Enciclopedia delle Scienze Sociali (1994)
di Luciano Cafagna
Industria
sommario: 1. Premessa. 2. Industria,
macchinismo e organizzazione del lavoro. 3. La rivoluzione
industriale. 4. Le rivoluzioni industriali successive e i modelli di
industrializzazione. 5. Come funziona il dinamismo industriale: il
progresso tecnico. 6. La divisione internazionale del lavoro e
l'industria nel mondo. 7. Conclusioni. Il futuro
dell'industrialismo. □ Bibliografia.
1. Premessa
Nella sua accezione moderna (fino ai primi decenni del secolo scorso
il termine, nelle varie lingue, significava genericamente piuttosto
attività economica o quel che oggi diremmo
industriosità) l'industria è, insieme, un ramo
particolare e distinto di attività economica e un modo di
produzione avente suoi specifici connotati. Di essa si occupano,
come principali discipline di studio e da angoli visuali spesso
abbastanza diversi, la teoria dello sviluppo economico (processi e
modelli di industrializzazione), l'economia industriale (teoria
della struttura industriale, organizzazione industriale, teoria
dell'impresa), la sociologia industriale (fenomeni
dell'industrialismo, relazioni industriali) e la storia economica
(storia dell'industria, storia dell'impresa industriale). È
dal punto di vista di quest'ultima che ci si collocherà
prevalentemente in questa trattazione, con modalità che
tendono a tener conto, possibilmente integrandole, delle altre
angolature disciplinari, considerando qui una serie di nozioni
connesse, come 'industrializzazione', 'industrialismo', 'rivoluzione
industriale'.
Va subito osservato, inoltre, per evitare equivoci semantici in chi
voglia fare letture che comportino il passaggio da un campo
disciplinare all'altro, che in economia industriale si impiega, ai
fini del ragionamento teorico basato sull'equilibrio parziale,
largamente usato in tale disciplina, una peculiare nozione di
'industria'. Impiegando questo termine, secondo una tradizione
iniziata dal grande economista inglese Alfred Marshall, si
intenderà allora non una singola unità produttiva, ma
una specifica partizione settoriale dell'insieme delle imprese
industriali, e cioè un raggruppamento classificatorio di
imprese che producono beni similari per il consumatore. Qui, per
distinguere tale accezione, si farà invece convenzionalmente
uso dell'espressione 'settore industriale'.
Come ramo particolare di attività economica, l'industria si
distingue in quanto attività trasformatrice di prodotti
grezzi o già sottoposti a precedenti lavorazioni. In questo
è diversa dall'agricoltura - la quale, così come
l'allevamento, si applica alla sollecitazione e alla cura, per fini
produttivi, di cicli biologici naturali - e dai servizi, che non
producono propriamente beni, ma si rivolgono a modificare le
condizioni e le possibilità di uso di questi ultimi
(così il commercio, i trasporti di merci, ecc.), oppure
consistono in prestazioni personali dirette al consumatore.
L'industria è, quindi, l'attività economica nella
quale vi è la maggiore applicazione di tecniche accrescitive
dei rendimenti rispetto ai fattori utilizzati, che schematicamente
sono in ogni processo produttivo: il lavoro immediatamente
necessario, i mezzi di produzione prodotti dal lavoro passato, le
risorse naturali. Detto schema, si badi, non è mai puro,
poiché le risorse naturali entrano sempre nel processo in
forme più o meno prelavorate. Questa capacità tecnica
accrescitiva dell'industria si traduce anche nella creazione di
nuovi mezzi tecnici per aumentare il rendimento delle altre
attività, le quali da questo punto di vista le sono, quindi,
sempre più largamente tributarie. Va tenuto però
presente che, in senso lato, in quanto attività economica
riferita alla trasformazione, la dizione 'industria' può
comprendere settori di attività trasformatrice basati su
lavorazioni che adottano tecniche più tradizionali, come
l'artigianato. Ciò riflette la stratificazione storica cui ha
dato luogo il dinamismo stesso di tale tipo di attività.
Come modo di produzione, invece, l'industria si caratterizza
storicamente per l'organizzazione del lavoro basata sul concorso di
molti lavoratori concentrati in officine, e per la sua applicazione
al servizio produttivo di macchinari azionati da forza motrice non
umana, nei quali è sempre più largamente contenuto il
'programma' tecnico della lavorazione, che gli uomini devono
guidare, controllare e, in varia misura, selezionare e integrare. In
ciò il modo di produzione propriamente industriale, in senso
moderno, si distingue dall'attività trasformatrice più
tradizionale (come l'artigianato individuale o la manifattura
concentrata con scarso uso di macchinari), in cui mancano in tutto o
in gran parte i requisiti sopra descritti e prevale ancora
sostanzialmente l'abilità o solamente l'impegno manuale.
Periodicamente, lungo l'ormai secolare storia dell'industria
moderna, ritornano a volte, in taluni settori, scelte organizzative
decentrate (per esempio quando è possibile trasferire a
domicilio del lavoratore sia la risorsa energetica che macchinari
leggeri e non sia necessario uno stretto coordinamento tecnico delle
operazioni lavorative): sempre però nell'ambito di una
organizzazione economica sostanzialmente unitaria 'in grande'.
L'industria è comunque forma economica tipicamente
'capitalistica', in quanto in essa si compie integralmente una
dissociazione del lavoratore impegnato direttamente nella produzione
dalla proprietà dei mezzi di produzione stessi, dalla
gestione del processo produttivo e dalla disponibilità del
prodotto finale. Ciò avviene su una base che è insieme
tecnica, economica e sociale, e che appare strettamente inerente al
modo di produzione, in quanto le dimensioni dei mezzi necessari a
produrre, della produzione stessa e degli sbocchi di questa tendono
a soverchiare le possibilità economiche e tecniche di un
produttore individuale. A ciò si deve aggiungere che
l'accumulazione finanziaria che si richiede per realizzare
l'imponente attrezzatura tecnica concentrata, l'approvvigionamento
dei materiali da trasformare e l'organizzazione di vendita implicano
necessariamente una ripartizione del reddito prodotto nelle forme di
un fondo per la retribuzione del lavoro, da un lato, e di un fondo
per il riutilizzo accrescitivo nell'impresa (o nel sistema delle
imprese) dall'altro. Karl Marx, che fu il maggiore studioso di
questo fenomeno, ipotizzò una società industriale non
capitalistica, in cui alla socializzazione del modo di lavoro
corrispondesse un'analoga socializzazione sotto il profilo della
proprietà, della gestione, della possibilità di
produrre, tale da superare quella dissociazione. Quel tentativo
rimase però un esercizio di astratta dialettica,
poiché egli non indicò mai in termini positivi i modi
concreti di siffatta possibilità. La semplice
proprietà statale e non privata dei mezzi di produzione,
ovvero la proprietà azionaria operaia, ovvero ancora forme
cooperative di proprietà o di conduzione (definite
autogestionarie) non sembrano configurare un modo di produzione
effettivamente diverso, ma soltanto forme giuridiche diverse di
gestire quell'inevitabile dissociazione. Il fallimento delle
economie dell'Europa orientale, che si dicevano socialiste, prima
ancora di manifestarsi in termini di funzionamento, si era palesato
sotto il profilo ora accennato.L'industria, come ramo di
attività economica, riesce a raggiungere una quota dominante
del reddito prodotto in una società e dell'occupazione
complessiva di lavoratori solo quando si afferma come particolare
modo di produzione nel senso anzidetto. Le economie preindustriali,
dal punto di vista del modo di produzione, sono generalmente tali
anche dal punto di vista delle attività prevalenti: sono
cioè economie prevalentemente agricole, con una quota
più o meno ampia di attività commerciali e
artigianali. Ciò avviene perché solo il modo di
produzione industriale crea, nell'insieme dell'economia, le
condizioni di produttività e di consumo che consentono un
massiccio spostamento negli orientamenti produttivi e nella
distribuzione della forza lavoro complessiva. Quando il modo di
produzione industriale prevale, i vecchi modi di produzione
applicati all'attività trasformatrice, che pur possono
permanere, divengono una semplice appendice o una integrazione del
nuovo: il che giustifica l'aggregazione a quest'ultimo che
solitamente se ne fa in sede statistica. Non è però
sempre vero l'inverso: che, cioè, l'introduzione in un
tessuto economico tradizionale di unità del nuovo modo di
produzione - anche se tecnicamente molto avanzate - implichi
facilmente e rapidamente una loro prevalenza e una emarginazione
delle vecchie.Il particolare dinamismo tecnologico proprio
dell'attività industriale nel senso anzidetto ha portato alla
formulazione di un'ipotesi relativa alle caratteristiche più
generali dello sviluppo economico moderno sotto il profilo della
distribuzione complessiva del lavoro umano; tale ipotesi è
chiamata 'legge dei tre settori'. Essa ha avuto grande diffusione,
assumendo la forza di un luogo comune che, come tale, ha influenzato
la maggior parte delle politiche di sviluppo adottate nei vari paesi
dopo la seconda guerra mondiale, configurandole appunto come
politiche d'industrializzazione. Secondo tale legge, enunciata per
la prima volta da A.G.B. Fisher nel 1935, e ripresa e divulgata da
C. Clark in un fortunato libro del 1940, lo sviluppo economico
comporterebbe un progressivo passaggio della quota relativamente
maggiore delle forze di lavoro di un paese da un settore 'primario'
(agricoltura) a un settore 'secondario' (industria) e infine a un
'terziario' (servizi). Per il Fisher la base di questa tendenza
starebbe nella struttura della domanda dei consumatori, regolata nel
lungo periodo dalla cosiddetta 'legge di Engel' (dal nome dello
statistico prussiano che la formulò verso la metà del
XIX secolo). Secondo tale legge, al crescere del reddito vi sarebbe
un mutamento nella elasticità relativa delle grandi categorie
dei consumi: i consumi alimentari crescerebbero meno rapidamente
degli altri. Pertanto, essendo i consumi alimentari soddisfatti
essenzialmente dalla produzione agricola, la crescita del reddito
complessivo di una collettività implicherebbe un maggiore
incremento relativo delle produzioni extragricole e dei servizi, e
quindi dell'occupazione fuori dell'agricoltura. C. Clark
approfondì questo punto, sottolineando altresì come
l'andamento dei rendimenti tenda a crescere da un settore fisheriano
all'altro per il crescente impiego di tecniche che in questo
passaggio si realizza. Di conseguenza, l'industrializzazione sarebbe
praticamente un passaggio obbligato perché possa aversi una
sensibile crescita del reddito, e quindi dei livelli di vita, in una
collettività. Paesi ad alto reddito pro capite con struttura
prevalentemente agricola sono infatti eccezioni, connesse
solitamente a un particolare rapporto popolazione/terra coltivabile
e a una 'storia' di colonizzazione dall'esterno.
Nelle economie più mature (per esempio in quella degli Stati
Uniti) si osserva addirittura l'affermarsi di una preminenza del
settore terziario. Tale tendenza appare in generale più
marcata quando si riesca a distinguere un settore di servizi
'arcaico' (e in declino) da uno moderno (e in espansione).
Quest'ultimo, in talune sue espressioni tecnologicamente avanzate
(informatica, ricerca applicata) è stato, a partire dagli
anni sessanta, chiamato 'terziario avanzato' o addirittura
'quaternario'. Occorre però osservare a questo riguardo - per
evitare semplificazioni eccessive - che i presupposti del
manifestarsi della legge di Engel su scala collettiva possono essere
alterati nel breve e medio periodo da mutamenti nella distribuzione
del reddito a favore di gruppi di popolazione precedentemente
sottoalimentati, e che questo fenomeno può assumere
proporzioni rilevanti qualora la redistribuzione avvenga con
caratteri di simultaneità su scala geograficamente estesa.
È bene precisare dunque che il declino assoluto e relativo
dell'occupazione in agricoltura e quello relativo delle risorse
impiegate in tale attività si spiega solo in parte con la
summenzionata legge di Engel. Per gran parte si spiega, invece, con
il notevole incremento di produttività derivante dall'apporto
diretto o indiretto, nello stesso processo di produzione agricolo,
di beni di provenienza industriale (per esempio meccanici e chimici)
o di applicazioni scientifiche (per esempio di genetica e selezione
biologica) accelerate o rese possibili dall'industrialismo e dalla
scienza. Per contro l'espansione relativa dell'occupazione nei
servizi sembra dipendere solo in parte da una maggiore domanda di
prestazioni di questo settore al crescere del reddito. Dipende
soprattutto, invece, proprio dall'incremento continuo e notevole
della produttività industriale, dal risparmio di mano d'opera
che questo comporta, e dal fatto che nell'attività
industriale stessa cresce il bisogno di servizi specializzati, verso
i quali si trasferisce in parte l'occupazione prima impiegata nei
modi tradizionali. Diminuisce perciò l'elasticità
dell'occupazione rispetto al reddito della collettività e la
crescita assoluta dell'occupazione resta così sostanzialmente
affidata a prospettive di forte e continua espansione del sistema
nel suo insieme. Il ruolo del settore 'secondario', cioè
dell'industria, sembra perciò restare comunque dominante
nell'insieme delle tendenze accennate, le quali si svolgono tutte
sotto il segno dell'industrialismo e sono da questo rese possibili.
Queste ultime considerazioni inducono a concludere questa parte
introduttiva accennando a una caratteristica generale del processo
d'industrializzazione, messa in evidenza dagli studi, che ne pone in
risalto la fondamentale tensione verso l'ampliamento riproduttivo
del sistema economico. Già Marx aveva individuato nella
struttura produttiva capitalistica una tendenza intrinseca
all'aumento del rapporto fra attività rivolte alla produzione
di mezzi di produzione e attività rivolte alla produzione di
beni di consumo: condizione, questa, per un continuo ampliamento del
sistema economico. Dal canto loro, altri economisti che aprivano
strade diverse - e più formalistiche - di riflessione, come
Menger, avevano parlato di aumento del rapporto fra produzione
'indiretta' e produzione 'diretta', come connotato di una economia
in crescita. In tempi a noi più vicini uno studioso tedesco,
Hoffmann, riprendendo quest'impostazione e innestandola sulla
propensione alla 'tassonomia stadiologica' propria della tradizione
degli studi tedeschi di storia economica, ha creduto di poter
individuare una successione di stadi dell'industrializzazione
proprio basandosi sull'aumento del rapporto fra industrie
produttrici di beni capitali e industrie produttrici di beni di
consumo. Tale aumento si troverebbe in correlazione all'aumento del
reddito pro capite.Questo punto di vista, che può
considerarsi classico nella teoria dell'industrializzazione, e che
ha portato a una sostanziale identificazione di questa con il
fenomeno del capitalismo (privato o di Stato), resta fondamentale ma
con una importante qualificazione: che il capitale stesso si
presenta sempre più come investimento in ricerca, in
istruzione, in esperienze, in conoscenze, in software, cioè
in 'capitale umano' che, come tale, consente un crescente risparmio
relativo di altri fattori.
2. Industria, macchinismo e organizzazione del
lavoro
In quanto modo di produzione, l'industria moderna si presenta come
uno svolgimento insieme generalizzante ed eversivo del principio
della divisione del lavoro. Questo svolgimento si manifesta in
triplice modo: come proliferazione di nuove attività per la
soddisfazione di nuovi bisogni, come separazione e specializzazione
di attività distinte rispetto a finalità produttive
prima raggruppate e svolte insieme, e infine come sviluppo su larga
scala dell'articolazione dei lavori all'interno di una singola
unità produttiva. Le prime due manifestazioni della divisione
del lavoro sono antichissime e marcano l'intero cammino della storia
economica, ma con ritmi molto lenti. L'industria moderna sconvolse
questi ritmi, accelerandoli drasticamente.
L'ultima delle forme sopra elencate di divisione del lavoro - quella
interna all'unità produttiva - aveva invece avuto, prima
dell'avvento dell'industria moderna, applicazioni assai limitate
nelle attività economiche, e comunque su piccola scala. La
più significativa era stata quella delle manifatture, in cui
si raggruppavano operai anche in buon numero, ma senza ausilio di
macchinari, o con ausilio molto modesto. Un esempio del genere
è la manifattura di spilli illustrata in una nota pagina
della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, nella quale si
sottolineano i vantaggi per la produttività derivanti dalla
divisione di un processo composto da fasi distinte di lavorazione
assegnate a persone diverse in modo coordinato. Caratteristica
propria di questa forma della divisione del lavoro è che essa
può andare oltre la produzione separata e distinta di
prodotti finiti o di parti definite di prodotti, per investire
processi unitari di lavorazione di un bene determinato che vengono
scomposti in operazioni specializzate poste in successione (tipico
delle industrie 'di processo') ovvero applicate simultaneamente a
parti separate di un prodotto che poi vengono combinate insieme
(tipico delle industrie 'di montaggio'). In ambedue i casi il lavoro
individuale si fa unilaterale e parziale e viene via via sostituito
da macchine e processi automatici nelle varie fasi in cui può
essere analiticamente scomposto. Tale forma di divisione del lavoro
(manifatturiera e poi di fabbrica) presuppone un'organizzazione
unitaria di comando su molti lavoratori, dei quali si deve
coordinare l'attività dal momento in cui il nuovo modo di
produzione, sostituendosi al vecchio, a stampo individualistico, li
priva del controllo dell'insieme del processo produttivo. Essa si
fonda, d'altra parte, sulla scoperta del carattere frazionabile dei
processi lavorativi, e dell'economia di tempo realizzabile
attraverso la reiterazione separata e continua di movimenti
semplici; in altre parole, trova uno sconfinato campo di
applicazione nella riduzione meccanica dei movimenti di lavoro. Per
essa quindi si può dire che il passaggio dalla scomposizione
dei movimenti del lavoro umano a movimenti parcellari analoghi a
quelli di una macchina - e quindi essi stessi ulteriormente
sostituibili, ogni qualvolta che se ne trovi il modo e la
convenienza, coi movimenti di una macchina - avviene senza soluzioni
di continuità. Alla stessa logica potrà tendere il
successivo reinserimento, nel processo lavorativo, dell'apporto
umano adattato alla intervenuta semplificazione meccanica.
Per una fase storica più o meno lunga, allora, dal lavoro
umano verrà pretesa una prestazione sempre più simile
a quella di una macchina, nella forma e, se possibile, anche
nell'intensità: non potendosi dissociare e contrapporre,
nell'unità del processo produttivo, due logiche diverse. In
tal modo il lavoro, come disse Marx, da 'concreto' tende a diventare
'astratto', cioè ingaggiato come ingrediente fungibile, la
cui esecuzione è sostanzialmente programmata dall'esterno.
Questa implicazione del macchinismo per il rapporto uomo-macchina
è l'aspetto che più ha attirato l'attenzione dal punto
di vista sociologico. Prima di ritornare su alcuni suoi caratteri
concreti sarà bene però accennare al fatto che vi
è un altro aspetto di questa trasformazione non meno
importante per l'uomo lavoratore: ed è la riduzione del ruolo
di questi a fonte diretta di energia. Se in molti lavori,
concretamente considerati, il macchinismo riduce il ruolo
dell'abilità manuale e dell'ingegno applicativo, in molti
altri, per contro, riduce la richiesta di sforzo fisico pesante. La
stessa riduzione 'macchinistica' del lavoro nell'industria si
è venuta manifestando, nella realtà storica, con
sfumature diverse che, pur collocandosi entro uno stesso schema
classificatorio dal punto di vista logico, possono avere risvolti
sociali di portata assai diversa. Anche perché spesso oggetto
di una reazione sociale che induce l'impresa a una celere ricerca di
forme organizzative più avanzate, la strumentalità del
lavoro umano rispetto alla macchina - ossessivamente considerata nel
modo reso celebre dal film di Chaplin Tempi moderni - tende a
divenire nuovamente strumentalità della macchina rispetto
all'uomo, sia pure entro un processo nel quale le funzioni non sono
più artigianalmente unitarie. Il taylorismo (da F.M. Taylor)
è stato il principale modello di 'organizzazione scientifica
del lavoro' che mirava a valorizzare tale uso parcellizzato del
lavoro umano combinato con macchinari a questo finalizzati. La
denominazione di 'fordismo' per questi fenomeni - dall'applicazione
pratica di criteri siffatti realizzata nelle officine Ford a partire
dagli anni venti e poi largamente diffusa nel mondo - tende spesso a
comprendere anche il risvolto sociale di salari (i cosiddetti 'alti
salari') che beneficiano parzialmente degli incrementi di
produttività derivanti dal combinare macchine e
organizzazione del lavoro di questo tipo, nonché dell'accesso
dei lavoratori ai beni di consumo di massa così prodotti. La
reazione dei lavoratori a questa tendenza riduttiva nell'uso del
lavoro umano ha però condotto, specie dopo la fine degli anni
sessanta, a un vasto movimento di revisione di questi principî
- ormai a produttività declinante per ragioni sociali e di
mercato - in direzione di un aumento di flessibilità, sia
nella destinazione dei macchinari che nell'impiego dei lavoratori
(post-fordismo). La crisi dei precedenti metodi organizzativi ha
aperto un periodo di intense sperimentazioni e riflessioni, nel
quale la cultura industriale occidentale ha prestato una inedita
attenzione alle forme di organizzazione industriale con le quali il
Giappone moderno ha coniugato le proprie tradizioni culturali con la
volontà di industrializzarsi (v. Dore, 1987): si ravvisa nel
'modello giapponese' una possibilità di post-fordismo
'snello', basato cioè su una minuziosa partecipazione
economizzatrice di tutte le componenti aziendali, di contro a un
post-fordismo 'grasso', di stampo più prettamente americano,
basato su un dispendio tecnologico tendente alla ridondanza (v.
Bonazzi, 1993).
Il ruolo modificato dell'uomo lavoratore nell'industria moderna
è stato, volta a volta, quello di semplice integratore (per
lo più transitorio) in un ciclo incompleto di movimenti di
macchine, ovvero di sorvegliante addetto a correggere movimenti di
macchine costituiti in un ciclo pressoché completo, ovvero
anche di parziale realizzatore di un coordinamento di movimenti di
macchine, con responsabilità effettive, ancorché non
globali, nell'esecuzione di un programma che, a sua volta,
può essere monotono o variabile. A siffatte schematiche
distinzioni di forma del rapporto possono corrispondere condizioni
di onerosità e pericolosità nel lavoro le più
disparate. Quei diversi ruoli e queste diverse condizioni di lavoro
si succedono e si sostituiscono, inoltre, in modo non unilineare
nell'evoluzione dell'industria. Lo sviluppo di nuovi rami di
attività - per esempio nel settore chimico - può
ricostituire su altri fronti elementi di pericolosità e
onerosità del lavoro attenuatisi in altri settori, e
così può dirsi per l'immissione di nuove tecniche in
uno stesso settore. Tutto ciò è da porre in
connessione col fatto che la logica aziendale che presiede
all'introduzione o sostituzione delle macchine non è, di per
sé, quella dell'alleviamento progressivo delle condizioni di
lavoro (anche se questa ne è stata complessivamente e in
ultima istanza la conseguenza, nel corso di una storia che non
è solo fatta di sforzi economici ma anche di lotte sociali,
capaci di correggere le tendenze di una logica puramente
economico-aziendale). Un punto essenziale per comprendere il
continuo rivoluzionamento all'interno del quadro dell'organizzazione
industriale del lavoro è infatti questo: esso trae
costantemente origine dall'obbedienza a principî di
minimizzazione degli apporti per unità di prodotto e di
massimizzazione del prodotto per unità di apporto. Gli
apporti - si tratti di materiali, di energia motrice, di logorio di
macchine, di lavoro umano - sono risparmiati o valorizzati secondo i
medesimi criteri: salvo l'eventuale resistenza dei prestatori di
lavoro, i quali sono gli unici a poterla opporre, in virtù
della loro diversa natura rispetto agli altri apporti, a onta
dell'assimilazione che a questi ne è stata fatta nella
struttura capitalistica dell'industria. La stessa applicazione di
miglioramenti o, più in generale, di modifiche tecniche (che
può implicare ritorni parziali a tecniche già smesse)
è condizionata pertanto dai mutamenti che intervengono nella
disponibilità dei prestatori di lavoro a cedere la loro forza
lavoro a date tariffe e a date modalità. Sviluppandosi e
complicandosi, quindi, l'industrialismo ha finito con il creare le
premesse tecniche più favorevoli al rafforzamento del peso
dei lavoratori implicati direttamente nel processo produttivo -
seppur finora nella forma passiva del potere di veto - qualora,
naturalmente, ricorrano le condizioni politiche atte all'esercizio
di questo potere. Come si è già accennato, questo modo
di produzione e questa organizzazione del lavoro che gli corrisponde
hanno però certi caratteri autoritari e centralistici che
paiono attenuabili, ma non eliminabili. Ciò perché si
tratta di una struttura organizzativa nella quale i risultati
dipendono dal funzionamento di un tutto e sono al tempo stesso
vincolati, nella misurazione, al rapporto di scambio,
ancorché l'autorità politica adotti dei correttivi per
il conseguimento di fini speciali o la difesa di interessi
particolari. In questa struttura il programma del processo
produttivo sovrasta inevitabilmente la sua esecuzione. Ciò
implica funzioni distinte e centralizzate di decisione fra
alternative diverse e di decisione innovativa, rispetto alle quali -
nell'ambito dell'unità produttiva - possono essere promosse
autonomie, ove lo stato delle tecniche lo consenta, ma sempre nel
quadro di vincoli precisi. Tutto questo implica una distinzione fra
il momento del disporre e il momento dell'eseguire. Ed è
difficile che tale distinzione non si cristallizzi in una
distinzione di funzioni e di strati sociali, anche se questa non
sembra dover essere necessariamente sempre identica alla drastica
contrapposizione che ha presieduto alla nascita e allo sviluppo del
sistema industriale di fabbrica. In ogni caso il modo di produzione
industriale può funzionare solo in quanto sia socialmente
possibile un rapporto operativo fra queste diverse funzioni, tale da
comprendere e superare l'eventuale conflittualità. I due casi
estremi nei quali si può configurare tale possibilità
sono: o uno stato di coercizione diretta di stampo militare, ovvero
una situazione di libero mercato in cui avvenga uno scambio di
prestazioni offerte contro pagamenti e in cui vi siano realmente
alternative di scelta e potere contrattuale effettivo da parte di
chi nello scambio cede forza lavoro.
Nella realtà storica non si sono registrate finora siffatte
forme pure, bensì situazioni più vicine all'una o
all'altra forma. La formazione del sistema industriale è
avvenuta storicamente nei modi dello scambio libero di forza lavoro
contro salario: scambio fra chi non aveva altre possibilità
di reddito che la vendita, a livelli di puro sostentamento, della
propria forza di lavoro e chi dall'altra parte disponeva non solo
del capitale per anticipare il pagamento delle prestazioni prima
della vendita del prodotto, bensì anche del sostegno del
potere politico. Suo presupposto era quindi l'esistenza di una
struttura sociale con larga disponibilità di lavoratori senza
altre alternative di sostentamento. Nella Gran Bretagna del XVIII
secolo - patria dell'industria moderna - avevano concorso a formare
questa situazione sociale le recinzioni (enclosures) di terre prima
assoggettate a servitù pubbliche o alla coltivazione
individuale, che furono assunte a simbolo del trasferimento
più o meno forzoso di forza lavoro dalla terra all'industria.
Ma la formazione di un 'proletariato' disponibile per il lavoro
industriale può avvenire in molti modi, con trasferimenti e
migrazioni da distanze diversissime. Né si deve credere che
una violenza extramercantile si manifesti soltanto all'origine della
formazione del rapporto di lavoro salariato. Essa ritorna non di
rado, nella storia, ad assicurarne la normalità. E questo
anche in società che dichiarano, o dichiaravano, di essere
ordinate secondo principî di governo proletari. Tuttavia la
contrattazione della prestazione di lavoro (o compravendita della
forza lavoro) non è una finzione, ma un effettivo rapporto
negoziale, e le condizioni politiche che regolano la situazione
sociale in cui esso è possibile sono storicamente soggette a
mutamento. Il portatore della forza lavoro può essere un
cittadino protetto dalla legge. Nel caso in cui lo sia
effettivamente e in misura tale da produrre effetti non soltanto
formali, e nel caso in cui la persistenza di un regime di democrazia
politica consenta una legislazione provocata dallo stesso mondo del
lavoro, l'organizzazione per meglio contrattare (sindacati) e lo
sviluppo della contrattazione possono consentire la difesa
sostanziale della quota del lavoro nella ripartizione degli
incrementi del reddito dovuti agli incrementi di produttività
che il sistema industriale assicura - e quindi un progressivo
incremento dei redditi reali - o anche miglioramenti di quella
quota. Possono consentire altresì riduzioni progressive
nell'orario di lavoro e più favorevoli condizioni di
prestazione dell'opera. Tutto ciò, nella misura in cui
può effettivamente verificarsi, diviene possibile in quanto
è caratteristico dell'industrialismo che possano rendersi
compatibili - a certe condizioni di equilibrio economico o sociale -
una maggiore produzione fisica di beni e un minor apporto del lavoro
corrispondente: e ciò con continuità e
regolarità, e anche secondo una tendenza accelerativa. Questa
caratteristica era del tutto sconosciuta a economie ordinate secondo
altri modi di produzione.Il problema della sopravvivenza
dell'industrialismo moderno sta nella capacità che le
società in cui esso prevale mostreranno di sapere o meno
salvaguardare insieme il miglioramento continuo delle condizioni di
lavoro e il miglioramento continuo della produttività.
L'industrialismo è un sistema tale da consentire - come si
è detto - il realizzarsi di entrambe queste
possibilità, in quanto è socialmente, in linea di
principio, non entropico, nel senso che crea più di quanto
distrugga (altro discorso, pur se non disperante, può essere
fatto per il suo rapporto con le risorse ambientali di cui si
dirà più avanti).
Ma se ciò è possibile, non è però
ineluttabile, in quanto presuppone, al fondo, qualcosa come un
'contratto sociale', le cui condizioni possono anche venire
storicamente a mancare. Le esperienze conflittuali, con momenti di
alta tensione sociale, che si sono compiute nei maggiori paesi
industriali, soprattutto negli anni sessanta e settanta di questo
secolo, hanno attirato l'attenzione sulla complessità della
'regolazione sociale' che l'industrialismo moderno richiede, e che
comporta, al variare stesso della maturazione culturale e civile del
lavoratore, una accettabile combinazione di rapporti sociali,
economici e politici, dentro e fuori la fabbrica, fra le varie
espressioni del potere e il cittadino-lavoratore, tale da produrre
un'adeguata consensualità (v. Salvati, 1988).
3. La rivoluzione industriale
L'industria moderna ha il suo atto di nascita nella 'rivoluzione
industriale' inglese della seconda metà del XVIII secolo, con
la quale comparve per la prima volta in un paese il sistema di
fabbrica (factory system) su larga scala ed entrò in una fase
di rapida espansione il macchinismo nella produzione manifatturiera.
Ciò comportò in un tempo breve, per quei tempi (a
taluni storici più recenti, abituati a ben diversi ritmi,
questo tempo appare però lungo e lento - v. Crafts, 1985 - ma
la questione è controversa - v. Mokyr, 1990), una sensibile
accelerazione nella formazione annua del prodotto nazionale. Questo,
verso la fine del secolo - proprio quando Malthus pubblicava il suo
pessimistico saggio sul rapporto fra andamento demografico e
disponibilità di mezzi di sussistenza -, assumeva in
Inghilterra un ritmo di crescita superiore a quello della
popolazione. Nella prima metà del XIX secolo, mentre la
rivoluzione industriale si dispiegava in tutta la sua ampiezza,
prodotto nazionale e reddito pro capite continuarono a crescere a
ritmi ancora superiori.
Nell'alternanza di tendenze cicliche secolari di crescita e
decadenza che caratterizza la storia dell'economia europea, per lo
meno a partire dal Mille d.C., l'Inghilterra e l'Olanda sono i primi
due paesi che riescono a sottrarsi all'ultima fase ciclica di
caduta, intervenuta nel XVII secolo. Di tali due paesi, il primo
è quello che appunto, attraverso la rivoluzione industriale,
riesce a legare cumulativamente una fase ciclica secolare di
progressi preindustriali con un nuovo ciclo secolare espansivo
dotato di nuovi ed eccezionali caratteri accelerativi. Questa
capacità di espansione senza precedenti nella storia
dell'economia (paragonabile forse soltanto - come ha notato C.M.
Cipolla - al mutamento che, fra l'8000 e il 1500 a.C.,
convertì l'uomo da cacciatore in agricoltore) si estese dalla
Gran Bretagna ad altri paesi. Polanyi (v., 1944) attribuisce
praticamente alla rivoluzione industriale l'instaurazione, come
effettiva nuova realtà di antropologia economica,
dell'economia di mercato, forma prima non dominante nelle relazioni
economiche (la 'grande trasformazione'). Si è voluto
però fortemente sottolineare di recente (v. Pollard, 1981)
che la trasformazione ha caratteri regionalmente assai ineguali, sia
in Inghilterra, sia sul continente europeo dove successivamente si
estese. E altri tendono a sottolineare con particolare evidenza -
secondo una sensibilità acutizzatasi nella recente
storiografia dell'età contemporanea - come vi sia spesso una
prolungata coesistenza di stratificazioni successive, di forme
produttive vecchie e nuove.Intorno alle origini di questa
fondamentale trasformazione e alle cause che la provocarono in Gran
Bretagna, e in altri paesi anch'essi a quell'epoca economicamente
progrediti (come la Francia), si è molto discusso e ancora si
discute. Si sono date diverse interpretazioni della sequenza degli
eventi, sequenza che gli storici hanno impostato nei termini di un
loro abituale modello esplicativo, fondato sulla coppia di opposti
continuità-discontinuità. È evidente che
l'accentuazione di uno dei due poli dipende da quel che l'ottica
dell'osservatore tende a mettere in rilievo: in passato si era
colpiti prevalentemente dalla natura delle innovazioni tecniche o
organizzative, indipendentemente dalla loro diffusione e dalla
misurazione dei loro effetti macroeconomici.
L'interpretazione più tradizionale è orientata
comunque all'affermazione di una netta discontinuità: si
sarebbe passati, nel breve giro di pochi decenni rivoluzionari
(1760-1830 oppure 1780-1840), da un'economia sostanzialmente
stazionaria, o in assai lento sviluppo, a un'improvvisa
accelerazione intervenuta in una o più variabili decisive per
la crescita economica: accumulazione del capitale, innovazioni
tecniche, aumento della popolazione. Un altro e più recente
genere d'interpretazione è quello che riduce, invece, la
portata delle discontinuità, individuando precedenti fasi
nelle quali si sarebbero compiuti sostanziali progressi preparatori,
sia nell'ambito manifatturiero, sia- soprattutto - in quello
commerciale e in quello agricolo, nei 100-200 anni che precedono il
periodo centrale del mutamento. I rapporti che in questo periodo
legano in 'circolo virtuoso' i fattori politico-istituzionali a
quelli propriamente economici, i dati culturali e scientifici a
quelli tecnici, di mentalità e comportamento, nonché
la concatenazione dell'espansione commerciale e dell'aumento della
produttività agricola ('rivoluzione agraria') sono
attualmente oggetto di un fervore di studi in cui si tende a fondere
la tradizionale sensibilità storiografica individualizzante
con le formalizzazioni concettuali dell'economia e della sociologia
contemporanee.
Indipendentemente, però, dal problema delle sue origini o
cause, nonché dal problema dei tempi del suo dispiegarsi
nelle grandezze macroeconomiche (reddito complessivo, investimenti,
consumi), è certo che la rivoluzione industriale si manifesta
comunque come un mutamento nelle strutture produttive, i cui aspetti
fondamentali riguardano le innovazioni tecniche e l'organizzazione
del lavoro - con i conseguenti rapporti sociali - che da quelle
dipende. La storia di queste innovazioni è stata molte volte
ricostruita in opere di grande pregio, alcune delle quali, come
quella di P. Mantoux (v., 1906) o quelle meno remote di T.S. Ashton
(v., 1948) e di P. Deane (v., 1965), conservano negli anni la loro
validità, anche se devono essere integrate dalle risultanze
di ricerche particolari più recenti e sofisticate. La serie
di tali innovazioni è rappresentabile come un intreccio,
peraltro visibile solo a posteriori, di progressi tecnici di ordine
meccanico e chimico, che nel lungo periodo si sostengono
reciprocamente, nelle lavorazioni tessili, nella siderurgia e nel
campo delle fonti di energia: vale a dire nei rami essenziali, per
l'epoca, della produzione di beni di consumo e di beni per la
produzione.I progressi del settore tessile furono più
immediatamente percepibili ed ebbero nel giro di pochi decenni
effetti economici e sociali molto appariscenti: soprattutto in
questo settore si misurò sia il fenomeno della formazione del
nuovo proletariato industriale, agglomerato in centri di nuovo tipo
come Manchester, sia il dominio sui mercati internazionali che il
nuovo modo di produzione, coi suoi bassi costi, consentiva. Gli
avanzamenti nella siderurgia seguirono con minore celerità,
ma costituirono, alla fine, la più solida base di una
trasformazione veramente radicale e profonda che doveva coinvolgere
non solo l'intera industria, ma anche i trasporti e l'insieme delle
attività economiche in genere. L'innovazione fondamentale
intervenuta in campo energetico, e cioè la macchina a vapore,
doveva diventare il simbolo della rivoluzione industriale: essa
consentì progressi decisivi negli altri due campi ora
ricordati e, a sua volta, schiuse altre e varie possibilità.
Le prime innovazioni che aprirono il ciclo rivoluzionario nel
settore tessile risalgono alla prima metà del XVIII secolo e
si manifestarono nel ramo allora più importante, quello
laniero. Così è per la spoletta volante per telai di
John Kay (1730), o per il filatoio di John Wyatt e Lewis Paul
(1738). La loro diffusione, e il loro successivo moltiplicarsi, si
verificò tuttavia solo con il volgere della seconda
metà del secolo ed essenzialmente nel ramo cotoniero. Se la
produzione laniera era, infatti, quella di gran lunga più
importante nella precedente struttura manifatturiera inglese, fu
invece quella cotoniera l'ambito in cui si realizzò il vero
rivolgimento, il quale ebbe quindi anche come essenziale
caratteristica l'affermarsi e l'imporsi di un prodotto praticamente
nuovo. Infatti non soltanto il cotone era poco diffuso in
precedenza, ma non si era ancora pervenuti tecnicamente alla
possibilità di un solido tessuto interamente composto con
tale fibra. La drastica riduzione dei costi che la rivoluzione
industriale determinò in questo campo mutò le
possibilità stesse del vestire, aprendo così la lunga
serie dei mutamenti nel modo di vita prodotti dall'industrialismo.
Come ha scritto D. Landes, "da secoli era in corso uno spostamento
irregolare ma quasi ininterrotto verso stoffe più leggere, ma
[con il cotone] la disponibilità di tessuti lavabili a buon
mercato diede origine a nuovi modi di vestire dallo sviluppo
potenziale imprevedibile. Il comfort e l'uso della biancheria non
furono più riservati ai ricchi; il cotone permise di portare
mutande e camicie a milioni di persone che prima indossavano
soltanto i grossolani e sudici indumenti esterni" (v. Landes, 1969,
p. 83). Questo tipo di processo sociale nei consumi si sarebbe
ripetuto, nel corso dei successivi 200 anni di sviluppo
dell'industria, moltissime volte. Le prime innovazioni aprirono
degli squilibri fra i ritmi delle varie lavorazioni collegate,
alcune delle quali subivano accelerazioni nei tempi di esecuzione,
mentre altre segnavano il passo. Si ebbe quindi un effetto di
sollecitazione al susseguirsi di innovazioni volte a eliminare le
sfasature insorte nei tempi di approvvigionamento o di utilizzazione
e le strozzature che l'avanzamento nei ritmi di una fase di lavoro
provocava in altri. Così la diffusione del telaio di Kay
provocò una strozzatura nella fornitura di filati che lo
stesso filatoio ancora solo pionieristico di Paul e Wyatt non era in
grado di risolvere. Ci riuscirono, invece, i filatoi di Hargreaves
(1766), di Arkwright (1769) e di Crompton (1779). A questo punto,
però, rimaneva di nuovo indietro la tessitura: il telaio
meccanico di Cartwright (1787), che ebbe bisogno di qualche decennio
di rodaggio, risolse questo problema. Indispensabili a rendere il
materiale adoperato adatto alle più veloci lavorazioni furono
alcuni progressi chimici, peraltro elementari. Questo schema di
innovazioni mutuamente sollecitate e che si rincorrono (asimmetrie
provocatorie fra processi interdipendenti) sarà poi una
caratteristica permanente del progresso tecnico dell'età
industriale. Il fenomeno è stato rappresentato da qualcuno
con la metafora del 'saliente' in campo militare (v. Hughes, 1991).
In tempi recenti si è tentata una vera e propria
programmazione dei miglioramenti tecnologici in settori o in grandi
aziende. La felice reciprocità delle risposte tecnologiche
intersettoriali è stata infatti una condizione essenziale
della marcia vittoriosa dell'industrialismo; una crisi in questo
processo di domande e risposte potrebbe avere conseguenze fatali. La
molteplicità di avanzamenti tecnici su un largo fronte - sia
pure diluita in un arco temporale di decenni - è
perciò un aspetto essenziale della rivoluzione industriale,
che quindi non può essere ridotta a un avvenimento
settoriale. L'attività industriale può svilupparsi
solo sulla base di una larga diversificazione e interconnessione
interna, ed estende questi requisiti anche alle tradizionali
attività agricole e a quelle dei servizi, non solo offrendo
loro nuove potenzialità, ma anche rendendole sempre meno
autosufficienti. Lo schema delle asimmetrie provocatorie fra
processi interdipendenti, in certo senso, si ripropone anche a
livello della struttura industriale, nella diversificazione
settoriale. Come si è detto prima, infatti, la rivoluzione
industriale non è solamente il trionfo dell'industria del
cotone. Questo ebbe bisogno del progresso di altri settori, senza di
che avrebbe trovato presto una barriera. E, per contro, diede luogo
a una vera e propria ricaduta di conseguenze (fall out) più o
meno indirette per altre attività. Talune fra queste (come la
siderurgia e la meccanica) finirono poi con l'assumere il ruolo di
'settore traente'. I progressi dell'industria siderurgica ebbero una
maturazione più lenta, ma prepararono trasformazioni
più generali e più profonde. Queste derivarono dal
fatto che si rese largamente disponibile per una molteplicità
di usi un materiale che prima era di difficile e costosissima
lavorazione nonché di qualità e prestazioni ineguali.
I primi progressi si erano avuti agli inizi del XVIII secolo con la
sostituzione del carbon coke alla legna dei boschi (A. Derby, 1709),
dapprima per la produzione della ghisa e poi per la successiva
fucinatura in ferro e per la trasformazione in acciaio (H. Cort,
1783-1784). Nel frattempo l'introduzione delle macchine a vapore
nelle ferriere permise di applicare in queste una potenza
così grande da modificare le possibilità della
soffiatura nei forni e dell'energia meccanica per battere il metallo
nelle forge (1775 circa). Questo duplice rapporto del carbon fossile
con la fabbricazione siderurgica - come elemento combustibile
più economico e, attraverso la macchina a vapore, come forza
motrice di elevata potenza - fece dei paesi carboniferi i
privilegiati dell'industrializzazione per un lungo periodo di tempo:
sufficiente a determinare un livello differenziale di sviluppo e la
conservazione della superiorità economica nei confronti di
rivali sopraggiunti successivamente, pur in un contesto tecnologico
non più così esclusivo. La funzione del carbone nella
prima fase di sviluppo della moderna industria chimica, affermatasi
verso la metà del XIX secolo, consolidò quel
privilegio. James Watt, l'inventore della macchina a vapore in
quella versione che ne rese possibile l'irradiarsi delle
applicazioni (1769), fu salutato per molto tempo come l'eroe della
nuova era. Watt introdusse in una precedente macchina a vapore
(quella di Newcomen, 1705) dei perfezionamenti che riducevano a un
quarto l'energia consumata. Nel giro di qualche decennio si
arrivò poi, con successivi miglioramenti, a un consumo che
era un terzo di quello stesso di Watt. L'interazione di questi
progressi tecnologici fra loro non si fece molto attendere.
Così come la maggiore potenza motrice consentì uno
sviluppo senza pari dell'industria tessile e favorì la
siderurgia, quest'ultima, con i suoi progressi, consentì la
produzione di macchinari più resistenti e più duttili,
atti a tollerare le più energiche sollecitazioni di una
maggiore potenza. Si rese necessario, a questo punto, un progressivo
affinamento delle lavorazioni meccaniche per la produzione dei
meccanismi trasmissori e degli utensili ora azionati da forza
motrice. Questi, per contro, poterono avvalersi di una maggiore e
migliore siderurgia e quindi estesero progressivamente il campo
delle loro applicazioni. La più sensazionale fra queste fu la
trazione mobile per mare e per terra mediante macchina a vapore:
soprattutto a partire dal 1830 circa si delineò nel mondo una
rivoluzione nel campo dei trasporti, la quale doveva ridurre
drasticamente i tempi di percorrimento delle distanze e i costi di
spostamento per le merci e gli uomini. Questo fu il risultato
più vistoso della rivoluzione industriale. Era nata, in modo
evidente per tutti, una nuova economia, avente la capacità di
coinvolgere nel proprio processo dinamico l'intero orbe terracqueo.
Mutavano i modi di lavoro e, con essi, i rapporti sociali.
Mutavano i modi di vita, con la diffusione di nuove merci e nuove
abitudini, con il crescere dell'urbanizzazione e dei movimenti di
uomini e merci: ciò che venne chiamato 'industrialismo'.
Mutavano i rapporti fra le diverse aree del mondo: quelle arretrate
venivano sottoposte a un più rapido assoggettamento da parte
dell'area metropolitana industrializzata. Si formava un mercato
mondiale: le grandi scoperte geografiche, da Colombo in poi, lo
avevano preparato, ma un mercato mondiale, come sistema integrato e
continuo di rapporti commerciali, nacque effettivamente solo con la
rivoluzione industriale.
4. Le rivoluzioni industriali successive e i
modelli di industrializzazione
Lo sviluppo dell'industria nell'età successiva alla
rivoluzione industriale deve essere considerato da due punti di
vista nettamente distinti, anche se connessi. Vi è, in primo
luogo, la storia per così dire 'interna' dell'industria, la
fenomenologia della sua diversificazione, della sua struttura
organizzativa, della sua storia tecnologica, che ha sempre un suo
livello di 'contemporaneità', di aggiornamento: lo stato
delle arti, cioè del progresso raggiunto dalle conoscenze
praticabili e sperimentate, indipendentemente da modi e forme della
sua diffusione geografica, dalle sue relazioni con l'insieme
dell'economia sia di un paese determinato che di regioni,
continenti, mondo. Ma vi è anche un altro punto di vista dal
quale l'industria va considerata: in quanto componente (essenziale)
della crescita delle economie dei singoli paesi nel quadro evolutivo
dell'economia mondiale. In questo senso la storia dell'industria
è storia dell'industrializzazione, cioè del processo
economico, e anche economico-politico, della diffusione
dell'industria stessa: si potrà anche dire 'delle
industrializzazioni', riferendosi all'unità dei differenti
ambiti economici (nazionali, regionali, di area) in cui quel
processo interviene.
Dal primo di questi due punti di vista si potrà parlare di
fasi successive della storia industriale, che alcuni tendono a
definire come un susseguirsi di 'rivoluzioni' intervenute nelle
caratteristiche dominanti dell'attività trasformatrice.
Ritorna, infatti, spesso, in relazione a queste fasi di mutamento,
la formula 'seconda rivoluzione industriale' o anche 'terza
rivoluzione industriale', se chi vuol marcare il carattere
rivoluzionario del nuovo mutamento è più o meno
consapevole del fatto che si è già ricorsi, in
relazione a precedenti periodi di accelerato mutamento, a tale
periodizzante metafora ordinale. Joseph Schumpeter, la cui teoria al
riguardo è ancora un punto di riferimento essenziale per gli
studiosi del progresso tecnico industriale, fece coincidere queste
fasi con delle onde cicliche 'lunghe' dell'attività
economica, dette di Kondrat´ev dall'economista russo che
ritenne di averle individuate, caratterizzate nella fase di avvio
espansivo dal prodursi di 'grappoli' di innovazioni. Si può
osservare comunque che, con enfasi diversa, gli studiosi tendono a
distinguere nella storia industriale moderna almeno quattro grandi
fasi. La prima, quella della rivoluzione industriale 'classica',
è contrassegnata dalla predominanza del settore tessile come
produzione industrializzata e da un accresciuto bisogno di fonti
energetiche meccaniche, e sollecita tecnicamente, anche se non
ancora industrialmente, l'attività mineraria, meccanica e
metallurgica: è l'età simboleggiata dalla macchina a
vapore di Watt. La seconda, che si fa partire dal 1830 o dal 1840
circa, sarebbe quella in cui prendono particolare rilievo e ampiezza
le lavorazioni siderurgiche (e si hanno in questo campo innovazioni
fondamentali, come il processo Bessemer, 1856, e il processo
Siemens-Martin, 1857-1864) e che coincide pressappoco con la prima
età delle ferrovie e della navigazione a vapore (e quindi con
quella che è stata chiamata, per analogia, la 'rivoluzione
dei trasporti') e l'uso mobile della macchina a vapore. Una terza
fase viene generalmente collocata alla fine del XIX secolo, quando
cominciano a prendere eccezionale rilievo gli aspetti chimici dei
processi industriali: non soltanto nel senso del sorgere di una
grande industria chimica (dei coloranti, degli esplosivi e dei
fertilizzanti agricoli), ma anche nel senso che processi chimici si
applicano sempre più al trattamento dei materiali
tradizionali, migliorandone drasticamente le prestazioni e
consentendo nuove leghe (per esempio l'alluminio) e nuovi materiali,
come le prime fibre tessili artificiali. Ma il carattere
rivoluzionario di questa terza fase è accentuato dalla
comparsa di una nuova grande innovazione nel campo delle fonti di
energia con l'introduzione dell'elettricità nei processi
industriali, dopo che vengono perfezionate le tecniche per il suo
trasporto a distanza (anni ottanta). In questo periodo, fra la fine
del XIX secolo e gli inizi del XX, sorgono produzioni nuove, come
quella delle automobili o quella degli aeromobili, si espande
l'utilizzazione dei combustibili fossili liquidi e si delinea una
prima traduzione del progresso industriale nei nuovi modi del
consumo di massa. È allora che si manifesta la prima
percezione di una 'seconda' rivoluzione industriale. Tuttavia, dopo
la seconda guerra mondiale, l'eccezionalità della svolta
costituita da quella precedente fase parve decisamente oscurata da
nuovi, straordinari avvenimenti scientifico-tecnici, come
l'utilizzazione dell'energia atomica, la moltiplicazione dei
materiali sintetici prodotti dalla petrolchimica, e poi, infine e
soprattutto, l'informatica: in effetti una vera novità
rivoluzionaria, operante trasversalmente nell'industria e in tutta
l'economia, che - con l'ausilio decisivo dell'elettronica e di altre
nuove tecniche specialmente nelle telecomunicazioni - ha preso a
'industrializzare' la trasformazione di eventi in informazioni
esattamente programmabili e la loro trasmissione in forme
suscettibili di trasformarsi istantaneamente in comandi immediati di
lavoro per uomini, macchine, processi di ogni tipo che siano
adeguatamente predisposti, ovvero in massicci ausili ai processi
decisionali, centrali e periferici.
Queste quattro fasi della moderna storia industriale riflettono
sostanzialmente le grandi svolte del processo di diversificazione
della struttura industriale nel corso del suo progresso tecnologico:
la nascita e la crescita di nuovi settori caratterizzanti
(siderurgica, chimica, nuove fonti energetiche, informatica) hanno
effetti che si ripercuotono grandemente su tutti gli altri,
implicando nuovi materiali, nuove possibilità di prodotto,
nuove capacità dimensionali, nuove forme organizzative.
Soprattutto va notato, per la macroscopica rilevanza sociale del
fenomeno, che quelle fasi innovative trovano un certo parallelismo
nei contemporanei mutamenti degli aspetti organizzativi dei processi
industriali: così è possibile attribuire alla seconda
fase indicata (a partire, cioè, dal 1830-1840) il prorompere
della 'grande' industria, cioè delle grandi concentrazioni
industriali, che creano le premesse della separazione della
proprietà dalla gestione (fenomeno dalla lunga e complessa
storia) con il diffondersi della forma della società per
azioni nell'iniziativa industriale. Mentre alla terza fase - quella
che cade fra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo - si possono
ascrivere l'introduzione del taylorismo nell'organizzazione del
lavoro e l'istituzionalizzazione generalizzata del negoziato
sindacale, nonché il diffondersi di forme di controllo del
mercato da parte dell'industria, con la formazione di trusts e
cartelli. La quarta fase, infine, che pareva dovesse essere quella
dell'automazione dei processi industriali, lo è stata solo
limitatamente, e pare invece piuttosto caratterizzata dalla
diffusione di tecniche razionali di management, dall'organizzazione
psicologica del consumo su larga scala (attraverso i mass media),
dall'ampiezza assunta dal fenomeno della multinazionalità
delle grandi imprese, nonché da una crescita eccezionale del
potere sindacale di contrattazione.
Se veniamo ora a considerare l'altro dei due punti di vista da cui
la storia industriale può essere riguardata - quello
dell'espansione dell'industria nell'economia mondiale - si assiste,
anche qui, a fasi ben distinte, in gran parte e a grandi linee
coincidenti con quelle riscontrabili nella storia 'interna'
dell'industria. In un primo periodo l'industria moderna è un
fatto essenzialmente inglese. Soltanto nella seconda metà del
secolo un 'contagio' assai lento maturato nel frattempo lungo una
fascia privilegiata dell'Europa continentale - fra Paesi Bassi,
Francia nordorientale, Germania occidentale, Svizzera e talune
regioni dell'Impero austro-ungarico (v. Pollard, 1981) - prese le
proporzioni di un'effettiva e rapida industrializzazione. Si
avvantaggiarono di più, naturalmente, le regioni che
disponevano di giacimenti carboniferi e metallurgici. Lo stesso
'albo d'oro' delle nuove invenzioni industrialmente feconde, il
quale da Watt a Bessemer era stato praticamente monopolio degli
Inglesi, cominciò a popolarsi di nomi continentali, in gran
maggioranza tedeschi (Siemens, Otto, Daimler, Diesel). L'industria
chimica, la nuova motoristica e l'elettromeccanica - i settori
avanzati della terza fase della storia industriale moderna - ebbero
in Germania la patria d'elezione. Contemporaneamente, dall'altra
parte dell'Atlantico, si assisteva alla trasformazione industriale
degli Stati Uniti d'America, che doveva assumere dimensioni
gigantesche nel corso del XX secolo. Tra la fine del secolo e la
prima guerra mondiale l'industrializzazione investì anche
alcune regioni europee della Russia nonché il Giappone e
l'Italia del nord. È singolare che l'industrializzazione,
intesa come processo che tende a trasformare l'insieme dell'economia
di singoli paesi, si sia sostanzialmente fermata per lungo tempo
alle frontiere raggiunte negli anni antecedenti la prima guerra
mondiale. Dopo di allora nuclei d'industria dei settori più
svariati sono sorti in molti paesi dei vari continenti, ma non come
elemento dominante di quelle economie, capace d'indurne una rapida e
radicale trasformazione. Questo, ovviamente, con qualche eccezione
che chiaramente si ricollega a un peculiare e stretto rapporto con i
massimi centri del mondo industrializzato (come Canada o Israele).
Unico vero fenomeno nuovo di allargamento territoriale
dell'industrializzazione mondiale, dotato di caratteristiche
originali, è la formazione di una fascia di aree
estremo-orientali (Taiwan, Corea del Sud, Hong Kong, Singapore),
detta del NIC (New Industrial Countries).
Numerosa è invece oggi la schiera dei paesi che si
considerano 'in via di sviluppo', nei quali sono in corso sforzi
particolari per un'industrializzazione accelerata: tali paesi sono
però essi stessi indice di una dicotomia che si è
venuta cristallizzando nella geografia economica del mondo. Questa
impasse che si registra nella diffusione delle strutture industriali
nel mondo pone un complesso problema d'interpretazione
storico-economica da una parte e un serio interrogativo
politico-economico dall'altra. Quali fattori l'hanno determinata?
Con quali mezzi essa può essere superata? Nella visione
ottocentesca del progresso economico l'industrializzazione non era
concepita come elemento necessario. La teoria allora dominante della
divisione internazionale del lavoro induceva a ritenere che ogni
paese avrebbe potuto massimizzare il proprio dividendo nazionale
specializzandosi in quelle produzioni che era in grado di effettuare
- per fattori geografici o d'altra natura - a costi comparativamente
più bassi: e quindi anche in produzioni esclusivamente
agricole. In tal modo sarebbe stato possibile procurarsi attraverso
lo scambio, alle condizioni più vantaggiose, qualsiasi altro
bene. Tale risultato non si sarebbe potuto ottenere nella stessa
misura se, viceversa, ciascun paese avesse tentato d'impiantare al
proprio interno produzioni sfavorite in partenza, vuoi per mancanza
di materie prime o fonti energetiche adeguate, vuoi anche per la
scarsa disponibilità di fattori storicamente condizionati,
come una mano d'opera specificamente addestrata, ecc. Tale teoria -
benché tutt'altro che priva di fondamenta scientifiche entro
un determinato quadro di condizioni - si caratterizzava per la sua
spiccata aderenza agli interessi delle nazioni già
industrializzate e allora in posizione dominante sui mercati dei
beni industriali. La sua impostazione era statica e di breve
periodo: essa tendeva, in primo luogo, a sopravvalutare la
convenienza derivante dai fattori esistenti e già operanti
(naturali o storici) rispetto a quelli acquisibili (sia pure a
prezzo di un periodo intermedio di svantaggi) mediante il potenziale
dinamismo tecnologico dell'industria, comparativamente assai
più grande di quello pur possibile in agricoltura, e da cui
non è illecito, dunque, attendersi un'alterazione vistosa
nello stesso quadro dei vantaggi comparati. In secondo luogo essa
ignorava la diversità della forza contrattuale che finisce
con lo stabilirsi fra paesi a struttura produttiva industriale e
paesi a struttura produttiva agricola e comunque arcaica, spesso
'monocolturale', cioè orientata tutta su un solo prodotto
fondamentale, soggetto, oltre tutto, a grandi incertezze per le
oscillazioni di prezzo. Ma soprattutto quella teoria non prevedeva i
fattori sociali che col trascorrere del tempo - essendosi formata
una sovrappopolazione relativa anche a seguito degli effetti
destabilizzanti introdotti nelle vecchie strutture dal contatto con
il mercato mondiale - avrebbero potuto indurre i singoli paesi non
industriali, già dotati di autonomia politica o pervenuti
successivamente a questa, a porsi il problema di strutture
economiche suscettibili di una più elevata creazione di posti
di lavoro. E ciò si sarebbe verificato soprattutto a partire
dal momento in cui alcuni parziali effetti civili e sanitari
dell'industrializzazione si fossero diffusi nel mondo provocando
un'impennata nell'aumento di popolazione, come conseguenza,
principalmente, di diminuiti tassi di mortalità.
Le teorie che cercano di spiegare questa grande impasse storica
dell'industrializzazione mondiale sono riconducibili sommariamente a
tre punti di vista. Un primo punto di vista è quello che fa
dipendere lo sviluppo industriale capitalistico dall'esistenza di
certe condizioni nella struttura sociale precedente, favorevoli a
una sua trasformazione. Assumendo tale orientamento si finisce con
il far dipendere più o meno interamente le possibilità
evolutive presenti da quelle passate. Le società che avevano
raggiunto fra il XVIII secolo e la fine del XIX un certo ordine
sociale - maturando in sostanza un superamento più o meno
completo di un preesistente sistema feudale (che comunque
sembrerebbe a taluni aver creato premesse forse essenziali) - si
sono industrializzate. Le altre no, per la mancanza di tali
prerequisiti istituzionali. Donde la necessità, ove queste
ultime vogliano superare tale carenza, di un volontaristico ed
'eroico' salto di fase storica. Il che, naturalmente, taluni
ritengono possibile e altri, invece, illusorio. Un secondo punto di
vista - sovente oggetto di una particolare enfasi ideologica in
quanto è quello che meglio si associa all'impulso
conflittuale verso l'esterno proprio del nazionalismo dei paesi che
si rendono politicamente indipendenti - parte dal presupposto che il
sistema di rapporti economici internazionali creato dallo sviluppo
con implicazioni colonialistiche e imperialistiche delle prime
nazioni industriali avrebbe deformato gravemente le economie del
resto del mondo. L'evoluzione economica degli altri paesi sarebbe
stata orientata nel senso di una subordinazione, la quale avrebbe
dato luogo addirittura a situazioni handicappanti, pregiudizievoli
al loro ulteriore sviluppo, per esempio costringendone la produzione
in ambiti limitati e senza prospettive di diversificazione, oppure
consolidando o imponendo in essi un ordinamento sociale retrogrado e
ostile al progresso. Un terzo punto di vista sottolinea invece le
crescenti difficoltà storiche d'ingresso nell'area
economicamente industrializzata del mondo, e questo proprio via via
che l'industrialismo progredisce, in quanto esso diviene fenomeno
più complesso tecnologicamente, economicamente e anche
socialmente, più difficile, pertanto, da recuperare e
raggiungere. La maggiore complessità della realtà
industriale imporrebbe a ogni nuova economia nella quale si venga a
manifestare, o venga politicamente introdotta, una tendenza allo
sviluppo - dato che questo non potrebbe realizzarsi che a un livello
aggiornato e rispettando certe indivisibilità proprie di tale
livello - di concentrare massicciamente, e in breve giro di tempo,
uno sforzo che i paesi 'primi arrivati' hanno compiuto più o
meno gradualmente in un periodo a volte secolare. In altre parole,
la diffusione internazionale dello sviluppo industriale avrebbe
trovato degli ostacoli proprio per effetto del dispiegarsi stesso di
questo sviluppo nei paesi della prima ondata (spesso chiamati first
comers, primi arrivati), essendo l'industrializzazione un fenomeno
che non 'sta fermo' in attesa di lasciarsi imitare, ma cresce
continuamente su se stesso. In un primo tempo, pertanto, una certa
diffusione di strutture industriali, in alcuni paesi non troppo
dissimili dai primi, sarebbe stata consentita dalla relativa
semplicità delle prime tecnologie, e quindi dalla loro
più agevole trasmissibilità e dal costo non
inaccessibile dell'investimento industriale connesso; d'altra parte,
l'ancora elevato costo dei trasporti (poi via via ridotto
dall'introduzione dei portati dell'industrializzazione in questo
settore) avrebbe svolto oggettivamente la funzione di una barriera
protettiva per i nuovi paesi avviati all'industria rispetto alla
maggiore forza competitiva, ai puri costi di produzione, delle
regioni pioniere. Il venir meno di queste due condizioni - come
è stato messo in rilievo specialmente da P. Bairoch (v.,
1963) - avrebbe progressivamente accresciuto le difficoltà
d'ingresso nell'area industriale. Infatti la rivoluzione dei costi
di trasporto tende, come è noto, a favorire l'accentramento
nelle strutture produttive, e, dal canto loro, il più alto
tasso di accumulazione di capitale necessario e le maggiori
conoscenze e abilità richieste dall'industria moderna
spingono nella stessa direzione.
A tali considerazioni si deve aggiungere che la concentrazione
territoriale dell'industria tende a creare essa stessa - come ora
vedremo - una maggiore convenienza al sorgere nella medesima area di
nuove attività, vincendo l'attrattiva di taluni particolari
vantaggi (come i più bassi costi di mano d'opera non
qualificata o delle aree da utilizzare) che possono essere talvolta
offerti in zone vergini. Lo stesso sforzo iniziale
d'industrializzazione - lo hanno sottolineato soprattutto P.
Rosenstein-Rodan e A. Gerschenkron - deve a un certo punto della
storia industriale, per risultare efficace, svolgersi su un fronte
esteso, per blocchi. Tutto ciò impone allora, col trascorrere
del tempo, uno sforzo sempre più cospicuo, e una
mobilitazione di energie più drastica, per conseguire il
risultato.Ne deriva che il modello gradualistico e più o meno
liberista, cui corrisponde la vicenda storica dei primi paesi
industriali, dovrebbe di necessità venire progressivamente
capovolto per dar luogo a industrializzazioni con un sempre maggiore
contenuto d'iniziativa centralizzata, estesa però a un largo
numero di settori industriali capaci di fornirsi reciprocamente: per
esempio iniziativa di banche, ma anche e - alla fine - soprattutto,
iniziativa politica con aiuto dello Stato. Il tutto, quindi, con
accelerazione dei ritmi e con controlli economici e sociali
più o meno autoritari. Ciò renderebbe organicamente
impossibile che i processi d'industrializzazione si svolgano in
obbedienza a un unico modello generale. La gran parte delle
caratteristiche più salienti della trasformazione si
presenta, in effetti, nei vari casi storici in cui questa riesce a
verificarsi, in modo alquanto diverso. Gerschenkron ha tentato di
elencare una serie significativa di tali caratteri, i quali possono
presentarsi, in tempi differenti e in differenti paesi, in modo
affatto opposto. Ad esempio, in taluni casi l'industrializzazione
appare come un fatto autoctono, in altri derivato, cioè
fortemente dipendente da sollecitazioni che provengono da altre aree
dell'economia mondiale; il processo stesso può svolgersi in
forma autonoma, per effetto di forze spontanee dell'economia, oppure
venire forzato dall'autorità politica; può
indirizzarsi prevalentemente verso la produzione di beni di consumo
oppure fare parte assai larga o addirittura preponderante a quella
di beni strumentali (e ciò sin dall'inizio); può aver
luogo in situazione inflazionistica o invece di stabilità
monetaria; può, o non, mettere capo a vaste trasformazioni
strutturali nell'insieme dell'economia; il suo svolgimento
può essere caratterizzato da gradualità e
continuità o, per contro, da discontinuità,
cioè da brusca accelerazione; il suo rapporto con il
preesistente settore agricolo può essere di
reciprocità nel progredire, ma può anche essere invece
conflittuale, implicando pertanto nell'agricoltura stagnazione e
regresso; differenti possono essere le fonti della formazione del
capitale per l'investimento industriale; infine la sua motivazione,
negli agenti che principalmente lo hanno promosso, può essere
prevalentemente economica o politica. A questi elementi per una
tipologia dell'industrializzazione altri se ne potrebbero aggiungere
o sostituire: è evidente comunque la diversità delle
implicazioni di ogni genere - economiche, sociali e politiche - che
possono accompagnarsi a ciascuna di queste possibilità, il
che giustifica pienamente la riflessione storiografica al riguardo.
Per Gerschenkron il problema fondamentale sta nel ricercare se vi
possa essere un principio esplicativo unitario al quale esse siano
riconducibili e che permetta di comprendere se esse tendono ad
associarsi fra loro in base a una logica. La risposta che questo
autore dà individua nel grado di arretratezza iniziale
dell'economia in cui si avvia il processo d'industrializzazione la
variabile indipendente rispetto alla quale tutte le alternative
riguardanti gli aspetti prima indicati del fenomeno sarebbero
variabili dipendenti. In pratica, cioè, più
un'economia viene a trovarsi inizialmente arretrata e più
imponente dovrebbe essere lo slancio necessario e quindi discontinuo
il processo; maggiore l'impulso dato alla produzione di beni
strumentali, quelli cioè necessari all'allargamento della
produzione nel suo insieme; più grandi le dimensioni delle
attrezzature iniziali; più drastica la compressione dei
consumi della popolazione; meno importante la parte dell'agricoltura
come mercato per i prodotti industriali e quindi più soggetto
a sproporzione il parallelo sviluppo di essa; più decisiva la
parte dei finanziatori esterni all'industria stessa, come
intermediari finanziari, o dello Stato stesso, dato che le
dimensioni dello sforzo d'avvio e il tempo in cui questo deve
compiersi non consentono di fondarsi sulla graduale formazione di
capitale interna alle imprese.
Può ricollegarsi a questo ordine di problemi la fenomenologia
della diversità dei grandi modelli di capitalismo industriale
che è oggi oggetto di interesse diffuso: da un lato i modelli
anglosassoni, quello inglese e quello americano che lo ha seguito
superandolo per dimensioni; dall'altro quello, tipicamente
'ritardatario', proprio della Germania e del Giappone (che nella
seconda metà del XIX secolo guardò molto, per la sua
politica di industrializzazione, appunto alla Germania). I due
modelli sarebbero principalmente dissimili in relazione alle
rispettive strutture 'capitalistiche', di finanziamento, cioè
di proprietà e di controllo, il che riconduce largamente,
appunto, alle modalità degli impulsi storici iniziali.
Nell'area anglosassone l'origine prettamente privatistica della
formazione del capitale industriale si sarebbe consolidata in una
struttura di imprese-merce in cui la proprietà e la gestione
(management) sono nettamente dissociate e che il mercato borsistico
consente di comprare e vendere, operando al tempo stesso come
attento giudice, controllore e stimolatore di comportamenti
efficienti della gestione, oltre che, sempre in relazione a tutto
questo, come fonte principale della provvista di nuovi capitali per
l'espansione delle imprese stesse. Del tutto diversa la struttura
del capitalismo industriale tedesco, nel quale l'origine del
finanziamento e del controllo bancario continua a farsi sentire,
dando luogo a una configurazione di imprese fortemente raggruppate,
coordinate, a proprietà difficilmente trasferibile, in cui la
banca resta in qualche modo supremo garante del controllo di
efficienza e decisore in ultima istanza di strategie. Benché
con peculiarità tutte proprie, derivanti da una storia
culturale antica e diversa, è analogamente accentrata e
coordinata, per cerchi concentrici successivi, la struttura
capitalistica giapponese. Intermedio può considerarsi il caso
francese, mentre in Italia il fallimento - negli anni trenta - del
modello tedesco banca-industria, con cui era partita
l'industrializzazione italiana, ha portato alla formazione di un
ibrido, oggi ritenuto transitorio, nel quale coesistono un forte
settore di industria pubblica (nata da salvataggi con cui lo Stato
impedì il crollo del sistema negli anni trenta), una grande
impresa ancora molto arroccata nel controllo proprietario familiare
(difeso da peculiari strutture finanziarie), e un settore di media
impresa, comparativamente molto diffuso. Le formulazioni di
Gerschenkron, che definiscono, in fondo, le coordinate storiche di
questo assetto, costituiscono il più coraggioso tentativo di
sintesi in materia che sia stato finora compiuto: ancora oggi
formano il principale punto di riferimento delle maggiori
discussioni sull'argomento che ritengano utile l'apertura alla
prospettiva storica. E questo nonostante i loro limiti, fra cui
principalmente, forse, la modesta considerazione del ruolo delle
influenze reciproche di aree economiche diverse e delle forme e
modalità delle 'correnti di trasmissione' che possono
stabilirsi fra posizioni originarie di centro e di periferia (su
questo hanno, in modi diversi, aperto una strada, non ancora
adeguatamente battuta, Fernand Braudel e Sidney Pollard). Tali
concettualizzazioni interpretative appartengono comunque a quelle
astrazioni di media portata, sorta di generalizzazioni empiriche non
suscettibili né bisognose di una rigorosa formalizzazione, ma
estremamente utili - come ha rilevato un altro importante storico
dell'industrializzazione, di diverso impianto, Landes - nell'analisi
di fenomeni storici: soprattutto se tale analisi non vuole
disperdersi nell'irriducibilmente specifico e individuale e, alla
fine, meramente descrittivo, ovvero annullarsi in apriorismi
concettuali estranei allo svolgersi effettivo degli eventi e a una
visione unitaria del processo storico, come capita sovente
nell'esercizio puramente teorico di costruzione di modelli formali.
Diverse pretese ha la cosiddetta new economic history che mira a
coniugare - nello studio di processi storico-economici - modelli
econometrici, il più ampio uso dei dati quantitativi e un
rigoroso ragionamento basato sull'assunzione del calcolo economico
individualistico (generalmente nella forma della teoria economica
nota come 'neoclassica'), strumenti con i quali è possibile,
a volte, tentare la verifica di ipotesi formulate in base alle
astrazioni 'di media portata'.
Altri tentativi riconducibili nell'area delle astrazioni di media
portata per lo più non considerano isolatamente il fenomeno
dell'industrializzazione in senso stretto, ma assumono quello della
crescita economica nel suo insieme, pur collocando al centro
dell'analisi, naturalmente, l'industrializzazione stessa. Fra coloro
che si sono mossi in questa direzione è da segnalare
soprattutto H. Chenery, il quale non parla di 'tipologie'
bensì di 'sentieri' dello sviluppo industriale. Egli
sottolinea altresì l'importanza delle dimensioni territoriali
del paese cui si riferisce il caso di sviluppo. È evidente
che le dimensioni dell'area condizionano strettamente sia
l'entità dei rapporti con l'esterno di una data economia, sia
la composizione di tali rapporti. Ne risulta quindi influenzato il
suo grado d'integrazione interna e pertanto l'orientamento nella
composizione delle sue produzioni. Chenery innesta queste
considerazioni su una ipotesi relativa alla potenzialità
differenziata di crescita dei vari settori industriali, condotta in
termini che discendono dall'impostazione Allan Fisher-Colin Clark
sopraricordata, e che si basa sulla diversa elasticità della
domanda di differenti gruppi di prodotti al crescere del reddito.
Secondo Chenery la stessa struttura industriale si stratificherebbe
al modo dei grandi settori fisheriani e obbedirebbe, nella crescita,
a un'analoga logica differenziata: si avrebbero, cioè,
industrie 'iniziali', industrie 'intermedie' e industrie 'ultime'.
Viene così delineata una relazione, che può prestarsi
a fecondi sviluppi, fra dimensioni territoriali, grado di apertura
esterna, composizione strutturale e capacità di crescita.
Siffatta impostazione ha il pregio di valorizzare meglio, rispetto a
quella di Gerschenkron, la variabilità strutturale dipendente
dalla collocazione internazionale di un'economia in via
d'industrializzazione, mentre l'impostazione di Gerschenkron
è invece più sensibile alla funzione del tempo storico
nel determinare il quadro condizionale dell'industrializzazione, e
quindi, anche qui, delle forme e della struttura di questa in paesi
che l'affrontino in tempi diversi. Non è però
impossibile immaginare una riflessione comprensiva che tenga conto
di tutti questi aspetti, assegnando a ciascuno di essi il dovuto
peso. Gli elementi sui quali potrebbe fondarsi un tentativo siffatto
risalteranno più chiaramente ove si considerino brevemente i
fattori che regolano la convenienza alla localizzazione delle
industrie e le loro relazioni con le diversità tipologiche
dei settori industriali. Queste ultime comportano infatti una
sensibilità non uniforme ai fattori di localizzazione. Da
tutto ciò deriva una variabilità storica
dell'influenza dei fattori di localizzazione in presenza di
mutamenti tecnologici, economici e sociali. In più, a tutto
questo si sovrappongono fattori pubblici obbedienti a una logica
diversa.
Giova sottolineare però, per concludere sul 'mistero' dei
fattori dell'industrializzazione, che la riflessione più
recente tende, in misura sempre più accentuata, a valorizzare
l'importanza decisiva della formazione storica di 'capitale umano':
l'istruzione generale e specifica, cioè la cultura diffusa, i
costumi e le abitudini sociali favorevoli all'economia moderna,
nonché la cultura civica atta a far funzionare le
istituzioni. Laddove le macchine possono senza difficoltà
essere importate in una economia, e così gli uomini come
entità fisiche, non è così facile per i fattori
culturali, i quali si formano, per lo più, soltanto in tempi
lunghi.
5. Come funziona il dinamismo industriale: il
progresso tecnico
Caratteristica dominante dell'industria moderna è,
come si è detto, il grande dinamismo tecnologico. Il rapporto
fra scienza e tecnologia nell'attività industriale è
stato oggetto di una larga messe di studi. In genere si tende ad
affermare, giustamente, la crescente importanza della scienza per lo
sviluppo dell'attività industriale, delle sue
possibilità e dei suoi orizzonti. Ma si osserva anche che la
tecnologia, come tale, è fenomeno dotato di una sua
specificità e non si trova in rigida dipendenza dal progresso
scientifico. Come ha osservato Rosenberg (v., 1991), "se la specie
umana si fosse limitata al solo sfruttamento di quelle tecnologie
delle quali avesse compreso in senso scientifico il funzionamento,
essa sarebbe scomparsa dalla scena già da parecchio tempo".
Le tecnologie sono conoscenze a livello spesso limitato di
profondità, ma sono con frequenza esse stesse la base per
nuovi miglioramenti tecnologici, in modo indipendente e autonomo dai
progressi della scienza.
Per contro, anche quando il cambiamento tecnologico dipende da nuove
conoscenze scientifiche, è un problema affatto specifico, a
volte più complesso di quello scientifico stesso, convertire
la conoscenza scientifica in beni e servizi utili.Un problema di
particolare rilevanza è però la logica
dell'unità operativa che è il nucleo
dell'attività industriale, cioè l'impresa, nel suo
rapporto con la tecnologia. Come, perché e quando le nuove
tecnologie vengono introdotte nell'attività produttiva
dell'industria generandone lo specifico dinamismo che si traduce in
aumento di produttività, miglioramento funzionale di
qualità, offerta di nuovi prodotti? Per gli economisti, fra i
quali hanno dato rilievo centrale a questo problema soprattutto Marx
e Schumpeter, la spiegazione classica sta nella tendenza alla
ricerca del maggior profitto da parte dell'impresa industriale
capitalistica, in condizioni di stimolo concorrenziale e di
variabilità nei prezzi relativi dei fattori occorrenti al
processo produttivo, o anche, per Schumpeter, in particolari
circostanze, in condizioni di monopolio. Benché l'andamento
dei prezzi relativi dei diversi beni che entrano nella produzione
possa influenzare il progresso tecnico in molti modi, l'attenzione
è stata principalmente rivolta, a livello macroeconomico, al
rapporto di scarsità relativa, o comunque di costo relativo,
fra i grandi fattori della produzione, cioè capitale, lavoro
e risorse naturali, specie nel lungo periodo. Qui, in effetti,
può essere trovata una sollecitazione di natura aggregata a
risparmiare lavoro e a impiegare capitale, quando il primo scarseggi
e sia caro e il secondo sia disponibile, in quantità e costo
adeguato, a surrogare il primo, con stimolo alla ricerca delle
condizioni tecniche che consentono di farlo. Per esempio, una
comparazione della storia economico-tecnologica americana e inglese
del XIX secolo mostra come l'evoluzione americana sia stata
più marcatamente indirizzata verso l'accelerazione
tecnologica dal fatto che l'offerta di lavoro era più scarsa
e cara (v. Habakkuk, 1962; v. Toninelli, 1993).
Le condizioni culturali di questa possibilità di trasformare
capitali in tecniche risparmiatrici di lavoro sono naturalmente un
problema concettualmente indipendente. Per quanto riguarda le
origini della prima rivoluzione industriale è probabile che
solo lo storico in senso stretto possa tentare di ricostruire il
contesto in cui la presenza di fattori produttivi adeguati e azioni
economicamente motivate si sono combinate con condizioni culturali
idonee a rispondere con un'esplosione di innovazioni tecnologiche
alle sollecitazioni economiche, producendo così una sorta di
mutazione genetica nella vita economica. Una volta intervenuta,
questa mutazione ha condizionato i modi successivi della scelta
economica, il che, come è stato rilevato, avviene anche per
le forme stesse del progresso tecnico (fenomeno della path
dipendence, cioè delle abitudini precedenti che condizionano
il futuro; cfr. P. A. David, in Parker, 1986). Per lungo tempo,
comunque, gli economisti hanno prudentemente preferito considerare
il progresso tecnico una variabile esogena, cioè esterna al
sistema in senso stretto, nei loro modelli di funzionamento
dell'economia. In tempi più recenti, invece, il progresso
tecnico ha assunto un andamento di flusso ininterrotto,
ancorché caratterizzato da discontinuità, e questo ha
incoraggiato a interinarlo, come variabile endogena, in molti
modelli economici. Nella pratica stessa si è verificato, del
resto, che le imprese industriali, specialmente le maggiori, tendano
ormai a considerare la 'ricerca e sviluppo' (R&S) una posta
normale, spesso di valore strategico, dei loro investimenti. La
logica della ricerca conserva evidentemente proprie
discontinuità e imprevedibilità, ma la sua massiccia
programmazione consente ormai, su basi probabilistiche, di inserire
questa variabile nel calcolo dell'impresa industriale.
6. La divisione internazionale del lavoro e
l'industria nel mondo
Le attività industriali si distribuiscono sul territorio in
base a criteri studiati tradizionalmente dalla teoria della
localizzazione delle attività economiche, assai utile per la
comprensione non solo delle logiche di distribuzione dell'industria
all'interno di un paese, ma anche per la sua distribuzione su scala
macrogeografica, quella che tradizionalmente viene chiamata dagli
economisti 'divisione internazionale del lavoro'.
I moventi della localizzazione ispirati al calcolo economico partono
da valutazioni relative ai costi di approvvigionamento, di
trasformazione e di distribuzione e ai costi di transazione - di
informazione, negoziazione, autorizzazione, reclutamento, ecc. -
relativi a ciascuna di queste fasi (e che oggi la teoria economica
tende a distinguere specificamente, permettendo così di
spiegare meglio molti fenomeni prima considerati più
sbrigativamente). Naturalmente l'ampiezza della gamma delle
alternative considerate varia in funzione delle dimensioni
dell'operatore che deve compiere la scelta: un piccolo imprenditore
si porrà un numero minore di alternative possibili che non
una società multinazionale. Di conseguenza l'effetto
complessivo delle scelte sarà influenzato dal modo in cui
è composta la massa di coloro che sono chiamati a prendere le
decisioni, il che varia storicamente, così come variano
storicamente, del resto, le stesse possibilità tecniche che a
questi si offrono di allargare le proprie possibilità di
scelta, in dipendenza sia dall'evoluzione economica generale, sia
dallo sviluppo di funzioni amministrative pubbliche che agiscono
indirettamente sul livello dei costi di transazione in genere.
La teoria distingue per lo più i fattori economici della
localizzazione in due gruppi, a seconda che prevalga il criterio
della vicinanza alle risorse impiegate (localizzazione resources
oriented) o quello della vicinanza ai mercati di smercio
(localizzazione market oriented). Storicamente sembra aver avuto
più peso, negli effetti complessivi, l'attrazione dei mercati
di smercio rispetto a quella delle risorse da impiegare: ciò
in conseguenza di un processo cumulativo e agglomerativo in cui i
moventi resources oriented sono in larga misura apparsi sopraffatti
in molti modi da quelli market oriented, un processo che
però, a ben vedere, tende alla fine a confondere assai spesso
i due moventi. La diversificazione produttiva dei sistemi
industriali, infatti, è venuta moltiplicando enormemente il
numero delle industrie che hanno per clienti altre industrie,
formando un amplissimo mercato interindustriale intermedio rispetto
a quello del consumo finale. L'iniziativa industriale nasce
così sempre più largamente dalla percezione diretta,
in loco, della possibilità di sviluppare una nuova produzione
indipendente, sulla base di precise possibilità di
approvvigionamento industriale, oltre che di mercato.
Imprese di grandi dimensioni finiscono col crearsi una rete di
piccoli e medi subfornitori adiacenti mentre, in circolo, la miriade
di piccole industrie fa da mercato per le maggiori imprese
produttrici di beni strumentali. D'altra parte il progresso tecnico
amplia la possibilità di sostituzione di risorse
originariamente vincolanti al territorio, per cui l'agglomerazione
stessa diventa una parte sempre più grande delle complessive
fonti di offerta da cui si attingono gli inputs da impiegare nella
produzione. Dall'agglomerazione nasce altresì la formazione
di funzioni specializzate intermediarie di fornitura alle industrie,
specie minori, che riduce la necessità della ricerca diretta.
Ma soprattutto la complessità delle industrie appartenenti
alla più recente stratificazione tecnologica riduce la
dipendenza da un solo fattore tecnico della produzione (per esempio
una materia prima), estendendola a una gamma di altri fattori
(materie ausiliarie, macchinari, pezzi di ricambio, ecc.).
A tutto ciò si deve aggiungere che l'agglomerazione crea mano
d'opera addestrata e la capacità di formarla, e ne diviene in
pratica il più grande serbatoio. Essa, insomma, moltiplica i
capitali, le capacità imprenditoriali, le suggestioni
tecniche, le opportunità d'investimento e la domanda di
lavoro, nonché l'offerta stessa di lavoro in quanto concentra
da molteplici provenienze mano d'opera migratoria. In un certo senso
la nozione stessa di agglomerazione finisce con l'annullare la
distinzione fra situazione geografica caratterizzata da una
prevalente offerta di risorse originarie e situazione geografica
caratterizzata da un prevalente sbocco di mercato. Si crea quindi
una convenienza apparentemente paradossale, nell'avviare una nuova
impresa, a localizzarla nella stessa area dove si addensano
più concorrenti; e la possibilità di avvalersi, in
aree così specializzate, di agevoli forniture esterne
permette, in molti casi, di mantenere entro dimensioni ridotte le
imprese (fenomeno dei 'distretti industriali'). In tal modo, dunque,
ciò che per gli uni è 'mercato', per l'altro è
risorse, le motivazioni si intrecciano e la localizzazione
dell'industria finisce per essere orientata dall'industria stessa.
La tendenza agglomerativa di cui si è detto è operante
sia nell'ambito infranazionale, ove dà luogo a
disparità regionali, sia nel quadro della divisione
internazionale delle attività economiche. Contro questa
logica può agire, però, un movente politico: lo Stato
o un'altra autorità territoriale possono avere interesse a
modificare in un'area data le condizioni economiche generali; o
può esservi una ragione militare o di prestigio, oppure un
motivo urbanistico o ecologico; ovvero ancora pressioni sociali,
oppure calcoli politici circoscritti. In tali casi le
autorità politiche possono promuovere iniziative industriali
sia direttamente, con considerazione limitata o nulla delle
convenienze economiche immediate, sia indirettamente, limitandosi in
tal caso a modificare con sussidi, integrazioni, incentivi, i
termini del calcolo economico delle imprese. Così si ha un
trasferimento di maggiori costi dalle imprese alla
collettività, in previsione di maggiori benefici futuri per
la collettività stessa o, in casi patologici, per il gruppo
politico che ha il potere di decisione.
Analogamente può avvenire a livello internazionale.
Soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, uno
sforzo d'industrializzazione comincia a essere compiuto da un numero
ognora crescente di paesi ex coloniali o comunque subordinati
economicamente in passato alle grandi potenze industriali. Criteri
di localizzazione 'politici', pur fra enormi difficoltà ed
errori, cominciano ad agire quindi su scala mondiale, modificando -
ma non sopprimendo - la logica economica dell'agglomerazione.
Ciò avviene in concomitanza con l'emergere, nei paesi di
antica industrializzazione, di fenomeni di maturità, di
congestione, di sovrasviluppo, i quali si manifestano soprattutto
con il rovesciamento della tendenza tradizionale alla diminuzione
dei costi manifatturieri e con l'inflazione cronica. Comincia quindi
a porsi concretamente il problema di una nuova divisione
internazionale delle attività economiche, determinata
congiuntamente dalla pressione dei paesi emergenti, nei quali
compaiono situazioni e opportunità nuove per effetto di
sforzi politici, e da taluni elementi di crisi nei paesi di vecchia
industrializzazione.
Al tempo stesso, la crescita di imprese multinazionali permette a
questi giganti economici di prendere decisioni di localizzazione in
orizzonti territorialmente vastissimi, dove il confronto dei costi
può offrire enormi disparità, ricostituendo a volte il
vantaggio per la considerazione prioritaria della vicinanza delle
risorse. Le imprese multinazionali, per l'eccezionalità dei
mezzi a loro disposizione e la spregiudicatezza e il dinamismo della
loro conduzione, possono inoltre più facilmente modificare
queste decisioni al variare delle condizioni di costo originarie:
ciò crea una tensione molto forte e permanente con le
autorità politiche di paesi in via di sviluppo. Naturalmente
questa maggiore agilità delle imprese multinazionali quanto
alle scelte di localizzazione non si sottrae al condizionamento
costituito da condizioni di stabilità e affidabilità
politica in senso convergente agli interessi delle imprese in
questione.In questo nuovo e diverso contesto - caratterizzato dal
'volontarismo' sia dei paesi che cercano di aprirsi una strada, sia
dei paesi che vogliono correggere un itinerario fattosi accidentato,
nonché dalla presenza di un operatore di nuovo tipo come
l'impresa multinazionale - prende rilevanza, come fattore di
localizzazione, la tipologia delle attività industriali (cosa
diversa, non c'è bisogno di sottolinearlo, dalla tipologia
dei processi d'industrializzazione di cui si è parlato
sopra). Ciò avviene in quanto le differenti caratteristiche
delle varie industrie si pongono come elementi di scelta,
nell'ambito di processi che si cerca di guidare o di correggere
politicamente, per il conseguimento di specifici risultati: una
maggiore autonomia economica, la massimizzazione dell'occupazione,
il riequilibrio della bilancia dei pagamenti, l'agibilità del
territorio o dell'ambiente.
La classificazione delle attività industriali non esiste come
disciplina a sé stante, o come ramo di qualche disciplina. A
prescindere dalla descrittiva a base merceologica usata per
finalità strettamente statistiche, essa si è venuta
praticando, infatti, in ambiti scientifici o operativi diversi in
relazione a esigenze funzionali alla teoria o alla decisione. In
questo senso si tratta di distinzioni assai disparate quanto a
criteri di formulazione, nell'ambito delle quali è
però possibile individuare due famiglie classificatorie, che
corrispondono in prevalenza, anche se non in esclusiva, alle
esigenze di scelta, rispettivamente, dei paesi in via
d'industrializzazione (non solo di quelli odierni ma già di
quelli che ieri si trovavano in tale stadio) e dei paesi di vecchia
industrializzazione. Nel primo gruppo possono farsi rientrare
distinzioni più tradizionali come quelle di industrie
'pesanti' e 'leggere', di base e non di base, traenti e non traenti,
ad alta o bassa intensità di capitale o di lavoro, per la
produzione di beni strumentali o di beni di consumo. Corrispondono
invece a esigenze di ragionamento e di scelta più proprie di
paesi di ormai avanzata industrializzazione altre distinzioni come
quelle fra industrie ad alto o basso contenuto di ricerca, ad alto o
basso consumo di energia, 'sporche' o 'pulite', 'mature' o
'avanzate' (o più semplicemente 'vecchie' e 'nuove'). Le
distinzioni del primo gruppo sono generalmente funzionali ai
problemi della crescita, intesa quantitativamente nelle sue
dimensioni globali o in rapporto a grandi obiettivi aggregati, come
l'occupazione, l'autonomia economico-politica, ecc. Fra queste, la
prima - industrie pesanti e leggere - è la più antica
e riflette il passaggio dalla prima alla seconda fase della prima
rivoluzione industriale, quando accanto al settore tessile - tipica
espressione d'industria 'leggera', tale cioè da non
richiedere impianti massicci - cominciarono a sorgere le grandi
officine siderurgiche o della meccanica, detta appunto 'pesante',
vale a dire con elevato impiego di prodotti siderurgici (cantieri
navali, produzione di caldaie a vapore per ferrovie e industrie,
ecc.). Si tratta di una distinzione sommaria e allusiva, che si
rifà alla misura dell'impegno necessario alla realizzazione,
in termini di capitali, di capacità tecniche e di
possibilità di mercato. Nella seconda metà
dell'Ottocento e nei primi anni del XX secolo nuclei d'industria
leggera cominciavano a diffondersi con minore difficoltà nei
più diversi paesi, ma solo la presenza di un'industria
'pesante' diventava sinonimo di una diversità qualitativa,
della formazione di una 'base' industriale, cioè di una
struttura portante per l'ulteriore sviluppo, per le esigenze
politico-militari, ecc. E a questa distinzione è infatti
vicina l'altra, spesso usata, fra industrie di base e non di base,
intendendosi per industrie di base quelle che producono beni
più o meno indispensabili a tutte le altre industrie o a gran
parte di esse: tali ad esempio le fonti di energia, la siderurgia,
o, nella chimica tradizionale, l'acido solforico (e, nella moderna
petrolchimica, l'etilene). Talché si è potuto tentare
di distinguere - per esempio a proposito di fasi
d'industrializzazione come quella dell'Italia fra la fine del XIX
secolo e la prima guerra mondiale - la 'formazione di una base
industriale', implicante soltanto la nascita di siffatta struttura
portante diversificata, da una piena industrializzazione, implicante
invece un peso dominante del settore industriale sull'insieme
dell'economia (in termini di quota del prodotto lordo o
dell'occupazione complessiva), che nella fase antecedente non si
dava ancora.
La nozione d'industria 'traente', elaborata più di recente,
tende anch'essa a definire il ruolo di un settore industriale in
rapporto alle possibilità di crescita di altri settori. Ma si
tratta, appunto, di una pura definizione di ruolo: un'industria
può essere traente in una situazione e non esserlo in
un'altra. È traente, ad esempio, un'industria la quale,
sviluppandosi l'esportazione, raggiunga dimensioni tali da creare
una domanda interna per altri settori, al punto da permettere il
sorgere, all'interno, di questi settori con autonome
possibilità di sviluppo (per esempio l'industria tessile
inglese, nel corso della rivoluzione industriale, con la domanda di
macchinari tessili, impianti per la forza motrice, ecc.).
Naturalmente ha maggiori possibilità di svolgere una funzione
traente - qualora possa raggiungere certe dimensioni - quel settore
che, per le caratteristiche della sua produzione, ha un elevato
bisogno di prodotti industriali disparati e vantaggiosamente
producibili entro la stessa area. La coppia 'industrie produttrici
di beni strumentali/industrie produttrici di beni di consumo' ha
invece un significato economico analiticamente più preciso,
anche se semplice. È la base degli schemi di riproduzione
usati da Marx per spiegare la dinamica espansiva del sistema
capitalistico e le condizioni di equilibrio di questa (in tal senso
è riferita però all'insieme dell'attività
produttiva). Nell'età delle industrializzazioni decise in
sede politica questa distinzione ha ricevuto un rilievo essenziale
come base di scelta, sostenendosi la necessità, per
un'industrializzazione in grado di autoalimentarsi e di procedere
celermente, di una forte preminenza del settore 'beni strumentali'.
Così è avvenuto soprattutto nell'Unione Sovietica, a
conclusione di un appassionato dibattito fra economisti e politici
negli anni venti e, dopo di allora, negli altri paesi governati dai
partiti comunisti. Ma altri casi d'industrializzazione - come quello
giapponese - non sembrano confermare la validità di questa
tesi, sostenuta per lungo tempo come un dogma nei paesi comunisti.La
rilevanza dell'intensità di capitale e dell'intensità
di lavoro nei processi produttivi, come criterio distintivo fra le
industrie, si pone allo spartiacque della suddivisione che si
è qui tentata fra il gruppo di distinzioni tipologiche
più funzionali al versante dei paesi in via
d'industrializzazione e il gruppo più funzionale al versante
dei paesi già industrializzati. Si tratta, in questo caso,
del peso proporzionale di un fattore (capitale, lavoro) rispetto
agli altri impiegati. Ed è importante notare che tale
distinzione si riferisce a processi produttivi più che a
'settori', vale a dire che per produrre un medesimo bene possono
essere seguiti processi produttivi implicanti una diversa
proporzione di fattori: con più o meno capitale o,
inversamente, con più o meno apporto di lavoro. Ma,
naturalmente, vi sono settori in cui il processo produttivo ha
caratteristiche dominanti di un tipo e settori in cui prevale il
tipo opposto. La produzione di energia, ad esempio, può
essere realizzata con intensità di capitale assai diversa, ma
resta nell'insieme un settore ad alta intensità di capitale.
Per contro, l'industria tessile può fare un posto più
o meno grande a impianti automatici, ma resta, nell'insieme, un
settore a elevata intensità di lavoro. La preferenza per
industrie e processi produttivi a più alta intensità
di lavoro dovrebbe affermarsi nei paesi in via d'industrializzazione
- fatte salve alcune inderogabili necessità di segno opposto
- qualora questi, come generalmente accade, scarseggino di capitali,
controllino i costi di mano d'opera e si pongano il problema di
massimizzare l'occupazione. E, nonostante contrastanti propensioni a
non rinunciare a industrie di beni strumentali e ambizioni al
possesso di tecnologie aggiornate, la forza delle cose tende a
spingere quei paesi nella direzione dei processi ad alta
intensità di lavoro. Per contro, nei paesi industrializzati
da tempo, nei quali il costo del lavoro è elevato ed è
in continuo aumento, si manifesta una tendenza contraria, favorita
dalla più elevata disponibilità di capitali propria di
tali paesi. Su tali basi potrebbe orientarsi in futuro una
diffusione - finora mancata - dell'industrializzazione nel mondo,
seguendo lo schema di una divisione internazionale del lavoro che
veda sempre più trasferirsi nei paesi di nuova
industrializzazione le produzioni a più alta intensità
di lavoro, mentre lo sforzo industriale dei paesi più
avanzati potrebbe concentrarsi nei settori e nei processi a
più alta intensità di capitale, aventi però
anche altre caratteristiche rispondenti a nuove necessità di
questi paesi e a particolari attitudini in essi maturate. Valgono, a
comprendere la natura di questo problema, le distinzioni tipologiche
del secondo gruppo: il più o meno elevato contenuto di
ricerca proprio di un'industria, la sua forza inquinante (industrie
'sporche', come gran parte delle produzioni chimiche, o 'pulite',
come l'elettronica), il suo grado di 'novità', che implica la
possibilità di contare su un mercato di consumatori a reddito
elevato e crescente o su un mercato industriale largamente
diversificato.
L'individuazione di questa tendenza nella divisione internazionale
del lavoro, nell'età della decolonizzazione in cui si
è messo in movimento un più vasto spazio economico
mondiale, ha dato luogo all'enunciazione della cosiddetta 'teoria
del ciclo del prodotto'. Questa teoria parte dall'ipotesi che i
prodotti industriali passino in genere da una fase iniziale,
tecnologicamente complessa e innovativa, a una fase di
maturità e di più facile acquisizione anche da parte
di produttori non particolarmente dotati dal punto di vista
tecnologico, fino a divenire banali e praticamente alla portata di
tutte le economie, anche arretrate. Si avrebbero così, se ci
si colloca nell'ottica delle economie industrializzate, prodotti in
sviluppo, prodotti maturi e prodotti in declino, e si verificherebbe
un progressivo passaggio di tali produzioni dai paesi industriali di
avanguardia (come gli Stati Uniti) agli altri paesi industrializzati
e poi ai paesi in via di sviluppo. Quest'ipotesi corrisponde
indubbiamente a taluni aspetti della divisione internazionale del
lavoro che tendono a manifestarsi, in questa fase storica, sulla
base di questa duplice premessa: un'accelerazione del progresso
delle tecnologie e una diffusione della ricettività
all'industria nel mondo. Ma anch'essa è unilaterale,
perché il fenomeno dei paesi estremoorientali di nuova
industrializzazione (NIC) mostra, ad esempio, come alla
localizzazione di produzioni ormai mature (tessili e simili) possa
accompagnarsi quella di produzioni nuovissime, come quelle della
elettronica. Inoltre tutto ciò prescinde dai fattori
politici, e non può essere considerato, in ultima analisi,
che come un insieme di altri elementi per una visione comprensiva
del fenomeno dell'industrializzazione nel mondo, di cui ancora
manchiamo.
7. Conclusioni. Il futuro dell'industrialismo
Lo stadio al quale è giunto oggi lo sviluppo
industriale per le sue caratteristiche interne e per i modi della
sua diffusione nel mondo pone una serie d'interrogativi. Questi
investono ora direttamente il futuro dell'umanità la quale
è stata in passato radicalmente influenzata da quello
sviluppo, che ha provocato rilevanti mutazioni biologiche e
antropologiche. L'industrialismo ha infatti consentito alle
popolazioni presso le quali si è affermato nuove
possibilità di vita, generalizzando forme di benessere, di
cultura, di comunicazione sociale modellate su quelle che erano un
tempo prerogative di una cerchia sociale elevata e assai ristretta.
Tale generalizzazione, però, è nei suoi risultati cosa
diversa dal modello dal quale trae origine, come una proiezione
inevitabilmente deformata. Ed è avvenuta e avviene attraverso
continui sradicamenti sociali, creando ineguaglianze contigue,
cioè a stretto contatto e quindi in facile frizione,
determinando gravi disadattamenti. Ciò non sembra favorire,
all'interno delle società industriali, il conseguimento di
equilibri tali da consentire il pacifico godimento dei vantaggi
realizzati, ma piuttosto il crescere dei disagi, tensioni,
difficoltà di convivenza. Anche sotto il profilo più
strettamente economico, all'offerta crescente di beni a prezzi
decrescenti o stabili - che caratterizzava il peculiare dinamismo
produttivistico dell'attività industriale - si va sostituendo
un'industria focolaio di inflazione da costi, e quindi di
instabilità. All'offerta crescente di beni sempre nuovi per
una vita più agevole si va sostituendo una crescente
difficoltà di gestione di un paniere statico di beni non
più nuovi. Al tempo stesso il rapporto fra l'area dei paesi
prevalentemente industriali e il resto del mondo, nel momento stesso
in cui hanno cominciato ad affermarsi le condizioni politiche per
una diffusione dell'industrialismo, si è venuto facendo
più aspro e conflittuale. Dal colonialismo - forma in cui la
gran parte del mondo venne coinvolta unilateralmente e
subalternamente nella trasformazione economica provocata
dall'industrialismo - si è passati a un sistema di relazioni
fra indipendenti ineguali, carico di tensioni. Il coinvolgimento
colonialistico del resto del mondo nell'orbita dell'area
industrializzata ha sospinto infatti società arcaiche verso
la ricerca di nuove strutture simili a quelle dei paesi
colonizzatori, senza fornire però a esse le basi che
potessero renderle possibili, tranne che per ristrette enclaves,
cioè per le 'teste di ponte' urbanizzate e modernizzate dal
commercio con la metropoli.
D'altra parte lo sviluppo industriale si è rivelato - alla
scala cui è pervenuto - un terribile divoratore di risorse
naturali. La sua prosecuzione ai ritmi degli ultimi decenni e,
più ancora, la possibilità di una sua effettiva
diffusione equilibrata a livello mondiale sono addirittura parse a
un certo punto incompatibili - ferme restando le sue connotazioni
tecnologiche - con la disponibilità accertata di risorse.
Pertanto si fa imperiosa l'esigenza di accelerare la ricerca di
nuove tecniche risparmiatrici di risorse scarse e quella di
materiali sostitutivi, di nuove fonti di una risorsa insostituibile:
l'energia. Di più: industria e forme di vita connesse paiono
dissanguare la natura stessa dei suoi apporti più elementari
e più preziosi come la terra che nutre i vegetali, il mare,
l'aria e l'acqua. Diventa drammatico il problema ambientale. Dunque,
o l'industria saprà farsi in tempi utili 'pulita', oppure
l'umanità correrà il rischio di una catastrofe. Mentre
per il problema della scarsità il meccanismo del mercato,
mediante i prezzi, può nella sostanza costringere alle
correzioni necessarie gli operatori dell'economia, non è lo
stesso per il danno ambientale. Qui occorrono governi sensibili ed
efficienti, coordinamenti internazionali appropriati. E a questo
punto ci si scontra, ancora una volta, con una disparità di
interessi immediati: i paesi che, ancora fuori dell'uscio,
affannosamente tentano di entrare nella corsa
dell'industrializzazione considerano il costo della protezione
ambientale un ulteriore e proibitivo handicap per la loro
possibilità di entrare nel desiderato circolo.I problemi
futuri delle società industriali sembrano quindi dispiegarsi
su un fronte assai ampio e interconnesso: a) come problemi interni a
ogni società industriale; b) come problemi relativi ai
rapporti fra i paesi appartenenti all'area industriale; c) come
problemi relativi ai rapporti fra l'area industriale nel suo
complesso e il resto del mondo. Si ha l'impressione che i problemi
drammatici da risolvere tendano a crescere con un ritmo superiore a
quello con cui nel presente crescono i mezzi per affrontarli.Tali
problemi si presentano immediatamente come politici. Le loro
dimensioni sono però di tale ampiezza che essi non paiono
riconducibili a questioni di pura 'volontà' politica, ove
questa non sia sorretta dai mezzi tecnici per esercitarsi
positivamente. Mai come oggi appare chiaro come l'industria - nata,
secondo le più accreditate opinioni storiografiche (Musson),
essenzialmente nell'alveo empirico di tecnici e artigiani - dipenda
ormai per la sua sorte (venuta a coincidere con la sorte stessa
dell'umanità) dalla scienza e dalla ricerca. Se e in quale
arco di tempo sia possibile superare questa crisi, oggi non si
è in grado di dirlo. È solo possibile dire che il
nostro futuro si trova ora più che mai nelle mani della
scienza applicata, quella che ci ha permesso di giungere a questo
punto e le cui capacità ulteriori sono condizione necessaria,
ancorché non sufficiente, per trarcene fuori, e in avanti.