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Globalizzazione
Termine adoperato, a partire dagli anni 1990, per indicare un
insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita
dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree
del mondo.
1. G. dei
mercati
Fenomeno di unificazione dei
mercati a livello mondiale, consentito dalla diffusione delle
innovazioni tecnologiche, specie nel campo della telematica, che
hanno spinto verso modelli di consumo e di produzione più
uniformi e convergenti. Da un lato, si assiste, infatti, a una
progressiva e irreversibile omogeneità nei bisogni e a
una conseguente scomparsa delle tradizionali differenze tra i
gusti dei consumatori a livello nazionale o regionale;
dall’altro, le imprese sono maggiormente in grado di sfruttare
rilevanti economie
di scala nella produzione, distribuzione e marketing dei
prodotti, specie dei beni di consumo standardizzati, e di
praticare politiche di bassi prezzi per penetrare in tutti i
mercati. L’impresa che opera in un mercato globale, pertanto,
vende lo stesso bene in tutto il mondo e adotta strategie uniformi, a differenza dell’impresa
multinazionale, il cui obiettivo è invece quello di
assecondare la varietà delle condizioni presenti nei
paesi in cui opera.
Il termine g. è spesso usato, come sinonimo di liberalizzazione, per
indicare la progressiva riduzione, da parte di molti paesi, degli
ostacoli alla libera circolazione delle merci e dei capitali.
Questo, tuttavia, è solo un aspetto dei fenomeni di g., che
comprendono, in particolare, una tendenza al predominio
sull’economia mondiale da parte di grandi imprese multinazionali,
operanti secondo prospettive sempre più autonome dai
singoli Stati, e una crescente influenza di tali imprese, oltre
che delle istituzioni finanziarie internazionali, sulle scelte di
politica economica dei governi, in un quadro caratterizzato
dall’aumento progressivo dell’integrazione economica tra i diversi
paesi, ma anche dalla persistenza (o addirittura
dall’aggravamento) degli squilibri fra questi. Tali fenomeni
scaturiscono dai processi di integrazione
internazionale sviluppatisi nel 19° sec., interrotti
nella prima metà del Novecento dalle guerre mondiali e
dalla Grande depressione, e ripresi nella seconda metà
(soprattutto dopo il 1960) con rinnovato vigore. Tra gli ultimi
decenni del 20° e gli inizi del 21° sec. il progresso
tecnologico, divenuto sempre più veloce, ha ridimensionato
le barriere naturali agli scambi e alle comunicazioni,
contribuendo alla forte crescita registrata dal commercio
internazionale e dagli investimenti diretti all’estero. In
particolare, la diffusione delle tecnologie informatiche ha
favorito i processi di delocalizzazione delle imprese e lo
sviluppo di reti di produzione e di scambio sempre meno
condizionate dalle distanze geografiche, alimentando la crescita
dei gruppi multinazionali e i fenomeni di concentrazione su scala
mondiale; ha favorito inoltre un’espansione enorme della
finanza internazionale, tanto che il valore delle transazioni
giornaliere sui mercati valutari è divenuto ormai superiore
allo stock delle riserve valutarie esistenti. Contemporaneamente,
la tendenza alla riduzione degli ostacoli, di ordine tariffario,
fiscale o normativo, alla libera circolazione delle merci e dei
capitali si è approfondita ed estesa, coinvolgendo anche
molti paesi, ex socialisti o in via di sviluppo, che in passato
avevano adottato politiche assai più restrittive.
2. Effetti della
globalizzazione
I fenomeni sopra ricordati hanno
suscitato un ampio dibattito. Secondo alcuni studiosi, la g.
può esercitare effetti positivi sull’economia mondiale
sotto il profilo sia dell’efficienza sia dello sviluppo: in
particolare, la liberalizzazione e la crescita degli scambi
commerciali e finanziari potrebbero stimolare un afflusso degli
investimenti verso le aree meno dotate di capitali e favorire
una tendenziale riduzione del divario economico fra i paesi
sviluppati e quelli in via di sviluppo. Altri sostengono,
invece, che, dati gli squilibri e le forti differenze
(economiche, tecnologiche, culturali, politiche) esistenti tra i
diversi paesi, nonché la presenza di condizioni di
mercato assai lontane da quelle di concorrenza perfetta
postulate dai modelli tradizionali, gli eventuali effetti
positivi dei processi di g. non si distribuiscono in modo
uniforme: in particolare, per i paesi in via di sviluppo tali
processi possono comportare conseguenze anche molto sfavorevoli,
mentre negli stessi paesi sviluppati si verifica un contrasto
tra i settori sociali che traggono vantaggio dai processi di g.
e quelli che invece ne sono danneggiati (per es., i lavoratori
impegnati in attività produttive che vengono trasferite
all’estero). Va inoltre tenuto presente che, in un quadro
caratterizzato da una crescente integrazione internazionale e
dalla stabilizzazione dei tassi di cambio tra le monete di
diversi paesi, l’adozione, a fronte di squilibri e tensioni
interne, di provvedimenti di carattere sociale o anticiclico
viene resa più difficile dalla riduzione dell’autonomia
dei singoli governi nella gestione della politica economica.
La g. riguarda non soltanto la produzione di merci ma anche
delle idee. Le figure professionali ad alta qualificazione, in
particolare ingegneri informatici, ma a basso salario presenti in
alcuni paesi in via di sviluppo, soprattutto in India, hanno
spinto molti colossi della produzione hi-tech a delocalizzare in
questi paesi i laboratori di ricerca e sviluppo. Paesi come gli
Stati Uniti, che tradizionalmente attraevano cervelli da ogni
parte del pianeta, oggi vedono messo in crisi tale meccanismo
dalla concorrenza di alcuni paesi in via di sviluppo.
3. I
flussi commerciali
L’indice più comunemente
usato per valutare il grado d’integrazione dell’economia
mondiale è il rapporto fra esportazioni e PIL nei diversi
paesi. Questo rapporto, che aveva raggiunto un minimo storico
dopo la Seconda
guerra mondiale, è nuovamente cresciuto, nella
maggior parte dei paesi, durante la seconda metà del
20° secolo. Per quanto riguarda la partecipazione al
commercio internazionale, i paesi sviluppati hanno mantenuto un
peso preponderante, anche se dal finire del secolo si è
manifestata una tendenza alla crescita del ruolo dei paesi in
via di sviluppo. A partire dagli anni 1980 si è assistito
all’espansione di aree di integrazione regionale, come l’UE o il
NAFTA, che, se da un lato accentuano i processi di liberalizzazione
degli scambi tra i paesi membri, dall’altro possono
favorire il mantenimento di barriere commerciali nei confronti
degli altri Stati. I processi di integrazione commerciale hanno
in ogni caso continuato a estendersi, sia per l’adesione,
comunque diffusa, alle politiche di liberalizzazione degli
scambi con l’estero, sia per la riduzione dei costi delle
telecomunicazioni e dei trasporti indotta dall’incremento
tecnologico, sia per gli investimenti da parte di imprese dei
paesi industrializzati nei paesi in via di sviluppo.
4.
I movimenti di capitali
La libertà di movimento dei
capitali raggiunta verso la fine del 20° secolo è
paragonabile a quella degli anni precedenti la Prima
guerra mondiale, quando si era realizzato un alto grado di
integrazione dei mercati finanziari (nel 1913 i rapporti tra i
flussi totali di capitali e il commercio o la produzione
mondiale erano superiori a quelli degli anni 1970). Dopo le
restrizioni del periodo fra le due guerre, la seconda
metà del secolo ha visto una graduale liberalizzazione,
mentre rilevanti modifiche si verificavano per quanto riguarda
l’origine e la composizione dei flussi di capitali. Tra la
Seconda guerra mondiale e gli anni 1960 ampi flussi di
investimenti esteri diretti, per lo più indirizzati verso
l’industria manifatturiera e il settore petrolifero, provenivano
dagli Stati Uniti, divenuti in quel periodo il maggiore
esportatore netto di capitali. Nel corso degli anni 1970 il Giappone assunse un ruolo di rilievo, fino a diventare nel decennio
successivo una delle principali fonti mondiali sia di capitali
speculativi a breve termine sia di investimenti diretti. A
partire dagli anni 1980 gli Stati Uniti sono stati
caratterizzati da forti deficit della bilancia commerciale e da
cospicue importazioni nette di capitali (con l’accumulo quindi
di un ingente debito estero). A partire dagli anni 1980,
inoltre, grazie anche allo sviluppo delle tecnologie
informatiche e delle telecomunicazioni e alle politiche di
liberalizzazione dei mercati finanziari, si è verificato
un enorme aumento dei flussi speculativi a breve termine, che ha
coinvolto gli stessi paesi in via di sviluppo, influendo
pesantemente sull’andamento delle loro economie.
La crescita del debito e del rapporto debito/PIL nei paesi in
via di sviluppo, spesso alimentata da processi cumulativi perversi
(nuovo indebitamento per fare fronte ai debiti pregressi), ha
inciso pesantemente sulla loro situazione economica, sociale e
politica; in particolare, essi sono stati costretti a comprimere
quanto più possibile la domanda interna (con gravi
conseguenze sulle condizioni di vita della popolazione) nel
tentativo di realizzare, malgrado l’andamento poco favorevole
delle ragioni di scambio, onerosi attivi della bilancia
commerciale e finanziare così il servizio del debito
estero. All’inizio del nuovo millennio il problema del debito
estero dei paesi in via di sviluppo rappresenta uno dei principali
squilibri del processo di g. in corso.
Per quanto riguarda, infine, la Comunità Europea, a
partire dal 1992 sono stati rimossi tutti i vincoli ai movimenti
di capitali e si è verificata una progressiva perdita di
autonomia dei governi nazionali nei campi della politica monetaria
e dell’allocazione dei capitali all’interno dei paesi membri.
5.
Il mercato del lavoro
Aumenti della disuguaglianza tra
paesi e all’interno dei paesi indotti dal progresso di
integrazione vengono spiegati anche attraverso i mutamenti del
mercato del lavoro, che hanno comportato un allargamento dei
differenziali retributivi nei paesi industrializzati (wage gap). Il progresso
tecnico avrebbe infatti ridotto marcatamente la domanda di
lavoro a bassa qualifica (unskilled)
a favore di quello a più alto contenuto di conoscenza (skilled). Data l’inerzia
dell’offerta ad adeguarsi a questa maggiore domanda, questo ha
di fatto creato un eccesso di domanda di lavoro a più
alto contenuto di conoscenza che si è concretizzato in un
incremento salariale di questi lavoratori. Il wage gap indotto dal
progresso tecnico skill biased è visto come uno dei principali responsabili degli
incrementi di disuguaglianza tra paesi ricchi e poveri ma anche
all’interno dei paesi maggiormente industrializzati. Tuttavia
questo meccanismo ha avuto impatti diversi nei paesi con
differenti istituzioni a protezione dei lavoratori. Non è
un caso che gli USA registrino un forte incremento di
disuguaglianza indotto dal wage
gap, date le scarse protezioni sociali e
sindacali dei lavoratori a bassa qualifica. Nei paesi europei
maggiormente sindacalizzati, questi effetti sono stati in parte
mitigati dalla rigidità salariale.
Enciclopedia del Novecento II
Supplemento (1998)
di Henri Bartoli
Globalizzazione
sommario: 1. Introduzione. 2. La
globalizzazione: un processo a più dimensioni. 3. Gli attori
della globalizzazione: a) le imprese e i gruppi multinazionali,
attori primari della globalizzazione; b) gli Stati.
4. La globalizzazione crea ordine o disordine?: a) rischi di
collasso del sistema finanziario e ostacoli alla politica
economica degli Stati; b) costi sociali e pericoli di
regresso sociale; c) i problemi posti da una
civiltà e una cultura mondiali. 5. Globalizzazione,
governo e governabilità: a) governo e
governabilità a livello globale; b) governo e
governabilità a livello locale. □ Bibliografia.
1. Introduzione
‛Globale' è ciò che è connesso, compatto,
ciò che va ‛preso in blocco'. In topologia una
proprietà di uno spazio S è ‛locale' se, per
ogni punto x di tale spazio, esiste un intorno di x in cui essa è ‛vera'; è invece ‛globale' se è
vera nell'intero spazio S. ‛Locale' e ‛globale' possono
essere equivalenti: ogni punto di un ologramma (nel senso di D.
Gabor) è memorizzato dall'intera immagine fisica, e a sua
volta contiene la totalità delle informazioni che essa
rappresenta; quindi, pur essendo locale, informa in modo globale
sull'oggetto registrato. Si ‛totalizza' ciò che è
costituito da elementi omogenei aggregati mediante un calcolo; si
‛globalizza' ciò che tende a divenire un insieme retto da
regole operazionali, così che il ‛tutto' organizzato sia
più ricco della semplice somma o giustapposizione delle
parti. Dal ‛globale' si passa quindi agevolmente al ‛sistemico',
ossia a una concatenazione complessa e finalizzata di azioni
interdipendenti, vista nella sua unità, nella sua coerenza o
nella sua progettualità.
Dire che oggi il mondo si va globalizzando significa constatare che
a un mondo strutturato come un campo di forze, in cui Stati sovrani
mossi da una logica geopolitica si affrontano e si adattano gli uni
agli altri, tende a sostituirsi un mondo organizzato come una rete
gerarchizzata, definito da centri e da periferie i cui spazi hanno
perso la rigidità delle divisioni statali. Questo mondo,
definito da K. Ohmae (v., 1990) ‟senza confini", non è ancora
globale ma lo sta diventando, mosso com'è da molteplici
processi evolutivi che contemporaneamente diffondono eventi,
provocano mutamenti nelle parti, le strutturano e le coordinano:
nella complessa dialettica di tutti questi processi è
possibile scorgere il tutto nell'atto di organizzare le parti.
Alcuni, bruciando le tappe, parlano già dell'emergere di una
comunità internazionale, comprendente le relazioni tra gli
Stati, l'economia, gli scambi tra le società civili e anche
le istituzioni internazionali. Altri, per i quali l'economia
mondiale è al tempo stesso locale, regionale, nazionale e
internazionale o multinazionale, la vedono evolversi in un sistema
in cui si delineano vari sottoinsiemi strutturati, diversi per
dimensioni e per potenza, legati da relazioni asimmetriche e
soggetti a retroazioni non in grado di produrre in modo sicuro e
rapido equilibri sia pure approssimativi. Altri ancora, dimenticando
ogni cautela, vanno elaborando una concezione tecnoglobalistica,
secondo cui tutte le attività umane sono soggette, come
quelle biologiche, alla legge dell'autoorganizzazione, o annunciano
l'ingresso dell'umanità nell'era del ‟villaggio planetario"
(McLuhan), oppure, mescolando neopaganesimo (il ‟reincantamento del
mondo") e un teilhardismo male inteso (l'‟incarnazione" a livello
della Terra), sacrificano al mito di Gaia, il pianeta ‛vivente' che
bisogna salvare proteggendo l'ambiente (J. Lovelock) e di cui
occorre preservare il senso vegliando sulla sua autoorganizzazione
evolutiva (L. Margulis).
Più realisticamente, bisogna riconoscere che si vanno
moltiplicando i segni della nascita di una formazione mondiale che
tende a gestire le chiusure e le aperture delle entità
nazionali in un sistema di interazioni generalizzate. Elementi
costitutivi di tale formazione sono sempre le economie nazionali e
regionali, che però ormai interagiscono secondo rapporti
diversi dai tradizionali rapporti di scambio fra territori
nazionali. La struttura reticolare di questa formazione riflette la
partecipazione di paesi di vari continenti alla produzione, agli
investimenti e al commercio, attraverso imprese intermediarie,
spesso multinazionali o transnazionali; il compenetrarsi dei mercati
è tanto più rapido quanto più i flussi di beni
e di servizi che li collegano vanno perdendo di materialità.
Le aree d'influenza e di egemonia delle grandi potenze continuano a
oltrepassare le frontiere nazionali, ma ciò avviene anche per
i grandi gruppi economici e finanziari, le cui politiche e le cui
strategie non sempre coincidono con quelle degli Stati.
Marx affermò che la tendenza a creare un mercato mondiale
è ‟inerente al concetto stesso di capitalismo": questo
infatti tende a ‟superare le barriere e i pregiudizi nazionali", a
‟distruggere" i confini di un ‟soddisfacimento limitato" e a
‟infrangere" tutto ciò che vincola le forze produttive. Il
suo ‟grande influsso civilizzatore" è tale da ‟innalzare la
società a un livello rispetto al quale tutti gli stadi
precedenti appaiono come evoluzioni locali dell'umanità e
come idolatrie della natura". Fra tutti i sistemi economici e
sociali, il capitalismo è l'unico dotato di una logica della
riproduzione e della crescita che lo spinge a svilupparsi su scala
mondiale. Come osservò giustamente Raymond Aron (v., 1984)
all'epoca della guerra fredda, solo il capitalismo può
definirsi ‛mondiale', mosso com'è da una logica implacabile
che lo porta a invadere e a trasformare tutte le sfere dell'economia
e della società, tutte le regioni del globo, e a
‛mercificare' ogni cosa.
In precedenza l'internazionalizzazione dell'economia e della
società comportava la partecipazione di operatori economici
nazionali che conservavano intatta la propria autonomia; nella
multinazionalizzazione, alcuni operatori economici di un paese
esercitavano un influsso o addirittura un controllo su attori
economici e sociali di un altro paese, contribuendo a orientarne il
futuro. La mondializzazione oggi in atto - detta anche, secondo
l'uso anglosassone, ‛globalizzazione' - ha un carattere diverso:
essa si basa su una complessa rete di interconnessioni che uniscono
gli Stati e le società, in modo tale che gli eventi, le
decisioni e le attività che hanno luogo in un punto del globo
sortiscono effetti su individui e collettività anche
lontanissimi. Si tratta di un fenomeno di estensione e
d'intensità ancora molto disuguali, con conseguenze
largamente differenziate e imprevedibili: la mondializzazione
globalizza l'economia-mondo trasformandola in un vero e proprio
‛sistema' in cui il gioco della competizione oligopolistica
oltrepassa le frontiere e perturba le aree di coesione e
d'integrazione nazionali, giacché ‟dietro il teatrino dei
meccanismi del mercato, a governare quest'ultimo sono in
realtà le imprese" (C. A. Michalet).
Negli anni cinquanta Gunnar Myrdal (v., 1956) era preoccupato per
gli enormi problemi che si ponevano alla comunità mondiale e
per le scarse possibilità d'azione di cui ‟le nostre deboli
organizzazioni internazionali" disponevano per risolverli. Da allora
senza dubbio sono stati compiuti dei progressi sulla strada dello
sviluppo umano; tuttavia gli ‛enormi' problemi ‛globalizzati'
attuali - la disoccupazione, la povertà, l'ambiente, l'AIDS,
il culto del dio denaro, la guerra economica - richiedono più
che mai di essere trattati su scala planetaria.
Nel 1976 il Club di Roma richiamava a una ‛pianificazione'
internazionale nel quadro delle Nazioni Unite ristrutturate; da
allora si sono moltiplicati gli studi e i rapporti
sull'ingovernabilità del mondo attuale e sull'urgenza di una
politica di ‛sicurezza umana' a livello mondiale. La capacità
da parte del governo di un paese di condurre una politica autonoma
è divenuta uno dei temi centrali di riflessione della Banca
Mondiale, e l'Istituto di Studi Strategici di Londra s'interroga
sulla crisi di tale capacità. La globalizzazione impone di
prendere in considerazione il ‛governo' e la governabilità a
livello mondiale e contemporaneamente a livello locale (v. cap. 5),
essendo i due livelli indissociabili tra loro. Si pone così
il problema della riforma delle organizzazioni internazionali, del
coordinamento delle loro attività e della loro armonizzazione
con le politiche nazionali. Occorre elaborare un diritto
internazionale ispirato al principio d'ingerenza, anziché al
rigido rispetto delle sovranità statali, che però non
possa servire come pretesto per manovre imperialistiche o come
strumento di interessi particolari. Ciò presuppone una presa
di coscienza generale dei valori propri della comunità umana,
come pure un livello di solidarietà e una disciplina
collettiva che sono ancora lontani dall'essere raggiunti.
2. La globalizzazione: un processo a più
dimensioni
Ciò che è internazionale, e a maggior ragione
ciò che è mondiale, è sempre a più
dimensioni. I fattori d'integrazione di cui è intessuto il
sistema mondiale sono molteplici: crescente ‛estroversione' delle
economie nazionali, enorme aumento dei flussi di scambio di beni e
servizi, investimenti diretti all'estero, diffusione delle nuove
tecnologie, migrazioni e ‛delocalizzazioni', nascita di città
globali, nuova configurazione dei mercati finanziari all'insegna
dell'arbitraggio generalizzato, diffusione a livello mondiale di una
‛cultura dei consumi'.
Basta costruire un grafo dei flussi netti dei pagamenti tra i
principali attori del commercio mondiale per constatare che si
tratta di una struttura con ruoli differenziati ma complementari:
l'insieme dei flussi netti presenta l'aspetto di un sistema ad
anelli, anziché di una somma di economie nazionali. Tra il
1950 e il 1995, a fronte di una crescita della produzione mondiale
di 5,5 volte, il commercio mondiale è aumentato di 14 volte.
In nessuna parte del globo è diminuito il rapporto tra le
esportazioni e il Prodotto Interno Lordo (PIL). Tra i mercati di
approvvigionamento e quelli di sbocco si crea una certa
dissociazione, mentre ciascuna economia nazionale diventa sempre
più dipendente dall'estero; aumentano sia la quota degli
scambi incrociati (commercio intra-settoriale), sia quella degli
scambi di beni intermedi (commercio intra-aziendale), a causa della
segmentazione internazionale dei processi produttivi. Le
esportazioni sembrano essere il vero motore della crescita
economica.
Ancor più che dagli scambi, la globalizzazione riceve impulso
dagli investimenti diretti all'estero, grazie ai flussi di
attrezzature, di prodotti e di profitti che essi generano, ai
notevoli adattamenti che richiedono e ai mutamenti duraturi che
introducono quasi ovunque. I flussi medi annui di questi
investimenti sono passati da 21 miliardi di dollari nel 1970 a 126
miliardi nel 1992; i flussi annui cumulati sono passati da 220
miliardi di dollari nel quinquennio 1981-1985 a 650 miliardi in
quello successivo. Gli investimenti diretti all'estero continuano a
riguardare per la maggior parte i paesi industrializzati: si
intensificano i flussi dal Giappone e dall'Europa verso gli Stati
Uniti, dal Giappone verso l'Europa, dagli Stati Uniti verso
l'America Latina e soprattutto tra i paesi dell'Unione Europea. I
flussi verso i paesi in via di sviluppo si sono quadruplicati tra il
1980 e il 1993, a beneficio soprattutto della Cina (circa il 26% del
totale), seguita dal Sudest asiatico e dall'America Latina.
Ristagnano invece gli investimenti verso i paesi a basso reddito, in
particolare verso l'Africa subsahariana. Poiché i servizi
sono per loro natura difficili da esportare, la loro
internazionalizzazione si traduce in notevoli flussi di investimenti
diretti all'estero: la quota relativa ai servizi supera ormai il
50%, contro il 25% circa dei primi anni settanta. Ciò si
avverte particolarmente nei grandi paesi membri dell'OCSE: la quota
spettante alle banche, alle assicurazioni e ai servizi finanziari
supera il 44% in Italia, il 26% negli Stati Uniti e in Francia, il
20% in Giappone e in Germania.
Le nuove tecnologie, riducendo le distanze e i costi, agiscono come
condizioni che permettono la globalizzazione e come fattori che la
intensificano. Le telecomunicazioni e le tecnologie connesse sono al
centro del mercato mondiale: esse trattano e diffondono in tutto il
mondo, continuamente e quasi istantaneamente, enormi quantità
di informazioni. Le attività economiche e sociali dipendono
sempre più dai sistemi multimediali e dalle autostrade
informatiche, di cui Internet è il prototipo; le grandi
imprese industriali e commerciali e gli istituti bancari e
finanziari dispongono di reti mondiali private di telecomunicazioni.
La telematica consente il ricorso alla subfornitura a distanza, la
delocalizzazione delle attività di routine, la
segmentazione dei processi produttivi, la riduzione delle scorte e
dei fondi di cassa, l'estensione del franchising; inoltre,
essa accresce la capacità delle imprese di reagire alle
mutevoli condizioni del mercato e al tempo stesso favorisce
potentemente l'adozione di una struttura di gruppo da parte delle
imprese multinazionali.
Anche la globalizzazione delle tecnologie è molto avanzata.
Le conoscenze più astratte sono state tradotte in concreti
processi produttivi; si è quindi notevolmente rafforzato il
nesso fra le tecnologie finalizzate alla competitività, fra
la ricerca di base e la ricerca applicata, e pertanto i laboratori e
i centri di sperimentazione dei gruppi industriali hanno assunto un
ruolo strategico. Le attività di ricerca e sviluppo
accrescono la capacità di innovazione delle imprese e al
tempo stesso la loro capacità di assimilare le conoscenze
prodotte all'esterno, mettendole in grado di sfruttare meglio le
possibilità offerte dal progresso tecnico e rendendole
più competitive. Dopo una fase in cui le imprese e i gruppi
conducevano la ricerca nel paese d'origine o in quelli vicini,
demandando a laboratori periferici ausiliari il solo compito di
adattare i procedimenti e i prodotti alle caratteristiche locali, si
tende oggi a un certo decentramento: i gruppi affidano l'intera
ricerca riguardante un prodotto o una linea di prodotti a laboratori
situati presso alcune delle loro filiali, in considerazione dei
vantaggi che queste presentano, compiendo tale scelta in funzione di
una divisione internazionale della ricerca.
La globalizzazione del lavoro procede rapidamente: si stima che nel
2000 la quota di lavoratori non ancora integrati nell'economia-mondo
sarà inferiore al 10%. Sebbene importanti, le migrazioni
internazionali sono soltanto una delle sue cause; esse non hanno
ancora raggiunto una dimensione mondiale: dai paesi in via di
sviluppo partono ogni anno, legalmente o no, da 2 a 3 milioni di
nuovi emigranti (più o meno l'1% della popolazione), circa la
metà dei quali è diretta verso i paesi
industrializzati - dove oggi, come nel 1970, rappresentano circa il
5% dei residenti. Le migrazioni tra i paesi industrializzati sono
diminuite; i flussi migratori verso gli Stati Uniti e la Germania,
dopo un periodo di ristagno, hanno avuto una ripresa sul finire
degli anni ottanta. Nuovi flussi sono apparsi in Europa, provenienti
dalle regioni centrali e orientali del continente, e in Asia, in
direzione del Giappone e di Taiwan. I tradizionali paesi di
emigrazione dell'Europa meridionale (Spagna, Grecia, Italia) sono
diventati paesi di immigrazione. Si sono rallentati i flussi
migratori verso il Golfo Persico; in Africa gli emigranti si
dirigono prevalentemente verso altri paesi africani. In Europa, per
effetto dei numerosi arrivi dalle ex colonie, è calata la
percentuale degli immigrati di origine europea: nella popolazione
dei paesi industrializzati la quota di stranieri si aggira intorno a
un valore medio del 5% (Canada 15,6; Stati Uniti 7,9; Germania 8,5;
Francia 6,3; Italia 1,7; Giappone 1,1).
Come vedremo esaminando i rischi della globalizzazione (v. cap. 4),
la mondializzazione del lavoro si attua, più che con le
migrazioni, con il flusso degli scambi: un contributo notevole
è dato dagli investimenti diretti all'estero e dalle
delocalizzazioni. Nel delocalizzare la produzione, le imprese
multinazionali utilizzano gli stessi sistemi tecnici e organizzativi
usati nei paesi d'origine: risulta così profondamente
trasformata la vecchia organizzazione del lavoro nei nuovi paesi
industriali, che adottano i metodi dei paesi già da tempo
industrializzati, salvo apportarvi delle innovazioni. Durante la
lunga crisi organizzativa degli anni settanta e ottanta, riguardante
tutto il complesso delle funzioni e dei livelli gerarchici
dell'impresa, la ricerca di una forma di organizzazione più
flessibile e partecipativa si è richiamata ad alcune
esperienze nazionali (modello scandinavo, californiano, giapponese).
Con la globalizzazione urbana nasce una nuova centralità,
basata non più sulle nazioni o sulle regioni, ma su
città integrate nell'economia-mondo e divenute ‛globali'.
Possono considerarsi tali le città in cui gli operatori
economici trovano le risorse necessarie per svolgere la propria
attività su scala mondiale (‛emittenti universali'), o quelle
a cui hanno libero accesso gli operatori di ogni paese (‛riceventi
universali'). Queste città, vere postazioni di comando e di
controllo, rispondono all'esigenza di centralizzazione e di
unità sorta dalla dispersione delle attività delle
imprese transnazionali e dall'adozione, da parte loro, di strutture
reticolari.
Il fenomeno è particolarmente evidente nella sfera
finanziaria. Man mano che essa si globalizza, si formano dei centri
che offrono alle imprese i capitali da investire e le valute ai
tassi più favorevoli; questa tendenza è accentuata
dalle esigenze di copertura dei deficit pubblici. I tre
centri dominanti sono Londra, New York e Tokyo, seguiti da
Francoforte e Parigi.
Inseparabile dall'ingegneria finanziaria è la fornitura di
servizi alle imprese; perciò sia le grandi società che
si occupano di tecnologie dell'informazione e della comunicazione,
sia le grandi società legali e di consulenza, si sono
insediate nelle città globali. New York è un'emittente
universale di servizi giuridici, in quanto ospita le più
importanti società specializzate in questo campo; Londra
è al tempo stesso emittente e ricevente, grazie anche alle
sue reti mondiali di banche e di società di assicurazione;
Tokyo è scarsamente ricevente e non emittente; Parigi
è una ricevente universale (nel settore della consulenza
legale le grandi società francesi sono poco numerose e in
diretta concorrenza con quelle anglo-americane).
La globalizzazione finanziaria costituisce senza dubbio la punta
avanzata del fenomeno che stiamo esaminando: l'espansione dei flussi
finanziari internazionali ha assunto infatti dimensioni che non
hanno riscontro nella mondializzazione delle attività
produttive. Negli anni ottanta il volume delle transazioni sui
mercati dei cambi è aumentato di 10 volte, e solo il 3% di
esse ha riguardato scambi di merci; tra il 1982 e il 1992 il volume
delle operazioni internazionali su azioni e obbligazioni è
passato dall'11,8 al 109,3% del PIL negli Stati Uniti, dal 12,5 al
90,8% in Germania e dall'1 al 118,4% in Italia.
Per fronteggiare l'instabilità dei tassi di cambio e di
interesse sono stati ideati nuovi ‛prodotti' finanziari, tutti
rispondenti a una logica di controllo dei rischi. Questi prodotti,
sempre più complessi, hanno rapporti sempre meno stretti con
gli attivi cui si riferiscono e possono dare origine a transazioni a
catena in cui uno stesso credito viene negoziato prima come credito
principale e poi come suo ‛derivato'; più il derivato
è complesso, più sono elevate le spese, e con esse gli
utili dell'istituto finanziario che lo ha creato. La globalizzazione
finanziaria è ulteriormente intensificata da queste
innovazioni perché i paesi economicamente più
importanti, lungi dal contrastare lo scatenarsi dell'inventiva in
questo campo, la incoraggiano per mantenere competitivo il proprio
sistema finanziario di fronte al crescente intervento delle banche e
degli istituti finanziari esteri sui mercati nazionali.
La globalizzazione è favorita anche dalla disintermediazione
dovuta allo sviluppo della finanza diretta da impresa a impresa e
alla ‛titolizzazione' (la sostituzione di attivi poco o niente
affatto negoziabili con titoli finanziari facilmente trattabili sui
mercati secondari). Le grandi imprese - in competizione con lo
Stato, costretto a emettere buoni del Tesoro e obbligazioni per
coprire il disavanzo pubblico - soddisfano le proprie esigenze di
finanziamento al di fuori delle istituzioni e dei circuiti
tradizionali, collocando direttamente titoli con formule variabili
in modo praticamente illimitato. Le banche rispondono diversificando
le proprie attività in direzione delle operazioni ‛fuori
bilancio', ossia verso attività di mercato (tesoreria,
prodotti derivati, gestione di attivi, ecc.) anziché di
finanziamento, dando così origine alla ‛banca di servizi',
contrapposta alla ‛banca industriale'.
La globalizzazione ha ricevuto impulso anche dalla comparsa degli
euromercati, enormi mercati sovranazionali nati dalle operazioni di
dare e avere su conti in dollari gestiti fuori degli Stati Uniti,
luogo della loro emissione; gli euromercati sono fonte di una
notevole integrazione internazionale riguardante sia la finanza
indiretta, in quanto sono aperti all'intermediazione bancaria
internazionale, sia quella diretta, in quanto sono luoghi di
emissione di eurotitoli (eurobbligazioni, euronotes).
È nato così un nuovo spazio finanziario, che ignora o
quasi le frontiere statali; e anche un nuovo tempo, giacché
le tecnologie odierne consentono l'interconnessione in tempo reale
dei mercati, la cui distribuzione geografica su tutti i fusi orari
consente il funzionamento continuo del sistema su tutto l'arco delle
24 ore. Numerosi collegamenti uniscono su scala nazionale e mondiale
banche, investitori istituzionali (fondi pensione, fondi
d'investimento), imprese industriali e commerciali: tutti vendono e
comprano valute, prodotti derivati, titoli, e tutti operano sui
mercati dei cambi e su quelli dei capitali. Mutuatari e investitori
hanno accesso a un'infinità di prodotti finanziari, offerti
su tutte le piazze del mondo, mentre il successo della finanza
diretta implica una rinnovata specializzazione degli operatori a
beneficio di attori che intervengono su mercati aventi una funzione
espressamente speculativa (mercato a termine di contratti
finanziari, mercato secondario di euronotes, mercato
interbancario). È nato un mondo ‛virtuale' in cui i fenomeni
monetari e finanziari vanno visti in primo luogo a livello globale e
solo in seguito a livello locale; è il mondo del denaro, un
mondo di concorrenza e di speculazione in cui tutto è
arbitraggio e in cui al ‛reale' subentra il ‛nozionale'.
La globalizzazione oggi in atto è un processo a più
dimensioni e dai molteplici aspetti, portatore di una civiltà
e di una cultura mondiali: 1) di una civiltà, ossia di un
modo di vivere, in quanto - nonostante le gravi carenze residue -
favorisce la diffusione di un benessere elementare, non più
riservato a una piccola parte dell'umanità, ma conseguito o
atteso da masse di uomini in tutti i continenti; 2) di una cultura,
ossia di ragioni di vita, in quanto consente a popoli per lungo
tempo sfruttati e oppressi di accedere a un sapere di base e a
valori di dignità e di autonomia da cui finora erano rimasti
esclusi. Questa civiltà e questa cultura, derivanti entrambe
dallo sviluppo tecnologico, unificano l'umanità sia in
astratto, esprimendo una specie di unità di diritto, sia in
concreto, facendo da tramite alla diffusione del progresso. Non
mancano, peraltro, le contropartite (v. cap. 4).
3. Gli attori della globalizzazione
Di fronte alla globalizzazione i politologi tendono a definire le
relazioni internazionali come flussi di vario genere e di varia
origine che attraversano le frontiere. Vi è in ciò una
parte di verità, perché ormai l'economia si sottrae
sotto molti aspetti alla politica; ma vi è anche una certa
esagerazione, perché il potere su base territoriale
sopravvive e l'economia-mondo, anche se è dominata dalle
imprese e dai gruppi multinazionali, si presenta come un tessuto
gerarchizzato di reti in cui gli scambi che generano la
globalizzazione sono in ogni campo il risultato del gioco combinato
degli interventi e delle strategie non solo delle imprese e dei
gruppi, ma anche degli Stati.
a) Le imprese e i gruppi multinazionali, attori primari della
globalizzazione
Non sono le nazioni a essere in competizione, ma le imprese, le
quali, a cominciare dagli anni cinquanta e sessanta, hanno intuito
che l'economia mondiale si andava evolvendo verso una maggiore
apertura dei mercati. La crisi degli anni settanta e ottanta,
sopraggiunta mentre la capacità di produzione cresceva per
effetto delle nuove tecnologie, ha accentuato fortemente questa
tendenza. Le imprese non cercano di dominare il mondo, ma di trarne
profitto, e ciò le porta a ridisegnarne la mappa.
La globalizzazione nasce anzitutto dalle decisioni delle imprese e
dei gruppi che si sforzano di cogliere le occasioni per accumulare e
valorizzare i propri capitali, in una dinamica
dell'internazionalizzazione che ha come meta l'impresa ‛globale',
capace di produrre e di vendere in tutto il mondo. Quale che sia la
loro forma (global companies, cosmos
sociétés), le multinazionali operano in uno
spazio che non è senza frontiere, ma che tende a ridurne
l'importanza.
F. Chesnais (v., 1994) chiama ‟oligopolio mondiale" lo ‟spazio di
competizione" delimitato dai rapporti d'interdipendenza esistenti
nella ristretta schiera di imprese che riescono ad acquistare e a
conservare una posizione di effettiva concorrenza su scala mondiale
in un settore industriale (o in un complesso di tali settori)
disponendo di una tecnologia generica comune. Poiché ogni
impresa conosce le sue rivali, la lotta tra di esse è
spietata. Le strategie usate per condurre questa lotta sono
molteplici: talvolta le imprese si avvalgono di un aumento di
concentrazione e di potere sul mercato, oppure aggirano i costi di
transazione e i costi-opportunità mediante integrazioni a
valle e a monte; in altri casi cercano di ampliare l'area di
controllo del processo produttivo o della gamma di prodotti, o
addirittura di assicurarsi i vantaggi legati al possesso di attivi
immateriali o di beni comuni. Le imprese globali tendono a
realizzare volumi di vendite molto grandi, e quindi i loro prodotti
sono concepiti e realizzati in vista di una clientela universale;
tuttavia la tensione tra ‛globale' e ‛locale' è così
forte che in molti casi le imprese devono tener conto delle
peculiarità culturali che ostacolano la formazione di uno
spazio isotropo e associare alla globalizzazione la localizzazione
(‛glocalizzazione'), differenziando le loro attività secondo
i paesi o le ‛regioni' (insiemi di paesi). Un'altra strada è
quella della delocalizzazione, per cui le imprese si insediano in
paesi che presentano caratteristiche vantaggiose - come
infrastrutture adatte, manodopera abbondante e a buon mercato o
particolarmente qualificata, legislazione sociale e fiscale
favorevole, sindacati deboli, mercato destinato a espandersi o di
facile penetrazione, ecc. Le imprese giapponesi utilizzano spesso le
capacità intellettuali locali, installando all'estero
laboratori di ricerca e sviluppo o partecipando a programmi di
ricerca.
Per lungo tempo l'internazionalizzazione degli scambi commerciali ha
preceduto quella della produzione, perché le imprese
preferivano accrescere la produzione per esportarla anziché
impiantare nuovi stabilimenti su un'area geografica più
estesa. Oggi la globalizzazione esige una strategia diversa, in cui
sono associati il lancio dei prodotti sui grandi mercati, la
costituzione di una fitta rete di partners e di
subfornitori con stabilimenti in loco e una gestione su
scala mondiale capace di conciliare le esigenze di qualità,
flessibilità e accettabilità politica. È questo
il prezzo che le imprese globali devono pagare per garantirsi la
sopravvivenza e la crescita, in una situazione in cui lo sviluppo
tecnologico richiede un'attenta ‛vigilanza' e fa aumentare i costi
di ricerca, la vita dei prodotti si abbrevia, le economie di scala
si possono ottenere solo con quote di mercato abbastanza grandi e
l'informazione ha assunto un ruolo fondamentale.
La globalizzazione accelera il passaggio dalle vecchie forme
organizzative, fondate sulla centralizzazione (concorrenza
attraverso i costi, economie di scala, marketing di massa)
o sul decentramento (diversificazione in base alla qualità, marketing segmentato), a forme moderne fondate sulle reti (partnerships esterne e internalizzate, diversificazione mediante la divisione dei
valori, marketing adattativo). L'impresa allora non
è più una ‛grande' impresa (o un insieme di imprese
più piccole), ma una rete di imprese in cui il centro
fornisce la visione strategica e coordina i vari elementi, spesso
dotati di un'autonomia sufficiente per stabilire accordi vantaggiosi
con altre reti. Non vi è una separazione netta fra l'interno
e l'esterno dell'impresa: variano solo le distanze tra le
unità componenti e il centro, per lo più finanziario,
che governa il complesso.
Grazie alla sua struttura, costituita da una rete di unità
complementari o sostituibili, con un'integrazione internazionale
permanente dovuta agli scambi intra-aziendali di beni intermedi,
l'impresa globale è in grado di attuare una strategia
realmente planetaria. La sua forza sta nella capacità di
organizzare operazioni complesse, che richiedono una combinazione di
varie attività alle quali collaborano imprese industriali,
società d'ingegneria, organismi di ricerca, banche e istituti
finanziari, società commerciali, aventi tutti status e regime giuridico differenti; il coordinamento e l'integrazione su
scala mondiale delle attività strategiche avvengono
nell'ambito stesso dell'organizzazione. Gli alleati strategici
vengono scelti in quanto arrecano vantaggi comparati, complementari
o compatibili, perché non c'è motivo di temere che si
trasformino in concorrenti o perché si vuole evitare che si
associno con imprese rivali.
Un settore industriale è ‛nazionale' quando riunisce un
gruppo di imprese interessate essenzialmente al mercato interno;
è ‛internazionale' quando implica una pluralità di
imprese interconnesse e quando i gruppi rivali si affrontano su una
base veramente mondiale; è ‛globalizzato' quando la posizione
di un'impresa in un paese è influenzata in misura
significativa dalla sua posizione in altri paesi e l'interdipendenza
tra gruppi rivali è tale che essi sanno di essere in uno
stato di reciproca dipendenza di mercato, e quindi di conflitto e al
tempo stesso di collaborazione. Nei settori industriali che hanno
raggiunto questo stadio intervengono accordi tra imprese, talvolta
dopo un periodo di ostilità, talvolta come premessa a una
fusione o a un assorbimento. Molti di questi accordi riguardano le
tecnologie e comprendono cessioni di licenze, conduzione in comune
di ricerche, ripartizione di rischi, definizione di norme che
consentano la concorrenza su prodotti specifici; le imprese non
partecipanti all'accordo sono tenute all'oscuro delle nuove
conoscenze acquisite.
Lo sviluppo della globalizzazione non è uniforme: il suo
influsso diretto e indiretto è meno sensibile
nell'agricoltura, nell'artigianato e anche in alcuni settori
industriali. Nelle industrie meccaniche e in quelle ad alta
tecnologia la globalizzazione presuppone la capacità di
portare la concorrenza in campo avversario, di andare là dove
la domanda è forte e il mercato è promettente; per
competere efficacemente è necessario essere un global
insider, superare le barriere che proteggono gli oligopoli
nazionali compiendo investimenti diretti all'estero; ciò
provoca, per reazione, dei movimenti di capitali in senso inverso, e
quindi un gioco di investimenti incrociati. Invece, nelle industrie
che producono beni di largo consumo le imprese con struttura
reticolare si espandono mediante subappalti a imprese locali, senza
bisogno di investimenti diretti importanti; spesso si assume il
controllo di una rete di distribuzione per poter disporre di mercati
vincolati e per evitare prelievi sui profitti realizzabili.
Un esempio di industria globalizzata è rappresentato dal
settore delle telecomunicazioni. In esso le decisioni riguardanti la
standardizzazione delle tecnologie vengono spesso elaborate nel
quadro di riunioni informali; le imprese che non vi partecipano, o
che addirittura ne ignorano l'esistenza, non hanno quasi nessuna
possibilità d'influenzare il contenuto delle applicazioni; i
fornitori sono esclusi dal processo. Si tratta quindi di veri e
propri sbarramenti e di una scelta di traiettorie tecnologiche a
beneficio di un ristretto numero di partecipanti. Nel 1994 erano
presenti sul mercato mondiale delle telecomunicazioni solo otto
gruppi, quattro dei quali coprivano il 70% delle vendite.
Un altro esempio di industria globalizzata è il comparto
tessile e dell'abbigliamento, in cui i cambiamenti intervenuti nella
domanda e nelle tecnologie e il sufficiente livello di
qualificazione e di affidabilità raggiunto dai produttori dei
paesi in via di sviluppo hanno portato a delocalizzazioni su vasta
scala, realizzate dapprima con investimenti diretti, trasferimenti
di tecnologie e accordi di cooperazione, poi col ricorso alla
subfornitura. Nelle imprese a struttura reticolare il centro
nevralgico è collegato per via informatica da un lato a una
rete di produzione decentrata, formata spesso da parecchie centinaia
di subfornitori, e dall'altro a una rete di vendita al minuto che
conta talvolta alcune migliaia di negozi affiliati; entrambe le reti
si estendono su un gran numero di paesi.
b) Gli Stati
Il mondo è costituito dal complesso delle società
umane con le loro aree culturali, le loro religioni e ideologie, le
loro attività e i loro mercati, ma anche dalle divisioni
territoriali, marcate dai confini che delimitano i vari Stati
costituendone le linee di contatto con quelli adiacenti: essi
rappresentano, è stato detto, ‟l'unica norma di carattere
universale" (v. Foucher, 1988). La Carta delle Nazioni Unite vede
nella sovranità nazionale che si esercita entro i confini dei
singoli Stati la base delle relazioni internazionali; popoli e
governanti continuano a considerare fondata su di essa
l'organizzazione del mondo. La perdita d'importanza delle frontiere,
condizione necessaria per la globalizzazione, dipende anche - per
quanto ciò possa apparire paradossale - dagli stessi Stati
sovrani, tramite la liberalizzazione e la deregolamentazione, subito
sfruttate dalle imprese, dei movimenti di beni, servizi, capitali e
manodopera.
La grande depressione degli anni trenta portò a un
protezionismo così spinto da far parlare di
‛neomercantilismo'; all'indomani della seconda guerra mondiale
prevalse invece l'idea che si dovesse metter fine al protezionismo e
aprire i mercati nazionali, nella convinzione che solo la
concorrenza fra attori in grado di utilizzare nel modo migliore i
vantaggi comparati avrebbe potuto assicurare il progresso e l'ordine
internazionale. Questo principio trovò applicazione
nell'Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT,
General Agreement on Tariffs and Trade) stipulato all'Avana nel
1948, inteso a ottenere una liberalizzazione generale degli scambi
mediante sessioni di negoziati multilaterali fondati sul criterio
della reciprocità: l'attenuazione delle barriere sarebbe
quindi risultata da mutue concessioni degli Stati. Le sessioni
finora svoltesi hanno permesso una notevole riduzione dei dazi
doganali, il cui livello medio è sceso nei paesi
industrializzati dal 40% del 1948 al 5% del 1993.
Verso la metà degli anni settanta hanno cominciato tuttavia a
manifestarsi delle tendenze neoprotezionistiche, sotto forma di
provvedimenti non tariffari. Alcuni di questi (limitazioni
‛volontarie' delle esportazioni, sistemi di distribuzione che si
oppongono alla penetrazione di prodotti stranieri, ostacoli alla
partecipazione di imprese straniere al capitale di imprese
nazionali, come pure alla fusione tra imprese straniere e imprese
nazionali) non si attengono alla normativa fissata dal GATT; altri,
pur essendo in teoria compatibili con essa, la applicano in
realtà in modo improprio (dazi compensativi e anti-dumping contro gli attacchi giudicati ‛sleali' dei concorrenti,
regolamentazioni tecniche e sanitarie, prescrizione di un contenuto
minimo di produzione locale nel prodotto finale); altri infine
attuano politiche industriali intese a sostenere alcuni settori
(settori in declino o, al contrario, settori di punta ad alta
tecnologia). Tutti questi provvedimenti tendono a essere bilaterali:
ciò spiega perché ci siano voluti sette anni di
negoziati, segnati da parecchi fallimenti, prima che nel 1993
l'ottava sessione del GATT, l'Uruguay Round, si concludesse
positivamente. Gli obiettivi da raggiungere erano: colmare le lacune
delle sessioni precedenti includendo nell'Accordo alcuni settori
tradizionalmente esclusi (prodotti agricoli, prodotti tessili),
stabilire nuovi diritti e obblighi in campi non ancora sottoposti
alla disciplina del GATT (servizi, investimenti all'estero,
proprietà intellettuale) e, soprattutto, sanzionare
l'ingresso nel sistema dei paesi di nuova industrializzazione.
Questi obiettivi sono stati in gran parte conseguiti, malgrado in
alcuni casi le nuove disposizioni vengano applicate con molta
gradualità, siano state rafforzate le norme anti-dumping e contro le contraffazioni, siano state istituite barriere
protettive per evitare l'invasione del mercato europeo da parte
degli Stati Uniti e dei loro associati (paesi del gruppo Cairns
esportatori di prodotti agricoli), sia stata redatta una ‛lista
verde' delle sovvenzioni (aiuti alla ricerca e alle aree regionali,
tutela dell'ambiente) e l'Europa sia riuscita a conservare le sue
barriere nel settore degli audiovisivi. In futuro le legislazioni
nazionali dovranno adeguarsi ai testi che saranno elaborati dalla
neonata Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, World Trade
Organization); le controversie verranno risolte mediante un
meccanismo quasi giurisdizionale, automatico e coattivo.
L'economia mondiale è al tempo stesso locale, e quindi la
globalizzazione dipende, oltre che dai provvedimenti presi a livello
mondiale, anche dalle misure di liberalizzazione e di
deregolamentazione decise a livello nazionale. Un esempio al
riguardo è dato dalla sfera finanziaria.
Prevale dappertutto l'idea che il denaro debba essere mobile,
affinché prestatori e mutuatari dispongano della
libertà di scelta e di arbitraggio richiesta dall'economia
moderna e dalla guerra dei capitali. Nel corso degli anni settanta e
ottanta le autorità di tutti i paesi industrializzati hanno
ceduto sempre più alle pressioni delle banche a favore della
liberalizzazione del sistema finanziario. Si è ovunque
attenuato il controllo del credito: sono diminuiti i controlli sui
possessori di attivi e le quote di riserva obbligatoria delle banche
sono state ridotte o regolamentate in modo nuovo, tenendo conto dei
rischi indotti dalle innovazioni finanziarie. Questa
deregolamentazione favorisce la formazione di vasti mercati
finanziari: il mercato monetario, quello delle obbligazioni e quello
ipotecario sono ormai intercomunicanti; sono sorti mercati a termine
di strumenti finanziari che applicano ai titoli le tecniche della
contrattazione a termine delle materie prime; le istituzioni
finanziarie possono diversificare i loro portafogli di prestiti
grazie alla deregolamentazione del loro passivo ed è
tollerata l'esistenza di mercati paralleli a quelli ufficiali
(mercati a trattativa privata), sui quali è possibile
ottenere liquidità vendendo opzioni senza verificare
l'identità del prestatore. È stata intrapresa una
riforma delle piazze finanziarie per adattarle alle nuove tecniche
di comunicazione e d'informazione: su numerose piazze i titoli, i
buoni del Tesoro e gli altri valori mobiliari non sono più
materializzati su carta, ma inseriti con una scrittura informatica
su un conto titoli, e ogni grande mercato borsistico ha un indice
che misura i rendimenti di un paniere di azioni e funge da base
degli arbitraggi (indice Dow Jones a New York, CAC 40 a Parigi,
Nikkei a Tokyo). La liberalizzazione dei flussi di cambio e dei
movimenti di capitali e l'apertura dei mercati finanziari nazionali
alle banche e agli istituti finanziari esteri portano alla
formazione di un mercato unico dotato di un forte grado di
autonomia, che ingloba e subordina a sé i mercati nazionali.
Vi è infine un'altra dimensione dell'economia mondiale,
quella regionale. Liberalizzazione e deregolamentazione sono
particolarmente intense nell'ambito dei mercati comuni e delle aree
di libero scambio, comprendenti più paesi; la loro esistenza
è diventata una delle basi delle relazioni internazionali,
come dimostra il fatto che fino all'inizio del 1995 erano stati
registrati ed esaminati dal GATT più di 70 accordi regionali.
Su questi strumenti d'integrazione economica vi sono due tesi
contrapposte. Secondo la prima, la conclusione di accordi regionali
tende a stimolare la globalizzazione, in quanto l'apertura dei
mercati interni permette alle imprese di servirsi dei mercati
regionali come basi per sviluppare le proprie strategie mondiali. Le
economie nazionali interessate da questi accordi sono più
idonee ad affrontare la concorrenza su scala mondiale, essendo
divenute più competitive grazie agli adattamenti richiesti
dalla perdita d'importanza delle frontiere, all'attrazione
esercitata sugli investimenti diretti dall'esistenza di un vasto
mercato integrato e infine, qualora tale mercato implichi una
dimensione nord-sud, grazie alla possibilità di giocare sulle
disparità dei salari e degli oneri sociali. Secondo l'altra
tesi, le vie della storia sono più tortuose e non vi è
un'unica forma di regionalizzazione, bensì due: la prima
è promossa dalla politica, anche se le imprese vi svolgono un
ruolo non trascurabile; l'altra è stimolata dall'economia,
anche se i governi vi partecipano attivamente. La logica della
globalizzazione s'impone anzitutto alle imprese, e solo in seguito
agli Stati: in entrambe le forme la regionalizzazione tende quindi a
rafforzare il potere delle imprese, più che quello degli
Stati, anche se questi sono dotati di organi sopranazionali. Le
eventuali collusioni d'interessi possono tuttavia produrre dei
movimenti in senso opposto, e la globalizzazione può cedere
il posto alla costituzione di tante fortezze protezionistiche quanti
sono gli accordi regionali.
A favore della prima tesi si sostiene che l'abbattimento delle
barriere non tariffarie può ottenersi più facilmente
nel quadro di aree regionali organizzate che non nel quadro del
GATT: grazie all'ampliamento del sistema delle preferenze
commerciali è stato possibile stabilire rapporti più
stretti tra i paesi dell'Unione Europea e quelli aderenti
all'Associazione europea di libero scambio (EFTA, European Free
Trade Association), ponendo così le premesse per la
costituzione dell'Area Economica Europea (1992) e per l'estensione a
essa di molte disposizioni del mercato comune. A ciò si
può obiettare, a sostegno della seconda tesi, che i giochi
non sono ancora fatti e che non vi sono oggi su scala mondiale casi
di egemonia assoluta. Ciò che è chiamata pax
triadica è piuttosto l'espressione di un equilibrio
precario dovuto al raggrupparsi della maggior parte delle economie
nazionali intorno a tre poli: l'Europa occidentale, il Nordamerica e
il Pacifico occidentale. Ciascuno di essi presenta uno o più
paesi-guida in grado di scegliere in modo pressoché autonomo
le proprie strutture e i propri programmi, e la cui area d'influenza
non coincide con quella degli accordi regionali in cui sono
integrati. La Germania tende così a diventare il paese-guida
di un'area che si estende, soprattutto a est, oltre le frontiere
dell'Unione Europea; il Giappone è al centro di un sistema
produttivo di ambizioni mondiali; e il predominio degli Stati Uniti
si esercita molto al di là delle frontiere dell'Accordo
nordamericano di libero scambio (NAFTA, North America Free Trade
Agreement). Nell'ambito di ciascun polo si manifestano
rivalità e resistenze sia tra paesi-guida d'importanza
diversa, sia tra questi e i paesi satelliti. Dev'essere quindi la
politica, e non l'economia, a costituire la base per la formazione
delle varie aree regionali e per la regolazione dei rapporti che
ciascuna di esse ha con le altre.
4. La globalizzazione crea ordine o disordine?
Stando all'ideologia del libero scambio, il benessere mondiale
cresce necessariamente quando, in condizioni di concorrenza
perfetta, tutti i paesi si aprono agli scambi internazionali e si
specializzano nelle produzioni in cui godono di un vantaggio
comparato. Ma la realtà è ben diversa: la
globalizzazione non è il risultato finale di
un'internazionalizzazione che procede senza traumi e che per
mantenere il suo ritmo ha bisogno solo di attuare le disposizioni
contenute nel documento finale dell'Uruguay Round (ossia che i
governi favoriscano una maggiore apertura delle economie nazionali e
il libero gioco dei meccanismi della concorrenza). La
globalizzazione in atto non è conforme a questo modello: essa
non rappresenta l'‛ordine' e la pace, ma piuttosto sostituisce alla
‛guerra fredda' del recente passato una ‛guerra calda' economica,
fatta di strategie competitive, di aggressività
imprenditoriale, di sicurezza da garantire di fronte alle ‛pratiche
sleali' degli altri. Si tratta di uno scontro senza precedenti,
finanziario e monetario ma anche economico e sociale, e naturalmente
politico, connesso con un indebolimento delle compagini nazionali e
con una destrutturazione delle società umane.
a) Rischi di collasso del sistema finanziario e ostacoli alla
politica economica degli Stati
In un certo senso la globalizzazione è dovuta anzitutto alla
mondializzazione della finanza e dell'informazione, i cui effetti
vengono amplificati dai provvedimenti di deregolamentazione. La
rivoluzione in corso nella sfera finanziaria - con l'introduzione di
nuovi prodotti, mercati e meccanismi, la quasi completa
smaterializzazione dei capitali, lo sviluppo dell'informatizzazione
e la comparsa della ‛moneta informatica' - permette agli attori
economici di compiere sui mercati monetari e finanziari operazioni,
al limite, prive di ogni substrato concreto, provocando così
una forte tendenza alla sconnessione tra finanza ed economia reale.
Il capitalismo finanziario globalizzato è in qualche modo
prigioniero dell'organizzazione che esso stesso si è dato.
L'ampliamento del campo di sostituzione e l'aumento del grado di
sostituibilità tra gli attivi finanziari suscitano vasti
movimenti di ridistribuzione dei portafogli e contribuiscono a
rendere instabile la domanda di moneta, tutte le valute essendo
ridotte al livello di attivi il cui valore dipende dalla loro
circolazione (acquisto e vendita, richiesta e concessione di
prestiti); l'accresciuta volatilità dei capitali e delle
valute provoca brusche variazioni dei tassi e dei prezzi; aumentano,
a livello sia nazionale che internazionale, i rischi di collasso del
sistema finanziario.
L'ultramonetarismo e l'ultraliberismo dei paesi capitalistici
industrializzati rischiano di portarli sull'orlo della catastrofe.
Ormai il denaro produce denaro senza passare attraverso la
produzione: si può comprare senza pagare e vendere senza
possedere. Tra risparmio e moneta regna la confusione: gli
investimenti a lungo termine sono finanziati mediante fondi presi in
prestito a breve, vengono remunerati depositi esigibili
immediatamente, e gli arbitraggi sono guidati da indici puramente
monetari e finanziari. In borsa si ottengono plusvalenze nominali
che non hanno alcun rapporto con i profitti realizzati nella
produzione e col valore reale delle imprese. Le motivazioni sempre
più speculative degli operatori, il successo da essi
decretato ai finanziamenti a breve rinnovabili e ai mercati
secondari, i continui aggiornamenti delle loro previsioni fanno
sì che i titoli si trasformino in supporti di plusvalenze a
breve, scarsamente legate all'effettiva situazione di chi li ha
emessi. Le banche e gli istituti finanziari si assumono rischi che -
in presenza di eventi traumatici di vaste dimensioni (deficit di bilancio, sospensioni dei pagamenti tra istituti finanziari
nazionali e internazionali, fallimenti a catena di istituti di vario
tipo, ecc.) o in caso di improvvisi mutamenti della congiuntura
(settore immobiliare) - riescono a coprire (quando vi riescono) solo
in modo molto imperfetto. Ne conseguono delle disfunzioni:
operazioni non regolate su valori mobiliari, insufficiente
assunzione di rischi, errori nella previsione dei guadagni e delle
perdite, reticenze su una situazione reale d'insuccesso, in attesa
di un'evoluzione dei mercati che si spera favorevole, soprassalti
del mercato obbligazionario e arbitraggi incerti tra questo e il
mercato azionario, con conseguenti manifestazioni di febbre o di
debolezza nelle borse. Il sopraggiungere di queste disfunzioni
aggrava i rischi sistemici dovuti alla latente o cronica
instabilità dei mercati internazionali derivante dalla
globalizzazione.
La più importante e più redditizia tra le
attività finanziarie dei gruppi industriali e degli istituti
finanziari è quella che si svolge sui mercati dei cambi. Essa
viene giustificata con la necessità di coprire le operazioni
eseguite sui prodotti e con gli indispensabili arbitraggi che ogni
istituto finanziario internazionale deve compiere su mercati a
termine flessibili; ma la principale motivazione è data dagli
enormi profitti ottenibili con la mobilitazione a fini speculativi
delle ingenti liquidità di cui i suddetti gruppi e istituti
dispongono. Si formano così delle ‛bolle speculative' che
provocano crisi monetarie, dimostrando come nell'era della
globalizzazione i mercati abbiano il potere di far precipitare o di
salvare qualsiasi valuta. È ben difficile resistere alla
speculazione quando i movimenti internazionali di capitali superano
ogni giorno - come avvenne durante la tempesta monetaria dell'estate
1993 - l'intero ammontare delle riserve valutarie mondiali, pari al
triplo di quelle delle banche centrali dei paesi della
Comunità Europea.
In seguito all'accresciuta mobilità dei capitali e alla
finanziarizzazione dei determinatori del cambio, le politiche dei
tassi d'interesse possono esercitare un rapido e forte influsso sui
tassi di cambio: i governi tendono quindi a considerare la
correlazione fra tassi d'interesse e tassi di cambio come uno
strumento privilegiato per reagire alle riallocazioni di portafoglio
su scala internazionale mediante i cambiamenti che le variazioni dei
due tassi inducono nei prezzi e nei margini di profitto dei settori
dell'economia nazionale aperti alla concorrenza estera.
Ma la globalizzazione rende assai incerti i risultati di queste
politiche. In seguito alla deregolamentazione, le banche centrali
hanno un minore controllo sui tassi d'interesse: la loro
capacità d'intervento è limitata a una parte della
curva dei tassi (in particolare dei tassi del mercato monetario),
essendo la determinazione della gamma affidata alle previsioni degli
operatori finanziari e al gioco dei premi di rischio. Oggi i
rendimenti finanziari della maggior parte delle attività
economiche dipendono dai tassi di mercato, i mercati esteri
costituiscono fonti di finanziamento supplementari sottratte
all'influsso delle autorità nazionali, e insieme con la
‛moneta informatica' circolano, attraverso le interpretazioni degli
operatori finanziari, anche i movimenti politici e sociali: tutto
ciò fa sì che la politica economica degli Stati sia
soggetta a vincoli molto pesanti. La manifestazione più
evidente di questa situazione è data dalle difficoltà
che incontra, quando non sia coordinata su scala internazionale,
ogni politica di riduzione dei tassi d'interesse per favorire
l'espansione: una simile politica provoca, fra l'altro, un
trasferimento dei capitali verso piazze più remunerative.
È chiaro dunque il messaggio che i mercati inviano ai
governi: essi si oppongono a ogni tentativo di ridurre le rendite
parassitarie consentite dal mantenimento di tassi d'interesse reali
elevati, e chiedono che sia legittimato lo sfruttamento a fini di
lucro di tutte le possibilità offerte dai differenziali tra i
tassi. Il sistema finanziario mondiale, globalizzato e tendente a
rendersi autonomo dalle economie nazionali, obbedisce a una
‛razionalità' di corte vedute, propria di speculatori
incuranti della deontologia e delle conseguenze dannose che le
turbolenze monetarie da cui essi traggono profitto possono avere per
i popoli. Lo Stato nazionale, in seguito all'erosione del suo potere
economico e alla sua dipendenza da fattori esterni legati ai
processi di globalizzazione, perde in gran parte il controllo
dell'economia del paese, che vede indebolirsi i suoi sistemi di
difesa immunitaria.
b) Costi sociali e pericoli di regresso sociale
Partendo dal principio, caro alla tradizione liberista, che i
benefici sociali dell'economia sono massimizzati dal libero gioco
delle forze di mercato, alcuni autori non hanno esitato a definire
questo gioco ‛una politica sociale internazionale per difetto'.
Ciò significa però dimenticare che la globalizzazione
comporta già oggi dei costi sociali elevati, i quali
rischiano di aggravarsi se ci si accontenta di affermare che sono
temporanei e che a lungo termine tutta l'umanità
risulterà avvantaggiata.
All'inizio degli anni settanta non vi era ancora un problema di
‛competitività tra poveri', ma la ridistribuzione dei flussi
commerciali mondiali negli anni ottanta, la formidabile crescita di
potenza dei paesi asiatici nei primi anni novanta e il manifestarsi
degli effetti attuali e potenziali della delocalizzazione e del
subappalto della produzione di beni e di servizi suscitano ormai
serie preoccupazioni e mettono in luce, accanto a quelli positivi,
gli effetti sociali negativi della globalizzazione.
Effetti negativi si hanno nei paesi industrializzati, dove i
lavoratori non qualificati, già colpiti più duramente
degli altri dalla disoccupazione, dalla diminuzione dei salari
relativi (e talvolta anche di quelli assoluti) e dalla minore
offerta di lavoro, subiscono in pieno gli effetti della concorrenza
dei paesi con manodopera a buon mercato. Ciò avviene
specialmente nei settori ad alta intensità di lavoro, che
producono in grande serie manufatti standardizzati e ordinati con
molto anticipo (vestiario, calzature, componenti elettronici): in
questi settori, grazie all'evoluzione tecnologica, le maggiori
imprese segmentano il processo produttivo in più stadi,
mantenendo nel paese d'origine la progettazione e la fase iniziale
della lavorazione (ad esempio il taglio del vestiario),
delocalizzando o subappaltando l'assemblaggio e conservando il
controllo del marketing e dei circuiti di distribuzione.
Alle perdite di occupazione che questa strategia determina occorre
aggiungere quelle provocate dal diffondersi nel sistema produttivo
di innovazioni di tipo offensivo e difensivo intese ad accrescere la
produttività, come pure quelle derivanti dalla non
istantaneità della compensazione tra i nuovi posti di lavoro
e quelli soppressi (disoccupazione, difficoltà di adattamento
‛strutturali').
Si hanno invece effetti positivi nei paesi in via di sviluppo, nella
misura in cui il mercato mondiale affranca i lavoratori dalle
limitazioni imposte dalla scarsità di domanda interna: nelle
economie del Sudest asiatico le industrie manifatturiere a forte
coefficiente di manodopera non hanno decollato immettendo la loro
produzione sul mercato interno, ancora essenzialmente agricolo, ma
accedendo ai mercati internazionali. Occorre tuttavia sfumare
quest'affermazione. I paesi in via di sviluppo costretti a ricorrere
a politiche di stabilizzazione e di riduzione del debito non possono
metterle in atto senza danneggiare la produzione e l'occupazione,
perché in tempi di rigore finanziario si ha una contrazione
della spesa pubblica per le infrastrutture e gli investimenti
privati sono scarsi, a causa delle incertezze e degli effetti
negativi derivanti da tale contrazione. D'altra parte, i paesi in
cui l'industria si è sviluppata al riparo di solide barriere
protezionistiche non possono diventare competitivi senza incorrere a
breve e a medio termine in gravi difficoltà, che provocano
una riduzione dell'occupazione nei settori più deboli.
Nascono in ogni caso dei problemi di arbitraggio nel tempo, la cui
soluzione è complicata dal fatto che l'attrazione esercitata
dai nuovi posti di lavoro fa affluire nelle città masse di
poveri non qualificati, destinati alla disoccupazione, al
sottoimpiego, al precariato o tutt'al più al settore
‛sommerso'.
La globalizzazione, inoltre, mette in forse le istituzioni di base
del ‛patto sociale' che è all'origine del Welfare State.
I ‛leaders globali' di ogni livello, per i quali il mondo
non è altro che un mercato su cui dislocare produzioni e
capitali, si preoccupano solo delle ‛rigidità' del lavoro che
vorrebbero fossero eliminate: salari troppo alti, minimi di legge,
regolamentazione del lavoro che ostacola l'adattamento alle
condizioni macroeconomiche generali e settoriali, oneri sociali
eccessivi, entità e durata dei sussidi di disoccupazione,
sicurezza del posto di lavoro, gravosità del sistema di
sicurezza sociale - di tipo sia bismarckiano (copertura dei rischi
di perdita del reddito legati alla degradazione del capitale umano),
sia beveridgiano (assistenza ridistributiva e politica di piena
occupazione) - e conseguente crescita incontrollata dei costi
sociali relativi soprattutto alla sanità e alle pensioni.
Il capitale è connesso con l'insieme delle relazioni
economiche e sociali interne alle nazioni, e in primo luogo col
rapporto di lavoro salariato; pertanto la sua espansione su scala
mondiale richiede, oltre all'apertura di uno spazio economico il
più possibile ampio e omogeneo, la normalizzazione dei
rapporti di forza mediante dispositivi istituzionali. Storicamente
quest'esigenza si è tradotta nello sviluppo del diritto del
lavoro e della sicurezza sociale e quindi nell'avanzata verso il Welfare
State, vista da Myrdal come un processo graduale ma
inarrestabile; sembrava lecito pensare che il Welfare State fosse divenuto una caratteristica stabile dei paesi
industrializzati, e, al tempo stesso, una meta importante per i
paesi in via di sviluppo. Peraltro, allorché prevale
l'obiettivo dell'adattamento concorrenziale, appartiene alla logica
della globalizzazione il reclamare, in nome della
flessibilità, l'attenuazione generalizzata delle normative e
la riorganizzazione delle forme istituzionali in materia di
regolamentazione del lavoro e di sicurezza sociale. Si profilano
allora gravi rischi: aumento delle discriminazioni e della
segmentazione del mercato del lavoro a danno delle categorie
più vulnerabili (donne, giovani, immigrati non qualificati);
accentuazione delle disuguaglianze e delle divisioni sociali;
formazione di una categoria di salariati meno tutelata per quanto
riguarda l'osservanza del diritto del lavoro e l'accesso alla
previdenza sociale; tentazione di ricorrere, anziché
all'innovazione, a uno sfruttamento del lavoro che sembrava
appartenere ormai al passato; prevalenza del regresso sociale sulla
capacità di adattamento. Si potrebbero così
compromettere sia la ridefinizione del rapporto di lavoro salariato
e della socialità, assolutamente necessaria in una
società che vive profonde lacerazioni, sia l'indispensabile
coordinamento tra politica sociale e politica economica generale nel
quadro di un progetto collettivo.
c) I problemi posti da una civiltà e una cultura
mondiali
L'avvento di un'unica civiltà mondiale - cui contribuiscono
scienza e tecnica, economia e finanza - e la contemporanea
universalizzazione dei valori, con la presa di coscienza di
un'umanità comune e del diritto incondizionato di ogni uomo a
essere rispettato in quanto tale, rappresentano potenti fattori di
progresso dell'umanità; ma la globalizzazione che ne è
alla base implica gravi rischi di deriva incontrollata.
I ‛valori' omogenei di cui la globalizzazione è portatrice
sono quelli del consumo di massa. Nonostante le spettacolari
esibizioni di solidarietà, alle nuove generazioni viene
trasmesso un messaggio perverso secondo cui il denaro e il potere
sono più importanti della vita. Le industrie dei mass
media, operanti su un immenso mercato mondiale, producono e
diffondono dappertutto una sottocultura (o piuttosto una ‛non
cultura'), procedendo a un condizionamento ‛morbido' dei popoli che
mira a una mercificazione totale delle attività umane e a
un'omologazione della domanda. La cultura che così sta
nascendo è stata da R. J. Barnet e J. Cavanagh (v., 1994)
assimilata a un ‟centro commerciale mondializzato" (global
shopping mall); secondo P. Ricoeur, l'affermarsi in tutto il
mondo di una civiltà dei consumi uniforme e integralmente
anonima corrisponderà, al limite, al ‟grado zero della
cultura creativa", al ‟nichilismo assoluto nel trionfo del
benessere". L'imposizione di vincoli alla creatività non
avviene più soltanto negli Stati totalitari, ma anche negli
Stati cosiddetti ‛liberi', attraverso le costrizioni messe in atto
dal potere del denaro e dei gruppi di pressione e dalla logica del
mercato.
In realtà non esiste una cultura ‛universale', ma una cultura
‛dell'universalità', avente come postulati il rispetto della
diversità delle culture e il dialogo tra esse. La
globalizzazione tende a generalizzare uno stile di vita, ritenuto il
migliore, e un'ideologia, quella della modernità: l'uno e
l'altra portatori di un ordine mondiale il cui avvento presuppone
l'assimilazione da parte di tutti i popoli delle usanze e dei valori
così proposti. Si pone allora il problema dell'erosione e
dell'eliminazione delle differenze culturali che già si sono
espresse o che attendono di esprimersi e, a un livello ancora
più profondo, delle personalità individuali. Vengono
colpiti modi di vivere che rappresentano una moralità di
fatto, e istituzioni che riflettono il pensiero dei vari gruppi
umani in un dato momento della loro storia, come pure immagini,
simboli e valori da essi accettati. Si mette in moto un processo
internazionale la cui penetrazione, nel migliore dei casi, consente
il mantenimento di una precaria autonomia, oppure comporta la
colonizzazione e l'assoggettamento integrale; esso dà origine
a giustificati risentimenti delle coscienze umiliate e a
ripiegamenti sulla propria identità, ma anche a spinte
nazionalistiche, integralistiche o razziste che mettono in pericolo
la pace.
L'avvento di un'unica civiltà mondiale può
rappresentare un progresso solo se essa, animata da uno slancio di
umanità, permette a un numero crescente di uomini, grazie
all'universalizzazione degli strumenti che continuamente essi
inventano, di acquistare la consapevolezza di poter costruire la
propria storia e di appartenere a un'unica comunità.
Perché ciò avvenga è necessario che le ragioni
di vita siano condivise e che emerga gradualmente, nel rispetto
delle diversità, un fondo comune di valori.
Si può ritenere che non vi sarà una guerra tra
civiltà, anche se alcuni temono che essa possa sostituire la
guerra tra le ideologie, al di là della guerra tra gli Stati.
C'è piuttosto da temere che, in mancanza di un progetto
economico e politico capace di sfruttare le possibilità di
maggior benessere insite nella globalizzazione, le tensioni e i
conflitti derivanti dal rifiuto dell'alterità si associno a
quelli suscitati dalla logica della lotta di mercato, dando come
risultato un ordine mondiale poliziesco, in assetto di guerra
permanente, al servizio dei ricchi, delle oligarchie o delle potenze
egemoniche.
5. Globalizzazione, governo e governabilità
Ciò che diventa globale dev'essere ‛governato'. Già
molto tempo prima di diventare, da J. Watt a J. C. Maxwell, un
termine tecnico equivalente a ‛regolazione', il vocabolo ‛governo'
(in francese gouvernance, in inglese governance)
indicava il controllo permanente dell'universo da parte del
Creatore, fonte suprema di un ordine cosmico in cui ciascun evento
era riconducibile alla totalità. Lo stesso termine è
usato oggi per designare la necessità di una ‛regolazione'
dell'‛universo economico' che non è più affidata
né a Dio né a un determinismo generale, bensì
ad azioni che attuano procedure e programmi tesi a dominare il
funzionamento e lo sviluppo dell'economia e a organizzarne le
interdipendenze.
Il dramma sta nel fatto che mentre tutti gli abitanti del globo
hanno ormai un destino comune, le strutture di gestione e di governo
dell'economia-mondo non sono all'altezza della situazione. Le
politiche sono sempre più sfasate rispetto alla realtà
di un mondo economico e finanziario che sfugge alla loro presa: i
loro sforzi, troppo spesso costretti entro le frontiere degli Stati
nazionali, sono inadeguati alla nuova dimensione globale. La
necessità urgente è di arrivare a un consenso minimo
su un ordine internazionale da edificare: e nessuno Stato, neanche
il più potente, è in grado di soddisfarla.
Perché ciò avvenga, ‛governo' e
‛governabilità', capacità e possibilità di
‛governare', vanno considerati insieme su due livelli
indissociabili, quello globale (il mondo) e quello locale (gli Stati
nazionali).
a) Governo e governabilità a livello globale
Già nel 1962 Jan Tinbergen, premio Nobel per l'economia,
sosteneva la necessità di aprire gli occhi sulle catastrofi
prevedibili e di affidare a un organismo mondiale alcune decisioni
di vitale importanza, come quelle riguardanti gli aiuti
internazionali. Nel 1976 il tema fu ripreso nel rapporto del Club di
Roma intitolato Reshaping the international order,
coordinato dallo stesso Tinbergen: in esso si evidenziavano le
azioni concrete da intraprendere e si insisteva sul progressivo
trasferimento di almeno una parte dei poteri economici dal livello
nazionale a quello internazionale, mediante la creazione di un certo
numero di ‛autorità', veri strumenti di pianificazione
globale e di gestione delle principali risorse disponibili nel
mondo.
Nel corso degli anni ottanta e novanta, attraverso una serie di
rapporti coordinati da W. Brandt (1980), O. Palme (1982), G. H.
Brundtlandt (1987) e J. Nyerere (1990), si è gradualmente
imposta nelle organizzazioni internazionali l'idea di un ‛governo
globale', e con essa la riflessione collettiva su uno sviluppo umano
durevole e sulla sicurezza della vita quotidiana in un mondo
interdipendente in cui è facile smarrire i propri punti di
riferimento. La Banca Mondiale si rifà a quest'idea,
definendo il governo globale come ‟il modo di gestire le risorse
economiche e sociali di un paese per sostenerne lo sviluppo"; sulla
base della sua cinquantennale esperienza di cooperazione con quasi
tutti i paesi in via di sviluppo, la Banca lancia nuove iniziative
per aiutare i paesi debitori a rafforzare la governabilità
della loro economia. Al governo e alla governabilità
dell'economia-mondo fanno riferimento esplicito o implicito anche le
istituzioni specializzate delle Nazioni Unite e gli organismi
autonomi con esse collegati: sia quelli aventi come finalità
la tutela degli esseri umani (lavoro, sanità, istruzione,
lotta contro la povertà), la salvaguardia del patrimonio
comune dell'umanità (sostegno biofisico alla sopravvivenza
del sistema-mondo) e la cooperazione scientifica internazionale, sia
quelli operanti in alcuni settori tecnici specifici (comunicazioni,
agricoltura, finanziamenti). Gli stessi concetti sono argomento dei
dibattiti che si svolgono durante le conferenze e i vertici a
livello mondiale.
Le organizzazioni che fanno capo alle Nazioni Unite hanno avuto
spesso occasione di collaborare tra loro e con gli organismi non
governativi per realizzare vasti programmi (azione sociale,
inquinamento, fondali marini, lotta contro l'AIDS, ecc.) e per
mobilitare e gestire i fondi occorrenti. Queste organizzazioni
continuano tuttavia a presentare gravi insufficienze, come dimostra
la pretesa, più volte avanzata, di discutere della
regolazione mediante il mercato e i meccanismi della libera
concorrenza senza prenderne in esame i costi umani e ambientali. Non
sorprende quindi che proprio nell'ambito delle suddette
organizzazioni sia stato proposto, per ovviare alla mancanza di
collegamenti a livello tecnico e politico tra esse e con i governi,
di promuovere e realizzare un duplice meccanismo: le organizzazioni
internazionali prepareranno ogni anno un complesso di
raccomandazioni per migliorare il funzionamento dell'economia
mondiale in una prospettiva di benessere comune, e questo complesso
verrà sottoposto per l'attuazione a una riunione di ministri
rappresentanti i governi.
Nello stesso spirito, durante la preparazione del vertice mondiale
sullo sviluppo sociale di Copenaghen (marzo 1995), è stato
proposto di formulare in termini chiari e precisi, mediante una
Carta sociale mondiale, il nuovo concetto di ‛sicurezza umana', di
istituire un Consiglio di sicurezza economica che analizzi i rischi
esistenti in questo campo su scala mondiale e definisca le azioni da
intraprendere per evitarli, e di predisporre, a cura del Segretario
generale dell'ONU, un'agenda per lo sviluppo. Al termine del vertice
è stata approvata una dichiarazione in cui si annunciava la
promozione di una campagna mondiale per il progresso e lo sviluppo
sociale e di un programma d'azione la cui peculiarità e la
cui importanza consistono nell'approccio integrato agli impegni, ai
principî e alle raccomandazioni risultanti dalle conferenze
sui problemi globali (occupazione, inquinamento, povertà,
ecc.), così che i provvedimenti presi si compongano in
strategie nazionali e internazionali coerenti. Le istituzioni nate
dagli accordi di Bretton Woods e le altre organizzazioni delle
Nazioni Unite sono state inoltre invitate a intensificare e a
coordinare le loro attività e i loro programmi e a
collaborare maggiormente con i paesi interessati, dovendo gli
interventi ispirarsi non solo a politiche macro- e microeconomiche,
ma anche a politiche sociali.
Le difficoltà, quindi, non dipendono solo dai contenuti delle
politiche di governo e dai criteri con cui essi vengono scelti, ma
anche dal fatto che nessuno spazio internazionale organizzato
può nascere spontaneamente dal mercato libero e che la
globalizzazione colpisce, con i rischi che essa implica, gli
interessi nazionali che gli Stati devono tutelare. Nel 1945 la Carta
dell'Avana assegnava alle Nazioni Unite, ‟luogo di armonizzazione
degli sforzi delle nazioni" (art. 1, § 4), finalità
così ampie da poter essere assimilate a quelle di un vero e
proprio governo mondiale, e concepiva l'ONU come un'associazione di
Stati a carattere universale. La tutela delle sovranità
statali ha permesso di salvaguardare l'universalità dell'ONU,
e il fatto che ai rapporti bilaterali si sia sovrapposta una rete di
relazioni istituzionalizzate ha contribuito in misura non
trascurabile alla cooperazione internazionale. Tuttavia gli Stati
non hanno finora rinunziato alla loro sovranità e, malgrado
l'attività di legittimazione politica ed economica svolta
dalle istituzioni sopranazionali, non sono ancora pronti tutti gli
strumenti indispensabili per un governo e una governabilità a
livello globale.
Il mondo è diventato sede di un pluralismo giuridico ordinato
che combina entro spazi a geometria variabile tecniche giuridiche
differenti, di subordinazione e unificazione in alcuni settori e di
coordinamento e armonizzazione in altri. Ogni Stato è preso
in un intreccio di risoluzioni, raccomandazioni, convenzioni e
accordi, ma in molti paesi - che pure hanno recepito quelle
raccomandazioni e ratificato quei patti - continua a essere grande
il divario fra la tutela prevista dalle norme sovranazionali e la
prassi imposta a popolazioni le cui condizioni di vita e di lavoro
rimangono miserabili; così come rimangono notevoli le
disuguaglianze tra i vari paesi, alcuni dei quali sono vittime di
un'emarginazione generalizzata.
Oggi tutti gli interventi su scala mondiale, e non solo quelli
‛umanitari', si ispirano al ‛diritto d'ingerenza', che costituisce
un nuovo capitolo, ancora da scrivere, del diritto internazionale, e
un elemento portante, ancora da costruire, dell'ordine
internazionale. È necessario che esso sia definito e disposto
in modo da non poter servire come pretesto per manovre
imperialistiche (anche le grandi potenze vanno disciplinate quando
la loro politica o quella delle loro imprese danneggia il resto del
mondo), e da opporsi, grazie alla definizione di una base di diritti
che nessuno Stato abbia il potere di limitare, agli effetti perversi
delle disuguaglianze in materia di sicurezza sociale e di sviluppo.
In politica e in economia non c'è molto spazio per i
miracoli. Le molteplici forme che l'ingerenza assume già oggi
nei settori in cui è giudicata necessaria tendono a delineare
una forma di cittadinanza che oltrepassa le frontiere statali. Se
finora è prevalsa la regola dell'uguaglianza tra le
sovranità, è tempo che prevalga l'obbligo di
rispettare i principî fondamentali su cui poggia la nascente
società internazionale. Al termine dell'Uruguay Round
è stato attribuito all'Organizzazione Mondiale del Commercio
il potere di applicare sanzioni commerciali ai paesi che non si
attengono alle norme di libero scambio stabilite dal GATT. Sarebbe
giusto che nei vari campi interessati dal nascente diritto
d'ingerenza (sanità, lavoro, ambiente, sviluppo durevole) un
apposito tribunale internazionale o una sezione speciale della Corte
Internazionale di Giustizia dell'Aia avessero il potere di emanare
sentenze vincolanti contro i violatori di quelle norme. Per quanto
riguarda il lavoro, il trattato istitutivo del NAFTA indica una
strada: una procedura per ristabilire barriere doganali qualora in
un paese non venga osservata la vigente legislazione del lavoro, e
una disposizione per cui le norme internazionali non possano essere
modificate in senso restrittivo.
b) Governo e governabilità a livello locale
Secondo R. O'Brien, nel campo dell'economia e della finanza il
concetto di Stato nazionale è superato ed è destinato
a scomparire molto prima che i politici e i popoli rinunzino alle
loro idee di sovranità e d'indipendenza. R. Reich difende
invece una visione positiva del nazionalismo economico: ogni nazione
dovrebbe considerare suo dovere primario migliorare la
capacità dei propri cittadini di contribuire all'economia
mondiale, rinunziando sia al liberismo cosmopolita, sia al
nazionalismo negatore degli altri popoli, e gli Stati dovrebbero
aprire all'universalità le nazioni di cui hanno la tutela.
Il governo dell'economia mondiale rimanda a quello delle economie
nazionali e non è attuabile senza o contro le nazioni e gli
Stati: questi ultimi continuano a essere la fonte legittima del
potere, anche se nell'ambito mondiale le regole del gioco che essi
dovrebbero definire vengono anticipate dalle grandi imprese. Spetta
agli Stati, e non a organismi internazionali lontani e spesso
tecno-burocratici, far emergere una ‛razionalità' capace di
esprimere una ‛convenienza collettiva'; ed è per il loro
tramite che devono essere attuate le azioni deliberate al termine
dei negoziati internazionali, ai quali, a giudizio delle stesse
organizzazioni che li conducono, vanno associati anche gli Stati.
Da qui l'importanza della governabilità delle economie
nazionali, anche quando la globalizzazione tende a ridurla; e da qui
la coerenza della posizione assunta dall'Ufficio Internazionale del
Lavoro quando, ritenendo che la disoccupazione, il sottoimpiego e i
bassi salari non siano conseguenze inevitabili della globalizzazione
e che esistano delle soluzioni, si schiera a favore di nuove forme
di cooperazione tra Stato e mercato. È importante, infatti,
che il primo regoli il funzionamento del secondo, ne corregga gli
effetti perversi e ne valuti gli influssi potenziali; ed è
necessario che una politica volontaristica intervenga per promuovere
la giustizia sociale allorché il mercato non la garantisca o
addirittura vi si opponga. Vi sono due possibilità. La prima
è accettare, in conformità con l'ideologia
neoliberista (o di un marxismo volgare), che lo sviluppo
tecnico-economico prevalga su ogni altra forma di sviluppo e che le
forze economiche agiscano in modo incontrollato, non essendovi
nessuna possibilità di arrestarne o invertirne il corso.
Poiché, come si è detto, nessuno spazio internazionale
organizzato può nascere spontaneamente dal mercato libero,
c'è da temere che, al manifestarsi di tendenze positive
nell'economia mondiale, i paesi industrializzati, per far fronte
all'accresciuta concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione e
dei paesi meno sviluppati, alla perdita della propria libertà
d'azione e ai propri conflitti interni, ricorrano a provvedimenti
protezionistici difensivi e offensivi. In tal caso non ci si
avvierebbe verso un ordine internazionale pacificato, ma verso un
mondo diviso, in cui le grandi potenze lotterebbero per l'egemonia,
mentre si moltiplicherebbero le aree d'instabilità economica
e politica e i conflitti locali autodistruttivi.
L'altra possibilità è che gli Stati si rendano conto
che le reazioni di tipo protezionistico non sono adeguate ai
processi di globalizzazione, con le opportunità e i rischi
che essi implicano, e preferiscano seguire una politica di
cooperazione. In tal caso, per adattarsi senza eccessivi costi alla
rapida evoluzione dell'economia mondiale, essi dovranno definire
alcuni principî comuni, prendere in esame i problemi sociali,
economici e politici più importanti e adottare i
provvedimenti istituzionali necessari affinché tali problemi
possano essere trattati con continuità. Non si può
peraltro escludere l'ipotesi che gli Stati, non riuscendo a mettersi
d'accordo sugli obiettivi prioritari comuni e sul modo di coordinare
le proprie politiche per conseguirli, blocchino il processo
d'integrazione mondiale.
Gli Stati nazionali possono dunque contribuire all'integrazione nel
sistema mondiale, oppure essere luoghi privilegiati di ricerca di
autonomia e d'indipendenza. La necessaria articolazione del governo
e della governabilità tra il livello globale e quello locale
potrebbe essere attuata con la costruzione di un ordine mondiale a
più livelli, avente il suo fulcro nel livello intermedio,
quello regionale. L'Unione Europea - nonostante tutte le sue
difficoltà e incertezze - e il NAFTA stanno a testimoniare
una ripresa dell'interesse per i dispositivi d'integrazione
regionale, ancorati alla realtà di spazi reticolari in cui
gli scambi intraregionali si sviluppano senza soffocare quelli
interregionali. Da questo punto di vista, costituire l'Area
Economica Europea significa andare decisamente al di là dei
rapporti interni tra i paesi dell'Unione per puntare sulle loro
relazioni con l'Europa centrale e orientale, i paesi del
Mediterraneo meridionale, l'Africa e il resto del mondo.
Le grandi aree regionali, a cominciare dall'Europa, sono spazi
d'intenso scambio tra nazioni che presentano numerose
affinità nei confronti della concorrenza mondiale e che hanno
sistemi sociali originati da vicende storiche e politiche parallele;
sono spazi composti da reti interconnesse, con margini fluidi
soggetti a una dialettica di aperture e di ripiegamenti; sono infine
spazi simbolici, oltre che materiali. Queste aree consentono ai
governi e ai popoli di sperimentare, al di là dei comuni
interessi economici, una vita politica a più livelli (di cui
uno sopranazionale) e di allenarsi così ad affrontare la
dimensione mondiale.
L'ambito ottimale per il governo e per la governabilità nel
campo dell'economia internazionale è certamente il mondo. Ma
è anche evidente che, almeno per un lungo periodo di tempo,
la raccolta e l'elaborazione dei dati, la riflessione collettiva e
il dibattito che essa implica, la ricerca dell'armonizzazione delle
politiche micro- e macroeconomiche e delle logiche di competizione e
di cooperazione, saranno realizzabili solo nel quadro di ampi spazi
regionali. È significativa a questo proposito la sorte
toccata ai ‛libri', decisa nel 1993 dalla Commissione delle
Comunità Europee per promuovere la riflessione e il dibattito
sulle sfide del XXI secolo e sui modi per affrontarle: questi
documenti sono stati accolti favorevolmente dalle organizzazioni
europee, ma le proposte in essi contenute sono state ridotte ai
minimi termini. Al di là di una volontà di
cooperazione economica ancora fragile, mancano la coesione e la
coerenza, e la logica federalista - l'unica in grado di conciliare
l'autonomia delle parti con l'unità dell'insieme - non si
è ancora presentata all'appuntamento con la storia.
Il mondo, scriveva J. M. Keynes nella General theory, ‟ha
oggi un estremo e ansioso bisogno di una diagnosi meglio fondata
[...] ed è pronto ad accettarla e desideroso di verificarla,
anche se è solo plausibile". Il mondo è tuttora
così: pieno di sfide globali e terribilmente privo di un
progetto di civiltà. Il vero problema posto dalla
globalizzazione è in fondo quello del senso: ancora una volta
l'umanità è chiamata a cercare di ricondurre le cose,
le organizzazioni e le coscienze nel vasto moto che costituisce la
trama della storia, e a cercare di raggiungere, per liberarla, la
corrente totale della vita.
Enciclopedia delle Scienze Sociali I Supplemento (2001)
di M. Rosaria Ferrarese; Ronald Dore
GLOBALIZZAZIONE
Aspetti istituzionali di M. Rosaria Ferrarese
sommario: 1. Globalizzazione e profezie
marxiane. 2. Istituzioni e patti sociali. 3. Lo Stato e le sue
trasformazioni. 4. Spazio nazionale e spazio transnazionale. 5.
Autori e coautori dell'ordine giuridico transnazionale. 6.
Policentrismo istituzionale. 7. Pragmatismo istituzionale. 8.
Ingegnerie sociali del diritto: dalle norme alle regole del gioco.
9. La globalizzazione e la sfera del 'dover essere'. □ Bibliografia.
1. Globalizzazione e profezie marxiane
Della globalizzazione sono state date svariate definizioni, che
volta a volta mettono a fuoco gli aspetti fenomenici in cui essa si
manifesta o le cause che li producono. Ad esempio, dire che la
globalizzazione consiste in una sempre più rilevante
interconnessione dei mercati o in una mutua interdipendenza tra
varie aree geografiche (v. Giddens, 1990) descrive il fenomeno ma
tace le cause. Se vogliamo cogliere le cause, dobbiamo far
riferimento innanzitutto alla pervasività di nuove tecnologie
che, abbattendo i limiti spaziali e temporali, permettono forme di
comunicazione immediata e spesso 'in tempo reale'. Tuttavia,
nonostante la centralità delle tecnologie, queste non bastano
da sole a spiegare la globalizzazione. Le comunicazioni che questa
mette in moto richiedono anche altri requisiti: innanzitutto un
requisito di natura sociale, consistente nella condivisione di una
lingua comune basata sugli interessi e sulla ragione dello scambio
economico (v. Hirschman, 1977); in secondo luogo, un requisito di
natura economica, consistente nella liberalizzazione dei mercati
finanziari, che permette ai capitali di circolare liberamente,
facendo da sostegno all'espansione delle imprese nello spazio
transnazionale (v. Strange, 1998).
La globalizzazione è dunque non solo globalizzazione
dell'economia, ma anche diffusione di ciò che è stata
chiamata la "pastorale moderna" (v. Berman, 1982), ossia una sorta
di evangelizzazione planetaria al credo della modernità, al
suo stile, ai suoi riti e alle sue istituzioni.Per quanto
rivoluzionaria possa apparire questa fase, per quanto i cambiamenti
che essa presenta, sempre più veloci e imprevedibili,
sembrino segnare una fase del capitalismo del tutto nuova rispetto
al passato, la gran parte delle sue dinamiche appare chiaramente
tracciata già nel Manifesto del partito comunista, opera del
1848 che, riletta oggi, mentre appare superata nella sua analisi
politica, appare invece dotata di acume profetico nell'analisi delle
tendenze proprie dell'evoluzione capitalistica e persino della
globalizzazione (v. Marx ed Engels, 1848). In particolare, due
tendenze sono lì già perfettamente colte. Da una parte
la tendenza verso "l'insicurezza e il movimento perpetui",
nonché a una sorta di dissoluzione e smaterializzazione dei
rapporti che il capitalismo porta con sé, fino alla
dissoluzione di tutto ciò che è 'solido' (v. Berman,
1982). Questa profezia trova oggi conferme innanzitutto in una
struttura industriale in cui la base della ricchezza è
completamente nuova rispetto al passato ed è una risorsa del
tutto immateriale, mobile e impianificabile: la conoscenza,
piuttosto che la terra o il denaro è la nuova base
dell'economia (v. Thurow, 2000). Si può in tal senso parlare
di una 'terza rivoluzione industriale', caratterizzata da una
estrema mobilità dei processi produttivi, organizzativi e
commerciali, in cui vincenti sono non più le hierarchical
firms, ma le entrepreneurial firms, che perseguono una strategia di
continui cambiamenti dei propri prodotti, e riescono così ad
anticipare la concorrenza, piuttosto che subirla (v. Porter,
1985).La seconda tendenza individuata da Marx ed Engels è
quella per cui "la borghesia ha spogliato della loro aureola tutte
le attività fino ad allora guardate con rispetto e pia
soggezione. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il
poeta, lo scienziato in suoi operai salariati" (v. Marx ed Engels,
1848; tr. it., p. 9).
In termini più teorici, altrove Marx ed Engels parleranno di
una 'struttura' economica che diventa determinante e che riduce nel
suo cono d'ombra la politica, le istituzioni, le credenze, facendone
delle mere luci riflesse, delle 'sovrastrutture' senza una propria
anima e, si direbbe oggi, senza una propria
'autoreferenzialità' (v. Marx ed Engels, 1932). Via via che
il capitalismo conquista nuove nazioni e le costringe ad adottare il
proprio "sistema di produzione", esso crea un mondo "a propria
immagine e somiglianza".Queste due profezie marxiane ci possono
guidare nell'analisi delle trasformazioni istituzionali che la
globalizzazione porta con sé. Trasformazioni che, nel loro
insieme, si possono ricondurre per un verso a una dinamica di
alleggerimento delle istituzioni, di perdita di peso e di
rigidità, per un altro verso a una dinamica di sempre
maggiore aderenza alle ragioni dell'economia.Ciò che si va
disegnando davanti ai nostri occhi è un orizzonte
istituzionale assai più mobile e indefinito che nel passato.
Via via che si espande la capacità delle forze economiche di
agire in maniera transnazionale, superando limiti e confini di
carattere nazionale, si configurano uno spazio e un tempo
dell'economia che non si riconoscono più nel tempo e nello
spazio delle istituzioni tradizionali. È nella sfida alle
istituzioni tradizionali, soprattutto allo Stato e al suo diritto,
specie nella loro versione europeo-continentale, che si può
riconoscere una vera rivoluzione, una rivoluzione che chiude un
periodo storico contrassegnato dalla centralità e
dall'esclusività degli Stati, e apre una nuova fase, per
così dire, di maggiore complessità
istituzionale.L'economia globalizzata è alla ricerca di
istituzioni che siano temporalmente e spazialmente capaci di
corrispondere alle sue esigenze o cerca di adattare quelle
tradizionali alle proprie esigenze. Essa trascina con sé non
solo nuove forme di organizzazione e di comunicazione sociale, ma
anche nuovi assetti istituzionali. Assetti istituzionali improntati
a quella leggerezza e a quella ratio economica di cui le imprese
hanno bisogno per espandere i propri scambi. Stati e istituzioni
giuridiche assecondano ritmi e movenze dei mercati. Ed è a
queste istituzioni che rivolgeremo la nostra attenzione. Non prima
di aver precisato meglio cosa si intende con il termine
'istituzioni'.
2. Istituzioni e patti sociali
Stato, diritto e mercato sono tre importanti istituzioni delle
società moderne. Le istituzioni altro non sono che insiemi di
regole, formali e informali, ma comunque accettate socialmente e
stabili nel tempo, che orientano le azioni e i comportamenti sociali
in determinate sfere. Ma è importante integrare questo
significato, sociologicamente consolidato, delle istituzioni, con un
altro aspetto: ossia con l'idea che esse contribuiscono a disegnare
i patti sociali che regolano gli scambi tra le varie parti. In tal
senso, le istituzioni sono puntelli essenziali dell'identità
sociale e contribuiscono a comporre la griglia di diritti e doveri,
di poteri e libertà, conformando ruoli che agiscono in forma
interrelata e reciproca. Specialmente lo Stato (con il suo diritto)
e il mercato, tipicamente, sono parte preminente di un invisibile
patto sociale che lega governanti e governati, ripartendo i poteri e
le sfere di libertà, i diritti e gli obblighi, ciò che
è privato e ciò che è pubblico.Le teorie
contrattualiste, all'alba degli Stati moderni, incarnarono questa
idea, vedendo nello Stato la filigrana essenziale di tale scambio.
Dietro un'apparente unità di modelli, tuttavia,
nell'Occidente presero forma due diverse versioni di questo scambio.
Nell'Europa continentale prese corpo una tradizione, ispirata
prevalentemente al modello hobbesiano, che sosteneva uno Stato forte
e un diritto di ispirazione essenzialmente pubblicistica, formulato
in termini di comandi destinati a dare ordine alla società.
In questo modello il mercato, visto come zona tendenzialmente
anarchica (v. Macpherson, 1964), restava costretto negli argini di
controlli e restrizioni statali che ne ridimensionavano il ruolo di
istituzione autonoma. Ad esempio, nella concezione weberiana, il
diritto del mercato, nella sua versione europeo-continentale,
risponde a un intento di 'calcolabilità' e associa attese di
pianificazione e governo dell'economia (v. Weber, 1922).
Nel mondo anglosassone, e soprattutto negli Stati Uniti, ebbe luogo
una diversa tradizione, ispirata al modello lockiano, in cui a uno
Stato debole corrispondeva la preminenza della libertà degli
individui, che trovava nella proprietà privata il suo
fondamento più significativo. La contaminazione con le teorie
utilitariste portava poi questo modello, specie nella sua versione
americana, ad attribuire al mercato un ruolo strategico nella
salvaguardia delle libertà. In ragione di questa diversa
ispirazione, il diritto qui rifuggiva da una conformazione
pubblicistica e trovava piuttosto negli istituti privati della
proprietà e del contratto il proprio centro ispiratore. Il
mercato, pertanto, piuttosto che essere un puro prodotto delle
decisioni giuridiche, contribuiva esso stesso a fornire criteri
ispiratori per le regole giuridiche (v. Ferrarese, 1997).All'ombra
di questi due modelli, hanno avuto luogo due diverse civiltà
giuridiche, note come di common law e di civil law, la cui
differenza è possibile cogliere non solo e non tanto per i
diversi istituti che le caratterizzano, ma per il diverso peso
specifico che in esse assumono le tre istituzioni dette. Nella
civiltà di civil law, lo Stato è in posizione di
eminenza rispetto al mercato ed il suo diritto è strumento di
riduzione e di addomesticamento del mercato. Nella civiltà di
common law, Stato e mercato sono istituzioni che si fronteggiano e
si bilanciano a vicenda (v. Ferrarese, 1992), con la conseguenza che
il diritto (nelle faccende economiche, ma non solo) è un
prodotto in movimento, soggetto a tensioni non del tutto diverse da
quelle che sono proprie della vita economica.Dietro queste due
tradizioni si nascondono le ragioni di un diverso impatto che la
globalizzazione, portando alla ribalta i mercati, ha rispettivamente
sulla civiltà giuridica europeo-continentale e sulla
civiltà giuridica anglo-americana e specie americana.
Se quest'ultima, a partire dalla centralità della common law
fino alla scelta dell'assetto federale, si è costruita su un
modello di concorrenza e dunque di non esclusività del
referente statale, ben diversamente stanno le cose per la prima:
questa, infatti, avendo a proprio fondamento esclusivamente gli
Stati, viene messa a più dura prova dalle tendenze globali,
che sembrano superare e sfidare quella logica di monopolio, di
confini e di rigide ripartizioni del potere statale: una logica che,
storicamente, si può far risalire al trattato di Westfalia
del 1648, che negli Stati individuò le coordinate essenziali
dell'ordine europeo, chiudendo la lunga stagione delle guerre di
religione.Osservata da questa prospettiva, la globalizzazione, come
suggerisce Strange (v., 1996), è un processo di rottura di
quest'ordine giuridico incentrato sugli Stati, con un consistente
travaso di poteri dagli Stati verso i mercati. Questa
interpretazione della globalizzazione in termini di mutate
costellazioni di potere e di concorrenza tra Stati e mercati
è importante per comprendere i profondi cambiamenti
istituzionali che accompagnano la perdita di centralità degli
Stati e i mutati patti sociali che li accompagnano. Se il mercato
acquista centralità come istituzione globale a danno degli
Stati, che appaiono istituzioni locali, anche l'ispirazione
centralistica del diritto statale appare in gran parte superata: il
diritto, se vuol essere a misura di un mercato e di un mondo di
relazioni globali, è chiamato a decontestualizzarsi, a
cercare nuove misure di riferimento e ad affidarsi a nuovi soggetti
creatori. Non si tratta solo di un allargamento della sfera delle
libertà economiche, ma, ancor più, della
capacità del mercato di fungere da punto di orientamento
anche per le istituzioni tradizionali.
3. Lo Stato e le sue trasformazioni
Il primo aspetto da affrontare per comprendere i cambiamenti
istituzionali prodotti dalla globalizzazione è dunque il
ruolo nuovo svolto dagli Stati in questo processo. Certamente ogni
profezia di scomparsa degli Stati appare sbagliata o almeno assai
prematura. Gli Stati sono destinati a sopravvivere nel futuro
prossimo e forse persino meno prossimo. Ciò che invece si
è già estinta è la sovranità statale,
intesa come istanza assoluta, ossia incontrollabile ed originaria,
superiorem non recognoscens, come si leggeva nei libri che davano
fondamento teorico alla nozione. Oggi una nozione così
vecchia della sovranità residua solo in Stati che non
brillano per civiltà e democrazia e dove la corteccia statale
serve soprattutto a rivestire regimi autocratici e
dittatoriali.Questo declino della sovranità statale intesa
nel suo senso originario significa la scomparsa degli Stati come
soggetti interni e internazionali capaci di pensare in grande e di
decidere in assoluta autonomia. Cambia, in altri termini, il potere
degli Stati che diventa relativo, piuttosto che assoluto. Ma
relativo non vuol dire insignificante o di poco conto: vuol dire
invece che vive in un rapporto dialettico pressoché costante
con altri poteri esterni e diversi. In un mondo globale in cui si
affermano nuovi poteri sia sovranazionali, che si situano
cioè al di sopra del potere degli Stati (come l'Unione
Europea), che transnazionali, che prescindono cioè dai
confini nazionali e li attraversano (come le grandi corporations), i
due caratteri più significativi dello Stato sovrano sono
compromessi entrambi: sia il controllo esclusivo del proprio
territorio, sia l'esclusiva sull'uso legittimo della forza fisica.
Nella situazione attuale, specie il primo attributo è
indebolito da una situazione di sviluppo tecnologico che rende
porosi e spesso irrilevanti i confini statali. Ad esempio, in
materia di mercati finanziari, gli Stati possono varare e di fatto
hanno varato diversi sistemi regolativi. Ma, a causa della
mobilità dei capitali, questi sistemi regolativi sono
tutt'altro che indipendenti e sono continuamente sfidati dalla
crescente interdipendenza tra le economie di diversi paesi (v.
Strange, 1998). Maggiori poteri mantiene lo Stato in presenza di
normazioni sovranazionali: rispetto a questi nuovi poteri esterni,
lo Stato rimane nella posizione di un decisivo gate keeper, che
conserva un significativo potere di contrattazione e di veto; anche
laddove non può non ratificare trattati, decisioni e regole
sovranazionali, proprio perché questi non sono
"autoesecutivi" (v. Yoo, 1999), lo Stato può gestire
significativamente l'atto di ratifica, sia nei modi che nei tempi,
determinando esiti almeno in parte diversi delle normazioni comuni.
Ma, anche in questo caso, si tratta di un potere parziale e
interstiziale, piuttosto che intero ed assoluto.Questa
trasformazione degli Stati, che da detentori di un potere assoluto
diventano detentori di un potere relativo, d'altra parte, è
sintomatica delle trasformazioni della stessa arena globale, che si
caratterizza per la sua natura negoziale: il trattato, il contratto,
l'accordo, il negoziato diventano sempre più i modi tipici
per assumere decisioni giuridiche. Se nel modello giuspositivistico
le norme apparivano frutto di una decisione ascrivibile a
volontà sovrana e il contratto era una modalità
residuale di assumere decisioni, disponibile soprattutto per i
privati, ora sono delle norme di tipo negoziale a costituire il
principale mezzo di espressione giuridica transnazionale.La
riduzione degli Stati al linguaggio del contratto e dell'accordo
è peraltro sintomo di una crisi della normatività che
si può registrare nel mondo globalizzato. La
normatività era, per così dire, il carattere del
'dover essere' nella sfera giuridica e trovava nelle norme
giuridiche emanate dagli Stati una espressione parallela, per quanto
soggetta a variabilità, a quella dei precetti morali.
Lo Stato, rendendo precettivi i propri comandi giuridici, da una
parte assicurava certezza e uniformità del diritto,
dall'altro pianificava un futuro tendenzialmente in
continuità con il presente. La normatività era infatti
basata su premesse di stabilità e di controllo della
stabilità sociale, politica ed economica.Con la
globalizzazione, invece, la stabilità perde attrattiva e
comunque diventa impossibile: il cambiamento, come si è
detto, diventa la scommessa continua dell'economia in modi che
profilano una sorta di rivoluzione perpetua in atto. Con la fine di
un contesto caratterizzato dalla stabilità, si creano le
premesse per una crisi perpetua delle pretese normative. Le nuove
istituzioni della globalizzazione tendono dunque ad assumere uno
stile prevalentemente regolativo, piuttosto che strettamente
normativo. Esse cioè fissano recinti di tipo procedurale dei
quali i soggetti debbono tenere conto, ma entro i quali possono
muoversi con qualche libertà per perseguire i propri fini.
Ciò non significa la fine di ogni normatività, come si
dirà più avanti, ma certamente un suo drastico
ridimensionamento.
4. Spazio nazionale e spazio transnazionale
Se gli Stati non sono più i detentori del monopolio della
produzione giuridica, è perché altri soggetti si sono
via via appropriati di una capacità di creazione del diritto
e hanno invaso uno spazio che prima era di esclusiva pertinenza
dello Stato. Più in generale, al di là del momento
normativo, è l'intera vita del diritto, anche nei suoi
processi di enforcement sociale e istituzionale, ad essere cogestita
da soggetti molteplici, non necessariamente a configurazione
pubblica, che si attivano nella sfera giuridica al fine di produrre
regole o adattamenti di regole acconci alle loro esigenze.Il potere
degli Stati, in altri termini, viene insidiato da numerosi soggetti,
sia pubblici che privati, che si pongono come suoi concorrenti,
perché tendono a sottrargli quote di potere, o attraverso
processi formali o attraverso processi informali. Se gli organismi
sovranazionali, come l'Unione Europea o la World Trade Organization
hanno il loro fondamento in un atto di adesione degli stessi Stati,
e dunque in un atto formale, e restano soggetti a fondamento
pubblico, i mercati e le imprese che li animano, che sono
rigorosamente privati, fanno concorrenza agli Stati senza aver
bisogno di alcun atto formale.
Ma il protagonismo di nuovi soggetti nello scenario giuridico va
letto innanzitutto come un effetto legato alla moltiplicazione degli
spazi della comunicazione giuridica. Tradizionalmente, lo spazio
della giuridicità era tutto occupato dagli Stati, che, nel
proprio territorio, godevano di un monopolio come legislatori. A
ciò corrispondeva uno spazio internazionale che veniva via
via disegnato da alcuni Stati i quali, in accordo con altri Stati,
stringevano patti, accordi e trattati, secondo modalità
registrate dal diritto internazionale. La globalizzazione ci fa oggi
apparire un nuovo spazio, che possiamo definire transnazionale, che
non coincide più con la somma dei territori di alcuni Stati:
questo spazio non ha rigidi confini prefissati, e costruisce di
volta in volta i propri limiti attraverso le comunicazioni che lo
attraversano: sono dunque i flussi comunicativi, ovviamente mobili e
continuamente variabili, che danno misura a questo spazio.
È importante sottolineare questo nesso consustanziale tra lo
spazio transnazionale e i flussi della comunicazione, perché
così appare con chiarezza il carattere dinamico di tale
spazio; in altri termini, con la globalizzazione è nata una
nuova concezione dello spazio, non solo perché esso è
virtuale o potenzialmente infinito, ma anche perché esso
è, per così dire, reattivo: non è destinato a
recepire passivamente qualcosa, ma contribuisce a creare di volta in
volta i caratteri e le regole necessari alla sua stessa esistenza.
Ciò spiega altresì perché le istituzioni della
globalizzazione sono assai diverse da quelle tradizionali,
perché vivono in funzione di questo spazio che è assai
esteso e potenzialmente illimitato, ma al contempo incerto e
precario, come tutti i fenomeni della comunicazione.In questo spazio
emerge una nuova funzionalità del diritto indirizzata alla
comunicazione. Il diritto dello spazio transnazionale mostra una
sorta di mutazione genetica e non è più riconoscibile
nella vecchia foto fatta dai giuspositivisti. Il bisogno di mettere
in connessione giuridica soggetti appartenenti a diversi contesti e
culture spinge il diritto a privilegiare questa finalità, con
conseguente erosione della tradizionale funzione di controllo
sociale. Il diritto diventa una sorta di nuovo jus commune, come una
lingua sovranazionale, che si rifrange in una molteplicità di
dialetti che ognuno parla a suo modo, con le proprie inflessioni e
il proprio accento (v. Ferrarese, 2000).Va tuttavia precisato che il
ritorno a forme di apparente unità del diritto, specie in
alcune aree, sia di diritto privato che di diritto pubblico, non
può intendersi come una vera unificazione del diritto: dietro
l'apparenza dell'unificazione delle regole e degli standard vi
è, in realtà, una molteplicità di diverse
interpretazioni ed applicazioni, che rispecchiano, come si
dirà, storie e contesti diversi.
Lo spazio transnazionale non ricade in alcuna competenza giuridica
territoriale già esistente e mostra una giuridicità
indefinita, ancora in fieri, che si va formando attraverso un
continuo work in progress, con protagonisti e modalità del
tutto nuovi. Esso, a differenza dello spazio statale (e in qualche
modo anche dello spazio internazionale, che ha tradizionalmente
assunto atteggiamenti tendenzialmente mimetici rispetto allo spazio
statale), è contrassegnato da consistenti vuoti giuridici
invece che dall'idea, tipica del giuspositivismo, secondo cui tutto
ciò che era o accadeva sul territorio statale ricadeva sotto
il dominio del diritto o, al limite, di una deliberata scelta di non
renderlo di rilevanza giuridica. Sono proprio questi vuoti che
creano lo spazio per nuove regole, per nuovi soggetti giuridici, per
nuove gerarchie di potere e di prestigio, che non coincidono
più con quelli nazionali.
5. Autori e coautori dell'ordine giuridico
transnazionale
Lo spazio transnazionale non è del tutto privo di regole:
delle regole giuridiche si sono formate e si vanno formando via via
che emergono nuovi bisogni o esigenze legati alla globalizzazione.
Tali regole, che si vanno assemblando a macchia di leopardo,
tuttavia, sono ben lungi dal comporre un corpus organico, completo e
definito: esse costituiscono piuttosto degli abbozzi, in parte
spontanei, di regolazione giuridica per alcune aree di vita
transnazionale, anziché delle sicure guide giuridiche per la
vita transnazionale nelle sue varie espressioni. Né si
può parlare della loro giuridicità in un senso
tradizionale, come derivante dal soggetto che le pone e dalle
modalità attraverso cui vengono poste in essere. Lo stesso
concetto di rule of law, spesso evocato nei dibattiti sul diritto
globale, viene spesso inteso piuttosto come un attributo culturale,
che assicura affidabilità soprattutto per la vita economica,
anziché come un sicuro requisito giuridico.
La formazione e la vita di queste regole è affidata in gran
parte ai soggetti che si attivano per produrle: questi soggetti, di
varia natura, si inseriscono come abitanti autoctoni dello spazio
globale, affermando in via di fatto un proprio ruolo nella creazione
delle norme, o nel cambiamento di quelle esistenti.A differenza
degli organismi internazionali tradizionali, che si avvalgono del
potere degli Stati e intervengono, per così dire, dall'alto,
vincolando precisi territori e attori statali, questi soggetti sono
spesso soggetti privati che intervengono piuttosto dal basso, in
qualità di portatori o rappresentanti di specifici interessi
o valori a dimensione transnazionale, pur non avendo alcuna
competenza o forma di potere ufficiale. Il fatto che questi soggetti
siano spesso privati non vuol dire che siano necessariamente deboli:
al contrario, possono avere una forza superiore a quella di alcuni
Stati: la loro forza può provenire dal potere economico,
com'è nel caso delle grandi imprese transnazionali, le
cosiddette transnational corporations, o dal possesso di una rete di
riferimento e di comunicazione di natura globale, com'è nel
caso delle non governmental organizations (NGOs).
Specie nell'area economica, si è assistito alla produzione di
nuove regole, note come lex mercatoria, che in gran parte consistono
in una rielaborazione continua del diritto contrattuale, e
nell'introduzione di nuovi schemi contrattuali cosiddetti 'atipici'.
Questo corpo di nuove regole è frutto di un processo di
autonormazione degli stessi gruppi economici, proprio come avveniva
nella società medievale, dove le corporazioni dei mercanti
iniziarono questa pratica. La creazione di regole giuridiche per
assecondare la circolazione e gli scambi dei prodotti non vede
tuttavia comparire le imprese direttamente nel ruolo di
legislatrici. Sono piuttosto le grandi transnational law firms,
ossia i grandi studi associati di giuristi esperti in diritto
dell'economia, che accompagnano giuridicamente i percorsi economici
delle imprese, elaborando regole e moduli contrattuali sempre nuovi.
Il modello organizzativo di queste 'imprese del diritto', che
possono contare anche centinaia di giuristi esperti al proprio
interno, è americano. E americano è anche il tipo di
professionalità che esse coltivano: una
professionalità 'imprenditoriale', che non lavora con stile
esegetico sulle norme, ma le rielabora in maniera creativa, al fine
di assecondare nuove esigenze della vita economica o di predisporre
nuove forme di scambio. Questi nuovi "mercanti del diritto" (v.
Dezalay, 1992), mentre agiscono nell'interesse delle imprese, che li
pagano copiosamente per i loro servigi, sono tuttavia organizzati in
forma indipendente, e così riescono a conservare il capitale
simbolico del diritto, con le sue riserve di legittimazione e di
valori di giustizia.
Sono altresì i grandi arbitri internazionali, chiamati a
risolvere le grandi dispute di affari, ad avere nelle proprie mani
gli standard delle decisioni relative alle condotte d'impresa. Anche
in questo caso siamo di fronte a modalità di produzione del
diritto del tutto private, dipendenti dalla 'virtù'
attribuita all'arbitro (v. Dezalay e Garth, 1996) e tuttavia proprio
tale lawlessness, se talora non ha mancato di suscitare
perplessità, appare la qualità principale delle
decisioni arbitrali (v. McConnaughay, 1999).
Come si vede, nello spazio transnazionale si va disegnando una nuova
élite giuridica, a base professionale, la cui
centralità è basata su competenze e
professionalità che sono a misura del processo di
globalizzazione. In primo luogo, essa non è legata a una
specifica cultura nazionale e, pur avendo alle spalle una
familiarità con le istituzioni americane, è in grado
di adattarsi a contesti diversi e di servire esigenze sempre nuove.
In secondo luogo, essa si afferma nella misura in cui si mostra
capace di introdurre nel diritto cambiamenti creativi, in grado di
assecondare le relazioni di scambio, attraverso nuove regole: essa,
in altri termini, si richiama a una funzione che è in certo
senso antitetica rispetto a quella tradizionale, di salvaguardia
della continuità delle regole. In tal senso, questa
élite transnazionale è parte di nuove gerarchie e di
nuovi assetti giuridici che non coincidono più con quelli
nazionali, non solo perché perdono quelle coordinate
prevalentemente statali che li caratterizzavano nel passato, ma
anche perché rispondono a una logica di 'realizzazione'
piuttosto che ad una logica di 'ascrizione' (v. Parsons, 1951; tr.
it., pp. 108 ss.).
Le grandi imprese transnazionali fanno concorrenza giuridica agli
Stati e si candidano a coautrici dell'ordine giuridico globale,
oltre che avvalendosi delle law firms, anche in altri modi
più diretti, se pure di difficile percezione. Innanzitutto,
il loro stesso modo di essere, la loro dimensione transnazionale, il
non appartenere più ad uno spazio giuridico predeterminato,
le mette in condizione di non dipendere più da un sistema
giuridico e di guardare ai diversi sistemi giuridici come a oggetti
tra cui poter scegliere in funzione dei propri interessi. Ciò
significa altresì che esse hanno un non trascurabile potere
di indurre i paesi che vogliono promuovere il loro insediamento ad
adottare standard di legalità adatti alla produzione
capitalistica, a partire dalla tutela del diritto di
proprietà fino a tutte quelle libertà di espressione,
di pensiero e di parola che accompagnano il mercato.
Un secondo modo che rende le imprese coautrici dell'ordine giuridico
è attraverso la produzione stessa di merci, siano esse
materiali o immateriali. Ad esempio, un oggetto prodotto dal
mercato, come un oggetto elettronico, o un frutto geneticamente
manipolato, contiene un rinvio implicito alla legittimità di
quel prodotto. Tale legittimità può essere
problematica, contestata e persino negata in uno o più Stati,
ma dal momento in cui quella merce esiste, con la sua seduzione di
oggetto di consumo, e appare in una delle vetrine della
comunicazione globale, non mancherà di sfidare la
prescrizione giuridica che la tiene al bando dei confini nazionali.
Ancor più evidente appare questa sfida nel caso di una merce
immateriale come Internet, ossia di una modalità di
comunicazione mediata da una specifica tecnologia del mercato, che
può, ad esempio, introdurre pornografia in uno Stato che la
vieta, o reclamizzare un prodotto che è illegale, o
permettere comunicazioni con uno Stato con cui si è in
guerra.Le imprese, dunque, attraverso le loro tecnologie e le loro
merci, diventano produttrici di modelli di vita e di
identità, di stili di esistenza, di modalità
comunicative estremamente pervasivi.
Nella misura in cui il capitalismo globale si atteggia sempre
più a capitalismo 'culturale', ossia mira non più solo
a produrre oggetti di consumo ma piuttosto, attraverso questi, a
gestire la sfera dell'identità dei soggetti, le grandi
imprese transnazionali si pongono come le più importanti
istituzioni del futuro. Ciò significa altresì che esse
diventano non solo autrici dell'ordine economico globale, ma anche
coautrici dell'ordine giuridico globale.Se i nuovi soggetti
giuridici fin qui enumerati gravitano nell'orbita delle imprese e
dunque della logica del profitto, le non governmental organizations
sono invece al di fuori di questa logica: esse sono portatrici,
nella sfera globale, di cause non profit e di valori, e sono
indirizzate a fini di giustizia, di filantropia, di tutela dei
deboli e dei diseredati del mondo, o di salvaguardia e tutela
dell'ambiente. Esse possono perseguire un fine specifico, ad esempio
lo sminamento degli ex territori di guerra, o la tutela dei bambini
abbandonati, o possono battersi per fini di ampia portata, come la
tutela dell'ambiente, ma in ogni caso le caratterizza un intento
'militante'. I loro fini, avendo dimensione transnazionale, non si
prestano più a essere perseguiti localmente.
Alla luce delle interdipendenze globali, cambiano infatti non solo i
termini dei problemi, ma anche gli interlocutori. Altrettanto
caratterizzante per le NGOs è la loro natura non statale, che
le fonda su risorse di mobilitazione e di iniziativa private.In che
senso queste organizzazioni sono anch'esse coautrici dell'ordine
giuridico mondiale? Esse possono agire in vari modi, con vari
alleati e contro vari bersagli, per promuovere regole, accordi e
trattati che agevolano le loro cause. Esse possono avere come
interlocutori sia uno o più Stati, sia un'impresa o un gruppo
di imprese. Soprattutto questa seconda contrapposizione appare di
grande interesse: in un mondo che sembra avviato a subire una
pesante egemonia della logica economica, sono queste organizzazioni
private a rappresentare una possibilità di contraddittorio.
Anche se, per il loro carattere casuale e instabile, per
l'insufficienza di mezzi, per la limitatezza degli obiettivi che
possono perseguire, esse sembrano difficilmente in grado di
candidarsi a veri e stabili contropoteri. Le transnational
corporations agiscono ormai in troppe sfere, e hanno una tale
capacità di penetrazione capillare nella società
mondiale, per prestarsi ad essere adeguatamente contrastate o
bilanciate da questi nuovi soggetti privati transnazionali.
6. Policentrismo istituzionale
Com'è emerso da questa pur breve e incompleta
enumerazione di soggetti della sfera giuridica, con la
globalizzazione si va disegnando un paesaggio istituzionale
complesso, caratterizzato da decentramento e policentrismo.
Poiché lo spazio transnazionale non ha barriere all'entrata,
si possono dare sempre nuovi attori e sempre nuove modalità
di accesso, ma anche sempre nuove modalità di interazione.
Così, alle solenni costruzioni statali si sono via via
affiancate numerose altre presenze private, che contendono loro
spazio e centralità. La privatizzazione dunque coincide con
un sensibile decentramento istituzionale.La globalizzazione tende a
rifuggire da organizzazioni di tipo centralistico e sistematico e le
sue istituzioni sono molteplici e concorrenti, piuttosto che
distribuite secondo un ordine gerarchico. Lo stesso diritto globale
segue percorsi centrifughi: la cosiddetta lex mercatoria, ad
esempio, avendo nel contratto il suo strumento essenziale, si
presenta tipicamente con un centro poco sviluppato e cresce
piuttosto nelle periferie, via via che 'regole paralegali' vengono
elaborate 'ai margini del diritto', laddove esso confina con il
processo economico e tecnologico (v. Teubner, 1998). Ma, anche al di
là del diritto privato, nello stesso diritto pubblico
transnazionale, la tendenza a utilizzare strumenti di tipo
contrattuale, come trattati e negoziati, è assai diffusa.
Il policentrismo trova inoltre espressione nella tendenza a un
universo istituzionale caratterizzato non solo da un più alto
numero di soggetti, secondo la dinamica tipica che accompagna ogni
caduta di monopolio, ma anche da una più ampia varietà
di tipologie di attori rispetto al quadro tradizionale. Il numero
degli attori non è individuabile con certezza, perché
lo spazio transnazionale è uno spazio incerto, che si
costruisce ogni volta in funzione di specifici obiettivi e di
specifiche forme di comunicazione, e dunque resta inevitabilmente
aperto e tollera sempre nuove immissioni. Ma anche il carattere
degli attori istituzionali non è predeterminato e si
può dare una notevole varietà di tipologie. Numero e
qualità dei soggetti contribuiscono a creare un paesaggio
istituzionale variato e policentrico, con dinamiche molteplici.
Alcuni esempi possono essere illuminanti.Gli attori istituzionali
dello scenario transnazionale possono essere, come si è
detto, sia pubblici che privati. Accanto agli Stati, istituzioni
pubbliche per eccellenza, si possono trovare, ad esempio, soggetti
privati per eccellenza, come le grandi imprese transnazionali. Anzi
proprio questi due attori così diversi interagiscono di
frequente, specie per 'contrattare' le condizioni di un insediamento
industriale o commerciale, o per coordinare piattaforme di accordi
internazionali. Ad esempio, uno Stato può concedere sostegni
e infrastrutture in cambio di investimenti economici che danno
occupazione e sviluppo. Oppure, un'impresa può chiedere a uno
o più Stati di portare negli organismi internazionali di cui
sono parte istanze o richieste di condizioni giuridiche favorevoli.
Come si vede da questi esempi, soggetti pubblici e privati
contrattano tra loro e si influenzano reciprocamente. Più in
generale, si assiste a una significativa ibridazione, specie nelle
istituzioni transnazionali, tra carattere pubblico e carattere
privato.
Ciò può essere inteso in vari sensi. Innanzitutto nel
senso che le istituzioni pubbliche assumono connotazioni, caratteri
e moduli di azione propri della sfera privata. Ad esempio, gli Stati
accedono a considerazioni di opportunità e di convenienza
economica, inseguono moduli ispirati alla concorrenza, persino
all'efficienza. Per converso, anche i soggetti e le organizzazioni
private internazionali tendono ad assumere connotazioni,
responsabilità e forme di comunicazione pubbliche.Più
in generale, specie nella sfera transnazionale, il carattere
pubblico e il carattere statale non coincidono più
necessariamente e si assiste alla tendenziale mescolanza tra il
linguaggio degli 'argomenti', ossia dei valori, e il linguaggio
della 'negoziazione', ossia degli 'interessi', in maniere e in forme
in precedenza sconosciute specie in Europa (v. Elster, 1993). In
secondo luogo, gli attori istituzionali transnazionali possono
essere mossi da alti valori di giustizia, di solidarietà, di
difesa della pace, ma possono anche essere indirizzati innanzitutto
al profitto. Questa distinzione non coincide con quella precedente
perché, ad esempio, le NGOs, che sono spesso animate da cause
di alto valore morale, e sono dunque rigorosamente non profit, sono
altresì rigorosamente private: anzi, come si è detto,
il loro carattere privato è fondante per la loro
identità.Infine, le istituzioni transnazionali possono avere
competenze giuridiche o essere del tutto prive di caratteri
giuridici e tuttavia svolgere un ruolo significativo nell'arena
giuridica globale.
Ad esempio, le transnational law firms e i grandi avvocati e arbitri
internazionali, pur avendo carattere privato, sono pur sempre
soggetti con formazione e competenze giuridiche, se pure ritagliate
su scala globale piuttosto che con riferimento privilegiato a uno
Stato. Essi pertanto sono portatori di una specifica forma di sapere
che è un frutto, sia pure rinnovato e moderno, di una lunga
tradizione e dei suoi presupposti. Al contrario, le associazioni
transnazionali private, dette NGOs, attive nei più svariati
campi e per le cause più diverse, non hanno alcuna qualifica
giuridica. Ma, pur non avendo un interesse di natura direttamente
giuridica, esse tendono a intercettare il processo giuridico
transnazionale o nella fase di formazione delle regole, o nella fase
di esecuzione delle stesse, attraverso varie forme di litigation,
facendo sentire le proprie indicazioni, preferenze o
necessità. Esse finiscono così per svolgere, con
riferimento al proprio ambito di riferimento, un ruolo di
'guardiani' nell'ordine giuridico transnazionale, denunciando le
inosservanze tanto degli Stati, quanto delle corporations o di altri
soggetti, sia alla pubblica opinione mondiale che a veri e propri
organismi giurisdizionali internazionali.
7. Pragmatismo istituzionale
Parlando di pragmatismo delle istituzioni si intende qui far
riferimento a uno stile istituzionale che rifugge dall'aderenza a
moduli rigidi e prefissati e che sceglie di volta in volta la
propria fisionomia in funzione degli obiettivi che si vogliono
perseguire o di circostanze, situazioni o luoghi diversi. Le
istituzioni pragmatiche sono in antitesi con il formalismo: il
formalismo presumeva infatti di racchiudere i percorsi della
realtà entro norme e istituzioni rigide, che non lasciassero
spazio alla discrezionalità e alla scelta. Si suole in
proposito parlare della flessibilità come di un attributo
richiesto dalla globalizzazione (v. Sennett, 1998). Ma si preferisce
qui parlare di pragmatismo, per mettere meglio a fuoco non solo gli
attributi, ma anche le cause e i fini delle istituzioni
'flessibili'.Il pragmatismo (v. Santucci, 1992), corrente filosofica
sorta nella seconda metà del secolo scorso negli Stati Uniti,
interpretò lo spirito irrequieto della modernità
industriale e l'ispirazione sperimentalista che lo sostiene. Una
delle acquisizioni di questa scuola fu la teorizzazione del
vantaggio conoscitivo di moduli di azione sperimentali e soggetti a
continua convalida rispetto a moduli di azione rigidi e prefissati
in quanto rispondenti a ideologie o credenze assolute. Del resto,
sul suolo americano aveva già trovato applicazione, in varia
guisa, l'idea di un sistema istituzionale aperto alla
sperimentazione e alla concorrenza. Ad esempio, attraverso
l'organizzazione federale, l'idea di una concorrenza tra le
istituzioni era quasi esplicita. E nella stessa struttura giuridica,
la tradizionale prevalenza della common law aveva poi trovato nella
legislazione quasi una sfida di tipo concorrenziale.
Su questo terreno, l'approccio filosofico del pragmatismo
completava, anche in termini teorici, l'idea di uno sviluppo di tipo
evolutivo, che bandiva l'aderenza a progetti e idee assoluti e si
affidava alla concorrenza tra le varie forze in gioco. Ora, questo
indirizzo di pensiero, che ebbe significative ripercussioni anche
sul pensiero giuridico attraverso l'influente voce di O. W. Holmes,
sembra ispirare un'idea di diritto e uno stile istituzionale che
sono assai distanti dal nostro normativismo. Si pensi al principio
del learning by doing, che sembra interpretare il nesso tra
conoscenza e azione secondo questa scuola. Vi sono almeno tre
conseguenze insite in tale principio, che è utile
osservare.Innanzitutto, tale principio suggerisce l'idea di un
inesausto sperimentalismo, di una continua variabilità dei
moduli di azione: è proprio assicurando una ininterrotta
capacità di autocorrezione, sulla base dell'esperienza, che
ci si può approssimare al fine perseguito o capire di volta
in volta a che distanza si è da esso. Lo sperimentalismo non
è un modo di procedere alla cieca, ma è anzi la sola
possibilità di avvicinarsi ai propri fini, così come
alla verità o alla giustizia. In secondo luogo, esso
suggerisce una visione economica delle scelte di azione: ogni scelta
comporta perdite e guadagni che si possono confrontare con quelli
che deriverebbero da scelte alternative. Solo adottando queste
strategie di calcolo si ha una scala di confronto certa, non
soggetta ad apriorismi e ideologie. Questa visione economica
può essere adottata per qualunque tipo di azione, sia essa
economica o indirizzata ad affermare un valore: in ogni caso, ci si
può avvicinare alla meta abbassando i costi. In terzo luogo,
lo sperimentalismo suggerisce l'idea che ogni azione sia esposta al
rischio e alla possibilità di errore. L'errore, piuttosto che
essere visto come qualcosa da evitare e bandire, fa parte delle
possibilità da sperimentare.
Solo includendo il rischio nell'orizzonte dell'azione ci si
può spingere a mete più elevate: le opportunità
valgono più dei rischi. Ciò significa la dissoluzione
di ogni forma di certezza assoluta e un'accettazione convinta della
concorrenza, in ragione dei benefici delle sue spinte. Affidare le
istituzioni globali a una ispirazione pragmatista significa dunque
accettare questo triplice ordine di conseguenze. Entra in crisi
l'idea di un disegno istituzionale rigido, congegnato in astratto,
che si presume completo e perfetto: le istituzioni rispondono
piuttosto a schemi che non sono interamente definiti, e contengono
la possibilità di itinerari diversi, che verranno via via
decisi sul campo, in funzione di circostanze, fini e contesti
diversi. Si pensi al principio di 'sussidiarietà', il quale,
suggerendo che le istituzioni si collocano più in alto solo
laddove più in basso non trovano spazio, riproduce
perfettamente questa logica, tracciando la possibilità di
varie distribuzioni di pesi istituzionali a seconda delle specifiche
condizioni di un dato territorio.Si può altresì
parlare di una 'fattualità' delle istituzioni globali, in
quanto i loro percorsi, così come i loro comportamenti,
vengono in parte affidati all'esperienza. Essi pertanto non sono mai
del tutto completi e vengono continuamente adattati, in funzione di
condizioni, contesti e obiettivi cangianti. Le istituzioni
transnazionali tendono a essere fattuali innanzitutto perché
sono 'globali', ossia rispondono alla finalità di connettere
adeguatamente le specificità di contesti particolari con la
generalità dello spazio globale; perché esse
funzionino, occorre dunque che si affidino anche a quella
fattualità che deriva dall'aderenza a particolari contesti:
se una parte delle regole è già radicata in questi
contesti, ciò implica un funzionamento più agevole. Le
istituzioni nate nello spazio transnazionale, e dunque non legate ad
alcun particolare territorio, sono in un certo senso senza storia,
ma, radicandosi in luoghi specifici, contraddistinti da proprie
culture e da consolidati abiti mentali, inevitabilmente entreranno
in relazione con queste specificità e con il loro sostrato
storico.
La fattualità si esprime sia come interpenetrazione tra il
sistema degli interessi e il sistema normativo, sia come intreccio
di norme giuridiche e di norme sociali, e in entrambi i casi
può essere sia un'opportunità, persino in senso
economico, che un rischio. Il sistema giuridico può stabilire
diversi tipi di rapporto con gli interessi: ad esempio, nella
tradizione europea, gli interessi, pur essendo riconosciuti in varie
forme e modalità nel sistema giuridico, non hanno mai avuto
una legittimazione a interagire con l'organizzazione giuridica,
com'è invece avvenuto negli Stati Uniti. Qui la differenza
è data proprio da un sistema giuridico che è sempre
rimasto esposto agli interessi, non solo attraverso le maglie della
common law, che è tipicamente un diritto 'dal basso', ma
anche nella sua espressione legislativa, che risponde a una
concezione open door, e persino nella sfera del diritto pubblico e
amministrativo. Le istituzioni globali tendono ad avvicinarsi a
questa seconda concezione, mantenendo un nesso più diretto e
aperto con gli interessi. In tal modo, esse cercano di evitare
contrapposizioni inutili e di arrivare a fruttuose sinergie tra
perseguimento degli interessi e percorsi istituzionali. Il rischio
è che le istituzioni possano essere 'catturate' dagli
interessi o che le regole, troppo esposte alle dinamiche di mercato,
producano 'un mercato delle regole'.Sul nesso tra vincoli formali e
vincoli informali è illuminante il contributo di D. North,
economista di scuola neoistituzionalista, che insegna a guardare
alle istituzioni proprio in termini di 'regole del gioco', ossia
come insiemi dinamici di norme esplicite e vincoli impliciti (v.
North, 1990): è solo questa tessitura invisibile ma continua,
che si costruisce in maniera diversa in ogni società, a dare
compiutamente senso al sistema normativo.
Con la globalizzazione, questo intreccio acquista anche maggiore
importanza e spiega perché l'emanazione delle stesse regole
globali non basta a omologare società e paesi che hanno
diversi sistemi di regole informali. Le differenze tra paesi
sviluppati e paesi meno sviluppati sono destinate a sopravvivere.
Solo laddove le regole formali trovano un sostegno nei vincoli
informali, esse possono affermarsi a basso costo; se la loro
affermazione è ostacolata da vincoli informali che le
contrastano, e genera eccessivi costi di transazione, vinceranno i
vincoli informali. Questi ultimi hanno dunque una doppia faccia:
possono facilitare i percorsi delle istituzioni, abbassandone i
costi, o possono innalzare tali costi fino a sfidare l'efficacia
stessa delle istituzioni.
8. Ingegnerie sociali del diritto: dalle norme
alle regole del gioco
La stessa dinamica istituzionale che è stata appena descritta
si vede in atto anche con riferimento alle unità di misura
del diritto. Per i sistemi giuridici tradizionali, di concezione
normativista, l'unità di misura era costituita dalle norme.
Nei termini di Kelsen (v., 1979), la norma, in quanto comando, era
espressione di un diritto essenzialmente a carattere sostanziale,
che cioè imponeva o vietava un preciso modello di azione.
Forse non è del tutto inutile notare come il termine norma,
che trova una perfetta corrispondenza nelle lingue dei paesi di
cultura giuridica continentale, non abbia invece alcun radicamento
nei paesi di lingua inglese e specie negli Stati Uniti, dove si
parla piuttosto di legal rules.
Ora, al contrario della norma, il concetto di regola ha un immediato
riferimento di carattere procedurale, poiché rimanda
prevalentemente a griglie di condotta all'interno delle quali
è possibile esperire diversi comportamenti. Quindi, il fatto
che le unità del sistema giuridico siano le regole
anziché le norme, suggerisce una diversa consistenza del
sistema giuridico, che è di carattere prevalentemente
procedurale anziché sostanziale. Cogliere questa
diversità è importante al fine di comprendere
l'evoluzione giuridica oggi in atto: specie il diritto globale tende
a essere non più un tessuto a maglie strette, com'era con le
norme, ma un tessuto a maglie larghe, costituite dalle regole. Il
diritto, in quanto predispositore di regole, rimanda ovviamente a un
diverso tipo di Stato: lo Stato 'regolatore' è uno Stato che
rinuncia a imporre stringenti modelli di condotta e si accontenta di
costruire delle corsie lungo le quali i soggetti possono
procedere.Il diritto globale tende dunque ad assumere moduli
procedurali piuttosto che sostanziali, e dunque a perdere sostanza,
diventando una silhouette, un profilo, uno schema: consistendo in
regole, che sono un mix di vincoli e di libertà d'azione,
diventa più leggero, meno autoritario. Le regole sono vincoli
per l'azione, ma non vincoli che dettano completamente il contenuto
dell'azione. Esse piuttosto preludono a molteplici
possibilità di azione. In tal senso, un diritto basato su
regole, anziché su norme, è un diritto che si apre ad
apporti e opzioni che provengono anche dai soggetti destinatari.
Ciò vuol dire che il diritto diventa una sorta di impresa
collettiva, che acquista senso non solo in rapporti verticali,
basati sull'autorità, ma anche in rapporti di carattere
orizzontale tra vari soggetti. I rapporti di autorità
sottintesi dalle norme non lasciano opzioni ai soggetti, se non
quella tra l'osservanza e l'inosservanza. Il soggetto non può
spingere le proprie opzioni al di là di questo limite.
Viceversa, quando prevalgono le regole, queste fissano dei recinti
entro i quali i soggetti possono esprimere le proprie opzioni.Norme
e regole presuppongono due forme diverse di agire rispettivamente
ispirate a una razionalità 'parametrica' e ad una
razionalità 'strategica' (v. Magri, 1994), per usare termini
e concetti propri della teoria dei giochi. I soggetti che usano una
razionalità parametrica si confrontano con conseguenze
dell'azione che sono definite dall'esterno e sulle quali il loro
intervento è ininfluente. Ad esempio, il soggetto di diritto,
secondo la concezione kelseniana, può decidere di osservare o
non osservare la norma, ma in entrambi i casi le conseguenze sono
predefinite ed egli non può modificare né la norma
né le sue conseguenze. Un soggetto che agisce con
razionalità strategica si rapporta invece a un contesto di
interdipendenza con altri attori razionali e decide, tenendo conto
delle regole, volta per volta la propria condotta, cercando di
massimizzare le sue utilità. Ciò significa che i
soggetti, con le regole, contribuiscono continuamente a ridisegnare
l'ambiente normativo intorno a loro, e quindi si vanifica l'idea di
un ordine normativo interamente scritto nelle norme e definito a
priori.
La differenza appare più chiaramente quando si pensi alle
regole giuridiche come 'regole del gioco': queste esistono non per
se stesse, ma in quanto servono a strutturare il gioco e a definire
i modi in cui esso può essere giocato (v. Huizinga, 1951).
Regola e gioco si sostengono a vicenda e, in un certo senso, l'una
non può esistere senza l'altro e viceversa: il gioco non
esiste se non all'interno di regole, ma le regole, a loro volta, non
hanno senso se poi qualcuno non dà luogo a un
gioco.Perché il diritto del mondo globalizzato tende a subire
questo cambiamento di paradigma? Si può pensare che questo
cambiamento derivi innanzitutto da una minore forza normativa in
capo a soggetti statali o sovranazionali, che preferiscono ricorrere
a moduli regolativi più elastici e meno autoritari. Ad
esempio, gli organi comunitari ricorrono a forme di diritto
cosiddette soft, fatte di direttive, raccomandazioni, linee-guida,
non certo a rigide norme.Vi è inoltre una minore convenienza
a emanare norme perché queste sono fatte per società
culturalmente compatte o sufficientemente uniformi: esse mancano
infatti di quel livello di elasticità che è invece
necessario per affrontare le diversità di un mondo
pluralistico (v. Habermas e Taylor, 1998). Né va trascurata
una tendenza degli stessi soggetti pubblici, anche sovranazionali, a
comportarsi come soggetti 'razionali', ricorrendo a moduli di azione
strategica nei rapporti con altri Stati o nelle scelte di governo
(v. Gruber, 2000).Più in generale, oggi si tende a parlare di
diritto 'fluido', 'debole', 'mite', 'liquido', 'ibrido', come per
indicare il suo distacco dal mondo delle norme, per assolvere
soprattutto a finalità comunicative: un diritto strutturato
come insieme di 'regole del gioco' tende ad incrociare meglio le
diversità di opzione e di atteggiamento che derivano da un
mondo complesso e pluralistico, in cui i significati delle regole
navigano in un contesto comunicativo fluido ed esteso, qual è
quello transnazionale.
9. La globalizzazione e la sfera del 'dover
essere'
Nell'attuale crisi della concezione assolutistica degli Stati, va
notato un paradosso: questa concezione era figlia dell'idea che ogni
Stato, al proprio interno, fosse signore e padrone delle proprie
decisioni giuridiche, e che nessun controllore potesse erigersi a
sindacarle. Vi era, nel potere dello Stato, qualcosa di simile a
quello del proprietario privato, che, come insegnano i classici del
liberalismo, nella sua casa non è soggetto ad alcuna
supervisione o limitazione di libertà. Questa logica
fondamentalmente 'proprietaria' non impedì che gli Stati
europei divenissero la culla dello jus publicum, pur nell'assenza
del riconoscimento di una razionalità sovrastatale a cui
fosse necessario attingere.Così, mentre gli Stati hanno
costituito un aspetto importante del processo di modernizzazione,
fissando le garanzie giuridiche e una griglia certa di diritti e
doveri, per un altro verso essi hanno continuato a racchiudere il
germe di una vecchia logica delle appartenenze, cosicché gli
stessi sistemi giuridici e gli organigrammi dei diritti risentivano
vistosamente del collocamento in uno Stato piuttosto che in un
altro. Sotto questo profilo, fu più 'moderna' la riflessione
filosofico-giuridica settecentesca, con le sue inclinazioni
giusnaturalistiche, e intenta, specie con Kant, a indagare la
possibilità di un ordine giuridico di tipo cosmopolita.
Rispetto a queste aperture, la scienza ottocentesca degli Stati
appare richiudere gli spazi della riflessione e del diritto. Oggi,
con la potenza comunicativa che è propria della
globalizzazione, vengono in evidenza nuove tendenze all'unificazione
del pensiero giuridico, al ritrovamento di una radice comune o di
una comune ispirazione del diritto e dei diritti, che tendono a
emanciparsi dall'appartenenza statale.
Abbiamo già visto in atto una sfida ai diritti statali in
quella lex mercatoria che viene guidata dalla razionalità
economica delle grandi imprese transnazionali: questa è una
sfida dal basso, che travalica i confini statali in via di fatto,
senza particolari clamori, configurando infiniti "diritti delle
possibilità" basati sulle potenzialità dello schema
contrattuale (v. Ferrarese, 2000). Ma la sfida che si pone dall'alto
agli Stati e ai diritti statali è ben più visibile e
clamorosa: essa tende a produrre un sistema di vincoli e di norme
per gli stessi Stati, a metterli di fronte a nuove forme di 'dover
essere', a un "diritto della necessità", che chiede
ubbidienza (v. Ferrarese, 2000). In altri termini, va crescendo nel
mondo un sistema di produzione di vincoli esterni agli Stati, che si
radicano in una razionalità di pace o di giustizia o di
salvaguardia dei diritti fondamentali o di tutela del patrimonio
ambientale, inteso come patrimonio dell'intera umanità. Con
un paradosso significativo: quella normatività che, con la
globalizzazione, è in crisi nel rapporto tra governanti e
governati all'interno degli Stati, trova una riaffermazione proprio
nello spazio transnazionale: una riaffermazione clamorosa in quanto
tende a imporsi proprio a quegli Stati che erano esenti da qualunque
controllo e che non riconoscevano alcuna entità superiore.
Per la verità, potrebbe sembrare che non vi sia nulla di
nuovo sotto il sole: in fondo, è stata la civiltà
illuminista a parlare di diritti universali e già Kant, nel
suo Per la pace perpetua, sosteneva che si fosse giunti a un punto
in cui "la violazione di un diritto avvenuta in un punto della terra
è avvertita in tutti i punti". Quello odierno potrebbe dunque
essere un semplice ritorno a un pensiero e a un progetto maturati
nella temperie dell'illuminismo giuridico, oltrepassando quei muri
statali che la cultura giuridica ottocentesca aveva innalzato. Ma,
com'è noto, la storia, anche quando sembra riproporsi, si
ripropone sempre in forme nuove e mutate. Ed è il carattere
nuovo di questo apparente giusnaturalismo della globalizzazione che
occorre cogliere.Allora, in che senso si può parlare oggi di
una nuova normatività transnazionale? E quali soggetti
istituzionali potrebbero farsene portatori?La centralità dei
mezzi di comunicazione di massa, l'enorme facilità di
diffusione dell'informazione possono costituire con grande
rapidità un uditorio globale. Un uditorio globale è
cosa ben diversa dall'opinione pubblica settecentesca di cui parlava
Habermas (v., 1998) e sono in tanti oggi a denunciare l'assenza di
un'opinione pubblica mondiale. Ciò non toglie che un uditorio
mondiale abbia una sua forza e una sua potenza, per quanto precarie
e passeggere queste possano essere. Questa forza potenziale è
una sfida virtualmente sempre aperta contro gli Stati e i loro
governanti, ma appunto, è affidata in forme precarie e
incerte alla comunicazione globale.Quando si parla di
normatività, tuttavia, si intende qualcosa di più e di
diverso da questa aumentata capacità di controllo sociale
globale sui governi statali. La normatività si avvale
innanzitutto di norme certe a cui dare enforcement.
Ma soprattutto di un apparato sanzionatorio da poter mettere in
opera per punire l'avvenuta inosservanza delle norme. Si tratta di
due caratteri di cui si può difficilmente disporre nella
sfera internazionale, dove manca un soggetto fornito di potere e
autorità confrontabili con quelli tradizionalmente di
pertinenza statale: essendo il diritto internazionale fondato
proprio sul presupposto della sovranità degli Stati, sono
questi, in ultima istanza, i veri gate-keepers delle sue norme e
della loro applicazione. Infatti, in materia di giustizia
internazionale sono ben note le insolvenze, dovute a uno statuto da
sempre fragile del diritto internazionale. Bobbio (v., 1990),
d'altra parte, ha messo in guardia sulla fragilità dei
diritti: questi si prestano molto bene a essere oggetto di solenni
dichiarazioni, ma si rivelano assai precari quando vengono davvero
violati e disattesi, specie se a violarli sono proprio gli Stati.A
maggior ragione, i caratteri della normatività diventano
problematici nell'arena transnazionale, che ha confini, soggetti e
pertinenze assai meno definiti. Tuttavia, quello che oggi osserviamo
è che nella sfera transnazionale si vuole andare oltre il
livello delle dichiarazioni dei diritti e dei 'progetti filosofici',
imitando i tratti della normatività con maggior zelo che
nella sfera internazionale, proprio nell'intento di perseguire la
lesione dei diritti umani, o della pace, della giustizia e
dell'ambiente.
Ed è l'istituzione giudiziaria che appare candidata a
svolgere un ruolo centrale nell'affermazione di questa nuova
normatività, una istituzione non a caso dotata di quel
carattere 'qui ed ora' che è particolarmente affine alla
globalizzazione. Per la prima volta nella storia, ad esempio, noi
assistiamo alla nascita di organismi di giustizia internazionale
permanenti per punire i crimini contro l'umanità (v.
Robertson, 1999). E per la prima volta nella storia i giudici di una
nazione hanno osato perseguire governanti di un'altra nazione,
com'è avvenuto nel caso Pinochet.L'intento di perseguire
crimini e ingiustizie, tuttavia, paradossalmente procede non come
naturale conseguenza di un sistema normativo certo, ma proprio in
assenza di quelle norme sostanziali e procedurali che gli darebbero
senso, misura e fondamento. Questa assenza appare vistosa specie
agli occhi del penalista, che è abituato a requisiti di
legalità e tassatività delle norme piuttosto
stringenti, per ottemperare a esigenze di garantismo (v. Illuminati
e altri, 2000). Sembra realizzarsi così, nell'arena
transnazionale, una strana normatività, per così dire,
a posteriori, indirizzata più a fini di giustizia che di
rispetto della legalità, quasi una sorta di
normatività senza legalità.