Debito

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Diritto ed economia

Obbligo del debitore di adempiere una determinata prestazione a vantaggio del creditore, consistente di solito nel dare o restituire qualcosa, soprattutto denaro. Anche la prestazione stessa, considerata dal punto di vista del soggetto tenuto ad adempiere.

1. Rapporto obbligatorio

Tradizionalmente, il termine d. designava l’aspetto passivo del rapporto obbligatorio e cioè il dovere del soggetto (debitore) di eseguire la prestazione. Sulla traccia della dottrina tedesca, con il d. si è venuto a indicare uno dei due elementi nei quali si scompone il lato passivo del rapporto obbligatorio, contrapponendolo all’altro chiamato responsabilità : mentre il d. ha per oggetto la specifica prestazione da adempiere, la responsabilità investe di regola l’intero patrimonio del debitore, che risponde dell’adempimento della prestazione con tutti i suoi beni presenti o futuri (art. 2740 c.c.). Tale scomposizione è, secondo una tendenza della dottrina, in particolar modo evidente e praticamente attuata in taluni istituti, nei quali vi sarebbe d. senza responsabilità (per es.: obbligazioni naturali), d. con responsabilità limitata (per es.: dote, prima della sua abolizione con la riforma del diritto di famiglia e patrimonio familiare) e responsabilità senza d. (per es., terzo datore di pegno o di ipoteca per l’altrui d.). Secondo altri giuristi, invece, la distinzione, per la maggior parte dei casi, avrebbe un mero valore descrittivo, acquistando rilevanza solo quando i due momenti (d. e responsabilità) facciano capo a due soggetti diversi o quando la responsabilità non copra tutto il debito.

Con riferimento alla natura della prestazione da eseguire si distingue il d. di valuta dal d. di valore. Il definisce la prestazione che ha per oggetto diretto e immediato una somma di denaro (per es., il pagamento del prezzo); in base al principio nominalistico essa deve essere eseguita con moneta avente corso legale nello Stato e per il suo valore nominale (art. 1277 cod. civ.). Il indica invece una prestazione che ha per oggetto una somma di denaro solo in quanto la stessa costituisce l’equivalente economico di un bene; tale somma deve essere determinata in relazione all’effettivo potere di acquisto della moneta all’atto della liquidazione. In particolare il risarcimento del danno, contrattuale ed extracontrattuale, mirando alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato nello stato in cui si sarebbe trovato senza l’evento dannoso, è d. di valore, che si trasforma in d. di valuta solo dopo la liquidazione della somma dovuta da parte del giudice.

Costituiscono casi di d. di valore quelli nei quali la prestazione debba effettuarsi:

a) con moneta estera effettiva;

b) con moneta considerata nel suo valore intrinseco;

c) con moneta legale ragguagliata, allorché la somma dovuta sia stata determinata in moneta non avente più corso legale al tempo del pagamento.

Configurano d. di valore le diverse clausole di garanzia monetaria (clausola). La distinzione ha riflessi concreti rilevanti in caso di inadempimento dell’obbligazione, in relazione alla diminuzione del potere d’acquisto della moneta conseguente alla svalutazione. Nelle obbligazioni di valuta, in base al principio nominalistico, tale situazione può risolversi a vantaggio del debitore in quanto solo al creditore che dimostra di aver subito un maggior danno compete un risarcimento ulteriore rispetto agli interessi legali (art. 1224 c.c.). Un orientamento giurisprudenziale afferma peraltro, in relazione al pregiudizio derivante dall’inflazione, che il giudice può, in mancanza di specifiche prove, avvalersi anche del fatto notorio acquisito alla comune esperienza e di presunzioni fondate su condizioni e qualità personali del creditore e sulle modalità d’impiego del denaro per desumere quale maggiore utilità la somma tempestivamente pagata avrebbe potuto procurare al creditore.

Per quanto riguarda i crediti di lavoro l’art. 429 c.p.c. stabilisce invece che il giudice deve determinare, oltre gli interessi legali, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per effetto della diminuzione del potere d’acquisto del suo credito (la rivalutazione è operata con riferimento agli indici predisposti dall’ISTAT).

2. D. pubblico

In senso lato il d. diretto dello Stato, quello delle aziende statali autonome (come per es. l’ANAS), delle Regioni, delle Province, dei Comuni, delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, delle imprese ed enti speciali che direttamente o indirettamente appartengono allo Stato. In senso specifico soltanto il d. contratto dallo Stato all’interno e all’estero e più spesso il solo d. interno.

2.1 TipologieA seconda del grado di liquidità che caratterizza quest’ultimo si distingue: il d. fluttuante (detto anche di amministrazione), costituito dall’insieme dei d. contratti per un periodo di tempo non superiore all’anno per far fronte a disavanzi di cassa che si sperano momentanei, e cioè dai Buoni del Tesoro Ordinari (BOT), dalle anticipazioni di biglietti di banca da parte dell’istituto di emissione e dalle aperture di conto corrente al Tesoro da parte di istituti finanziari; e il d. consolidato , costituito da d. contratti per far fronte a necessità che superano le ordinarie possibilità di bilancio e quindi a lunga o indeterminata scadenza.

Il d. consolidato è detto anche d. iscritto (perché viene appunto iscritto nel Gran libro del d. pubblico e le somme necessarie al suo servizio vengono quindi assunte in via definitiva a far parte delle spese ordinarie dei bilanci futuri) o d. fondato (in ricordo del consolidamento del d. pubblico attuato in Inghilterra all’inizio del 18° sec., e poi altrove, con la riunione in un solo fondo delle entrate prima destinate al servizio dei vari d.). Il d. consolidato si distingue in e a seconda che lo Stato si sia assunto l’impegno di rimborsare il capitale a epoche e con modalità stabilite, oltre che di pagare gli interessi, oppure si sia impegnato soltanto a corrispondere questi ultimi a tempo indefinito, conservando in genere la facoltà di rimborsare il capitale qualora lo ritenga più conveniente. I titoli che rappresentano queste due forme di d. si chiamano rispettivamente e rendite .

Il può essere a scadenza fissa, oppure rimborsabile gradatamente mediante versamento annuale ai titolari di una somma comprensiva di interessi e di quota parte di capitale (d. ad annualità ), oppure rimborsabile mediante l’acquisto in borsa da parte dello Stato ogni anno di un certo numero di cartelle al valore corrente, quando questo sia inferiore al nominale, o mediante l’estrazione a sorte ogni anno di un certo numero di cartelle che vengono pagate ai titolari al valore nominale (d. a obbligazioni ammortizzabili ). Quest’ultima forma è la più gradita al pubblico perché evita il rischio insito nella prima per il sottoscrittore, di consumare quasi senza accorgersene il capitale che gli viene restituito un po’ alla volta, e nello stesso tempo conserva, per lo Stato, il vantaggio di diluire nel tempo l’onere del rimborso. Tutti e tre i tipi di d. redimibile possono essere a premio (in genere l’ammontare annuale dei premi è fissato in una somma inferiore all’ammontare degli interessi che altrimenti dovrebbero pagarsi), a interesse (per lo più equivalente, ma a volte anche superiore, al saggio corrente) o misti , cioè fruttiferi a un saggio minore di quello corrente e concorrenti all’estrazione di premi nello stesso tempo (forma molto accetta ai sottoscrittori). In Italia lo Stato emette come titoli del d. redimibile i buoni del Tesoro poliennali, i Certificati di Credito del Tesoro (CCT) e i Certificati del Tesoro con Opzione (CTO).

Il offre allo Stato il vantaggio di poter non rimborsare il capitale (d. non denunciabile ) o di rimborsarlo nel tempo e nella misura più convenienti (d. denunciabile ). È rappresentato da rendite nominative (titoli intestati, i cui interessi sono riscuotibili solo dall’intestatario o da un suo rappresentante e il cui trasferimento non può avvenire senza concorso dell’amministrazione, che deve annotarlo nel Gran libro del d. pubblico) o da rendite al portatore (i cui interessi sono riscuotibili dietro presentazione delle sole cedole e il cui trasferimento avviene con la semplice consegna) o ancora da rendite miste, costituite da certificati nominativi di iscrizione nel Gran libro del d. pubblico e da cedole al portatore per la riscossione degli interessi. La stessa distinzione tra nominativi, al portatore e misti vale anche per gli altri titoli del d. pubblico; il loro taglio, o valore nominale, può essere vario. In Italia lo Stato emette soltanto titoli al portatore; è facoltà dell’acquirente richiedere poi la trasformazione dei d. in titoli nominativi. La spesa per gli interessi corrisposti ai detentori delle obbligazioni statali viene indicata come servizio del debito . Le controversie fra lo Stato e i suoi creditori circa l’interpretazione dei contratti di prestito sono attribuite alla competenza esclusiva del Consiglio di Stato.

2.2 Estinzione del debito

Il d. pubblico, qualunque sia la sua forma (in genere gli Stati ricorrono a varie forme insieme), costituisce una necessità per quasi tutti gli Stati, qualora si trovino di fronte a spese eccezionali che superino le entrate ordinarie, e non possano o non vogliano ricorrere ad altre entrate straordinarie e cioè all’alienazione di parte del patrimonio, all’introduzione di nuove imposte o all’emissione di carta moneta. Con il diffondersi della teoria keynesiana del deficit spending (deficit), il d. pubblico è inoltre ormai concepito anche come importante strumento di intervento dello Stato nella vita economica e non soltanto in funzione anticiclica. Quel che è certo è che il servizio del d. pubblico (pagamento degli interessi, dei premi e parziali rimborsi di capitale) grava pesantemente sui bilanci degli Stati moderni i quali, quando possono, cercano di diminuire quest’onere ricorrendo o alla graduale estinzione del d. pubblico (naturalmente di quello irredimibile, poiché l’altro si estingue da sé), con destinazione a questo scopo di particolari somme o di avanzi di bilancio o con istituzione di un’apposita cassa di ammortamento, oppure alla riduzione degli interessi del d., mediante conversione libera facoltativa, libera obbligatoria o anche forzosa dei titoli esistenti in nuovi titoli a diverse condizioni, o mediante l’assoggettamento degli interessi degli stessi a nuove imposte o la diminuzione del loro valore reale in conseguenza della svalutazione della moneta. Lo Stato può inoltre disconoscere i d. precedentemente contratti, ma in genere ricorre a ciò soltanto in caso di radicali mutamenti di governo che gli permettano di rinnegare gli impegni del passato senza pregiudicare l’avvenire; d’altra parte anche la conversione forzosa, sia palese sia mascherata, è una larvata forma di ripudio. Nell’ordinamento italiano, il prestito deve essere autorizzato da leggi speciali.

Il del 7 febbraio 1992, divenuto operativo nel novembre 1993 tra i 12 paesi europei appartenenti alla CEE, ha stabilito che il rapporto tra il d. pubblico e il prodotto interno lordo dei paesi membri non possa eccedere il 60%. In realtà tale rapporto appariva troppo restrittivo per alcuni paesi, tra i quali l’Italia, ai quali fu consentito di derogare a tale indicatore con l’impegno formale di varare politiche economiche atte alla convergenza costante e stabile negli anni verso la soglia stabilita dal trattato.

3. D. estero

Il d. estero è la somma totale, in genere misurata su base annua, che gli operatori privati e pubblici di un paese devono versare, a scadenze prestabilite, a operatori privati o pubblici residenti all’estero. Al suo interno si distingue tra capitale, la somma prestata e dovuta, e interessi, i pagamenti aggiuntivi dovuti in proporzione al capitale. Il d. estero di un paese si forma se il fabbisogno di fondi per finanziare la spesa privata in investimenti e la spesa pubblica dello Stato (fabbisogno finanziario nazionale) supera la disponibilità di fondi data dal risparmio privato.

Particolare rilevanza ha assunto la questione del sempre maggiore d. estero dei paesi in via di sviluppo verso i paesi industrializzati. Con la Dichiarazione del Millennio (2000), i membri delle Nazioni Unite si sono impegnati a rendere sostenibile tale d. e a incrementare l’aiuto pubblico allo sviluppo. Nel 2005, il World Summit Outcome delle Nazioni Unite ha riconosciuto la necessità di una soluzione definitiva al problema del d. estero dei paesi in via di sviluppo, fermo restando che il finanziamento del d. e l’aumento degli aiuti economici può costituire un’importante fonte di capitali per lo sviluppo. A tal fine, l’Assemblea generale ha accolto positivamente la proposta avanzata dai paesi del G8 di una cancellazione totale dei d. per i paesi più pesantemente indebitati e in condizioni economiche particolarmente disagiate.

A livello nazionale, le misure per la riduzione del debito estero dei paesi a più basso reddito e maggiormente indebitati sono contenute nella l. 209/2000.


Enciclopedia delle Scienze Sociali (1992)

di Luigi Spaventa

Debito pubblico

sommario: 1. Introduzione. 2. L'identità di bilancio e la dinamica del debito pubblico: a) problemi di definizione; b) l'identità di bilancio; c) la dinamica del debito in termini reali e in rapporto al prodotto. 3. Il vincolo intertemporale di bilancio del settore pubblico. 4. L'onere del debito: a) l'equivalenza fra debito e imposta: modernità e realismo di Ricardo; b) alcuni sviluppi successivi. 5. Teorema di equivalenza e teoria positiva del debito: implicazioni e limiti: a) teorema di equivalenza, irrilevanza della politica fiscale e scelta fra debito e imposte; b) le critiche al teorema di equivalenza. 6. Il 'regime ricardiano': requisiti e limiti: a) natura e requisiti di un 'regime ricardiano'; b) deviazioni dal regime ricardiano: problemi distributivi e crisi da debito. 7. Il finanziamento monetario del fabbisogno e l'imposta da inflazione: a) finanziamento monetario e dinamica del debito pubblico; b) l'imposta da inflazione, il signoraggio e la domanda di circolante; c) i costi del signoraggio e la sua relazione con il debito; d) signoraggio, riserve bancarie e problemi di un'economia aperta. 8. La politica di gestione del debito pubblico. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il settore pubblico dell'economia è un aggregato complesso, la cui precisa definizione varia nelle diverse realtà istituzionali. Il conto del settore pubblico consolida il conto del bilancio statale e quelli delle altre amministrazioni pubbliche (enti locali e previdenziali, altri enti centrali e locali), delle aziende pubbliche di servizi e, a volte, delle imprese pubbliche.
Il settore pubblico spende e incassa. Le voci più importanti di spesa sono l'acquisto di beni e servizi, gli investimenti, le retribuzioni, i trasferimenti di parte corrente (soprattutto per prestazioni sociali) e in conto capitale (contributi agli investimenti), gli interessi. Le entrate principali sono quelle tributarie (imposte dirette e indirette) e quelle per contributi sociali. Se le uscite eccedono le entrate, si verifica un disavanzo del settore pubblico: il fabbisogno è la somma del disavanzo e di altri esborsi per acquisizione di attività finanziarie o partecipazioni. Per finanziare il fabbisogno, il settore deve indebitarsi; nel caso di eccedenza delle entrate sulle uscite complessive il settore riduce il debito complessivo. La variazione del debito nel corso di un periodo è dunque uguale al fabbisogno; la consistenza del debito pubblico di un paese a una certa data è uguale alla somma di tutti i fabbisogni (positivi e negativi) sino a quella data.
Il settore pubblico si indebita emettendo titoli, di diverso tipo e durata, sottoscritti da famiglie, imprese e intermediari finanziari. Può anche indebitarsi con la banca centrale, se questa acquista titoli pubblici o concede in altro modo credito al Tesoro. Acquistando titoli pubblici o concedendo credito, la banca centrale crea base monetaria (impiegata come circolante dal pubblico o come riserva dalle banche). Se si consolidano i conti del settore pubblico con quelli della banca centrale, la passività del Tesoro consiste nella moneta creata a fronte del finanziamento concesso dalla banca centrale.
I confronti fra diversi paesi e fra diverse fasi storiche mostrano situazioni ed esperienze assai varie di livelli e di dinamica del debito pubblico. Paesi diversi hanno livelli assai diversi di debito in rapporto al loro prodotto. In ciascun paese la dinamica del debito muta in diverse fasi storiche. Le esperienze di crescita molto rapida del debito pubblico sino a livelli elevati hanno avuto esiti assai diversi: in alcuni casi si sono concluse con il ripudio implicito o esplicito del debito pubblico accumulato; in altri casi si è tornati gradualmente a livelli più normali di indebitamento, senza pregiudizio per i creditori. Le fasi di forte dinamica del debito sovente hanno coinciso con guerre o con depressioni economiche; ma si sono verificate e si verificano anche in periodi di pace e di moderata crescita.
I problemi di teoria e di politica economica posti dall'esistenza e dall'accumulazione di un debito pubblico sono stati dibattuti sin da quando l'economia si è affermata come disciplina autonoma: da una prima importante sistemazione teorica di Ricardo agli approfondimenti successivi, dovuti in particolare alla scuola italiana di finanza pubblica, alla ripresa di interesse nell'analisi contemporanea. Un sempre maggior rigore ha consentito di compiere passi importanti nella comprensione del fenomeno, ma è difficile ritenere che tutte le questioni a esso connesse abbiano trovato soluzioni generali e soddisfacenti. Possiamo definire con qualche precisione i fattori della crescita del debito pubblico. Meno facile è stabilire entro quali limiti tale crescita sia sostenibile; e ancor meno facile è identificarne gli effetti sulle altre grandezze economiche. Questi problemi si complicano quando si consideri un'economia aperta al resto del mondo e quando si tengano presenti gli effetti di un finanziamento monetario del fabbisogno. Altre questioni ancora riguardano la gestione del debito pubblico da parte dell'emittente. ciclopedia delle Scienze Sociali (1992)

[...]
 
5. Teorema di equivalenza e teoria positiva del debito: implicazioni e limiti
 
a) Teorema di equivalenza, irrilevanza della politica fiscale e scelta fra debito e imposte

Barro assume che ogni generazione abbia a cuore le sorti della generazione successiva e che la sua utilità dipenda non solo dai suoi livelli di consumo da giovane e da anziana, ma anche dai livelli di consumo accessibili ai discendenti. La massimizzazione dell'utilità sotto il vincolo delle risorse disponibili indica pertanto che una parte delle risorse verrà trasmessa alle generazioni successive. Si supponga che il governo operi uno sgravio fiscale a vantaggio dei vecchi, finanziandolo con l'emissione di debito, al cui servizio si provvede con imposte a carico dei giovani. Se i vecchi consumassero il maggior reddito disponibile, mantenendo i loro lasciti inalterati, le disponibilità di consumo della successiva generazione diminuirebbero: si verificherebbe una riduzione dei lasciti netti. Ma, se un lascito minore fosse ritenuto desiderabile, tale decisione sarebbe assunta indipendentemente dallo sgravio fiscale, che non può alterare un risultato prima ritenuto ottimale. Un comportamento razionale prescrive pertanto l'invarianza dei lasciti netti con un aumento di quelli lordi in misura pari alle passività trasmesse alla futura generazione, ossia al valore scontato delle maggiori imposte future, che, come sappiamo, è esattamente uguale al debito emesso per finanziare lo sgravio fiscale. Il debito emesso dal settore pubblico non viene considerato dalle famiglie come ricchezza netta e lo sgravio fiscale provocherà un pari aumento del risparmio, lasciando invariati il consumo e la domanda aggregata. Poiché, inoltre, la domanda di titoli aumenta in misura pari all'offerta, non vi saranno effetti sul tasso d'interesse, e dunque sulla composizione della domanda.Il corollario 'devastante' di questo teorema di equivalenza - versione estrema della formulazione ricardiana - è la totale inefficacia, nel bene e nel male, della politica fiscale. Una riduzione di imposte finanziata con debito non provoca: né un aumento di reddito, come avverrebbe in un modello keynesiano; né un aumento del saggio di interesse tale da indurre un completo spiazzamento a opera dei consumi, come avverrebbe in un modello monetarista tradizionale a velocità di circolazione costante; né un aumento dei prezzi, come avverrebbe in un modello neoclassico. Se il teorema di equivalenza vale nella sua pienezza, un aumento del risparmio pari al disavanzo vanifica qualsivoglia effetto della politica fiscale.Se la scelta fra imposte e debito è indifferente e irrilevante, come si motivano le alterne scelte fra le une e l'altro che i governi effettivamente compiono o sono chiamati a compiere? Barro (v., 1979) completa il quadro, proponendo una 'teoria positiva' del debito pubblico.
Data la consistenza iniziale di debito e dato il profilo temporale della spesa pubblica, gt, il vincolo lascia indeterminato il profilo temporale dei prelievi, che potrebbero variare nel tempo, con aumenti e diminuzioni concentrati in periodi diversi. Si supponga tuttavia che l'esazione delle imposte abbia costi crescenti (di raccolta, o derivanti da una distorsione nell'impiego delle risorse). Per minimizzarli dato il vincolo di bilancio, la politica ottimale è quella di mantenere costante nel tempo il carico fiscale.Ne deriva una prescrizione circa la scelta fra tasse e debito, pur valendo il teorema di equivalenza. Si supponga un aumento temporaneo della spesa pubblica rispetto al suo trend di lungo periodo. Quanto minore è la durata di questo scostamento, tanto meno converrà operarne il finanziamento con ricorso alle imposte. Analogamente, un calo di gettito dovuto a una depressione, anch'essa temporanea, non deve essere compensato con un aumento di pressione impositiva. In ambedue i casi è consigliabile emettere debito, onde 'spalmare' nel tempo i costi derivanti da un allontanamento del sistema dalla sua norma (tax smoothing).

b) Le critiche al teorema di equivalenza

Il risultato di Barro è stato definito 'equivalenza ricardiana', pur se, come abbiamo visto, la constatazione che difficilmente gli individui sono tanto razionali da tener pienamente conto di tutti i flussi di imposte future indusse Ricardo a respingere la conclusione di indifferenza fra debito e imposte. Il dibattito successivo al contributo di Barro e, ancor prima, le analisi della scuola italiana consentono di individuare quante e quanto forti siano le ipotesi necessarie per accettare il teorema di equivalenza (per un esame, fra l'altro, v. Tobin, 1980; v. Buiter e Tobin, 1980; v. Barro, 1981; v. Bernheim, 1987).Il legame altruistico fra generazioni deve essere diffuso e tradursi effettivamente in trasferimenti consapevolmente decisi nel loro ammontare netto. Questa ipotesi viene meno: nel caso di famiglie prive di figli; quando il lascito ottimale sarebbe negativo, poiché, ad esempio, si prevede che i discendenti avranno redditi maggiori; quando i lasciti non sono dettati da motivi altruistici, e in particolare quando essi sono involontari, risultando dall'accumulazione di risparmio precauzionale in presenza di incertezza circa la durata della vita o circa i redditi futuri. In tutti questi casi, un aumento di reddito disponibile dovuto a sgravi fiscali o a trasferimenti si traduce in un aumento di consumi, con un onere a carico delle future generazioni.
Un'ulteriore condizione è che il medesimo tasso di sconto venga impiegato nel vincolo di bilancio del governo e in quello degli agenti economici. Se tuttavia vi è incertezza circa la durata (finita) della vita, il tasso di sconto degli individui sarà maggiore del tasso d'interesse impiegato nel vincolo di bilancio pubblico. Inoltre, come aveva già sottolineato De Viti De Marco (v., 1953³), l'imperfezione dei mercati finanziari e la diseguale distribuzione delle risorse impediscono a molti individui l'accesso al credito, se non a condizioni troppo onerose, e comunque più onerose di quelle accessibili al debitore pubblico: questi vincoli di liquidità impediscono di conseguire il livello di spesa desiderato in certi periodi della vita. Il ricorso al debito piuttosto che all'imposta rimuove il vincolo e provoca un aumento immediato di consumi, nel caso di sgravi fiscali, o ne impedisce una riduzione, nel caso di aumenti di spesa.L'equivalenza ricardiana, soprattutto nelle formulazioni estreme, presuppone imposte in cifra fissa (lump sum). Nel caso di imposte sul reddito o sul capitale o sui consumi, definite 'distorsive' in quanto incidono sull'impiego delle risorse, la scelta fra debito e imposta potrà avere conseguenze reali di natura allocativa. Più in generale, un'incertezza sul 'se', sul 'quanto' e sul 'quando' delle imposte future introduce effetti reali del finanziamento con debito, poiché induce a non scontare, o a non scontare pienamente, le imposte future. La possibilità di ricorrere al debito influenza allora il processo politico: come scrive Puviani (v., 1903), quando parla della "illusione finanziaria" dei contribuenti, "è sui calcoli erronei, sulla illusione delle masse, che si trova la ragione determinante l'uomo politico a preferire il prestito all'imposta straordinaria".In definitiva, la portata positiva (di rappresentazione della realtà) e normativa (di irrilevanza delle politiche fiscali) del vincolo di bilancio dipende da condizioni numerose, stringenti e di non evidente realismo. Il pur raffinato dibattito teorico sulla effettiva necessità dell'una o dell'altra non pare ormai molto proficuo. Ammessa la coerenza logica della proposizione ricardiana, la verifica empirica dovrebbe chiarire se e quando gli agenti economici scontano le imposte future nel decidere i loro comportamenti. Tuttavia la varietà e l'imperfetta specificazione dei modelli sottoposti a verifica, la circostanza che i dati sono influenzati da molteplici altri fattori, l'eterogeneità dei test impiegati impediscono di raggiungere conclusioni univoche, anche se pare prevalere l'evidenza contraria al teorema di equivalenza e ai suoi corollari. (Per una rassegna del lavoro empirico: v. Bernheim, 1987; per stime nel caso dell'Italia: v. Modigliani, Jappelli e Pagano, 1985; v. Modigliani e Jappelli, 1987; v. Onofri, 1987; v. Nicoletti, 1988).

6. Il 'regime ricardiano': requisiti e limiti

a) Natura e requisiti di un 'regime ricardiano'
Definiamo 'regime ricardiano' (v. Sargent, 1982) un assetto di aspettative e di comportamenti pubblici e privati, entro cui vale il teorema di equivalenza e in cui la scelta fra debito e imposte avviene normalmente secondo il criterio descritto in precedenza.La prima caratteristica di questo regime è la stretta osservanza del vincolo intertemporale del bilancio pubblico: il governo sa, e sanno i contribuenti, che un maggior debito oggi significa necessariamente maggiori imposte domani. In un modello ricardiano il livello iniziale di b₀ può assumere un qualsiasi valore. L'osservanza del vincolo ammette in conseguenza che, date le spese, il flusso scontato di imposte possa assumere il qualsivoglia valore richiesto, non importa quanto alto. Il rispetto del vincolo è addirittura compatibile con una crescita illimitata del debito, a patto che essa sia accompagnata da una crescita illimitata della pressione tributaria (v. McCallum, 1984; v. Spaventa, 1987). Questo corollario richiede a sua volta che qualsivoglia ammontare di titoli pubblici possa essere collocato nei portafogli privati al tasso d'interesse corrente. Da questo punto di vista, vincolo di bilancio e proposizione di equivalenza sono complementari l'uno all'altra: la seconda implica il primo; ma, se la seconda non vale, una maggiore emissione di debito può quantomeno provocare un aumento del tasso d'interesse, e pertanto maggiori imposte future.
Queste implicazioni del modello ricardiano, pur se paradossali, sono ammissibili se si accetta un assunto caratteristico dei modelli neoclassici di equilibrio: quello dell''agente rappresentativo', ovvero di una completa uniformità di preferenze, dotazioni e comportamento razionale di tutti gli agenti economici, che consente di estendere all'intero universo i risultati ottenuti dallo studio del comportamento ottimizzante di un solo agente. Se infatti gli agenti economici fossero eguali in tutto e per tutto, il prelievo futuro per pagare gli interessi sul debito inizialmente emesso si risolverebbe in un mero trasferimento, privo di effetti sulla distribuzione del reddito.
Anche in questo caso, tuttavia, si manifesta una difficoltà teorica, qualora il governo, seguendo la regola già ricordata, emetta debito per mantenere all'incirca costante nel tempo il carico tributario e minimizzare i costi di un'imposizione distorsiva. Tale difficoltà, messa in luce dalla teoria più recente, deriva da un problema definito di 'incoerenza temporale' (per una sintesi: v. Alesina, 1988). Un governo che massimizzi il benessere deve finanziare una spesa straordinaria con l'emissione di debito e 'spalmando' l'aumento della pressione fiscale su tutti i periodi futuri. Ma, trascorso il momento straordinario, l'ottimizzazione del benessere sociale richiede al pianificatore un comportamento diverso, poiché all'aumento di imposte distorsive sarebbe preferibile l'esazione di un'imposta a cifra fissa. L'esistenza di un debito pregresso apre questa seconda possibilità: l'espropriazione del debito, con il ripudio, o con un'imposta straordinaria sulla ricchezza, o (se il debito non era indicizzato) con lo scatenamento di un'improvvisa inflazione, equivale a un'imposta a cifra fissa, priva di effetti distorsivi sulla produzione e sul reddito. Se gli agenti privati, razionali e perfettamente consapevoli delle possibili motivazioni del loro pur benevolo governo, anticipano il possibile incentivo all'esproprio, essi rifiuteranno di sottoscrivere il debito emesso, rendendo così impossibile sin dall'inizio un comportamento delle autorità che, proprio perché inteso alla massimizzazione del benessere sociale, è incoerente rispetto al piano inizialmente enunciato.

b) Deviazioni dal regime ricardiano: problemi distributivi e crisi da debito
La considerazione dei problemi d'incoerenza temporale nella teoria del debito pubblico è importante, perché introduce nell'analisi una dimensione politica: quella della 'reputazione' del governo di mantenere gli impegni assunti, anche imponendo vincoli al suo comportamento. Il contesto dell'analisi tuttavia non ne viene di molto arricchito. L'ipotesi di agente rappresentativo, e pertanto di eguaglianza di dotazioni, preferenze e comportamenti, resta, e giustifica quella ulteriore di governi indifferenziati e sempre benevoli: se i soggetti sono tutti uguali, il benessere sociale è agevolmente definibile (coincidendo con l'utilità di un soggetto rappresentativo), ed è naturale che qualsiasi governo si sforzi di massimizzarlo. Infine, in questa letteratura ci si riferisce sempre all'esazione di imposte esplicite e si tende a trascurare l'alternativa costituita dal finanziamento monetario del fabbisogno.
A motivo di questi limiti, le analisi di un regime ricardiano, pur se utili, non consentono di rispondere ad alcuni importanti quesiti posti dall'esperienza e dalla storia. Esse non sono in grado di spiegare le notevoli differenze dei livelli di debito nel tempo, per una stessa economia, e nello spazio, fra economie diverse, che si verificano anche quando mancano le cause specifiche previste dalla teoria (guerre e depressioni economiche). Le ipotesi di agenti uniformi e di governi uniformemente benevoli non consentono d'interpretare i comportamenti dei saldi primari, e dunque di spese ed entrate, che provocano quelle differenze. Per tale ragione, una letteratura recente, spingendosi al confine con la scienza politica e impiegando modelli appartenenti alla teoria dei giochi, introduce la possibilità di alternanza di governi di diversa confessione ('destra' e 'sinistra') o tenta di stabilire una relazione fra grado di stabilità politica e livello e dinamica dei disavanzi e del debito (v. soprattutto Alesina e Tabellini, 1990).
Nel contesto di un regime ricardiano resta difficile spiegare alcuni notevoli episodi di crisi, come quelli verificatisi in Italia e in Francia nella seconda metà degli anni venti. Entrambi i paesi avevano ereditato dalla prima guerra mondiale un elevato livello di debito; entrambi avevano messo a posto i loro bilanci sino a raggiungere il pareggio o addirittura un lieve attivo; nonostante ciò, in entrambi una fuga dal debito pubblico rese palese che i risparmiatori percepivano una situazione di insolvibilità. Le crisi del debito si accompagnarono in Francia a ripetute crisi politiche, sino alla stabilizzazione operata sotto la presidenza Poincaré, mentre in Italia il governo fascista fu costretto a decretare il consolidamento del debito fluttuante nel 1926. (Su queste esperienze vi è una vasta letteratura; si vedano a titolo di esempio: Nurkse, 1946; Marconi, 1981; Confalonieri e Gatti, 1986; Alesina, 1988). Analogamente, in un regime ricardiano, risulta difficile motivare le preoccupazioni e i timori oggi ripetutamente espressi e le difficoltà di collocamento dei titoli a volte notate in paesi con alto livello e rapida crescita del debito (come in Italia).In molti casi, dunque, la realtà e la storia non si lasciano costringere nei modelli in cui, per costruzione, il trasferimento da imposte a interessi non modifica la distribuzione del reddito: nella realtà e nella storia, i comportamenti di spesa e di prelievo hanno motivazioni ed effetti distributivi. Ciò può avvenire a causa di diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza accompagnate da differenze di aliquote effettive di imposizione sui redditi da lavoro e da capitale; o se la base imponibile potenziale non riflette l'effettiva distribuzione del reddito, talché ogni aumento del carico fiscale percuote in modo diverso diverse categorie di reddito. In tutti questi casi viene meno l'identità fra i soggetti chiamati a pagare le maggiori imposte e quelli che percepiscono i maggiori interessi. Poiché all'aumentare del livello di debito aumenta, come abbiamo visto, l'avanzo primario richiesto dal requisito di solvibilità, aumenta anche il costo politico della solvibilità. L'aumento del carico tributario incontra infatti ostacoli crescenti, che si manifestano sia nell'evasione e nell'elusione sia in sintomi di 'rivolte fiscali'. È dunque possibile che, oltre un certo limite, il costo (soprattutto politico) dell'esazione di maggiori imposte divenga così alto da far intravedere un limite massimo al possibile carico tributario.
Questi effetti furono illustrati con acume da Keynes, (v., 1923), con particolare riferimento alla crisi francese. "Quando gli obblighi contrattuali dello Stato [...] assorbono una proporzione esorbitante del reddito nazionale", e "ai portatori di titoli di Stato spetta più di quanto i contribuenti possono sopportare", si deve "venire a un compromesso tra l'aumento delle imposte e la diminuzione delle spese da una parte e la diminuzione di quanto è dovuto ai [...] rentiers dall'altra": infatti, "in nessuna società, antica o moderna, gli elementi attivi e produttivi acconsentirono mai a cedere alla classe dei rentiers o portatori di obbligazioni più di una certa proporzione dei frutti del loro lavoro". In questa prospettiva, Alesina (v., 1988) osserva che "la scelta di 'chi debba pagare per la guerra' è essenzialmente un problema di redistribuzione del reddito fra soggetti che sono oggi in vita" e propone una "teoria politica del debito" basata sul conflitto fra rentiers, da un lato, e, dall'altro, imprenditori e lavoratori, i quali si oppongono a un aumento della pressione fiscale sul reddito o sul patrimonio.
Un mondo in cui si verificano conflitti siffatti è assai lontano dal regime ricardiano. Se il governo consente al debito di giungere a un livello tale che il carico tributario richiesto dal vincolo di bilancio eccede un certo limite, si verifica un'imprevista situazione di insolvibilità: un programma fiscale coerente con il vincolo risulta inattuabile. La percezione di tale situazione da parte del mercato impedisce, o rende più difficile, il collocamento dei titoli: poiché il debito pubblico comincia a essere considerato rischioso, ne può derivare un aumento dei tassi d'interesse, che inasprisce ulteriormente i requisiti di solvibilità. Un esito analogo può verificarsi quando la distribuzione del reddito ponga un limite alla quantità di titoli pubblici che i portafogli privati sono in grado di assorbire (v. Sargent e Wallace, 1981).
In questi casi si manifestano condizioni favorevoli a episodi di crisi del debito. Le soluzioni, siano esse deliberate, o spontanee e incontrollate, incidono necessariamente sulla distribuzione del reddito e della ricchezza. Un governo forte e credibile può anche riuscire a imporre una distribuzione accettabile dei sacrifici richiesti da una politica di bilancio e ristabilire le condizioni oggettive e la percezione soggettiva di solvibilità. Altre soluzioni, più traumatiche, sono intese a ridurre l'autoalimentazione del debito attraverso una riduzione della consistenza passata. Questa operazione può essere compiuta con il ripudio delle obbligazioni contratte dallo Stato; oppure con un'imposta patrimoniale straordinaria, il cui ricavato sia destinato al ritiro del debito; oppure con un improvviso aumento dei prezzi, che, quando riesca a tagliare il valore reale delle obbligazioni, equivale a un'imposta patrimoniale concentrata sul debito pubblico (e sulle altre obbligazioni espresse in termini nominali).
L'ipotesi del ripudio è poco plausibile, se non quando avvengono mutamenti traumatici di regime politico, e certamente sconsigliabile: la perdita di fiducia e di reputazione che ne deriva impedisce per lungo tempo a venire l'emissione di debito, anche quando questa sarebbe giustificata. Fra le altre due soluzioni, Keynes (v., 1923) riteneva preferibile l'imposta patrimoniale, ma dubitava della sua praticabilità (perché "è difficile a spiegarsi e suscita pregiudizi violenti"): almeno nel caso della Francia, egli auspicava una riduzione del valore reale del franco.
Una riduzione della consistenza del debito riduce la stringenza del vincolo di solvibilità, ma non è di per sé sufficiente a risolvere il problema: ad essa si deve accompagnare una politica di bilancio in grado d'impedire che il debito ricominci a crescere e si rinnovi una situazione di crisi. Né è detto che un aumento improvviso dei prezzi sia efficace per ridurre il valore reale del debito e dei pagamenti di interessi: affinché ciò avvenga, occorre che una quota cospicua del debito consista di titoli a lunga scadenza a cedola fissa. Se invece i titoli sono a breve termine, o hanno un rendimento indicizzato ai tassi d'interesse a breve (come in Italia), o hanno un rendimento indicizzato ai prezzi, l'effetto dell'imprevisto salto d'inflazione sarà modesto e comunque temporaneo.
Una relazione fra livello del debito e inflazione può tuttavia manifestarsi in modi diversi. Di fronte a una crisi incipiente e quando non si riesca ad aggiustare la politica di bilancio, le autorità saranno costrette ad aumentare il finanziamento monetario del disavanzo, per ridurre l'emissione di titoli sul mercato. 

[...]

c) I costi del signoraggio e la sua relazione con il debito

Nel dibattito sull'opportunità di impiegare anche il signoraggio, oltre alle imposte e all'emissione di debito, come fonte ordinaria di entrate per lo Stato (per una breve rassegna: v. Spaventa, 1988) si possono distinguere due principali posizioni. Secondo la prima, variamente articolata, l'inflazione provoca costi ed effetti distorsivi che riducono il benessere sociale: un governo 'benevolo' deve pertanto evitare di finanziare il disavanzo con moneta. Una parte notevole della letteratura, impostando il problema in termini di combinazione ottimale di imposte, giunge al risultato che anche il signoraggio, inteso come imposta sulla liquidità, deve essere impiegato insieme alle imposte ordinarie sul reddito o sui consumi. Nei contributi moderni questa diversità di risultati è dovuta soprattutto al modo in cui il servizio reso dalla moneta viene trattato: la seconda posizione deriva dall'introduzione della moneta nella funzione di utilità degli agenti economici, a motivo dei servizi resi nel facilitare le transazioni; la prima posizione risulta dall'attribuzione alla moneta di funzioni analoghe a quelle di un mezzo di produzione, in quanto consente di dedicare maggiori risorse al processo produttivo.
Pur se non nei termini appena accennati, i primi importanti contributi sono quelli di Friedman (v., 1971) e Bailey (v., 1956). Per Friedman, la quantità ottima di moneta (un bene a costo di produzione nullo) è quella che, saziando completamente il bisogno di liquidità degli agenti, sarebbe domandata se la detenzione di moneta fosse priva di costi. Per consentire che il rendimento reale della moneta sia pari a quello delle altre attività, il tasso d'inflazione deve essere negativo e pari a -r (tasso di rendimento reale sulle altre attività). Per Bailey il costo dell'inflazione è misurato dalla perdita di utilità conseguente alla rinuncia a tenere una maggiore quantità di moneta, definita graficamente dal triangolo sottostante alla curva di domanda di moneta in funzione del tasso d'inflazione.
Phelps (v., 1973) per primo affronta il problema in termini di tassazione ottimale in equilibrio generale, con la moneta nella funzione di utilità. Egli dimostra che, se le aliquote delle imposte ordinarie sono positive, è ottimale tassare anche la liquidità con l'uso del signoraggio: come le altre imposte, anche l'imposta da inflazione serve a ridurre il reddito disponibile, determinando una differenza fra prezzo alla produzione (che per la moneta è zero) e prezzo per il consumatore (il rendimento nominale delle altre attività). Le conclusioni di Phelps, che hanno offerto il punto di riferimento per tutto il dibattito successivo, sono state variamente criticate. Oltre a dibattere se la moneta debba trovar posto nella funzione di produzione, si è notato che, pur se il signoraggio ottimale è positivo, possono manifestarsi problemi dinamici di incoerenza temporale (v. Calvo, 1978). Lucas (v., 1986) osserva che, mentre alcuni beni possono essere acquistati a credito, altri devono essere pagati in contante. Se gli uni e gli altri sono già soggetti a imposizione ordinaria, l'imposta da inflazione, in quanto penalizza la liquidità, finisce per essere una tassa aggiuntiva sulla seconda categoria di beni, con effetti distorsivi, nocivi al benessere.
L'essenza del risultato di Phelps pare tuttavia resistere alle critiche. In via teorica, non è affatto scontato che la moneta debba essere inclusa nella funzione di produzione. In via di fatto, quando il debito pubblico accumulato sia già elevato e quando il prelievo tributario incontri dei limiti (per esempio, connessi alla distribuzione del reddito: v. § 6a) o presenti costi crescenti, un adeguato tasso di signoraggio può essere condizione necessaria perché non si determini una situazione del tipo di quella delineata da Sargent e Wallace (v. sopra, § 7a). In sistemi economici poco sviluppati, inoltre, esistono larghe aree di 'economia sommersa', ove si formano redditi che sfuggono facilmente all'accertamento e all'imposizione e in cui, d'altro canto, si fa maggior uso di circolante: mentre un aumento della pressione fiscale graverebbe solo sui redditi accertabili, un'imposta sulla liquidità riesce a colpire tutti i soggetti (v. Dornbusch, 1988).
Queste considerazioni hanno trovato posto in un modello teoricamente semplice e suscettibile di verifica empirica, che collega signoraggio, pressione tributaria e livello del debito (v. Mankiw, 1987; v. Grilli, 1989) e che ha tratti molto simili alla 'teoria positiva del debito' ricordata nel § 5a. Si presume che sia l'imposizione tributaria, sia l'inflazione, e pertanto il signoraggio, abbiano costi marginali crescenti. (Nel caso, poco realistico, di economie perfettamente indicizzate, i costi dell'inflazione si limitano al parziale sacrificio dei servizi di liquidità e al dispendio di risorse per aggiornare frequentemente i listini dei prezzi; nel caso più comune di indicizzazione incompleta, occorre considerare i più pesanti effetti distorsivi sul valore reale dei debiti, sulle aliquote reali di imposta, sul computo di costi e ricavi. Un'accurata analisi dei costi dell'inflazione in diverse ipotesi di indicizzazione è in Fischer e Modigliani: v., 1978).
Dalla minimizzazione del valore presente della somma dei costi dell'imposizione e dell'inflazione, dato il vincolo intertemporale di bilancio, si ottengono i seguenti risultati:
a) conviene mantenere carico tributario e signoraggio costanti nel tempo, con un rapporto fra l'uno e l'altro che dipende dai costi marginali relativi;
b) se aumenta il fabbisogno occorre aumentare sia le imposte sia il signoraggio;
c) pressione tributaria e signoraggio sono in relazione positiva con la dimensione dei flussi di spesa e con il livello iniziale del debito.
Il pregio di modelli di questo tipo consiste nell'individuazione di un esplicito legame intertemporale fra livello della spesa e del debito, da un lato, e livello dell'inflazione, dall'altro (come già intuito, per ragioni non del tutto dissimili, da Keynes).

d) Signoraggio, riserve bancarie e problemi di un'economia aperta
Sinora abbiamo supposto che la base monetaria emessa per finanziare il fabbisogno sia impiegata unicamente dal pubblico come circolante. In realtà una parte cospicua di essa è detenuta dalle banche per far fronte all'obbligo di tenere una riserva in contante. La riserva obbligatoria è proporzionale ai depositi, con un coefficiente fissato discrezionalmente. Sia k il valore di questo coefficiente, sia d il rapporto fra depositi e PIL, sia c il rapporto fra circolante nelle mani del pubblico e PIL. Il rapporto fra base monetaria e PIL, h, è ora espresso come somma di due componenti: h = c + kd.
L'inflazione opera come un'imposta anche sulla base monetaria impiegata come riserva obbligatoria. Su questa infatti viene solitamente pagato un tasso fisso molto basso, inferiore a quello che le banche devono pagare sui depositi: supponiamo per semplicità che sia zero. Nel bilancio di una banca il passivo, costituito dai depositi, deve eguagliare l'attivo, pari alla somma degli impieghi (prestiti e titoli) e della riserva: poiché una quota dell'attivo ha rendimento nullo, il tasso medio d'interesse nominale richiesto sui prestiti deve comunque eccedere quello pagato sui depositi. All'aumentare del tasso d'inflazione il rendimento reale (negativo) della riserva diminuisce, e pertanto aumenta la differenza fra tassi d'interesse reali sui prestiti e sui depositi: questo 'cuneo' fra i due tassi rappresenta una forma d'imposizione 'occulta', che ha, appunto, una componente inflazionistica.
Se alle banche viene corrisposto un interesse sulla riserva, l'aliquota dell'imposta da inflazione sulla corrispondente componente di base monetaria è minore di π/(1 + π), da cui occorre sottrarre il rendimento corrisposto sulle riserve. D'altro canto, il livello di h non dipende più solo dalla domanda del pubblico, ma può in parte essere manovrato dalle autorità. Per ottenere un dato livello di signoraggio, le autorità dispongono infatti di due strumenti: il tasso di creazione di base monetaria, da cui dipende l'aliquota dell'imposta da inflazione, e il coefficiente di riserva obbligatoria, da cui dipende il livello di h. Con un aumento di k si può ottenere un aumento di h, che consente di aumentare il signoraggio a parità di tasso d'inflazione. Gli effetti di un aumento di π divengono più complessi che nel caso di solo circolante, poiché dipendono anche da come varia la domanda di depositi al variare della loro remunerazione reale. La dimensione degli effetti di un aumento di k dipende anche dal grado di concorrenza e di regolamentazione del sistema bancario (v., per esempio, McClure, 1986, e, per una trattazione del problema in un modello di equilibrio generale, v. Romer, 1985).
La libertà delle autorità di decidere il tasso di creazione della base monetaria e il coefficiente di riserva obbligatoria trova limiti notevoli in una piccola economia aperta, che sia legata ad accordi di cambio con altri paesi e consenta libertà di movimento ai capitali. In un sistema a cambi fissi (pur se occasionalmente aggiustabili, come il Sistema Monetario Europeo) il tasso d'inflazione dei paesi partecipanti deve tendenzialmente convergere allo stesso livello: altrimenti si verificherebbe una divergenza sistematica di competitività fra i paesi a inflazione più alta e quelli a inflazione più bassa, con squilibri crescenti delle bilance dei pagamenti. Con libertà dei movimenti di capitali, si produrrebbero pressioni speculative contro le valute dei paesi a inflazione più alta: per impedirle, la banca centrale deve mantenere un livello elevato dei tassi d'interesse.
In un sistema a cambi fissi, in definitiva, la politica monetaria è subordinata a obiettivi d'inflazione e di tassi d'interesse compatibili con la difesa del cambio e non può essere vincolata alle esigenze della politica di bilancio: il tasso di finanziamento monetario del fabbisogno cessa di essere uno strumento liberamente manovrabile. In casi di debito elevato, in cui non si possa o non si voglia raggiungere un avanzo primario sufficiente ad assicurare il servizio del debito, l'adesione a un sistema di cambi fissi può dunque creare problemi seri, poiché limita il tasso di signoraggio su cui il governo può contare. (Si consideri che nei progetti di unione monetaria europea viene esplicitamente escluso il ricorso al finanziamento monetario diretto del fabbisogno nei paesi partecipanti).
L'integrazione finanziaria fra paesi accentua queste contraddizioni, poiché al vincolo sul tasso di signoraggio ne aggiunge un altro sul livello di h. Questo, come abbiamo visto, dipende in misura notevole dal coefficiente di riserva obbligatoria: a un più alto livello di k corrisponde, a parità d'inflazione, un signoraggio maggiore. Tuttavia un più alto coefficiente di riserva riduce la competitività del sistema bancario, poiché aumenta la differenza fra tassi d'interesse sui prestiti e tassi sulla raccolta. In una situazione d'integrazione finanziaria risulteranno avvantaggiate le banche dei paesi in cui è minore il coefficiente di riserva. A lungo andare si verificherà una convergenza di tutti i paesi del sistema verso il coefficiente di riserva minore: ciò porrà un limite al rapporto fra base monetaria e PIL, e pertanto alla base del signoraggio. (Su questi problemi, nel contesto del processo di unificazione europea, v. Dornbusch, 1988; v. Drazen, 1989; v. Giavazzi, 1989). In definitiva, in un'economia aperta che partecipi a un accordo di cambio, il vincolo intertemporale di bilancio finisce per divenire più stringente in termini di livello delle spese primarie e di livello della pressione tributaria.

8. La politica di gestione del debito pubblico

Definita la sua politica fiscale, ossia le decisioni circa spese ed entrate presenti e future, l'emittente pubblico deve affrontare problemi di politica finanziaria, concernenti la gestione del debito, con riferimento sia ai periodici rinnovi delle consistenze sia al finanziamento dei nuovi disavanzi. (Anche quando il rapporto fra debito e PIL è costante, si avrà comunque un'emissione lorda positiva, per il rinnovo dei titoli in scadenza; si avrà anche un'emissione netta positiva, se è positivo il tasso di crescita del PIL nominale).
Le scelte riguardano fra l'altro: la durata (o maturità) dei titoli da emettere (dal brevissimo termine al limite estremo di un titolo irredimibile); il tipo di titoli da emettere (a tasso fisso o a tasso variabile, denominati in moneta nazionale o in valute estere); le modalità di emissione (prezzo e quantità fissi, o aste, con diverse modalità, o quantità variabili, emissione all'interno o all'estero). Ancora altri problemi riguardano il funzionamento e la liquidità dei mercati secondari.
Se valesse nella sua interezza la proposizione 'ricardiana' estrema di equivalenza e di irrilevanza, anche una politica di gestione del debito sarebbe irrilevante: quando non vi siano trasferimenti di oneri all'interno di una generazione o fra generazioni, il costo e il modo di finanziamento del disavanzo sono privi di effetti. Abbiamo visto tuttavia che quella proposizione non ha validità assoluta e generale e che il ricorso al debito provoca effetti distributivi, sia fra generazioni, sia fra soggetti di una medesima generazione: lo confermano alcuni casi, citati in precedenza, di crisi del debito pubblico pur in presenza di situazioni equilibrate di bilancio. Poiché la teoria ammette, e la realtà conferma, la rilevanza della politica di gestione del debito (per una discussione di questi aspetti, v. Pagano, 1988), pare legittimo assegnare a essa il compito di minimizzare il costo del debito: minore è infatti questo costo, minore è l'avanzo primario richiesto dal vincolo di bilancio, minore è pertanto l'effetto distributivo prodotto dal debito.
Questo obiettivo richiede alcune precisazioni. Anzitutto, come dovrebbe risultare chiaro da quanto detto al § 2c, quello che conta è il costo del debito in termini reali. In secondo luogo, la minimizzazione del costo deve aver riguardo a tutto l'arco di vita del debito emesso, anche perché condizioni favorevoli a una crisi di debito, con difficoltà di rinnovo dei titoli in scadenza, provocano un aumento del costo delle nuove emissioni. Meno agevole della definizione dell'obiettivo è l'individuazione di criteri precisi di gestione del debito pubblico, a motivo sia di incertezze teoriche (v. Fischer, 1986), sia di diversità storiche e istituzionali. Si possono tuttavia illustrare alcune questioni di maggior rilievo. (Per alcune di tali questioni, con particolare riferimento all'esperienza italiana, v. Spaventa, 1988; v. inoltre Ministero del Tesoro, 1989).
Non vi è alcuna ragione a priori per preferire una vita media lunga del debito a una breve. Quando tuttavia il livello di debito è elevato, una sua durata breve, che impone rinnovi frequenti dell'intera consistenza, aumenta i rischi e i costi di possibili crisi di fiducia, provocate da ragioni economiche obiettive, o, più spesso, da motivi politici, da timori di provvedimenti straordinari, da voci incontrollate. Il maggior rendimento che deve essere offerto per compensare il rischio percepito dai risparmiatori aumenta l'onere d'interesse tanto più quanto maggiore è il debito in scadenza, e pertanto quanto più breve è la vita del debito.
D'altro canto, anche l'allungamento della durata può presentare in alcune circostanze un costo non indifferente. Si supponga che in un paese l'inflazione sia ancora elevata, e/o che sia ancora elevato il disavanzo; e che tuttavia il governo sia impegnato in un piano di riduzione dell'inflazione e/o del disavanzo. Probabilmente in queste condizioni titoli a lungo termine a tasso fisso possono essere emessi solo se i rendimenti nominali riflettono l'inflazione corrente e/o incorporano un premio di rischio per l'ancora incerta solvibilità del debitore pubblico. Ma se poi l'inflazione scende e/o il disavanzo viene eliminato, lo Stato si trova a corrispondere rendimenti reali molto più elevati di quanto sarebbe necessario, proprio perché i titoli emessi in precedenza erano a lungo termine: la disinflazione, in particolare, provoca un aumento notevole del costo reale del debito e pertanto dell'avanzo primario necessario per stabilizzarne la dinamica. La percezione di questa contraddizione, inoltre, può compromettere la credibilità del piano governativo, se i risparmiatori dubitano che il governo voglia o possa sopportare un costo reale tanto elevato e ritengono pertanto che gli obiettivi di disinflazione o di arresto della crescita del debito finiranno per non essere rispettati. Per uscire dall'alternativa fra vita breve e costo elevato del debito, si può ricorrere all'emissione di titoli variamente indicizzati: titoli a lunga, ma con rendimento variabile, indicizzato sui tassi a breve (tipicamente i CCT in Italia); oppure con rendimento reale costante, essendo il rendimento nominale indicizzato sull'inflazione; oppure con rendimento nominale indicizzato sul cambio con valute estere. Se l'inflazione effettivamente scende, l'onere nominale di interessi su questi titoli cala e quello reale non aumenta, diversamente da quanto avverrebbe per titoli a tasso nominale fisso. Con il secondo e il terzo tipo di titoli, inoltre, l'emittente può rassicurare il risparmiatore, in quanto si dichiara pronto a scommettere contro il mancato raggiungimento degli obiettivi di disinflazione o di riduzione del disavanzo. Alternativamente, si possono emettere titoli a tasso fisso di durata lunga, ma con una opzione di rimborso esercitabile dal risparmiatore dopo un periodo più breve, che riduce il costo di emissione.
La politica monetaria può contribuire a una buona politica di gestione del debito, indipendentemente dall'entità del finanziamento monetario del disavanzo pubblico. Anche se nell'anno non viene creata base monetaria per il Tesoro, può essere opportuno che la banca centrale assicuri al Tesoro un sostegno temporaneo (una sorta di scoperto di conto corrente da ripianare entro breve termine) in situazioni di turbamento del mercato dei titoli provocato da cause occasionali e passeggere.
La politica di gestione diviene più complessa in un'economia aperta, con libero movimento di capitali, e finanziariamente integrata con altre economie. Da un lato, si offrono in questo caso ai risparmiatori possibilità d'investimento alternative ai titoli pubblici, e ciò può acuire le difficoltà di collocamento. Dall'altro, l'emittente pubblico ha accesso più agevole al mercato internazionale, e pertanto a una platea più vasta di sottoscrittori: per cogliere questa occasione, occorre perseguire una strategia di emissione appropriata e mirata alle preferenze degli investitori esteri.
Lo sviluppo e la buona funzionalità dei mercati secondari possono contribuire a ridurre il costo del debito per l'emittente. Un mercato efficiente, che assicuri la trasparenza delle condizioni a cui avvengono le transazioni, e sufficientemente spesso, per quantità e omogeneità dei titoli transatti, rende un titolo più liquido e meno soggetto a perdite in conto capitale dovute a erratiche fluttuazioni dei prezzi: riduce pertanto, o elimina, il premio di illiquidità che altrimenti verrebbe richiesto e che sarebbe incorporato nel rendimento da offrire per assicurare la sottoscrizione.