Enciclopedia delle Scienze Sociali (1993)
di Alessandro Roncaglia, Paolo Sylos Labini
Economia
Sommario: 1. Le basi concettuali
dell'economia: l'oggetto e il metodo. L'economia e la storia.
L'economia e le altre scienze sociali. 2. Gli sviluppi della
riflessione economica. a) L'economia preclassica. b) La
nascita dell'economia politica: William Petty. c) L'economia
politica classica: Adam Smith. d) David Ricardo. e) Karl
Marx. f) Il marginalismo. g) La scuola austriaca.
h) Dalla statica alla dinamica. i) Joseph Schumpeter e
lo sviluppo ciclico dell'economia. l) Max Weber, la
sociologia e il processo di burocratizzazione. m) John
Maynard Keynes e la disoccupazione di equilibrio. 3.
Il dibattito contemporaneo. a) La sintesi neoclassica. b) Monetaristi
e teorici delle aspettative razionali. c) I
postkeynesiani. d) L'offerta di moneta in Keynes e nei
monetaristi. e) Piero Sraffa. 4. L'analisi dinamica.
a) Diversi tipi di modelli; il processo di meccanizzazione.
b) Le variazioni di lungo periodo dei salari e dei prezzi.
c) Il sottosviluppo. d) I problemi dell'ambiente e
lo sviluppo sostenibile. 5. Considerazioni conclusive.
1. Le basi concettuali dell'economia: l'oggetto e
il metodo. L'economia e la storia.
L'economia e le altre scienze sociali
Su quali siano l'oggetto e il metodo dell'economia, esistono oggi e
sono esistite in passato opinioni diverse. Per questo non cercheremo
di fornire una definizione esatta di questo campo di studi, ma
piuttosto di delineare in estrema sintesi le concezioni che si sono
succedute nel tempo e quelle che sono presenti nel dibattito di
oggi. Prima di imboccare questo sentiero, tuttavia, proveremo a
fornire alcune indicazioni generali sul campo di lavoro degli
economisti e sui suoi rapporti con le altre scienze.
Gli economisti hanno di fronte una realtà complessa e in
continuo movimento. Da questa isolano alcuni aspetti che assumono a
oggetto del loro lavoro d'analisi; quindi procedono alla costruzione
di teorie, introducendo ipotesi semplificatrici per isolare quelli
che ritengono i principali elementi del problema che intendono
affrontare. Le differenze tra i vari approcci dipendono dalle scelte
compiute in questo processo di astrazione, e particolarmente da
quelle compiute nella sua prima fase.
Possiamo distinguere per quest'aspetto due impostazioni di fondo,
radicalmente diverse, sulle quali torneremo in dettaglio più
avanti: l'impostazione degli economisti classici e quella degli
economisti marginalisti.
Secondo la concezione classica, prevalente nel periodo della nascita
dell'economia come scienza e fino alla seconda metà
dell'Ottocento, l'economia politica riguarda l'organizzazione di una
società caratterizzata dalla divisione del lavoro e dallo
scambio di merci tramite il mercato; si tratta quindi di una scienza
sociale, che studia questioni quali la distribuzione del reddito o
il ritmo di accumulazione del capitale.
Secondo la concezione marginalista, affermatasi a partire dagli
ultimi decenni dell'Ottocento, il problema economico coincide con
quello del calcolo razionale: come ottenere il massimo risultato in
presenza di un dato ammontare di risorse disponibili; si tratta
quindi di un problema logico, in quanto tale suscettibile di
trattazione matematica (come problema di massimo - o minimo -
vincolato), e che come tutti i ragionamenti assiomatici risulta
'astorico', nel senso che la struttura dell'analisi - il complesso
delle cosiddette leggi economiche, o più precisamente dei
teoremi di base - non cambia quando ci si riferisca a società
lontane fra loro nel tempo e nello spazio e radicalmente diverse fra
loro quanto ad assetto istituzionale.
L'economista austriaco Joseph
Schumpeter (1883-1950) distingueva tre fasi principali nel
lavoro dell'economista: la fase della 'visione preanalitica', che
suggerisce i problemi da studiare e, almeno nelle grandi linee, il
modo in cui iniziare ad affrontarli; la fase della
'concettualizzazione', in cui si tenta di 'razionalizzare' la
complessa realtà che ci si trova di fronte creando categorie
mentali che permettono di eliminare dalla scena - di astrarre da -
gli aspetti secondari, concentrando l'attenzione sulle
caratteristiche distintive considerate più rilevanti (come
accade, appunto, con i concetti di salario, rendita, profitto);
infine, la fase della 'teorizzazione' vera e propria, in cui si
collegano in strutture logiche - in modelli - gli elementi
identificati nella fase precedente.
Le differenze tra approcci economici come quello classico e quello
marginalista cui si accennava sopra vengono spesso discusse
considerando solo l'ultima delle tre fasi di lavoro di cui parla
Schumpeter, cioè i modelli teorici che costituiscono il
risultato ultimo della ricerca economica; in realtà,
tuttavia, queste differenze dipendono principalmente dal
procedimento di astrazione-concettualizzazione, cioè dalla
prima delle due fasi, e possono essere identificate in modo
più preciso confrontando le diverse concezioni del problema
economico e il diverso 'contenuto' dei concetti utilizzati.
Il rapporto tra l'economia e le altre scienze sociali, e in
particolare tra economia e storia, si pone in modo diverso a seconda
di come viene concepita l'economia. Consideriamo ad esempio la
semplice dicotomia tra impostazione classica e impostazione
marginalista proposta sopra, cioè tra la concezione
dell'economia come scienza sociale e storicamente determinata, e la
concezione dell'economia come scienza assiomatica del comportamento
razionale. Vediamo subito che nel primo caso tutta la struttura
teorica - la base concettuale prima ancora che i sistemi di modelli
analitici - va sviluppata e modificata nel tempo in una continua
interazione tra ricerca economica e ricerca storica. Nel secondo
caso, invece, quelli che mutano nel tempo sono considerati dati
esogeni del problema economico: la tecnologia, le preferenze del
consumatore, o altri più specifici vincoli al funzionamento
del mercato, che l'economista marginalista assume come dati il cui
studio è demandato a campi di ricerca separati da quello
dell'economia, mentre la struttura del problema economico permane
invariata nel tempo.
Allo stesso modo, la concezione dell'economia come studio dei
fattori che determinano l'evoluzione nel tempo della divisione del
lavoro e le sue conseguenze (principalmente in termini di
accumulazione, occupazione, distribuzione del reddito) implica una
stretta interrelazione tra il lavoro dell'economista e quello, ad
esempio, del sociologo che analizza l'evolversi della struttura
sociale. Viceversa, la concezione dell'economia come scienza del
comportamento razionale - ogni soggetto è un homo œconomicus che fonda ogni sua azione su un calcolo razionale - implica
l'esclusione dal campo dell'economia di problemi quali il contrasto
tra passioni e interessi nel determinare la condotta umana di cui
tanto si è discusso dal XVI al XVIII secolo (v. ad es.
Hirschman 1977), mentre le determinanti delle preferenze del
consumatore, ad esempio, vengono considerate come problema di
pertinenza della psicologia sociale, il cui campo d'analisi viene
nettamente distinto da quello dell'economia.
Un rapporto di condizionamento reciproco può essere infine
individuato fra diritto ed economia. Sul piano dell'analisi è
bene ricordare che il fondatore dell'economia moderna, Adam Smith,
si è occupato sistematicamente di diritto e che, per un altro
verso, il sociologo Max Weber si è occupato, sia pure
marginalmente, oltre che di economia, anche di diritto. Se ci
poniamo dal punto di vista dello sviluppo economico, possiamo
rilevare che le stesse innovazioni tecnologiche sono talvolta
favorite e talvolta contrastate dal sistema giuridico, e che
quest'ultimo muta nel tempo anche per effetto di impulsi generati
dalle innovazioni tecnologiche: basti pensare
all'elettricità, all'automobile, all'aeroplano,
all'elettronica.
Sui problemi dell'oggetto e del metodo dell'economia e del suo
rapporto con le altre scienze sociali avremo più volte
occasione di tornare nel seguito, esaminando lo sviluppo del
pensiero economico. Qui ci limitiamo a sottolineare che l'economia,
come tutte le scienze che studiano la società, è
storicamente condizionata, giacché la società stessa
cambia in modo irreversibile nel tempo storico: le scienze sociali
vanno viste come cerchi che in parte si sovrappongono e che si
muovono tutti nella storia.
2. Gli sviluppi della riflessione economica
a) L'economia preclassica
L'economia politica inizia a essere riconosciuta come disciplina
distinta dalle altre scienze sociali assai gradualmente, a partire
dalla seconda metà del XVII secolo; ma solo nella seconda
metà del secolo scorso, con l'istituzione delle prime
cattedre di economia nelle università, l'economista viene
identificato come una figura professionale autonoma. Naturalmente,
cenni più o meno sparsi a problemi oggi comunemente ritenuti
di competenza degli economisti appaiono già
nell'antichità e nel Medioevo. Autori come Diodoro Siculo,
Senofonte o Aristotele considerano ad esempio gli aspetti economici
della divisione del lavoro, sostenendo fra l'altro che essa permette
di raggiungere una migliore qualità del prodotto. Ma nel
complesso per lungo tempo - almeno fino al XVII secolo - i problemi
economici sono stati affrontati in modo sostanzialmente diverso da
come li si affronta oggi.
I filosofi e i teologi medievali in particolare, più che
tentar di descrivere e interpretare il modo di funzionamento del
sistema economico, si proponevano il compito di fornire indicazioni
sul comportamento moralmente più giusto da tenere nel campo
dei rapporti economici. Così il problema dell'usura non era
quello di fornire la spiegazione del livello del tasso d'interesse,
ma quello di giustificare la condanna morale del prestito a
interesse e di individuare le eccezioni a questo rigoroso precetto
morale. Analogamente, il problema del giusto prezzo riguardava non
il tentativo di spiegare perché sul mercato i vari beni
venivano scambiati a certi prezzi piuttosto che a prezzi più
alti o più bassi, ma il tentativo di fornire ai mercanti
criteri di condotta. (In questo senso, e non come anticipazioni
delle successive teorie del valore classica e marginalista, vanno
interpretati i riferimenti ai costi di produzione dei beni
scambiati, o alla loro scarsità e utilità per
l'acquirente, come criteri di riferimento da utilizzare per fissare
rapporti di scambio moralmente corretti.).
Per comprendere il cambiamento intervenuto attorno al XVII secolo
nel modo di considerare i problemi economici, occorre ricordare i
radicali mutamenti verificatisi nell'organizzazione della vita
economica e sociale. Il 'mercato' - inteso come scambio di beni contro denaro - esisteva anche
nell'Atene di Pericle o nella Roma di Cesare; ma gli scambi
coprivano una quota relativamente limitata della produzione
complessiva della società, e le condizioni in cui si
svolgevano erano caratterizzate dalla massima irregolarità, a
causa di fattori quali l'incidenza dei fenomeni meteorologici sui
raccolti, le difficoltà dei trasporti, la diffusa insicurezza
rispetto alla criminalità privata e agli interventi arbitrari
delle autorità. (Per il primo aspetto - portata limitata
degli scambi - possiamo ricordare, ad esempio, che nel Medioevo,
secondo Kula - v., 1970 -, gli scambi sul mercato interessano
tipicamente solo i beni che rientrano nel sovrappiù,
cioè quella parte del prodotto che non è necessaria
come mezzo di produzione o di sussistenza per continuare
l'attività produttiva.
In particolare esisteva già una rete di scambi di prodotti
'di lusso' - spezie, merletti, metalli preziosi - che collegava fra
loro aree geografiche anche assai distanti; accanto a essa, era
gradualmente sorta una rete di rapporti finanziari tra i maggiori
centri commerciali, basata soprattutto su 'lettere di cambio'. Ma
l'autoproduzione - cioè la produzione per il consumo diretto
dei produttori - che caratterizza le piccole comunità
agricole perde terreno rispetto alla produzione per il mercato solo
con l'affermarsi del sistema di fabbrica, quando i lavoratori non
sono proprietari dei beni che producono, e comunque questi ultimi
sono beni diversi da quelli che essi consumano, e quando diviene
comune l'utilizzo di mezzi di produzione specializzati - macchinari
e impianti - prodotti da altre imprese. Per il secondo aspetto -
irregolarità degli scambi - richiamiamo solo una delle
manifestazioni più caratteristiche dell'assenza di
uniformità nelle condizioni di scambio: la
molteplicità e continua variabilità delle unità
di misura delle merci - unità di peso, di lunghezza, di
volume -, superata solo gradualmente a partire, non a caso, dal XVII
secolo).
Proprio l'assenza di regolarità e uniformità
nell'attività economica è probabilmente alla base dei
generici rinvii che gli autori del periodo fanno alle condizioni di
domanda e di offerta come determinanti dei prezzi sul mercato. In
presenza di una forte variabilità della domanda e
dell'offerta, e in assenza di indicazioni sui fattori che le
determinano, questi generici rinvii non possono essere considerati
una teoria del prezzo,
né tantomeno un'anticipazione della teoria marginalista.
Quest'ultima, infatti, come vedremo meglio più avanti, spiega
il prezzo di equilibrio dei vari beni come corrispondente al punto d'incontro tra domanda e offerta del bene in questione,
considerate come funzioni (continue e differenziabili) - la prima
decrescente e la seconda crescente - del prezzo del bene stesso, ed
eventualmente di altre variabili come i prezzi degli altri beni e il
reddito dei consumatori; mentre nei generici rinvii alle condizioni
di domanda e offerta cui si accennava sopra non è
riscontrabile - del tutto comprensibilmente, date le condizioni
dell'epoca - alcuna idea di una ben specificata e stabile relazione
funzionale tra la domanda e l'offerta, e altre variabili come il
prezzo del bene in questione.
b) La nascita dell'economia politica: William Petty
Un punto di svolta fondamentale è costituito dalla
nascita e dal consolidarsi, attorno al XV-XVI secolo, degli Stati
nazionali, i quali vengono posti al centro della riflessione degli
scienziati sociali; a essi corrisponderà, in campo economico,
la nozione di sistema economico che fin dal XVI secolo costituisce
un concetto-base per la nascente scienza dell'economia politica. In
breve: ai tempi dell'antica Grecia e di Roma gli scambi sul mercato
sono massimamente irregolari; poi, via via, diventano meno
irregolari; ma è solo nel secolo XVII che cominciano ad
assumere caratteristiche di relativa regolarità e
uniformità, dopo i cambiamenti politici che si sono affermati
nei secoli XV, XVI e XVII. Nello stesso periodo, cambiamenti
decisivi si verificano anche nel campo delle scienze naturali, nelle
quali si afferma l'idea che compito dello scienziato è quello
di 'scoprire', al di sotto della superficie complessa e variegata
dei fenomeni sperimentati dai nostri sensi, le 'leggi' - cioè
relazioni quantitative precise e invariabili - che costituiscono
l'intelaiatura del mondo naturale.
La ricerca di leggi quantitative corrisponde, nel pensiero di Hobbes
(1588-1679), a una concezione materialistico-meccanica dell'uomo e
del mondo: il metodo d'indagine - la logica delle quantità (logica
sive computatio, come dice Hobbes) - corrisponde alla natura
stessa dell'oggetto indagato. A parere di vari studiosi dell'epoca,
la perfezione matematica delle leggi naturali è sanzionata
dal fatto che in essa si rispecchia la mano del Creatore.
Caratteristica in questo senso è l'affermazione di Galileo
(1564-1642), secondo il quale "questo grandissimo libro che
continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo)
[...] è scritto [da Dio] in lingua matematica" (cfr. G.
Galilei, Il saggiatore, 1623, in Opere, 1890-1909, a
cura di A. Favaro, vol. VI, Firenze 1896, p.232). Così fra il
XVII e il XVIII secolo la vecchia fisica e la vecchia chimica intese
come descrizione delle qualità sensibili degli oggetti
lasciano il campo alla scienza moderna di Newton (1642-1727) e
Lavoisier (1743-1794). Il metodo induttivo baconiano, fusione di
empirismo e razionalismo, è ripreso alla metà del XVII
secolo dai fondatori della Royal Society inglese, fra i quali appare
una figura chiave per la nascita dell'economia politica, William
Petty (1623-1687).
Fra gli autori che, nel XVI e XVII secolo, affrontano questioni
economiche, sono ancora numerosi quelli che ne discutono
considerandole innanzitutto un problema morale, come accade negli
innumerevoli trattati sull'usura pubblicati in quel periodo. Ma sono
molti anche quanti, sulla scia di Machiavelli (1469-1527),
indirizzano le loro opere ai sovrani consigliandoli su come
mantenere e accrescere la potenza economica dei loro Stati: i
cosiddetti cameralisti, spesso osservatori intelligenti della
realtà in cui operano, ma nel complesso non molto sensibili a
quella esigenza di sistematicità che costituisce un requisito
fondamentale della scienza moderna. Di frequente i cameralisti
vengono inclusi, assieme a vari altri autori di scritti
sull'economia del periodo che va dal XVI alla seconda metà
del XVIII secolo, sotto l'etichetta di mercantilisti (un'etichetta
che in realtà vari storici del pensiero economico considerano
troppo generica, riferita ad autori molto diversi l'uno dall'altro).
Il termine 'mercantilisti' designa tradizionalmente i fautori di uno Stato interventista, in
particolare attraverso dazi sul commercio e divieti alle
importazioni, al fine di assicurare una bilancia commerciale attiva
e quindi l'afflusso di metalli preziosi, ma anche al fine di
favorire lo sviluppo delle manifatture nazionali proteggendole dalla
concorrenza estera. Lo spirito 'laico' di Niccolò Machiavelli
e dei cameralisti - per fare solo due esempi che illustrano la nuova
concezione del mondo che comincia ad affermarsi - si fonde con la
nuova metodologia scientifica dell'induttivismo baconiano e con la
concezione materialistico-meccanica di Hobbes nel caso di William Petty, il fondatore
dell' 'aritmetica politica'.
"Il metodo che intendo seguire è tuttora inconsueto: invece
di usare solo comparativi e superlativi, e argomenti intellettuali,
ho deciso di esprimermi in termini di numero, peso e misura (come
esempio dell'aritmetica politica che ho tanto perseguito); di usare
solo argomenti fondati sulla sensazione, e di considerare unicamente
quelle cause che hanno fondamenta visibili nella Natura; lasciando
quelle che dipendono dalle mutevoli menti, opinioni, appetiti e
passioni di singoli uomini, alla considerazione di altri." (v. Petty
1963, p.244).
L'aritmetica politica, come si vede, si contrappone al metodo
logico-deduttivo proprio della Scolastica: Petty non intende
semplicemente rilevare e descrivere la realtà "in termini di
numero, peso e misura", ma piuttosto sceglie di esprimersi in quei
termini nel tentativo di interpretare la realtà
individuandone le caratteristiche principali. In questo senso, e per
il suo contributo alla formazione del sistema dei concetti (prezzo
naturale, merce e mercato, sovrappiù, ecc.) che costituiscono
le fondamenta della scienza economica, Petty può essere
considerato - come afferma Marx - il fondatore dell'economia
politica.
Prima di Adam Smith, al quale spesso viene attribuito questo ruolo,
dobbiamo ancora ricordare almeno François
Quesnay, medico di Madame de Pompadour e fondatore della
scuola dei fisiocrati, come più tardi furono chiamati i suoi
seguaci (allora noti come les économistes): sostenitori
dell'esistenza di un 'ordine naturale' che, pur non implicando un
rifiuto assoluto dell'intervento dello Stato nell'economia, avrebbe
dovuto comportare una maggiore libertà da vincoli per gli
sviluppi spontanei dell'economia. Quesnay (1694-1774) fornisce, con
i suoi celebri Tableaux économiques, una
rappresentazione analitica del funzionamento del sistema economico,
come società divisa in classi sociali tra le quali ha luogo
un circuito di scambi che realizza contemporaneamente la
distribuzione del reddito tra le diverse classi e la condizione per
il ripetersi regolare del processo produttivo: l'attività
economica è concepita come un 'flusso circolare' di
produzione e di scambio, una concezione che caratterizzerà
tutta l'economia politica classica fino a Marx e che, come vedremo,
è stata riproposta in epoca recente da Piero Sraffa.
c) L'economia politica classica: Adam Smith
Adam Smith (1723-1790) non può essere considerato il
fondatore dell'economia politica, ma è comunque assai
più di un semplice sistematizzatore di teorie sviluppate dai
suoi predecessori. A lui infatti dobbiamo una visione moderna dei
compiti e del metodo dell'economia politica, e alcuni importanti
contributi analitici attuali per vari aspetti ancora oggi.Il
problema al centro della riflessione di Smith è quello della
divisione del lavoro: come può funzionare (sopravvivere e
prosperare) una società basata sulla divisione del lavoro?
Nell'affrontare questo problema Smith raccoglie in un sistema
teorico ben strutturato varie linee d'analisi proposte e sviluppate
da autori precedenti. Così Smith riprende dai fisiocrati la
concezione di produzione, distribuzione e consumo del reddito come
processo circolare; e dal filone dell'illuminismo sociologico
scozzese una visione della società in cui 'passioni' e
'interessi' si intrecciano e possono integrarsi, anziché
entrare necessariamente in conflitto; e su queste basi sviluppa la
sua teoria della 'natura e cause della ricchezza delle nazioni',
basata sul legame tra sviluppo della divisione del lavoro e
allargamento degli scambi di mercato.
Vediamo meglio, sia pur solo per brevi cenni, i principali aspetti
di questo sistema teorico, esposto da Smith in un ampio trattato
organico di economia politica, Indagine sulla natura e le cause
della ricchezza delle nazioni (1776), che costituirà
la base dei successivi sviluppi dell'economia politica classica fino
a Marx. Innanzitutto, come si è appena accennato, l'approccio
classico rappresenta il funzionamento del sistema economico come un
processo circolare (o, meglio ancora, a spirale). All'inizio del
processo produttivo abbiamo determinate quantità di varie
merci, che vengono utilizzate come mezzi di produzione e come mezzi
di sussistenza per i lavoratori impiegati nel processo produttivo.
Al termine del processo produttivo otteniamo un prodotto che
è costituito dalle stesse merci, anche se in quantità
diverse.
Possiamo dire che il sistema produttivo è 'vitale' se la
quantità prodotta di ogni merce è eguale o superiore
alla quantità della stessa merce che era stata utilizzata nei
vari settori come mezzo di produzione o di sussistenza. Il sovrappiù (un concetto
centrale nelle analisi della scuola classica, prima e dopo Smith)
è costituito dall'eccesso del prodotto rispetto alle
quantità utilizzate nel processo produttivo; il
sovrappiù è quindi composto di varie merci.In un
sistema economico basato sulla divisione del lavoro, il prodotto
delle imprese appartenenti a ciascun settore non corrisponde al
fabbisogno di mezzi di produzione del settore stesso (inclusi i
mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati nel settore);
perciò ciascun settore preso isolatamente non è in
grado di continuare la propria attività, ma deve entrare in
contatto con gli altri settori dell'economia per ottenere da essi i
propri mezzi di produzione in cambio di una parte almeno del proprio
prodotto. Si ha così quella rete di scambi che caratterizza
le economie 'di mercato'.
I rapporti di scambio tra i vari settori, e quindi tra le varie
merci, sono vincolati dalla necessità di permettere la
'riproduzione' del sistema: ogni settore deve ottenere, grazie alla
cessione dei propri prodotti, almeno i mezzi di produzione e di
sussistenza necessari per continuare il processo produttivo. Ma,
data l'esistenza del sovrappiù, questa condizione da sola non
è in grado di permettere la determinazione univoca dei
rapporti di scambio tra le varie merci: questi rapporti di scambio
infatti, oltre a garantire a ciascun settore la disponibilità
di mezzi di produzione e di sussistenza per continuare la
produzione, determinano la ripartizione del sovrappiù tra i
vari settori e tra le varie classi sociali. Quesnay assumeva
rapporti di scambio tali che di tutto il sovrappiù, generato
dalla classe 'produttiva' (cioè nel settore agricolo), si
appropriavano le classi proprietarie (nobili e clero), mentre la
classe 'sterile' (imprenditori e lavoratori delle manifatture) non
faceva altro che trasmettere nel prodotto il valore dei mezzi di
produzione e di sussistenza impiegati nel processo produttivo. Smith
invece distingue tra suddivisione in settori del sistema economico e
suddivisione in classi sociali della popolazione; e propone quella
che dopo di lui è divenuta la partizione standard in tre
classi sociali: lavoratori, capitalisti e proprietari terrieri, cui
corrispondono tre tipi di reddito: salari, profitti e rendite.
Nell'analizzare il funzionamento del sistema sociale così
schematizzato, Smith abbandona la vecchia identificazione tra
ricchezza delle nazioni e produzione economica complessiva del
paese, tipica del punto di vista degli economisti 'consiglieri del
principe'; e adotta una concezione moderna, identificando la
ricchezza di un paese con il grado di sviluppo raggiunto dal sistema
economico, misurabile attraverso il reddito pro capite. Di
conseguenza, per Smith spiegare la ricchezza delle nazioni significa
essenzialmente spiegare il livello del reddito pro capite.
Tale livello corrisponde al prodotto di due variabili: la
produttività per lavoratore e la quota dei lavoratori
produttivi sul totale della popolazione. La seconda variabile
dipende sia da fattori economici sia dalle consuetudini sociali;
Smith contrappone ripetutamente le consuetudini di una
società feudale a quelle della nascente società
capitalistica a tutto vantaggio di quest'ultima. La
produttività per lavoratore dipende dallo sviluppo raggiunto
dalla divisione del lavoro (grazie, dice Smith, "a tre diverse
circostanze: primo, all'aumento di destrezza di ogni singolo
operaio; secondo, al risparmio del tempo che di solito si perde per
passare da una specie di lavoro a un'altra; e infine all'invenzione
di un gran numero di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro
e permettono a un solo uomo di fare il lavoro di molti"). Ma la
divisione del lavoro progredisce solo se c'è un allargamento
dei mercati, che è necessario per assorbire il maggior
prodotto di un'impresa in cui cresce il numero dei lavoratori e
simultaneamente cresce la produttività di ciascuno di essi.
Di qui la posizione liberista di Smith. Infatti egli è
favorevole all'abbattimento degli ostacoli al libero commercio, che
può mettere in moto una spirale virtuosa: l'allargamento dei
mercati favorisce una crescente divisione del lavoro, e quindi un
aumento della produttività, che permette un aumento del
reddito pro capite, e quindi un ulteriore allargamento dei mercati.
L'espansione dell'area del mercato nella società, inoltre,
stimola un aumento della quota dei lavoratori produttivi sul totale
della popolazione.
Il coordinamento delle attività individuali è
assicurato dal mercato, che 'premia' quanti producono ciò che
è maggiormente richiesto, e 'punisce' quanti si dedicano ad
attività che gli altri considerano inutili. L'interesse
individuale agisce quindi da molla per il conseguimento
dell'interesse collettivo.
Tuttavia, come si accennava sopra, ciò non significa che
Smith sposi le tesi del medico e filosofo olandese Bernard de
Mandeville (1670-1733): tesi sintetizzate nel detto "vizi privati,
pubbliche virtù", e centrate sul riconoscimento dell'egoismo
come fondamento del benessere collettivo. Nella sua opera La
teoria dei sentimenti morali, infatti, Smith sottolinea il
ruolo di una 'morale della simpatia' (nel senso etimologico di
'sentire insieme') nel guidare le azioni individuali. La ricerca
dell'interesse personale risulta automaticamente vincolata da tale
morale, escludendo quelle azioni (come la sofisticazione degli
alimenti da parte dei commercianti) che potrebbero danneggiare
altri. La diffusa adesione dei cittadini alla 'morale della
simpatia', affiancata e sostenuta dalle istituzioni pubbliche per la
difesa dell'ordine e l'amministrazione della giustizia, costituisce
dunque un presupposto necessario per la tesi liberista, sostenuta da
Smith nella Ricchezza delle nazioni, secondo cui il
benessere collettivo è meglio conseguito affidandosi al
libero perseguimento degli interessi individuali nell'ambito di
un'economia di mercato concorrenziale.
Conviene sottolineare qui che Smith propone questa tesi, senza
sviluppare un concetto preciso di massimizzazione del benessere
collettivo e prescindendo dalla distribuzione del reddito tra le
diverse classi sociali, essenzialmente in base al confronto fra le
istituzioni feudali ancora persistenti nella sua epoca e le nuove
istituzioni dell'economia di mercato, ancora in via di affermazione.
I meriti della costruzione smithiana, come si vede, risiedono
principalmente nell'aver fornito un quadro concettuale organico e
solido per l'interpretazione dello sviluppo dei sistemi economici.
Per vari aspetti tuttavia l'analisi di Smith lasciava ampio spazio
per ulteriori progressi, specie nel senso di una maggiore coerenza
formale; e ciò anche su questioni centrali come la teoria del
valore e della distribuzione.
d) David Ricardo
La costruzione di una solida struttura analitica per l'economia
politica classica costituisce il contributo principale dell'opera
dell'inglese David Ricardo (1772-1823). Punto di partenza della sua
riflessione analitica è il contrasto d'interessi tra i
proprietari terrieri, politicamente dominanti, e la nascente
borghesia industriale, contrasto che si manifestava nel dibattito
sui dazi all'importazione dei cereali. A parere di Ricardo, i dazi
spingevano verso l'alto i prezzi dei cereali e quindi, data la loro
importanza nei consumi dei lavoratori, anche i salari; ciò
spingeva verso il basso i profitti, rallentando il processo di
accumulazione e frenando lo sviluppo del sistema economico.
Alla base dell'analisi di Ricardo è il concetto di
sovrappiù, definibile - come si è già accennato
- come la parte del prodotto che resta disponibile una volta
ricostituite le scorte iniziali di mezzi di produzione e di mezzi di
sussistenza per i lavoratori impiegati. Ricardo, seguendo la teoria
della popolazione di Thomas R.
Malthus (1766-1834), assume che il salario sia pari al
livello di sussistenza (inteso non in senso biologico, ma come
minimo tenore di vita accettabile da parte dei lavoratori di una
data società in un dato periodo storico), e in tal modo
considera i salari come corrispondenti ai consumi necessari dei
lavoratori. Perciò, accogliendo la tripartizione smithiana
della società nelle classi dei lavoratori, proprietari
terrieri e capitalisti, il sovrappiù risulta ripartito tra
rendite - che vengono utilizzate essenzialmente in consumi di lusso
- e profitti, largamente destinati agli investimenti. Il problema
della rendita viene poi superato grazie alla teoria della rendita
differenziale; secondo tale teoria, la rendita viene pagata solo
sulle terre più fertili e corrisponde alla differenza tra i
costi di produzione relativi alla meno fertile tra le terre in
coltivazione, e i costi relativi alle terre più fertili.
Il profitto risulta così definito come grandezza residuale,
cioè come quella parte del sovrappiù che non viene
assorbita dalla rendita. Il saggio di profitto è allora
determinabile come rapporto tra profitti e capitale anticipato. Ma
ciò richiede che profitti e capitale anticipato siano
espressi in termini di grandezze omogenee: o interpretandoli come
quantità diverse di una stessa merce, il 'grano' (come,
secondo l'interpretazione di Sraffa, Ricardo fa in un saggio del
1815), o misurando prodotto e mezzi di produzione in valore, come
Ricardo fa nei Principî dell'economia politica e della
tassazione del 1817.
In quest'opera, infatti, egli - come vari altri economisti classici
prima e dopo di lui - ricorre a una teoria del valore-lavoro contenuto, secondo la
quale le merci si scambiano in proporzione alle quantità di
lavoro direttamente o indirettamente necessario alla loro
produzione; ma occorre sottolineare che Ricardo è consapevole
delle carenze di questa teoria. (Tali carenze consistono
essenzialmente nel fatto che beni prodotti con le stesse
quantità di lavoro ma su un arco di tempo più o meno
lungo - ad esempio vino 'giovane' e vino 'invecchiato' - dovranno
avere prezzi diversi).
Ricardo è anche noto per la sua 'teoria dei costi comparati',
con cui mostra i vantaggi della divisione internazionale del lavoro
permessa dal commercio internazionale.
e) Karl Marx
La struttura analitica sviluppata dalla scuola classica fino
alle opere di Ricardo viene ripresa dal tedesco Karl Marx
(1818-1883), che pone però al centro della sua attenzione il
contrasto d'interessi tra borghesia e proletariato. Con la sua
'teoria dello sfruttamento', Marx cerca di mostrare che i profitti
derivano da 'lavoro non pagato' pur in un sistema che rispetti il
criterio capitalistico di scambio tra valori eguali. A tale scopo
egli riprende la teoria del valore-lavoro contenuto - dei cui
limiti, peraltro, è ben consapevole. (Marx tentò anche
- ma senza successo - di mostrare che i risultati ottenuti in base a
tale teoria restano validi quando ci si basa piuttosto sui 'prezzi
di produzione', che rispettano la condizione di uniformità
del saggio di profitto nei vari settori). Marx, dunque, assume che
le merci si scambino sul mercato in proporzione al lavoro contenuto
in esse, cioè alle quantità di lavoro direttamente e
indirettamente necessario a produrle. Ciò vale anche per la
forza-lavoro, che ha un valore pari al lavoro contenuto nei mezzi di
sussistenza che costituiscono il consumo necessario dei lavoratori.
Il valore d'uso della forza-lavoro (che è cosa diversa dal
valore di scambio, così come il valore di scambio del carbone
è ben distinto dal suo valore d'uso, che consiste nel fornire
calore) sta nel fornire lavoro al capitalista che l'ha acquistata:
tanto lavoro quanto il capitalista riesce a ottenere e quindi, date
le consuetudini sociali che regolano la lunghezza della giornata
lavorativa, di regola un numero di ore di lavoro superiore a quelle
'contenute' nella forza-lavoro stessa.
Questo eccesso di lavoro prestato rispetto a quello richiesto per la
semplice riproduzione dei beni necessari al consumo dei lavoratori,
o 'pluslavoro', corrisponde
al valore del 'plusprodotto' o sovrappiù, e costituisce
quindi la fonte dei profitti e delle rendite. Questa situazione di
sfruttamento è celata agli occhi dell'osservatore
superficiale dal 'feticismo delle merci', cioè dal fatto che
i rapporti di cooperazione per il funzionamento del sistema
economico tra i lavoratori appartenenti ai vari settori appaiono in
un'economia capitalistica come rapporti di scambio tra merci sul
mercato.
Occorre rilevare che nel Marx del Capitale il concetto di
sfruttamento sostituisce quello giovanile, di derivazione smithiana
ed hegeliana, di alienazione, corrispondente al fatto che sono
sottratti al controllo del lavoratore, e costituiscono quindi 'altro
da sé' (alius), sia i mezzi di lavoro, sia il prodotto del
lavoro, sia il processo produttivo, e che, di conseguenza, il lavoro
risulta per il lavoratore come un mezzo per un fine distinto -
procurarsi il salario, e quindi i mezzi di sussistenza -,
anziché come diretta autorealizzazione dell'individuo nella
società.
Lo sfruttamento che caratterizza il modo di produzione capitalistico
(e, in forma ancor più diretta, i modi di produzione
precedenti, come il feudalesimo e lo schiavismo) è a parere
di Marx superabile con il passaggio a un modo di produzione
più avanzato, il comunismo.
La transizione dal capitalismo al socialismo, caratterizzato dalla
proprietà collettiva dei mezzi di produzione e che sembra
costituire nella visione di Marx una fase di preparazione al
comunismo, sarebbe inevitabile conseguenza di alcune 'leggi di
movimento del capitalismo', in particolare la crescente
bipolarizzazione tra un proletariato sempre più vasto
('processo di proletarizzazione') e sempre più povero ('legge
dell'immiserimento crescente') e una borghesia sempre più
ricca e più forte ('legge della concentrazione
capitalistica'), che sarebbe alla fine sfociata in una rivoluzione.
Di fatto, questa parte almeno della visione di Marx è stata
direttamente contraddetta dall'evoluzione concreta delle
società capitalistiche, nelle quali si sono verificati un
notevole miglioramento del tenore di vita dei lavoratori e la
crescita di una classe media impiegatizia e professionale, con
interessi distinti sia da quelli dei grandi capitalisti industriali
e finanziari sia da quelli dei lavoratori non qualificati.
Marx prospetta due schemi di analisi generale, quello della
riproduzione semplice e quello della riproduzione su scala
allargata, o dell'accumulazione. Il primo rientra nella categoria
degli schemi circolari, il secondo nella categoria degli schemi a
spirale, in cui una parte almeno del sovrappiù è
impiegata produttivamente.
Entrambi gli schemi debbono rispettare la condizione della
riproducibilità: le quantità delle merci prodotte che
entrano fra i mezzi di produzione debbono essere eguali o superiori
alle quantità delle stesse merci impiegate nel processo
produttivo. Inoltre, se si fa l'ipotesi che in tutti i mercati viga
la concorrenza, deve verificarsi una seconda condizione:
l'unicità del saggio del profitto. In una successiva
approssimazione si può fare l'ipotesi che certi mercati siano
non concorrenziali, con profitti più alti della norma;
tuttavia, prima d'introdurre una tale ipotesi occorre assicurarsi
della coerenza logica dell'analisi nel caso più semplice
della concorrenza generalizzata, dimostrando che in una tale ipotesi
il saggio del profitto è unico.
Ora, già nello schema di riproduzione semplice di Marx, la
prima condizione - quella della riproducibilità - è
rispettata, ma non lo è la seconda, quella relativa
all'unicità del saggio del profitto. È questo il
famoso problema della trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di
produzione cui si è già accennato; per esso Marx
indica, con un breve accenno, una soluzione puramente intuitiva,
proponendosi di fornirne in seguito una trattazione analitica,
ciò che tuttavia poi non fa effettivamente. Seguendo
l'analisi di Sraffa - di cui parleremo più avanti -
l'erroneità della teoria del valore-lavoro risulta in modo
ancora più compiuto: fra i 'valori' espressi dal lavoro
contenuto e i prezzi vi è proporzionalità solo
nell'ipotesi, non rilevante in un'economia capitalistica, di un
saggio dell'interesse, e quindi del profitto, pari a zero.
La teoria del valore-lavoro si muove a un alto livello di
astrazione. A un livello molto più vicino alla realtà
concreta si muove invece una tesi che in Marx è appena
accennata, ma che assume poi grande rilievo per essere stata
sostanzialmente accolta anche da economisti non marxisti come Joseph Schumpeter e lo
statunitense John Kenneth
Galbraith (n. 1908): è la tesi della tendenza alla
progressiva concentrazione delle unità produttive, un
processo che troverebbe il suo principale impulso nella diffusione
delle economie di scala, a loro volta imputabili al progresso
scientifico e organizzativo. Un tale processo sembrava trovare ampio
riscontro nel fenomeno delle fusioni e poi nella comparsa e nella
crescita di grandi e grandissime imprese, nazionali e
transnazionali, un fenomeno che assume particolare rilievo tra la
fine del secolo scorso e il principio del nostro e quindi dopo la
seconda guerra mondiale. Secondo diversi economisti questo processo
avrebbe spinto le economie capitalistiche nella direzione di una
sorta di collettivismo privato, preludio di un collettivismo
pubblico.
Tuttavia, negli ultimi due decenni il processo di concentrazione ha
subito un netto rallentamento o addirittura un rovesciamento, in
quanto, grazie anche a grandi innovazioni, come quelle connesse con
l'elettronica, si sono creati nuovi spazi per le piccole imprese.
Inoltre, la tesi del processo di concentrazione trascura il fatto
che non di rado le piccole imprese avviano innovazioni poi
sviluppate dalle grandi imprese: in tal modo, le piccole imprese
possono contrastare gli effetti negativi sull'efficienza e sulla
capacità d'innovare che le grandi imprese potrebbero subire
con la loro burocratizzazione.
f) Il marginalismo
Il momento cruciale per la 'rivoluzione marginalista' è
comunemente indicato negli anni tra il 1871 e il 1874, quando escono
le opere principali dei capifila della scuola marginalista
austriaca, Carl Menger (1840-1921), di quella inglese, William
Stanley Jevons (1835-1882), e di quella francese, Léon Walras (1834-1910). Infatti nel 1871 escono sia i Principî
di economia pura di Menger sia la Teoria dell'economia
politica di Jevons, nel 1874 gli Elementi di economia
politica pura di Walras. Va ricordato comunque che la
rivoluzione marginalista aveva avuto importanti precursori, quali il
francese Antoine-Augustin Cournot (1801-1877), e che tra i suoi cofondatori, per quanto riguarda il
ramo inglese, Alfred Marshall (1842-1924; i suoi Principî di economia appaiono nel
1890) riveste probabilmente un'importanza superiore a quella di
Jevons; in Italia, le idee di Marshall conseguono una discreta
diffusione grazie soprattutto agli scritti di Maffeo Pantaleoni (1857-1924).
Le differenze fra l'approccio austriaco dell'imputazione, quello
francese dell'equilibrio economico generale, e quello marshalliano
degli equilibri parziali sono notevolissime, sia per quanto riguarda
il metodo sia per quanto riguarda la visione di fondo del
funzionamento del sistema economico. Ma prima di considerare
più da vicino i tre principali filoni di ricerca
tradizionalmente inclusi sotto l'etichetta del marginalismo conviene
indicare alcuni elementi di fondo che li accomunano,
contrapponendoli all'approccio classico illustrato sopra.
La contrapposizione è stata sintetizzata da Sraffa
individuando nell'approccio classico la "presentazione del sistema
della produzione e del consumo come processo circolare", "in netto
contrasto con l'immagine offerta dalla teoria moderna di un corso a
senso unico che porta dai 'fattori della produzione' ai 'beni di
consumo"' (v. Sraffa, 1960, p. 121). In questo modo, Sraffa richiama
sinteticamente le differenze di fondo tra l'approccio classico e
quello marginalista, relative alla visione del problema economico e
del funzionamento dell'economia, e alla struttura dell'analisi,
particolarmente nel campo della teoria del valore e della
distribuzione che è quello dove più direttamente si
esprime l'impostazione di fondo dei diversi approcci economici. Come
si accennava sopra presentando l'approccio classico, esso ha al
centro della sua analisi il problema del modo in cui può
riprodursi, e crescere nel tempo, una società basata sulla
divisione del lavoro; l'approccio marginalista invece considera il
problema economico come consistente nell'individuare l'ottima
distribuzione delle risorse scarse tra gli usi alternativi
possibili, date le preferenze dei soggetti economici.
Pertanto, l'impostazione marginalista tradizionale concepisce il
problema del valore come relativo alla determinazione di prezzi e
quantità 'di equilibrio', cioè tali da assicurare
l'eguaglianza tra domanda e offerta, derivati dal confronto fra le
dotazioni iniziali di risorse produttive e le preferenze degli
agenti economici. (L'impostazione non muta nella sostanza, quando
dai modelli di puro scambio si passa ai modelli di scambio e
produzione, di modo che il rapporto tra le dotazioni iniziali e la
soddisfazione dei desideri è mediato dall'attività
produttiva, oltre che dall'attività di scambio e di consumo;
o quando fra le risorse produttive sono inclusi anche mezzi di
produzione prodotti).
Di fronte al problema del valore così concepito, la tesi
centrale delle teorie marginaliste tradizionali (quelle che Keynes
chiama teorie classiche, e tra le quali prende ad esempio l'analisi
di Arthur Cecil Pigou,
1877-1959, successore di Marshall sulla cattedra di economia
politica dell'Università di Cambridge) è che un
sistema economico in cui prevalga la concorrenza perfetta e che non
sia soggetto a continui disturbi esogeni tende a raggiungere una
posizione di equilibrio dotata di caratteristiche di
ottimalità, nel senso che non è possibile migliorare
la posizione di qualche soggetto economico senza peggiorare la
posizione di qualcun altro. In particolare, le teorie marginaliste
tradizionali sostengono che in regime di concorrenza pura il salario
reale si muove, assieme a tutti gli altri prezzi relativi, verso un
livello tale da assicurare l'eguaglianza tra domanda e offerta di
lavoro, cioè la piena occupazione.
Fra i meccanismi riequilibratori automatici che portano il sistema
economico verso la piena occupazione, alcuni teorici marginalisti
hanno messo in rilievo la flessibilità del rapporto tra
capitale e lavoro: se sotto la pressione della disoccupazione il
salario reale diminuisce, le imprese troveranno più
conveniente utilizzare tecniche produttive che sostituiscono
lavoratori a capitale, di modo che il rapporto capitale-lavoro
diminuisce, e una data dotazione originaria di 'capitale' permette
d'impiegare un numero di lavoratori via via crescente, fino a
giungere alla piena occupazione.
Questa tesi e in generale l'impostazione stessa della teoria del
valore e della distribuzione, come si accennava, hanno assunto forme
diverse in autori appartenenti a filoni diversi dell'approccio
marginalista tradizionale. Ad esempio il filone francese
dell'equilibrio economico generale inaugurato da Walras, ripreso e
sviluppato al principio del secolo dall'italiano Vilfredo Pareto (1848-1923) e
poi, negli ultimi trent'anni, da autori quali lo statunitense
Kenneth Arrow (n. 1921, premio Nobel nel 1972) e il francese Gerard
Debreu (n. 1921, premio Nobel nel 1983), è basato
sull'ipotesi che siano considerate date, da un lato, le preferenze
dei soggetti, dall'altro le quantità disponibili, specificate
in termini fisici, delle risorse iniziali (diversi tipi di
capacità lavorative, di terre, di beni capitali).
Il filone inglese di Jevons e Marshall, a differenza del filone
francese, tende a considerare come variabili da determinare
all'interno della teoria anche le quantità disponibili delle
varie risorse, utilizzando come dati esogeni le funzioni di
utilità e disutilità dei vari soggetti economici
(cioè considerando l'offerta di lavoro, ad esempio, come
determinata dal confronto fra il salario, e quindi l'utilità
dei beni acquistabili con esso, e il sacrificio che il lavoratore
compie, cioè la disutilità del lavoro). Inoltre
Marshall presenta la sua analisi come tentativo di sintesi tra
l'approccio classico e quello marginalista 'puro', sostenendo che
l'analisi classica commette l'errore di concentrarsi 'sul lato
dell'offerta', mentre quella marginalista nella versione più
estrema commette l'errore speculare di concentrarsi 'sul lato della
domanda'. Marshall, viceversa, concentrando l'attenzione sulla
singola impresa o sulla singola industria (con il metodo
'dell'analisi parziale', cioè considerando offerta e domanda
di ciascun bene come indipendenti da quanto contemporaneamente
avviene sugli altri mercati), individua prezzo e quantità
'normali'. Le variabili 'normali' corrispondono a una situazione di
equilibrio del mercato considerato, e sono determinate
dall'intersezione di una curva di offerta, che esprime l'andamento
dei costi di produzione al variare della quantità prodotta, e
una curva di domanda, che esprime le preferenze del consumatore. Le
due curve rappresentano due funzioni che legano la quantità
offerta e quella domandata all'andamento del prezzo del singolo
bene. L'offerta è considerata funzione crescente del prezzo,
almeno a partire da un certo livello di produzione in poi, in
quanto, secondo il cosiddetto 'postulato della produttività
marginale decrescente', il costo necessario a ottenere una
unità addizionale di prodotto cresce al crescere della
quantità prodotta, e pertanto gli imprenditori sono disposti
ad aumentare la quantità offerta solo se il prezzo aumenta
compensando l'aumento dei costi.
Le varie giustificazioni addotte per il postulato della
produttività marginale decrescente sono comunque risultate o
irrealistiche, o incompatibili con l'ipotesi di concorrenza e/o con
l'ipotesi di 'isolabilità' delle vicende del mercato
considerato rispetto agli altri mercati, ipotesi che è alla
base del metodo degli equilibri parziali. Di fatto, il postulato
della produttività marginale decrescente è motivato
essenzialmente da un'esigenza analitica di simmetria con il
postulato dell'utilità marginale decrescente. Secondo
quest'ultimo, l'utilità di una dose addizionale di bene
consumato diminuisce al crescere della quantità consumata;
perciò il consumatore sarà disposto ad acquistare dosi
addizionali del bene solo a prezzi man mano decrescenti, e la
domanda risulterà funzione decrescente del prezzo.
Abbiamo infine la scuola austriaca di Menger e dei suoi allievi,
delle cui caratteristiche distintive ci occuperemo nel prossimo
paragrafo. È possibile attribuire una concezione di fondo
sostanzialmente unitaria ai vari filoni dell'approccio marginalista:
quella cui si accennava sopra, di un 'corso a senso unico',
caratterizzato da un punto di partenza (sia esso costituito dalle
risorse inizialmente disponibili, o dalle risorse originarie, o
dalle disutilità) e da un punto di arrivo, costituito dalla
soddisfazione dei gusti dei consumatori. Ma questa comune concezione
di fondo assume poi una varietà notevole di connotati nelle
diverse scuole che si ricollegano ad essa.
Comunque, la comune concezione di fondo facilita una valutazione
sintetica del contributo teorico delle scuole marginaliste, in
quanto essa implica l'esistenza di aspetti centrali comuni anche
nella struttura analitica delle diverse scuole. Intanto, per quanto
riguarda le preferenze dei singoli consumatori è comune
l'ipotesi di indipendenza del sistema di preferenze di ciascun
soggetto economico dalle preferenze degli altri: l'unica influenza
riconosciuta delle scelte altrui sulle scelte di ciascun singolo
consumatore è quella indiretta, che passa attraverso i prezzi
che si determinano sul mercato. Le 'esternalità', cioè
il fatto che il comportamento degli altri ha un'influenza decisiva
sul mio sistema di preferenze - come nel caso degli 'effetti di
dimostrazione', per cui se tutti i miei vicini comprano la
televisione a colori anch'io sarò indotto a comprarla -, sono
escluse dalla struttura analitica della teoria marginalista
tradizionale. Questa concezione delle scelte di consumo è
caratterizzata da un individualismo estremo: ciascun individuo
decide per sé, sulla base di preferenze che la teoria assume
come date e che quindi si suppone non interagiscano con il
comportamento altrui. In tal modo essa appare contrapposta
all'assunzione classica, forse valida soprattutto come prima
approssimazione rudimentale, ma probabilmente più 'concreta'
di quella marginalista, di un comportamento di consumo
sostanzialmente simile all'interno di ciascuna classe sociale.
In quella che è tradizionalmente chiamata 'ipotesi classica',
infatti, i profitti sono destinati all'accumulazione di capitale,
cioè agli investimenti, e le rendite dei proprietari terrieri
sono destinate essenzialmente a consumi di lusso; quanto ai salari,
per i classici - che avevano ben presenti le condizioni del tempo in
cui vivevano - il comportamento di consumo è reso omogeneo da
ragioni obiettive, cioè dal fatto che il salario si colloca
al livello di sussistenza (un livello che tuttavia, come si è
già accennato, dipende dalle condizioni storico-sociali).
Un secondo elemento comune alla struttura analitica dei vari filoni
dell'approccio marginalista è costituito dal ruolo centrale
che in essi gioca il 'principio di sostituzione', nella produzione
come nel consumo: al variare dei prezzi relativi dei diversi beni di
consumo, la quantità consumata dei beni il cui prezzo
è cresciuto si riduce, mentre viceversa cresce quella dei
beni il cui prezzo è diminuito; analogamente, al variare dei
prezzi relativi dei 'fattori di produzione', quelli il cui prezzo
è aumentato vengono sostituiti da quelli il cui prezzo
è diminuito.
Un terzo elemento comune, che appare una conseguenza logica della
struttura analitica dell'approccio marginalista, e che lo
differenzia nettamente dall'approccio classico, è dato dalla
simmetria nella trattazione delle variabili distributive. Infatti
salario e saggio del profitto (o, nelle trattazioni 'disaggregate',
i prezzi dei servizi dei diversi fattori produttivi) sono posti su
uno stesso piano, come determinati (assieme alle quantità
utilizzate di capitale e lavoro) dalla realizzazione sui rispettivi
mercati dell'equilibrio tra domanda e offerta. Così salario e
saggio di profitto corrispondono, dal lato della domanda, alla
produttività marginale di lavoro e capitale.
Simultaneamente, dal lato dell'offerta, salario e saggio del
profitto corrispondono al 'costo reale' dei rispettivi fattori di
produzione: la penosità marginale del lavoro e il sacrificio
dell'astinenza dal consumo nel caso del capitale. In altre
formulazioni teoriche dell'approccio marginalista, specie nelle
moderne riformulazioni assiomatiche della teoria dell'equilibrio
economico generale, il saggio d'interesse (che spesso nella
terminologia marginalista sostituisce il saggio del profitto come
'prezzo' dell'uso del capitale) è collegato alle 'preferenze
intertemporali' dei soggetti economici tra consumo presente e
consumo futuro.
Le critiche al marginalismo, che nel passato assumevano carattere
occasionale o frammentario, in tempi recenti si sono intensificate,
soprattutto dopo la pubblicazione dell'opera di Sraffa nel 1960.
Torneremo più oltre su tali critiche; qui ci limitiamo a
ricordare alcuni aspetti particolarmente problematici della teoria
dell'equilibrio economico generale formulata da Léon Walras e
poi ripresa e ampliata da Vilfredo Pareto.
Walras rappresenta il sistema economico con un sistema di equazioni
elaborate originariamente dai cultori della meccanica razionale
(Walras aveva studiato ingegneria, Pareto era ingegnere). Walras
sviluppa la sua teoria attraverso tre approssimazioni successive,
rappresentate rispettivamente da: 1) equazioni dello scambio; 2)
equazioni dello scambio e della produzione e, infine, 3) equazioni
dello scambio, della produzione, dell'accumulazione e del credito.
L'assunzione di partenza - che resta valida anche nelle successive
approssimazioni - è che esista una dotazione iniziale di beni
capitali fisici (che includono le risorse naturali) e di capitali
personali (capacità di lavoro delle persone). Inoltre sono
incluse fra i dati del problema le preferenze - le funzioni di
utilità - dei singoli soggetti e la tecnologia; le imprese
operano tutte in condizioni di concorrenza. Sulla base di queste
premesse Walras dimostra che il numero delle equazioni eguaglia il
numero delle incognite - prezzi e quantità dei beni e dei
servizi - e che il sistema di equazioni, nei tre casi che egli
considera, è determinato.
Sulla scia di Walras, numerosi economisti matematici affrontano i
problemi dell'esistenza, unicità e stabilità delle
soluzioni per il modello di puro scambio; i risultati cui è
giunto questo filone di ricerca possono essere sintetizzati come
segue: a) sotto condizioni sufficientemente generali, il sistema ha
soluzioni economicamente significative (con valori non negativi per
i prezzi e le quantità di equilibrio delle varie merci); b)
in generale è possibile una molteplicità di equilibri;
c) la stabilità dell'equilibrio è dimostrabile solo
ricorrendo a ipotesi particolari, troppo specifiche perché a
tali dimostrazioni possa essere attribuita validità generale.
(Questi risultati sono stati elaborati in modo rigoroso in
riferimento a modelli assiomatici di equilibrio economico generale
proposti negli anni cinquanta da Arrow e Debreu; tali modelli
considerano anche 'equilibri intertemporali', trattando come merci
diverse una stessa merce in momenti diversi del tempo e prendendo
come date le preferenze dei soggetti economici tra diverse
quantità di beni non solo in un dato momento nel tempo, ma
anche tra momenti diversi: meno uova e più galline oggi e
più uova e meno galline domani).
Comunque, la fragilità - secondo alcuni critici
l'insostenibilità - della costruzione di Walras e Pareto
appare in piena luce nella terza approssimazione. Walras infatti
assume che all'inizio di un certo periodo vi sia una dotazione "data
a caso" ("criée au hasard") di beni capitali, intesi in senso
lato; nella terza approssimazione egli ammette che si producano
nuovi beni capitali, particolarmente quelli che risultano scarsi e
che forniscono il più alto rendimento. Ma, nella logica della
sua costruzione, suppone che tali beni entrino in funzione, non
nello stesso periodo, bensì nel periodo successivo; nulla
però assicura che, in tale periodo successivo, avrà
luogo l'unicità dei rendimenti dei beni capitali. Mentre nel
caso dei beni di consumo l'aggiustamento dei prezzi e delle
quantità avviene in uno stesso periodo e quindi le correzioni
potranno dar luogo a movimenti convergenti verso certi livelli
normali, così non è nel caso dei beni capitali, in
particolare di quelli fisici. Pertanto, nel sistema di Walras non si
ha in generale un unico tasso di rendimento in tutti i settori
produttivi; ciò è una logica conseguenza del fatto che
tale teoria segue 'l'ottica della scarsità' anziché
'l'ottica della riproducibilità', in quanto essa si fonda non
sulla concezione classica dell'attività economica come
processo circolare o a spirale, ma sulla concezione di un corso a
senso unico, che parte da una certa dotazione di fattori produttivi
e si conclude con l'offerta di un certo gruppo di beni di consumo:
le risorse "date a caso" portano a rendimenti "dati a caso".
g) La scuola austriaca
I teorici della scuola austriaca (oltre a Menger, vanno ricordati almeno i suoi allievi Friedrich von Wieser,
1851-1926, ed Eugen von
Böhm-Bawerk, 1851-1914) adottano un'ottica soggettiva
radicale, in base alla quale il valore di ciascun bene o servizio
viene dedotto dall'utilità che esso ha per il consumatore
finale, direttamente nel caso dei beni di consumo o indirettamente
nel caso dei beni di produzione; in quest'ultimo caso si 'imputa' al
mezzo di produzione una quota dell'utilità che il bene
prodotto ha per il consumatore, calcolando tale quota in proporzione
al contributo del bene o servizio considerato al processo produttivo
(da cui l'espressione 'teoria dell'imputazione').
Le prime fasi di sviluppo della scuola austriaca furono comunque
caratterizzate dall'aspro scontro metodologico con la cosiddetta
'scuola storica tedesca', tra i cui rappresentanti ricordiamo
Wilhelm Roscher (1817-1894) e Gustav von Schmoller (1838-1917). La
scuola storica attribuiva importanza centrale allo studio
dell'evolversi delle istituzioni, criticando l'eccesso di astrazione
e di astoricismo dell'impostazione marginalista; ma finiva in
realtà col ridurre l'economia alla semplice descrizione di
vicende e situazioni specifiche. Contro questa posizione, la scuola
austriaca sostenne la necessità di ragionamenti deduttivi
rigorosi basati su premesse generali, riportando nel complesso una
vittoria culturale schiacciante. Una influenza della scuola storica
tedesca può comunque essere individuata nella cosiddetta
scuola istituzionalista, attiva ancora oggi soprattutto negli Stati
Uniti, dove il suo principale esponente è stato Thornstein Veblen (1857-1929).
La scuola austriaca 'moderna', in particolare con Friedrich von Hayek (1899-1992), si caratterizza per un deciso sostegno a posizioni
radicalmente liberiste, e si differenzia dal marginalismo
tradizionale nella visione del funzionamento dell'economia: in
particolare, l'atto di scelta compiuto dal soggetto economico
è visto come esperimento in condizioni di incertezza, il cui
risultato modifica le aspettative e le conoscenze iniziali in un
processo continuo; rispetto all'approccio marginalista francese e
anglosassone, il concetto di equilibrio perde così il suo
tradizionale ruolo analitico centrale come soluzione del problema
economico.
Tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta, inoltre, Hayek,
riprendendo e sviluppando una teoria proposta da un altro esponente
di rilievo della scuola austriaca, Ludwig von Mises (1881-1973), sostenne in vari
scritti una teoria monetaria del ciclo economico (la cosiddetta
'teoria del risparmio forzato'), che dopo un discreto successo
iniziale fu relegata in secondo piano dall'affermazione della teoria
keynesiana. Secondo la teoria del risparmio forzato, mentre il
livello di equilibrio di lungo periodo della produzione corrisponde
alla piena occupazione dei lavoratori e al pieno utilizzo della
capacità produttiva disponibile, nel breve periodo è
possibile un'accelerazione degli investimenti finanziati da
un'espansione dell'offerta di moneta da parte delle banche, a
scapito di una riduzione non desiderata dei consumi, cioè di
un risparmio non desiderato - o 'forzato' - prodotto dall'aumento
dei prezzi che riduce il potere d'acquisto dei lavoratori salariati;
in un secondo momento, quando entra in funzione la nuova
capacità produttiva corrispondente agli investimenti
addizionali, l'accresciuta offerta di prodotti genera una spinta
deflazionistica, e quindi un aumento del potere d'acquisto dei
lavoratori e una ripresa dei consumi, con una distruzione di
risparmio che riporta il sistema economico alla situazione di
partenza.
Questa teoria permette di conciliare il riconoscimento di
un'influenza dei fenomeni monetari sui livelli di produzione con la
concezione marginalista tradizionale secondo la quale prezzi
relativi e quantità di equilibrio (inclusi i livelli di
produzione e di occupazione) sono determinati esclusivamente dai
fattori reali: disponibilità di risorse, tecnologia,
preferenze dei consumatori. In questo senso, nonostante le
caratteristiche specifiche che abbiamo appena richiamato, la scuola
austriaca può essere a buona ragione collocata all'interno
della tradizione marginalista.
h) Dalla statica alla dinamica
Come si è accennato sopra, l'approccio marginalista in
tutte le sue varie formulazioni imposta il problema economico come
centrato sul confronto fra risorse disponibili e preferenze dei
consumatori finali, e risolve tale problema determinando prezzi e
quantità di equilibrio che assicurino l'eguaglianza tra
quantità domandate e offerte dei vari beni e servizi. Tramite
l'operare del principio di sostituzione, i mercati assicurano
l'eliminazione di scarsità ed eccedenze, e quindi l'ottima
utilizzazione delle scarse risorse disponibili. In particolare, in
condizioni di concorrenza il normale funzionamento del mercato del
lavoro fissa il salario a un livello tale da assicurare la piena
occupazione della forza-lavoro disponibile. L'impostazione
marginalista è dunque essenzialmente statica: dati
l'ammontare di risorse disponibili, la tecnologia e i gusti dei
consumatori prevalenti in un dato momento del tempo, la teoria
determina prezzi e quantità di equilibrio.
L'evoluzione di un sistema economico nel tempo è legata al
cambiamento dei dati: risorse disponibili, tecnologia e gusti dei
consumatori. Così essa può essere studiata in due
modi: o tramite analisi di statica comparata, cioè
determinando prezzi e quantità di equilibrio prima con
l'iniziale insieme di dati e poi con quello nuovo, e confrontando le
due soluzioni per individuare l'effetto del cambiamento dei dati;
oppure tramite analisi dinamiche, cioè introducendo una
precisa ipotesi sull'evoluzione nel tempo di uno o più fra i
dati del problema, e determinando così un sentiero regolare
per lo sviluppo del sistema economico. In entrambi i casi, comunque,
restano generalmente esclusi dall'analisi sia i problemi di
transizione da un equilibrio all'altro, sia quelli di spiegare
all'interno della scienza economica i cambiamenti nella tecnologia o
nelle abitudini di consumo.
L'aspetto sorprendente della 'rivoluzione marginalista', se
consideriamo la sua natura essenzialmente statica, è che essa
ha luogo proprio in un tempo in cui i cambiamenti tecnologici, che
hanno caratterizzato il capitalismo industriale sin dal suo
apparire, tendono a crescere, non a diminuire, d'importanza, come
tendono a crescere d'importanza i cambiamenti nelle abitudini di
consumo (e spesso questo secondo fenomeno è condizionato dal
primo). D'altra parte, i cambiamenti tecnologici sono all'origine
del processo di sviluppo economico, che costituiva il problema
teorico fondamentale per economisti classici come Smith, ma che
scompare del tutto dall'orizzonte teorico dei marginalisti.
Per spiegare tale svolta paradossale sono state indicate diverse
ragioni, tre in particolare, che qui ci limitiamo a ricordare e a
commentare molto concisamente. La prima ragione si ricollega
all'aspirazione a un maggior rigore. Ciò implica
l'applicazione sistematica dei metodi matematici, cosa agevole se si
assumono costanti la tecnologia e le abitudini di consumo, ma ben
più difficile nel caso di problemi dinamici. Quella statica
era considerata solo un'analisi di prima approssimazione; ma i
modelli di norma erano concepiti in modo da rendere impossibile il
passaggio all'analisi dinamica: per far questo occorreva
ricominciare da capo.
La seconda ragione è legata a motivi di natura ideologica. La
teoria classica era sfociata nei cosiddetti socialisti ricardiani e
poi nell'analisi di Marx, che aveva finalità dichiaratamente
rivoluzionarie. Per esorcizzare gli sviluppi di tipo marxista, e
quindi rivoluzionari, si diffuse la tendenza a rifiutare
l'impostazione stessa delle teorie classiche, abbandonando l'esame
oggettivo dei rapporti sociali di produzione e rivolgendo lo studio
verso le caratteristiche soggettive dei bisogni e quindi
dell'individuo astrattamente considerato.
La terza ragione si ricollega alla crescita del reddito individuale
di strati sempre più ampi della popolazione. Mentre al tempo
dei classici la gran massa della popolazione viveva al livello della
sussistenza e il problema delle preferenze dei consumatori si poneva
solo per un'esigua minoranza di privilegiati, nelle nuove condizioni
quel problema si poneva invece per una maggioranza sempre più
ampia; e le teorie marginaliste davano il massimo rilievo alle
preferenze dei consumatori.
Le tre ragioni vanno forse considerate congiuntamente, ricordando
che i classici non erano riusciti a risolvere in modo soddisfacente
il problema del valore. Un'ulteriore spinta all'affermazione del
marginalismo fu data dalla sua vittoria nello scontro con la nuova
scuola storica, che tendeva a risolvere la teoria nella storia
economica.
Non sarebbe esatto, tuttavia, affermare che la costruzione
marginalista sia integralmente statica. In effetti, vari economisti
tentano di affrontare, all'interno dei diversi filoni dell'approccio
marginalista, il problema delle situazioni 'di squilibrio',
generalmente considerate come oscillazioni di breve periodo attorno
alle situazioni 'di equilibrio' implicanti, come si è detto,
il pieno utilizzo delle risorse disponibili. In questo quadro viene
affrontato il problema del ciclo economico. Esso è attribuito
a shock, cioè a variazioni improvvise e impreviste dei dati
del problema che spingono il sistema economico fuori dell'equilibrio
per qualche tempo prima che l'operare delle forze di mercato ve lo
riporti; oppure a fenomeni monetari che si sovrappongono alle forze
'reali' determinanti l'equilibrio di mercato. Si tratta, in ogni
caso, di eventi che rendono non più di equilibrio i prezzi
relativi prevalenti nella situazione precedente; il protrarsi dello
squilibrio e la sua trasformazione in ciclo economico sono
ricollegati all'incapacità del mercato di condurre
istantaneamente i prezzi relativi ai valori coerenti con il nuovo
equilibrio.
Da questa base comune, le specifiche teorie del ciclo si
differenziano per l'accento posto su prezzi relativi particolari,
quali salario reale, tasso d'interesse e tasso del profitto. In
particolare Marshall e vari economisti americani della Scuola di
Chicago mettono l'accento sui movimenti del salario e del tasso
d'interesse confrontati con le aspettative sulle variazioni dei
prezzi; lo svedese Knut Wicksell (1851-1926) sugli scostamenti del tasso d'interesse monetario da
quello 'naturale' corrispondente al tasso di rendimento degli
investimenti; l'inglese Ralph Hawthrey (1879-1975) sui movimenti dei
tassi d'interesse sui crediti a breve termine, e quindi sul 'ciclo
delle scorte'; l'inglese Dennis Robertson (1890-1963) su cause
monetarie per quanto riguarda i cicli brevi, e sull'addensarsi degli
acquisti per il rinnovo di impianti e beni di consumo durevoli
determinato dall'alternarsi di 'sciami' di innovazioni con periodi
di relativo ristagno tecnologico per quanto riguarda i cicli di
media durata. Alle teorie austriache del risparmio forzato che
almeno in parte derivano da quella di Wicksell, si è
già accennato nel paragrafo precedente.
Da queste tradizioni provengono anche due economisti che tuttavia si
scostano dalle fondamenta tradizionali dell'approccio marginalista
in misura sufficiente da essere considerati 'eretici', fondatori di
nuove scuole di pensiero: Schumpeter e Keynes.
i) Joseph Schumpeter e lo sviluppo ciclico dell'economia
L'economista austriaco Joseph
Schumpeter (18831950) si contrappone alla tradizione
marginalista (di cui pure dichiara di accettare le principali
elaborazioni teoriche, come soluzione però di un problema
specifico, quello 'statico', concernente la raffigurazione di un
sistema economico che non cambia nel tempo) per il suo tentativo di
costruire una teoria dello sviluppo. Tale teoria è basata
sulle innovazioni, introdotte dagli imprenditori e finanziate dai
banchieri; imprenditori e banchieri risultano così le figure
attive, le cui scelte determinano l'evoluzione dell'economia, mentre
le scelte di consumo e di risparmio, che risultavano centrali nella
teoria tradizionale, appaiono qui come secondarie.
Tutte le principali nozioni della teoria tradizionale risultano
modificate da questo cambiamento d'ottica; ad esempio, la nozione di
concorrenza della teoria statica risulta 'travolta' dalla forza
della concorrenza dinamica, che viene dagli imprenditori che
introducono nuovi processi produttivi o nuovi prodotti. I profitti
degli imprenditori-innovatori derivano da beni nuovi, che riescono
ad affermarsi nel mercato, e dai minori costi rispetto alle imprese
che utilizzano i vecchi metodi produttivi; e, dato che la domanda di
finanziamenti alle banche proviene essenzialmente dagli
imprenditori-innovatori, sono le opportunità d'investimento
aperte dalle innovazioni e la loro redditività che
determinano i tassi d'interesse.
Il ciclo economico è spiegato dall'andamento irregolare del
flusso delle innovazioni. Queste, d'altra parte, sono d'importanza
molto diversa: le innovazioni di portata storica - la macchina a
vapore per usi fissi e per il trasporto per terra o per mare,
l'elettricità, l'automobile, l'aereo, oggi la
microelettronica - danno origine a 'cicli di lunga durata' (i 'cicli
Kondrat'v' di durata approssimativamente cinquantennale); le
innovazioni di minor rilievo, che spesso s'innestano in quelle
maggiori e ne costituiscono sviluppi specifici, danno origine a
cicli di durata più breve: i 'Juglar', di circa nove anni, e
i 'Kitchin', di circa tre anni (dal nome degli economisti che li
hanno studiati sistematicamente, anche sul piano empirico).
Il modello teorico di Schumpeter è originariamente presentato
nella Teoria dello sviluppo economico del 1912 ed è
poi riproposto, con diverse importanti modificazioni, nel trattato
su I cicli economici del 1939, nel quale l'analisi teorica
si combina con quella empirica (storica e statistica).
Schumpeter parte dall'analisi del 'flusso circolare', ossia del
processo economico che riproduce uniformemente se stesso: un
concetto simile, se pure non identico, a quello dei classici e di
Sraffa. La rottura di tale flusso è provocata dagli
imprenditori tramite le innovazioni, ossia nuove e più
efficienti combinazioni di fattori produttivi, dalle quali emerge il
profitto. Gli imprenditori-innovatori per finanziare le innovazioni
domandano prestiti alle banche, le quali creano mezzi di pagamento
addizionali. Compare quindi una schiera di imitatori, crescono gli
investimenti e, di conseguenza, la domanda di beni di consumo; si
sviluppa così la fase di prosperità. Dalla
prosperità si passa alla flessione, man mano che vengono a
maturazione i frutti delle innovazioni e man mano che crescono le
produzioni delle imprese che non s'innovano ma si avvantaggiano
della generale prosperità. Alla fine del ciclo, il sistema
dei prezzi risulta cambiato e i redditi reali accresciuti. Pertanto,
il nuovo ciclo parte da un livello più alto del reddito
complessivo e di quasi tutti i redditi individuali: cicli e sviluppo
risultano le manifestazioni di un unico processo, il processo dello
sviluppo ciclico.
Secondo Schumpeter, tale processo è caratterizzato da una
tendenza di lungo periodo verso la concentrazione delle imprese, una
tendenza condizionata dalla crescente importanza delle economie di
scala nelle principali attività economiche. In tal modo sono
emerse quelle grandi o grandissime imprese, specialmente
nell'industria e nella finanza, che in diversi casi hanno assunto
rilevanza internazionale. Schumpeter sostiene che nelle grandi
imprese, le quali organizzano grandi laboratori di ricerca,
l'innovazione tende a essere trasformata in un'attività di
routine.
La crescita assoluta e relativa delle grandi imprese e la
burocratizzazione del processo innovativo renderebbero superflua la
figura centrale del capitalismo moderno, l'imprenditore, e
renderebbero pertanto sempre più difficile la sopravvivenza
del capitalismo, favorendo l'avvento del socialismo centralizzato:
il collettivismo pubblico verrebbe a sostituire un sistema che tende
ad assumere sempre più le caratteristiche di un collettivismo
privato. In tal modo Schumpeter, che ideologicamente era un
conservatore, analiticamente si avvicina a Marx che aveva già
considerato, sia pure per brevi cenni, la tendenza alla
concentrazione; Marx, tuttavia, sosteneva l'ineluttabilità
dell'avvento del socialismo su basi in gran parte diverse: il ruolo
principale era svolto dal crescente immiserimento delle masse.
Oggi appare chiaro che la tendenza alla concentrazione, che è
stata osservata in diverse importanti attività economiche,
è stata interpretata in termini troppo schematici sia da Marx
sia da Schumpeter. In particolare, Schumpeter ha sottovalutato
gravemente il ruolo che tuttora svolgono gli inventori individuali e
il ruolo dei ricercatori e degli inventori che operano in istituti
universitari e in altri organismi autonomi. Il flusso delle nuove
idee e delle invenzioni che hanno una tale origine riveste
importanza essenziale anche per le grandi imprese, i cui laboratori
spesso sviluppano invenzioni di provenienza esterna. Schumpeter ha
inoltre sottovalutato il ruolo che piccole e piccolissime imprese
possono avere e spesso hanno avuto nell'avviare importanti
innovazioni, che in seguito sono riprese e sviluppate dalle grandi.
Per di più, anche come conseguenza di certe innovazioni, come
quelle connesse all'elettronica, sono sorti nuovi spazi per le
piccole imprese, il cui peso, nonostante la tendenza verso la
concentrazione, era sempre rimasto considerevole e negli ultimi due
decenni è progressivamente cresciuto in tutti i paesi
industrializzati.
l) Max Weber, la sociologia e il processo di burocratizzazione
Joseph Schumpeter è un economista, ma è anche un
sociologo e un politologo: possono essere classificate con queste
ultime due etichette alcune sue opere, come L'imperialismo e le
classi sociali e Capitalismo, socialismo e democrazia.
Un altro grande studioso, quasi contemporaneo di Schumpeter, Max Weber (1864-1920), viene
generalmente considerato come un sociologo, ma è stato
professore di economia politica (prima a Friburgo, poi a Heidelberg)
e si è occupato fra l'altro anche di temi strettamente
economici (quali i fondamenti della teoria marginalista del valore,
in una recensione del 1908 a un libro di Brentano). La sua opera
principale comunque resta Economia e società,
pubblicata postuma nel 1922.
Weber e Schumpeter sono due cospicui esempi dell'ampia
sovrapposizione che spesso si crea fra le scienze sociali, in
particolare fra economia e sociologia. Un altro esempio dello
stretto collegamento tra economia e sociologia è fornito
dall'opera dell'italiano Vilfredo Pareto, anche se, come si è
accennato sopra, il contributo di Pareto alla teoria economica
rientra nel filone marginalista dell'equilibrio economico generale e
fa capo quindi a una concezione che ha contribuito più a
separare che ad avvicinare le due discipline.
L'opera di Weber riguarda l'interpretazione del capitalismo moderno,
concepito come un grandioso processo di trasformazione, che, a sua
volta, è in primo luogo l'espressione di un processo di
razionalizzazione non solo dell'attività economica, ma
dell'organizzazione della società intera. Tale processo
s'incontra e per certi versi si scontra con le convinzioni
religiose, che possono essere più o meno favorevoli allo
'spirito del capitalismo'; tale processo s'incarna, fra l'altro, in
una progressiva burocratizzazione dell'organizzazione statale e del
sistema produttivo. Il processo di cui parla Weber si contrappone
sotto diversi aspetti, se non altro sotto l'aspetto quantitativo, al
processo di crescente proletarizzazione delineato da Marx.
L'evoluzione storica ha dato ragione a Weber, non a Marx,
giacché la burocrazia pubblica e privata è cresciuta
enormemente nei paesi sviluppati, mentre la quota dei proletari -
operai salariati- è cresciuta fin verso la fine del secolo
scorso, e in seguito, durante questo secolo, ha mostrato tendenza a
declinare. (Negli ultimi cento anni la massa degli impiegati
è cresciuta dal 5 al 30% della popolazione attiva in Italia,
dal 12 al 45% in Inghilterra e dal 14 al 49% negli Stati Uniti, con
l'avvertenza che oggi in Italia la burocrazia pubblica rappresenta
oltre la metà del totale, in Inghilterra poco meno della
metà e negli Stati Uniti un terzo. La quota del
'proletariato', dopo aver toccato o superato il 50% della
popolazione attiva, negli ultimi decenni è scesa nettamente
sotto tale livello. Com'è noto, oltre che dagli impiegati e
dagli operai, la popolazione attiva è costituita da
lavoratori autonomi).
L'economista deve considerare il processo di burocratizzazione
congiuntamente all'espansione degli interventi pubblici nella vita
economica e, nei tempi più vicini a noi, alla crescita dello
Stato sociale e degli apparati fiscale e parafiscale. Le stesse
teorie economiche vanno considerate con riferimento a queste
tendenze. Così, le politiche economiche ispirate da Keynes
non sarebbero state concepibili se il processo di burocratizzazione
nel senso di Weber non fosse andato molto avanti. Non pochi modelli
teorici vanno visti nella stessa prospettiva. Ad esempio, una teoria
delle retribuzioni - salari e stipendi - che miri ad avere efficacia
interpretativa non può non riconoscere che nel nostro tempo
le retribuzioni nominali sono rigide verso il basso: una
rigidità che si ricollega in vari modi alle forme
organizzative prevalenti nella burocrazia pubblica e privata e ai
sindacati, che per diversi aspetti rientrano nel processo weberiano
di burocratizzazione.
m) John Maynard Keynes e la disoccupazione di equilibrio
In opposizione alle tradizioni precedenti (classica e marginalista),
che considerano la moneta un semplice 'velo', cioè priva di
influenza sui livelli di equilibrio delle variabili 'reali'
(quantità prodotte, prezzi relativi di equilibrio e variabili
distributive), Keynes (1883-1946) insiste sull'influenza persistente, e non solo come
fattore di disturbo ciclico, che le vicende monetarie possono avere
su quelle reali. La formulazione matura della teoria keynesiana -
quella della Teoria generale del 1936 - può essere
illustrata a partire da tre elementi fondamentali: il concetto di
domanda effettiva, la teoria degli investimenti e del moltiplicatore
del reddito e una teoria monetaria basata sulla 'preferenza per la
liquidità'. Consideriamo rapidamente questi tre elementi.
La domanda effettiva esprime, per ogni livello di occupazione,
l'ammontare di prodotto che gli imprenditori si attendono di vendere
sul mercato; ed è considerata da Keynes come funzione
crescente - ma a velocità decrescente - del livello di
occupazione. Gli imprenditori decidono quanto produrre, e quindi in
quale misura utilizzare la capacità produttiva disponibile e
quanti lavoratori impiegare, confrontando la curva di domanda
effettiva con la curva di offerta. Quest'ultima indica, in
corrispondenza di ciascun livello di occupazione, l'ammontare di
vendite che gli imprenditori ritengono necessario per recuperare i
costi e ottenere un profitto appena sufficiente a indurli a
continuare la produzione. La curva di offerta è quindi una
funzione crescente del livello di occupazione; inoltre, nella Teoria
generale, Keynes afferma che essa tende a crescere man mano
più rapidamente a causa dell'aumento progressivo del costo
unitario di produzione (postulato della produttività
marginale decrescente). Pertanto, per livelli sufficientemente bassi
dell'occupazione la curva di domanda effettiva risulterà
superiore alla curva di offerta, mentre a un certo punto (detto
'punto di domanda effettiva') le due curve si incontreranno, e per
livelli di occupazione superiori la curva di offerta
risulterà superiore a quella di domanda.
Il livello di occupazione scelto dagli imprenditori corrisponde al
punto di domanda effettiva. In questo modo, osserva Keynes, tutto
dipende dalle aspettative degli imprenditori, e più
precisamente dalle 'aspettative di breve periodo', relative alle
possibilità di smercio dei prodotti. Inoltre, non vi è
alcuna ragione per cui il livello di occupazione così
determinato debba corrispondere a quello che assicura il pieno
utilizzo della capacità produttiva disponibile e,
soprattutto, la piena occupazione della forza-lavoro. Le aspettative
degli imprenditori risultano realizzate quando la domanda per beni
di consumo e d'investimento corrisponde al livello di produzione da
loro prescelto; in questo caso, rileva Keynes, anche in presenza di
disoccupazione e di capacità produttiva inutilizzata gli
imprenditori non hanno alcuno stimolo a espandere produzione e
occupazione. A sostenere quest'ultima tesi concorrono gli altri
elementi costitutivi della teoria keynesiana, in particolare la
teoria dell'investimento e quella della preferenza per la
liquidità che illustreremo tra poco.
In sintesi, Keynes ricorda che i consumi dipendono essenzialmente
dal reddito e quindi dai livelli di produzione, mentre lo stimolo
esterno alle variazioni della domanda aggregata viene dagli
investimenti; questi, a loro volta, dipendono dalle aspettative
degli imprenditori e dal tasso d'interesse, determinato sul mercato
monetario: non vi è motivo per cui questi elementi debbano
rispondere alla presenza di disoccupazione in modo da stimolarne il
riassorbimento. Di qui la tesi della possibilità di
'equilibri di sottoccupazione', cioè di situazioni di
disoccupazione persistente.
Il secondo elemento costitutivo della teoria keynesiana, come si
è accennato, è la sua teoria dell'investimento. Anche
in questo caso Keynes si pone dal punto di vista dell'imprenditore,
che decide se e quanto investire confrontando i costi
dell'investimento con i ricavi che ci si attendono da esso. Le
aspettative dell'imprenditore - che in questo caso sono 'aspettative
di lungo periodo', in quanto riguardano un arco di tempo piuttosto
lungo, corrispondente alla vita attiva degli impianti in cui si
concreta l'investimento - sono secondo Keynes piuttosto 'volatili',
in quanto riguardano un futuro incerto, e sono quindi estremamente
sensibili a variazioni del 'clima generale di opinioni'. Per
confrontare i costi dell'investimento con i ricavi che ci si attende
di ottenere da esso negli anni di funzionamento dell'impianto
occorre scontare - cioè ridurre a valori attuali, in lire di
oggi - il valore atteso dei ricavi, utilizzando il tasso
d'interesse; per questa via le vicende monetarie, che come vedremo
fra poco determinano il livello dei tassi d'interesse, influiscono
sulle vicende 'reali' dell'economia, contribuendo a determinare il
livello degli investimenti e, tramite esso, il livello della
produzione e dell'occupazione. Infatti il livello della produzione
è collegato agli investimenti tramite il cosiddetto
'moltiplicatore': un concetto originariamente elaborato da un
allievo di Keynes, Richard Kahn (1905-1989), in un articolo del
1931, per indicare l'impulso espansivo prodotto da un investimento
(o da una spesa pubblica) addizionale sul reddito in condizioni di
diffusa disoccupazione; l'effetto espansivo è superiore al
volume dell'investimento addizionale a causa dell'espansione della
spesa per consumi da parte dei lavoratori precedentemente
disoccupati e che ora trovano un impiego.
Il terzo elemento fondamentale della teoria keynesiana è
costituito dalla teoria della 'preferenza per la liquidità'.
Keynes respinge sia la 'teoria quantitativa della moneta', sia la
teoria del tasso d'interesse basata sul confronto fra domanda e
offerta di 'fondi disponibili per i prestiti'. Consideriamo per
prima la teoria quantitativa. Essa si basa sull'equazione degli
scambi, MV = PQ, che indica semplicemente che il valore dei beni e
servizi scambiati sul mercato (pari a quantità Q moltiplicata
prezzo P) è pari al valore della moneta che passa di mano in
senso inverso (pari a M, quantità di moneta in circolazione,
moltiplicata per V, velocità di circolazione, cioè
numero di volte in cui viene utilizzata in media ciascuna
unità di moneta in circolazione). La teoria quantitativa
sostiene che il livello generale dei prezzi varia in proporzione
alle variazioni dell'offerta di moneta (cioè che P varia in
proporzione a M), in quanto suppone che sia possibile considerare
relativamente stabili sia la velocità di circolazione della
moneta V, determinata da fattori istituzionali che cambiano solo
molto lentamente, sia il prodotto Q, che le forze di mercato tendono
a mantenere al livello di piena occupazione. Viceversa, Keynes
sostiene che né l'una né l'altra ipotesi possono
essere considerate valide; infatti la velocità di
circolazione della moneta cambia anche nel breve periodo, in
conseguenza di spostamenti da moneta a titoli e viceversa nelle
preferenze dei soggetti economici; il prodotto Q, come si è
appena accennato, può variare in quanto per Keynes è
possibile che gli imprenditori decidano di non utilizzare appieno la
capacità produttiva e la forza-lavoro disponibili.
Come si è accennato sopra, Keynes respinge anche la teoria
del tasso d'interesse dominante nella tradizione marginalista,
secondo cui esso è determinato sul mercato dei fondi
prestabili dal confronto tra l'offerta di tali fondi (i risparmi,
che sono funzione crescente del tasso d'interesse) e la domanda, che
viene essenzialmente dagli imprenditori. Questi ultimi infatti
chiedono denaro in prestito per finanziare gli investimenti, che
sono funzione decrescente del tasso d'interesse. Keynes replica che
sia i risparmi sia gli investimenti dipendono essenzialmente da
altre variabili: i risparmi dal livello del reddito, gli
investimenti dalle aspettative degli imprenditori. Il tasso
d'interesse risulta invece determinato sul mercato monetario dalla
'preferenza per la liquidità', cioè dalle scelte dei
soggetti economici sulla forma in cui tenere la ricchezza accumulata
(che è uno stock, e quindi generalmente ha dimensioni ben
maggiori del flusso annuo di risparmi e investimenti). Tale scelta
riguarda essenzialmente titoli (azioni e obbligazioni) e moneta
(legale o bancaria); e dipende sia dai rendimenti, sia soprattutto
dalle aspettative di variazioni dei prezzi delle attività
finanziarie, che continuamente determinano guadagni e perdite in
conto capitale. Le attività più 'liquide' sono quelle
che all'occorrenza è più facile trasformare in moneta
legale, con probabilità minime di ottenere guadagni o subire
perdite in conto capitale: dopo le banconote vengono i depositi di
conto corrente, e poi man mano, in ordine di liquidità
decrescente, i buoni del Tesoro, le obbligazioni, le azioni, beni
rifugio come l'oro e i diamanti, gli immobili.
Il tasso d'interesse dipende dall'offerta di attività liquide
(moneta a corso legale e moneta bancaria), cioè dalle scelte
delle autorità monetarie, e dalla domanda di moneta,
cioè dalla 'preferenza per la liquidità' dei privati.
Pertanto il tasso d'interesse risulta determinato sul mercato
monetario, e non rappresenta una variabile 'reale' determinata dalle
scelte di risparmio e investimento. In questo modo, come si
accennava, le vicende monetarie influiscono su investimenti, reddito
e occupazione.
L'obiettivo fondamentale di Keynes consiste dunque nel mostrare che
un'economia di mercato non tende automaticamente alla piena
occupazione. Ma il ristagno produttivo e la disoccupazione
costituiscono una minaccia per l'organizzazione civile della
società. Perciò la stessa sopravvivenza del
capitalismo, che sarebbe messa in discussione da condizioni di
disoccupazione elevata e persistente, richiede, secondo Keynes, un
vigoroso intervento pubblico per stimolare l'attività
economica e sostenere l'occupazione.
Negli ultimi cinquant'anni, e in particolare negli anni cinquanta e
sessanta, numerosi economisti 'keynesiani' hanno identificato tale
intervento pubblico in politiche fiscali e monetarie espansive,
cioè in politiche di spesa pubblica in disavanzo per
sostenere la domanda aggregata di beni e servizi, e in politiche di
espansione della liquidità dirette a ridurre i tassi
d'interesse e quindi a favorire gli investimenti. In realtà,
Keynes proponeva soprattutto di creare un ambiente di consuetudini e
istituzioni, anche internazionali, tale da stimolare sia un clima di
aspettative imprenditoriali favorevoli agli investimenti, sia una
riduzione dell'incertezza che condiziona le decisioni sui livelli di
produzione delle imprese; in quest'ambito rientrano proposte quali
la predisposizione di programmi d'investimento pubblici da
realizzare nei momenti di ristagno, o la riforma delle istituzioni
monetarie e finanziarie internazionali diretta a favorire i commerci
e lo sviluppo economico.
L'analisi di Keynes, concentrando l'attenzione su alcuni aspetti del
funzionamento del sistema economico, fa passare in secondo piano
altri aspetti non meno importanti di quelli considerati; in gran
parte degli economisti postkeynesiani, ciò si traduce in una
visione eccessivamente semplificata dell'economia. In particolare,
l'assunzione della tecnologia data, fatta da Keynes nella Teoria
generale per focalizzare l'attenzione sugli elementi al
centro della sua analisi, ha spesso indotto gli economisti
keynesiani a trascurare il ruolo del cambiamento tecnologico, e
quindi a sottovalutare l'importanza dei fattori, anche 'di breve
periodo', che lo favoriscono, come dei suoi effetti su reddito e
occupazione, ma anche sulla struttura stessa del sistema economico.
L'ottica 'aggregata' dell'analisi keynesiana, evidente nell'uso di
un indice unico per il 'livello dei prezzi' (un uso che Keynes
stesso aveva criticato nel suo Trattato della moneta del
1930), ha portato non solo a trascurare il rapporto tra mutamenti
strutturali dell'economia da un lato e andamento del reddito e
dell'occupazione dall'altro, ma anche a una perniciosa separazione
tra analisi microeconomica (teoria dei prezzi relativi, della
struttura dei consumi, delle forme di mercato e della distribuzione
del reddito) e analisi macroeconomica (teoria della moneta, del
reddito e dell'occupazione), già criticata dallo stesso
Keynes ma ormai cristallizzata nella pratica di molti corsi
d'insegnamento universitari. Anche da questo probabilmente deriva la
scarsa attenzione spesso prestata nella concreta attuazione di
politiche fiscali e monetarie espansive alla distinzione tra spese
produttive e improduttive.
3. Il dibattito contemporaneo
Nel variegato panorama contemporaneo sono presenti diversi gruppi di
economisti, i principali fra i quali si richiamano più o meno
direttamente alle maggiori scuole economiche illustrate sopra.
Distinguiamo quattro gruppi principali: gli economisti della
'sintesi neoclassica', dominanti per oltre trent'anni dopo la
conclusione della seconda guerra mondiale, caratterizzati
dall'innesto di elementi keynesiani - particolarmente per quel che
riguarda la politica economica - sul tronco della tradizione
marginalista; gli economisti monetaristi e la scuola delle
aspettative razionali, caratterizzati dal rifiuto più o meno
radicale dell'intervento pubblico nell'economia e, sul piano
più strettamente teorico, da un rifiuto della teoria
keynesiana in quanto contraddittoria con la struttura analitica
dell'approccio marginalista; gli economisti postkeynesiani, che
tendono a sviluppare gli elementi della teoria keynesiana più
eterodossi rispetto alla tradizione marginalista; Sraffa e gli
economisti che condividono il suo progetto culturale di un ritorno
all'impostazione della scuola classica.
a) La sintesi neoclassica
Di fronte all'esperienza della grande depressione degli anni trenta,
molti economisti sono indotti a prestare orecchio alle idee di
Keynes sui rimedi di politica economica alla disoccupazione, pur
senza abbandonare la teoria marginalista del valore e della
distribuzione che costituisce la base della loro formazione
professionale. Questi economisti perciò cercano di
reinterpretare la teoria di Keynes introducendo alcune ipotesi per
rendere l'esistenza di disoccupazione compatibile con la teoria
marginalista. Lungo questa strada procede in particolare John Hicks (1904-1989, premio
Nobel nel 1972).
In un articolo del 1939, Hicks propone il cosiddetto schema IS-LM,
che traduce la teoria keynesiana nei termini più tradizionali
di un modello di equilibrio economico generale semplificato,
caratterizzato dalla presenza di tre mercati: il mercato dei beni,
quello della moneta e quello dei titoli (quest'ultimo però
gioca un ruolo puramente passivo, mentre l'attenzione si concentra
sui primi due). Il mercato dei beni è in equilibrio quando
l'offerta, cioè la produzione, è eguale alla domanda
aggregata (che nell'ipotesi semplificata di un sistema senza
rapporti con l'estero, senza spesa pubblica e senza prelievo fiscale
corrisponde alla somma della domanda per beni di consumo e di quella
per beni d'investimento); e ciò si verifica quando i
risparmi, che sono funzione crescente del reddito, sono eguali agli
investimenti, considerati funzione decrescente del tasso
d'interesse. Il mercato della moneta è in equilibrio quando
offerta e domanda di moneta sono eguali; secondo l'ipotesi della
moneta esogena, l'offerta di moneta è determinata dalle
autorità monetarie che controllano l'emissione di moneta a
corso legale e, indirettamente, la quantità di moneta
creditizia che può essere creata dalle banche; la domanda di
moneta è pari alla somma della domanda di moneta a scopo di
transazione, che è funzione crescente del reddito, e della
domanda di moneta a scopo speculativo - quella su cui Keynes aveva
concentrato l'attenzione, e che esprime la scelta sulla forma,
moneta o titoli, in cui tenere la propria ricchezza -, che è
considerata funzione decrescente del tasso d'interesse.
Lungo la strada intrapresa da Hicks procede anche Franco Modigliani (n. 1918,
premio Nobel nel 1985), economista statunitense di origine italiana,
emigrato negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali.
Per certi aspetti Modigliani accetta lo schema IS-LM; accanto al
mercato dei beni e a quello della moneta (e a quello dei titoli
finanziari, che come si è detto resta sullo sfondo), egli
però considera esplicitamente anche il mercato del lavoro.
Come per gli altri mercati, le variazioni del prezzo tendono ad
assicurare l'equilibrio tra domanda e offerta: nel nostro caso,
dunque, le variazioni del salario reale - che è il prezzo dei
servizi dei lavoratori -, portando in equilibrio domanda e offerta
di lavoro, tendono ad assicurare la piena occupazione. Per ottenere
il risultato keynesiano, cioè la possibilità di una
situazione di disoccupazione persistente, occorre allora introdurre
qualche ostacolo che impedisca il libero funzionamento del mercato
del lavoro. Quest'ostacolo è individuato nella natura non
concorrenziale del mercato del lavoro dovuta alla forza contrattuale
dei sindacati. In questo modo la teoria keynesiana viene presentata
come un caso particolare della teoria marginalista: quel caso in cui
l'equilibrio di piena occupazione non può essere raggiunto,
perché il mercato del lavoro non è concorrenziale, per
cui la presenza di disoccupazione non influisce sui salari monetari
e, tramite questi, sui salari reali.
Si ha così la sintesi neoclassica, che in questo dopoguerra,
e fino a un'epoca relativamente recente, ha dominato l'insegnamento
della macroeconomia nelle università di tutto il mondo
(grazie anche al successo del testo Economia di Paul Samuelson - n. 1912,
premio Nobel nel 1970 -, che ha avuto oltre 10 milioni di lettori
dal 1948 a oggi).
La sintesi neoclassica riassorbe la tesi keynesiana della
possibilità di equilibri di sottoccupazione nell'ambito della
concezione marginalista tradizionale, legata all'idea di mercati in
cui le variazioni del prezzo tendono ad assicurare l'equilibrio tra
domanda e offerta. La natura non concorrenziale del mercato del
lavoro spiega la disoccupazione, causata come si è detto
dalla rigidità dei salari verso il basso; ciò apre la
strada a riconoscere l'utilità dell'intervento pubblico
nell'economia, perché la disoccupazione può essere
combattuta tramite l'utilizzo della politica fiscale e monetaria,
utili in generale per regolare l'andamento dell'economia evitandone
o riducendone le oscillazioni cicliche. Naturalmente, in presenza di
un qualche potere di mercato da parte dei sindacati, l'intervento
pubblico diretto a favorire la riduzione della disoccupazione
può contemporaneamente favorire un aumento del tasso di
crescita dei salari monetari, e quindi dell'inflazione. Il trade-off
(relazione inversa) tra disoccupazione e tasso d'inflazione è
stato riproposto in un celebre articolo del 1958 dall'economista
neozelandese A.W. Phillips (1914-1975); la curva decrescente che
rappresenta tale relazione inversa (detta 'curva di Phillips')
costituisce, per gli economisti della 'sintesi neoclassica',
l'insieme delle possibili scelte di politica economica. Ma, come si
accennerà più avanti, tale concezione è stata
oggetto di varie critiche negli ultimi venticinque anni.
b) Monetaristi e teorici delle aspettative razionali
All'interno della tradizione marginalista si apre, a partire
dagli anni cinquanta, un vivace dibattito sulla plausibilità
delle ipotesi necessarie per assicurare il risultato 'keynesiano' di
una disoccupazione persistente. Questo dibattito in sostanza
riguarda la forza dei meccanismi di mercato nel ristabilire
l'equilibrio tra domanda e offerta nel caso del lavoro, e
l'opportunità dell'intervento pubblico in campo economico.
Fra quanti nutrono fiducia nei meccanismi riequilibratori del
mercato e ostilità verso l'intervento pubblico nell'economia,
particolare rilievo ha la Scuola di Chicago. Milton Friedman (n. 1912,
premio Nobel nel 1976) è considerato il massimo esponente di
questa scuola. Egli sviluppa una teoria della moneta diversa da
quella di Keynes, riprendendo e sviluppando le tesi della vecchia
teoria quantitativa. In particolare, nel lungo se non nel breve
periodo, il livello di equilibrio del reddito dipende da fattori
'reali' come le dotazioni di risorse, la tecnologia e le preferenze
dei soggetti economici; la velocità di circolazione della
moneta è considerata come funzione stabile dei tassi di
rendimento dei vari tipi di attività (moneta, titoli, beni,
'capitale umano').
Friedman sostiene quindi che le vicende monetarie, in particolare
l'offerta di moneta (che è considerata esogena), possono
influire sul reddito e sull'occupazione solo nel breve periodo; nel
lungo periodo le variazioni dell'offerta di moneta influiscono solo
sul livello generale dei prezzi (in altri termini, la 'curva di
Phillips' risulta inclinata negativamente solo nel breve periodo, ma
diventa verticale nel lungo periodo).
Inoltre Friedman condanna gli interventi di politica monetaria e
fiscale diretti a sostenere la domanda globale e quindi il reddito e
l'occupazione; non solo perché l'efficacia di questi
interventi è limitata al breve periodo, ma anche
perché gli stessi effetti di breve periodo sono incerti, e
possono anzi risultare negativi. Infatti, ricorda Friedman, gli
interventi di politica economica sono soggetti a tre tipi di ritardi
e di incertezze: 1) quelli inerenti alla valutazione della
situazione su cui intervenire; 2) quelli inerenti al passaggio dalla
valutazione alla decisione dell'intervento e alla sua attuazione; e,
infine, 3) quelli relativi al passaggio dall'attuazione
dell'intervento al momento in cui si esplicano i suoi effetti. A
causa di questi ritardi e incertezze è possibile, ad esempio,
che gli interventi esercitino gli effetti previsti ma in una
situazione diversa, in cui sarebbero necessari interventi di segno
opposto. Quindi gli interventi di politica economica possono avere
un effetto destabilizzante, cioè ampliare, anziché
ridurre, le fluttuazioni del reddito.
Una tesi ancora più estrema viene sostenuta dai teorici delle
'aspettative razionali' (gli statunitensi J.F. Muth, R.E.
Lucas, T.J. Sargent).
Secondo questi ultimi, i soggetti economici imparano a tener conto
dell'intervento pubblico nell'economia, scontandone gli effetti in
anticipo; così, ad esempio, una spesa pubblica in disavanzo,
cioè non finanziata con un aumento contemporaneo delle tasse,
decisa per stimolare la domanda globale, viene controbilanciata da
una riduzione dei consumi privati, decisa per accantonare i risparmi
con cui pagare le tasse che prima o poi dovranno venire imposte per
far fronte agli oneri del debito pubblico con cui viene finanziata
la spesa pubblica. Pertanto, la 'curva di Phillips' risulta
verticale anche nel breve periodo: gli interventi di politica
monetaria e fiscale espansivi possono produrre solo aumenti del
tasso d'inflazione, e non del livello di disoccupazione. (Si
può notare, per inciso, che queste ipotesi presuppongono che
tutti i soggetti economici condividano uno stesso modello di
funzionamento dell'economia, e siano dotati di una cultura economica
e di una capacità di previsione che sarebbe un eufemismo
definire irrealistiche).
L'unico tipo di politica economica ammessa dai teorici delle
aspettative razionali è quello diretto a ridurre le frizioni
nel funzionamento del mercato: le cosiddette 'politiche
dell'offerta', consistenti ad esempio nel facilitare la
mobilità dei lavoratori da un posto di lavoro a un altro, o
nell'assicurare che le qualifiche di cui la forza-lavoro del paese
viene dotata corrispondano agli sbocchi professionali offerti dal
mercato.
c) I postkeynesiani
Di fronte alla reinterpretazione della teoria di Keynes proposta
dalla sintesi neoclassica e alle critiche monetariste, si è
avuta una decisa reazione da parte di un gruppo di economisti noti
come postkeynesiani (come gli inglesi Joan Robinson, 1903-1983, e Richard Kahn; l'ungherese,
naturalizzato inglese, Nicholas
Kaldor, 1908-1986 ; gli statunitensi Sidney Weintraub, 1914-1983, e Hyman Minsky, n. 1920).
Questi economisti sottolineano che lo schema IS-LM proposto da Hicks
e condiviso dagli economisti della sintesi neoclassica relega in
secondo piano l'elemento più caratteristico della concezione
keynesiana: l'incertezza sul futuro che domina le decisioni degli
operatori economici. Nel caso della funzione degli investimenti, ben
più importanti del tasso d'interesse sono le aspettative
degli imprenditori sulla redditività dei vari progetti
d'investimento: aspettative che Keynes considera 'volatili', nel
senso che cambiano continuamente, a seconda ad esempio del clima
politico e delle condizioni economiche generali.
Nel caso della domanda di moneta, Keynes considera le aspettative
sul futuro (per la precisione, sull'andamento futuro del tasso
d'interesse) essenziali nel determinare la domanda di moneta a scopo
speculativo, che egli considera la componente principale della
domanda di moneta, e soprattutto quella che ne determina la continua
variabilità. Di fronte alla rilevanza dell'incertezza sul
futuro, alla volatilità delle aspettative, e alla conseguente
variabilità delle relazioni che legano gli investimenti e la
domanda di moneta a scopo speculativo al tasso d'interesse, gli
economisti postkeynesiani considerano fuorviante la rappresentazione
di mercati in equilibrio, per i beni come per la moneta, cioè
la concezione che è alla base dello schema IS-LM.
In luogo dell'equilibrio simultaneo dei vari mercati, tipico della
tradizione marginalista e ripreso nello schema IS-LM, gli economisti
postkeynesiani propongono una caratterizzazione del sistema
economico basata su una sequenza di nessi di causa ed effetto: la
domanda speculativa di moneta, assieme alla politica monetaria della
banca centrale, influisce sul tasso d'interesse; questo a sua volta,
assieme alle aspettative, influisce sul livello degli investimenti;
gli investimenti, tramite il moltiplicatore, determinano il livello
del reddito e dell'occupazione. In questo modo si sottolinea
l'influenza che le vicende dei mercati monetari e finanziari
esercitano sul reddito e sull'occupazione, in contrapposizione alle
tesi della tradizione classica e marginalista sulla
'neutralità' della moneta. Inoltre, vari economisti
postkeynesiani sostengono che l'offerta di moneta è endogena:
cioè che la quantità di moneta in circolazione
(particolarmente la moneta bancaria) non è controllata in
modo rigido dalle autorità monetarie, ma dipende, almeno in
parte, dalle decisioni di altri soggetti.
d) L'offerta di moneta in Keynes e nei monetaristi
Data l'importanza non solo teorica ma anche pratica che riveste la
questione del modo di concepire l'offerta di moneta, conviene
ritornare sui punti di vista espressi da Keynes e dai monetaristi.
Si è già ricordato che vari economisti postkeynesiani
hanno sostenuto che l'offerta di moneta è endogena; hanno
sostenuto tale tesi in chiave critica sia dello schema IS-LM di
Hicks sia delle teorie dei monetaristi. Ora, è necessario
ricordare che la massa monetaria si compone di diversi tipi di mezzi
monetari, fra cui i principali sono i biglietti della banca centrale
e i depositi presso le banche ordinarie. Se per i biglietti il
controllo dell'autorità monetaria è diretto, pur se
neppure qui totale, per i depositi è solo indiretto. Le
variazioni dei depositi dipendono infatti principalmente dalle
decisioni delle imprese; tuttavia, le loro iniziative assumono
rilevanza monetaria solo se le banche ordinarie accolgono le
richieste di prestiti concedendo aperture di credito o trasformando
titoli di credito che non hanno funzioni monetarie, come le
cambiali, in depositi, che costituiscono moneta bancaria. A loro
volta, le decisioni delle banche ordinarie nel creare depositi
possono incontrare un limite superiore nella politica della banca
centrale; tuttavia, l'affermazione che la banca centrale è in
grado di porre un limite all'espansione della moneta bancaria
è ben diversa dall'affermazione che la massa dei mezzi
monetari sia determinata dalla banca centrale.
Questi due flussi di mezzi monetari dipendono dunque da impulsi
significativamente, anche se solo parzialmente, diversi: come
è dimostrato dal fatto che in certe circostanze, quali quelle
che si verificarono all'insorgere della grande depressione nel 1929,
la massa dei biglietti non diminuì e anzi ebbe un sia pur
limitato aumento, mentre la massa dei depositi subì una forte
contrazione. Fra l'altro, ciò indica che anche nelle
fluttuazioni cicliche l'influenza della politica monetaria adottata
dalla banca centrale è importante ma non dominante, almeno di
norma.
Né la tesi del carattere endogeno né quella del
carattere esogeno della moneta sono dunque pienamente valide; sembra
tuttavia più vicina al vero la prima tesi. Sia Keynes nella Teoria
generale, sia Friedman assumono come esogena la moneta; sotto
questo aspetto Hicks nel suo modello IS-LM non tradisce il pensiero
di Keynes. Tuttavia, mentre nel caso della teoria keynesiana
l'assunzione di moneta esogena può essere abbandonata senza
gravi conseguenze (le conseguenze possono essere gravi per lo schema
di Hicks), ciò non vale per la teoria monetarista, la quale
non può fare a meno di quell'assunzione: soltanto con essa,
infatti, la moneta può apparire come motore e non come
cinghia di trasmissione. La teoria monetarista tuttavia - l'abbiamo
già accennato - considera la moneta come motore non delle
quantità reali (che possono variare per effetto della
politica monetaria solo in via transitoria), ma solo delle
quantità nominali, in particolare dei prezzi.
La grave limitazione che i moderni monetaristi hanno in comune con i
sostenitori dell'antica teoria quantitativa della moneta - tra cui
emerge lo statunitense Irving
Fisher (1867-1947) - sta proprio in ciò, che essi
non riescono a concepire variazioni generalizzate dei prezzi che non
siano da attribuire a variazioni della quantità di moneta,
mentre in realtà hanno luogo sia diminuzioni sia aumenti
generalizzati dei prezzi non provocati da impulsi monetari. Ad
esempio, la moneta non gioca un ruolo attivo quando i prezzi variano
perché i salari monetari crescono più rapidamente
della produttività del lavoro, o perché variano i
prezzi delle materie prime e delle fonti di energia, o per misure di
politica tributaria capaci d'influire sui prezzi attraverso i costi;
e gli esempi potrebbero continuare. Si verificano indubbiamente
circostanze in cui variazioni generalizzate dei prezzi dipendono da
quelle della massa dei mezzi monetari; così, per esempio,
quando durante una guerra o in tempo di pace la banca centrale
aderisce alla richiesta del governo di finanziare il disavanzo del
bilancio statale con la creazione di biglietti, può aver
luogo un processo inflazionistico.
In breve, la formula con cui Fisher aveva sintetizzato l'antica
teoria quantitativa della moneta, rielaborata ma non radicalmente
modificata da Friedman, e cioè MV = PQ ovvero P = MV/Q, ha la
natura di una tautologia e non può non essere sempre vera;
per trasformarla in una formula esplicativa, occorre fare delle
ipotesi su quali fra le quattro variabili che compaiono nella
formula vadano considerate date, cioè determinate da fattori
esterni alla teoria (o 'esogeni'). Se si assumono come dati la
velocità di circolazione, V, e la quantità di beni, Q,
lasciando liberi di variare M e P; se inoltre si assume che M vari
per effetto del finanziamento di un deficit pubblico; allora
è vero che le variazioni del livello dei prezzi dipendono da
quelle di M. Ma se si ipotizza che il livello dei prezzi vari per
impulsi esterni alla formula, come quelli provenienti dai costi cui
si è fatto riferimento poco fa, allora la massa dei mezzi
monetari e la velocità di circolazione giocano un ruolo
passivo e non attivo nelle variazioni dei prezzi. Anzi, se
l'autorità monetaria adotta una politica accomodante e
accresce la quantità di moneta, man mano che i prezzi
aumentano per effetto dell'aumento di certi costi, allora
all'aumento di P si accompagna l'aumento di M, ma il secondo aumento
è essenzialmente effetto e non causa del primo aumento.
Se invece l'autorità monetaria adotta una politica non
accomodante ma restrittiva, può aver luogo una recessione
senza che essa blocchi l'aumento dei prezzi. (In un secondo momento,
tuttavia, la crescita dei prezzi potrà rallentare o
arrestarsi, se proviene da un aumento dei salari, e se questo viene
frenato dall'aumento della disoccupazione che si accompagna alla
recessione).Il fatto che la relazione P = MV/Q è sempre vera
non autorizza dunque ad attribuire sempre alla massa monetaria la
responsabilità di aumenti generalizzati dei prezzi.
Osservazioni analoghe valgono per flessioni generalizzate dei
prezzi, come quelle che avvennero ripetutamente nel secolo scorso:
queste flessioni vanno collegate principalmente ad aumenti della
produttività del lavoro accompagnati da aumenti più
lenti nei salari nominali. In contrasto con certe spiegazioni che
s'ispiravano a qualche variante della teoria quantitativa, il ruolo
giocato dalla moneta - nel secolo scorso nei paesi più
sviluppati la moneta di base era l'oro - fu, se non proprio nullo,
decisamente secondario.
e) Piero Sraffa
Il disegno culturale perseguito da Piero Sraffa (1898-1983) è decisamente di
vasta portata: operare un capovolgimento delle linee di ricerca
della scienza economica, detronizzando l'approccio marginalista
dominante e proponendo in suo luogo l'impostazione originaria degli
economisti classici. In analogia con la linea d'indagine seguita
dagli economisti classici, in Produzione di merci a mezzo di
merci (pubblicato nel 1960) Sraffa pone al centro della sua
analisi i rapporti che intercorrono in condizioni 'normali' tra i
vari settori, o industrie, in cui si articola un sistema economico
basato sulla divisione del lavoro. Come si è già
accennato a proposito dell'economia politica classica, ciascun
settore deve entrare in contatto con gli altri settori dell'economia
per ottenere da essi i propri mezzi di produzione in cambio di una
parte almeno del proprio prodotto. Si ha così quella rete di
scambi che caratterizza le economie basate sulla divisione
intersettoriale del lavoro. Come mostra Sraffa, il problema della
determinazione dei rapporti di scambio che si stabiliscono tra i
vari settori va affrontato, in un'economia capitalistica,
simultaneamente al problema della distribuzione del reddito tra le
classi sociali dei lavoratori, dei capitalisti e dei proprietari
terrieri. L'intersezione tra questi due problemi costituisce
ciò che nella tradizione classica è indicato come
problema del valore.
La critica dell'approccio marginalista proposta da Sraffa pone in
rilievo il fatto che il 'capitale' è in realtà un
insieme di mezzi di produzione prodotti, i cui prezzi variano in
modo non univoco al variare della distribuzione del reddito, di modo
che non è possibile affermare a priori che una riduzione del
salario provochi una riduzione nell'utilizzo di 'capitale' rispetto
al lavoro.
Senza entrare nei dettagli analitici del dibattito, ci limitiamo a
osservare che la critica di Sraffa colpisce una tesi vitale per la
tradizione marginalista: l'idea che la riduzione del salario reale
causata dalla disoccupazione nel caso di un mercato del lavoro
concorrenziale porti a un riassorbimento della disoccupazione
stessa, inducendo gli imprenditori a scegliere tecniche a maggiore
intensità di lavoro (e a minore intensità di
capitale). Questo meccanismo è essenziale per sostenere la
tesi della capacità autoregolatrice del mercato, e la visione
dell'economia come scienza che studia, appunto, i meccanismi
equilibratori del mercato.Inoltre, Sraffa ripropone l'approccio
classico (di cui con la sua edizione critica delle opere di Ricardo
aveva riscoperto le fondamenta concettuali e la struttura
analitica), risolvendo il problema centrale del valore lasciato
aperto dagli economisti classici e da Marx.
La soluzione di Sraffa consiste nel determinare simultaneamente
prezzi relativi e una variabile distributiva 'residuale' (salario o
saggio del profitto), data la tecnologia corrispondente a un
determinato insieme di livelli di produzione e una variabile
distributiva 'esogena'. Sulla scia del lavoro di Sraffa, numerosi
economisti - fra i quali diversi italiani - hanno sviluppato i vari
aspetti del progetto culturale di ripresa della concezione classica:
con analisi di storia del pensiero economico, dirette a chiarire le
fondamenta concettuali dell'approccio classico e a distinguerle da
quelle proprie dell'approccio marginalista; con lavori di critica a
specifiche teorie marginaliste, in particolare relative alla teoria
della distribuzione, dell'occupazione, dell'accumulazione, del
commercio internazionale, e così via; con sviluppi analitici
diretti ad approfondire su punti specifici (come la produzione
congiunta, il capitale fisso, la scelta delle tecniche) il
contributo offerto nel libro di Sraffa; infine, con lavori meno
direttamente connessi all'analisi sraffiana, ma diretti a proporre
teorie d'impostazione classica sui diversi problemi dell'economia
politica, dalla teoria della distribuzione e dello sviluppo alla
teoria delle forme di mercato.
Attualmente fra le forme di mercato sembrano preminenti quelle di
tipo oligopolistico, il cui studio può essere utilizzato sia
in analisi parziali (analisi di singoli mercati), sia in analisi di
carattere generale (come quella consentita dal sistema di Sraffa),
sia nell'analisi delle variazioni nel tempo dei prezzi e delle quote
distributive. (Un'analisi di questo tipo è stata elaborata
dal polacco Michal Kalecki, 1899-1970, noto soprattutto per aver
precorso e poi sviluppato in modo originale alcuni aspetti centrali
della teoria keynesiana).
4. L'analisi dinamica
a) Diversi tipi di modelli; il processo di meccanizzazione
Le variazioni su cui si concentra l'analisi marginalista sono
variazioni istantanee e ipotetiche, fuori dal tempo. In
realtà, l'impostazione di quest'analisi è
essenzialmente statica: i pochi modelli teorici dinamici che sono
stati elaborati nell'ambito del marginalismo comportano spostamenti
ipotetici delle funzioni, un metodo che è dubbio rientri
nella dinamica. I modelli dell'analisi marginalista non soltanto
sono statici, ma soprattutto non sembrano suscettibili, neppure
attraverso successive approssimazioni, di sviluppi dinamici.
È un limite grave, se si considera che la nostra epoca
è dominata dai mutamenti tecnologici e dal processo di
sviluppo economico.
Gli economisti classici, segnatamente Adam Smith e David Ricardo,
attribuivano invece importanza fondamentale a entrambi i fenomeni.
Questo è manifestamente vero per Smith (il processo della
crescente divisione del lavoro consiste appunto in una serie
ininterrotta di mutamenti grandi e piccoli dei metodi produttivi da
cui consegue un aumento sistematico della produttività del
lavoro), ma è vero anche per Ricardo, non solo e non tanto
per la sua famosa analisi riguardante i possibili effetti negativi
sull'occupazione derivanti dall'introduzione di macchine, quanto per
il fatto che l'analisi delle tendenze delle quote distributive
(salari, profitti e rendite) è posta al centro della sua
costruzione teorica proprio per la sua importanza fondamentale in
relazione al processo di accumulazione e di sviluppo. In particolare
Ricardo pensava che la tendenza, da lui presunta, all'aumento
progressivo della quota del reddito nazionale destinata alle rendite
fondiarie fosse preoccupante proprio perché avrebbe
comportato la progressiva compressione della quota destinata ai
profitti, da cui dipende il processo di accumulazione.
Fra i modelli teorici di sviluppo non formalizzati, oltre quelli
degli economisti classici, troviamo il modello dello sviluppo
ciclico di Schumpeter, di cui si è detto, e il modello di
Marco Fanno (1878-1965), che riguarda principalmente il ciclo
economico ma, subordinatamente, anche il processo di sviluppo. Fra i
modelli formalizzati troviamo quello proposto dal grande matematico John von Neumann (1903-1957),
e i modelli di derivazione keynesiana elaborati in Gran Bretagna da
Roy Harrod (1900-1978) e negli Stati Uniti da Evsey Domar (n. 1914).
L'originaria teoria keynesiana aveva essenzialmente carattere
statico, ma si è rivelata suscettibile di sviluppi dinamici.
Ci sono poi modelli formali di crescita collegati più alla
lontana con la teoria keynesiana, come quelli di Nicholas Kaldor e
di Luigi Pasinetti (n.
1930). In questi modelli, come già nelle analisi di Smith, si
attribuisce il massimo rilievo al progresso tecnico, visto come
originato all'esterno del sistema economico.
Quest'ultimo punto merita riflessione. Infatti, mentre certe
innovazioni possono essere considerate indipendenti da impulsi
economici, altre invece provengono essenzialmente da impulsi di tal
genere, come l'espansione della domanda e l'aumento dei costi,
cosicché è compito dell'economista studiarli. È
da notare che Smith, secondo il quale la divisione del lavoro
è condizionata dall'estensione del mercato, aveva già
ben compreso che la crescita della domanda influisce in modo
significativo sul ritmo del progresso tecnico. Di norma, possono
essere considerate in gran parte indipendenti da impulsi economici
le innovazioni di grande rilievo, originate da invenzioni
scientifiche fuori dall'ordinario, mentre le innovazioni più
frequenti, di rilievo più modesto, spesso semplici
perfezionamenti di grandi innovazioni, sono indotte principalmente
da impulsi economici, fra cui sono appunto l'espansione della
domanda e l'aumento dei costi. Particolare importanza assumono le
innovazioni determinate da aumenti del costo relativo del lavoro,
ossia da aumenti del rapporto fra salari e prezzi delle macchine.
In effetti, lo sviluppo del capitalismo industriale moderno è
stato caratterizzato da un processo di progressiva meccanizzazione
(e in tempi recenti di progressiva automazione) dei processi
produttivi. L'aumento della produttività del lavoro che
accompagna la meccanizzazione può aver luogo in presenza di
salari monetari tendenzialmente stabili, o crescenti più
lentamente della produttività; ovvero può aver luogo
in presenza di salari monetari che crescono con la stessa
velocità o più rapidamente della produttività.
In tutti i casi, cresce il rapporto fra salari e prezzi (compresi i
prezzi delle macchine); e l'aumento di questo rapporto stimola la
sostituzione di macchine a lavoro. Il processo si autoalimenta, nel
senso che l'aumento di quel rapporto, che stimola l'introduzione di
nuove macchine, fa crescere la produttività; a sua volta,
tale aumento consente un aumento dei salari rispetto a tutti i
prezzi, compresi i prezzi degli stessi beni acquistati dai
lavoratori; di conseguenza, quel rapporto subisce un nuovo aumento.
Il processo comporta un aumento sistematico dei salari reali.
Nei periodi in cui l'aumento della domanda globale di beni è
stato più lento dell'aumento di produttività è
emersa una disoccupazione, che può essere vista come
disoccupazione tecnologica in quanto l'aumento di
produttività di norma trae origine da innovazioni
tecnologiche. Non è affatto necessario, tuttavia, che le
innovazioni determinino disoccupazione: spesso la domanda aggregata
aumenta alla stessa velocità e anche più rapidamente
della produttività, cosicché la disoccupazione non
compare o, al contrario, ha luogo un aumento dell'occupazione.
D'altra parte, in certe condizioni la domanda aggregata diminuisce:
compare allora una disoccupazione particolare, di tipo keynesiano.
b) Le variazioni di lungo periodo dei salari e dei prezzi
L'aumento dei salari reali può aver luogo quando i prezzi
dei beni acquistati dai lavoratori diminuiscono mentre i salari
monetari restano stabili o aumentano limitatamente; oppure quando i
salari monetari aumentano mentre i prezzi restano stabili o crescono
più lentamente dei salari. La prima tendenza ha avuto luogo
nel secolo scorso (in Inghilterra i prezzi dei prodotti finiti sono
diminuiti di oltre il 70%, negli Stati Uniti di quasi la
metà, mentre i salari monetari sono aumentati,
rispettivamente, del 70% e del 90%, ossia, in media, dello 0,5 o 0,6
% l'anno). La seconda tendenza - salari che aumentano più
rapidamente dei prezzi, anch'essi in aumento - ha avuto luogo dopo
la fine della seconda guerra mondiale. (Nel periodo compreso fra le
due guerre mondiali salari e prezzi hanno subito violente
oscillazioni; questo periodo è stato dominato dalla grande
depressione e richiede un'analisi a sé stante).
Non è indifferente che l'aumento di produttività dia
luogo a un aumento dei salari reali attraverso una flessione dei
prezzi mentre i salari monetari restano stabili o in moderato
aumento, ovvero attraverso un aumento dei salari monetari mentre i
prezzi restano stabili o in moderato aumento. Il primo meccanismo
infatti stimola il processo di sviluppo, tramite una catena di
diminuzioni di costi che si verifica quando l'aumento di
produttività ha luogo in un settore che produce mezzi di
produzione: in regime di concorrenza, la diminuzione dei costi crea
extra-profitti che inducono le imprese a espandere la produzione,
provocando diminuzioni di prezzo del prodotto (e quindi ulteriori
diminuzioni dei costi nei settori che lo utilizzano come mezzo di
produzione) fino a quando gli extra-profitti non vengono
riassorbiti.
Questa specifica sequenza, favorevole al processo di sviluppo, viene
meno quando - come accade se prevalgono forme di mercato
oligopolistiche - i prezzi non diminuiscono e i lavoratori
partecipano ai frutti del progresso tecnico tramite aumenti dei
salari monetari. In quest'ultimo caso restano, come stimoli allo
sviluppo già presenti nel periodo precedente (ma con
importanza minore), le innovazioni e gli aumenti della domanda
proveniente dall'estero o dal settore pubblico.
La transizione dalla prima alla seconda delle due tendenze
alternative, che contrassegnano due successivi periodi storici,
è collegata a profonde trasformazioni nella struttura delle
moderne economie capitalistiche. Le principali trasformazioni sono
la conseguenza del processo di concentrazione, che ha condotto alla
formazione di grandi e grandissime imprese, spesso di dimensioni
internazionali, e del processo di differenziazione dei prodotti,
consentito da un crescente livello del reddito individuale anche
nelle fasce relativamente più povere della popolazione e
favorito dalla diffusione della pubblicità. I due processi si
sono verificati nei mercati dei prodotti industriali e, con
caratteristiche particolari, nelle attività finanziarie e
creditizie.
Al tempo stesso, si sono rafforzati i sindacati dei lavoratori e si
sono diffuse, nel mercato del lavoro, varie forme di contrattazione
collettiva, ciò che ha contribuito a determinare una
crescente rigidità verso il basso dei salari. Nel secolo
scorso e ancora fino alla seconda guerra mondiale accadeva che i
salari monetari diminuissero; nei moderni paesi capitalistici
ciò non si è più verificato dopo la seconda
guerra mondiale, anzi, in questi paesi, i salari aumentano almeno in
proporzione alla produttività. Corrispondentemente, i prezzi
all'ingrosso dei prodotti finiti ben di rado diminuiscono e, se
ciò accade, la diminuzione è minima. Restano
flessibili verso l'alto come verso il basso i prezzi delle materie
prime, nei cui mercati hanno avuto scarsa rilevanza i due processi,
sopra ricordati, di concentrazione delle imprese e di
differenziazione dei prodotti.
Con salari rigidi verso il basso e flessibilità minima dei
prezzi dei prodotti finiti, quando si verifica una crisi o una
depressione, la ripresa, che nel passato era pressoché
automatica, oggi incontra difficoltà molto maggiori. Infatti,
l'aumento della domanda reale non è più stimolato dal
meccanismo concorrenziale di diffusione a catena di riduzioni dei
costi, extra-profitti, aumenti di produzione e riduzioni dei prezzi.
Nelle nuove condizioni, la ripresa può avere luogo o per
effetto d'investimenti stimolati da innovazioni, o per un aumento
della domanda estera, o per un'azione del governo. Nel caso che le
prime due spinte siano insufficienti, è il governo che deve
intervenire: la sua azione può consistere non solo in un
aumento delle spese pubbliche, ma anche in una politica creditizia
attiva. Gli stessi sindacati, spingendo in alto i salari, possono
contribuire all'aumento della domanda.
Le considerazioni appena svolte si collegano alla storia economica
più che alla teoria economica, e costituiscono elementi di
un'interpretazione che non è generalmente accolta. Ciò
nonostante le abbiamo proposte, perché i più recenti
sviluppi della teoria economica (di cui si è discusso sopra,
nel cap. 3) ben difficilmente possono essere compresi se non si fa
riferimento alle trasformazioni strutturali verificatesi nelle
moderne economie capitalistiche. Inoltre, quelle considerazioni
possono servire a illustrare un tema fondamentale già
ricordato al principio della nostra trattazione, cioè i
rapporti fra teoria economica e storia. Gli economisti che ignorano
la necessità di tali rapporti continuano imperterriti a
costruire modelli fondati sulle ipotesi, del tutto irrealistiche nel
mondo di oggi, della concorrenza atomistica e della
flessibilità verso il basso come verso l'alto dei prezzi e
dei salari.
Pur non analizzandole esplicitamente, Keynes aveva correttamente
interpretato le conseguenze di quelle trasformazioni, raccomandando,
in particolari condizioni, una politica attiva del credito e una
vigorosa espansione delle spese pubbliche, anche in deficit, per
promuovere la ripresa economica. Sulla scia di queste
raccomandazioni per l'assunzione di un ruolo attivo dello Stato
nell'economia, e sulla scia del crescente peso politico dei
lavoratori, un programma di spese sociali fu poi sistematicamente
elaborato da lord Beveridge (1879-1963), la cui opera Pieno
impiego in una società libera (1946), preparata con la
collaborazione di Kaldor e ricollegandosi esplicitamente alle teorie
keynesiane, ebbe grande influenza sulle politiche sociali di tutti i
paesi capitalistici.
Già in passato lo Stato era intervenuto per proteggere le
fasce più deboli della popolazione in diversi campi,
segnatamente in quelli delle pensioni, della sanità e della
disoccupazione. Ma solo dopo la seconda guerra mondiale l'azione
pubblica ha assunto le dimensioni che tutti conosciamo. Ciò
è stato reso possibile, fra l'altro, dall'accresciuto reddito
individuale medio. Tuttavia in alcuni paesi una spesa pubblica
eccessiva (anche per il suo utilizzo come 'ammortizzatore sociale'
dopo la crisi petrolifera del 1973-1974) ha contribuito negli anni
settanta e ottanta alla formazione e alla crescita dei disavanzi
pubblici non di breve ma di lungo periodo. A sua volta, ciò
ha contribuito - assieme alla diffusione, soprattutto negli Stati
Uniti e in Inghilterra, di dottrine monetariste favorevoli all'uso
di politiche monetarie restrittive come strumento di lotta
all'inflazione - a spingere verso l'alto il tasso dell'interesse,
frenando così gli investimenti e la crescita produttiva (non
solo nei paesi sviluppati, ma anche e soprattutto nei paesi del
Terzo Mondo, spesso appesantiti da enormi debiti esteri). Al tempo
stesso, in vari paesi sviluppati si è avuta una reazione
dell'opinione pubblica contro l'aumento della pressione fiscale (la
cosiddetta 'rivolta fiscale'), e contro l'espansione delle spese
pubbliche o, più in generale, contro gl'interventi pubblici
nell'economia. La diffusione del monetarismo o di teorie come quella
delle aspettative razionali, alle quali si è accennato sopra,
costituiscono espressioni teoriche di questa reazione.
L'importanza dell'azione pubblica nella vita economica, comunque,
non deve essere misurata semplicemente considerando il peso delle
spese pubbliche rispetto al prodotto interno lordo: un peso che in
certi paesi giunge al 50% e che nella patria del capitalismo
privato, gli Stati Uniti, si aggira sul 35%. Occorre anche
considerare il carattere dell'azione pubblica nei diversi settori,
specialmente nel fondamentale settore del credito, il cui vertice -
la banca centrale - è ormai in tutti i paesi un'istituzione
pubblica, pur dotata di autonomia, e la cui base - le aziende di
credito - è in vari modi controllata dall'autorità
monetaria o è addirittura, in parte, posseduta dallo Stato o
da enti pubblici (in Italia la quota dei depositi che fa capo ad
aziende di credito pubbliche raggiunge il 70%; in altri paesi
sviluppati la quota è minore, ma non è mai
trascurabile). D'altra parte, il gran peso assunto dai titoli
pubblici nei mercati finanziari ha reso possibile un controllo
pubblico della politica creditizia impensabile nel secolo scorso.
Anche questi interventi di carattere istituzionale hanno dato luogo
ad abusi molto gravi, cosicché anche in questo caso le
reazioni contro gl'interventi pubblici sono ben comprensibili.
Tuttavia, il rimedio non sta nella condanna globale e acritica di
tali interventi; il rimedio sta nell'introduzione di cambiamenti
organizzativi tendenti a eliminare gli abusi, promuovendo con
decisione, non la riprivatizzazione generalizzata delle aziende -
creditizie e non creditizie - controllate dallo Stato, il che non
sarebbe possibile, ma una privatizzazione ampia e differenziata
secondo un ben meditato ordine di priorità.Si deve osservare
tuttavia che l'idea, condivisa da parecchi economisti, che lo Stato
da un lato e i sindacati dall'altro costituiscano un male in
sé per l'economia, è un'idea erronea. Il fatto
è che pur in presenza di sindacati relativamente forti e di
un accresciuto ruolo dello Stato nell'economia, dopo la fine della
seconda guerra mondiale lo sviluppo economico e civile è
stato più, e non meno, sostenuto che nel passato: nonostante
errori, eccessi e sprechi di ogni genere, la somma algebrica
è stata positiva.
c) Il sottosviluppo
Fra i modelli dinamici ve ne sono alcuni che riguardano lo sviluppo
dei paesi arretrati. Quello del sottosviluppo è forse il
maggiore problema della nostra epoca, per i suoi riflessi umani,
civili, ambientali. Qui possiamo fornire solo alcuni brevissimi
cenni. In via preliminare, si può osservare che per diversi
importanti aspetti l'analisi dei paesi sottosviluppati può
trovare un valido punto di partenza nelle opere degli economisti
classici, a cominciare dall'opera di Adam Smith, giacché la
situazione odierna dei diversi paesi del Terzo Mondo, pur con
profonde differenze, presenta non poche analogie con i paesi europei
del Settecento. Gli economisti classici insistevano sull'impiego,
produttivo o improduttivo, del sovrappiù, che allora era
costituito da tutti i redditi non da lavoro (profitti, interessi e
rendite), i quali potevano essere in parte risparmiati o tassati.
Oggi la distinzione fra impieghi produttivi e improduttivi non
è considerata rilevante dalla teoria moderna, mentre lo
è se si considerano i paesi del Terzo Mondo, nei quali
pertanto acquista importanza essenziale esaminare sia il reimpiego
produttivo del sovrappiù da parte delle stesse unità
produttive, sia l'apparato per il trasferimento volontario di una
parte del sovrappiù (sistema creditizio), sia l'apparato per
il trasferimento coattivo (sistema tributario).
Al tempo stesso, acquista importanza essenziale distinguere il
sovrappiù che è tale per l'intera economia dal
'sovrappiù' che è tale solo per singoli privati: il
primo comporta una crescita del reddito, il secondo una sua
redistribuzione. Con riferimento ai profitti, questa distinzione
corrisponde a quella proposta, sulla scia degli economisti classici,
da Alberto Breglia (1900-1955), fra profitti 'sterili' e profitto 'fecondo'. I primi
sono profitti 'da sottrazione', in quanto corrispondono a un
trasferimento di risorse da un soggetto a un altro, e non a un
aumento delle risorse complessive. I profitti 'da sottrazione'
possono essere imputati a posizioni di monopolio o a operazioni
puramente speculative in periodi di inflazione ovvero - ma qui i
profitti sarebbero 'distruttivi' e non soltanto sterili - possono
provenire dalla produzione e dal commercio di sostanze stupefacenti
e attività consimili. Il profitto 'fecondo' o 'da addizione',
invece, è quello proveniente da una crescita della
produttività e dalla conseguente riduzione dei costi. Se si
ammette che i soggetti economici tendono a ripetere le operazioni
alle quali sono abituati, si può presumere che di regola
coloro che ottengono un profitto 'fecondo' tendono a reimpiegarlo
produttivamente, cosicché la spirale produttiva tende a
perpetuarsi, originando un processo di sviluppo che è tale
sia per il singolo sia per la società.
Questi concetti sono tutti presenti, esplicitamente o
implicitamente, nell'impostazione stessa delle analisi elaborate dai
classici, e riacquistano tutta la loro importanza nello studio dei
paesi sottosviluppati.
Tra i modelli teorici relativi ai paesi sottosviluppati quello di Arthur Lewis (n. 1915, premio
Nobel nel 1979) - che riguarda specialmente i paesi delle fasce
tropicali e subtropicali - si ricollega, sotto importanti aspetti,
alle analisi degli economisti classici, e comunque si situa fuori
dalla tradizione marginalista. Il modello di Lewis concentra
l'attenzione sulle condizioni dell'offerta di lavoro, che in quei
paesi è economicamente illimitata (com'era nella prima fase
dell'industrializzazione dei paesi oggi sviluppati), non solo per la
crescita demografica, ma anche per la possibilità, per le
imprese capitalistiche, di reclutare manodopera sottraendola ad
attività premoderne, come quelle svolte nelle tribù.
Il modello considera inoltre le condizioni delle produzioni di beni
alimentari di base, nelle quali, per la bassa produttività,
è assai limitato il sovrappiù che può essere
investito sia nella stessa agricoltura sia in attività
extra-agricole: come già avevano messo in rilievo i classici,
infatti, un sovrappiù limitato frena l'accumulazione. D'altra
parte, l'offerta economicamente illimitata di lavoro - anche questa
è una caratteristica che nella sostanza troviamo già
nelle analisi dei classici - comporta un livello dei salari basso,
vicino al livello di sussistenza, e relativamente stazionario,
cosicché ogni aumento di produttività nelle
attività basate sul lavoro salariato, come quelle svolte
nelle piantagioni e nelle miniere, tende a tradursi in una flessione
dei prezzi relativi (che nelle relazioni internazionali sono
denominati 'ragioni di scambio'), in direzione sfavorevole ai paesi
produttori, cioè in genere ai paesi in via di sviluppo.
Da notare che durante gran parte del secolo scorso, un periodo in
cui gli aumenti di produttività si traducevano in flessioni
dei prezzi dei beni prodotti dai paesi sviluppati, le 'ragioni di
scambio' variavano non contro ma a favore dei paesi in via di
sviluppo, giacché nell'industria manifatturiera dei paesi
sviluppati la produttività cresceva e i prezzi diminuivano a
ritmi più rapidi di quanto accadeva nei paesi arretrati.Il
modello di Lewis riguarda in modo particolare i paesi
sottosviluppati tropicali che producono materie prime agrarie e
minerarie: paesi che si trovano in larghe zone dell'Africa e
dell'Asia, e in zone più ristrette dell'America Latina. Per
numerosi paesi sottosviluppati dell'America Latina e dell'Asia,
tuttavia, valgono modelli interpretativi alquanto diversi. Occorre
rilevare che in un numero ancora piccolo ma in continua crescita di
paesi asiatici ha avuto luogo un processo di sviluppo economico e,
in particolare, industriale, relativamente vigoroso: sono i 'paesi
di nuova industrializzazione', fra i quali troviamo la Corea del Sud
e Taiwan; l'Indonesia sta entrando in una fase di crescita
sostenuta. L'India, oltre a un non trascurabile sviluppo
industriale, è riuscita, grazie anche a innovazioni di tipo
agrario ('rivoluzione verde'), a ottenere una crescita della
produzione di beni alimentari un po' più rapida della pur
ragguardevole crescita demografica, cosicché le frazioni
della popolazione colpite dalla fame si stanno decisamente
restringendo, mentre permangono estese le fasce di popolazione che
soffrono di malnutrizione.
Non solo per l'India, ma in generale per molti paesi in via di
sviluppo è importante la questione del rapporto fra crescita
delle produzioni di beni alimentari e crescita demografica. Tale
questione può essere risolta da paesi arretrati relativamente
piccoli procurandosi i beni alimentari di cui hanno bisogno
attraverso gli scambi internazionali piuttosto che attraverso la
produzione diretta; ma per paesi grandi e popolosi come l'India tale
via può rappresentare solo un contributo parziale. Accanto
alla questione dello sviluppo produttivo c'è dunque un
problema di crescita demografica. Dopo la seconda guerra mondiale
nei paesi del Terzo Mondo tale crescita si è accelerata, non
per un aumento della natalità ma per una rapida diminuzione
della mortalità, imputabile alla costruzione di strutture
igieniche e alla diffusione dei farmaci moderni e dei servizi
sanitari. In larga misura, il problema della miseria del Terzo Mondo
è da attribuire proprio alla rapida crescita demografica.
È bene osservare che agli inizi della scienza economica
moderna i problemi dello sviluppo produttivo e quelli della crescita
demografica erano considerati congiuntamente e non separatamente,
come oggi accade. Il problema demografico chiama direttamente in
causa i problemi dell'evoluzione culturale e del grado
dell'istruzione. Infatti per i demografi è ormai un dato
acquisito che il grado dell'istruzione, in particolare quello delle
donne (che nei paesi arretrati di regola hanno un'istruzione
inferiore, non di rado assai inferiore, a quella degli uomini),
condiziona la velocità del declino del saggio di
natalità: a parità di reddito individuale, maggiore
è il grado d'istruzione delle donne, più rapida
è la flessione del saggio di natalità. (La flessione
della mortalità prima o poi porta con sé quella della
natalità, ma la velocità relativa delle due flessioni
ha importanza fondamentale per l'andamento del reddito pro capite.)
Una politica demografica tendente ad accelerare la flessione della
natalità deve pertanto collegarsi alla politica di diffusione
dell'istruzione; si possono poi utilizzare anche incentivi e
disincentivi di carattere economico.
Questi temi vengono tutti trattati, spesso separatamente, da
demografi e da economisti. Anche questi temi rientrano nell'ambito
della dinamica economica, intesa in senso ampio; e anche per questi
temi c'è una ripresa d'interesse da parte degli economisti,
alcuni dei quali si rifanno esplicitamente, per questo come per
altri aspetti, agli economisti classici come Adam Smith.
d) I problemi dell'ambiente e lo sviluppo sostenibile
Il processo di sviluppo ha portato con sé, nei paesi in
cui ha avuto luogo, cospicui benefici, ma ha avuto e sta avendo
altresì costi rilevanti sotto l'aspetto dei valori morali e
umani e sotto l'aspetto economico. Già al principio di questo
secolo, alcuni economisti mettevano in rilievo i costi economici che
lo sviluppo economico può comportare, per esempio, per via
dell'inquinamento. Negli ultimi decenni gli effetti della crescita
esplosiva delle produzioni industriali si sono manifestati in forme
sempre più allarmanti. Si può stimare che nei paesi
sviluppati la produzione industriale sia cresciuta di oltre venti
volte negli ultimi cento anni; se si ammette che le esalazioni, i
fumi, i rifiuti provenienti dai processi produttivi e i rifiuti
provenienti dai consumatori siano cresciuti in una proporzione
simile, ci si rende conto delle dimensioni gigantesche assunte dai
problemi che oggi vengono definiti ambientali. Questi problemi
inoltre sono stati fortemente aggravati dal fatto che certe
produzioni sono risultate non semplicemente inquinanti ma
addirittura tossiche, con effetti che si propagano attraverso
l'aria, le acque e i terreni, e quindi attraverso le produzioni
alimentari.
Di fronte a questi problemi, molti studiosi - economisti e non
economisti - si sono chiesti in quale misura e in quale modo lo
sviluppo economico sia 'sostenibile', cioè tale da non
danneggiare l'ambiente naturale in cui viviamo. Il concetto di
'sviluppo sostenibile' ha attratto sempre più l'attenzione in
questi ultimi anni; dal nostro punto di vista, il problema
principale non riguarda la sua concreta definizione, che è
affidata a campi scientifici in rapido sviluppo genericamente
indicati con il termine 'ecologia', ma il modo in cui ci si
può assicurare che le scelte degli operatori economici si
muovano nella direzione desiderata. Le questioni rilevanti, da
questo punto di vista, riguardano il conflitto tra interessi privati
e interesse pubblico, e tra mercato e Stato, ma anche il rapporto
tra economia e morale. Si tratta di questioni che sono state al
centro del dibattito fin dalla nascita dell'economia politica, alle
quali in parte abbiamo già accennato sopra parlando della
concezione di Adam Smith (v. § 2b), e che di recente sono
tornate a costituire oggetto di riflessione (ricordiamo ad esempio
le ricerche di Amartya Sen). Così come non potrebbe
funzionare un'economia di mercato in cui il macellaio e il fornaio
fossero liberi di adulterare la loro merce, non sarebbe possibile
evitare il degrado dell'ambiente naturale senza una coscienza civica
che abbia interiorizzato la sua importanza per il benessere sociale,
e senza istituzioni capaci di intervenire per imporre il rispetto
dei vincoli ambientali nei casi di violazione della norma morale. Il
problema del rapporto tra intervento pubblico e libera iniziativa
privata nell'ambito di un'economia di mercato appare così
come una questione di complementarità, piuttosto che di
opposizione. Ma questo non vale solo per le macrostrutture
giuridiche e amministrative: vale anche per gli interventi
più specifici di politica economica. A titolo
esemplificativo, consideriamo alcuni problemi relativi al settore
energetico.
La crescita del settore energetico e i cambiamenti nella sua
struttura interna sono collegati da complesse relazioni di causa ed
effetto all'evoluzione dell'economia nel suo complesso. Così
è evidente che i consumi energetici complessivi dipendono
strettamente dall'andamento della produzione e del reddito; ed
è altrettanto evidente che una crescente disponibilità
di energia costituisce un prerequisito per lo sviluppo economico. In
altri termini, lo sviluppo economico è condizionato
dall'offerta di energia, ma allo stesso tempo ne determina la
domanda. Non dobbiamo trascurare poi il ruolo del cambiamento
tecnologico: da un lato la crescente meccanizzazione e l'aumento del
prodotto pro capite spingono nella direzione di un'espansione dei
consumi energetici; ma dall'altro lato il progresso tecnico, nella
costante ricerca della riduzione dei costi di produzione, è
anche la fonte di una riduzione dei fabbisogni energetici per
unità di prodotto, e di una maggiore efficienza nell'uso di
energia in generale.
Il risultato netto di queste due spinte contrastanti dipende in
misura probabilmente decisiva dall'andamento dei prezzi delle varie
forme di energia: nei periodi di crescita di tali prezzi, si ha un
processo di 'sostituzione dinamica', in cui imprese e famiglie
dedicano maggiore attenzione allo sviluppo e all'applicazione
pratica di nuove tecnologie che consentono risparmi energetici;
mentre nei periodi di prezzi calanti dell'energia (non
necessariamente in assoluto, ma rispetto ai prezzi degli altri mezzi
di produzione e di consumo) la spinta a una riduzione dei consumi
energetici viene meno, e questi ultimi tendono a seguire da vicino
l'andamento della produzione e del reddito. Anzi, i consumi
energetici possono crescere più rapidamente della produzione
e del reddito, sia per i motivi indicati sopra (crescente
meccanizzazione, e quindi crescente 'intensità energetica',
della produzione), sia perché i consumi energetici delle
famiglie corrispondono in misura notevole alla domanda di beni e
servizi per soddisfare bisogni di ordine superiore, che per loro
natura assorbono una quota crescente del reddito.
Il progresso tecnico, che procede a velocità diseguale nei
vari campi, è il fattore principale anche nel determinare i
cambiamenti nella struttura interna del settore energetico. La sua
importanza è confermata da due circostanze. In primo luogo,
la sequenza legna-carbone-petrolio-fissione nucleare e gas
naturale-fusione nucleare ed energia solare, che indica la
successione delle fonti di energia dominanti (dove l'ultimo anello
della catena indica lo scenario più verosimile, anche se non
l'unico possibile, per la metà del prossimo secolo), appare
come una sequenza di miglioramenti nella capacità tecnologica
dell'uomo di estrarre energia dalla natura, caratterizzata da
fortissimi aumenti dell'offerta di energia a costi mediamente
decrescenti. In secondo luogo c'è da registrare la crescente
penetrazione dell'elettricità, cioè l'aumento della
quota dei consumi di energia soddisfatti dall'elettricità.
Tale tendenza assicura maggiore flessibilità all'offerta di
energia, dato che l'elettricità può essere prodotta
usando diverse fonti primarie, e quindi assicura una maggiore
autonomia di politica energetica ai vari paesi, che possono compiere
scelte diverse a seconda delle proprie dotazioni di risorse
naturali; inoltre, nei sistemi industriali moderni
l'elettricità permette un uso più flessibile
dell'energia, oltre a costituire il supporto necessario per la
diffusione dell'informatica nelle imprese manifatturiere
(automazione) e nei servizi.
Lo sviluppo dei consumi di energia ha posto problemi gravissimi per
la salvaguardia dell'ambiente naturale che, come si accennava sopra,
vanno affrontati dalle autorità pubbliche. Infatti gli
effetti sull'ambiente della produzione e dell'utilizzo delle diverse
fonti di energia sono un caso classico di 'esternalità',
cioè di effetti dell'attività di uno specifico gruppo
di produttori o consumatori che non costituiscono costi o benefici
per il singolo produttore o consumatore, ma vantaggi o svantaggi per
un gruppo più ampio di agenti economici, talvolta per la
società nel suo complesso. Nel caso di una
'esternalità negativa' (ad esempio le emissioni di sostanze
inquinanti), l'impresa o il consumatore che ne sono responsabili non
hanno alcun incentivo economico a limitarne la portata.
Perciò, tradizionalmente, la teoria economica suggerisce di
controbilanciare le 'esternalità negative' tramite apposite
tasse o tramite specifiche norme che impongano limiti o interventi
di depurazione. Tuttavia, in pratica, la difficoltà di
individuare gli effetti ambientali delle varie attività
umane, e in particolare di quelle connesse alla produzione e
all'utilizzo di energia, e poi la difficoltà di determinarne
con precisione la portata, hanno favorito in passato un
atteggiamento lassista. Solo negli ultimi anni è diventato
evidente che le conseguenze ambientali della produzione e del
consumo di energia sono state sottovalutate, se non completamente
ignorate, nei decenni successivi alla rivoluzione industriale e fino
a un'epoca molto recente. Questioni come l'effetto serra,
completamente ignorate fino a pochi anni fa, sono ora al centro
dell'attenzione. Possiamo prevedere, dunque, che i problemi
ambientali avranno un peso crescente nelle scelte strategiche nel
campo dell'energia.
La necessità di favorire scelte compatibili con il rispetto
dell'ambiente naturale implica sia una normativa sempre più
precisa e vincolante sulle diverse fonti di energia (ad esempio
sulla sicurezza delle centrali nucleari, o sulle emissioni
inquinanti derivanti dall'utilizzo di combustibili fossili), sia un
deciso stimolo a ricerche tecnologiche finalizzate a migliorare
l'impatto ambientale delle diverse fonti di energia, sia una
politica di imposte specifiche anche assai elevate (come quella sui
consumi di benzina). Una politica decisa in questo senso può
contribuire a ridurre l'elasticità rispetto al reddito dei
consumi di energia, e in casi estremi a renderla negativa,
permettendo una crescita del reddito accompagnata da una riduzione
dei consumi di energia. Questa riduzione, tuttavia, potrà
riguardare i paesi sviluppati, non quelli in via di sviluppo, molti
dei quali presentano oggi consumi energetici pro capite bassissimi,
destinati a crescere se appena - come tutti desiderano - il loro
reddito pro capite tenderà a salire verso quello attuale dei
paesi oggi industrializzati. La politica energetica dovrà
perciò assicurare che la disponibilità di fonti di
energia non costituisca un ostacolo per lo sviluppo economico; la
compatibilità dello sviluppo con la difesa dell'ambiente
dovrà essere assicurata, oltre che frenando i consumi di
energia per unità di prodotto, anche favorendo le scelte
più opportune tra le varie fonti di energia disponibili, e
assicurando nell'utilizzo di ciascuna di esse il rispetto dei
vincoli ambientali.
Accanto ai contrasti tra interessi privati e pubblici, un altro tipo
di contrasti emerge sul piano internazionale: se in un certo paese
le imprese vengono obbligate ad adottare costosi accorgimenti per
ridurre o eliminare l'inquinamento, tali imprese possono trovarsi in
condizioni svantaggiose, nella concorrenza internazionale, rispetto
alle imprese di altri paesi in cui questi obblighi non siano stati
introdotti. I contrasti di questo tipo possono essere ridotti
attraverso accordi internazionali che stabiliscano obblighi comuni.
Lo sviluppo sostenibile non può essere conseguito da un solo
paese, ma solo da una cooperazione internazionale su vasta scala: lo
stesso tipo di cooperazione che è necessaria per affrontare i
problemi drammatici del sottosviluppo.
5. Considerazioni conclusive
Mentre nelle scienze chiamate sperimentali la costante
preoccupazione degli studiosi è di verificare empiricamente i
loro modelli teorici, in economia una simile preoccupazione è
più l'eccezione che la regola. Ciò dipende solo
limitatamente dal fatto che in questa disciplina, come nelle altre
discipline sociali, non ci sono e non possono esserci laboratori:
dipende soprattutto dalle caratteristiche assunte nel nostro tempo
dalla teoria economica dominante, che ha privilegiato i ragionamenti
assiomatici, nei quali ciò che conta è essenzialmente
il rigore logico, mentre la rilevanza empirica conta poco o nulla.
In effetti, nelle analisi economiche si assiste a una sorta di
polarizzazione: da un lato troviamo modelli puramente astratti;
dall'altro lato, indagini essenzialmente empiriche. Sono
relativamente rari i lavori che mirano a combinare la riflessione
teorica con l'analisi empirica: da un lato ci si preoccupa
essenzialmente del rigore, dall'altro lato essenzialmente della
rilevanza, mentre in qualsiasi disciplina scientifica entrambi i
requisiti sono importanti.
Ciò non significa affatto sostenere che non siano
apprezzabili e anzi raccomandabili i modelli astratti; né che
non si debba far ricorso a metodi formali, particolarmente a metodi
matematici; significa invece sostenere che quando si elaborano
modelli astratti ci si deve domandare se potenzialmente siano
suscettibili di successive approssimazioni che consentano di
avvicinarsi progressivamente alla realtà economica e di
interpretare i fenomeni concreti. Se gli economisti non dispongono
di laboratori, dispongono tuttavia di una serie di strumenti
analitici ausiliari, come quelli forniti dalla statistica e
dall'econometria che, pur non consentendo controlli paragonabili
agli esperimenti dei fisici e dei chimici, rendono possibili
verifiche di carattere empirico. Si tratta di verifiche assai meno
robuste di quelle compiute dagli scienziati sperimentali, che
tuttavia, se usate con prudenza, possono suggerire ipotesi e
problemi interessanti, stimolare dubbi e riflessioni critiche, e,
più in generale, ridurre quelle incertezze e quella
indeterminazione che sono connaturate a tutte le scienze, ma che
sono particolarmente estese nelle discipline sociali.
In conclusione, le pecche più gravi della teoria economica
moderna sono tre. In primo luogo, sono relativamente scarsi i lavori
che combinano la riflessione teorica con l'analisi empirica. In
secondo luogo, dominano ancora i modelli statici, che prescindono
dal tempo e quindi ignorano in via di principio i più
importanti fenomeni dell'epoca in cui viviamo, cioè il
progresso tecnico e lo sviluppo economico. Infine, c'è una
sorta di spaccatura fra microeconomia e macroeconomia, ossia, da un
lato l'analisi dei prezzi e di tutti quei fenomeni che si collegano
ai singoli soggetti, come le imprese e i consumatori, e dall'altro
lato l'analisi dei grandi aggregati economici, come il reddito
nazionale e l'occupazione. La divisione del lavoro, di cui Adam
Smith parlava in senso concreto, è andata crescendo anche
nelle diverse discipline, e quindi fra le discipline sociali e, in
particolare, nell'economia. In questa esposizione abbiamo cercato di
fornire un ragguaglio estremamente conciso dello stato e delle
tendenze osservabili nell'analisi economica; la menzione delle
tendenze non poteva non comportare l'indicazione di alcuni problemi
e dibattiti critici oggi in corso. In trattazioni specifiche di
questa Enciclopedia vengono illustrate, non meno concisamente, le
linee essenziali sia delle discipline ausiliarie, come
l'econometria, sia dei diversi rami in cui, a questo stadio della
sua evoluzione, l'economia si è suddivisa (economia agraria,
industriale, internazionale, monetaria, pubblica). Analogamente,
resta affidata a trattazioni specifiche l'illustrazione di alcune
tendenze recenti che qui non è stato possibile considerare:
come il neoistituzionalismo, che spiega le istituzioni economiche e
sociali mediante modelli contrattualistici; o come l'utilizzo di
modelli di disequilibrio economico per spiegare la disoccupazione; o
come la diffusione della teoria dei giochi nelle analisi
dell'equilibrio economico generale da un lato e nelle moderne teorie
dell'organizzazione industriale dall'altro lato, per considerare la
possibilità di 'ragionamenti strategici' dei soggetti
economici, che nelle loro decisioni tengono conto delle possibili
reazioni degli altri alle loro scelte.
Un ultimo aspetto al quale è necessario dedicare almeno un
cenno è costituito dai rapporti fra conoscenza e azione,
ossia fra clima culturale e modelli teorici da un lato, e strategie
politiche generali e linee di politica economica dall'altro lato.
A titolo illustrativo conviene considerare tre fra gli economisti
precedentemente ricordati, e cioè Adam Smith, Karl Marx e
John Maynard Keynes. Con la sua grande opera, Smith ha certamente
contribuito a determinare un mutamento radicale nella cultura
politica del suo tempo e, ancora di più, del tempo
successivo. Sul piano pratico, Smith raccomandava la progressiva
eliminazione delle barriere e dei vincoli all'attività
economica che provenivano dall'epoca feudale e dalle politiche
mercantilistiche. Il liberismo di Smith va inteso appunto in questo
senso e non, come spesso si sostiene, nel senso di un atteggiamento
passivo o inerte della pubblica autorità - governo e
parlamento - nell'attività economica. (Così Smith era
favorevole all'istruzione elementare pubblica, una posizione
assolutamente minoritaria ai suoi tempi; era favorevole a interventi
dello Stato per diverse opere pubbliche; raccomandava una riforma
dei contratti agrari per favorire lo sviluppo agricolo: e questi
sono solo tre esempi). L'analisi di Marx deve essere valutata con
riferimento alle condizioni osservabili nel primo stadio del
capitalismo, una fase in cui i salari erano ancora assai vicini al
livello di sussistenza e molte donne e molti bambini erano costretti
a svolgere lavori pesanti nelle fabbriche. È nota la grande
influenza che le idee di Marx hanno esercitato su intellettuali -
non solo economisti -, su partiti politici e su sindacati,
soprattutto in Europa e in Asia: un'influenza che è stata
enorme in certi paesi a regime dittatoriale, in cui la dottrina
marxista era divenuta addirittura la dottrina ufficiale.
Il crollo dei regimi che si richiamavano al marxismo, verificatosi
in diversi paesi a partire dal 1989, è almeno in parte legato
al peggioramento delle condizioni economiche di tali paesi,
imputabile principalmente alla loro incapacità d'introdurre
innovazioni. Questa incapacità non si è manifestata in
una prima fase, fino a quando è stato possibile concentrare
lo sforzo economico sulle fondamentali infrastrutture, né in
una seconda fase immediatamente successiva, quando è stato
possibile acquistare dai paesi a economia di mercato impianti
'chiavi in mano' per l'industria di base; si è invece
manifestata in modo drammatico quando dalle grandi unità
industriali utilizzate per la produzione di beni di base
qualitativamente omogenei è stato necessario passare alle
medie e piccole unità produttive, che spesso impiegano
tecnologie relativamente più sofisticate. Infatti, in
un'economia pianificata, i dirigenti delle aziende monopolistiche di
Stato potevano eseguire più o meno efficacemente gli ordini
dell'ufficio centrale di pianificazione, ma non avevano alcun
incentivo a introdurre innovazioni: un'attività che
necessariamente presuppone l'iniziativa individuale e la
disponibilità a correre rischi. Ciò vale non solo per
le grandi innovazioni, ma anche per le piccole, quasi sempre
scientificamente irrilevanti, ma molto importanti per lo sviluppo
economico. Innovazioni di questo genere sono particolarmente
rilevanti in agricoltura, a condizione che i contadini abbiano la
proprietà della terra, ovvero operino nell'ambito di
contratti agrari che riconoscano i miglioramenti introdotti da chi
coltiva la terra.
Oggi nei paesi dell'ex Unione Sovietica e dell'Europa orientale si
discute sulla necessità di passare da un'economia pianificata
a un'economia di mercato, e non di rado si ragiona come se
l'economia di mercato fosse sinonimo di puro laissez faire; ma non
è così. Il mercato è l'espressione di un
sistema di contratti e, più in generale, di un complesso
sistema istituzionale. Il passaggio da un'economia pianificata a
un'economia di mercato implica il passaggio a un nuovo sistema
istituzionale, in cui sia consentita la proprietà privata dei
mezzi di produzione (pur con correttivi e limitazioni, come ad
esempio una legislazione antimonopolistica), siano incoraggiate le
innovazioni grandi e piccole, e in cui lo Stato abbia un suo ruolo,
non onnicomprensivo, ma neppure insignificante. Una tesi di questo
tipo, per quanto riguarda il ruolo dello Stato, è stata
sostenuta da Keynes, la cui influenza è stata grande
soprattutto nei paesi occidentali. La principale opera teorica di
Keynes è nata quando, a causa della grande depressione
(1929-1939), la disoccupazione aveva raggiunto proporzioni
straordinariamente ampie. In generale, per combattere la
disoccupazione e sostenere la crescita dell'economia, Keynes e i
suoi discepoli raccomandano, oltre a politiche monetarie e fiscali
espansive, anche il "controllo sociale degli investimenti". Gli
interventi pubblici nell'area della sicurezza sociale hanno origini
assai antiche, ma la teoria keynesiana ha dato alla loro crescita un
nuovo vigoroso impulso, senza il quale il moderno Stato sociale,
almeno in Europa, non avrebbe probabilmente assunto l'importanza che
conosciamo. L'influenza di Keynes, tuttavia, ha fortemente
indebolito le resistenze presenti nella fase precedente, almeno nei
periodi di pace, alla diffusione dei controlli pubblici
sull'attività produttiva e alla crescita delle spese
pubbliche.
In tempi recenti gli eccessi hanno dato luogo a reazioni; tali
reazioni hanno trovato una giustificazione teorica in certi modelli,
come il monetarismo di Friedman e il modello delle aspettative
razionali.
Da queste teorie emergevano precettistiche di carattere
ultraliberistico, che negli ultimi vent'anni hanno influenzato in
modo significativo le politiche economiche di diversi governi. Le
misure di riduzione dei controlli - interventi di privatizzazione
delle imprese pubbliche e di deregolamentazione - in vari casi hanno
avuto effetti tutto sommato positivi. La stessa cosa non si
può dire però per gli effetti delle nuove politiche
monetarie e fiscali; fra l'altro, le politiche fiscali hanno
accentuato la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e,
quanto alle spese pubbliche, hanno determinato un freno alla loro
espansione, ma non una loro riduzione. Inoltre, le politiche
monetarie restrittive adottate nei paesi più sviluppati hanno
avuto un pesantissimo effetto negativo a livello internazionale,
frenando la crescita dei paesi in via di sviluppo, particolarmente
attraverso l'aumento dei tassi d'interesse e quindi dell'onere per i
debiti internazionali.
Conoscenza e azione sono i due termini riscontrabili in ogni ramo
della cultura e non solo nelle scienze sociali. Le forme sono
tuttavia diverse: nelle scienze sociali, e soprattutto in economia,
l'aspetto dell'intervento pubblico assume un rilievo tutto
particolare, sia al livello delle manovre contingenti di politica
economica, sia al livello delle grandi strategie.