Enciclopedia
delle Scienze Sociali (1993)
di Siro Lombardini e Aris Accornero
DISOCCUPAZIONE
Economia
di Siro Lombardini
sommario: 1. La disoccupazione nelle principali teorie
economiche. 2. La relazione tra dinamica dei salari e
disoccupazione. 3. Il dibattito keynesiani-monetaristi. 4.
Disoccupazione frizionale ed emarginazione. 5. La disoccupazione di
tipo classico. 6. La disoccupazione di tipo keynesiano. 7. La
disoccupazione tecnologica. 8. Crescita della produttività e
disoccupazione. 9. I fattori demografici. 10. Le difficoltà
che comporta la misurazione del fenomeno disoccupazione. 11.
Mutamenti strutturali e disoccupazione. I diversi mercati del
lavoro. □ Bibliografia.
1. La disoccupazione nelle principali teorie economiche
L'eventualità che l'evoluzione dell'economia - resa
possibile dal progresso tecnico - possa portare a una situazione di
non pieno impiego della manodopera, e quindi alla disoccupazione,
è stata prospettata da Ricardo nella famosa appendice
preparata per la terza edizione dei suoi Principî di economia
politica. Il tema ha trovato ampio risalto nell'analisi marxiana del
processo capitalistico di produzione. Un meccanismo omeostatico
essenziale del sistema capitalistico consiste nel mantenere a un
certo livello l''esercito di riserva' (e cioè la
disoccupazione). Quando l'esercito di riserva si assottiglia, e i
salari tendono quindi a salire sopra il livello normale, le imprese
sono indotte a realizzare innovazioni atte a risparmiare lavoro, che
riportano la disoccupazione al suo livello normale.
Il problema della disoccupazione è sostanzialmente sparito
nell'analisi neoclassica in conseguenza dell'accettazione da parte
di quest'ultima di due teoremi (che in effetti sono piuttosto dei
postulati): a) l'offerta crea la domanda ('legge di Say'). Se il
sistema - grazie anche alla sua disponibilità di manodopera -
è in grado di produrre 100, verranno immessi redditi per 100,
che in parte sono consumati, e quindi determinano un'equivalente
domanda di beni di consumo, e in parte sono risparmiati: i redditi
risparmiati, venendo messi dal sistema bancario a disposizione degli
imprenditori, danno luogo a un'equivalente domanda di beni
d'investimento; b) i salari si muovono sia verso l'alto che verso il
basso, in modo da rendere uguali, sul mercato del lavoro, la domanda
di lavoro che proviene dalle imprese e l'offerta che viene dalle
famiglie.
Non è detto, però, che al salario esistente tutti gli
individui in grado di lavorare lavorino effettivamente. Quelli che
non lo fanno, non lavorano perché non ritengono il salario
tale da giustificare la loro rinuncia all'ozio: sono quindi dei
'disoccupati volontari'.
Queste tesi neoclassiche sono state riproposte con schemi più
sofisticati da alcune scuole moderne, segnatamente dagli economisti
della nuova macroeconomia classica.I presupposti della teoria
neoclassica dell'occupazione sono stati respinti da John Maynard
Keynes, che ha inteso provare con la sua teoria la
possibilità di una 'disoccupazione involontaria'. Questa
possibilità si basa su due ordini di considerazioni. Il primo
riguarda il funzionamento del mercato del lavoro in cui, per i
diversi meccanismi con cui si formano le valutazioni e le
aspettative di variazioni nei salari reali da parte dei lavoratori e
degli imprenditori, è possibile che "nel caso di un piccolo
aumento del prezzo delle merci-salario rispetto al salario
monetario, sia l'offerta complessiva di lavoro da parte dei
lavoratori disposti a lavorare al salario monetario corrente, sia la
domanda complessiva di lavoro a quel salario, [siano] maggiori del
volume di occupazione esistente". Il secondo ordine di
considerazioni, che spiega la possibilità di disoccupazione
involontaria, è rappresentato dalle argomentazioni con cui
è respinta la legge di Say. Rispetto a quest'ultimo, per
Keynes vale in un certo senso una relazione inversa. È la
domanda che crea l'offerta. Sono soprattutto gli investimenti che
possono rendere il livello della domanda inadeguato a indurre
un'offerta tale da consentire a tutti coloro che desiderano lavorare
di trovare un'occupazione. E infatti il livello degli investimenti
riflette le aspettative degli imprenditori. Quando esse volgono al
peggio può risultare inefficace lo strumento del saggio di
interesse con cui, per i neoclassici, è invece sempre
possibile uguagliare gli investimenti al risparmio potenziale, al
risparmio cioè che si ha quando il reddito è tale da
richiedere (e consentire) il pieno impiego.
2. La relazione tra dinamica dei salari e disoccupazione
Per gli economisti classici (Marx in particolare) i salari tendono a
diminuire quando si ha un eccesso di offerta sul mercato del lavoro,
quando cioè il numero dei disoccupati in eccesso sul livello
della 'disoccupazione frizionale' (v. cap. 4) supera il numero dei
posti vacanti. Una siffatta relazione tra l'andamento dei salari,
che si ritiene si rifletta nell'andamento dei prezzi, e il livello
di disoccupazione è stata formulata da Phillips sulla base
dell'analisi statistica dei dati relativi alla disoccupazione e ai
salari in Inghilterra nel periodo 1861-1913. La relazione tra tasso
di disoccupazione e tasso di cambiamento dei salari monetari, che ha
potuto essere così stimata, è infatti nota come 'curva
di Phillips'.La relazione si dimostrò sufficientemente valida
quando venne applicata per spiegare la dinamica dei salari monetari
nel periodo 1913-1957. Essa può essere rappresentata da una
curva discendente che taglia l'asse delle ascisse - su cui viene
indicato il tasso di disoccupazione (il tasso di crescita dei prezzi
essendo indicato sull'asse delle ordinate) - in corrispondenza a un
livello di disoccupazione che dalle stime risultò essere il
5,5% circa della popolazione lavorativa; a quel livello di
disoccupazione i salari monetari tendono a restare costanti.
La relazione scoperta da Phillips tra il tasso di aumento dei salari
e il livello di disoccupazione non costituiva una novità.
Già Irving Fisher, nel 1926, aveva prospettato una relazione
simile tra dinamica dei salari e livello di occupazione.
Si può quindi affermare che il tasso di variazione del
salario è funzione del livello di disoccupazione. Questa
relazione può essere variamente interpretata.Se le imprese
aumentano la loro domanda di lavoro, si rafforza il potere dei
sindacati, per cui aumenta il salario monetario: elevati tassi di
crescita dei salari si associano quindi ad alti livelli di
occupazione. Il contrario avviene quando le imprese diminuiscono la
loro domanda di lavoro e aumenta quindi la disoccupazione; bassi
tassi di crescita dei salari si associano quindi a bassi livelli di
occupazione. Questa interpretazione istituzionale-macroeconomica del
processo di determinazione del salario sembra comporti meramente la
riproposizione delle tendenze già prospettate dall'analisi
neoclassica del mercato del lavoro. Per gli economisti neoclassici,
infatti, ogni aumento della domanda del lavoro provoca un aumento
del salario.
Secondo la teoria neoclassica aumenti nei salari reali sono
però la conseguenza di cambiamenti nel sistema 'reale' quali
si possono avere in seguito a certe innovazioni tecnologiche
(relativi ai prodotti ad esempio) che potrebbero portare a un
aumento della domanda di lavoro o a modifiche nelle aspirazioni
delle famiglie, che potrebbero spostare verso l'alto la curva di
offerta. A spiegare la relazione messa in luce da Phillips non basta
la teoria neoclassica. Il rafforzamento del potere dei sindacati
può, infatti, portare a un aumento dei salari anche senza che
si siano verificate variazioni nei fattori reali da cui i salari
sono fatti dipendere. Ciò è possibile se le
autorità monetarie appaiono disposte ad aumentare la
quantità di moneta disponibile così da consentire che
aumentino i salari monetari, in seguito appunto alla maggior forza
del sindacato.
3. Il dibattito keynesiani-monetaristi
Le tesi neoclassiche sono state recentemente riformulate (da
Friedman in particolare) in polemica con le tesi keynesiane. Si
ritiene che il mercato del lavoro sia in grado di realizzare un
certo equilibrio tra domanda e offerta: l'equilibrio, da un lato,
riflette certe imperfezioni di cui il modello teorico non tiene
conto e, dall'altro, è il risultato di quel processo di
crescita che le prospettive della tecnica e degli altri fattori
esterni di sviluppo e i meccanismi di mercato sono in grado di
assicurare. La situazione di equilibrio del mercato del lavoro
è quindi caratterizzata da assenza di disoccupazione
involontaria o, più realisticamente, da un tasso di
'disoccupazione naturale'.Per tasso di disoccupazione naturale
Friedman e gli economisti monetaristi intendono il tasso di
disoccupazione che è compatibile con una crescita stabile ed
efficiente dell'economia. In un mercato del lavoro in equilibrio una
crescita dell'occupazione può essere ottenuta solo da un
aumento del salario reale offerto dalle imprese.
Per i keynesiani, proprio perché l'equilibrio del mercato del
lavoro è condizionato dall'equilibrio macroeconomico che si
può stabilire a livelli di domanda globale - e quindi di
reddito - tali da non assicurare la piena occupazione, la
disoccupazione involontaria può essere ridotta da misure
(monetarie o fiscali) volte ad aumentare la domanda. Si riconosce
che questi interventi possono provocare un aumento dei prezzi: si
accetta cioè la curva di Phillips. Si pone quindi, nella
formulazione della politica economica, uno scambio (trade-off) tra
due obiettivi: quello di un più alto livello di occupazione e
quello di un minore tasso d'inflazione. Secondo gli economisti
monetaristi queste misure di politica economica possono avere
effetti del genere solo temporaneamente, in quanto gli operatori non
scontino gli effetti sui prezzi delle politiche espansive. Non
appena si rendono conto che, in seguito a queste politiche, i prezzi
sono cambiati, tornano - le imprese - a richiedere la stessa
quantità di manodopera di prima e - i lavoratori - a
ripetere, essi pure, la stessa offerta di prima. Per i teorici delle
aspettative razionali e della nuova macroeconomia classica, gli
operatori sanno come funziona il sistema. Non possono essere
ingannati dalle politiche espansive neppure temporaneamente. Ogni
politica che espanda il potere d'acquisto non ha alcun effetto
sull'occupazione. Provoca solo un aumento nel livello generale dei
prezzi.
Recentemente alcuni economisti di derivazione keynesiana (Kahn,
Modigliani, ad esempio) hanno sottolineato il potere dei sindacati
di provocare aumenti salariali. La relazione che diventa rilevante
è allora diversa da quella messa in luce dalla curva di
Phillips: la crescita del salario reale induce sia un'accelerazione
dell'inflazione che una riduzione dell'occupazione. Quindi, se si
vuole tenere sotto controllo l'inflazione e favorire la crescita
dell'occupazione, occorre che intervenga un patto tra le parti
sociali. Il patto comporta che i sindacati moderino le loro
richieste di aumenti salariali e le imprese si impegnino a non
aumentare i margini di profitto. Per i monetaristi, alla base degli
aumenti salariali, a ben vedere, non vi è la maggiore forza
del sindacato, ma la politica permissiva delle autorità
monetarie che, espandendo la moneta, consentono alle strategie
sindacali di perseguire l'obiettivo di una crescita patologica dei
salari.
4. Disoccupazione frizionale ed emarginazione
Abbiamo osservato come per i monetaristi il livello di occupazione
che il mercato del lavoro tende a determinare possa considerarsi
soddisfacente, se si tiene conto delle imperfezioni che
caratterizzano l'operare di questo come degli altri mercati. In
effetti, anche gli economisti neoclassici avevano sostenuto - con
diverse argomentazioni e prospettando diverse implicazioni - la
possibilità e l'utilità di un certo livello di
disoccupazione. Si tratta della 'disoccupazione frizionale' che
possiamo identificare con l'insieme dei lavoratori che hanno deciso
di mettersi alla ricerca di un lavoro più soddisfacente o
che, essendo stati licenziati a causa della congiuntura o di
particolari processi di ristrutturazione e di innovazione
tecnologica, cercano un nuovo posto di lavoro, fiduciosi, dato il
contesto generale dell'economia, di poterlo trovare. La
disoccupazione frizionale, che può variare nel corso della
congiuntura (quando assume - nelle fasi di recessione, appunto -
particolare intensità, si parla più propriamente di
'disoccupazione congiunturale') presenta in genere tre
caratteristiche specifiche: a) il lavoratore resta disoccupato per
un breve periodo di tempo (significativamente più lungo in
caso di disoccupazione congiunturale); b) tutti i lavoratori sono
suscettibili di entrare nella categoria dei 'disoccupati
frizionali', una o più volte nella vita; c) essa rappresenta
una piccola percentuale della popolazione attiva. In genere si stima
che non debba superare il 3%. La percentuale varia nei diversi paesi
a seconda delle caratteristiche del sistema economico e del sistema
socio-istituzionale. In Giappone, ad esempio, le grandi imprese in
genere non licenziano: cercano sempre di riciclare al loro interno i
lavoratori che non sono più in grado di mantenere nelle
vecchie mansioni; le piccole imprese possono invece licenziare. In
quel paese la disoccupazione frizionale rappresenta una percentuale
piuttosto bassa della popolazione attiva.
Speculare alla nozione di 'disoccupazione frizionale' è
quella che si ritiene di dover proporre di 'emarginazione
economica'. I lavoratori non sono omogenei non solo perché
hanno diverse qualificazioni professionali, che possono non
corrispondere a quelle di cui le imprese sono alla ricerca, ma anche
perché appartengono a diversi gruppi etnici, o sociali, o
perché fanno parte di diverse culture. In molti paesi
industriali vi sono imprenditori che preferiscono assumere
lavoratori bianchi: si decideranno ad assumere dei neri solo se
questi sono disposti a svolgere mansioni che i bianchi si rifiutano
di svolgere, o a lavorare a salari più bassi. In questi casi
è possibile quindi individuare una struttura gerarchica della
domanda di lavoro.
Supponiamo che nell'economia si sviluppino persistenti tendenze
recessive di una certa rilevanza. Si avrà allora una cronica
tendenza dell'offerta di lavoro a superare la domanda. È
probabile allora che molti lavoratori, pur di ottenere un posto di
lavoro, siano disposti a scendere nella scala gerarchica. Ciò
significa che la probabilità di rimanere disoccupato è
particolarmente elevata per le categorie più basse della
scala. Se la tendenza recessiva si prolunga, se, cioè,
l'eccesso di offerta sulla domanda di lavoro tende a cronicizzarsi,
in seguito, ad esempio, al progresso tecnologico, si viene a
determinare una disoccupazione cronica. Si può allora parlare
di 'emarginazione economica' che viene spesso a coincidere con altre
forme di emarginazione: razziale, religiosa o, più in
generale, socioculturale (politica).
5. La disoccupazione di tipo classico
Come si vedrà meglio più avanti, l'andamento
dell'occupazione dipende anche dall'andamento della popolazione. Per
occupare manodopera occorre effettuare investimenti intesi ad
allargare la base produttiva. La dinamica dell'occupazione
può risultare insufficiente in relazione alla crescita della
popolazione; i salari possono allora essere a livelli bassi, vicini
a quelli di sussistenza e può esservi, tuttavia, un certo
livello di disoccupazione involontaria, in quanto la popolazione
cresce a ritmi sostenuti e la disponibilità di risorse - in
particolare di capitale - non è tale da consentire al sistema
produttivo d'impiegare tutta la manodopera disponibile. Pensiamo
all'Italia a cavallo dei due secoli e, anche, a certe aree del
Mezzogiorno di oggi. La disoccupazione che si viene allora a
determinare è la 'disoccupazione di tipo classico'. Essa
quindi si verifica quando, in seguito alla crescita della
popolazione, l'offerta di lavoro a salari di sussistenza è
superiore a quella che, date le strutture produttive, è
possibile impiegare. La causa fondamentale della disoccupazione
è l'insufficiente accumulazione.
Quando la disoccupazione è di tipo classico, il rimedio
fondamentale consiste quindi in una più celere accumulazione.
Può essere che una certa riduzione dei salari, aumentando i
profitti, possa favorire il processo di accumulazione. La ragione
per cui, nelle situazioni che stiamo considerando, la riduzione del
salario guarisce la disoccupazione non è però quella
messa in luce dall'analisi neoclassica. Per i neoclassici la
riduzione del salario induce a espandere l'occupazione per la
convenienza degli imprenditori: a) a sostituire il lavoro agli altri
fattori della produzione; b) a espandere la produzione. Nella
situazione che stiamo considerando, la riduzione del salario
favorisce l'assorbimento dei lavoratori in quanto modifica la
distribuzione dei redditi a favore dei capitalisti, che investono
gran parte dei loro redditi, e consente di utilizzare una
quantità maggiore di risorse per produrre beni
d'investimento: si ha così un tasso più elevato di
accumulazione. Sono i maggiori profitti che consentono
d'incrementare l'accumulazione e di ridurre la disoccupazione.
Dobbiamo osservare che la soluzione del problema della
disoccupazione di tipo classico presuppone che ogni incremento del
sovrappiù potenziale si traduca in aumento del
sovrappiù effettivo: ciò in verità si verifica
quando si danno particolari condizioni che riguardano i sistemi
socioculturale e politicoi-stituzionale e le potenzialità di
crescita della domanda nel sistema economico. Qualche considerazione
sulle prospettive di sviluppo della domanda appare opportuna.La
soluzione classica ha funzionato in quei paesi che erano in grado di
produrre per l'esportazione: una riduzione dei salari può
consentire allora di ridurre i prezzi all'esportazione. L'aumento
delle esportazioni, che si riflette in una più sostenuta
crescita della domanda complessiva, induce una crescita degli
investimenti. Il più elevato sovrappiù potenziale
può così tradursi in un più elevato
sovrappiù effettivo. In verità, anche per i paesi che
hanno avviato per primi il processo d'industrializzazione, le
esportazioni hanno giocato un ruolo decisivo nella configurazione
delle potenzialità di crescita.
Se però lo sviluppo dell'economia è indotto dalla sola
crescita della domanda interna, non è certo che l'aumento del
sovrappiù potenziale, determinato dalla riduzione dei salari,
si traduca in un aumento del sovrappiù effettivo. Tale
economia può allora portarsi verso il pieno impiego se ha
luogo una crescita della produttività del lavoro che consenta
sia una crescita dei salari (la quale a sua volta potrà
permettere un aumento della domanda dei beni di consumo,
particolarmente dei beni di consumo durevoli), sia una crescita dei
profitti, che potrà garantire il finanziamento dei nuovi
investimenti che diventa conveniente effettuare.
6. La disoccupazione di tipo keynesiano
Durante la grande depressione degli anni 1929-1932 la disoccupazione
involontaria ha raggiunto livelli spaventosi. Si trattava
però di lavoratori che precedentemente erano occupati e che
in seguito, essendo caduta la domanda (soprattutto di beni
d'investimento), le imprese hanno ritenuto di non poter utilizzare
in modo produttivo e sono stati quindi licenziati. I lavoratori
licenziati hanno ridotto i loro consumi, per cui la domanda dei beni
si è ulteriormente ridotta: il primo calo della domanda
è stato provocato soprattutto dalla crisi delle borse e dalla
sfiducia che ne è seguita; si sono avute poi ulteriori cadute
della domanda, che hanno portato a livelli ancora più elevati
la disoccupazione involontaria.
Questa situazione differisce dalla disoccupazione di tipo classico,
che si ha quando i disoccupati non sono stati occupati in
precedenza, essendo solo dei lavoratori potenziali che non riescono
a trovare lavoro perché l'economia, dato il livello di
accumulazione, non dispone degli impianti necessari per impiegarli.
Nella situazione che si era creata con la grande crisi, la
disoccupazione presentava caratteri del tutto diversi: gran parte
dei disoccupati erano, prima della crisi, inseriti produttivamente
nel sistema. È questa la disoccupazione che, come si è
già ricordato, fu spiegata, in opposizione alle concezioni
neoclassiche, da Keynes.
Possiamo pertanto parlare di 'disoccupazione di tipo keynesiano'.
Questo tipo di disoccupazione si verifica quando la disoccupazione
involontaria è la conseguenza di un insufficiente livello
della domanda globale per cui gli impianti sono solo parzialmente
utilizzati e una parte dei lavoratori disposti a lavorare ai salari
correnti (molti dei quali sono già stati occupati) non sono
impiegati dalle imprese.In una simile situazione del mercato del
lavoro la riduzione del salario può fare assai poco, anzi
può avere effetti perversi in quanto, riducendosi i salari,
si riduce ancor più la domanda di beni di consumo per cui la
crisi si aggrava. Può anche capitare che gli imprenditori,
condizionati dalle aspettative pessimistiche, attendano, prima di
decidere di espandere nuovamente la produzione, che si verifichino
ulteriori riduzioni di salario.
Quando la disoccupazione è di tipo keynesiano, il solo
rimedio efficace è costituito da un aumento della domanda
globale di beni, che può essere provocato da una crescita
della spesa pubblica superiore alle entrate fiscali. In tal caso la
ripresa della domanda potrà indurre le imprese a riassumere i
lavoratori disoccupati. Per varie ragioni, tuttavia, gli interventi
dello Stato per sostenere la domanda globale possono provocare,
anche in una situazione di non pieno impiego del lavoro, qualche
tensione inflazionistica, per cui il paese potrebbe vedere
peggiorata la sua posizione nell'economia mondiale. Infatti
crescendo i suoi prezzi, relativamente a quelli di altri paesi, il
paese in questione riuscirà a vendere meno beni all'estero,
mentre saranno favorite le importazioni: nei suoi conti con l'estero
si registrerà allora un deficit.
La crescita della spesa pubblica può avere poi effetti
negativi sulla produttività di lungo periodo in quanto
può favorire il mantenimento di attività inefficienti,
attenuare gli stimoli per gli imprenditori, ridurre la
mobilità del lavoro, portare a un'espansione della pubblica
amministrazione, all'interno della quale, anche per alcune
caratteristiche culturali e istituzionali, il lavoro è meno
produttivo. Gli interventi dello Stato che possono ridurre (o
addirittura eliminare) la disoccupazione di tipo keynesiano debbono
quindi tener conto di diverse esigenze.
7. La disoccupazione tecnologica
Il progresso tecnico può portare a una generale riduzione dei
coefficienti di lavoro. Ciò si è verificato nella
cosiddetta seconda rivoluzione industriale, quando lo sviluppo della
meccanica, che ha reso possibile la produzione di macchine in grado
di sostituire il lavoro, l'invenzione dell'energia elettrica e le
nuove produzioni chimiche hanno consentito di ridurre in misura
notevole l'occupazione nei vari settori. Alcuni economisti - come
Rosa Luxemburg - avevano previsto una forte disoccupazione proprio
come conseguenza di queste rapide trasformazioni tecnologiche. Se le
previsioni non si sono avverate per gli Stati Uniti, dove la seconda
rivoluzione industriale ha avuto un corposo e rapido sviluppo,
ciò è dovuto all'affermazione del consumismo. Lo
sviluppo della meccanica e dell'elettricità ha portato
all'invenzione dei nuovi beni durevoli - l'automobile, la radio, la
televisione, gli elettrodomestici - destinati a rivoluzionare i modi
di vita e, come abbiamo visto, lo stesso funzionamento dei mercati.
Negli Stati Uniti, nel corso degli anni venti, tutte le industrie
hanno visto ridursi, proprio in seguito al progresso tecnico,
l'occupazione, ad eccezione di quelle produttrici dei nuovi beni di
consumo e delle industrie e dei servizi a esse connessi.
L'incremento di occupazione in queste industrie nuove è stato
peraltro tale da compensare più che abbondantemente le
perdite avvenute nelle altre.In effetti, quando le innovazioni
tecnologiche portano a piccoli mutamenti nei coefficienti di
fabbisogno del lavoro, il sistema può reagire in modo da
ripristinare la piena occupazione: a) alla riduzione della
manodopera nei settori beneficiati dall'innovazione si può
associare l'aumento dell'occupazione nei settori che debbono
produrre le nuove macchine; b) quando l'innovazione riguarda dei
prodotti che sono offerti in regime di concorrenza e per i quali
l'elasticità della domanda rispetto al prezzo è
elevata, è possibile che si abbia un aumento della domanda,
come conseguenza della riduzione del prezzo, tale da provocare
un'espansione della produzione e quindi una crescita
dell'occupazione in grado di compensare la riduzione indotta dal
progresso tecnico nei coefficienti di lavoro. Anche la domanda di
altri prodotti può crescere per il maggior potere d'acquisto
che ha ottenuto il consumatore in seguito alla riduzione dei prezzi
dei beni che si sono avvantaggiati del progresso tecnico.
La situazione è diversa quando le innovazioni tecnologiche si
verificano in numerosi settori e comportano forti riduzioni dei
coefficienti di lavoro, non solo nei settori che impiegano le
macchine, ma anche in quelli che le producono. Allora non è
pensabile che il sistema possa generare un aumento della domanda
tale da ripristinare situazioni di pieno impiego o prossime al pieno
impiego. In un solo caso è possibile che una simile
rivoluzione tecnologica possa manifestarsi in modo tale da rendere
possibile il mantenimento di situazioni di piena occupazione o
prossime alla piena occupazione: nel caso in cui la riduzione dei
costi, resa possibile dall'innovazione, associandosi alle
novità merceologiche, consenta un forte incremento delle
esportazioni. È questo il caso giapponese. In questo caso, il
paese dove si è realizzata l'innovazione è in grado di
mantenere un livello elevato di occupazione grazie all'acquisto di
attività di altri paesi, acquisto che assorbe il
sovrappiù della sua bilancia commerciale.
Si ha 'disoccupazione tecnologica' quando, in seguito a innovazioni
tecnologiche, si ha una riduzione dei coefficienti di impiego del
lavoro di tale entità e in settori così numerosi per
cui non è possibile che il mercato possa determinare, a
seguito dell'accresciuta produttività del lavoro, un aumento
della domanda di beni di consumo o di beni d'investimento di
dimensioni tali da impiegare la manodopera eliminata dal progresso
tecnico.Abbiamo visto come negli anni venti la disoccupazione
tecnologica abbia potuto essere eliminata negli Stati Uniti grazie
ai mutamenti verificatisi - sia nella distribuzione del reddito che
nella domanda di beni di consumo - in seguito alla diffusione del
consumismo. Queste modalità con cui nel passato è
stato risolto il problema della disoccupazione tecnologica non sono
ripetibili.
Elevati livelli di disoccupazione tecnologica si profilano
nuovamente in seguito agli sviluppi dell'elettronica,
dell'informatica e della bioingegneria: sviluppi che renderanno
possibili forti riduzioni dei coefficienti di lavoro. Il
riequilibrio tra domanda e offerta di lavoro potrà avvenire
non in seguito ad aggiustamenti spontanei provocati dai meccanismi
di mercato, ma come conseguenza di nuovi fatti storici, in
particolare: a) attraverso lo sviluppo di nuovi consumi. Negli Stati
Uniti si sta già manifestando un forte sviluppo di alcuni
servizi legati all'evoluzione del sistema consumistico; è
possibile che, in seguito, particolarmente, ai nuovi sistemi di
telecomunicazione, si sviluppino nuovi consumi in grado, insieme
allo sviluppo dei nuovi servizi, di compensare la riduzione della
domanda di lavoro nei settori tradizionali; b) grazie alla riduzione
dell'orario di lavoro. Dobbiamo in proposito osservare alcune
differenze tra la seconda rivoluzione industriale - caratterizzata
dalle nuove prospettive dell'industria meccanica, dalla nascita
dell'industria elettrica e dalle nuove potenzialità
dell'industria chimica - e quella che si sta delineando, associata
agli sviluppi dell'informatica. I nuovi consumi, resi possibili
dalla seconda rivoluzione industriale, richiedevano un alto potere
d'acquisto, per cui diventava forte la pressione, anche sindacale,
per la traduzione dei vantaggi delle nuove tecnologie in aumento del
potere d'acquisto, al fine di consentire a un numero crescente di
consumatori di avvicinarsi ai nuovi consumi. I consumi che l'avvento
dell'informatica renderà possibili non richiederanno l'uso di
beni particolarmente costosi (il prezzo dei calcolatori è
destinato a scendere a ritmi accelerati), ma maggiore
disponibilità di tempo libero, per cui vi sarà una
vasta convergenza di interessi volti al perseguimento dell'obiettivo
della riduzione dell'orario di lavoro.Le innovazioni possono
riguardare non solo le tecniche produttive, ma anche i sistemi
organizzativi (ciò sarà soprattutto vero in seguito
agli sviluppi della rivoluzione informatica). Esse rendono allora
necessarie profonde ristrutturazioni che possono determinare una
forte contrazione dell'occupazione. La crescita della disoccupazione
può essere frenata dalla collusione, volta a rallentare lo
sviluppo tecnologico, che si può stabilire tra i lavoratori e
gli stessi imprenditori, se questi ultimi sono danneggiati dalla
ristrutturazione (perché, ad esempio, perdono il controllo
dell'impresa) o se non sono in grado di effettuarla.
8. Crescita della produttività e
disoccupazione
La crescita della produttività, che riflette
soprattutto la vivacità dell'attività imprenditoriale
volta a realizzare innovazioni nei processi produttivi e nei
prodotti, può quindi associarsi a un basso tasso di crescita
dell'occupazione. Negli anni ottanta in Italia si sono registrati in
genere tassi di crescita della produttività più
elevati che negli Stati Uniti, dove invece sono stati più
alti i tassi di crescita dell'occupazione. Bisogna aggiungere,
tuttavia, che il più alto tasso di crescita dell'occupazione
negli Stati Uniti si spiega anche con i cambiamenti strutturali: si
è avuta infatti un'espansione - anche relativa - dei servizi
che comportano in genere un maggiore impiego di lavoro.
Da queste osservazioni sembra che si debba accettare una
contrapposizione tra l'obiettivo di una elevata occupazione e quello
di un alto tasso di crescita. Nel breve periodo, in effetti, questi
due obiettivi sono spesso inconciliabili; non è difficile
però rendersi conto del fatto che la contrapposizione tra
l'obiettivo di una crescita sostenuta e quello del pieno impiego
tende ad attenuarsi in un'ottica di lungo periodo. Perché il
saggio di crescita possa mantenersi nel tempo, occorre, infatti, che
le riduzioni degli inputs di lavoro rese possibili dal progresso
tecnico siano compensate da diminuzioni nell'orario di lavoro e da
aumenti nei coefficienti di consumo. Le potenzialità di
crescita si realizzano quindi pienamente nel lungo periodo solo se
viene assicurata la piena occupazione. Vale anche un'argomentazione
per certi aspetti inversa: il persistere della disoccupazione
influisce sulla qualificazione della manodopera. Inoltre,
poiché ai lavoratori disoccupati, quantomeno nei paesi
industrializzati, viene in un modo o nell'altro assicurata la
sopravvivenza, l'aumento della disoccupazione si associa a
un'intensificazione delle politiche assistenzialistiche che incidono
negativamente sulla dinamica della produttività del lavoro e
quindi sulle prospettive di crescita dell'economia.
9. I fattori demografici
Il livello di occupazione e quello della disoccupazione, oltre che
dalle variabili economiche - segnatamente il salario - dipendono
dagli andamenti della popolazione (tasso di crescita e mutamenti
strutturali). Malthus ritiene che si possa stabilire una relazione
tra dinamica della popolazione e dinamica dei salari. La tesi
malthusiana - che Ricardo sostanzialmente utilizza per individuare
un meccanismo (i mutamenti nel tasso di crescita della popolazione)
in grado di mantenere i salari ai livelli di sussistenza - non
è confermata dai fatti. Rilevante non è solo la
dinamica naturale della popolazione, quale risulta dalla differenza
tra nati e morti: rilevanti sono anche i movimenti migratori. Basti
pensare agli Stati Uniti, che hanno potuto svilupparsi fino ad
assumere le attuali dimensioni economiche, grazie alla forte
immigrazione di manodopera, dall'Europa in particolare. Alcuni
autori - il Lewis in primo luogo - hanno studiato come nei paesi in
via di sviluppo il settore moderno possa svilupparsi grazie
all'afflusso di manodopera che lascia il settore tradizionale.
Anche i movimenti dei lavoratori da regione a regione, da paese a
paese non sono governati soltanto da fattori economici. Nei paesi in
via di sviluppo dai settori tradizionali emigra verso il settore
moderno, o meglio verso le grandi città dove si localizzano
le nuove attività economiche, un numero di persone superiore
a quello che può trovare un'efficiente occupazione.
Così si spiega la formazione delle cinture di emarginazione
che caratterizzano le città del Terzo Mondo.In relazione alla
dinamica della popolazione si determina la quantità di
lavoratori potenziali. Quali individui si possano considerare
lavoratori potenziali dipende dalla legge che stabilisce
l'età in cui è possibile incominciare
un'attività lavorativa e dai costumi. In generale è
stabilita anche l'età del pensionamento, anche se non pochi
pensionati continuano a svolgere un'attività lavorativa.
I lavoratori potenziali non corrispondono a quella parte della
popolazione che statistici ed economisti qualificano come
popolazione attiva. Fanno parte della popolazione attiva le persone
occupate o che sono alla ricerca di un'occupazione. Le altre
costituiscono la popolazione inattiva. Il rapporto tra popolazione
attiva e popolazione totale rappresenta il tasso di attività
della popolazione, sul quale influiscono numerosi fattori di ordine
economico e socioculturale. Vi possono essere, naturalmente, dei
lavoratori potenziali che non fanno parte della popolazione attiva
perché, godendo di altri redditi, non ritengono di dover
lavorare. Vi possono essere però anche individui che non
cercano lavoro perché non hanno speranza di trovarlo: la
disponibilità effettiva a lavorare si manifesta infatti
attraverso la ricerca di un posto di lavoro. La disponibilità
è solo potenziale quando il lavoratore, essendo la fiducia
nella possibilità di trovare un'occupazione inferiore alla
soglia che deve essere raggiunta perché egli sia motivato a
ricercarla, scompare dalla popolazione attiva pur potendo
ricomparire in tale settore della popolazione se si creano
condizioni favorevoli. Questi lavoratori potenziali vengono indicati
con il termine di 'lavoratori scoraggiati'. Molti lavoratori
potenziali aspirano ad avere non un lavoro qualunque, ma un lavoro
da svolgersi in particolari località, con determinate
caratteristiche relative all'orario, all'ambiente di lavoro, ecc.
Anche questi lavoratori possono diventare lavoratori scoraggiati se
non vi è speranza che venga offerto del lavoro con tali
caratteristiche.
Speculare alla nozione di lavoratori scoraggiati è quella di
'lavoratori aggiuntivi'; tali sono i lavoratori che sperano di poter
presto ritornare a far parte della popolazione inattiva, in quanto
hanno deciso di accettare un posto di lavoro solo per far fronte a
una situazione economica contingente.
La presenza di lavoratori scoraggiati e di lavoratori aggiuntivi
mostra come sia peculiare del mercato del lavoro una certa
interdipendenza tra dinamica della domanda e dinamica dell'offerta
di lavoro. Se migliorano le prospettive di trovare lavoro, l'offerta
può aumentare, perché molti lavoratori cessano di
essere scoraggiati, o diminuire, perché lavoratori aggiuntivi
tornano a far parte della popolazione inattiva.
10. Le difficoltà che comporta la
misurazione del fenomeno disoccupazione
Non è facile far corrispondere al termine
disoccupazione un correlato empirico. Per varie ragioni: a) è
difficile valutare la disoccupazione volontaria che, in genere, fa
parte della popolazione inattiva. Ma anche la disoccupazione
involontaria non è facile da individuarsi per la presenza di
lavoratori scoraggiati che non entrano nelle statistiche dei
disoccupati; b) molti lavoratori precari e anche quelli assunti al
mercato nero, di cui si dirà fra poco, vengono spesso censiti
nella popolazione inattiva; c) vi sono poi dei lavoratori che
risultano ancora dipendenti da imprese, ma che sono di fatto
disoccupati o quanto meno non occupati in modo produttivo. Va
infatti tenuto presente che molte imprese ritengono opportuno non
licenziare i lavoratori che non possono impiegare produttivamente:
1) per la difficoltà di riassumerli quando la congiuntura
favorevole ritorna; 2) per non interrompere certi processi di
apprendimento e di qualificazione che si possono realizzare solo
all'interno dell'impresa; 3) per favorire l'identificazione (nel
senso socioculturale del termine) del lavoratore con l'impresa.
Per venire incontro a queste esigenze delle imprese, in Italia, per
esempio, è stata creata la Cassa integrazione guadagni,
inizialmente concepita come una forma di mutuo soccorso tra le
imprese, ognuna delle quali contribuisce al finanziamento della
Cassa, la quale provvede poi ad assicurare una parte della
retribuzione ai lavoratori che restano alle dipendenze delle imprese
in difficoltà congiunturale, per le ore per le quali tali
imprese non possono impiegarli produttivamente. In verità
solo in alcuni paesi, ove le imprese possono contare su un mercato
vasto, articolato (con disponibilità di varie qualificazioni
di lavoro) e fluido (i lavoratori potendosi spostare facilmente da
un'occupazione o da un'impresa all'altra), può essere
conveniente per l'impresa nelle fasi di recessione ridurre il
livello d'occupazione, quanto meno per alcune qualifiche.
Naturalmente, se la recessione si preannuncia di relativamente lunga
durata o se le prospettive della futura ripresa non appaiono
particolarmente entusiasmanti, l'impresa sarà indotta a
licenziare: il che però, in certi paesi, come il nostro,
è fortemente ostacolato (specie per le imprese pubbliche) dal
sistema sociopolitico.
11. Mutamenti strutturali e disoccupazione. I
diversi mercati del lavoro
Abbiamo già avuto occasione di definire come
volontaria la disoccupazione di coloro che non sono disposti a
lavorare perché non ritengono il salario sufficientemente
remunerativo. Non poche persone (donne soprattutto) sono disoccupati
volontari perché non ritengono adeguate alle loro esigenze
altre caratteristiche del lavoro offerto. L'offerta del lavoro
può quindi variare non solo al variare del saggio di salario,
ma anche perché variano le caratteristiche del lavoro
offerto. Una caratteristica particolarmente rilevante è la
località in cui il lavoro è offerto. Vi sono
lavoratori potenziali che sono disposti a spostarsi da una
località all'altra, ma vi sono anche lavoratori che non si
spostano per le ragioni più diverse; una ragione può
essere la difficoltà di trovare casa. L'offerta di lavoro
può quindi variare da regione a regione, così come la
domanda di lavoro, che si localizza in un'area piuttosto che in
un'altra, non solo per la maggiore disponibilità di lavoro
nella prima, ma anche perché in questa si realizzano certe
condizioni che mancano nella seconda. Così si spiegano gli
alti tassi di disoccupazione che si osservano in certe regioni: in
Italia nel Mezzogiorno, dove la disoccupazione è
percentualmente oltre il doppio di quella che si registra nel Nord.
Negli anni che precedono il 1966, si nota in Italia una contrazione
dell'occupazione femminile. Ciò è dovuto soprattutto
alla forte contrazione dell'occupazione in agricoltura, un settore
dove era prevalente la presenza femminile. Le donne che hanno
lasciato l'agricoltura non potevano trovare facilmente lavoro
nell'industria, in particolare per la mancanza della qualificazione
necessaria, ma anche per altre ragioni (la difficoltà a
spostarsi, ecc.). Dopo il 1973 si ha una crescita consistente
dell'occupazione femminile, sia per ragioni socioculturali che per
ragioni economiche: il più rapido sviluppo del terziario e
l'aumento dell'occupazione nella pubblica amministrazione.
Nel riferire le grandi teorie sull'occupazione abbiamo parlato di
mercato del lavoro, come se si potesse considerare il lavoro come
una merce omogenea. In effetti, il mercato del lavoro non è
un mercato omogeneo. Si può verificare - e in effetti si
è verificato negli anni sessanta in Italia - che le imprese
non riescano a trovare lavoratori con certe qualifiche (o in certe
regioni), mentre lavoratori con altre qualifiche (o in altre
regioni) non riescono a trovare lavoro. La disponibilità di
lavoratori altamente qualificati può consentire di realizzare
- soprattutto nei settori d'avanguardia (si pensi oggi
all'informatica) - organizzazioni produttive più efficienti.
Perciò particolare rilievo assume, anche nella determinazione
delle potenzialità dell'economia, l'investimento nella
formazione culturale e professionale dei lavoratori. Proprio per
questo si usa oggi parlare di 'capitale umano' per indicare la
disponibilità di lavoratori opportunamente qualificati e
acculturati.
La disoccupazione può in verità riflettere discrasie
tra le qualificazioni professionali disponibili e quelle richieste.
Negli Stati Uniti negli anni ottanta era diffusa la preoccupazione
che nel futuro parte della domanda di lavoro non potesse essere
soddisfatta per l'inadeguatezza della preparazione scolastica e
professionale. Anche in Italia la disoccupazione giovanile,
soprattutto in certe regioni, come quelle settentrionali, è
in buona parte spiegata dalla qualificazione
scolastico-professionale che non corrisponde a quella richiesta.
Per un'adeguata comprensione della struttura e della dinamica
dell'occupazione, occorre considerare i diversi mercati del lavoro
che risultano, oltre che da fattori tecnici (la dimensione spaziale
dei mercati, le qualifiche professionali), anche da fattori
socioculturali.
Mentre alcune famiglie riescono a realizzare, in misura
soddisfacente, le loro aspirazioni per quanto riguarda
l'occupazione, altre - invero numerose in alcune regioni come quelle
dell'Italia meridionale - debbono accontentarsi di un lavoro
considerato inadeguato, spesso obiettivamente precario oltre che
insufficiente per durata. Queste famiglie non riescono a realizzare
le loro aspirazioni perché i membri che desiderano lavorare
mancano di adeguate qualificazioni o perché è bassa la
valutazione che di essi fanno imprenditori e società.
Questo fatto ha una duplice implicazione: a) per la
difficoltà ad accedere ai mercati di lavoro privilegiati si
determina un'offerta di lavoro particolarmente consistente nei
mercati di lavoro dequalificati, nei quali quindi i salari tendono a
stabilirsi a livelli particolarmente bassi; b) anche una parte degli
occupati - segnatamente gli occupati precari - rappresenta
un'offerta potenziale di lavoro: un'offerta potenziale per i mercati
privilegiati.
Questo fatto dovrebbe indurre un rallentamento nella crescita dei
salari, rallentamento che tuttavia in genere non si verifica per due
motivi: 1) perché nei mercati privilegiati il sindacato
è forte e gli imprenditori, per le ragioni cui si è
già avuto modo di accennare, possono avere interesse a
consentire una certa crescita dei salari; 2) perché gran
parte dell'offerta potenziale di lavoro dei mercati privilegiati non
ha le caratteristiche richieste.
Si possono stabilire allora due tipi di mercati del lavoro: a) i
mercati del lavoro qualificati (in genere sindacalizzati); b) i
mercati marginali. Nei mercati qualificati, anche per gli ostacoli
alla mobilità del lavoro, i salari tendono a mantenersi a
livelli elevati. Nelle regioni dove prevalgono questi mercati si
può verificare un rafforzamento del sindacato che, nella
misura in cui privilegia l'obiettivo del mantenimento dello status
quo occupazionale, contribuisce a irrigidire le strutture
produttive, attenuando le capacità di crescita del sistema.
Si delinea così una situazione apparentemente paradossale,
caratterizzata dalla coesistenza di mercati qualificati, in cui
offrono lavoro lavoratori che non solo aspirano a un lavoro
qualificato, ma hanno anche la qualificazione per svolgerlo, e di
mercati non qualificati in cui possono cercare lavoro i lavoratori
che mancano delle qualifiche che sono richieste nel primo tipo di
mercato. Nei mercati qualificati si può avere eccesso di
domanda, mentre negli altri si registra eccesso di offerta.
Le variazioni della domanda globale possono avere allora effetti
asimmetrici.
Aumenti di domanda possono indurre le imprese, proprio per le
caratteristiche del primo tipo di mercato in cui è difficile
trovare manodopera, ad accelerare la realizzazione di innovazioni
risparmiatrici di lavoro, mentre la riduzione di domanda può
indurre le imprese a licenziare la manodopera marginale (quella che
ha in misura minore le qualifiche socio-professionali ritenute
necessarie, o quantomeno opportune).
Particolare rilievo è andato assumendo in tutti i paesi -
segnatamente in Italia - quel particolare mercato dequalificato che
è il 'mercato del lavoro nero'. Esso è caratterizzato
non solo da un salario particolarmente basso, ma anche dalla
possibilità, per l'impresa che assume su questo mercato, di
evitare il pagamento degli oneri sociali che in alcuni paesi sono di
entità assai rilevante (in Italia comportano un costo del
lavoro quasi doppio rispetto alla corrispondente busta paga).Il
mercato nero ha assunto un rilievo ancora maggiore con lo sviluppo
dell''economia sommersa', in cui molte attività hanno potuto
prosperare (ed esportare parte della produzione) grazie ai costi
più bassi dovuti anche alla possibilità di ridurre il
carico fiscale.
Sociologia
di Aris Accornero
sommario: 1. Le origini del concetto. 2.
Definizioni e parametri. 3. Le variabili influenti. 4. Le ricerche
classiche. 5. I 'senza lavoro'. 6. Durata e tipologie. 7.
L'inoccupazione moderna. 8. Cercare lavoro. □ Bibliografia.
1. Le origini del concetto
La disoccupazione è una condizione definita con qualche
rigore da circa un secolo. Il termine inglese unemployment (come
quello francese chômage) veniva abitualmente usato
nell'Ottocento per designare "coloro che erano semplicemente 'non
occupati', che erano inattivi o non al lavoro" (v. Keyssar, 1986, p.
3). Soltanto verso la fine del secolo il concetto di disoccupazione
si distaccò da quello di inattività, o di
inoperosità (idleness), che aveva usato lo stesso Karl Marx
scegliendo il vocabolo Unbeschäftige, non quello che si
affermò poi in Germania e che è forse il più
appropriato: Arbeitslosigkeit, che designa la condizione di chi ha
perduto il lavoro.Fu nello Stato del Massachusetts, il più
industrializzato degli Stati Uniti, che si cominciò a
intendere la disoccupazione come inattività involontaria,
grazie a una pionieristica inchiesta condotta nel 1878 dall'Ufficio
di Statistiche del lavoro. Tale origine è importante sotto il
profilo della storia sociale perché connette la
disoccupazione con il modello d'impiego e con lo spazio sociale
della grande industria. Dove non era ancora concentrato, il lavoro
era irregolare e, se veniva a mancare, molti tornavano al lavoro
domestico, alla piccola produzione familiare, all'attività
nei campi. Questa eterogeneità ha connotato la classe operaia
finché non è sopravvenuta quella certa
stabilità che delimita la disoccupazione moderna: essa
infatti è tale perché interrompe una continuità
di lavoro.
Il termine viene impiegato in tal senso già nell'edizione del
1882 dell'Oxford English dictionary, ma la sua prima definizione
moderna si deve a John Hobson, secondo il quale la disoccupazione
dipende dal mercato ed è distinta dalla povertà:
quindi è doppiamente involontaria. Si comincia a individuare
la disoccupazione come una condizione specifica, e a rifiutare gli
schemi analitici e gli approcci moralistici basati sul nesso fra
oziosità e indigenza, vale a dire sulla persuasione che chi
vuole davvero lavorare troverà sempre del lavoro, e che se ai
poveri non si dà nulla da fare essi non faranno nulla.
La disoccupazione derivava dunque dall'affermarsi in Gran Bretagna
di relazioni di mercato nel campo del lavoro, e quindi di un
proletariato regolarmente retribuito. Anche Max Weber aveva
sottolineato del resto che l'Occidente industriale moderno si basa
sull'organizzazione della forza lavoro 'formalmente' libera da
vincoli, cioè soggetta a compravendita. "Quando un uomo
chiede lavoro, non chiede lavoro ma salario", aveva detto un vescovo
anglicano (v. Polanyi, 1944, p. 227). Che il disoccupato e il povero
non si identificassero venne dimostrato per la prima volta da
un'imponente ricerca condotta nel 1899 a York: su 46.754 lavoratori,
ben il 28% era in condizioni di povertà, ma soltanto il 5% lo
era a causa del lavoro; il problema maggiore, tra l'altro, era
l'irregolarità più che la perdita dell'impiego (v.
Rowntree, 1902, pp. 119-121). Il successivo passaggio teorico
è opera di William Beveridge (v., 1930, p. 136), che nel 1909
definisce la disoccupazione come "un problema dell'industria",
avvalorando in qualche modo la tesi di Marx, il quale incolpava il
capitalismo industriale. Lo studioso inglese, pur rilevando che "le
distinzioni correnti fra chi vuole e chi non vuole lavorare sono
fluide e indefinite", ribadisce sulla scia di Hobson la tesi
dell'involontarietà della disoccupazione in base al riscontro
empirico che il suo andamento ricalca quello delle fluttuazioni
economiche.
La crisi che scoppia a Wall Street nel 1929 dilagando poi in tutto
il mondo occidentale scuote la fiducia nei meccanismi di mercato e
chiarisce definitivamente la natura del fenomeno. I senza lavoro
arrivano rapidamente a 20 milioni. "Per molti di loro la mera
sopravvivenza dipendeva dall'elargizione di un piatto di minestra e
da altre forme private di carità", ricorda Maria Jahoda, la
decana degli studi sociopsicologici sulla disoccupazione (v. Pappas,
1989, p. XI). Il vecchio pregiudizio svanisce: non si può
addebitare ai disoccupati la loro inattività, anzi la gente
simpatizza con essi in quanto ne sono piuttosto le vittime. Questa
rappresentazione legittima l'approccio di John M. Keynes - ancora un
inglese - secondo il quale il carattere della disoccupazione
è per definizione involontario, e pertanto spetta ai governi
porvi rimedio. Mentre prende avvio l'intervento diretto dello Stato
nell'economia, e viene istituita l'assicurazione obbligatoria contro
la disoccupazione, iniziano le prime ricerche sociopsicologiche
sulla nuova piaga sociale.
È allora che si formano le immagini tuttora vive, a
cominciare dal 'tipo ideale' del disoccupato: il capofamiglia adulto
in tuta blu che, avendo perduto il proprio lavoro, ha assoluto
bisogno di trovarne un altro. La 'grande depressione' produsse
tragedie umane e miserie collettive. Seebohm Rowntree ripeté
nel 1936 l'indagine a York e trovò che, sebbene nel frattempo
il tenore di vita fosse migliorato, oltre 7 disoccupati su 10
vivevano sotto la poverty line. Le code per un piatto di minestra
furono raccontate dalle vittime stesse della disoccupazione (v.
Beales e Lambert, 1934). Scrittori sensibili descrissero
indimenticabili figure di senza lavoro, basandosi a volte sulla
propria esperienza (v. Brunngraber, 1933; v. Fallada, 1932; v.
Greenwood, 1934; v. Anderson, 1935; v. Orwell, 1937). I disoccupati
ebbero proprie organizzazioni e giornali, e manifestarono contro la
fame e il taglio dei sussidi in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e
nella Germania di Weimar.
2. Definizioni e parametri
È ormai universalmente accettata l'idea che la disoccupazione
sia "la condizione di chi si trova privo dei mezzi per guadagnarsi
da vivere in modo socialmente accettabile", e che i disoccupati
"sono coloro che non hanno un'occupazione eppure ne abbisognano" (v.
Garraty, 1978, pp. 22-23). Si assume che la condizione di
disoccupato sia temporanea. Essa riguarda il lavoratore dipendente
che, perduto il posto in seguito a una crisi di produzione o alla
chiusura dell'azienda, oppure per motivi di rendimento o di
disciplina, ne cerca un altro avvalendosi dei servizi per il
collocamento, di domande ai datori di lavoro, di inserzioni o di
conoscenze. Tuttavia, sia il concetto di disoccupazione, sia il
profilo del disoccupato sono passibili di interpretazioni
divergenti, e ciò vale persino per il carattere involontario
della mancanza di lavoro. Infatti chi è senza lavoro
può rifiutare posti che giudica non confacenti, ma rischia di
essere considerato volontariamente disoccupato. Le stesse categorie
statistiche non sono neutrali, essendo state 'inventate' entro un
determinato quadro sociale (v. Salais e altri, 1986):
l'entità della disoccupazione dipende in fondo da come si
individuano e si contano i disoccupati. (Va considerato tra l'altro
che la somma delle persone rimaste senza lavoro nel corso dell'anno
è sempre maggiore del numero di disoccupati calcolabile in un
dato momento; v. Frey, 1988).
Secondo gli standard internazionali il disoccupato deve: a) essere
rimasto senza lavoro per cause di forza maggiore; b) non avere
un'altra attività remunerata; c) essere alla ricerca di un
lavoro; d) essere disponibile a lavorare subito. Ma tali criteri
vengono applicati con modalità che creano discrepanze nelle
comparazioni: per esempio Italia e Giappone non verificano se la
ricerca del lavoro è stata attiva, al contrario di Francia e
Germania; Spagna e Stati Uniti considerano disoccupati anche quanti
sono sospesi dal lavoro, al contrario di Belgio e Gran Bretagna, e
così via. Le definizioni dipendono dalle scelte che i governi
fanno in merito alla sicurezza sociale. In genere viene considerato
disoccupato soltanto chi ha diritto al sussidio avendone i
requisiti, che sono stabiliti rigorosamente e soggetti ad
accertamenti periodici, a volte vessatori: in molti paesi non si
può svolgere nessuna attività, in alcuni si deve
apporre una firma tutti i giorni in ore diverse. L'entità del
sussidio risponde al principio della minore appetibilità -
less eligibility -rispetto al salario minimo, ma il dubbio se esso
scoraggi oppure incoraggi la ricerca dell'impiego continua a
dividere gli studiosi. L'Italia, come la Spagna, accetta invece le
autodefinizioni degli interessati anche per le registrazioni
ufficiali; d'altro canto il livello del sussidio è rimasto a
lungo così basso che la Corte costituzionale è dovuta
intervenire sul governo.
Le principali fonti italiane sulla disoccupazione sono due:
l'indagine campionaria sulle forze di lavoro dell'Istituto Centrale
di Statistica, che divide le persone in cerca di lavoro in tre
categorie (chi ha perso l'impiego; chi lo cerca per la prima volta;
chi cerca un lavoro pur non essendo in condizione lavorativa, come
la casalinga o il pensionato), e la rilevazione del Ministero del
Lavoro e della Previdenza sociale sugli iscritti al collocamento.
Questa fonte fornisce dati meno utili, giacché è
consentito a ben 12 categorie di persone di mettersi in lista pur
avendo un fine diverso da quello dell'impiego. Il moltiplicarsi dei
mercati del lavoro cui fanno riferimento sia l'offerta che la
domanda (in Italia sono 177) richiede conoscenze sempre più
analitiche.
3. Le variabili influenti
Anche se la disoccupazione è dovuta a cause in sé non
selettive, essa si associa sistematicamente a talune variabili
sociologiche: lo stesso Beveridge (v., 1930, p. 148) aveva segnalato
l'interazione di fattori "industrial and personal", e nel 1910 una
pionieristica indagine su 1.149 disoccupati e sottoccupati aveva
riscontrato che circa la metà mostrava handicaps fisici o
difetti di carattere (v. Rowntree e Lasker, 1911).
Età. È inversamente correlata ai tassi di
disoccupazione, che misurano il rapporto fra le forze di lavoro e le
persone in cerca di occupazione. I giovani sono oggi i più
penalizzati, mentre in passato lo erano gli anziani. Il cambiamento
si è manifestato in paesi con strutture demografiche assai
diverse, e prescinde anche dalle relazioni di lavoro: esso riguarda
ad esempio gli Stati Uniti, dove i licenziamenti sono regolati in
base alla seniority (last in, first out), ma riguarda anche l'Italia
dove tale clausola manca del tutto.
Sesso. Le donne sono in genere sfavorite: i tassi di disoccupazione
femminile sono maggiori, soprattutto dove è debole la
presenza delle donne nel mercato del lavoro. D'altro canto la
disoccupazione femminile cresce dove cresce l'occupazione femminile,
per il richiamo esercitato sulle donne che non hanno ancora scelto
il lavoro extradomestico.
Istruzione. Di solito la probabilità di trovarsi disoccupati
è inversamente correlata agli anni di studio. Questa
relazione è particolarmente chiara negli Stati Uniti (v. tab. I; v. Howe, 1988). È significativo
che per i laureati il rischio di perdere il posto sia minimo,
sebbene a volte lo debbano cercare più a lungo. Negli Stati
Uniti, fra il 1967 e il 1987, i laureati sono aumentati di oltre il
12% fra le forze di lavoro e soltanto dello 1,5% fra i senza lavoro.
In Italia, fra il 1977 e il 1988, i laureati sono aumentati del 2,7%
fra gli occupati e sono diminuiti del 2,3% fra i disoccupati; di
'disoccupazione intellettuale' si può parlare esclusivamente
per i diplomati.
Etnia. È una variabile che incide considerevolmente: quando
subentrano difficoltà economiche, le minoranze etniche
vengono licenziate prima della manodopera indigena. Ciò
dipende in parte dai diversi livelli di istruzione, ma soprattutto
dalla persistenza delle barriere razziali. La crescita delle
migrazioni incrementa le discriminazioni anziché attenuarle,
e crea segmentazioni e diseguaglianze all'interno delle etnie
medesime.
Occupazione e professione. Comportano rischi specifici. Secondo il
censimento della popolazione del 1981, in Italia il maggior numero
di disoccupati si aveva fra i camerieri, i braccianti, i marittimi e
gli edili, ma erano senza lavoro anche molti attori: i rischi
maggiori riguardano le occupazioni e le professioni - anche colte o
qualificate - legate a stagioni o cicli. Proprio perché gli
impieghi più prestigiosi sono in genere più sicuri,
chi li perde può rimanerne sconvolto più di chi perde
un impiego di basso livello, con la differenza che avrà
maggiori mezzi per affrontare l'evento.
Reddito e status. Hanno una notevole influenza perché,
consentendo al disoccupato di attendere più a lungo, rendono
l'offerta di lavoro più selettiva: la possibilità di
scegliere l'impiego che si desidera può oltretutto accentuare
le diseguaglianze sul mercato.
Zone e località. Il rischio della disoccupazione decresce
quanto più ci si avvicina ai baricentri dell'economia, ove le
subculture produttive e le culture del lavoro influenzano anche i
comportamenti dei disoccupati. Dove il mercato offre maggiori
opportunità, essi sono infatti più attivi e
disponibili ad accettare impieghi di basso livello, sapendoli
transitori. Dove invece il mercato è asfittico, i disoccupati
hanno meno iniziativa (in Calabria le azioni di ricerca di un
impiego sono poco più della metà rispetto all'Umbria)
e sono meno disponibili verso le poche occasioni esistenti,
giacché la scarsità di lavoro fa loro preferire
l'attesa del 'posto', cioè l'impiego sicuro, generalmente nel
settore pubblico. La disoccupazione si correla a volte con le
dimensioni della località: in Italia è maggiore nei
comuni con oltre 20 mila abitanti.
4. Le ricerche classiche
Sociologi e psicologi hanno cominciato a studiare sistematicamente
le conseguenze della disoccupazione quando la 'grande depressione'
ne evidenziò i costi sociali e umani. Fu allora che vennero
sviluppate molte delle teorie e delle metodiche impiegate tuttora
(v. Jahoda e Rush, 1980).
Le prime due ricerche furono quella svolta a Marienthal nel
1931-1932 da un'équipe dell'Istituto di psicologia di Vienna,
formata da Maria Jahoda, Paul Lazarsfeld e Hans Zeisel, e quella
condotta nel 1931 da Edmund Bakke, dell'Università di Yale,
nel sobborgo londinese di Greenwich. Nella cittadina presso la
capitale austriaca l'unica fabbrica esistente aveva chiuso i
battenti causando una catastrofe sociale. Era una situazione limite
che mostrava le conseguenze della disoccupazione allo stato puro: la
destrutturazione del tempo ne era l'aspetto più inedito, con
effetti diversi per i due sessi. Quello studio resta ineguagliato
anche perché delineò per la prima volta la sindrome
del disoccupato. Contemporaneamente Lazarsfeld, insieme a B.
Zawadski dell'Università di Varsavia, offrendo un premio alla
migliore 'storia' di disoccupazione ricavò da 57
autobiografie la fondamentale idea che il protrarsi della mancanza
di lavoro origina una precisa sequenza di stati d'animo. Bakke
adottò un approccio socioantropologico, usando interviste e
diari per studiare l'individuo senza lavoro. Il sobborgo di
Greenwich non era una comunità di 'disoccupati' bensì
di 'lavoratori', ma anche in questo caso emergeva il diverso uso che
i disoccupati facevano del loro tempo, quasi a dissiparlo, e
l'avvilente declino delle speranze in chi cercava lavoro invano.
Altre classiche ricerche inglesi furono quella del Pilgrim Trust,
che avviò nel 1936 un'inchiesta comparata sulla condizione
fisica e psichica dei disoccupati a lungo termine, campionandone e
interpellandone ben 880, fra cui 120 donne, in sei località
colpite da crisi economica, e quella coeva del Carnegie Trust che
intraprese la prima indagine a tappeto sui giovani disoccupati,
interpellandone oltre mille in tre città.
Le principali ricerche condotte negli Stati Uniti durante gli anni
trenta furono due: 1) quella di Mirra Komarovsky, la quale
intervistò a lungo 59 famiglie di Newark, una città
industriale ove emerse chiaramente che la disoccupazione alterava
gli equilibri emotivi, arrivando a comprometterli quando il
capofamiglia maschio percepiva il proprio stato come prova di
fallimento sociale; 2) la nuova, vasta e sistematica indagine di
Bakke, realizzata a New Haven con l'intento di capire le strategie e
le tecniche di 'caccia' al lavoro, le relazioni sociali e le
pratiche associative dei disoccupati come cittadini nella
comunità.
In Italia importanti ricerche psicotecniche furono svolte negli anni
trenta dal Centro di studi del lavoro di Torino, mentre il perdurare
di una disoccupazione endemica portò nel 1952 a un'indagine
parlamentare, da cui scaturirono utili conoscenze, e a una
suggestiva inchiesta condotta da Danilo Dolci a Palermo.
L'approssimarsi del pieno impiego nei paesi sviluppati ha poi
allentato l'interesse per la disoccupazione, finché il
fenomeno si è riproposto in forme nuove. Sono subentrate
allora metodologie qualitative e una maggiore specializzazione
disciplinare, mentre l'attenzione si è focalizzata sugli
effetti dell'inoccupazione giovanile e delle crisi industriali. P.
H. Chombart de Lauwe ha guidato un'indagine decennale nella regione
di Saint-Étienne in Francia, dov'era in corso una grossa
ristrutturazione industriale.
R. Zoll ha coordinato a Brema un'équipe che ha sottoposto a
trattamento ermeneutico i colloqui in cui i lavoratori spiegavano
crisi e licenziamenti. F. Barbano e G. Bonazzi hanno diretto a
Torino approfonditi studi sul fenomeno della Cassa integrazione
guadagni 'a zero ore', che costituisce una lunga mancanza di lavoro
senza perdita del posto.
5. I 'senza lavoro'
Quali conseguenze derivano al lavoratore dall'essere senza
lavoro? Quali sono le percezioni e le reazioni dovute a tale
deprivazione, quali i comportamenti che ne derivano? L'immagine di
chi è 'fuori dal lavoro' viene così riproposta da M.
Jahoda: "Non tutti i disoccupati vivono in una abietta
povertà, ma tutti sperimentano una severa riduzione nelle
loro risorse, che rende difficile e spesso impossibile assolvere gli
obblighi contratti quando erano ancora al lavoro. [...] Essendo
forzosamente esclusi dalla partecipazione attiva alla vita economica
del paese, segnati come inutili, con le loro capacità
ignorate, separati dai compagni di lavoro e deprivati della
solidarietà e del cameratismo che emergono in molti posti di
lavoro perfino quando le condizioni lavorative lasciano molto a
desiderare, i disoccupati si sentono abbandonati e il loro tempo non
passa mai. Solamente i molto forti possono evitare la
demoralizzazione" (v. Pappas, 1989, p. XII). Questa immagine
è ancora valida, sebbene da varie ricerche emerga che "il non
avere un lavoro si configura come una condizione difficile ma non
necessariamente drammatica" (v. Depolo e Sarchielli, 1987, p. 78).
Anche se ciascun gruppo reagisce con modalità proprie a
seconda del contesto sociale e dei valori di riferimento, e anche se
situazioni analoghe non producono i medesimi effetti su individui
diversi (il disadattamento può precedere la disoccupazione),
gli studiosi convengono che essere senza lavoro può intaccare
l'identità e sconvolgere la personalità perché
fa sentire inutili o esclusi. Ciò vale anche per i giovani,
il cui disagio è sistematicamente maggiore sia che non
lavorino ancora, sia che non lavorino in quel momento.
Il morale e la colpa. La disoccupazione demoralizza e deprime.
Quando si prolunga, può far perdere le speranze e minacciare
la salute mentale. Generando insicurezza economica, essa rende
"più instabili emozionalmente" tant'è vero che si
riguadagna stabilità non appena si trova un lavoro, a meno
che non se ne sia rimasti privi troppo a lungo (v. Eisenberg e
Lazarsfeld, 1938, pp. 359-363). Se per il disoccupato il valore del
lavoro assume addirittura "proporzioni esagerate" (v. Cohen, 1945,
p. 162), ciò è comprensibile poiché nella
società industriale l'occupazione è il primo
indicatore di prestigio.L'inattività forzosa può
sviluppare sentimenti di inferiorità quando chi la subisce se
ne attribuisce la responsabilità (v. Jahoda, 1982, pp. 24-25;
v. Fromm, 1980, p. 124). Nello straordinario reportage
commissionatogli dal New Left Club Orwell (v., 1937, p. 97) scrive:
"La cosa che mi sbalordì e mi atterrì fu scoprire che
molti di loro si vergognavano di essere senza lavoro".
A Marienthal erano tutti senza lavoro e mancavano pertanto i termini
di confronto, ma a Greenwich parecchi attribuivano la perdita del
posto a proprie deficienze. Chi si autocolpevolizza per spiegare la
propria disoccupazione perde la fiducia in se stesso e tende a
ritrarsi dalla società e perfino ad allentare i legami con la
famiglia: diventa "più introverso e meno socievole" (v.
Eisenberg e Lazarsfeld, 1938, p. 364).
Le spese e il tempo. Per molti disoccupati è mortificante
vivere di assistenza anziché di lavoro, così come
subire controlli per dimostrare di non avere risorse economiche o
un'attività: molta letteratura dà peso all'incubo del
sussidio che sta per finire, alle occhiute verifiche degli
assistenti sociali, e anche alle 'spiate' dei vicini malevoli. Le
difficoltà familiari ricadono soprattutto sulle casalinghe,
che debbono anche sopportare i malumori dei mariti. Ma capita
altresì che chi non si è ancora adeguato alla
situazione indulga in spese voluttuarie, il che appare irrazionale
(ma Orwell lo definì "naturale").
L'improvvisa interruzione delle scansioni abitudinarie che segnano
la giornata lavorativa non fa soltanto saltare i modelli temporali,
ma toglie significato al trascorrere del tempo. A Marienthal gli
uomini camminavano con indolenza avendo "dimenticato come si fa ad
avere fretta: hanno perso gli incentivi materiali e morali a
servirsi del proprio tempo; [e del resto] che cosa si dovrebbe fare
del tempo quando non si ha lavoro?" (v. Jahoda e altri, 1933, pp.
107 e 111).
A Greenwich i disoccupati stavano molte ore per strada e andavano
più frequentemente al cinema, anche per "ammazzare il tempo"
(v. Bakke, 1933, p. 308). A Middletown si faceva un maggior uso
della radio quale fonte di distrazione a buon mercato (v. Lynd e
Lynd, 1937, p. 604). Nulla di diverso invece per le disoccupate che,
dovendo continuare a espletare i propri doveri di mogli, madri e
figlie, hanno altri problemi (v. Pilgrim Trust, 1938, pp. 230-234).
L'impegno e i giudizi. Gli effetti della disoccupazione sulla
coscienza di classe e sui comportamenti sindacali e politici non
sono univoci. Mentre alcune evidenze indicano che l'attività
organizzata rende i disoccupati più estroversi e dinamici,
distogliendoli oltretutto dai loro problemi, altre mostrano che
l'esperienza della disoccupazione "fertilizza il terreno per la
rivoluzione, ma non la genera", giacché origina
un'aggressività inerte, sostenuta da un gruppo che
socialmente non è una massa (v. Zawadski e Lazarsfeld, 1935).
Taluni osservano che quando si è disoccupati si perde il
piacere della politica (v. Garraty, 1978, pp. 221-224; v. Bakke,
Citizens..., 1940, pp. 48-57), anche perché si è in
una condizione poco attiva: per questo pochi s'interessano di
politica (v. Carnegie U.K. Trust, 1943, pp. 77-79) sebbene nel
Partito comunista tedesco, nel 1929, 8 iscritti su 10 fossero
disoccupati (v. Fromm, 1980, pp. 90-92). Rispetto agli occupati,
tuttavia, i disoccupati risultano essere molto più
"malcontenti nei confronti dell'ordine economico" e sociale, sia che
si limitino a criticarlo, sia che si sentano disposti a combatterlo
(v. Rundquist e Sletto, 1935, p. 398).
I giudizi sociopolitici dei disoccupati non sono omogenei.
Interrogati negli anni ottanta, a Brema, sulle cause della crisi che
minacciava il loro posto di lavoro, essi hanno espresso i seguenti
atteggiamenti: strutturale - la crisi sta nei meccanismi della
produzione ed è curabile; antagonistico - la disoccupazione
deriva dal profitto e va combattuta; fatalistico - la situazione non
ha rimedi, forse solo la guerra; politico - la colpa è degli
errori ed eccessi dell'intervento statale; riduzionista - non vi
è nessuna crisi e non ci sono così tanti disoccupati;
sottomesso - gli alti salari e il basso rendimento scoraggiano gli
imprenditori; espiatorio - la pigrizia di chi lavora va combattuta
con uno Stato forte (v. Zoll, 1984, pp. 15-146). La disoccupazione
non produce dunque reazioni comuni, e anzi divide i soggetti anche
in termini culturali.
6. Durata e tipologie
Fin dagli anni trenta si è constatato che l'impatto della
disoccupazione è correlato alla sua durata (v. Bloodworth,
1933). La lunghezza e il protrarsi dei periodi di mancanza di lavoro
- gli unemployment spells - esasperano le reazioni al trauma
iniziato con la perdita del posto e generano una sequenza di stadi
che evolvono dallo scoramento alla depressione e al fatalismo. Uno
scrittore che conobbe la disoccupazione li ha tradotti in profili
umani: il proscritto, l'emarginato, il naufrago (v. Brunngraber,
1933, p. 164). Le ricerche italiane sui 'cassintegrati' mostrano che
la prolungata mancanza di lavoro dà conseguenze analoghe
anche quando non comporta la perdita del posto.
L'analisi di Zawadski e Lazarsfeld sui disoccupati di Varsavia,
sebbene centrata soltanto sui lavoratori di sesso maschile,
sintetizza questo itinerario in modo paradigmatico. Come reazione
allo shock del licenziamento sopravviene nel disoccupato un
sentimento di cocente offesa e indignazione, a volte accompagnato da
un senso di timore, altre volte da impulsi di vendetta. La ricerca
di un posto lo spinge tuttavia a essere ottimista e volitivo, ma poi
subentra un certo intorpidimento, via via rimpiazzato da un recupero
di equilibrio: il disoccupato si adatta alle circostanze e torna
attivo. Confidando in Dio oppure in se stesso, si sforza di credere
che presto qualcosa migliorerà. Se però i suoi
tentativi falliscono la fiducia si indebolisce, e quando la
situazione diventa ardua perché i vecchi risparmi si
esauriscono, allora le speranze vengono meno e il disoccupato
diventa pessimista. Ciò si manifesta attraverso
ansietà e turbe che culminano in un'afflizione accompagnata a
volte da pensieri di morte (a Varsavia i suicidi erano più
che triplicati fra il 1928 e il 1931: v. Crepet, 1990). Infine
sopravviene l'ultimo stadio che, dominato da una cupa apatia oppure
da un adattamento fatalistico, rende anguste le prospettive e i
bisogni stessi. Secondo taluni, chi lo ha sperimentato si porta
dietro una certa misantropia sociale anche dopo aver ritrovato un
lavoro (v. Hyman, 1972).
Gli stadi della disoccupazione connotano dunque specifiche
tipologie. I ricercatori di Marienthal, classificando gli
atteggiamenti individuali e familiari, hanno delineato quattro tipi
ideali. Integro: fiducioso e indomito, con forti speranze e voglia
di attività, è intraprendente nel rimediare alle
ristrettezze.
Rassegnato: limita i bisogni, non ha piani per il futuro, poche
speranze e poca fiducia. Disperato: amareggiato e tetro, sta
perdendo le speranze, ha momenti di odio e scoppi d'ira, a volte
pensieri suicidi. Apatico: indolente e disimpegnato, contempla gli
eventi e dà segni di trascuratezza. Notevole rilievo ha la
relazione allora riscontrata fra tipi di atteggiamento e livelli di
reddito (in scellini settimanali: v. tab. II; v. Jahoda e altri, 1933, p. 168).
7. L'inoccupazione moderna
A partire dagli anni settanta il mondo sviluppato è
nuovamente teatro di una disoccupazione di massa: gli Employment
outlook dell'OECD segnalano milioni di senza lavoro e le istituzioni
economiche internazionali gettano l'allarme per lo spreco di
braccia. Vi è una crisi nei meccanismi allocativi della
risorsa lavoro, ma vi è pure un'inosservanza di fondamentali
principî delle costituzioni moderne: nei paesi capitalistici
il diritto al lavoro, che garantisce contro l'esclusione sociale;
nei paesi ex socialisti il dovere del lavoro, vanificato
dall'avvento del mercato. Effetti di 'spiazzamento' e di
'scoraggiamento' minacciano inoltre le fasce più deboli della
manodopera. Tuttavia il malessere sociale è diverso rispetto
agli anni trenta perché la configurazione del fenomeno
è mutata, tant'è vero che i disoccupati aumentano
anche dove e quando aumentano gli occupati: nel 1989 la
Comunità Economica Europea ha dato lavoro a 3,9 milioni di
persone in più, mentre 3,8 milioni di senza lavoro si
aggiungevano a quelli esistenti. Quali sono dunque le novità?
1. I gradi della partecipazione al lavoro sono sempre meno dominati
dal modello industriale, e ciò differenzia la durata e la
distribuzione temporale delle prestazioni offerte, con un aumento
delle attività part-time e di occupazioni flessibili. I
confini fra lavoro e non lavoro diventano pertanto più fluidi
poiché vi è un continuum fra disoccupazione,
sottoccupazione e occupazione.
2. Il desiderio di indipendenza e la tendenza alla
de-natalità alimentano la domanda di lavoro delle donne,
sebbene l'impiego extradomestico non sia più ritenuto
garanzia di emancipazione come in passato. Anche la crescita dei
servizi e la caduta di taluni tabù - specie in paesi a
tradizione cattolica o contadina - alimentano la domanda di lavoro
femminile al punto che l'occupazione 'tira' la disoccupazione.
3. La lievitazione nei redditi dei lavoratori rende la
disoccupazione meno 'proletaria' accrescendo il suo distacco dalla
povertà: in Italia, secondo un'indagine della CEE, la
mancanza di lavoro spiega il 12% dei casi di povertà nelle
famiglie ove vi sono sia occupati che disoccupati, mentre spiega
appena il 2% dei casi nelle famiglie ove vi sono soltanto
disoccupati; secondo un rapporto governativo, il 13% dei disoccupati
è povero e soltanto il 5% dei poveri è disoccupato (v.
Sarpellon, 1982; v. Gorrieri, 1985; v. Colabella, 1990).
4. I connotati di classe della disoccupazione sono meno netti, anche
perché la maggior durata dell'istruzione avvicina e a volte
sovrappone scuola e lavoro. Parecchi giovani studiano ma al tempo
stesso cercano lavoro, e ciò introduce la disoccupazione
nelle famiglie del ceto medio, dove era poco conosciuta.5. Ma la
novità essenziale sta nella composizione interna della
disoccupazione, che riflette l'accresciuto peso della
'inoccupazione' (joblessness): rispetto alle persone che hanno
perduto il lavoro e ne cercano un altro, sono in costante aumento
quelle che lo cercano per la prima volta, non avendo ancora lavorato
o - anche - essendo in condizione non lavorativa. La tab. III mostra come le proporzioni si sono
modificate in Italia. Il mutamento è sostanziale. La
disoccupazione non segnala più soltanto i posti di lavoro
perduti, poiché la partecipazione al lavoro non dipende
più soltanto dalla domanda di lavoro. Siccome tutti hanno
pari diritto al lavoro, la volontà di lavorare sta sullo
stesso piano del bisogno di lavorare.
La tipica persona in cerca di lavoro non è più -
soprattutto in Europa - l'adulto maschio che ha perso il posto,
bensì il giovane d'ambo i sessi che vive nella famiglia
d'origine. Questo soggetto non è più identificabile a
prima vista, perché non porta le stigmate tradizionali.
Spesso è un sottoccupato o una figura mista con qualche
attività remunerata, sebbene precaria. La condizione
dell'inoccupato è così diffusa che l'età media
delle persone in cerca di lavoro si sta abbassando nonostante
l'età media della popolazione stia salendo. L'inoccupazione
crea problemi economici meno assillanti soprattutto perché
può venire ammortizzata in sede familiare. Ciò spiega
come mai milioni di persone senza lavoro stabile non abbiano
provocato massicci effetti di impoverimento. (L'Italia è
entrata negli anni novanta con un numero di disoccupati superiore a
quello degli anni cinquanta quando i moltissimi sottoccupati delle
campagne venivano contati come occupati).L'inoccupazione genera
forme nuove di malessere psichico e sociale, studiate in numerose
ricerche. Nelle culture che richiedono ai figli di farsi carico dei
genitori la difficoltà di trovare impiego origina fratture e
traumi. Siccome molti ragazzi e ragazze non riescono a getting
started, cioè ad avviarsi e a inserirsi nel mondo del lavoro,
questa transizione protrae l'adolescenza e finisce a volte col
prolungare l'istruzione stessa, che fa da 'parcheggio' (v. Barbagli,
1974). E siccome i sacrifici delle famiglie consentono a non pochi
giovani di essere selettivi rispetto all'impiego desiderato, il
rischio è che "crescere senza lavoro" (v. Blynth e MacLurel,
1983) alteri i sistemi di valori affievolendo negli uomini l'etica
dell'operosità costruita dalla civiltà industriale, e
nelle donne la spinta a gareggiare con loro sia per la parità
che per una propria specificità d'impiego.
Rispetto ai disoccupati tradizionali, i giovani inoccupati sono:
produttori interstiziali, giacché vengono impiegati in
lavoretti saltuari, dequalificati e a volte 'in nero', che
assicurano flessibilità e porosità a vari settori
economici; consumatori dipendenti, poiché costituiscono la
componente trainante del consumo di beni basato sulla forte
promozione pubblicitaria e sul rapido cambiamento delle mode, e
oltretutto hanno più tempo per spendere: un fattore da non
sottovalutare.
8. Cercare lavoro
La durata della disoccupazione sta allungandosi: nella
Comunità Economica Europea, fra il 1983 e il 1988 le persone
in cerca di lavoro da oltre un anno sono passate dal 47 al 54% e
quelle da oltre due anni dal 23 al 35%. Ciò si deve
all'inoccupazione, che introduce novità anche nella ricerca
del lavoro. Ansie e travagli non sono minori, ma diversi. Il tempo
stesso dell'attesa è vissuto diversamente perché
è disancorato dalla prospettiva dell'indigenza. Infatti una
perdurante mancanza di lavoro non sempre produce conseguenze
insostenibili. Certe famiglie mantengono i figli inoccupati nella
ricerca e nell'attesa di un impiego confacente, con sacrifici che
costituiscono un investimento sia affettivo sia sociale. Le famiglie
più povere non possono invece sostenere attese prolungate e
mandano i figli al lavoro quanto prima: qui i giovani si avvicinano
agli adulti e l'inoccupazione alla disoccupazione.
Per gli inoccupati la ricerca del lavoro sta diventando quel lavoro
vero e proprio ("Job-hunting is a job in itself") di cui Bakke (v.,
Citizen..., 1940, pp. 265-268) descrisse le tecniche parlando dei
disoccupati. In Italia i 14-29enni in cerca di prima occupazione si
adoperano con intensità non minore degli adulti che hanno
perso il posto. Intraprendono azioni più numerose e
più frequenti, adottando anche modalità diverse:
mentre visitano di meno i datori di lavoro, ricorrono di più
a inserzioni sulla stampa e compilano più domande scritte;
infine, vi è poca differenza fra giovani e adulti
nell'iscriversi agli uffici di collocamento e nell'utilizzare
segnalazioni di parenti e amici (le reti informali continuano a
essere una risorsa inestimabile: v. Kelvin e Jarret, 1985).
La moltiplicazione e la complessità dei mercati del lavoro,
così come l'accresciuta gamma di mestieri e di professioni,
rendono più complicato l'incontro fra offerta e domanda
aggiungendo importanza al fattore dell'informazione nella ricerca
del lavoro. Gli strumenti pubblici di collocamento stentano a
seguire i bisogni della mano d'opera, come pure dei datori di
lavoro. Appositi manuali insegnano i modi migliori per cercare un
impiego, mentre nelle imprese la selezione del personale si fa
più sofisticata; contano anche i 'segnali' che offerta e
domanda si scambiano, specie per le professioni qualificate.
L'asimmetria di informazioni è fonte di diseguaglianze fra i
soggetti sul mercato del lavoro, e pertanto la loro
disponibilità in tempo utile, se non in tempo reale, si
configura come un nuovo diritto sociale di cittadinanza.