
moneta. L'aumento della circolazione determinò anche in questo caso
un forte incremento dei prezzi.
Uno dei principali problemi delle teorie monetarie consiste nel dare
una definizione appropriata della moneta. In economie complesse come
quelle moderne questa non può ridursi ai biglietti e alle monete
metalliche, ma deve tener conto in qualche modo anche della
cosiddetta moneta bancaria, costituita dalle cambiali e dagli
assegni, dai depositi e così via. Secondo alcuni autori bisognerebbe
considerare pure la liquidità a breve, cioè quei titoli
obbligazionari che, essendo a breve scadenza, possono essere visti
come sostituti della moneta. Occorre quindi individuare le
componenti della massa monetaria che hanno maggiore influenza sul
livello dei prezzi, e su questo argomento il dibattito scientifico è
lungi dall'essere approdato a una posizione concorde.
La tesi dei monetaristi e l'inflazione da domanda
Anche se all'aumentare della quantità di moneta i prezzi crescono,
ciò non significa che questa sia l'unica possibile fonte d'i., anzi
in molte situazioni la causa immediata del fenomeno appare un'altra.
Secondo le principali teorie non monetarie (o reali) l'aumento dei
prezzi dipende in alcune situazioni da fattori di domanda (i. da
domanda) e in altre da cause legate ai costi (i. da costi).
Il primo concetto potrebbe non apparire molto diverso da quello d'i.
dovuta all'aumento della quantità di moneta, e per afferrarlo bene
occorre qualche nozione tecnica.
Consideriamo un paese in cui si produce una certa quantità di merci
che vengono vendute sui mercati. Vi saranno un'offerta e una domanda
di tali beni, che verranno acquistati a certi prezzi. Che cosa
accade quando la domanda eccede l'offerta di una data merce? Se la
produzione di quel bene può essere accresciuta, probabilmente vi
sarà un'espansione della sua offerta, altrimenti si avrà un aumento
del prezzo. Per il sistema economico nel complesso, quando la
domanda totale di beni (detta domanda globale o aggregata) eccede
l'offerta globale, si avrà un'espansione generale della produzione
se è possibile; altrimenti un aumento dei prezzi. La differenza tra
le due situazioni è data dal concetto di piena occupazione
introdotto in modo esplicito nell'analisi dall'economista inglese J.
Maynard Keynes. Quando vi sono macchinari e uomini disoccupati (il
sistema è cioè in una situazione di sottoccupazione), un aumento
della domanda determina un'espansione della produzione e
dell'offerta dei beni. Ma quando vi è il pieno impiego delle risorse
produttive e della forza lavoro in particolare, la produzione non
può essere accresciuta e un incremento della domanda globale
determina aumento dei prezzi.
Il parallelo con l'inflazione generata da cause monetarie appare
immediato. Viene infatti subito da argomentare: l'incremento della
quantità di moneta in circolazione significa aumento del potere
d'acquisto, cioè della domanda degl'individui, e quindi le due
teorie sono assai simili. Ma il ragionamento non è rigoroso e, per
afferrare la differenza tra i due tipi d'i., occorre avere ben
chiara quella tra quantità di moneta e domanda globale.
Supponiamo che il sistema economico sia costituito da quattro
individui e che la moneta in circolazione sia rappresentata da un
unico biglietto di 10.000 lire. Questo nel corso di un dato periodo,
per es. un anno, passa dal primo al secondo soggetto, dal secondo al
terzo e dal terzo al quarto. Ogni volta che il biglietto passa da un
individuo all'altro, chi lo riceve darà delle merci in cambio a
colui che lo cede. Supponiamo che il prezzo di 1 kg. di mele sia
pari a L. 2500. Se il primo individuo dà al secondo 10.000 lire,
questi gli fornirà quattro chili di mele. In altri termini ogni
passaggio di moneta da un soggetto all'altro servirà a finanziare
una transazione, cioè la domanda di beni. Ma allora nel nostro
esempio, se la quantità di moneta in circolazione è di 10.000 lire,
la domanda globale (di merci) è pari a 30.000 lire. Infatti questa
(D) è data dal prodotto tra la quantità di moneta (M) e la sua
velocità di circolazione (V), cioè il numero di volte che essa passa
di mano in mano. Possiamo pertanto scrivere
Supponiamo ora che V sia costante. In questo caso D varia nella
stessa proporzione di M ed è valida la tesi dei monetaristi. Infatti
un incremento di M determina un aumento di D, che a sua volta, se il
sistema è in piena occupazione, fa crescere i prezzi. Ma, poiché
l'unica via attraverso cui può aumentare D è l'incremento di M, si
può ben sostenere che la causa dell'i. è l'aumento della
circolazione monetaria.
Assai diverso è il discorso se V è variabile come sosteneva Keynes.
Supponiamo che M cresca; potrebbe verificarsi però una diminuzione
di V, per es. nella stessa proporzione dell'aumento di M. In questo
caso il valore di D resterebbe invariato. Quindi, pur essendo
aumentata la quantità di moneta, la domanda globale non è cresciuta
e non si ha alcun effetto sul livello dei prezzi.
L'argomento può essere illustrato in modo più completo: se
indichiamo con q, q2, ..., qn le quantità dei beni scambiate nel
sistema economico e con p1, p2, ..., pn i rispettivi prezzi,
possiamo scrivere
Poiché ogni volta che la moneta passa da un individuo A a un altro B
questi dà in cambio ad A delle merci il cui valore (prezzo ×
quantità) è eguale alla moneta ceduta, si conclude facilmente che la
quantità di moneta moltiplicata per la sua velocità di circolazione
è eguale alla somma delle quantità delle merci scambiate, ciascuna
moltiplicata per il rispettivo prezzo.
La (1) può essere scritta anche nella forma
dove P e Q rappresentano rispettivamente il livello medio dei prezzi
e una media delle quantità scambiate. MV è la domanda globale e PQ
l'offerta globale di merci (espressa anch'essa in termini monetari,
dato che i beni sono moltiplicati per i rispettivi prezzi).
Le q nella (1) e la Q nella (2) possono mutare se varia il numero
dei passaggi intermedi delle merci dai produttori agli utilizzatori
finali, oppure la quantità prodotta dei beni. Questa non può
cambiare nel breve periodo se il sistema economico è in piena
occupazione (nel lungo invece potrebbe aumentare sia per la crescita
della popolazione sia per il progresso tecnico); e a breve termine
possiamo escludere anche che vari il numero dei passaggi intermedi.
Vediamo così in modo più chiaro lo stesso risultato cui eravamo già
pervenuti. Consideriamo una situazione di pieno impiego e supponiamo
che V sia costante; in questo caso variazioni di M determinano
variazioni proporzionali nel livello dei prezzi P: l'inflazione è
generata dall'aumento della quantità di moneta come sostengono i
monetaristi. Se invece V è variabile, gl'incrementi di M non hanno
un effetto certo su P, ma bisogna guardare alle variazioni di MV,
cioè della domanda globale. In questo caso è valida la teoria
keynesiana.
Pertanto la controversia tra monetaristi e keynesiani si riduce
essenzialmente al punto se V è costante oppure no, e la risposta va
cercata nelle analisi empiriche.
Tra gli economisti che hanno condotto approfonditi studi statistici
sul problema, ricordiamo il francese M. Allais e l'americano M.
Friedman insieme con i suoi numerosi allievi della scuola di
Chicago. Prima di esaminare i risultati delle loro analisi occorre
però fare ancora alcune precisazione sulla (2), che è nota nella
letteratura come equazione degli scambi o di Fisher, dal nome
dell'autore statunitense che l'introdusse nella teoria economica.
Com'è noto, nella contabilità nazionale i beni vengono distinti in
finali e intermedi. La differenza tra i due tipi di merci può essere
chiarita mediante un semplice esempio. Consideriamo una certa
quantità di grano che si trasforma in farina, che a sua volta
diviene pane. Quest'ultimo è il bene finale, mentre gli altri sono
beni intermedi. Il reddito nazionale di un paese è costituito dalla
somma dei beni finali (ciascuno moltiplicato per il rispettivo
prezzo) prodotti in una data unità di tempo (normalmente l'anno) nel
paese considerato. Infatti, se includessimo nel calcolo anche i beni
intermedi, introdurremmo delle duplicazioni.
Pertanto, se nella (2) consideriamo solo i beni finali e se quindi
anche P rappresenta una media dei prezzi di queste merci soltanto,
PQ è il reddito nazionale; il valore di V sarà minore in questo
caso, dato che non vengono registrate le transazioni (e i passaggi
di moneta) relativi ai beni intermedi. Si parla infatti di velocità
di circolazione in termini di reddito in contrapposizione a quella
in termini di transazioni. Le considerazioni precedenti però
rimangono valide, anzi in questo caso non abbiamo nemmeno bisogno di
ipotizzare la costanza del numero dei passaggi intermedi delle merci
dai produttori agli utilizzatori finali, dato che questi non vengono
presi in esame. Nella letteratura domanda globale e reddito
nazionale vengono usati come termini equivalenti, poiché di solito
si tiene conto della domanda di beni finali soltanto.
Le indagini statistiche considerano la velocità in termini di
reddito sia perché normalmente non vi sono dati disponibili per
tutte le transazioni sia perché, quando a V si dà questa
interpretazione, l'analisi si presta ad altri interessanti sviluppi.
La (2), attraverso semplici passaggi elementari, può essere scritta
nella forma
da cui risulta che il reciproco della velocità di circolazione (che
viene di solito indicato con la lettera
è eguale al rapporto tra la quantità di moneta e il reddito
nazionale, cioè alla percentuale di reddito che in media
gl'individui detengono sotto forma liquida e che prende il nome di
domanda di moneta.
Le indagini empiriche mostrano che V è poco stabile nel breve
periodo, mentre lo è assai di più nel lungo. Gli studi di Friedman
in particolare mettono in evidenza che V aumenta nelle fasi d'i. e
diminuisce in quelle di depressione. Del resto è ovvio che, quando i
prezzi crescono, gl'individui cercano di disfarsi della moneta
acquistando beni, per cui la velocità di circolazione aumenta;
quando i prezzi sono stabili invece, il pubblico mostra una
propensione molto maggiore a detenere moneta, la cui velocità quindi
diminuisce.
La tendenza secolare di V, secondo le analisi di Friedman, che si
estendono dalla metà del secolo scorso a oggi e riguardano
soprattutto gli Stati Uniti, è nel senso di una sostanziale
stabilità o di una lieve diminuzione; quest'ultima appare però
smentita per il periodo successivo alla seconda guerra mondiale.
Raggiungere una conclusione sicura non è facile, anche perché V
risulta più o meno stabile a seconda della definizione che si dà di
M (problema a cui abbiamo accennato precedentemente). In generale
gli economisti tentano di definire la massa monetaria come
quell'aggregato che ha una relazione più stabile con il livello dei
prezzi o con il reddito nazionale, ma non sempre la sua
individuazione risulta facile. Comunque nel lungo periodo la
variabilità di V è certamente limitata, per cui incrementi
consistenti della quantità di moneta, non accompagnati da
un'adeguata espansione della produzione di beni, hanno ripercussioni
sul livello dei prezzi.
L'inflazione da costi
In diversi momenti, specie nel periodo successivo alla seconda
guerra mondiale, in numerosi paesi appariva come causa fondamentale
d'i. l'aumento dei costi per le imprese.
Un incremento dei prezzi delle materie prime per es. spinge le
aziende ad aumentare quelli dei prodotti finiti, e lo stesso effetto
ha una crescita dei salari che rappresentano una delle principali
voci di costo nei bilanci aziendali.
Alcuni economisti sostengono che per la stabilità dei prezzi i
redditi da lavoro (almeno nel settore industriale) devono aumentare
allo stesso ritmo della produttività, poiché in tal modo rimane
costante la percentuale dei profitti sulla produzione totale. Questa
non è una regola universalmente valida, dato che le imprese in certi
periodi potrebbero accettare anche una diminuzione di tale quota. Se
però gli aumenti delle retribuzioni sono tali da determinare una
continua caduta dei profitti, l'unico modo attraverso cui le aziende
alla lunga potranno ricostituire i loro equilibri interni sarà
l'aumento dei prezzi.
In numerosi paesi il costo del lavoro non è costituito solo dal
salario, ma da diverse altre voci raggruppate sotto il nome di oneri
sociali. Si tratta dei versamenti che le aziende devono fare, di
solito allo stato, per finanziare l'assistenza sanitaria, le
pensioni e altre provvidenze per i lavoratori. Tali oneri non sono
direttamente rilevanti dal punto di vista del costo del lavoro in
quelle nazioni in cui i lavoratori provvedono alla propria
assistenza essi stessi mediante meccanismi di assicurazione privata
o in quelle in cui la sicurezza sociale è finanziata dallo stato
attraverso il sistema tributario. In Italia gli oneri sociali
costituiscono una quota del costo del lavoro non solo alta ma in
continua espansione, data l'inefficienza e l'eccessiva dilatazione
degli organici degli enti che erogano l'assistenza sanitaria e le
pensioni. La crescita degli oneri sociali comunque di solito segue
quella delle retribuzioni, per cui il principale problema della
teoria dell'i. da costi sta nello spiegare l'aumento dei salari.
Agl'inizi degli anni Sessanta una delle teorie più seguite era
quella dell'economista inglese Phillips, secondo cui le cause
degl'incrementi salariali andavano cercate soprattutto nel mercato
del lavoro. Dall'esame dei dati statistici relativi all'Inghilterra
dalla metà del 19° secolo alla fine degli anni Cinquanta, Phillips
deduceva l'esistenza di una forte correlazione inversa tra aumento
dei salari e livello della disoccupazione, nel senso che le
retribuzioni crescevano rapidamente quando il sistema economico era
vicino alla piena occupazione della forza lavoro, mentre aumentavano
sempre più lentamente fino a non crescere più man mano che si creava
disoccupazione. La spiegazione del fenomeno, secondo Phillips e
altri autori, poteva essere duplice. Quando il sistema è in piena
occupazione, i sindacati hanno maggiore forza contrattuale, per cui
riescono a ottenere più elevati aumenti retributivi. L'altra
interpretazione è che, quando il sistema è in piena occupazione,
sono gli stessi imprenditori a offrire salari più alti per avere
manodopera che è difficile procurarsi. La forte diffusione in molti
paesi occidentali del fenomeno dello slittamento salariale, per cui
le retribuzioni effettive sono notevolmente più elevate di quelle
fissate nei contratti collettivi, fa ritenere questa spiegazione più
realistica della prima.
Altri autori hanno sottoposto a verifica empirica non solo la
relazione originaria di Phillips (che riguarda l'aumento dei salari
e la disoccupazione) ma anche una relazione tra l'aumento dei prezzi
e la disoccupazione. Come spesso accade nelle indagini economiche,
non si è arrivati a soluzioni univoche, anzi le ricerche fatte per
paesi diversi dall'Inghilterra come gli stati Uniti, la Francia,
l'Italia, hanno dato risultati che tendono piuttosto a smentire la
stessa relazione di Phillips.
La conseguenza che l'autore inglese traeva sul piano della politica
economica era l'esistenza di un problema di scelta tra i. e
disoccupazione, perché quanto più bassa era quest'ultima tanto più
alto sarebbe stato l'aumento dei salari e dei prezzi. Egli sosteneva
l'esistenza di un livello ottimale di disoccupazione (il 3 0 4%
della forza lavoro) che consentiva di mantenere l'i. sotto
controllo, e consigliava di usare le politiche monetarie e fiscali
in modo da ottenere questo livello. Come vedremo, questa teoria ha
perso credibilità a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando
l'esperienza di numerosi paesi, tra cui l'Italia e l'Inghilterra, ha
mostrato che il potere sindacale rimane sostanzialmente immutato
anche in presenza di una consistente disoccupazione.
Nel caso dell'i. salariale può risultare arduo determinare se
l'incremento dei prezzi è generato da fattori di costo oppure di
domanda, dato che gli aumenti delle retribuzioni si traducono non
solo in più alti oneri per le imprese, ma anche in maggiori acquisti
di beni di consumo da parte dei lavoratori.
Verso la fine degli anni Sessanta però si è verificato in diversi
paesi occidentali un fenomeno, la cosiddetta stagflazione, che
sembra avvalorare la tesi dell'i. da costi. Si sono infatti avuti
forti aumenti dei salari e dei prezzi congiuntamente al ristagno
della produzione e a consistente disoccupazione. Quando nel sistema
economico vi sono uomini e risorse non utilizzati, un eccesso di
domanda sull'offerta globale genera aumento della produzione e non
dei prezzi, per cui, se questi crescono, si può ritenere che
l'incremento dei salari agisce dal lato dei costi anziché da quello
della domanda. Secondo diversi economisti, tra cui l'americano
Galbraith, l'i. è causata dal fatto che le imprese sono in grado di
aumentare i prezzi, e un potere analogo hanno i sindacati sui
salari, dato che entrambi agiscono in condizioni di oligopolio.
Pertanto le aziende sono propense a cedere alle richieste sindacali
di aumenti retributivi, poiché possono mantenere inalterati i
profitti alzando i prezzi. In tal modo l'i. pesa sulle categorie più
deboli, che, non avendo tutela sindacale, non conseguono
miglioramenti retributivi e quindi sono particolarmente colpite
dall'aumento dei prezzi. Un'i. di questo tipo, non contemplata né da
Keynes né da Phillips, può verificarsi anche quando vi sono dei
disoccupati nel sistema economico, poiché il potere dei sindacati
non è influenzato in maniera rilevante dalla disoccupazione
esistente.
Un'altra via attraverso cui può verificarsi la stagflazione è non
l'accordo (più o meno esplicito) tra imprese e sindacati su aumenti
simultanei di prezzi e salari, ma piuttosto la forte conflittualità
nelle aziende, che determina crescita del costo del lavoro, caduta
della produttività e quindi aumento dei prezzi e ristagno
degl'investimenti e dell'occupazione a causa delle aspettative
sfavorevoli, com'è avvenuto in Italia dopo il 1969. In questo caso
anche la definizione di reddito di pieno impiego, cioè del livello
di prodotto che corrisponde alla piena occupazione delle risorse,
perde grandemente di significato, dato che il grado di utilizzazione
degl'impianti e della manodopera dipende dalla conflittualità e
quindi dall'accordo tra le imprese e i sindacati.
Rimane da esaminare come si colloca la tesi dell'i. da costi
rispetto alla posizione dei monetaristi, secondo i quali l'origine
del fenomeno inflazionistico è sempre nell'espansione della quantità
di moneta. Quando questa cresce, essi sostengono, aumentano tutti i
prezzi e quindi anche quello del lavoro, cioè i salari.
La contrapposizione tra le due teorie è però meno forte di quanto
sembra a prima vista. Infatti può ben darsi che l'i. sia generata
dall'aumento della quantità di moneta, dato che le indagini
empiriche mostrano spesso una sostanziale stabilità della sua
velocità di circolazione, però in molte situazioni l'espansione
della quantità di moneta è determinata proprio dagli aumenti
salariali o più in generale dalla conflittualità sindacale. Infatti
le imprese, quando sono costrette a concedere forti miglioramenti
retributivi, possono registrare una notevole diminuzione dei
profitti. E vero che esse tenteranno di ricostituirli aumentando i
prezzi, ma ciò richiede un certo tempo e non sempre è possibile. Se
le aziende considerate sono esposte alla concorrenza internazionale,
un eccessivo aumento dei prezzi dei loro prodotti, facendoli perdere
di competitività, determinerebbe una contrazione delle vendite.
Questa presenta alle autorità monetarie la preoccupazione di una
pressione recessiva sull'occupazione, per neutralizzare la quale
finiscono con l'accelerare il tasso di crescita della quantità di
moneta. In generale, per evitare la disoccupazione, verrà concesso
maggiore credito bancario alle imprese se hanno avuto una forte
caduta dei profitti.
In un paese come l'Italia, in cui il settore pubblico è molto
esteso, il meccanismo di produzione dell'i. è ancora più semplice.
Infatti gli aumenti retributivi in questo settore e quelli delle
pensioni spesso possono venire finanziati solo mediante creazione di
nuova moneta: per es. perché il gettito tributario non può essere
ulteriormente accresciuto e i privati non sono disposti ad
acquistare titoli del debito pubblico. In tale caso (e la situazione
italiana degl'inizi degli anni Settanta era proprio di questo
genere) non è nemmeno possibile operare una netta distinzione tra
aumento delle retribuzioni ed espansione della quantità di moneta.
L'inflazione strutturale
Un'altra corrente di pensiero, ispirandosi alla realtà dei paesi
arretrati o in fase intermedia di sviluppo, attribuisce l'i. a cause
"strutturali".
Dare una definizione d'i. strutturale non è semplice, perché le sue
determinanti possono essere numerose. Normalmente essa è generata da
caratteristiche specifiche di uno o più settori dell'economia e, per
lo meno nella fase iniziale, si manifesta sotto forma di aumento di
alcuni prezzi soltanto.
Come primo esempio di cause strutturali possiamo prendere in esame
l'agricoltura. Consideriamo un paese in cui si ha espansione del
settore industriale e spostamento di popolazione dalla campagna alla
città. Il processo di sviluppo determina un aumento dei redditi
degl'individui e una maggiore domanda di generi alimentari. Però nel
breve periodo è difficile rendere più produttiva l'agricoltura, per
cui non è possibile espandere in misura consistente l'offerta di
tali beni, né è facile importarli, dato che ciò potrebbe generare
forti disavanzi di bilancia dei pagamenti. Pertanto l'eccesso di
domanda sull'offerta di prodotti agricoli determinerà un aumento dei
loro prezzi. Ciò indurrà i lavoratori a chiedere aumenti salariali,
e così si può innescare una spirale inflazionistica difficile da
frenare.
Lo stesso meccanismo può operare per altri settori, diversi
dall'agricoltura, come per es. l'edilizia. Spesso nei paesi in cui
si è avuto un rapido decollo industriale non si è registrata
un'adeguata espansione della produzione di case, mentre lo
spostamento di popolazione dalla campagna alla città ha fatto
aumentare fortemente la domanda di alloggi specie nei grandi
agglomerati urbani. La mancata produzione di immobili può essere
dovuta a cause diverse: dall'arretratezza e inefficienza
dell'industria delle costruzioni alla concentrazione delle aree
nelle mani di pochi proprietari, all'incapacità del potere politico
e della pubblica amministrazione. L'eccesso di domanda sull'offerta
di case ne fa crescere il prezzo. Gli alti fitti determinano
conflitti sociali e forti richieste di aumenti salariali, e per
questa via l'i. si propaga all'intero sistema economico.
Un altro tipo d'i. strutturale è dovuto al fenomeno per cui la
produttività cresce a saggi differenziati nei diversi rami
dell'economia, mentre le retribuzioni tendono ad aumentare tutte al
tasso a cui la produttività varia nel settore trainante.
Nell'industria, specie in alcuni rami, il progresso tecnico consente
di produrre con lo stesso tempo di lavoro una quantità sempre
maggiore di beni, e ciò permette di aumentare i salari in misura
consistente senza ridurre i profitti. In altri settori dell'economia
però il progresso tecnologico è assai meno intenso; nonostante ciò,
le richieste di miglioramenti retributivi in questi comparti, per
ragioni politiche e sociali, sono all'incirca uguali a quelle dei
settori in cui la produttività cresce velocemente. L'unico modo
attraverso cui, alla lunga, questi incrementi salariali possono
essere assorbiti nei rami in cui vi è scarso progresso tecnico è
l'aumento dei prezzi.
Il progresso tecnologico è rapido nel settore manifatturiero, mentre
procede più lentamente nel terziario e nell'edilizia e spesso anche
nell'agricoltura. Per questo motivo i prezzi dei servizi, delle
costruzioni e dei generi alimentari aumentano più velocemente di
quelli dei prodotti industriali.
Sulla base dei precedenti esempi che rappresentano i casi principali
d'i. strutturale, possiamo affermare che questa è determinata o da
strozzature dell'offerta in certi settori (agricoltura, edilizia,
trasporti, ecc.) o da una crescita dei salari più rapida di quella
della produttività sempre in specifici rami dell'economia. L'i.
strutturale quindi è riconducibile alla tipologia di quella da
domanda o da costi, mentre la sua caratteristica peculiare risiede
nel fatto che, anche quando si diffonde all'intero sistema, origina
da particolari settori.
La trasmissione internazionale dell'inflazione
In un'epoca come la nostra di intense relazioni economiche tra le
nazioni, l'aumento dei prezzi può propagarsi facilmente da un paese
a un altro. Le vie principali di trasmissione internazionale dell'i.
sono due: la bilancia commerciale e i movimenti di capitali.
Consideriamo dapprima un regime di cambi fissi, che può essere
basato su un meccanismo automatico (come nel sistema aureo) o su
accordi che comportano l'intervento delle banche centrali a sostegno
di determinate parità (come nel sistema a cambio aureo nato dagli
accordi di Bretton Woods nel 1944 e morto agl'inizi degli anni
Settanta).
La bilancia commerciale può generare i. attraverso la pressione
della domanda, in caso di surplus, o mediante una spinta sui costi.
Quando in una nazione il valore delle esportazioni supera quello
delle importazioni, nel paese entra oro o valuta pregiata, che, in
regime di convertibilità, la banca centrale cambierà in moneta
nazionale. L'aumento di questa a sua volta determinerà pressione
inflazionistica. I monetaristi obiettano che le autorità potrebbero
evitare tale inconveniente lasciando inalterata la quantità totale
di circolante, cosa che però potrebbe avvenire solo riducendo la
creazione di moneta attraverso altri canali come il Tesoro e il
sistema bancario. Ciò può non essere politicamente possibile, dato
che la contrazione dei finanziamenti al settore pubblico o a quello
privato incontrerebbe resistenze da parte delle categorie che
verrebbero colpite direttamente dal provvedimento.
Un altro fattore d'i. per i paesi industrializzati è rappresentato
dall'andamento dei mercati delle materie prime, dato che un aumento
del loro prezzo fa crescere quelli dei prodotti manufatti. Un tipico
esempio è la crisi energetica scoppiata agl'inizi degli anni
Settanta. I paesi produttori di petrolio hanno accresciuto
consistentemente il suo prezzo, avendo raggiunto tra di loro un
accordo di tipo monopolistico, e le nazioni industrializzate, la cui
economia è trasformatrice di materie prime, hanno reagito aumentando
i prezzi dei prodotti manufatti. È questo un tipico caso d'i.
importata, riconducibile alla tipologia di quella da costi. La
spinta all'i. può provenire da qualunque nazione sia in grado di
esercitare influenza sui prezzi delle materie prime, quindi non solo
da quelle che le producono, ma anche da un paese (per es. gli Stati
Uniti) che controlla una quota molto ampia della domanda totale di
materie prime. Quando l'economia americana è in boom, i prezzi di
queste aumentano e per tale via nei principali paesi europei si ha
i. da costi.
Più complicato tecnicamente è il meccanismo dei movimenti di
capitali. Supponiamo che aumentino gl'investimenti americani in
Francia, per es. l'acquisto di obbligazioni francesi da parte di
cittadini statunitensi, perché i saggi d'interesse (cioè di
rendimento) su tali titoli sono più alti di quelli sulle
obbligazioni americane. Coloro che hanno venduto i titoli otterranno
dei dollari, di cui chiederanno la conversione in franchi alla Banca
di Francia. Per questa via crescerà la quantità di moneta in
circolazione in Francia e potrà esservi una spinta all'aumento dei
prezzi. In altri termini, in regime di convertibilità delle valute
(in oro o in una divisa accettata come moneta internazionale, per
es. il dollaro), la quantità di circolante all'interno di uno stato
non è decisa solo dalle autorità monetarie, dato che attraverso la
bilancia dei pagamenti può essere creata o distrutta moneta, e il
potere della banca centrale di contrastare questo processo è di
fatto limitato, come vedremo meglio successivamente, dalle reazioni
che i gruppi sociali avrebbero in seguito alla redistribuzione di
reddito determinata dalle misure di sterilizzazione.
Vi è poi un meccanismo di trasmissione internazionale dell'i. ancora
più semplice, costituito dal fatto che nell'area occidentale
numerose imprese hanno carattere multinazionale e quindi spostano
facilmente i capitali da un paese all'altro; inoltre una parte delle
transazioni sia finanziarie che commerciali è compiuta direttamente
in dollari (è questo il cosiddetto fenomeno dell'eurodollaro).
A partire dalla fine degli anni Cinquanta gli Stati Uniti hanno
esportato i. in Europa attraverso il disavanzo della loro bilancia
dei pagamentii che ha alimentato enormemente il mercato degli
eurodollari. (Questi ultimi sono i dollari che si trovano al di
fuori degli Stati Uniti e al tempo stesso non sono posseduti dalle
banche centrali). Il deficit era dovuto al forte deflusso di
capitali dagli Stati Uniti, dato che la bilancia commerciale
americana è rimasta sempre in surplus fino agl'inizi degli anni
Settanta. I dollari che defluivano dall'America in Europa erano sia
investimenti a lungo termine (per es. in gran parte delle imprese
industriali inglesi e tedesche), sia investimenti a breve (buoni del
Tesoro, titoli vari e depositi bancari). Mentre sulle cause che
determinano gli spostamenti di capitali a lungo termine vi sono
diverse e contrastanti interpretazioni, i movimenti di fondi a breve
erano dovuti soprattutto ai differenziali tra i tassi d'interesse
americani e quelli europei, dato che vigeva un regime di cambi
fissi. Per i paesi europei non era facile neutralizzare gli effetti
inflazionistici di questi massicci aflussi di capitali per le
ragioni precedentemente esaminate. In generale per un paese piccolo,
in cui il commercio estero e i movimenti di capitali rappresentano
una frazione consistente del livello di attività economica, risulta
difficile difendersi dall'importazione dell'inflazione. Infatti in
questo caso la bilancia dei pagamenti ha la capacità di creare una
quantità di moneta considerevole rispetto allo stock totale che
circola all'interno del paese, per cui le autorità monetarie, per
evitare l'i., dovrebbero ridurre drasticamente la creazione di
liquidità attraverso gli altri canali, cioè il Tesoro e il sistema
bancario. Il discorso opposto vale invece per un paese grande, in
cui le relazioni economiche con l'estero rappresentano una piccola
percentuale dell'attività totale.
I meccanismi di propagazione dell'i. operano in misura minore in
regime di cambi flessibili, dato che gli squilibri delle bilance dei
pagamenti vengono sanati attraverso variazioni nel tasso di cambio
che, entro certi limiti, evitano gli spostamenti di riserve
valutarie tra i paesi e riducono la capacità della bilancia dei
pagamenti di creare e distruggere moneta. Però l'instabilità
economica viene in genere accresciuta dall'oscillazione dei cambi,
soprattutto per i movimenti di capitali, dato che questi si spostano
non solo in funzione dei differenziali dei tassi d'interesse, ma
anche delle aspettative di svalutazione e rivalutazione delle
monete. Inoltre l'esperienza mostra che spesso in regime di cambi
fluttuanti le singole nazioni sono portate a realizzare una politica
monetaria più permissiva, accrescendo per questa via gl'impulsi
inflazionistici interni.
Ulteriori considerazioni sulle cause dell'inflazione
Le indagini statistiche mostrano che almeno nel lungo periodo l'i.
si accompagna a una crescita troppo rapida della quantità di moneta
in confronto a quella dei beni. Detto questo, però, il discorso non
è affatto chiuso, perché l'aumento della quantità di moneta non è un
fatto tecnico deciso dalla banca centrale, ma un atto di politica
economica che influenza la distribuzione del reddito tra i gruppi
sociali. Quindi le cause dell'espansione della circolazione possono
essere ricondotte ai conflitti tra le diverse categorie e all'opera
di mediazione che il potere politico compie tra di esse.
Può essere utile ricordare che la creazione di moneta avviene
essenzialmente attraverso tre canali: rapporti banca
centrale-Tesoro, rapporti banca centrale-sistema bancario, bilancia
dei pagamenti. La moneta creata per soddisfare le esigenze del
Tesoro in molti paesi serve in larghissima parte a pagare le
retribuzioni ai dipendenti pubblici, le pensioni e cosí via. La
possibilità di ridurre la creazione di liquidità attraverso tale
canale è quindi legata alla forza politica del governo d'imporre un
freno all'espansione delle loro retribuzioni oppure all'accettazione
spontanea di questo da parte dei gruppi sociali interessati.
Anche la manovrabilità del secondo canale incontra limiti e
resistenze di carattere politico. Infatti, se la banca centrale
riduce i suoi finanziamenti al sistema bancario, questo diminuirà
l'erogazione di credito alle imprese. Ma ciò può generare
disoccupazione e difficoltà per alcune aziende a continuare la
propria attività. Non sempre un governo sarà in grado d'imporre tali
misure, se non ha su di esse l'accordo delle principali forze
sociali e in particolare dei sindacati. Ancor più difficile è infine
il controllo del terzo canale, la bilancia dei pagamenti, per lo
meno finché si opera nell'ambito di un sistema internazionale in cui
sono garantiti il libero movimento delle merci e dei capitali e
quindi la convertibilità delle divise.
Finché all'interno di un paese vi è un accordo più o meno esplicito
sulla distribuzione del reddito tra i diversi gruppi sociali o il
potere politico ha la forza d'imporla, la banca centrale avrà il
pieno controllo della creazione di moneta e non vi saranno
consistenti fenomeni d'inflazione. Anche la creazione di liquidità
da parte della bilancia dei pagamenti potrà essere facilmente
neutralizzata, distruggendo moneta attraverso un altro canale. Ma se
tale accordo manca, la banca centrale non riuscirà a resistere alle
pressioni del Tesoro che chiede contante per pagare aumenti di
stipendi e di pensioni, né a quelle del sistema bancario,
sollecitato dalle richieste di credito delle imprese e degli enti
pubblici, né potrà neutralizzare la creazione di moneta da parte
della bilancia dei pagamenti, perché non riuscirà a distruggerla
attraverso gli altri canali. Risulterà evidente allora che, anche se
la causa immediata dell'i. è l'aumento della quantità di moneta, la
fonte vera è la conflittualità tra i gruppi sociali e l'incapacità
del potere politico di gestirla.
Oltre che da contrasti tra le categorie sulla distribuzione del
reddito all'interno di un paese, l'i. può essere generata da
conflitti analoghi tra diverse nazioni. Per es. i paesi produttori
di petrolio, quando ne hanno aumentato il prezzo agl'inizi degli
anni Settanta, miravano ad avere in cambio di una data quantità di
tale bene una maggiore quantità di prodotti industriali dai paesi
sviluppati. D'altra parte l'aumento del prezzo del petrolio fa
crescere quelli dei prodotti manufatti, dato che le imprese cercano
in tal modo di scaricare gli effetti dei maggiori costi. Questo
processo determina i. a livello mondiale, e anche ora il meccanismo
di trasmissione è rappresentato dall'aumento della quantità di
moneta. Infatti, per consentire a sé stessi e agli europei di
acquistare il petrolio ai nuovi prezzi, gli Americani stampano una
maggiore quantità di dollari. Se la moneta internazionale fosse
rappresentata dall'oro, i paesi industriali avrebbero cercato di
ottenere maggiori quantità di tale metallo per pagare il petrolio ai
nuovi prezzi, e quindi vi sarebbe stata una spinta alla sua
produzione.
Conflitti analoghi si hanno anche tra i paesi industrializzati. Per
es. una nazione piuttosto grande, se ha la bilancia dei pagamenti in
disavanzo, esporta i. determinando la formazione di surplus valutari
negli altri paesi. Per eliminare il suo deficit però questa nazione
dovrebbe ridurre la domanda interna in modo da rendere disponibile
una maggiore quantità di risorse per le esportazioni, e non sempre
essa sarà disposta a orientare la politica economica in questa
direzione, data l'impopolarità delle misure restrittive. Se
comportamenti del genere si diffondono, allo spirito di
collaborazione internazionale si sostituisce una continua
conflittualità: ciascun paese cercherà di scaricare le proprie
tensioni interne sulla bilancia dei pagamenti e si potrà avere
un'inflazione sempre più intensa.
Le misurazioni quantitative dell'inflazione
Benché l'i. di solito si traduca, per lo meno dopo un certo tempo,
in un aumento generalizzato del livello dei prezzi, pure questi non
crescono tutti allo stesso tasso. Quando il fenomeno è generato da
cause strutturali, specie all'inizio, i prezzi aumentano più
rapidamente in alcuni settori che non in altri: in Italia per es.
negli anni Cinquanta e nella prima parte degli anni Sessanta i
prezzi dei prodotti industriali sono diminuiti o rimasti stabili,
mentre quelli dei servizi, dei prodotti agricoli e delle costruzioni
aumentavano. Anche quando la causa principale dell'i. è l'eccesso di
domanda, questo può concentrarsi in modo precipuo in alcuni settori,
determinando rincari soprattutto per certi beni.
Nelle analisi di politica economica, per ovvi motivi di praticità, è
invalsa l'abitudine di esprimere il ritmo dell'i. mediante un indice
sintetico. Si dice per es.: quest'anno il saggio d'i. è stato del 5%
o del 7%. Dato che i prezzi non aumentano allo stesso tasso in tutti
i settori, questo indice non può che essere una media degli aumenti
che si registrano per i diversi beni. Supponiamo che esistano solo
due merci: il pane e le automobili, i cui prezzi aumentino
rispettivamente del 10 e del 4%. Si può dire che il tasso d'i. è
stato del 7%? Normalmente no; l'indice infatti non dovrà essere una
media semplice, ma una media ponderata, e i pesi dati ai singoli
prezzi devono riflettere l'importanza relativa che si attribuisce ai
rispettivi beni.
Per costruire un indice che esprima in modo sintetico il ritmo
dell'i. occorre quindi risolvere due problemi: la scelta dei prezzi
(dei beni) di cui tener conto e il peso da attribuire a ciascuno di
essi. Entrambe le questioni avranno una soluzione diversa a seconda
dell'uso che si vuol fare dell'indice. Se vogliamo una misura del
processo inflazionistico in generale, considereremo tutti i beni e
daremo a ciascuno di essi il peso corrispondente alla quantità
prodotta nell'anno considerato. Avremo in tal modo un indice noto
come il deflatore implicito del reddito nazionale. Se invece
c'interessa vedere come il reddito reale dei lavoratori è diminuito
in seguito al processo inflazionistico, considereremo solo i prezzi
dei beni di consumo e li pondereremo con le quantità di tali beni
consumate da una famiglia-tipo di lavoratori: avremo così un indice
del costo della vita. Se vogliamo conoscere gli effetti del processo
inflazionistico sulla competitività delle nostre esportazioni,
considereremo i prezzi dei prodotti esportati soltanto e li
pondereremo con le quantità esportate degli stessi. In Italia, come
in altri paesi, l'istituto centrale di statistica e altri organismi
economici costruiscono numerosi indici di questo tipo, che sono
estremamente utili per le diagnosi congiunturali e le analisi di
politica economica.
Effetti dell'inflazione
: la dinamica del processo inflazionistico. - Poiché l'i. consiste
in un aumento dei prezzi dei beni esistenti nel sistema economico e
quindi in una diminuzione del valore (potere d'acquisto) della
moneta, coloro che hanno denaro liquido sono danneggiati dal
fenomeno, mentre ne sono avvantaggiati quelli che possiedono beni
(scorte di merci, immobili, oro, ecc.).
La dinamica del processo inflazionistico è diversa a seconda del
contesto politico-sociale in cui si svolge. Tenteremo di descriverla
considerando un paese industrializzato degli anni Sessanta o
Settanta. In queste nazioni esistono forti gruppi sociali
organizzati, detentori di potere monopolistico, come le imprese e i
sindacati, e altri invece più deboli. Alcune categorie possono
fissare, o per lo meno influenzare, i prezzi dei prodotti e dei
servizi che forniscono alla collettività, altre invece hanno questa
possibilità in misura molto minore. Facendo uso della terminologia
anglosassone, chiameremo le prime price-makers, le seconde
price-takers. Sono dei pricemakers le imprese che in numerosi
settori dell'economia agiscono in condizioni di oligopolio, i
commercianti, alcune categorie di professionisti. Viceversa i
lavoratori subordinati sono dei price-takers, perché devono
accettare i prezzi che si formano sul mercato. All'interno di essi
però possiamo distinguere quelle categorie che, essendo
sindacalizzate, possono, attraverso lo sciopero e azioni simili,
ottenere miglioramenti salariali e quelle che invece (per es. i
pensionati) non hanno tale possibilità. In molti paesi
industrializzati inoltre esistono meccanismi automatici di
adeguamento delle retribuzioni agli aumenti dei prezzi (in Italia
per es. vi è il sistema della contingenza o scala mobile), ma essi
normalmente discriminano tra le diverse categorie di lavoratori,
garantendo ad alcune adeguamenti maggiori che ad altre.
La dinamica del processo inflazionistico dipende pertanto dalle
reazioni dei gruppi sociali. L'aumento dei prezzi significa
espansione dei profitti e quindi favorisce le imprese, i
commercianti e in generale i pricemakers. I lavoratori subordinati,
o meglio le categorie sindacalizzate, reagiranno attraverso lo
sciopero e le azioni di protesta, ottenendo in tal modo aumenti
salariali; una parte di questi incrementi verrà ottenuta anche
attraverso i meccanismi automatici di adeguamento. Mediante l'i. si
ha una redistribuzione di reddito reale tra i gruppi sociali: alcuni
si arricchiscono, altri s'impoveriscono. I più danneggiati sono quei
lavoratori che non hanno tutela sindacale o che sono poco (o per
nulla) coperti da meccanismi di scala mobile. Se la conflittualità
si attenua spontaneamente o il potere politico ha la forza di
ridurla, mediando tra gl'interessi contrapposti, l'i. tenderà a
diminuire; altrimenti continuerà e si amplierà.
Oltre agli effetti sulla distribuzione del reddito, che aggravano le
tensioni e i contrasti sociali, l'i. ha conseguenze negative
sugl'investimenti. Finché l'aumento dei prezzi è contenuto, questi
possono ricevere anche un certo stimolo, dato che l'i. favorisce i
profitti. Ma se i prezzi crescono sempre più velocemente, la
conflittualità nelle aziende e nella società aumenta e
gl'investimenti industriali saranno scoraggiati. Gli agenti
economici saranno indotti a esportare i capitali in paesi dove il
quadro politico e sociale dà maggiori garanzie di stabilità, oppure
si orienteranno verso operazioni di tipo speculativo, come acquisti
di immobili, di oro, di terreni, anziché verso gl'investimenti nelle
aziende dove la conflittualità fa diminuire la produttività e rende
precari i profitti.
Anche i canali di finanziamento vengono danneggiati dall'i.: infatti
le obbligazioni seguono la sorte del contante e risultano svilite in
periodi di aumento dei prezzi, mentre il mercato azionario è in
difficoltà, date le cattive prospettive industriali. Inoltre, come
crescono tutti i prezzi, aumenteranno anche i saggi d'interesse sui
depositi, che rappresentano una forma di remunerazione del
risparmio. Saliranno quindi anche i saggi sui prestiti bancari, e
pure per questa via gl'investimenti saranno scoraggiati.
Gli effetti dell'i. sono ancora più negativi in un'economia aperta,
cioè esposta alla concorrenza internazionale, come quella italiana.
Infatti l'aumento dei prezzi in una nazione di questo tipo, se è più
rapido di quello dei paesi suoi concorrenti sui mercati
internazionali, determina una perdita di competitività delle sue
merci e una conseguente caduta delle esportazioni. Per evitare un
deficit nella bilancia dei pagamenti il governo, se non riesce a
controllare l'i., può svalutare il cambio o lasciarlo fluttuare
liberamente. Ma questo è un rimedio solo di breve periodo, che alla
lunga finisce per accrescere gl'impulsi inflazionistici. Infatti la
svalutazione del cambio rende più competitive le esportazioni, ma
più costose le importazioni, e per un paese la cui economia è
essenzialmente trasformatrice in senso industriale delle materie
prime importate, questi effetti determinano ulteriori pressioni
inflazionistiche dal lato dei costi.
Quando l'i. è determinata dalla conflittualità tra diversi paesi, il
costo del processo sarà sopportato dalle nazioni che hanno maggior
bisogno d'importare i prodotti i cui prezzi sono cresciuti. Il
continuo aumento dei prezzi dei manufatti per es. danneggia i paesi
sottosviluppati. Analogamente il costo dell'i. generata dalla crisi
energetica dell'inizio degli anni Settanta è stato pagato
soprattutto dalle nazioni più povere, che hanno bisogno d'importare
sia materie prime che manufatti, in quanto i paesi industrializzati,
specie i più forti (ricchi di tecnologia e di prodotti alimentari),
si sono difesi dall'aumento dei prezzi del petrolio accrescendo
quelli dei prodotti che essi esportano.
La dinamica di un processo inflazionistico a carattere
internazionale è difficile da prevedere, dato che è determinata
dalle reazioni dei singoli paesi: la possibilità che esso si spenga
dipende soprattutto dal raggiungimento di un accordo politico.
L'esperienza storica mostra che nei periodi di collaborazione nei
rapporti internazionali, quando vi era una comune unità d'intenti
tra le nazioni e venivano rispettate certe regole del gioco, è
prevalso ordine nelle relazioni monetarie mondiali e i prezzi sono
rimasti stabili. Il contrario invece è accaduto nei periodi in cui
tale collaborazione si è rotta e ogni paese perseguiva una politica
economica di egoismo nazionale.
Le politiche antinflazionistiche
I rimedi contro l'i. sono diversi a seconda delle cause del
fenomeno. Se si tratta d'i. strutturale, occorrerà rimuovere le
strozzature che sono la fonte dell'aumento dei prezzi: bisognerà
quindi rendere efficiente l'agricoltura oppure espandere l'offerta
di case. Tali misure però potrebbero incontrare ostacoli di natura
politica, o di carattere burocratico-amministrativo, o di origine
economica, a seconda delle diverse situazioni storiche.
Nel caso d'i. da costi, per es. da salari, occorre frenare l'ascesa
delle retribuzioni, mentre, se la spinta proviene dal lato della
domanda, è questa che bisogna ridurre, dato che nel breve periodo è
difficile riuscire a espandere l'offerta di beni. Secondo i
monetaristi, in ogni caso i governi e le banche centrali debbono
tenere sotto controllo la creazione di moneta, la cui espansione
deve avvenire in proporzione all'aumento della produzione di beni.
Ma, come abbiamo rilevato, possono esservi ostacoli e difficoltà di
natura politica che impediscono ai governi di attenersi a questa
regola.
Se le spinte inflazionistiche provengono dal lato della domanda,
questa può essere controllata mediante provvedimenti di carattere
fiscale o monetario. Com'è noto, il reddito nazionale (Y) è eguale
alla somma dei consumi privati (C) più gl'investimenti privati (I)
più i consumi e gl'investimenti pubblici (G) più le esportazioni (X)
meno le importazioni (M). In simboli
Y rappresenta la domanda globale e C + I + G la domanda interna. Se
quest'ultima supera la prima, X − M è negativo, cioè la bilancia
commerciale è in deficit. Quando l'i. è determinata dalla pressione
della domanda sull'offerta, è la prima che bisogna ridurre. Spesso
in questo caso l'aumento dei prezzi si accompagna al disavanzo
estero, per cui le misure restrittive devono concentrarsi sulla
domanda interna. Mentre per la spesa pubblica si tratta di operare
una riduzione diretta, la contrazione dei consumi e
degl'investimenti può essere ottenuta mediante provvedimenti
restrittivi di natura fiscale o monetaria.
In genere la diminuzione degl'investimenti è dannosa dato che questi
sono non solo fonte di accumulazione di capitale, ma anche il
veicolo del progresso tecnico e quindi determinano il ritmo di
sviluppo dell'economia nel lungo periodo. D'altra parte la
contrazione della spesa pubblica o l'adozione di misure che riducono
i consumi non sempre sono facilmente realizzabili da un punto di
vista politico, poiché non sono provvedimenti puramente tecnici, ma
influiscono sulla distribuzione del reddito tra i gruppi sociali. A
volte, in presenza di interventi congiunturali scarsi e poco
coordinati, è l'aumento stesso dei prezzi che determina il
riequilibrio tra domanda e offerta, attraverso una contrazione
forzata della prima.
Un altro tipo di misure volte a contenere l'i. è rappresentato dai
provvedimenti amministrativi e in particolare dal controllo dei
prezzi (v. prezzo, in questa App.). Il successo di una politica di
questo tipo è però legato alla possibilità di controllare
l'evoluzione dei redditi dei soggetti economici (in particolare dei
profitti e dei salari e anche delle rendite degl'intermediari), per
cui il discorso torna alla conflittualità sociale e alla capacità
del potere politico di gestirla.
Per i monetaristi, tra cui M. Friedman, l'unico modo di evitare l'i.
è di espandere la quantità di moneta a un tasso costante (per es. il
3 o il 4%) ogni anno. Friedman sconsiglia di usare la politica
monetaria in funzione anticiclica, cioè di restringere l'offerta di
moneta in periodi d'i. e di allargarla in momenti di depressione,
perché, egli sostiene, in questo modo si accresce l'instabilità del
sistema invece di diminuirla. Infatti le misure di carattere
monetario normalmente producono i loro effetti con notevole ritardo,
per cui spesso le restrizioni divengono efficaci quando l'i. è già
passata e occorrerebbero provvedimenti di stimolo della domanda,
mentre le misure di espansione producono effetti quando sarebbe
ormai necessaria un'azione restrittiva.
Fuori dei casi d'i. da domanda o di quella dovuta a specifiche cause
di natura strutturale, i rimedi contro il fenomeno sono assai
difficili da definire, dato che il problema consiste nella capacità
del potere politico di creare il consenso sociale mediando tra
gl'interessi contrapposti e nella volontà dei gruppi di raggiungere
un accordo sulla distribuzione del reddito.
Nel corso degli anni Sessanta, in diversi paesi dell'Europa
occidentale, è risultato chiaro che le politiche monetarie e fiscali
non erano più sufficienti a controllare la congiuntura, a causa
dell'espansione sempre maggiore del potere sindacale. L'opinione di
quegli economisti (Phillips e altri) secondo cui bastava mantenere
un livello di disoccupazione del 3 o del 4% per non avere i. veniva
smentita dell'esperienza concreta, poiché i salari crescevano
fortemente anche in presenza di livelli di disoccupazione ben più
alti. Numerosi autori allora hanno sostenuto che, per ottenere lo
sviluppo dell'economia a prezzi stabili, non sono sufficienti le
politiche monetarie e fiscali, ma occorre un ulteriore strumento, la
politica dei redditi, intesa come un controllo sull'evoluzione, se
non di tutti i redditi, di quelli principali e in particolare dei
salari. Ma proprio l'espansione sempre maggiore del potere sindacale
nelle aziende e nella società rendeva estremamente difficile un
controllo sulla dinamica salariale e riduceva la politica dei
redditi quasi esclusivamente a un appello ai sindacati a limitare le
proprie richieste.
A partire dalla fine degli anni Sessanta nella maggior parte dei
paesi occidentali, pur nella diversità delle singole esperienze, si
è accentuata la conflittualità tra i gruppi sociali, e le politiche
dei redditi sono state abbandonate anche in quelle poche nazioni in
cui avevano avuto qualche successo.
Negli anni Settanta al termine politica dei redditi si è sostituito
quello (uguale nel contenuto) di patto sociale, cioè l'accordo più o
meno esplicito delle categorie sulla distribuzione. Questo non è uno
strumento alternativo o addizionale rispetto alle politiche
monetarie e fiscali, ma è piuttosto il quadro che rende possibile la
gestione della politica economica, la quale risulta assai difficile
quando manca l'accordo tra le parti sociali.
Considerazioni analoghe possono farsi per l'i. internazionale. Lì il
problema è di trovare un'intesa tra i paesi che hanno rapporti
economici reciproci. Si può affermare, seguendo i monetaristi, che
il miglior rimedio contro l'inflazione consiste nel tenere sotto
controllo l'espansione della quantità di moneta (a livello mondiale
ciò significa controllare l'offerta delle divise più usate negli
scambi e nelle operazioni finanziarie internazionali), ma il
controllo dell'offerta di moneta non è un fatto tecnico, ma un atto
politico che influenza la distribuzione dei beni e delle risorse e
quindi anche del potere tra i diversi gruppi sociali all'interno di
ogni nazione, e tra i paesi nelle relazioni internazionali.
BIBLIOGRAFIA:
M. Bronfenbrenner, F. D. Holzman, Una rassegna sulla teoria
dell'inflazione, in Il pensiero economico contemporaneo, a cura di
F. Caffè, I, Milano 1969 (trad. dall'originale inglese, pubblicato
nel 1964); G. Palmerio, R. Valiani, Gli strumenti di controllo
dell'economia a breve termine, Svimez, ivi 1975.