Medio Evo e Rinascimento
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Origine e sviluppo del Feudalesimo
Alla morte di Carlo Magno, l’impero carolingio si frantumò, portando
alla creazione di una miriade di distretti autonomi, che vennero
denominati feudi; questi territori venivano generalmente concessi da
un sovrano ai suoi servitori più fedeli. Questa pratica era
particolarmente in uso presso i germanici e risaliva all’epoca delle
prime conquiste effettuate dai re barbarici Alarico, Odoacre, e
Teodorico. Questa consuetudine, trovò la sua massima applicazione
nell’Italia longobarda con l’istituzione dei ducati e nella Francia
carolingia con la creazione dele contee e delle marche.I successori
di Carlo Magno, non riuscirono ad esercitare un adeguato controllo
sull’operato dei conti e dei marchesi e mantenere così l’unità dello
Stato al contrario, fecero di tutto perchè si creassero i
presupposti per il disfacimento dell’Impero; infatti, per riuscire
ad assicurarsi le forze militari necessarie per poter prevalere
sull’avversario nella corsa alla Corona imperiale, essi non
esitarono a concedere dei benefici ai propri Vassalli : la
riscossione delle imposte a titolo personale, l’arruolamento delle
truppe, lo sfruttamento delle saline e delle miniere e
l’amministrazione della giustizia, che veniva resa ai sudditi nel
corso di un pubblico giudizio detto placito. L’esercizio di tutti
questi poteri veniva definito immunità, ed in cambio di tutto ciò, i
dignitari, fossero essi laici o religiosi, si riconoscevano fedeli
al sovrano e gli rendevano omaggio giurandogli fedeltà nel corso di
una cerimonia solenne. Il giuramento impegnava il vassallo a non
fare mai guerra al suo signore, a fornirgli in caso di bisogno aiuto
militare e finanziario, ospitandolo presso la propria corte quando
questi si trovava a passare nel suo feudo e a fornire viveri al suo
esercito in caso di necessità. Da parte sua il re si assumeva il
dovere di proteggere il proprio vassallo in qualsiasi situazione, ma
si riservava di privarlo di tutti i benefici concessi se questi
avesse violato il suo giuramento. Ricapitolando, il potere feudale
si fondava quindi essenzialmente su tre istituzioni: l’omaggio, il
beneficio e l’immunità. Una variazione importante rispetto all’epoca
carolingia, fu che l’usufrutto su un territorio, da temporaneo
divenne vitalizio. Successivamente, Carlo il Calvo, nel Capitolare
di Querzy dell’877, stabilì che quando il possessore del feudo
moriva, tutto passava ai figli o ai legittimi successori. In tale
modo, i nobili laici tramandavano la propria signoria da padre in
figlio, mentre nei feudi amministrati da ecclesiastici, i vescovi e
gli abati ne beneficiavano per tutta la durata del loro mandato. A
loro volta i feudatari potevano concedere benefici ai propri
fedelissimi, sottoponendoli agli stessi obblighi di fedeltà e mutuo
soccorso in caso di necessità. Questi nuovi beneficiari erano detti
Valvassori, che potevano cedere a loro volta parte dei diritti
acquisiti ad altri loro conoscenti dettiValvassini. Questa
subinfeudazione proseguiva finchè era possibile offrire a qualcuno
un beneficio anche minimo, ottenendo in cambio appoggio e fedeltà.
Veniva così a crearsi sul territorio di un unico grande feudo, un
rapporto di vassallaggio che legava fra loro diverse persone, ognuna
delle quali aveva diritto a determinati benefici, sottostando in
cambio a diversi obblighi. Verso la fine del X secolo, tutta
l’Europa centro-occidentale e l’Italia centro-settentrionale
apparivano smembrate in una moltitudine di feudi di varia
estensione, ed i Regni sorti dallo sfaldamento dell’Impero dei
Franchi, erano in balia dei feudatari che mal tolleravano l’autorità
del re. In ognuno di questi regni, il sovrano aveva almeno
nominalmente il potere supremo e rappresentava il vertice della
gerarchia feudale. I gradi intermedi erano rappresentati dai grandi
vassalli, dai valvassori, che in Francia erano conosciuti con il
nome di baroni, mentre in Italia erano detti capitanei; ultimi per
importanza erano i valvassini ed i militi, che molto spesso erano
dei vassalli privi però di benefici. Tutte queste categorie di
persone formavano la nobiltà, governavano i feudi, esercitavano la
pratica delle armi ed abitavano in castelli situati all’interno
delle loro proprietà. L’altra classe feudale era quella dei
dipendenti, così detta perchè formata da uomini soggetti alla
nobiltà e divisi in due categorie: contadini ed artigiani. I primi
erano molto numerosi ed il loro nome derivava da contea o contado ed
erano generalmente dei servi della gleba, facevano quindi parte del
fondo agricolo sul quale lavoravano e vivevano seguendone il
destino; erano praticamente di proprietà del feudatario, anche se la
loro condizione non era in nulla simile a quella degli antichi
schiavi. Questi coloni feudali avevano infatti il diritto di
possedere dei beni, che potevano essere poi ereditati dai loro
figli, oltre al diritto di crearsi un famiglia. Alcuni di loro, che
coltivavano le terre del signore, vivevano nel borgo, un agglomerato
di case costruite a ridosso delle mura del castello; lì vivevano
anche gli artigiani che producevano tutti gli strumenti, i manufatti
e gli attrezzi necessari agli abitanti del feudo. Nei fondi rustici
più o meno lontani dal castello vivevano quei coloni detti censuari,
sottoposti cioè al pagamento delle imposte. In cambio del godimento
dei prodotti forniti dal fondo da essi coltivato, i contadini
dovevano assicurare al loro signore determinati servizi detti
corvées: coltivare gratuitamente i suoi poderi, effettuare il
servizio di sorveglianza al castello e al territorio circostante,
prestare il servizio militare come truppe ausiliarie in caso di
guerra ed inoltre effettuare la manutenzione di tutte le opere
murarie e delle strade del feudo. Oltre a tutto ciò erano gravati da
banalità, erano cioè obbligati ad utilizzare pagando un tributo solo
i mulini, i forni ed i torchi di proprietà del feudatario. Egli era
solito riscuotere diversi tributi occasionali di varia natura: il
ripatico, che veniva corrisposto da chi camminava sulla riva di un
fiume; il pontático, pagato da chi passava su un ponte; l’erbático,
dovuto da chi tagliava o calpestava l’erba di un prato; altri
tributi come ad esempio il rotático o il polverático, dovevano
essere corrisposti al signore per danni causati alle strade dalle
ruote dei carri e per il fastidio arrecatogli dalla polvere
sollevata dai veicoli. Non era abitudine del feudatario sfruttare
spietatamente i propri sudditi; era considerato come un patriarca,
nel quale i sottoposti vedevano un protettore e nel castello
l’insostituibile centro della vita economica e sociale del feudo. La
terza classe, il clero, era costituita da uomini liberi dediti alle
pratiche religiose. Il clero regolare soggetto alla regola di San
Benedetto da Norcia, viveva nei monasteri, mentre il clero secolare
esercitava il proprio ministero tra gli abitanti delle città e delle
campagne. Pur godendo di vari privilegi, il clero di grado inferiore
viveva a contatto diretto con i sudditi feudali condividendone
spesso le dure condizioni di vita. La condizione dei monaci era
invece diversa, essi passavano la maggior parte della loro vita
pregando e lavorando all’interno dei loro monasteri, nei quali, in
età feudale si mantenne viva la cultura e continuarono ad operare
anche le scuole istituite in epoca carolingia. L’alto clero era
costituito da vescovi ed abati che appartenevano alla nobiltà
feudale, godendo di tutti i diritti e di tutti gli obblighi che ne
derivavano. In genere i feudi ecclesiastici erano meglio organizzati
di quelli laici, essendo i vescovi-conti assistiti nell’opera di
amministrazione da funzionari di grande esperienza e di cultura
superiore, provenienti dal clero. Erano pochi i non nobili liberi da
servitù feudali; si trattava nella maggior parte dei casi di
individui proprietari di modesti poderi, esenti da tributi e
chiamati allodii.
Cavalleria
Secondo il diritto feudale, il feudo ottenuto in beneficio doveva
essere trasmesso alla morte del signore al suo primogenito maschio.
I figli minori, i cadetti, dovevano quindi adattarsi a vivere sotto
la tutela del fratello maggiore, oppure abbracciare la carriera
ecclesiastica o, in alternativa quella militare. Nel primo caso essi
ottenevano spesso dei benefici collegati al monastero nel quale
entravano, oppure potevano ambire al possesso di feudi ecclesiastici
vacanti. Se decidevano di seguire la carriera militare, prendevano
servizio presso un signore e dopo un duro tirocinio in qualità da
scudieri, gli era possibile ambire al titolo di cavalieri. La
Chiesa, allo scopo di limitare lo spirito guerresco dei signori,
tentava di dirigere l’operato degli aspiranti cavalieri, verso fini
nobili e più degni di tale titolo: giustizia, probità, lealtà,
cortesia e soprattutto la difesa dei più deboli. In questo modo
l’investitura cavalleresca veniva ad assumere il carattere di una
consacrazione religiosa, per mezzo della quale il cavaliere entrava
a far parte di una confraternita, la Cavalleria, nella quale vigeva
un codice comprendente regole estremamente severe ed esclusive.
Molto spesso la Cavalleria costituì per molti un valido aiuto contro
le prepotenze dei feudatari e la Chiesa stessa vi fece assegnamento
per la lotta contro barbari e infedeli. In realtà molti cavalieri
vennero meno alle regole, mostrandosi avidi di ricchezze e
sanguinari, quindi molto diversi dai cavalieri erranti spesso citati
come esempi di rettitudine nelle poesie medioevali.
La vita nell'epoca feudale
Le fiorenti città dell’epoca Romana, attivi centri culturali,
economici e politici, in seguito alla conquista da parte delle rozze
popolazioni germaniche, decaddero sempre più. Questi popoli erano
infatti poco inclini alla cultura e concepivano come unica utile
proprietà la terra, mentre come attività alternativa all’agricoltura
prediligevano l’agricoltura. I feudi possono quindi essere
considerati come il frutto di questo processo di ruralizzazione
dell’economia. Nell’età feudale l’unica vera fonte di ricchezza era
rappresentata dall’agricoltura, e poichè ogni feudo rappresentava
una comunità chiusa e concentrata intorno al castello del signore,
dava origine ad un’economia detta acircolo chiuso. Poche erano le
vie di grande comunicazione, insicure per via delle continue
scorribande di gruppi di ladroni. Gli innumerevoli castelli erano un
po’ le capitali dei numerosi staterelli, ognuno dei quali viveva
chiuso in se stesso, quasi come se i limiti che lo dividevano dai
villaggi confinanti, rappresentassero i confini del mondo. Le
attività agricole e l’allevamento venivano praticati con mezzi
inadeguati e di conseguenza si aveva una bassa produttività e
frequenti carestie. Ogni feudo era suddiviso in due circoscrizioni
agricole: la parte dominicale, che era la meno estesa ma più
fertile, veniva coltivata dai servi del feudatario, al quale era
riservata la totalità dei prodotti, e la parte colonica,
appartenente anch’essa al signore, ma divisa in mansi veniva
coltivata dai censuari che ne godevano i frutti. Su questi contadini
gravavano però dei tributi in natura destinati al feudatario e delle
contribuzioni straordinarie relative all’utilizzo di determinati
servizi o strutture; a tutto questo si dovevano aggiungere le
corvées, prestazioni gratuite che i censuari dovevano fornire al
signore quando questi lo richiedeva. I prodotti di queste due parti
confluivano negli edifici che componevano il corpo periferico del
castello; qui venivano lavorati e conservati. Essendo il feudo
autosufficiente dal punto di vista della sussistenza, gli scambi
erano inutili; un’eccezione era rappresentata da un modesto
commercio di metalli, sale, olio e spezie. Con la cessazione dei
traffici cessa anche la circolazione delle monete, sostituite
nuovamente dal baratto. Nei feudi ecclesiastici e nei grandi
monasteri benedettini, grazie all'operosità dei monaci la vita era
più fervida e meno dura. La cultura era ormai un patrimonio gestito
da loro e dal clero operante nelle città al fianco dei
vescovi-conti. Gli argomenti letterari erano prevalentemente
ispirati ai testi sacri e alla vita dei santi; la lingua utilizzata
era il latino, nella quale erano pure redatti i testi profani,
mentre iniziavano a diffondersi in Italia, Francia e Spagna i primi
manoscritti in lingua popolare o volgare, testimonianza del lento
formarsi delle lingue neolatine. L’architettura degli edifici
presentava linee molto semplici e sobrie e sia che essi fossero
edifici religiosi, palazzi pubblici o dimore, assomigliavano a
fortilizi, poichè in caso di necessità dovevano essere in grado di
accogliere e proteggere gli abitanti dei dintorni. Le arti
figurative, praticamente inesistenti, erano limitate alle miniature
dei codici e alle sculture contenute nei bassorilievi ornamentali.
Il castello rappresentava il vero centro della vita feudale;
concepito a scopo di difesa e di ricetto del feudatario, dei coloni
e di tutti i beni del feudo, si presentava come una costruzione
massiccia, realizzata originariamente con tronchi d’albero, ed in
seguito con pietre e mattoni ricavati a volte dalla demolizione di
preesistenti costruzioni romane. Cinto da cerchie murarie o da
palizzate, era il luogo nel quale risiedeva abitualmente il signore
con la propria famiglia, i servi e gli eventuali ospiti. Il castello
veniva generalmente edificato in un punto del feudo ben difeso
naturalmente, che poteva essere un’altura, l’ansa di un fiume,
oppure un punto dominante un passaggio obbligato. Molte volte
appariva circondato da dirupi inaccessibili o da fossi profondi
pieni d’acqua. Attraverso un ponte levatoio e una stretta
passerella, entrambi difesi dal barbacane, un piccolo fortilizio
esterno, si giungeva al torrione centrale, il mastio. Ed era qui che
viveva il feudatario con la sua famiglia. Spartanamente arredato e
privo di vetri alle poche e piccole finestrelle, il castello si
presenta inizialmente come una dimora scomoda, buia e fredda, ma
piuttosto salda contro i pericoli provenienti dall’esterno. Solo a
partire dal XII secolo viene abbellito divendo una confortevole sede
di una società più brillante ed evoluta, più sensibile alle arti,
seguendo quindi le usanze delle Corti feudali della Provenza. Nel X
secolo tutto questo è ancora ben lontano: i castellani sono infatti
alquanto rozzi, molto violenti e spesso analfabeti. La loro vita è
scandita dalle consuetudini imposte dalle esigenze del feudo. Le
maggiori occupazioni dei feudatari sono rappresentate dalla guerra,
dalla caccia, dalle passeggiate a cavallo e dall’addestramento
nell’uso delle armi; queste attività sono intervallate dai placiti,
nel corso dei quali viene amministrata la giustizia per i sudditi,
oppure dagli intrattenimenti offerti dai giocolieri, artisti
abilissimi nei giochi di equilibrio e destrezza. A volte i signori
più importanti organizzavano giostre o tornei, nel corso dei quali
succedeva spesso che qualche duellante rimanesse privo di vita sul
terreno, nonostante che per questi scontri venissero utilizzate
spade e lance smussate e scudi più rinforzati rispetto a quelli
utilizzati nei combattimenti veri e propri. Molto diversa era la
vita per i contadini e gli artigiani alle dipendenze del feudatario.
Essi dovevano innanzitutto svolgere i lavori obbligatori ed i
servizi straordinari imposti dal loro signore, per svolgere le quali
occorreva la prima parte della settimana; nei rimanenti giorni, i
contadini affittuari potevano coltivare i propri poderi, ognuno dei
quali forniva il nutrimento ad una famiglia. Il tempo rimasto veniva
impiegato nello sfruttamento delle terre comuni, lasciate incolte
per poter far legna da ardere o per il pascolo; queste terre erano a
disposizione di tutti gli abitanti del feudo. Il lavoro nei campi
veniva svolto con metodi antiquati ed inadatti: i contadini
utilizzavano per l'aratura dei campi un aratro di legno che riusciva
a malapena a scalfire la superficie del terreno e questo,
insufficientemente concimato, dava uno scarso raccolto e per questo
motivo doveva essere lasciato incolto per due anni su tre. I coloni
vivevano in capanne molto povere e malsane, nelle quali si cercava
di campare alla meglio; il vitto era costituito principalmente da
zuppe a base di cereali o legumi, pane e latticini, mentre le carni
venivano consumate molto di rado. Le già misere condizioni di vita,
venivano ulteriormente peggiorate con l’arrivo di tre flagelli molto
ricorrenti nell’epoca medievale: le carestie, le epidemie e le
guerre. Le città fino ala fine del X secolo ebbero poca importanza
nel mondo feudale. I feudatari furono incapaci di riportarle agli
antichi splendori; essi infatti preferivano la vita al castello, che
era divenuto il centro di un sistema economico-rurale che assicurava
loro ricchezza, potere ed i sudditi sui quali esercitarlo. Le
antiche ed un tempo ricche città, si erano ridotte a piccoli centri
privi di vita sociale e di commercio, sulle quali vegliava, unica
autorità forte rimasta, un vescovo. Fu proprio intorno a lui che si
formò una nuova categoria sociale composta da artigiani, mercanti e
funzionari: la borghesia. I vescovi, spesso investiti di autorità
feudale, curavano e promuovevano gli interessi dei loro cittadini,
molto meglio di quanto non facessero i feudatari laici con i loro
contadini. Fu così che nelle città iniziò nuovamente a svilupparsi
la vita economica e culturale: si cominciò col rilanciare
l’iniziativa commerciale, che presto avrebbe permesso ai borghesi di
confrontarsi con successo contro i signori feudali del contado.
Tasse e balzelli nel Medio Evo
periodo medievale.
Il Focatico
L'imposta istituita da Carlo I D'Angiò nel 1263, era una tassa
applicata a ciascun fuoco o focolare, cioè su ciascuna abitazione di
un gruppo familiare o su ciascun fumante se l'abitazione comprendeva
più gruppi familiari. Il fuoco nel basso medioevo denominava, come
detto, l'unità famigliare composta da tutti coloro che vivono nella
stessa casa, saldano dosi e cucinano al medesimo fuoco. Nella
primavera di ogni anno, il comune inviava alla Magistratura
Comunitarie la consueta stampa occorrenti a compilare le
operarazioni di focatico. Entro il 30 giugno venivano inoltrate le
scritture che alla fine di agosto veniva rispedite alla
rappresentanza comunitaria, con il foglio di riparto approvato per
detta imposta, mentre i ruoli venivano passati all'esattore comunale
per la riscossione da farsi entro date ben precise. Il ruolo si
divideva in tre categorie:il fuoco, la terra coltivata e la classe
di reddito. I meno abbienti non era assoggettati a tale imposta, ma
questo dava origine ad evasioni o a esenzioni concesse per individui
che ricoprivano cariche pubbliche (senatori, notai, clero, ecc…).
L'Imbottato
Il dazio era sostanzialmente una tassa che doveva essere pagata da
tutta la comunità per i prodotti agricoli che si possedevano. In un
registro risulta "d'imbottar li grani et vini in calende di Novembre
di ciascuno Anno per quali grani et vini, quelli che in detto giorno
si trovano averli in casa sono tenuti subito fatta la visita et
descrittione d'essi pagar alla comunità. Per esempio a Gambolà nel
1619 erano tassati per imbottato un sacco di frumento, fagioli,
segale, ceci, fave per due soldi; un sacco di miglio, avena, melega
per un soldo; una brenta di vino buono puro per quattro soldi; una
brenta di vino chiappato per due soldi e otto denari, ma venivano
tassati nuovamente se questi beni venivano venduti o comprati da
forestieri.
Fodro
Dal francone fodar, nutrimento, indica l'obbligo di fornire
ospitalità e sostentamento al re, all'imperatore, ai titolari di
pubbliche funzioni, al loro seguito e alle milizie, incombente sui
vassalli, sui possessori di terre o complessivamente sulle
collettività delle località attraversate durante il loro passaggio.
Utilizzato nei diritti germanici e nordici, presentava analogie con
l'annona romana. Determinante per l'esercizio effettivo della
giurisdizionale, perchè garantiva i rifornimenti alle autorità
itineranti, ebbe costante applicazione nel corso del medioevo e
costituiva uno dei fondamentali diritti pubblici.
Dal sovrano il fodro passò ai conti, ai vescovi, agli abati, alle
città e grandi o medi proprietari. Fu uno dei principali scontri da
Federico Barbarossa e le città lombarde. E detto anche albergaria.
Altri tributi e diritti feudali
abbeverata: per dissetare gli animali nei fontanili; in latino
medioevale ius beverandi
acquatico: per attingere acqua da fonti o sorgenti; in latino
medioevale ius aquandi
erbatico: per falciare l'erba in un prato; detto anche erbaggio
glandatico: per raccogliere ghiande o condurre maiali nei querceti;
anche escatico e ghiandatico
legnatico: per tagliare e raccogliere legna di alto fusto; in latino
medioevale ius lignandi; altro sinonimo boscatico
macchiatico: per raccogliere legna di basso fusto, arbusti
pantanatico: per pescare anguille e rane negli stagni
pascolatico: per condurre greggi al pascolo (ius pascendi); più
diffuso il diritto di fida
pedatico: per attraversare o percorrere a piedi strade, sentieri o
proprietà private; anche pedaggio
piscatico: per catturare pesci in acqua dolce o salata; anche
pescatico
pontatico: per transitare sui ponti doganali o di proprietà privata
ripatico: per approdare o sostare su rive di acque interne
siliquatico: per raccogliere carrube ed altri baccelli
spicatico: per raccogliere spighe dopo la mietitura; in latino
medioevale ius spicandi; inoltre spicilegio e spigaggio
Il papato di Innocenzo III
Lotario dei conti di Segni, venne eletto papa a soli 37 anni nel
1198 e fu una delle figure di maggior spicco nella lunga storia
della Chiesa. Egli professava il principio della supremazia assoluta
del papa su tutti regnanti della terra, che da lui vedevano derivare
tutto il loro splendore. Ai sovrani spettava il potere sui corpi,
mentre al papa quello sulle anime. Egli seppe tradurre talmente bene
nella pratica questi concetti, da garantire al papato un prestigio e
un’autorità rimaste senza pari ancora oggi. Nonostante la sua grande
potenza, egli era personalmente un asceta, che portava sempre sulle
carni il cilicio, professava rigidissimi costumi ed era animato da
un costante pessimismo verso le cose terrene ed umane, come è
ampiamente dimostrato nel principale dei suoi scritti: De contemptu
hominis che tradotto significa Sul disprezzo dell’uomo.Attuò sempre
una politica duttile e paziente, egli fu piuttosto abile a trarre
profitto dalle diverse situazioni, là dove le circostanze lo
permettevano. Alla morte di Enrico VI, seppe approfittare della
crisi venutasi a creare nell’interno dell’Impero tedesco, per
indurre o, in alcuni casi costringere, i feudatari o i ministeriali
tedeschi ad abbandonare le città dell’ Umbria, delle Marche e della
Romagna, i cui governi prestarono giuramento di fedeltà al papa, il
quale riconobbe loro le franchigie comunali.Anche se per il momento
queste regioni mantennero la propria autonomia, erano già stati
posti in realtà i fondamenti giuridici che avrebbero portato ad un
rafforzamento dello Stato della Chiesa, del quale esse avrebbero
fatto parte. Anche nel Lazio, Innocenzo III riuscì a sottomettere i
feudatari ed i Comuni, oltre allo stesso Comune di Roma, al quale
venne tuttavia concessa una certa autonomia. Il papa si occupò molto
della politica internazionale dell’epoca, riuscendo a farsi
riconoscere come arbitro in molte contese. Il suo prestigio, gli
guadagnò il favore di numerosi sovrani europei tra i quali i re di
Aragona, di Castiglia, del Portogallo e d’Inghilterra. La Curia
romana acquisì autorità non solo in materia religiosa ma anche
civile: ad esempio, per lo scioglimento di matrimoni reali e di
altri importanti personaggi, doveva essere richiesto il permesso a
Roma. Per sostenere la complessa organizzazione della Curia papale,
diversi paesi corrispondevano alla Camera apostolica, un tributo
annuo denominato Obolo di San Pietro, fornendo così al pontefice i
mezzi finanziari necessari per lo svolgimento della propria
attività. Ma un grave pericolo minacciava in quell’epoca la Chiesa:
l’eresia. Per reprimere i moti ereticali, Innocenzo III riorganizzò
e rafforzò, dotandolo di sempre maggiori poteri, il Tribunale della
Santa Inquisizione. Questo organismo, aveva il compito di scoprire e
giudicare gli eretici e quindi, riconosciuta l’effettiva
colpevolezza, di consegnarli al braccio secolare, ossia all’autorità
civile, perchè eseguisse la sentenza. Drastiche misure vennero
adottate contro gli Albigesi, una setta diffusa nel sud della
Francia. Contro di essi, il papa bandì addirittura una crociata, che
venne sfruttata a fini personali da una miriade di cavalieri senza
averi provenienti dal nord della Francia. Costoro, si diressero
verso il meridione del Paese, saccheggiando e massacrando
popolazioni inermi, senza fare distinzione fra cattolici ed eretici.
La stessa cosa fecero i cavalieri tedeschi che con la scusa della
crociata avevano ripreso la loro espansione verso est, la Drang nach
Osten, la spinta verso Oriente. Essi si abbandonarono a terribili
massacri nei confronti delle popolazioni slave e baltiche,
impadronendosi delle terre affacciate sul Mar Baltico.
Federico II di Svevia
Federico II di Svevia, ultimo discendente degli Hohenstaufen, venne
incoronato imperatore di Germania e re di Sicilia nel 1212. Per
poter iniziare il proprio regno, egli dovette attendere che il suo
rivale, Ottone IV, venisse sconfitto dai francesi a Bouvines nel
1214. In virtù di quella sconfitta, Ottone si ritirò dalla vita
politica, morendo poi misteriosamente nel 1218 in Sassonia.
Cresciuto in Italia sotto la tutela di papa Innocenzo III, ebbe come
precettore il futuro papa Onorio III. Federico II non aveva nulla di
tedesco: egli disprezzava la Germania a causa delle continue lotte
feudali. Vi si recò in poche occasioni, preferendo dedicarsi ai
domini italiani, che volle costituire in un forte Stato monarchico
accentrato. Nell’aspra lotta sostenuta contro le forze avverse,
manifestò qualità eccezionali: dotato di una cultura superiore alla
norma, conosceva e parlava correttamente sei lingue, amava
dilettarsi con gli studi letterari e componeva poemi in stile
provenzale. Era attratto dagli studi di medicina, astronomia e
scienze naturali, nei quali si rifugiava nei momenti liberi dagli
impegni governativi. Notevole fu la sua tolleranza per le diverse
religioni: Federico II amava intrattenersi presso la sua corte con
studiosi arabi ed ebrei oltre che cristiani. Per questo motivo venne
accusato come eretico, anche se questa accusa risultava palesemente
fuori luogo. L’Imperatore, si dimostrò in più occasioni molto duro
nei riguardi degli eretici, non tanto per le dottrine da essi
professate, ma perchè li considerava ribelli contro lo Stato e
contro la Chiesa. Lo scopo primario di Federico II, fu
l’affermazione della sovranità regia, che egli perseguì per tutta la
durata della sua vita, senza tuttavia riuscire a raggiungerla.
Secondo le sue idee, il potere dell’Imperatore doveva essere
assoluto e senza alcuna limitazione. A queste idee, Federico II
volle dare un’attuazione rigidissima tramite le misure adottate
contro la feudalità. Rivendicò al demanio regio tutte le terre
usurpate dai vari baroni e fece abbattere tutti i castelli edificati
costruiti dai signori feudali mentre egli era ancora minorenne e
quindi impossibilitato a governare. Inoltre proibì duelli e guerre
private, tolse ai feudatari il potere di esercitare la giustizia
penale nei loro territori, lasciandole solo i processi civili; i
nobili che commettevano dei delitti venivano giudicati dal tribunale
regio. Venne proibito a chi non era al servizio del re di portare
armi e anche i matrimoni tra figli di famiglie nobili erano
subordinati al permesso di Federico II, con lo scopo d’impedire
alleanze matrimoniali tra famiglie molto potenti. Anche con la
Chiesa egli dimostrò la stessa rigidità, imponendole imposte e
sottoponendo i membri del clero colpevoli di aver commesseo reati,
al giudizio dei tribunali regi. L’imperatore ptoibì poi la la
vendita e la donazione di beni stabili alle chiese, per diminuirne
la potenza economica e stroncare il fenomeno della feudalità
ecclesiastica. Infine estromise gli ecclesiastici dalle funzioni
pubbliche, preferendo loro dei funzionari laici. Neppure le città
vennero risparmiate: esse furono sottoposte al governo di un
funzionario regio, mentre veniva loro proibito di eleggere i propri
consoli, i podestà o i rettori. L’ordinamento che avrebbe dovuto
reggere il regno, venne fissato nelle Costituzioni melfitane, che
vennero promulgate a Melfi nel 1231.Secondo queste regole, il potere
di legiferare, spettava unicamente al re: da lui dipendeva la Magna
curia, un tribunale supremo che giudicava in prima istanza sulle
cause feudali, mentre in sede di appello poteva esprimersi su
qualunque causa le fosse stata sottoposta. Questo tribunale era
composto da quattro giudici ed era presieduto dal Gran giustiziere,
che progressivamente ebbe nelle proprie mani tutte le più importanti
funzioni governative, comprese quelle militari in caso di assenza
del sovrano.Venne quindi istituita una Gran corte dei contiche
provvedeva all’amministrazione finanziaria del regno. Nelle province
gli affari finanziari e civili venivano amministrati dai camerari,
mentre i giustizieri presiedevano alla polizia e all’amministrazione
della giustizia. Sotto di essi operavano i balivi, che nei centri
minori avevano funzioni amministrative, giudiziarie e finanziarie,
sorvegliando la percezione dei tributi e delle altre entrate
statali. Questa rete di funzionari era composta interamente da
persone nominate direttamente dal re e che rispondevano a lui
direttamente. Federico II amava scegliere i sui funzionari, non solo
tra i nobili, che spesso si rivelavano ignoranti e infidi, ma
soprattutto fra i borghesi delle città; per agevolare la formazione
culturale di questo esercito di burocrati, nel 1224 egli fondò
l’Università di Napoli. Così facendo, diede il via alla formazione
di un ceto di funzionari laici acculturati professionalmente, che
costituirono l’embrione della moderna burocrazia. Anche le
istituzioni militari iniziarono ad assumere un aspetto più moderno:
oltre ai vassalli, che erano obbligati a prestare il servizio
militare ogni anno, Federico II ebbe ai propri ordini un esercito ed
una flotta permanenti , composti da mercenari a lui completamente
devoti. Per sostenere le spese derivanti dal mantenimento di un così
imponente apparato statale, egli si basò su tre diverse categorie di
proventi: Le rendite dei beni demaniali, che venivano normalmente
concessi in affitto, ma a volte anche coltivati in economia; le
imposte dirette ed indirette, tra le quali la colletta, un’imposta
fondiaria che colpiva tutte le proprietà terriere; infine, i
monopoli di Stato come quelli del rame, del ferro e del sale, dei
quali l’amministrazione statale rivendicò il commercio in esclusiva.
Con i proventi derivanti da queste imposte, le casse dello Stato si
riempirono, permettendo il finanziamento delle continue guerre
dell’imperatore ed il lusso della sua corte. Questo modo di operare,
portò però ad un grave impoverimento del regno del sud.
Le guerre di Federico II
Il regime politico accentrato e autoritario imposto da Federico II,
suscitò aspre resistenze soprattutto da parte dei grandi signori
feudali, obbligati dall’Imperatore all’obbedienza nei confronti
della monarchia; scoppiarono sommosse in tutto il regno, domate con
durezza da Federico II. Ma le sconfitte sul campo e le conseguenti
pene capitali, non riuscirono a domare la nobiltà meridionale, che
per tutta la durata del suo regno, cospirò contro di lui, fornendo
il proprio appoggio a tutti i nemici esterni dell’Imperatore. Anche
le città non ebbero un migliore trattamento: venne loro negata ogni
tipo di autonomia e furono sottoposte all’amministrazione di
funzionari di nomina regia. Catania , Messina e Siracusa, che si
erano ribellate, vennero riconquistate e duramente punite. I
Saraceni ancora presenti in Sicilia, che avevano rifiutato di
sottostare alla sua autorità, vennero sconfitti e, per dare
l’esempio, due dei loro sceicchi vennero impiccati. La rimanente
popolazione di origine araba venne deportata in massa sul continente
presso Lucera in Puglia e a Nocera in Campania. A queste
popolazioni, Federico II concesse terre coltivabili e creò le
condizioni affinchè non venissero molestate in alcun modo dai
feudatari locali. Grazie a questo suo accorgimento, questi Saraceni
le rimasero fedeli fino alla fine, fornendogli reparti militari
scelti, sui quali egli potè contare per tutta la durata del suo
regno. I nemici principali dell’Imperatore si trovavano fuori dai
territori di Federico II, infatti, la sua doppia investitura di
Imperatore di Germania e re di Sicilia, rendeva molto sospettosi i
Comuni dell’Italia settentrionale ed il Papato, che venivano a
trovarsi stretti in una morsa da Nord a Sud. Per questo motivo essi
lottarono duramente contro di lui. Federico II riuscì a tenere a
bada il Papato, finchè venne retto da papa Onorio III. Le cose
cambiarono quando nel 1227, salì al soglio pontificio Gregorio IX
che con la sua fierezza rese inevitabile lo scontro. Federico II
venne costretto ad adempiere alla sua promessa di partire per la
crociata: pochi giorni dopo la sua partenza, a causa di una
pestilenza scoppiata a bordo delle navi della flotta, fu costretto a
rientrare, incorrendo così nella scomunica del papa. Partito per una
seconda volta, Federico II raggiunse la Terra Santa, dove trovò
scarsa collaborazione da parte dell’arcivescovo di Gerusalemme e dei
Cavalieri Templari, restii a fornire il proprio appoggio ad un
imperatore scomunicato. Per questo motivo, egli, anzichè
intrapprendere una guerra logorante contro i Musulmani, preferì
scegliere la diplomazia, ottenendo un pieno successo. Federico II
riuscì infatti ad ottenere il possesso di Gerusalemme e di Betlemme,
con una striscia di terra che consentiva il collegamento al mare.
Completò il proprio successo autonominadosi re di Gerusalemme.
Questo suo aumento di potere, convinse Gregorio IX a far invadere il
regno del Sud da milizie mercenarie, sovvenzionate dai ricchi Comuni
del Nord Italia. Di fronte a questa aperta dichiarazione di guerra,
Federico II rientrò immediatamente in Italia, riconquistando in
poche settimane il proprio regno e invadendo lo Stato della Chiesa.
Nel 1230, il papa fu costretto a sottoscrivere la Pace di San
Germano, con la quale Gregorio IX acconsentiva a togliere la
scomunica all’Imperatore e a riconoscere l’unione della corana di
Germania con quella di Sicilia. Ma questa pace forzata era destinata
a durare poco: i Comuni settentrionali si riunirono nuovamente sotto
i vessilli della Lega Lombarda, dando inizio ad una nuova guerra,
con il sostegno del papa. Le forze comunali di parte guelfa, ossia
partigiani del papa, si scontrarono con le truppe dei ghibellini,
che sostenevano l’Imperatore. Fra queste ultime particolare
importanza rivestivano le forze messe in campo dalla città di Pisa e
dalla signoria creata in Veneto da Ezzelino da Romano, che
comprendeva le città di Treviso, Vicenza, Verona e Padova. nel 1237,
nella battaglia di Cortenova, gli imperiali sconfissero l’esercito
della Lega Lombarda, ma questa vittoria non servì a porre fine alla
guerra. Nel frattempo, Gregorio IX riuscì a coinvolgere nel
conflitto le due potentissime repubbliche marinare di Genova e
Venezia e scomunicò nuovamente Federico II indicendo un grande
concilio a Roma, per confermare la nuova condanna inflitta al re.
Nel 1241, le navi genovesi incaricate di portare a Roma un gran
numero di prelati diretti al concilio, vennero attaccate e
annientate dalla flotta imperiale nelle acque antistanti l’isola del
Giglio, causando l’annullamento del concilio stesso. Gregorio IX ,
ormai centenario, morì poco dopo. Suo successore per un breve
periodo, fu Celestino IV, al quale succedette Innocenzo IV, papa
discendente dalla potente famiglia guelfa genovese dei Fieschi, che
riprese immediatamente la lotta contro Federico II: egli convocò un
concilio a Lione, che proclamò l’imperatore eretico e quindi
decaduto dal regno. Federico II marciò allora alla volta di Lione,
che all’epoca era un possedimento imperiale, con la volontà di
sorprendervi il papa, ma venne trattenuto in Italia da nuove
ostilità scatenate dai Comuni settentrionali. Assediata la città di
Parma, egli subì una prima grave sconfitta nel 1248; l’anno
successivo, venne nuovamente sconfitto dai bolognesi a Fossalta,
dove presero prigioniero suo figlio Enzo, che rimase in prigionia a
Bologna per 23 anni, fino alla sua morte. Gli ultimi anni di vita di
Federico II furono molto tristi: il suo primogenito Enrico, al quale
aveva affidato il governo della Germania, gli si era ribellato, ma
sconfitto e fatto prigioniero, morì in prigionia; anche i suoi
ministri più fidati lo avevano lasciato: Taddeo da Sessa, morì in
battaglia, mentre Pier delle Vigne, accusato di tradimento venne
torturato e imprigionato: alla condanna a morte preferì il suicidio.
Intanto, all’interno del regno stremato dalle continue lotte, si
moltiplicavano le cospirazioni. Nonostante tutto ciò, nel 1250,
Federico II era pronto a riprendere la lotta, quando morì
improvvisamente a Castel Del Monte, nei pressi di Bari. Le sue
spoglie mortali, vennero sepolte nella cattedrale di Palermo.
La fine della casa di Svevia
Alla morte di Federico II di Svevia, gli succedette sul trono il
figlio Corrado, che assunse da imperatore il nome di Corrado IV.
Egli morì dopo soli quattro anni di regno, senza essere riuscito a
riconciliarsi con il Papato e lasciando il trono imperiale al
figlioletto di due anni, sotto la tutela materna. Di questa
situazione approfittò Manfredi, il figlio naturale di Federico II e
da questi incaricato della reggenza del regno di Sicilia. Egli si
fece incoronare re a Palermo, separando in questo modo la corona
imperiale da quella reale, creando in questo modo la possibilità di
una vita più tranquilla per il regno meridionale. Per assicurarsi il
trono, Manfredi riprese ad immischiarsi nelle questioni italiane,
assumendo il ruolo di capo della fazione ghibellina. In questa veste
non gli mancarono i successi, il più importante dei quali fu la
vittoria nella sanguinosa battaglia di Montaperti nel 1260, nella
quale le forze ghibelline toscane, capeggiate da Siena, sconfissero
la guelfa Firenze. Furono proprio questi suoi successi ad attirarle
l’ostilità del pontefice. Papa Clemente IV, di origine francese,
chiese l’aiuto di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi
IX, offrendole in cambio la corona di Sicilia, che i pontefici
avevano sempre considerato un feudo pontificio. Allettato dalla
proposta, questi scese in Italia con un esercito di 30.000 uomini.
Egli potè recarsi nel meridione praticamente indisturbato, grazie
anche all’appoggio delle città guelfe. Giunto ai confini del regno
del Sud, riuscì facilmente a penetrarvi grazie alla defezione di
molti baroni meridionali, e nel 1266, si scontrò con l’esercito di
Manfredi presso Benevento. La fuga o il tradimento di molti baroni,
decisero le sorti dello scontro. Manfredi rimasto con pochi
fedelissimi a sostenere la battaglia, cadde ucciso e Carlo d’Angiò,
assunta la carica di nuovo re, s’insediò a Napoli, la sua capitale.
Due anni più tardi, il figlio di Corrado IV, sedicenne, che in
Italia venne soprannominato Corradino, decise di scendere nella
penisola per riconquistare i propri possedimenti italiani. Facendo
affidamento sulla resistenza dei fedeli Saraceni di Lucera e sulla
ribellione delle popolazioni siciliane, stufe delle ruberie e delle
efferatezze commesse dagli inviati dell’Angioino, egli si diresse
verso il Sud alla testa di un buon esercito. Giunto a Tagliacozzo,
in Abruzzo, ripetè lo stesso errore di Manfredi, rischiando il regno
e la propria vita in un’unico scontro, prima ancora di aver raccolto
attorno a se tutte le forze disponibili. Sconfitto dagli esperti
comandanti francesi, perse tutto il suo esercito, tentando poi una
fuga che si concluse con la sua cattura da parte del nobile romano
Frangipane, che poi lo vendette a Carlo d’Angiò. Questi lo condannò
a morte come ribelle e nel 1268 Corradino, l’ultimo discendente
della casa di Svevia, venne decapitato sulla piazza del mercato di
Napoli, ponendo fino ad un casato che per circa un secolo e mezzo
aveva dominato la scena politica europea.
Dal regno Angioni al regno Aragonese
I nobili francesi che avevano partecipato alla conquista del regno
di Sicilia a fianco di Carlo d’Angiò, si precipitarono sui centri
del meridione avidi di bottino. Molti dei feudatari locali, anche
quelli che tradirono Manfredi per schierarsi con il principe
francese, vennero uccisi o spogliati di ogni loro bene a vantaggio
dei nuovi venuti. Per ingraziarsi il Papato, Carlo d’Angiò fece alla
Chiesa ampie donazioni di beni del demanio regio, che divenivano di
conseguenza beni feudali, causando in tal modo un peggioramento del
tenore di vita dei contadini. Il re stesso era oberato di debiti
contratti per l’organizzazione della spedizione in Italia, oltre
alle somme che doveva pagare alla corte pontificia in cambio
dell’investitura ricevuta. Ai saccheggi e alle ruberie seguite alla
conquista, fece seguito una durissima imposizione fiscale. Infatti i
tributi richiesti in via eccezionale, prima da Federico II e poi da
Manfredi, per sopperire alle necessità belliche, sotto la
dominazione angioina divennero permanenti. In questo modo il regno
meridionale, già prostrato per le continue guerre combattute dagli
ultimi Svevi, perse definitivamente la floridezza che aveva
raggiunto sotto la dominizazione degli Arabi e dei Normanni. Le
ambizioni di Carlo d’Angiò andavano ben oltre i confini del regno di
Sicilia e, come già gli Svevi prima di lui, anch’egli iniziò ad
immischiarsi nelle questioni italiane, con l’unica differenza che
parteggiava per la fazione guelfa anzichè ghibellina. I risultati
furono però identici a quelli ottenuti dagli imperatori tedeschi: un
aumento della confusione e delle lotte fratricide in Italia e il
risveglio di antichi timori nella corte Papale, sempre diffidente
nei confronti del rafforzamento del regno nella rimanente parte
della penisola. Il re francese mirava inoltre ad abbattere l’Impero
Bizantino e a sottomettere la Grecia e la Tracia. Nel contempo, per
assecondare la sua politica di espansione ad est, fece sposare al
proprio figlio la figlia ed erede del re d’Ungheria. Convinse infine
il fratello Luigi IX, re di Francia a compiere una crociata a
Tunisi, per poi in caso di successo, impadronirsi dell’opposta
sponda del Mediterraneo. Questo suo sogno restò tale, poichè Luigi
IX, giunto a Tunisi vi morì di peste. Anche in Italia le cose non
andarono benissimo: contro la sua politica che portò al
trasferimento della capitale da Palermo a Napoli, si coalizzarono
molte forze. Nel Nord Italia i ghibellini riuscirono a riconquistare
i territori piemontesi occupati in precedenza dal suo esercito, ed
il Papato, turbato dall’ambizione di questo sovrano, gli revocò la
carica di Senatore di Roma, che le aveva accordato in precedenza. Ma
le difficoltà maggiori provenivano dall’interno del suo regno, dove
i nobili siciliani avevano ripreso a cospirare, rivolgendosi in
cerca di aiuto presso la corte di Pietro III, re di Aragona e genero
di Manfredi; alla sua corte trovarono sicuro rifugio numerosi
dignitari della casa di Svevia perseguitati dagli Angioini, fra i
quali il famoso medico Giovanni da Procida ed il grande ammiraglio
Ruggero di Lauria. La cospirazione dei nobili ebbe pieno successo
grazie allo sfruttamento di un tumulto popolare scoppiato a Palermo
il martedì di Pasqua del 1282. All’ora del Vespro - da qui derivò il
nome di questo storico episodio (Vespri Siciliani)- un soldato
francese, che aveva offeso una ragazza siciliana, venne ucciso dal
fidanzato di questa. Da questo episodio prese il via un tumulto nel
corso del quale, il popolo palermitano si gettò sui francesi
massacrandoli. Alimentata dalla nobiltà, la rivolta si estese a
tutta l’isola, dalla quale in meno di due mesi vennero cacciati gli
invasori francesi. Fu a questo punto che intervenne la flotta
aragonese, che unita a quella siciliana sotto il comando di Ruggero
di Lauria sconfisse ripetutamente gli Angioini, riuscendo perfino a
catturare nelle acque del Golfo di Napoli il primogenito di Carlo
d’Angiò, Carlo lo Zoppo. Per l’equilibrio delle forze in campo, la
guerra del Vespro durò ancora vent’anni, finchè nel 1302 venne
stipulata la Pace di Caltabellotta, che sancì il passaggio della
Sicilia a Federico III, il figlio di Pietro III di Aragona. Fu la
prima regione italiana a cadere sotto la dominazione spagnola, sotto
la quale rimase per quattro secoli.
Battaglia di Campaldino
La battaglia si svolse l’11 Giugno del 1289 nella piana alluvionale
dell’alto Casentino estesa sulla riva sinistra dell’Arno poichè i
Guelfi decisero di sorprendere gli avversari passando per il Passo
della Consuma, tragitto montano tutt’altro che agevole nel XIII
secolo, invece che scendere in Valdarno, naturale percorso da
Firenze verso Arezzo. Consapevoli della loro inferiorità numerica ma
anche del loro superiore addestramento gli aretini riposero la
possibilità di ottenere la vittoria conducendo un deciso attacco al
centro dello schieramento avversario furono gli aretini, com’era uso
all’epoca, a mandare il guanto di sfida agli avversari per chiedere
battaglia. I fiorentini, accettata la sfida, schierarono le truppe
in tre file compatte con le ali protette da speciali fanti dotati di
grandi scudi (palvesi) mentre gli aretini si disposero secondo la
consueta disposizione a tre file: la prima formata dai fenditori a
cavallo; la seconda dal resto della cavalleria e la terza dai fanti.
La battaglia iniziò con il subitaneo attacco della cavalleria
ghibellina diretto al cento dello schieramento nemico con l’evidente
scopo di spezzarne le file prima che il numero delle forze
avversarie prendesse il sopravvento. In effetti la carica dei
fenditori e delle unità appiedate che seguivano al grido di San
Donato Cavaliere (il patrono di Arezzo) produsse un impatto
dirompente penetrando profondamente nella formazione guelfa che fu
costretta ad arretrare. Ciò nonostante le file fiorentine riuscirono
a ricompattarsi e quindi a prendere lentamente il sopravvento
bloccando il nemico tra le ali di fanteria. Il definitivo colpo di
grazia alle truppe ghibelline fu inferto dal fiorentino Corso Donati
che, in contrasto con l’ordine ricevuto di mantenere la posizione,
al comando della cavalleria di riserva guelfa di Lucca e di Pistoia
attaccò al fianco i nemici già in mischia. Dal lato opposto il
comandante della riserva aretina Guido Novello non fu altrettanto
valoroso e vista la mala sorte, fuggì nel suo castello. La battaglia
per i ghibellini era perduta, fortunatamente per loro i resti
dell’esercito trovarono rifugio entro le mura di Arezzo grazie ad un
forte temporale che ostacolò l’inseguimento dei vincitori. La
vittoria ottenuta a Campaldino non fu determinante per la
risoluzione del conflitto tra i Fiorentini ed i Guelfi di Toscana
contro i Ghibellini poichè i vincitori, invece di proseguire
rapidamente verso Arezzo, indugiarono nell’assedio dei castelli del
Casentino dando così tempo ai Ghibellini per riorganizzarsi.
L’evento storico di Campaldino è ricordato da una colonna eretta nel
1921 sulla strada statale (al bivio verso Pratovecchio).
Un’iscrizione sul monumento (Inferno XXII, 4-5) ricorda che Dante
Alighieri partecipò alla battaglia come feditore a cavallo guelfo,
cioè nel ruolo di cavaliere schierato nelle prime file incaricate di
iniziare lo scontro con il nemico.
Alcuni numeri:
Nella piana si affrontano l’armata Guelfa composta da Fiorentini,
Pistoiesi, Lucchesi e Pratesi e comandata da Amerigo di Nerbona e
l’armata Ghibellina composta da Aretini e comandata dal Vescovo
Guglielmino degli Ubertini. L’armata Guelfa conta 1900 cavalieri e
10000 fanti, mentre l’armata Ghibellina conta di 800 cavalieri e
10000 fanti. Per l’armata Guelfa è di riserva la cavalleria e
fanteria di Pistoia e Lucca al comando di Corso Donati composta da
200 cavalieri ed un numero imprecisato di fanti. Per l’armata
Ghibellina è di riserva la cavalleria di Guido Novello composta da
150 cavalieri. A Campaldino al centro della prima linea dei
fenditori Guelfi c’era un giovane ragazzo che combatteva per i Vieri
de’ Cerchi dal nome Dante Alighieri.
L'età dei Comuni
L'importanza storica dei Comuni
I Comuni non significarono la fine immediata del feudalesimo, poichè
di fronte al re o all’imperatore, essi non erano altro che dei
vassalli come i signori feudali; l’unica differenza stava nel fatto
che essi erano dei vassalli collettivi. I diritti che i Comuni
riuscirono a conquistare altro non furono che dei privilegi concessi
alle città o alle diverse categorie di cittadini, del tutto simili
ai privilegi concessi ai vari signori feudali. Di conseguenza con la
nascita dei Comuni, non si uscì ancora dalla struttura giuridica
feudale.All’interno dei Comuni non vigeva la democrazia, dal momento
che il governo era nelle mani di una minoranza; ancor meno si poteva
parlare di democrazia nei rapporti tra il Comune ed i sudditi delle
campagne. Molti villaggi restavano feudi del Comune e una persona
che in città era un semplice cittadino, fuori dalle mura della città
poteva essere un potente feudatario. Così come la struttura politica
e giuridica del feudalesimo non venne distrutta con l’avvento dei
Comuni, allo stesso modo rimase integra la struttura economica:
nonostante in tutta l’Europa occidentale le città fossero ormai
fiorenti e offrissero sicurezza e lavoro, esse furono sempre
scarsamente popolate. Infatti, la maggioranza della popolazione
viveva nelle campagne ed era appena sfiorata dal commercio e
dall’economia di mercato. Nonostante tutte le manchevolezze,
l’importanza storica dei Comuni fu enorme: essi introdussero
nell’economia, nel diritto, nella cultura e nella politica feudale,
quel germe che sviluppandosi, avrebbe condotto nel corso dei secoli
alla fine del feudalesimo. Nei Comuni venne affermata per la prima
volta la libertà personale di tutti gli abitanti fossero essi nobili
o poveri. Le attività artigianali e commerciali da essi promosse,
prepararono quei rivolgimenti della struttura economica che si
affermarono poi nell’epoca moderna. Le città furono inoltre le più
fide alleate delle varie monarchie, nella lotta che queste
condussero per la costituzione degli Stati nazionali.
Le caratteristiche dei Comuni
Il Comune fu un’associazione giurata, libera e volontaria di
cittadini che ottennero di potersi governare in modo autonomo e per
mezzo di propri rappresentanti. Il governo comunale verteva su di
un’ assemblea di liberi cittadini detta Arengo o Parlamento, che
aveva il compito di esercitare il potere, di deliberare sulle
questioni più importanti ed eleggere i capi del Comune, i consoli o
giudici, che venivano eletti dall’assemblea ed erano i capi
effettivi del Comune; essi restavano al potere per un periodo
variabile da città a città di due o quattro anni. Altro organo
politico del governo comunale consisteva nei consigli, eletti
anch’essi dall’assemblea, che svolgevano funzioni consultive,
collaborando con i consoli nel disbrigo delle pratiche di governo. A
seconda delle località e delle vicende storiche, i Comuni subirono
vari cambiamenti nella loro struttura, pur conservando inlterate le
proprie caratteristiche nel corso delle fasi evolutive che possono
distinguersi in tre diversi periodi: il Periodo consolare,
caratterizzato da un predominio dei feudatari residenti nelle città
sulla borghesia. Si trattava nella maggior parte dei casi di
appartenenti alla piccola nobiltà contadina, cavalieri o valvassori,
che avevano collaborato alla costituzione del Comune per sottrarsi
alla sudditanza dei grandi feudatari, trasferendosi in città con le
proprie milizie. Ad essi andavano aggiunti i feudatari
ecclesiastici, i vescovianch’essi con proprie milizie al seguito e i
grandi mercanti. Tutti costoro riuscirono con la forza del denaro e
delle armi a prevalere nei Comuni, esercitando il loro potere per
mezzo dei consoli, del Consiglio maggiore, costituito da loro
stessi, e del Consiglio di Credenza o Consiglio minore, un’assemblea
ancor più ristretta alla quale spettava il compito di deliberare
sugli affari più importanti, affiancando in questo i consoli. In
questo modo tutte le cariche pubbliche erano ad esclusivo
appannaggio dei nobili. Per contrastare questa situazione, la
borghesia si coalizzò nelle associazioni di arti. Nel corso del
Periodo podestarile, questa situazione causò gravi disordini, resi
ancor più gravi dalla formazione all’interno dei Comuni di alcune
fazioni organizzate. Questi scontri danneggiarono l’attività
economica e ciò determinò l’esigenza di di adottare una compagine
governativa imparziale. Venne così creata una nuova autorità: il
podestà. In questo modo si mise fine ai governi oligarchici, pur
mantenedo il Comune un carattere aristocratico. Per garantirne
l’imparzialità, il podestà venne spesso scelto tra i cittadini di
altri Comuni; questi era soggetto a vari vincoli che ne garantivano
l’imparzialità, come ad esempio, il limite posto al tempo di durata
della carica e l’impegno a non stringere relazioni con i cittadini.
Nel corso della terza fase, detta Periodo del governo dele arti, la
borghesia si organizzo nelle corporazioni, dotandole nel tempo anche
di una valida organizzazione. A capo di esse erano posti dei priori.
Per proteggersi dalle prepotenze dei nobili, la borghesia si dotò in
seguito anche di una propria milizia, alla testa della quale era
posto un capitano del popolo. In questo terzo periodo, la borghesia
riuscì a raggiungere il potere tramite i priori, che sostituirono i
podestà. Ma questo non bastò a porre fine agli scontri, in quanto le
lotte di classe persistevano; gli scontri aumentarono quando nella
lotta per il potere entrò anche il popolo organizzato nelle arti
minori, denominato popolo minuto. Le varie fazioni si alternarono al
potere, perseguitando e bandendo dalle città gli sconfitti. Questa
fu la causa che portò alla decadenza dei Comuni, rendendo possibile
l’avvento nelle città di principi o signori, che furono dei veri e
propri sovrani assoluti. Ebbe così termine il periodo comunale ed
iniziò il periodo delle Signorie.La popolazione comunale era
suddivisa per classi sociali e sia in Italia che all’estero essa
comprendeva generalmente: igrandi o magnati, classe che inizialmente
comprendeva i grandi feudatari, ai quali si unirono successivamente
i piccoli feudatari e più avanti i borghesi arricchiti, diventati
nobili per privilegio imperiale; il popolo o civitas, comprendente
tutti coloro che esercitavano attività economiche e che avevano il
diritto di partecipare alla vita politica. Il popolo si distingueva
a sua volta in popolo grasso, organizzato nelle arti maggiori, che
comprendevano i banchieri, i mercanti, i giudici, i notai e altre
professioni ritenute di maggiore importanza e in popolo minuto,
organizzato nelle arti minori quali artigiani, maestri d’arte e
bottegai.Ultima classe sociale era la plebe, composta dai lavoratori
dipendenti privi di diritti politici. La formazione di un ampio ceto
cittadino partecipante alla vita politica, portOgrave; alla
diffusione di nuovi istituti di istruzione, in molti casi promossi
dai Comuni. In questo modo si incentivò la diffusione della cultura
nel mondo laico e fiorirono gli Studia, scuole d'insegnamento
superiore, dalle quali si svilupparono successivamente le
Università. I migliori maestri dell’epoca insegnarono diritto a
Bologna e a Padova, medicina a Padova e a Salerno, mentre la
letteratura iniziava a diffondersi fra il popolo: vennero
abbandonati i temi cavallereschi di origine francese e iniziò ad
esprimersi in volgare l’ispirazione religiosa derivante dal
misticismo francescano. Nacque il teatro popolare basato
inizialmente su temi religiosi quali le Sacre rappresentazioni ed i
Misteri come quelle composte da Jacopone da Todi. La poesia trovò
accenti tra il realistico ed il popolare, come quelli utilizzati dal
poeta toscano Cecco Angiolieri da un lato, mentre dall’altro subiva
un’evoluzione fino a giungere al raffinato stil novo del Guinizelli
e del Cavalcanti. Un’altissima sintesi della civiltà comunale fu
data da Dante Alighieri (1265-1321). In quest’epoca l’arte è
caratterizzata dallo stile Romanico, il cui centro di maggiore
diffusione fu l’Italia settentrionale. Le cattedrali romaniche erano
dominate da volte a crociera, mentre le navate erano contornate da
sottili colonne; le facciate, divise da pilastri, presentavano ampi
portali sormontati da rosoni. I palazzi comunali di linee
estremamente pure, erano affiancati da torri campanarie. Nella
pittura, allo stile Bizantino si sostituì un vigoroso realismo i cui
massimi interpreti furono Cimabue e Giotto. Bellissime piazze sulle
quali si affacciano contemporaneamente la cattedrale, il palazzo
comunale e in molti casi anche il palazzo del capitano del popolo,
restano in molte città e cittadine italiane a dimostrazione di una
civiltà che volle le città costruite a misura d’uomo.
Le corporazioni e le Confraternite
Una delle tante eredità che l’antichità lasciò al medioevo furono i
primi prototipi di corporazioni.
Più o meno chiaramente e direttamente ma è certo che i corpi e
collegia romani furono i primi esempi di quelle che poi, nel
medioevo, diventeranno, appunto, le corporazioni.
Tralasciando i motivi della loro nascita, mi limito solo a far
sapere che le difficoltà imperiali, obbligavano queste collegia a un
vincolismo rigido.
Era quindi impossibile l’abbandono di un mestiere da parte di chi lo
esercitava: un figlio di un calzolaio doveva fare per forza il
calzolaio e così via…
Questi vincoli sono da ricercare nelle varie riforme che
l’imperatore Diocleziano (284-305) attuò nel corso del suo governo.
Ma tale vincolismo ebbe effetti negativi sui lavoratori: scoraggiò,
ma non eliminò del tutto la fuga dei mestieri e svuotò di ogni
elasticità e dinamicità l’economia romana tardo-imperiale.
Nel V secolo si ebbe una liberalizzazione dei mestieri per poi
tornare alla rigidità con il periodo ostrogoto in Italia, per
ovviare alla crisi di produzione.
Nel mondo barbaro, il lavoro è considerato ai livelli più bassi;
questo significa che andarono perdute ogni forma di associazione che
non producesse beni di pubblica utilità.
Non diversa era la concezione nella sfera bizantina, ove erano solo
strumenti totalmente subordinati all’impero.
Qual’è dunque l’anello mancante tra le corporazioni medievali e i
rudimentali strumenti dell’antichità e del primo periodo dell’ età
di mezzo?
Tale anello sembrerebbe essere quell’ organizzazione
franco-longobarda di età ottoniana (metà X secolo).
La prova di questo è da ricercarsi in un documento: le Honoratie
civitatis Papie un documento dell’XI secolo.
Gli artigiani che praticavano lo stesso mestiere erano riuniti in
ministeria; tali strumenti erano solo “espressioni di un sistema
vincolistico sopravvissuto” sia per l’area del nord Italia, sia per
l’area bizantina.
Ma molti erano i contrasti tra i ministeria e il potere politico che
le vincolava e frenava i il loro dinamismo economico.
E qui nascono le differenze locali: si va dall’episodio più
eclatante di Pavia nel 1025 ove ci fu una vera e propria rivolta a
episodi più morbidi, con coesistenze tra le due diverse forme.
A Pisa, nel XII, il commercio del vino, grano e dell’olio,
dipendevano ancora dal visconte etc…ossia, diritti pubblici
esercitati sui mestieri dell’approvvigionamento della città.
Ma anche altre corporazioni protrassero per tutto il medioevo questi
vincoli di ministerialità: fabbri, muratori, acquaioli…
Anche servizi pubblici ben più ampi e straordinari venivano
esercitati facendo svolgere ai propri membri una funzione di vigili
del fuoco e altri casi di emergenza. Dal XII secolo però queste
associazioni si svincolano dal potere e si incentravano sul libero
associazionismo, dal rapporto confraternale e di mutuo soccorso.
Difatti prima del XIII secolo è difficile fare una distinzione tra
corporazioni e confraternite e anche quando ciò avvenne, esse
conservarono molti aspetti comuni. Le corporazioni però accentuavano
sempre più la loro vocazione economica eliminando forme di
concorrenza, garantendo un prezzo di mercato (o calmierato). Non è
un caso inoltre che dal XII secolo compaiono sempre più atti
pubblici firmati da arti o dai loro “capi” insieme ai rappresentanti
del potere politico.
Com’era organizzata una corporazione?
Al suo vertice c’erano i maestri che dettavano le direttive, la
proteggevano da fuoriuscite di tecniche e conoscenze, redigevano gli
statuti e tenevano rapporti coi lavoratori subalterni.
Si diventava maestro solo dopo un lungo periodo di apprendistato: il
discepolo lavorava e viveva insieme al maestro.
Modi, tempi e costi furono presto regolamentati: si andava dal
notaio tra la famiglia dell’ apprendista e il maestro, si
controllava la provenienza, in alcuni casi si controllava perfino
che non avesse vincoli con qualche signore…insomma, l’ingresso
all’apprendistato era molto difficile, generalmente non più di due
per maestro.
L’apprendista pagava il maestro che, in cambio di vitto e alloggio,
aveva anche manodopera a costo zero.
L’inizio avveniva quando il ragazzo aveva dodici o quattordici anni
e variava anche il numero totale di anni di apprendistato.
Il tempo passato in apprendistato era molto importante, perfino più
della prova finale.
Tale prova, il capolavoro cioè un manufatto realizzato a regola
d’arte che l’allievo doveva presentarlo ai maestri per ricevere il
permesso di entrare nella corporazione (dietro anche a una tassa di
accesso).
Ma non erano cose fisse: se gli affari andavano male e c’era una
crisi generale, i tirocini e le tasse aumentavano, viceversa
diminuivano se era un periodo economicamente florido.
Ma c’erano altre difficoltà quali, ad esempio, il fatto che non
tutti potevano permettersi una risorsa che non solo era
immobilizzata ma che in più richiedeva un costo per il suo
mantenimento dal maestro. Inoltre non era nemmeno facile aprire in
proprio una bottega. Infatti era cosa molto comune che i figli degli
artigiani stessi seguissero le orme paterne ereditando la bottega e
il lavoro.
I maestri detti “forestieri”, uomini provenienti dalle altre città
ma anche da altri paesi, erano spesso presenti nei periodi di
espansione economica, e per entrare in una corporazione, prendevano
la cittadinanza e pagavano una tassa di immatricolazione.
Invece nei momenti di difficoltà economica potevano nascere frizioni
tali da comportare, in casi limite, la creazione di due corporazioni
per lo stesso mestiere: una composta dai locali e l’altra dai
forestieri.
Molto forte era la rete di solidarietà all’interno delle
corporazione e confraternite: nei confronti di membri ammalati o
feriti si facevano sovvenzioni alla sua famiglia; per i defunti si
esercitava la pietas degli altri membri.
I lavoratori stranieri, soprattutto nel Quattrocento e Cinquecento,
avevano a loro disposizione ospedali riservati all’accoglienza di
lavoratori della loro natio. E le donne?
Il rapporto donne-corporazioni fu complesso.
Nell’ Europa del Nord fu abbastanza semplice, in quanto non solo
ebbero facile accesso, ma anche avevano proprie corporazioni
femminili.
In Italia invece, anche nei casi previsti, esse furono sempre
estromesse e in subalternità al maschio.
Questo discorso, in genere, valeva solo per alcune corporazioni come
quella del tessile, alberghi, locande...ma è possibile trovare donne
anche in mestieri non prettamente femminili come i fabbri, falegnami
e muratori.
Ma in questi ultimi casi vi ci erano entrate solo perché il marito,
defunto, gliela aveva lasciata in eredità.
Ma mille erano i modi di fare ostruzionismo nei loro confronti:
tasse di iscrizione esorbitanti per loro, considerare decadute le
vedove dalla corporazione etc…
Per quanto riguarda le regole di una corporazione, possiamo dire che
essa ricalcava, in genere, lo statuto di un comune.
Anzi era proprio il comune a controllarne la compilazione e, in
genere, i vari statuti si assomigliavano da corporazione a
corporazione, tranne quelli della lana e della mercanzia che erano
un po’ più diversi, data la loro estrema importanza nell’economia di
una città.
In comune c’erano le regole per accedervi, le cariche più
importanti, le varie disposizioni per la convivenza tra i maestri,
le giornate in cui era proibito lavorare, esortazioni a esercitare
il proprio mestiere con coscienza, obblighi morali e religiosi per i
vari membri…raramente si può trovare delle fonti che parlano dell’
organizzazione del lavoro.
I luoghi d’Europa in cui si svilupparono maggiormente le
corporazioni erano l’Italia, le Fiandre, la Francia, Penisola
Iberica e alcune città tedesche.
Quello che le differenzia era come si proponevano nei confronti
della politica: in Francia e nell’Italia del sud furono sempre sotto
tutela regia (proprio nel sud Italia si formarono tardi, in epoca
angioina).
Le confraternite europee non si differenziarono molto da quelle
italiane: erano luoghi ove la priorità era la preghiera e non il
lavoro.
Guardiamo meglio l’Italia centro-settentrionale.
Non sempre il binomio corporazione-comune è reale, cioè non sempre
la corporazione comanda in città; questo discorso vale per Firenze
dove il potere economico era identico a quello politico invece a
Milano le due componenti trattavano alla pari senza però essere la
stessa cosa mentre a Venezia le arti furono sempre subalterne al
potere politico.
Inoltre bisogna precisare anche che l’affermazione politica del
“popolo” non è identica a quella delle arti.
Il “popolo” formò proprie strutture organizzative e una sua egemonia
in molte città del nord Italia ma nei luoghi dove questo non
avvenne, fu il ceto mercantile e non gli artigiani, a prendere il
potere.
Ma è anche vero che le arti, in certi casi, aiutarono il popolo
nella sua ascesa. Resta però il fatto che “popolo”, arti, nobiltà e
signori erano enti politici differenti e che erano possibili tutte
le combinazioni di alleanze tra le varie componenti e non un
fenomeni generalizzati.
Inoltre il “popolo”, come definizione, varia da città a città, da
situazione a situazione e quindi non sempre la sua connessione con
le arti è netta e precisa.
I mestieri dei Giudici e Mercanti erano talmente importanti che,
soprattutto nel XII secolo, finirono per esercitare una tutela
giurisdizionale anche sulle altre corporazioni (questo vale a
maggior ragione per i mercanti).
I mercanti erano dunque una corporazione che tutelava i propri
membri e una sovracorporazione in quanto dirigeva l’intera economia
e quindi esercitava una notevole influenza anche nelle altre
corporazioni.
Inoltre, per tutto il Medioevo, continuarono anche a svolgere una
funzione pubblica: regolamentarono l’applicazione di pesi e misure,
il diritto di rappresaglia etc… Nelle processioni laico-religiose
cittadine, le varie corporazioni sfilavano a parata seguendo un
ordine ben preciso, e questo ci dà l’idea della loro importanza e
del peso che avevano in una città: giudici, notai e mercanti
occupavano le prime file, poi venivano gli artigiani metallurgici
(fabbri, orafi etc…), quelli del cuoio, l’abbigliamento.
È scontato dire che per alcune arti, il loro peso varia da città a
città: i macellai (o “becchai”) erano insieme alle arti del tessile,
spadai, speziali…ma altre volte erano in posizioni più marginali.
Osti e tavernieri sfilavano, generalmente, in fondo insieme al
vettovagliamento, ai pittori, barbieri, falegnami.
Infine lardaioli, mugnai, facchini, vetrai e altri mestieri di basso
prestigio sociale, non perché fossero inutili, ma, visto che su di
loro continuava a esser ben presente un controllo comunale che li
vincolava a forme di ministerialità, essi avevano ben poca
indipendenza decisionale.
Non tutto il lavoro veniva organizzato in corporazioni, solo i
mestieri più importanti. Chi esercitava un lavoro in maniera libera,
come piccoli artigiani, era esente da una tutela, da un aiuto (non a
caso, nel Trecento, quando questi si rivoltarono, chiesero di
costituirsi a corporazione).
Soprattutto in certi settori, come il tessile e la lana, i conflitti
tra corporazioni e lavoratori liberi erano più complessi: come un
primo distacco da capitale e forza lavoro, dove si accentuavano
sempre più i lavoratori specializzati rispetto a quelli che
conoscevano tutta la catena di produzione e il ricorso a manodopera
salariata, a un maggior controllo degli orari e della produttività.
A metà Trecento, in città come Siena e Firenze, tra le corporazioni
della lana e i lavoratori salariati ci furono tumulti e frizioni.
I Ciompi fiorentini del 1378 e a Siena nel 1371 non furono altro che
esempi di tali rivalità dovute, in gran parte, alla crisi del
Trecento e che volevano rovesciare tutte le strutture istituzionali,
quindi anche le corporazioni.
Ma se a Siena la repressione portò a un allargamento temporaneo
anche ai lavoratori subalterni, a Firenze si ebbe un inasprimento.
Proprio la crisi del Trecento portò con sé una necessità di
riconsiderare il lavoro corporativo, ristrutturando il modo di
produzione.
Si incominciò a utilizzare la manodopera delle manifatture rurali,
non inquadrate a tutte quelle regole corporative come i minimi
salariali.
Inoltre le corporazioni non erano adeguate a un mercato sempre più
di massa, con prodotti di minor pregio ma anche di minor costo.
Questa erosione avvenne in primis nelle Fiandre che, con una
progressiva liberalizzazione, smantellò tutte le strutture
corporative.
In Italia non è chiaro l’indirizzo preso.
Ci si mantenne su un indirizzo di manufatti di lusso e a una
struttura delle arti e queste ultime non furono trasformate
dall’economia.
Ciò che cambiò furono le istituzioni, coi signori e le famiglie, che
privaronole corporazioni della loro indipendenza decisionale; si
mantenne però la parte religiosa e assistenziale ma furono anch’esse
inquadrate all’interno del disciplinamento ecclesiastico del
Cinquecento.
Sia le corporazioni che le confraternite furono private del loro
potere decisionale e divennero strumenti in mano a altri soggetti
(stato, Chiesa, privati…) fino alla loro progressiva scomparsa.
Le corporazioni artigiane nel periodo dei Comuni
Nelle città medievali la produzione di manufatti e altre lavorazioni
tese alla realizzazione di oggetti di uso comune e prodotti
destinati all'esportazione, veniva svolto dagli artigiani. Ognuno di
essi era un piccolo imprenditore che realizzava le proprie merci
all’interno della sua bottega, utilizzando per la realizzazione
delle stesse propri strumenti di produzione; tutto il denaro
ricavato dalla vendita di queste merci veniva interamente intascato
dal produttore. In questo modo si otteneva l’unione nello stesso
individuo del lavoro, della proprietà degli attrezzi utilizzati per
la produzione, e dell’appropriazione dei ricavi derivanti dalla
vendita dei prodotti venduti. Il titolare della bottega era il
maestro; con lui collaboravano un certo numero di aiutanti
denominati apprendisti o soci. Per poter avviare un’attività
artigianale propria, all’apprendista era necessario un lungo
tirocinio presso la bottega di un maestro, al fine di impratichirsi
sui segreti dell’arte e per affinare le sue capacità, anche perchè
gli strumenti in uso per la produzione, erano ancora imperfetti e
piuttosto scarsi di numero; inoltre tutto il lavoro veniva svolto a
mano. Solo terminato il periodo di tirocinio, l’apprendista entrava
a far parte della categoria dei soci o compagni, vale a dire degli
operai finiti, che non disponendo ancora di una propria bottega,
rimanevano a lavorare con il maestro fino a quando non fossero
riusciti a procurarsi gli attrezzi necessari ad avviare una propria
azienda. Generalmente non occorreva molto tempo perchè ciò
accadesse; infatti, per avviare una bottega non occorrevano grandi
mezzi ed in tal modo nei primi secoli dell’età comunale, il socio
poteva presto diventare maestro, ossia proprietario di una bottega.
Ciò avveniva solo dopo il superamento di un esame da tenersi presso
la corporazione di appartenenza; questa prova consisteva
nell’esecuzione di un modello di lavorazione detto capo d’opera o
capolavoro, che doveva essere eseguito entro un tempo determinato.
L’oggetto da eseguire variava in base al mestiere esercitato e
poteva quindi essere a seconda dei casi una scarpa, un coltello, un
gioiello o altro ancora. Superato l’esame, egli doveva offrire un
banchetto in onore dei maestri dell’arte, pagare una imposta
all’erario regio oppure al tesoro comunale ed elargire un’elemosina
alla chiesa; solo al termine di tutti questi passaggi veniva
proclamato maestro. Quasi tutti gli artigiani residenti in una
stessa città erano uniti in corporazioni di arti e mestieri che a
seconda delle zone assumevano nomi diversi: in Italia esse venivano
chiamate arti, fraglie, paratici o maestranze; all’estero assunsero
le denominazioni di mestieri, ghilde e zuenfte. Queste unioni
nacquero per scopi economici, religiosi, di mutua assistenza e in
seguito, divennero delle vere e proprie unioni politiche e militari.
In campo economico, la loro prima preoccupazione era di assicurare
il lavoro a tutti i soci, esercitando una politica di controllo
sulla concorrenza e sul mercato, e regolando le lavorazioni. Queste
attività erano rese necessarie dalla ristrettezza dei mercati
locali, che in massima parte erano costituiti da città di piccole
dimensioni, poco distanti da altre che proponevano le stesse
lavorazioni e con un contado dove i contadini si fabbricavano in
proprio gli attrezzi o gli oggetti dei quali abbisognavano. Con
queste condizioni, le corporazioni provvedevano innanzitutto a
ripartire il lavoro disponibile tra i loro aderenti, seguendo delle
regole piuttosto rigide: gli orari di apertura e chiusura erano
uguali per tutti; uguali dovevano essere anche gli strumenti
utilizzati per lo svolgimento dell’attività produttiva; dovevano
impiegare lo stesso numero di soci e di apprendisti, acquistare la
stessa quantità di materie prime, produrre la stessa quantità di
merci. Queste ultime dovevano essere conformi ai modelli e alle
qualità fissate dalla corporazione. Le pene per chi trasgrediva a
queste regole, andavano dalle pene pecuniarie, alla chiusura della
bottega o all’espulsione dalla corporazione di appartenenza. Tutte
queste usanze furono molto utili nei primi secoli, poichè servirono
a proteggere le attività artigianali e a garantire la vita e
l’attività economica delle botteghe; in seguito però, esse si
rivelarono un ostacolo al progresso: infatti si arrivò a proibire
l’introduzione di nuovi procedimenti e strumenti di lavoro, per il
semplice motivo che essi avrebbero potuto danneggiare chi non ne
avesse fatto uso, o non se li fosse potuti permettere. Inoltre,
l’ermetica protezione del mercato comunale, con il divieto di
introdurvi merci provenienti da città commercialmente concorrenti,
ostacolava in modo molto marcato la costituzione di un mercato unico
nazionale. La corporazione coinvolgeva i propri aderenti sotto tutti
i punti di vista, non solo quelli economici: i membri di ciascuna
corporazione abitavano nelle stesse vie, come si può ancora oggi
desumere dai nomi di alcune strade presenti nei centri storici dele
città italiane: via degli orefici, via dei calderai, via degli
spadari e molte altre ancora. Ogni corporazione aveva un santo
protettore e disponeva di una propria chiesa, o quantomeno di una
cappella, e di una festa annuale dedicata al proprio patrono, nel
corso della quale gli affiliati sfilavano con i propri stendardi. In
caso di decesso di un confratello che non disponesse di mezzi
sufficienti per il funerale, la corporazione se ne assumeva le
spese, assistendo inoltre la vedova e i figli, provvedendo in
seguito a fornire la dote alle figlie da marito. I confratelli
deceduti, venivano sepolti nella chiesa della corporazione e ogni
anno veniva celebrata una messa in loro suffragio. In caso di
guerra, tutti i confratelli combattevano insieme dispiegando il
proprio stendardo e al comando del maestro più rispettato.
Esistevano inoltre dei tribunali corporativi che giudicavano su
questioni interne alla corporazione. Viene quindi da se che le
corporazioni rappresentarono un organo estremamente importante nel
contesto di quel complesso organismo rappresentato dal Comune
medievale. Nonostante la loro importanza, le corporazioni delle arti
e dei mestieri dovettero lottare a lungo contro il patriziato, per
poter ottenere una partecipazione al governo cittadino. Da questi
scontri ebbe origine la seconda fase della lotta politico-sociale
all’interno dei Comuni, condotta dalle corporazioni artigianali
contro i patrizi. Nelle città più potenti economicamente, nelle
quali i grossi mercanti, gli armatori e i banchieri prevalevano per
ricchezza e potenza, la lotta non fu loro favorevole; sconfitte,
esse vennero escluse definitivamente dal potere, mentre i patrizi si
costituivano in oligarchia chiusa, riprendendo l’esempio dell’antica
nobiltà feudale. Esempi di questo sistema di governo si ebbero in
Italia a Genova e Venezia, mentre fuori dai confini nazionali, ciò
avvenne soprattutto nelle più ricche tra le città tedesche. In tutte
quelle città dove invece erano numerose e ben avviate le attività
industriali, i patrizi furono invece costretti a scendere a patti; a
Firenze, le corporazioni più ricche e con maggior influenza, le
cosiddette arti maggiori, ottennero di essere ammesse al governo
della città. I maestri di queste corporazioni, uniti ai membri
dell’antico patriziato, costituirono una nuova alleanza di governo,
escludendo dal potere comunale le corporazioni meno ricche o arti
minori. Contro questa nuova e potente alleanza si scatenò la lotta
condotta dai membri delle arti minori, che segnò l’inizio della
terza fase della lotta comunale.
Lo sviluppo del commercio e le origini dell'attività bancaria
L’epoca immediatemente successiva alle prime crociate, si
caratterizza per un forte incremento del commercio interno ed
internazionale. Il Mediterranneo rappresenta il crocevia principale
degli scambi tra Oriente ed Occidente e viceversa. Protagoniste di
questi scambi furono le quattro Repubbliche Marinare di Genova,
Venezia, Pisa e Amalfi. Nello stesso bacino, operarono con buon
successo anche le città marittime della Francia meridionale e della
Catalogna; fra queste erano particolarmente attive Marsiglia e
Barcellona. I porti del Mediterraneo orientale erano il punto di
arrivo delle merci provenienti dalla via della seta, che dalla Cina,
attraversando l’Asia centrale e la Persia, terminava il suo percorso
in Asia Minore e in Siria. Un’altra importante via commerciale
partiva dall’India e l’Estremo Oriente, passando per il Mar Rosso e
quindi ancora per via terra fino a raggiungere Alessandria d’Egitto.
Le navi provenienti dall’Italia caricavano le merci nei porti di
Trebisonda, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto e negli altri porti
del Levante; si trattava in massima parte di merci molto preziose e
rare provenienti dalle varie zone dell’Asia: zucchero, cotone,
medicinali, essenze profuamte, incenso, preziose sete cinesi, fili
d’oro e d’argento provenienti dall’Asia Anteriore, stupendi tappeti
persiani, avorio africano, porcellane cinesi, perle e pietre
preziose indiane e molte altre merci rare. Tutti questi prodotti di
lusso potevano essere acquistati solo da pochi, dato il loro costo
di mercato, dando quindi origine ad un modesto volume di traffico.
Questo traffico era concentrato in poche città, principalmente
Genova e Venezia, che poi provvedevano a far giungere in tutta
Europa questi prodotti, ottenendo guadagni favolosi. In cambio di
queste merci, l’Occidente inviava panni di lana, armi, vini
pregiati, oli, e legname; ma in genere queste merci non valevano
tanto da controbilanciare il valore delle importazioni e pertanto la
differenza doveva essere pagata in oro e argento, indebolendo quindi
l’Europa di questi metalli. Fiorente era anche il mercato degli
schiavi, che venivano acquistati nella Russia meridionale e poi
rivenduti sui mercati orientali. Nell’altra importante area
commerciale, il Mare del Nord, le città tedesche e fiamminghe
avevano un ruolo primario; esse esportavano i loro prodotti
industriali, importando il legname e il catrame dei boschi del Nord
necessari per l’allestimento delle navi delle proprie flotte, pelli
e lana dall’Inghilterra, pellicce, cuoio e suini dalla Russia, pesce
salato e affumicato dai paesi del Nord. Oltre ad effettuare questi
traffici, gli armatori di Brema, Amburgo, Lubecca e Amsterdam
distribuivano tutte le merci provenienti dal Mediterraneo. Essi
proponevano quindi un tipo di commercio diversificato: non solo
merci pregiate, ma anche materie prime utili allo sviluppo
dell’industria e prodotti di prima necessità e quindi con un
maggiore bacino d’utenza. Pur esendo inferiore come traffico a
quello del Mediterraneo, esso riuscirà a conservarsi per poi
rifiorire in epoca moderna permettendo così lo sviluppo dell’Europa
settentrionale, nel momento in cui il commercio sul mediterraneo
entrerà in crisi. Queste due grandi aree commerciali erano unite tra
loro da due collegamenti principali: il primo, attraverso i passi
alpini, collegava Venezia e l’Italia con la città di Augusta, il
fiume Reno e la Germania; il secondo vedeva le navi genovesi e
veneziane, circumnavigare Spagna, Portogallo e Francia, per portare
le loro merci in Inghilterra e nelle Fiandre. Per la distribuzione
all’interno dei vari paesi, si utilizzavano le vie dàacqua interne,
ricorrendo alle vie di terra quando proprio non se ne poteva fare a
meno. Era una tipologia di commercio resa difficile e pericolosa
dalla scarsezza di strade e ponti in buone condizioni, dagli
innumerevoli diritti di pedaggio richiesti dai feudatari ed infine a
causa delle numerose bande di fuorilegge che non si facevano
scrupolo di uccidere per procurarsi le ricchezze alle quali
ambivano. Tutte queste cause portavano ad una levitazione dei
prezzi, rallentando lo sviluppo del commercio. Nonostante i molti
progressi nel settore, l’economia europea continuava ad essere
un’economia naturale, nel senso che si consumava solo ciò che si
produceva personalmente. Nelle città, gli stessi artigiani non
disdegnavano di coltivare un proprio poderetto o allevare qualche
animale domestico per i propri bisogni,dato che gli utili della
propria professione non sempre garantivano di poterli soddisfare.
Frequenti carestie erano dovute a cattivi raccolti o
all’impossibilità d’importare derrate alimentari da altri paesi;
Venezia, unica città che riusciva ad essere sempre abbondantemente
rifornita di tutto ciò che era necessario alla vita, rappresentava
un caso rarissimo nella stessa penisola italiana, che era il Paese
più economicamente florido del Medioevo europeo. Nelle città, i
mercanti costituivano proprie corporazioni che spesso erano le più
importanti del Comune; in alcuni casi poteva capitare che si
ritrovassero nella stessa corporazione artigiani e mercanti operanti
nello stesso ramo di attività. Si diffusero poi unioni di mercanti
operanti in città diverse, che vennero chiamate ghilde o hanse: la
più famosa fu l’Hansa delle città renane e del Mare del Nord, che si
trasformò in un’alleanza mercantile, politica e militare tra diverse
città, disponendo inoltre di proprie flotte e di eserciti; nel
periodo di maggiore potenza essa riunì oltre 80 città tedesche e
fiamminghe. Una speciale forma di commercio fu quella relativa al
denaro: la diversità tra le varie monete coniate da re, imperatori,
feudatari e dalle città economicamente più importanti, rese
necessaria la diffusione del nuovo mestiere del cambiavalute. Già
dall’Alto Medioevo, i cambiatores furono fra i personaggi più
ragguardevoli del commercio cittadino. Disponendo di grandi quantità
di denaro liquido, essi iniziarono a prestarlo a tassi elevatissimi,
gettando così le basi del sistema bancario. Ai cambiavalute si
affiancarono i grossi mercanti, che ai proventi del commercio
aggiunsero quelli derivanti dal prestito ad usura. L’esercizio del
credito venne incrementato e favorito dall’estensione del commercio
interno e internazionale, che comportò la necessità di spostare
grandi quantità di denaro anche fra paesi lontani; quindi le grandi
compagnie e le case commerciali, soprattutto quelle italiane,
unirono con sempre maggiore continuità il commercio dei panni o
quello delle spezie all’attività bancaria svolta a favore dei
poropri clienti o di chiunque si fosse rivolto a loro. In Toscana
quest’attività venne agevolata dal fatto che le banche e le case
mercantili di Siena, Lucca ed in seguito soprattutto di Firenze,
vennero incaricate di riscuotere l’obolo di San Pietro e le altre
entrate della Curia romana all’estero. Inizialmente lo svolgimento
delle attività bancarie venne attribuito agli Ebrei, essendo ad essi
precluse, a causa delle persecuzioni in atto, tutte le altre
attività economiche; in genere essi non riuscirono mai ad andare
oltre al piccolo credito su pegno, mentre il grande credito fu quasi
sempre ad appannaggio degli italiani, in modo particolare dei
toscani, che in Francia ed in Inghilterra venivano chiamati
lombardi. Ancora oggi molti termini del linguaggio bancario
internazionale sono di chiara origine italiana. Ai banchieri
italiani si affiancarono successivamente banchieri stranieri, come
ad esempio i caorsini, che presero il nome dalla loro città
d’origine, Caors, in Francia. I tassi d’interesse nel Medioevo erano
altissimi e giungevano fino al 60% annuo, poichè la mancanza di
sicurezza rendeva piuttosto improbabile la restituzione del
prestito. A tutto questo occorre aggiungere che la Chiesa condannava
il prestito a usura, ma questo ostacolo veniva aggirato facendo
figurare gli interessi inclusi nel capitale, oppure concedendo il
prestito per il primo mese senza interessi, ma inserendo nelle
clausole di concessione un forte indennizzo per ogni mese di ritardo
nella restituzione. Ma queste pratiche disoneste, unite agli alti
tassi richiesti per i prestiti, comportarono un rallentamento
dell’attività economica.
L'emancipazione delle città
Nell'Europa occidentale le città si svilupparono nell’Alto Medioevo
sui territori dei signori feudali; in alcuni casi, settori della
stessa città potevano trovarsi su un territorio appartenente a
feudatari diversi, come accadde in Francia alla città di Amiens,
suddivisa in quattro giurisdizioni signorili. Spesso erano i
feudatari stessi a favorire la costituzione delle città sui propri
domini, spinti dalla certezza dei ricchi guadagni che il commercio e
l’industria, che si andavano sviluppando al loro interno, avrebbero
potuto procurare alle casse dell’erario. Ben presto l’oppressione
feudale e le ingiustizie provocate dai signori e dai loro miliziani,
provocarono duri scontri per l’emancipazione delle città. Quelle più
ricche riuscirono con il denaro a riscattare la propria
indipendenza, ma si trattò solo di una piccola parte di esse; a
volte succedeva che il signore del luogo, dopo aver concesso
determinate libertà in cambio di oro o di merci pregiate, violasse
gli accordi e pretendesse di riavere quanto in precedenza aveva
concesso. Per questo motivo, già dal XI secolo si scatenarono in
tutta l’Europa Occidentale dure lotte fra città e feudatari, che
avevano per scopo il riscatto delle libertà cittadine. Da questo
scontro le città uscirono vittoriose anche se con modalità
differenti da uno Stato all’altro. I migliori risultati vennero
ottenuti nei centri dell’Italia centrale e settentrionale, dove con
l’appoggio della piccola nobiltà, le città ebbero la meglio
sull’Impero, costituendosi in repubbliche cittadine indipendenti.
Più tardi ciò avvenne anche in Germania, dove l’indebolimento del
potere imperiale consentì alle più importanti città tedesche di
raggiungere un’ampia autonomia, conservando solo una dipendenza
formale dall’imperatore: queste città, assunsero la denominazione di
Reichsstaedte, città imperiali. Diversamente andarono le cose in
Spagna, in Francia ed in Inghilterra, dove le rispettive monarchie
conservarono il controllo delle città: al loro interno esse
accoglievano un funzionario regio, pagavano un tributo all’erario
reale e mettevano a disposizione del sovrano le proprie milizie,
ottenendo però in cambio un prezioso documento: la carta comunale,
che le liberava dagli obblighi feudali e concedeva loro
l’amministrazione cittadina, la possibilità di amministrare per
mezzo di propri giudici la giustizia, diritti di libertà personale
per tutti i residenti, il libero possesso dei propri beni ed inoltre
la libertà di commercio e la possibilità di formare delle
associazioni corporative. Gli uomini che condussero la lotta per
l’emancipazione delle città, furono gli stessi che costituirono il
primo nucleo di una nuova classe sociale: la borghesia, che assunse
questo nome perchè composta da tutti gli abitanti non di sangue
nobile residenti nella Burg, detti appunto in tedesco Buerger e in
francese bourgeois. In Italia e in Francia, i borghesi furono
aiutati nella loro lotta dalla piccola nobiltà.Tutta la popolazione
collaborò alla lotta contro i feudatari allo scopo di ottenere i
diritti comunali, ma solo una parte di essa potè godere dei frutti
della vittoria; infatti, raggiunto lo scopo, il potere restò nelle
mani dei cittadini più importanti, che costituirono quello che in
Germania venne ribattezzato patriziato. Si trattò principalmente di
ricchi mercanti, banchieri, proprietari di terreni e case situati
sul territorio della città o nel contado. Tutti costorono crearono
una ristretta oligarchia, che governava le città a proprio
vantaggio, escludendo il resto della popolazione da ogni
partecipazione alla politica attiva e soprattutto dal governo; per
quanto riguardava l’aspetto fiscale essi riversavano il peso
tributario sulle altre classi sociali, creando malcontento nella
popolazione. Ben presto questo malessere condusse ad una seconda
fase dello scontro politico-sociale fra il patriziato ed il resto
della popolazione, in mezzo alla quale apparvero i membri delle
corporazioni.
L'influenza dei Comuni sulla campagna
Lo sviluppo delle città e delle industrie, resero necessaria una
maggiore fornitura di viveri e materie prime come pelli, legname,
fibre tessili e altre ancora, da parte delle campagne. Non si
trattava di forniture enormi, poichè all’interno delle città
medievali, ampi spazi erano destinati all’agricoltura ed i cittadini
possedevano campi coltivati, boschi oppure dei pascoli nei pressi
della città inoltre i contadini molto spesso erano usi fabbricarsi
da sè molti dei prodotti necessari alla loro attività: vestiti,
biancheria, scarpe, ecc.. In questo modo era meno sentita la
necessità di acquistare degli articoli provenienti dalle botteghe
artigiane cittadine. Nonostante tutto ciò, il commercio e i rapporti
monetario-mercantili riuscirono ad ottenere una buona penetrazione
nelle campagne, nelle quali destarono degli effetti profondi,
segnando la nascita di un’agricoltura mercantile. Nelle terre più
prossime alle città, l’agricoltore era incentivato a produrre su
almeno una parte dei suoi terreni, non più i prodotti necessari alla
propria sussistenza, ma generi vendibili con un buon profitto sul
mercato urbano, come ad esempio le fibre tessili, ortaggi, vino e
frutta. Con il denaro ricavato da questo commercio, i contadini
avevano la possibilità di estendere le superfici coltivate e a
migliorare i sistemi di coltivazione. In questo modo essi potevano
variare anche la propria produzione, aggiungendo ai prodotti
classici della terra, la coltivazione della vite e quindi inserendo
la produzione del vino; oppure, utilizzando il latte ottenuto con
l’allevamento di bovini ed ovini, iniziare la produzione di formaggi
e burro.L’estendersi del commercio e delle necessità da esso
suscitate, con i sempre più lussuosi prodotti disponibili, portò ad
un accrescimento del bisogno di denaro dei signori feudali,
inducendoli a sostituire la rendita in natura o in lavoro gratuito
con la rendita in denaro, costringendo i contadini a versare
annualmente una somma a discrezione del feudatario. Già nell’XI
secolo i campi allodiali, di proprietà del signore, venivano
lasciati in affitto ai contadini in quasi tutto l’Occidente. Allo
stesso tempo, i signori accrescevano le pretese di aumento della
rendita, superando i limiti concessi dagli usi tradizionali,
causando con questo loro comportamento l’ inizio di una dura lotta
nelle campagne e l’inasprimento dell’antagonismo sociale. Nello
steso periodo si assisteva ad un aumento dell’abbandono delle
campagne a vantaggio delle città, che promettevano ai fuggiaschi
lavoro e soprattutto la libertà per i servi della gleba. Coloro che
restavano nelle campagne, se ne avevano la possibilità, riscattavano
la propria libertà con il denaro, contando anche sul perenne bisogno
di moneta dei feudatari che accettavano di buon grado questo tipo di
affrancamento da parte dei propri servi. La liberazione dei servi fu
un fenomeno molto frequente in tutta l’Europa occidentale nel corso
dei secoli del periodo comunale. Maggiore diffusione l’ebbe in
Italia, a causa della maggiore potenza dei Comuni: ogni primavera
l’esercito comunale usciva per porre l’assedio alle rocche dei
signori che non volevano sottostare all’autorità del Comune,
danneggiandone in questo modo i commerci. Soprattutto in Toscana, i
castelli venivano distrutti ed i loro proprietari costretti a
prendere casa all’interno delle città; i loro servi venivano
liberati, anche se alla liberazione personale non faceva seguito la
liberazione economica. Infatti l’obbligo di pagare i tributi feudali
non venne abrogato, ma semplicemente trasferito al governo comunale.
I ricchi mercanti ed i banchieri cittadini, aprofittando delle
difficoltà economiche nelle quali venivano a trovarsi gli antichi
signori del feudo, procedevano all’acquisto di grandi proprietà
terriere a prezzi irrisori. In questo modo il contadino, che
personalmente era ormai libero, restò in condizioni di dipendenza
economica; venne così a ricostituirsi la grande proprietà terriera
gestita dai latifondisti cittadini. Uguale sorte toccò anche ai
contadini dei Comuni rustici costituiti in gran numero nell’Alta
Italia nella lotta contro il feudalesimo. Proprio per difendersi
dalle prepotenze dei signori feudali questi piccoli borghi cercarono
l’aiuto dei potenti Comuni urbani; successivamente questo rapporto
di alleanza si trasformò in un rapporto di sudditanza.
I rapporti tra i Comuni e l'Impero
All’inizio del XII secolo, l’Italia era il paese europeo dove il
processo di affrancamento delle città dal dominio feudale e
imperiale si era sviluppato maggiormente. Oltre alle quattro
Repubbliche Marinare, Venezia, Genova, Pisa e Amalfi, che da tempo
si erano rese indipendenti, numerosissime altre città dell’Italia
ccentrale e settentrionale erano riuscite ad ottenere diritti
comunali più o meno ampi. Per raggiungere il loro scopo, tutte
queste città avevano approfittato della lotta che il Papato aveva
iniziato contro i vescovi simoniaci e contro l’Impero che li
appoggiava, per tentare di abbattere o almeno limitare il potere
esercitato dai vescovi e dai feudatari più potenti, grandi
sostenitori del potere imperiale. Le città approfittarono anche
della debolezza nella quale si trovavano gli imperatori, che pur di
riuscire ad assicurarsi il loro favore, al fine di contrastare il
sempre più crescente potere dei feudatari maggiori, fecero alle
città larghe concessioni come l’esenzione dai tributi, anche se in
realtà i Comuni godevano già di una notevole autonomia. Contro
questa autonomia si battè Federico I Barbarossa, la cui politica in
Italia era tutta tesa a ristabilire l’autorità imperiale sui Comuni
e il predominio dell’imperatore sul papa.
La guerra di Federico Barbarossa contro i Comuni
Nell'autunno del 1154 Federico I Barbarossa scese per la prima volta
in Italia. Le modeste forze che si era portato al seguito, non gli
permisero grandi azioni. In questa prima fase egli si limitò ad
incendiare a scopo dimostrativo i Comuni di Asti, Chieri e Tortona,
che avevano tentato di opporsi alla sua autorità, ma non osò
assediare Milano. Si diresse quindi verso Roma, allo scopo di farsi
incoronare dal papa. Nella città eterna era sorto un Comune fin dal
1141, governato dalle famiglie nobili locali, in conflitto perenne
con il papa, che rifiutava di riconoscere questa nuova forma di
governo. Essendo la stragrande maggioranza della popolazione
favorevole al Comune, i papi furono più volte costretti ad
abbandonare la città. Il popolo romano era incitato nella sua lotta
da un monaco agostiniano, Arnaldo da Brescia, che perseguiva come
proprio scopo principale, la lotta contro il clero simoniaco e
predicava in favore di un ritorno della Chiesa alla semplicità dei
tempi apostolici e per la rinuncia da parte degli ecclesiastici ai
beni e alle cariche temporali. Il governo comunale di Roma,
intimorito per l’interdetto lanciato da papa Adriano IV contro la
città, decise di espellere il monaco dai confini comunali.
L’imperatore, al fine di ingraziarsi il pontefice, e sperando di
poterlo avere come alleato per l’imminente aggressione al Regno
normanno, fece arrestare Arnaldo, ospite in un castello della
Toscana e lo consegnò al papa, che dopo averlo accusato di eresia,
lo condannò alla pena di morte per impiccaggione e al rogo. Federico
I entrò quindi a Roma al fianco di Adriano IV, dalle mani del quale
ricevette la corona imperiale. Ma essendosi rifiutato di riconoscere
il governo comunale della città, le sue truppe vennerò attaccate
nella zona di Trastevere dai popolani romani, che seppure respinti
indussero l’Imperatore a ritornare al Nord, rinunciando al progetto
di agressione del Regno normanno. Quattro anni più tardi, nel 1158,
egli discese nuovamente in Italia con un esercito più numeroso.
Convocò nei pressi di Piacenza i rappresentanti delle città ed i
vassalli; nel corso della Dieta di Roncaglia, fece esporre da alcuni
giuristi dell’Università di Bologna quali fossero i diritti e le
prerogative dell’Imperatore romano. In conformità di quanto da essi
esposto, Federico I emanò la Constitutio de regalibus, nella quale
rivendicava per sè tutti i diritti sovrani che erano stati assunti
dalle città e invalidava ogni cessione di beni feudali. Venivano
inoltre vietate faide e rappresaglie private e ogni lega tra le
città. Con queste disposizioni, egli tentò di annullare l’ormai
secolare evoluzione dei Comuni italiani, negando loro tutti quei
diritti che essi avevano acquisito dopo una lotta lunga e faticosa.
Ad accrescere lo scontento fu l’imposizione della presenza in ogni
Comune di un funzionario imperiale denominato podestà, che avrebbe
governato con ampi poteri. Contro le prepotenze commesse dai
tedeschi, si sollevò la protesta di alcune città lombarde capeggiate
da Milano; dopo aver distrutto Crema, nel 1162 il Barbarossa cinse
d’assedio Milano, costringendola alla resa per fame. Per punizione
fece radere al suolo la città; gli abitanti vennero divisi in
quattro borgate distanti l’una dall’altra. Soddisfatto per la
rappresaglia fece quindi ritorno in Germania. Nel frattempo anche i
rapporti tra l’Impero ed il Papato divennero sempre più tesi in
conseguenza degli atti arbitrari compiuti da Federico I nei
confronti di territori appartenenti alla Chiesa. Egli aveva infatti
ceduto un feudo toscano facente parte delle donazioni effettuate da
Matilde di Canossa in favore della Chiesa ad un suo fedelissimo; non
esitò inoltre a nominare vescovi italiani in contrasto con il
Concordato di Worms. Lo scontro si aggravò ulteriormente con
l’elezione al soglio pontificio di Rolando Bandinelli di Siena, che
assunse il nome di Alessandro III, al quale Federico I oppose un
antipapa eletto dalla minoranza. A seguito di ciò il papa si schierò
apertamente a favore delle città dell’Alta Italia, che si opponevano
alle pretese imperiali. Nell’Italia settentrionale infatti,
l’imposizione dei podestà continuò a suscitare molto malcontento,
anche in quelle città, come Cremona e Como, che in un primo tempo si
erano schierate con l’Imperatore contro Milano.Opprimendo e
impoverendo le popolazioni con imposte varie, i podestà imperiali
tendevano ad eliminare progressivamente tutti i diritti comunali che
esse avevano conquistato faticosamente. La Repubblica di Venezia,
iniziando a temere per la propria secolare indipendenza, propose la
costituzione di una lega tra le città venete con a capo Verona e che
prenderà il nome di Lega Veronese; a questa fece seguito la
costituzione a Pontida di una lega ancora più imponente composta da
Comuni lombardi, piemontesi ed emiliani. Le due leghe si allearono
cacciando i podestà imperiali, rivendicando i propri diritti
comunali e riprendendo con maggior vigore l’assedio dei castelli
feudali del contado appartenenti a feudatari fedeli all’impero. Di
fronte a questi atti, Federico I nel 1176 scese per la terza volta
in Italia, venendo sconfitto una prima volta ad Alessandria, una
nuova città edificata in posizione strategica e alla quale i
collegati assegnarono il nome in onore del nuovo pontefice
Alessandro III. L’imperatore decise quindi di dirigersi su Milano,
ricostruita con il contributo delle altre città lombarde, ma il 29
maggio 1176, nella pianura di Legnano si scontrò con l’esercito
della Lega Lombarda, subendo una nuova gravissima sconfitta.
Federico I caduto da cavallo riuscì a salvarsi nascondendosi sotto
un mucchio di cadaveri, riuscendo successivamente a raggiungere
Pavia con il favore dell’oscurità. La battaglia di Legnano,
rappresentò la prima vittoria della fanteria nella storia medievale.
L’esercito della Lega Lombarda, composto in massima parte da
artigiani male armati e con un addestramento sommario, riuscirono a
sconfiggere la famosa cavalleria pesante tedesca. A seguito di
questa sconfitta, il Barbarossa riconobbe in Alessandro III il vero
ed unico papa, sconfessando l’antipapa da lui precedentemente
appoggiato. Nel 1177, con la tregua di Venezia, acconsentì alla
sospensione delle ostilità contro i Comuni e nel 1183, con la Pace
di Costanza, riconobbe ai Comuni italiani tutti i loro diritti in
cambio di un modesto tributo da versare alle casse imperiali. In tal
modo l’impero pur mantenendo la propria sovranità, fu costretto a
riconoscere le autonomie comunali. Nel 1184 Federico I compì
l’ultima azione della sua polica italiana unendo in matrimonio suo
figlio Enrico VI e la zia del re normanno Guglielmo il Buono,
Costanza d'Altavilla; dato che il re normanno era senza figli, alla
coppia era garantita la successione nel Regno di Sicilia.
Quell’unione rappresentò per le aspirazioni del Barbarossa un
indubbio successo, salvo poi rivelarsi la causa della rovina della
casa di Svevia. Infatti con l’acquisizione del Regno insulare, il
nuovo re fu sempre più legato alle questioni italiane, perdendo in
tal modo la sua affermazione definitiva in Germania.
Dal Comune consolare alla decadenza comunale
Lo sviluppo delle città e delle industrie, resero necessaria una
maggiore fornitura di viveri e materie prime come pelli, legname,
fibre tessili e altre ancora, da parte delle campagne. Non si
trattava di forniture enormi, poichè all’interno delle città
medievali, ampi spazi erano destinati all’agricoltura ed i cittadini
possedevano campi coltivati, boschi oppure dei pascoli nei pressi
della città inoltre i contadini molto spesso erano usi fabbricarsi
da sè molti dei prodotti necessari alla loro attività: vestiti,
biancheria, scarpe, ecc.. In questo modo era meno sentita la
necessità di acquistare degli articoli provenienti dalle botteghe
artigiane cittadine. Nonostante tutto ciò, il commercio e i rapporti
monetario-mercantili riuscirono ad ottenere una buona penetrazione
nelle campagne, nelle quali destarono degli effetti profondi,
segnando la nascita di un’agricoltura mercantile. Nelle terre più
prossime alle città, l’agricoltore era incentivato a produrre su
almeno una parte dei suoi terreni, non più i prodotti necessari alla
propria sussistenza, ma generi vendibili con un buon profitto sul
mercato urbano, come ad esempio le fibre tessili, ortaggi, vino e
frutta. Con il denaro ricavato da questo commercio, i contadini
avevano la possibilità di estendere le superfici coltivate e a
migliorare i sistemi di coltivazione. In questo modo essi potevano
variare anche la propria produzione, aggiungendo ai prodotti
classici della terra, la coltivazione della vite e quindi inserendo
la produzione del vino; oppure, utilizzando il latte ottenuto con
l’allevamento di bovini ed ovini, iniziare la produzione di formaggi
e burro.L’estendersi del commercio e delle necessità da esso
suscitate, con i sempre più lussuosi prodotti disponibili, portò ad
un accrescimento del bisogno di denaro dei signori feudali,
inducendoli a sostituire la rendita in natura o in lavoro gratuito
con la rendita in denaro, costringendo i contadini a versare
annualmente una somma a discrezione del feudatario. Già nell’XI
secolo i campi allodiali, di proprietà del signore, venivano
lasciati in affitto ai contadini in quasi tutto l’Occidente. Allo
stesso tempo, i signori accrescevano le pretese di aumento della
rendita, superando i limiti concessi dagli usi tradizionali,
causando con questo loro comportamento l’ inizio di una dura lotta
nelle campagne e l’inasprimento dell’antagonismo sociale. Nello
steso periodo si assisteva ad un aumento dell’abbandono delle
campagne a vantaggio delle città, che promettevano ai fuggiaschi
lavoro e soprattutto la libertà per i servi della gleba. Coloro che
restavano nelle campagne, se ne avevano la possibilità, riscattavano
la propria libertà con il denaro, contando anche sul perenne bisogno
di moneta dei feudatari che accettavano di buon grado questo tipo di
affrancamento da parte dei propri servi. La liberazione dei servi fu
un fenomeno molto frequente in tutta l’Europa occidentale nel corso
dei secoli del periodo comunale. Maggiore diffusione l’ebbe in
Italia, a causa della maggiore potenza dei Comuni: ogni primavera
l’esercito comunale usciva per porre l’assedio alle rocche dei
signori che non volevano sottostare all’autorità del Comune,
danneggiandone in questo modo i commerci. Soprattutto in Toscana, i
castelli venivano distrutti ed i loro proprietari costretti a
prendere casa all’interno delle città; i loro servi venivano
liberati, anche se alla liberazione personale non faceva seguito la
liberazione economica. Infatti l’obbligo di pagare i tributi feudali
non venne abrogato, ma semplicemente trasferito al governo comunale.
I ricchi mercanti ed i banchieri cittadini, aprofittando delle
difficoltà economiche nelle quali venivano a trovarsi gli antichi
signori del feudo, procedevano all’acquisto di grandi proprietà
terriere a prezzi irrisori. In questo modo il contadino, che
personalmente era ormai libero, restò in condizioni di dipendenza
economica; venne così a ricostituirsi la grande proprietà terriera
gestita dai latifondisti cittadini. Uguale sorte toccò anche ai
contadini dei Comuni rustici costituiti in gran numero nell’Alta
Italia nella lotta contro il feudalesimo. Proprio per difendersi
dalle prepotenze dei signori feudali questi piccoli borghi cercarono
l’aiuto dei potenti Comuni urbani; successivamente questo rapporto
di alleanza si trasformò in un rapporto di sudditanza.
Le Signorie
La nascita delle signorie in Italia
I dissapori interni e le continue guerre locali finirono per
stancare gli abitanti dei Comuni ed in particolar modo la parte più
povera di essi. Sul finire del XIII secolo, il desiderio di pace era
comune a tutta l’Italia: si cercò di soddisfare questa necessità
appellandosi ad un’autorità superiore che fosse in grado di porre
termine alle discordie e alle guerre. Gli stessi grossi mercanti e
banchieri che avevano assunto il potere nei Comuni, non sentendosi
più al sicuro di fronte all’ostilità del popolo, cercavano un potere
forte in grado di difendere il loro predominio economico-sociale.
Sulla base di queste aspirazioni e di questi interessi, iniziò a
svilupparsi in molti Comuni italiani una Signoria, ossia il potere
di un uomo a cui viene affidato il compito di governare in
sostituzione dei consigli comunali: spesso si trattava di un podestà
o di un capitano del popolo, al quale veniva prolungata la durata
del mandato, finchè non veniva proclamato signore a vita. Saranno
poi questi stessi uomini a rendere ereditaria la carica,
trasmettendola ai propri figli. I signori provenivano da famiglie
nobili che disponevano di feudi e di reparti armati, con i quali
potevano imporsi alle fazioni comunali, imponendo loro la propria
volontà. Sotto questo punto di vista, la Signoria appariva come un
compromesso tra la vecchia nobiltà feudale e la ricca borghesia
cittadina, delle quali il signore continuava la politica interna ed
estera, difendendone le posizioni economico-sociali. Per varie
ragioni essa non era sgradita neppure al popolo minuto e alla plebe:
grazie sia ai provvedimenti demagogici che di solito i potenti
adottavano per ingraziarsi il popolo, come ad esempio l’abolizione
di imposte particolarmente sgradite o danativi alle famiglie più
povere; inoltre il signore risolveva la questione del potere
togliendolo in eguale misura a tutte le classi sociali,
attribuendolo a se stesso, in modo da apparire sopra le parti. Altro
motivo che rendeva la signoria gradita ai meno fortunati era
rappresentato dalla lotta che questa conduceva contro le vecchie
casate nobiliari che non volevano sottomettersi alla sua autorità;
in ultimo, perchè i signori riscirono in molti casi a riportare
effettivamente la pace nelle città da loro amministrate, pace
saltuariamente interrotta da congiure o colpi di mano posti in
essere dalle famiglie nobili più riottose, che però non riuscirono
quasi mai a raggiungere il loro scopo. Per contro, la Signoria
continuò la politica espansionistica perseguita dal Comune, voluta
in modo particolare dal popolo grasso; in questo modo, se da una
parte vi fu più ordine e pace all’interno delle città, dall’altra vi
fu un aumento delle guerre esterne, che divennero sempre più estese
e cruente. Già all’epoca di Federico II di Svevia e di Manfredi, nel
Veneto si affermò la potente Signoria di Ezzelino da Romano: signore
delle città di Treviso, Padova, Vicenza e Verona e diverse altre
città minori. Egli aveva costituito un vasto dominio che si
estendeva sulla totalità del Veneto occidentale, minacciando la
Lombardia e l’Emilia, che durò fino a quando una lega costituita da
città lombarde e appoggiata dalla Repubblica di Venezia, non tolse
ad Ezzelino i suoi domini e la vita. A Ferrara si impose la Signoria
degli Este, una delle più antiche famiglie feudali italiane, che
estendevano il proprio dominio anche su Modena e Reggio: lo Stato
estense durerà fino all’unificazione d’Italia nel XIX secolo. Nel
centro della Valle Padana si diffuse la Signoria dei Pallavicino,
nobili imparentati con gli Este e signori di Cremona, Pavia,
Piacenza, Parma, Novara ed altre città minori; il loro dominio si
disgregò abbastanza rapidamente. La Signoria che si costituì a
Milano era invece destinata a durare molto più a lungo: nel 1240,
viene eletto capitano e difensore del popolo il nobile Pagano Della
Torre, con l’ordine di combattere contro i magnati che scaricavano
tutto il peso delle imposte sui ceti più deboli. Il casato dei Della
Torre governerà Milano fino al 1277, quando i nobili capitanati
dall’arcivescovo Ottone Visconti, riuscirono a sconfiggerli nella
battaglia di Desio. L’arcivescovo vincitore, pur essendo a capo
della fazione nobiliare, seppe farsi apprezzare anche dalla parte
più povera della popolazione milanese per la sua moderazione e per
la sua saggezza, consentendo alla Signoria dei Visconti di dominare
Milano per circa due secoli. Nel frattempo, dopo la morte di
Ezzelino da Romano, i suoi domini vennero suddivisi tra altre
Signorie che si erano costituite all’epoca: Treviso divenne dominio
dei Da Camino, Padova dei Da Carrara, Verona dei potenti signori
Dalla Scala, che riuscirono, nel secolo successivo, a fondare un
vasto Stato che si estendeva su buona parte del nord Italia,
tentando di penetrare successivamente anche al Centro. Verso la fine
del XIII secolo le Signorie divengono sempre più numerose, finchè,
agli inizi del ’300 ben poche furono le città italiane che ancora
non erano governate da signori.
Il tramonto dell'Impero e la scarsa influenza del Papato nell'Italia
del XIV secolo
Subito dopo la morte di Manfredi l’autorità imperiale in Italia si
dissolse, sia a causa del Grande Interregno,sia in seguito alla
politica estera seguita da Rodolfo ed Alberto d’Asburgo, che si
disinteressarono totalmente della Penisola. In seguito, il loro
successore Enrico VII di Lussemburgo, nel 1310 discese in Italia con
il proposito di restaurare l’autorità imperiale senza riuscirvi:
egli morì con buona parte del suo esercito a seguito di una
epidemia, mentre si stava dirigendo verso il Meridione d’Italia, nei
pressi di Buonconvento, vicino a Siena. Nel 1328 fu la volta del suo
successore Ludovico il Bavaro, che sceso in Italia con gli stessi
propositi del suo predecessore, si trovò invischiato nella caotica
situazione italiana e nelle rivalità che dividevano fra loro i
diversi Stati. Non avendo forze sufficienti per aiutare gli amici o
per sconfiggere i propri nemici, fu costretto ad una precipitosa
ritirata verso la Germania. Dopo di lui altri imperatori scesero
occasionalmente in Italia, tra questi Carlo IV, Sigismondo e
Venceslao, che approfittarono dell’occasione per raccogliere denaro,
in cambio del quale offrirono titoli nobiliari. Del resto non
poterono fare altro, dato che l’autorità imperiale era ormai
inesistente nella stessa Germania. Migliore situazione non godeva lo
Stato della Chiesa: il trasferimento della sede papale da Roma ad
Avignone, ebbe gravissime conseguenze su di esso, che si disgregò in
una moltitudine di piccole entità locali in permanente lotta tra
loro. Di questo disordine generale soffrì in modo particolare Roma.
In città, le fazioni dei Colonna, degli Orsini, dei Savelli, dei
Caetani e di altre nobili famiglie romane, sconvolgevano la vita
cittadina con continue lotte. L’economia languiva per l’assenza
della corte papale, che attirava in città un gran numero di
pellegrini; le campagne circostanti, vessate dal feudalesimo e dalla
malaria derivante dalle numerose paludi sparse sul territorio, nulla
potevano fare per risanare almeno l’economia locale. Per tentare di
ristabilire nella regione la propria autorità, il papa Giovanni
XXIIinviò in Italia il cardinale Bertrando del Poggetto, ma la
missione non sortì l’effetto sperato. Sembrò invece ottenere maggior
successo un movimento popolare costituitosi nel 1347 a Roma. Questo
movimento era formato da cittadini che, esasperati dalle prepotenze
dei baroni, riuscì a cacciare dalla città le casate nobiliari
coinvolte nei continui scontri, portando alla creazione di un potere
personale assunto da Cola di Rienzo, il promotore del movimento, che
assunse per sè il titolo di Tribuno del popolo. Costui era figlio di
un oste e di una lavandaia, che grazie agli studi assidui riuscì a
diventare notaio. Con la lettura degli scrittori antichi, egli
iniziò a nutrire un’amore sfrenato per l’antica Roma, che sperava di
poter restaurare. Naturalmente egli sapeva che era un sogno
irrealizzabile, che però traduceva in forma utopistica un’esigenza
effettiva: quella di una pacificazione dell’Italia e di una
unificazione politica che potesse mettere fine ale miserie che
affliggevano in quell’epoca il Paese. Purtroppo Cola non disponeva
delle doti politiche necessarie per affrontare nella giusta maniera
le condizioni del momento, non essendo sostenuto da forze
sufficienti: la borghesia mercantile romana era infatti alquanto
insignificante, mentre la plebe di Roma era ancor meno
organizzata.L’immaturità dei tempi e dell’ambiente, portarono Cola
di Rienzo a compiere i primi gravi errori. Egli convocò a Roma una
grande assemblea di città, signori e principi, per dibattere
sull’assegnazione della corona imperiale. Nonostante avessero
risposto al suo appello più di duecento inviati da tutta la
Penisola, apparve chiaro a tutti che la politica da lui seguita
mancava di ogni ragionevole fondamento; inoltre egli amava
circondarsi di un fasto ritenuto eccessivo, sfoggiato per far
aumentare l’importanza della sua carica. In questo modo finì per
alienarsi le simpatie del popolo, oppresso dalle alte imposte
necessarie a pagare tanto sfarzo. Dopo circa sette mesi di
tribunato, Cola di Rienzo venne colpito dalla scomunica papale e
dagli assalti dei nobili che cercavano con la forza di rientrare in
città: il popolo non lo appoggiò ed egli fu costretto all’esilio.
Venne eletto al suo posto un altro popolano, mentre Cola cercò
rifugio presso l’Imperatore Carlo IV, che lo fece arrestare e
consegnare al papa Clemente VI per essere giudicato come eretico e
ribelle, ma la morte del papa e l’elezione al soglio pontificio di
Innocenzo VI, lo salvò da morte certa. Il nuovo papa pensò inoltre
di servirsi di lui per abbattere il Comune popolare di Roma. Inviato
in Italia con il nuovo titolo di Senatore di RomaCola venne accolto
entusiasticamente dalla popolazione. Dopo poco tempo, egli ripetè
gli errori già commessi in passato: per affrontare le spese militari
derivanti dai continui assalti portati alla città dai baroni che
tentavano di rientrare a Roma, egli accresceva le imposte, che
finivano per gravare sulle spalle della parte più povera del popolo.
Divenuto estremamente sospettoso per i continui tentativi di
insidiare il suo potere, Cola si macchiò di diversi atti di
crudeltà, alcuni dei quali portarono alla condanna a morte di
persone totalmente innocenti. Tutto ciò gli inimicò definitivamente
i romani, che nel 1354, sobillati dai nobili si sollevarono contro
di lui uccidendolo mentre tentava di fuggire. La sua opera non andò
persa con lui, poichè i nobili non riuscirono a tornare al governo
della città: al posto dei due senatori della parte nobiliare, venne
istituito l’ufficio di un solo senatore non romano e nominato
direttamente dal papa. A suo fianco operava un consiglio composto da
sette popolani, che rappresentavano il vero governo di Roma. Sotto
questo governo, la città divenne molto più tranquilla che in
precedenza. L’invio in Italia di Cola di Rienzo faceva parte di un
più vasto piano politico che Innocenzo VI cercò di realizzare con
l’aiuto dell’abile ed energico cardinale spagnolo Egidio di
Albornoz. Giunto nella Penisola questi seppe in poco tempo
ricondurre sotto l’autorità papale le città del Lazio e dell’Umbria,
molte delle quali vi tornaro con entusiasmo allo scopo di sottrarsi
alle prepotenze dei baroni. Si spostò quindi nelle Marche e in
Romagna, dove portò a termine una dura lotta contro i signori
locali. Nonostante le gravissime difficoltà , l’Albornoz riuscì, a
riportare l’ordine anche in queste due regioni, riducendo in modo
notevole i territori delle varie Signorie e stabilendo in tutte le
città occupate dei rettori pontifici. A completamento della sua
opera, il cardinale promulgò le famose Constitutiones Aegidianae, un
testo giuridico che valse per molto tempo come fonte di diritto
pubblico nello Stato della Chiesa. L’opera dell’Albornoz durò dal
1352 al 1367 e creOgrave; i presupposti per un ritorno della corte
papale a Roma, insistentemente richiesto da numerose persone di
fede, prima fra tutte Santa Caterina da Siena. A questo si
aggiungevano gravi considerazioni di politica internazionale: la
Francia era infatti impegnata nella Guerra dei Cento Anni, e la
presenza del papa in territorio francese, poneva il pontefice in
cattiva luce presso gli Inglesi. Inoltre la declinante potenza dei
re francesi, non era più in grado di imporsi alla curia papale.
Sulla base di tutto ciò, nel 1378 il papa Gregorio XI tornò a Roma
ponendo fine alla cattività di Avignone, ma non ai dissensi
all’interno dello Stato della Chiesa e neppure alle difficoltà
all’interno della Chiesa stessa, nella quale si aprì poco dopo il
pericoloso Scisma d’Occidente.
Le repubbliche oligarchiche in Italia
In alcune città come Firenze, Siena, Lucca, Genova e Venezia, la
Signoria non riuscì mai ad insediarsi stabilmente, oppure lo fece in
ritardo rispetto al resto d'Italia. Questo stato di cose era dovuto
alla presenza in queste città di una potente oligarchia mercantile,
che dominava la scena politica interna. A Venezia il potere era
gestito da un centinaio di famiglie di grandi mercanti, armatori e
banchieri. I diversi moti popolari che nel tempo tentarono di
sovvertire questo potere, vennero sempre soffocati nel sangue. Nel
1297, un atto definito Serrata del Maggior Consiglio, ridusse
ulteriormente il numero delle famiglie che avevano il diritto di
partecipare al Consiglio Maggiore, che rappresentava il più
importante organo legislativo della repubblica. Queste famiglie
vennero iscritte, come si usava all'epoca, nel Libro d'Oro della
nobiltà veneziana. Contro queste restrizioni si levarono molte
proteste, la più nota delle quali fu quella messa in atto da Martin
Bocconio, un ricco popolano che nel 1300 ordì una congiura destinata
a fallire: scoperto, egli venne giustiziato insieme a tutti gli
altri cospiratori. Dieci anni più tardi furono due famiglie nobili,
i Querini e i Tiepolo a porsi alla testa di un movimento al quale
partecipò anche una parte della popolazione veneziana. Anche questo
tentativo fallì ed i capi della rivolta vennero giustiziati o
condannati all'esilio perenne. Dopo questi eventi, il governo
veneziano assunse caratteri sempre più oligarchici: fra tutte le
famiglie iscritte al Libro d'Oro, solo una quarantina erano quelle
che effettivamente gestivano il potere politico in città, passandosi
a turno le magistrature di anno in anno. Fra le magistrature
veneziane, assunse sempre più importanza il Consiglio dei Dieci,
nato come tribunale per la difesa della Costituzione, ma divenuto in
seguito l'organo supremo di governo effettivo della Repubblica di
Venezia, mentre i poteri del Doge erano minimi, poco più che
nominali. Il Consiglio dei Dieci manteneva il dominio
dell'oligarchia mediante sistemi poco ortodossi quali lo spionaggio
praticato tra i vari ceti della popolazione, gli arresti ed i
processi segreti, ai quali facevano seguito delle esecuzioni
capitali altrettanto segrete. La sua vigilanza si estendeva agli
stessi componenti dell'oligarchia: la vittima più illustre di queste
forme di controllo, fu il doge Marin Faliero, che nel 1355 venne
improvvisamente arrestato e decapitato poco dopo, con l'accusa di
aver cospirato per divenire signore di Venezia; alcuni suoi amici
appartenenti al ceto popolare, vennero impiccati alle finestre del
Palazzo Ducale. Fra di essi figurava Filippo Calendario, uno dei
costruttori del palazzo. Grazie a questi esempi, l'oligarchia riuscì
a mantenere saldamente le redini del potere, aiutata in questo anche
dalla floridezza economica di cui godeva la città. A differenza di
Venezia, la politica a Genova era sempre agitata dalla lotta fra le
fazioni nobiliari in perenne contrasto fra loro. La nobiltà genovese
era composta da signori feudali, che partecipavano attivamente alla
vita economica cittadina gestendo in proprio le banche, il commercio
e la navigazione, mantenendo contemporaneamente la propria potenza
nelle campagne, dove possedevano i loro feudi e dove disponevano di
propri reparti di armati. A Genova i nobili erano divisi in due
fazioni principali: il partito dei Guelfi capeggiato dalle famiglie
dei Fieschi e dei Grimaldi, alle quali si contrapponeva la fazione
dei Ghibellini, capitanata dalle famiglie dei Doria e degli Spinola.
Ma le discordie serpeggiavano anche all'interno dei due
schieramenti: in alcune occasioni capitò che gli Spinola cacciassero
dalla città i loro consociati della famiglia dei Doria. Questi
continui contrasti danneggiavano molto il popolo che ormai stentava
a nascondere il proprio malcontento per la situazione. Questo
malcontento fu la causa della grande sollevazione popolare, che nel
1339 portò all'elezione del primo doge di nomina popolare: Simon
Boccanegra. Al suo fianco vennero istituiti dei consigli comunali
costituiti da popolani , in buona parte mercanti, mentre la maggior
parte dei nobili venne costretta all'esilio. Il trionfo popolare fu
però di breve durata poichè i nobili esiliati tornarono in città,
dove riuscirono a comporre un governo di compromesso formato da
rappresentanti della classe nobiliare e del popolo grasso. In mezzo
ai tumulti del popolo minuto e della plebe, la vita politica
genovese continuò a fornire un pessimo esempio d'instabilità e
disordine. Anche Firenze per molto tempo fu dilaniata dalle lotte
fra Guelfi e Ghibellini: si trattava nella maggior parte dei casi di
lotte tra fazioni nobiliari che detenevano il potere sulla città,
mentre il popolo restava estraneo a queste contese. Nel 1250, dopo
la morte dell'Imperatore Federico II, la borghesia fiorentina tolse
il potere ai ghibellini, istituendo il primo governo formato dai
rappresentanti del popolo grasso alleato con la fazione guelfa.
Questo governo durò poco a causa del ritorno dei Ghibellini
capeggiati da Manfredi: alla battaglia di Montaperti, nel 1260, i
Ghibellini senesi, alleatisi con quelli delle altre città toscane e
dei fuoriusciti fiorentini guidati da Farinata degli Uberti,
sconfissero pesantemente l'esercito di Firenze, costringendo la
città ad eleggere un nuovo governo ghibellino. Circa dieci anni più
tardi nel 1269, Firenze si prese la sua rivincita sconfiggendo gli
avversari nella battaglia di Colle Val d'Elsa, ed espellendo dalla
città in modo permanente i capi della fazione ghibellina. Tuttavia
il nuovo governo guelfo che si insediò in città non fu stabile, ed i
nobili stessi, a causa dei diversi interessi si suddivisero a loro
volta in due fazioni: i Guelfi Neri ed i Guelfi Bianchi, che
lottarono aspramente fra loro per il potere. Da queste discordie
trasse profitto il popolo grasso che riuscì ad imporre notevoli
trasformazioni costituzionali: venne istituita la carica di capitano
del popolo, che aveva il compito di organizzare le milizie popolari;
nel 1282 venne istituita la Signoria, la forma di governo
fiorentina, composta dai Priori delle Arti. Questi successi vennero
consolidati nel 1293 con l'alleanza tra il popolo grasso ed il
popolo minuto, sotto la guida di un nobile, Giano della Bella, che
era passato dalla parte della fazione popolana. Gli Ordinamenti di
giustizia da lui promulgati, sancirono che nessun nobile avrebbe
potuto far parte delle magistrature urbane, riservate esclusivamente
a chi era associato ad un'arte. Negli anni seguenti, l'alleanza tra
popolo grasso e popolo minuto si dissolse e Giano della Bella venne
costretto all'esilio. Il popolo grasso stipulò un'alleanza con i
Guelfi Neri e con il sostegno del papa Bonifacio VIII, nel 1302
riuscirono a cacciare dalla città i Guelfi Bianchi. Tra gli esiliati
figuravano personaggi di spicco come Dante Alighieri ed il padre di
Francesco Petrarca. Quando nel 1308 vennero cacciati da Firenze
anche i Guelfi Neri, in città venne ad instaurarsi un governo
composto da ricchi popolani appartenenti alle sette arti maggiori:
l'arte di Calimala, che importava i tessuti grezzi e li riesportava
una volta lavorati; l'arte della Lana, che importava le lane grezze
traendone tessuti di qualità; l'arte del Cambio, che comprendeva i
banchieri ed i cambiavalute; e le arti della Seta, dei Pellicciai,
dei Giudici e Notai, e l'arte dei Medici e Speziali. A tutte queste
arti appartenvano i proprietari di grandi botteghe o laboratori di
tipo industriale più che artigianale, che in quell'epoca erano
estremamente importanti. Il peso maggiore apparteneva comunque ai
mercanti dediti al commercio internazionale, ed ai banchieri,
titolari delle famose banche fiorentine, i cui affari si estendevano
per tutta la cristianità, fino al punto da dare loro il primato
europeo. L'unione fra il popolo grasso ed il patriziato dei Guelfi
Neri, diede origine alla nuova nobiltà fiorentina , chiamata dei
Grandie composta da non più di una quarantina di famiglie. Anche
Firenze si trasformò quindi in una repubblica oligarchica al pari di
Genova e Venezia, rimanendo tale per circa un secolo, nonostante le
frequenti manifestazioni capeggiate dagli appartenenti alle arti
minori e dalla numerosa plebe, che era esclusa sia dalle arti che
dal governo.
Le trasformazioni della vita economica
Per buona parte del XIV secolo, il Papato, assente dal suolo
italiano a causa del trasferimento ad Avignone della sede papale,
non ebbe modo di influire sullo sviluppo politico della penisola.
Inoltre l’Italia era ormai indipendente anche dall’Impero germanico,
sempre più in decadenza. Le altre grandi potenze europee, Francia,
Inghilterra e Spagna, erano troppo impegnate a combattersi tra loro
per potersi anche occupare della politica interna italiana.
Abbandonata a se stessa, l’Italia divenne preda delle forze locali
che nel corso del secolo poterono svilupparsi liberamente, dando
vita ad una interminabile serie di guerre e conflitti interni dai
quali scaturì una nuova conformazione del Paese.Sul territorio
italiano vennero a costituirsi pochi Stati egemonici che si
estendevano su intere regioni: dai piccoli Stati cittadini, si passò
ai grandi Stati regionali, dalleSignorie, si passò, aiPrincipati.
Nonostante la situazione di guerra permanente, il ’Trecento si
segnalò come il periodo di massimo sviluppo dell’ economia medievale
italiana: le flotte commerciali delle città italiane, ed in
particolare di Genova e Venezia, dominavano i traffici mercantili
nel Mediterraneo, rifornendo l’Europa di prodotti orientali;
l’industria nazionale esportava ovunque le sue pregiate produzioni;
le banche italiane avevano succursali in tutto il continente e
gestivano buona parte della circolazione del denaro da un paese
all’altro. All’interno dell’economia italiana avvennero in quel
periodo delle radicali trasformazioni, che mutarono il volto della
precedente economia corporativa. Nell’economia dell’artigianato
medievale, l’artigiano era padrone della bottega e degli stumenti
necessari al suo lavoro e acquistava con i propri ricavi le materie
prime necessarie alla produzione, lavorandole direttamente o con
l’aiuto di pochi garzoni o soci, vendendole poi direttamente al
cliente e intascando interamente i proventi della vendita. In questo
modo si aveva una perfetta fusione fra il lavoro manuale, la
proprietà dei mezzi di produzione e l’approppriazione dei ricavi
derivanti dalla vendita. Questa unità poteva essere mantenuta solo
nel caso di una economia artigiana limitata al mercato locale, ma
non di certo in una città che lavorava per un mercato
internazionale. Nelle città più importanti, i mercanti vennero ben
presto ad assumere una maggiore importanza nell’economia
manifatturiera, arrivando al punto di assumerne il pieno controllo.
Essi avevano infatti la possibilità di acquistare grandi quantità di
materia prima, di trasportarla in Italia e quindi di rivendere il
prodotto finito all’estero. Tutto ciò era possibile ai grandi
mercanti, poichè essi disponevano di ampio credito, essendo essi
stessi in buona parte dei banchieri, oppure ricevendo credito dalle
banche che preferivano lavorare con grandi aziende anzichè con le
piccole che offrivano minori garanzie. I mercanti di una stessa
specializzazione, si servivano dell’economia corporativa per
associarsi tra loro anche nella fissazione dei prezzi, che in questo
modo divengono prezzi di monopolio. Gli artigiani erano così
obbligati ad acquistare le materie prime da questi grandi mercanti,
ai prezzi da loro stabiliti. Grazie a questo monopolio, ai grandi
mercanti era possibile approppriarsi di un profitto sempre maggiore
sul lavoro svolto dall’artigiano, sia rialzando i prezzi delle
materie prime, che abbassando il prezzo del prodotto finito. In
conseguenza di ciò, gli artigiani caddero in una sorta di dipendenza
dal mercante: pur mantenendo il possesso della bottega e degli
stumenti di lavoro, essi divennero dei semisalariati. Infatti, il
guadagno che veniva loro lasciato dai mercanti, corrispondeva ad un
magro stipendio, sufficiente alla sussistenza dell’artigiano. Venne
quindi a crearsi una rottura dell’unità fra il lavoro e
l’appropriazione dei ricavi da esso derivanti, dal momento che la
maggior parte di questi ultimi finivano nelle casse dei mercanti
come profitto del capitale, per le anticipazioni di denaro da essi
effettuate. Questo fenomeno si manifestò in modo ancor più chiaro
quando il ruolo principale nella produzione venne assunto da quei
maestri artigiani riusciti ad emergere sui propri consoci e
trasformatisi in piccoli industriali. Essi non si contentavano più,
di lavorare con i pochi garzoni o soci concessi dalla corporazione,
ma bensì ampliando l’organico delle propria azienda con l’assunzione
di un numero maggiore di lavoratori salariati. Per le operazioni
nelle quali non era necessaria mano d’opera qualificata, essi
impiantavano degli appositi opifici nei quali, manovali pagati a
giornata eseguivano le diverse operazioni sulle materie prime di
proprietà del maestro. Questo sistema rappresentava la forma
perfetta del lavoro salariato, che si diffonderà diversi secoli dopo
con la nascita del sistema fabbrica, del quale gli opifici del XIV
secolo rappresentavano le prime manifestazioni. In molti casi, le
operazioni che richiedevano accuratezza e capacità, venivano
affidate a domicilio a contadini e contadine che in questo modo
integravano i proventi derivanti dall’agricoltura. In entrambi i
casi si trattava da una parte di lavoratori salariati e dall’altra
di capitalisti. Questi ultimi avevano come mezzo di lavoro il
denaro, che utilizzavano per l’acquisto delle materie prime, per il
pagamento dei salari agli operai e per le spese di produzione. Il
denaro si era quindi trasformato in capitale e su di esso veniva
percepito un profitto. Il sistema economico basato sull’impiego del
capitale venne chiamato capitalismo e poichè questo sistema nacque
nelle città italiane, viene ricordato come precapitalismo italiano.
I mercanti e i piccoli industriali, non avevano alcun interesse ad
accrescere il numero delle ditte concorrenti, per cui essi tentarono
sempre di limitare l’apertura di nuove botteghe artigiane. Per
raggiungere il loro scopo, essi si rifiutavano di sottoporre ad
esame i soci che lo richiedevano, oppure li sottoponevano ad un
esame difficilissimo, o ancora, servendosi dell’autorità della
corporazione, veniva rifiutato il permesso di aprire una nuova
bottega. In questo modo, la gran parte dei soci, non potendo avere
un’attività propria, finivano per diventare operai salariati le cui
condizioni di vita erano estremamente precarie per la concorrenza
derivante dal lavoro svolto a domicilio nelle campagne. Già nel
’Trecento diversi gruppi di soci, emigrarono da una città all’altra
dell’Italia in cerca di lavoro, fino a quando, le città interessate
non presero dei provvedimenti per fermare l’emigrazione di
manodopera specializzata. Nel XIV secolo si assistette ad un
fortissimo sviluppo del settore bancario Non si trattava ancora di
grandi compagnie bancarie ma di case bancarie proprietà di un’unica
famiglia. In tutta Europa si diffusero le succursali delle grandi
banche genovesi, lucchesi, senesi e fiorentine. Indispensabili al
commercio italiano, esse adempivano anche a importanti funzioni di
carattere pubblico: le banche fiorentine raccoglievano in tutta
Europa l’Obolo di San Pietro e le altre somme destinate alla Santa
Sede, trasmettendole poi a Roma o ad Avignone, ottenendo dei buoni
profitti da questi servizi. Approfittando degli ingenti capitali
accumulati, i banchieri italiani, ed in particolare quelli di
Firenze, Milano e Genova, concedevano grossi prestiti ai sovrani
europei e al papa stesso. Per evitare che i re stranieri non
restituissero le somme prestate, i banchieri erano soliti farsi
concedere a garanzia del prestito degli appalti o privilegi, come ad
esempio la riscossione delle imposte, la vendita del sale o lo
sfruttamento di miniere.In questo modo, i possibili danni derivanti
dalla mancata restituzione del denaro, venivano ampiamente ripagati
dai guadagni ottenuti svolgendo tali attività. Con la grande
estensione raggiunta da queste operazioni creditizie a Stati
stranieri, i banchieri italiani ebbero anche una notevole influenza
sulle questioni politiche europee. Con lo sviluppo del
precapitalismo, prese a diffondersi nel Paese una nuova classe
sociale formata dalla grossa borghesia mercantile, che fu in grado
di opporsi con successo alla piccola borghesia artigiana e alla
plebe cittadina. Questo fu reso possibile dal fatto che sia gli
artigiani che i piccoli mercanti erano sempre più soggetti alla
dipendenza economica dalla grande borghesia, venendo così a perdere
quell’intraprendenza e quel vigore che avevano contraddistinto
l’artigianato di epoca comunale, mentre la plebe era ormai ridotta
ad una massa di manovali e disoccupati, alla quale la miseria totale
aveva tolto ogni ambizione politica. Le sporadiche rivolte di questi
strati sociali, non furono mai in grado di cambiare il corso delle
cose e venivano sempre domate con la forza. Vi fu quindi un dominio
assoluto delle oligarchie mercantili all’interno dei Comuni, sotto
la forma di Signorie, soprattutto in quelli più grandi e ricchi. In
seguito le Signorie più forti, grazie anche all’appoggio dei grossi
mercanti e dei banchieri più, importanti, presero il sopravvento
sulle Signorie più deboli, dando inizio alla formazione in Italia di
Stati a carattere regionale, che si svilupparono attorno alle città,
più grandi e floride quali Milano, Venezia, Genova e Firenze. Questo
processo di concentrazione territoriale durò, per tutto il XIV
secolo ed i primi decenni del XV, portando dal governo amministrato
dalle Signorie locali ai Principati territoriali. In campo militare,
durante il ’Trecento, le milizie comunali vennero progressivamente
sostituite da reparti mercenari raggruppati in unità denominate
Compagnie di Ventura. Esse non combattevano sempre al servizio dello
stesso Stato, ma fornivano i propri servizi a chi offriva loro la
paga migliore. Inizialmente le Compagnie di Ventura erano costituite
da uomini d’arme tedeschi, scesi in Italia al seguito di qualche
imperatore e poi sbandatisi. In seguito iniziarono a formarsi anche
compagnie costituite da italiani di ogni ceto sociale: si trattava
essenzialmente di uomini che le vicende economiche, politiche o
belliche, respingevano dal processo di produzione, oppure dal luogo
di residenza o dal proprio feudo. Piccoli nobili feudali che
praticavano la guerra con lo scopo di aumentare la propria potenza
economica o di estendere i propri domini, nobili senza terra,
artigiani rovinati dal cambio dal sistema produttivo, contadini
privati della propria terra o rovinati dagli eventi bellici: questi
erano gli appartenenti a queste compagnie, tutti individui che nulla
avevano da perdere ed erano quindi più che disposti a vendersi al
miglior offerente. I motivi che portarono alla sostituzione delle
milizie comunali con le milizie mercenarie, erano dovuti alla
diffidenza che i signori e le oligarchie mercantili nutrivano verso
le popolazioni loro sottomesse. Bisogna infatti ricordare che le
milizie comunali erano comunque composte da gente del luogo, ed in
caso di rivolta difficilmente avrebbero rivolto le armi contro amici
e parenti. In secondo luogo, l’evoluzione storica dell’epoca,
rendeva necessarie formazioni militari ben più preparate di quanto
non potessero essere le milizie comunali. Le guerre, più lunghe e
sanguinose, rendevano necessarie delle truppe ben organizzate e
attrezzate, per cui si rese necessaria la sostituzione delle
formazioni locali con dei veri professionisti. Nella prima metà del
XIV secolo entrarono in servizio le prime rudimentali artiglierie,
che resero più difficile l’arte militare: queste nuove armi potevano
essere utilizzate solo da addetti ben addestrati al loro uso, quindi
non dai negozianti o dagli artigiani che venivano tolti alle proprie
attività solo nel momento del reale bisogno e che quindi non avevano
nessun tipo di addestramento specifico. Il passaggio a truppe
mercenarie si diffuse presto in tutta Europa ma con differenze
notevoli: mentre negli Stati nazionali le truppe mercenarie
servivano il proprio re con fedeltà, in Italia combatterono
mercenari senza patria e senza onore, sempre disponibili a tradire
il proprio signore in cambio di un maggior compenso, fortissimi
quando si trattava di uccidere civili inermi, ma del tutto incapaci
di combattere contro un esercito organizzato. Le compagnie
mercenarie, furono la causa principale della decadenza dell’arte
militare italiana, e lasciarono l’Italia indifesa contro le
successive invasioni straniere. Tuttavia, inizialmente esse furono
di grande aiuto alle città più potenti, che tramite i servigi resi
da queste milizie riuscirono ad assoggettare le città più piccole,
accelerando in tal modo il parziale processo di unificazione del
territorio italiano attorno a queste grandi città, portando alla
formazione dei Principati regionali.
La Repubblica di Firenze nel '300
Nel 1302, dopo l’espulsione dalla città dei Guelfi Bianchi, ci fu a
Firenze un breve periodo di dominio dei Guelfi Neri, capeggiati da
Corso Donati. Presto anche questa consorteria venne eliminata dalla
vita pubblica fiorentina, ed il potere tornò nelle mani delle sette
arti maggiori, che costituivano il popolo grasso.Tra i membri di
queste corporazioni, si venne successivamente a costituire
un’oligarchia composta da una quarantina di famiglie, in massima
parte di grandi mercanti-banchieri, che riuscì a mantenere il potere
per circa un secolo. Durante quel periodo, non vennero abolite le
forme repubblicane, in quanto esse servivano a garantire
l’equilibrio tra le famiglie detentrici del potere, evitando che una
di esse potesse divenire troppo forte e in tal modo imporsi alle
altre. Venne quindi mantenuta la Signoria, costituita dai Priori
delle arti e presieduta dal Gonfaloniere di giustizia, anche se i
governanti venivano sempre scelti rigorosamente tra i membri delle
famiglie che componevano l’oligarchia. In occasione di momenti
difficili, il popolo grasso ricorse a magistrature eccezionali,
conferendo temporaneamente il potere a qualche importante
condottiero di fuori città. Questo avvenne per esempio tra il 1342
ed il 1343, quando per fronteggiare una sollevazione popolare e
portare a termine la guerra contro la nemica città di Lucca, venne
chiamato a Firenze Gualtiero di Brienne duca di Atene, un
avventuriero che poco tempo dopo essersi insediato in città, mostrò
la volontà mal celata di costituire a Firenze una Signoria personale
e per questo motivo venne cacciato. Il monopolio del potere da parte
del popolo grasso non era ben visto dal popolo minuto, composto
dagli appartenenti alle 14 arti minori, che raggruppavano i piccoli
negozianti e gli artigiani che lavoravano esclusivamernte per il
mercato locale. Alla protesta di questa parte di cittadini, si univa
quella della plebe, la parte più povera ed anche più numerosa dei
fiorentini, composta nella gran parte da operai salariati senza
diritti politici, esclusi dalle corporazioni e senza la possibilità
di potersi associare tra loro. Queste proibizioni erano dettate dal
timore che pervadeva i grossi mercanti ed i maestri, che gli operai,
associandosi tra loro potessero successivamente rivendicare migliori
condizioni di lavoro e di retribuzione, che all’epoca erano
veramente misere. Nonostante queste misure restrittive, nel 1345,
gli operai tintori scioperarono e scesero in piazza guidati da un
operaio del settore laniero, Ciuto Brandini. Dotato di grande
perspicacia e intelligenza egli vedeva la necessità di raggruppare i
propri compagni di lavoro in un’arte o in una corporazione, che
avrebbe permesso di ottenere, oltre al miglioramento del salario e
delle condizioni di lavoro, anche l’accesso alla vita politica
cittadina. Il tentativo di Ciuto Brandini, fallì a causa dello
scarso sostegno avuto dalle altre classi operaie, consentendo alla
Signoria di normalizzare la situazione con la forza. Catturato, egli
venne condannato a morte e giustiziato. Ben più grave ed estesa fu
la sollevazione dell’estate del 1378: in quell’occasione la plebe,
guidata dagli scardassatori di lana, si ribellò occupando la sede
della Signoria, ponendo al governo della città Michele di Lando, un
operaio laniero. Questa volta gli operai non furono soli, a loro
fianco si schierarono infatti gli appartenenti alle arti minori, il
popolo minuto. I rivoltosi chiesero che venissero approvate subito
alcune riforme nell’ordinamento cittadino: le più importanti
richieste riguardavano l’istituzione di nuove arti che
comprendessero al loro interno anche gli operai; la partecipazione
di tutte le arti al governo della città; una riforma del sistema
tributario, che avrebbe dovuto gravare maggiormente sui più ricchi;
la proroga della riscossione dei debiti che gli operai avevano
contratto con i loro padroni per alimentarsi. L’ultima richiesta
riguardava l’esclusione dalla Signoria di alcune delle famiglie
oligarchiche particolarmente invise al popolo. In questa difficile
situazione, il popolo grasso fu costretto a concedere ai propri
antagonisti quanto richiesto: vennero quindi istituite tre nuove
arti, due delle quali includevano gli operai tintori e farsettai,
mentre la terza comprendeva tutte le altre categorie di operai,
conosciuti come ciompi, o arte del popolo di Dio. Fu accetata anche
la richiesta riguardante le modifiche della composizione della
Signoria, che da quel momento fu composta da otto priori scelti a
turno fra i rappresentanti delle arti maggiori e minori. In questo
modo, il popolo grasso ottenne il risultato di dividere i propri
avversari, poichè le arti minori e gli operai farsettai e tintori,
avendo ottenuto i propri scopi, si separarono dagli altri operai. La
massa dei ciompi continuò però nella sua protesta, causata dalle
proprie difficili condizioni di vita. Per rappresaglia, i grandi
mercanti chiusero le proprie botteghe privando gli operai dell’unico
mezzo di sussistenza, costituito dal pur magro salario. Dalle
campagne, i proprietari terrieri interruppero l’afflusso di generi
alimentari, facendo così mancare gli alimenti a quanti non
possedevano un podere. Contro questi atti, i ciompi insorsero
nuovamente, ma questa volta si trovarono isolati e finirono per
essere combattuti dai loro vecchi compagni di lotta, le arti minori,
gli operi tintori ed i farsettai. Michele di Lando, probabilmente
corrotto, guidò personalmente l’attacco contro i manifestanti. Al
termine della lotta fecero seguito numerose condanne a morte e lo
scioglimento dell’arte dei ciompi. Pochi anni dopo anche le arti dei
farsettai e dei tintori vennero sciolte e le arti minori vennero
nuovamente estromesse dal potere. Michele di Lando venne esiliato e
le famiglie oligarchiche, con a capo la ricchissima famiglia dei
banchieri Albizzi, ripresero il dominio assoluto sulla città. Gli
Albizzi erano favorevoli ad una politica di tolleranza zero nei
confronti delle rivendicazioni popolari e per questo motivo erano
odiati dalla maggior parte della popolazione fiorentina. Ma poichè
la loro linea politica corrispondeva agli interessi del popolo
grasso, essi videro accrescere notevolmente il loro potere
all’interno dell’oligarchia: con gli Albizzi iniziò per Firenze la
Signoria di un’unica famiglia, anche se mascherata dalle forme
repubblicane. Ma non tutti i magnati fiorentini erano daccordo con
questa politica: in particolare la famiglia Medici, ricchi banchieri
che grazie ai fruttuosi affari conclusi in Francia ed ai servigi
prestati dalla loro banca alla Santa Sede, si accingevano a divenire
la famiglia più ricca della città. Fu la rivalità con le famiglie
più antiche e potenti di Firenze che spinse i Medici ad opporsi alla
pericolosa politica degli Albizzi. Durante il tumulto dei ciompi,
Silvestro dè Medici sostenne le rivendicazioni del popolo minuto,
mantenendo relazioni amichevoli con esso. Quando la rivolta venne
soffocata nel sangue, la famiglia Medici non prese parte alla
repressione. Favoriti da questa loro neutralità, essi inviarono
propri seguaci a promuovere tra i ciompi un’agitazione a favore
della propria famiglia, in modo tale che il nome dei Medici divenne
presto molto popolare fra la plebe e le arti minori, popolarità
sostenuta anche dalle cospicue elargizioni di beneficenza che la
famiglia aveva cura di fare nei momenti nei quali più grave era il
disagio popolare. Con il grande favore popolare raggiunto, i Medici
si apprestavano alla loro ascesa alla Signoria. Durante tutto il XIV
secolo, Firenze fu impegnata in una serie di guerre che avevano lo
scopo di espandere il dominio della Repubblica a tutta la Toscana.
Tuttavia, la sua ricchezza e la sua potenza, la posero presto in
contrasto con le altre città della regione: la conseguenza di ciò fu
che, nel corso di un secolo, i risultati raggiunti furono quanto mai
modesti. La minaccia di cadere sotto il dominio fiorentino,
obbligava le altre città toscane a mettersi nelle mani di capi
politici e militari che facevano loro sperare in una possibilità di
difesa. Il primo di questi capi fu l’Imperatore Enrico VII di
Lussemburgo, che nel 1310 scese in Italia con il proposito di
restaurare l’autorità imperiale. In Toscana egli pose l’assedio a
Firenze, che infine lo costrinse a desistere senza aver raggiunto
alcun risultato utile. Nel 1313, mentre si recava verso il sud della
Penisola, l’Imperatore ed il suo seguito furono pressochè sterminati
da un’epidemia nei pressi di Buonconvento, nelle vicinanze di Siena.
Due anni più tardi, Uguccione della Faggiola, venne insignito del
titolo di signore di Lucca e Pisa e alla testa del proprio esercito
sbaragliò i fiorentini nei pressi di Montecatini. Ma poco tempo dopo
egli morì, lasciando incompiuta l’opera di costituzione di una nuova
Signoria. A lui fece seguito Castruccio Castracani degli
Antelminelli, che nel 1325 sconfisse le forze fiornetine nella
battaglia di Altopascio. Dopo tredici anni di governo, che
sembrarono potergli aprire la strada alla signoria dell’intera
Toscana, anch’egli venne colto dalla morte. Per tutto il 'Trecento
continuarono i tentativi espansionistici di Firenze, ma senza
ottenere risultati apprezzabili, poichè verso la fine del XIV
secolo, le uniche città sottomesse erano Arezzo, Prato e Pistoia,
con i loro territori. Al tempo di Gian Galeazzo Visconti, il signore
di Milano, Firenze fu costretta ad adottare una politica difensiva
per evitare di essere conquistata dal condottiero milanese, tutto
preso dalla sua politica di espansione. Solo alla morte di
quest’ultimo, definitivamente fuori pericolo, i fiorentini ripresero
la loro secolare lotta contro Pisa, riuscendo finalmente a
sottometterla nel 1406, conquistando così l’agognato sbocco al mare,
raggiungibile ora per mezzo dell'Arno, all’epoca navigabile. Lo
Stato fiorentino era il più piccolo come territorio tra gli Stati
italiani di una certa importanza: il suo peso nella politica
italiana, era però garantito dalle sue ricchezze, provenienti in
massima parte dalle sue fiorenti industrie e dalle sue famosissime
case bancarie, fra le più importanti della cristianità.
Medici a Firenze e Regno aragonese a napoli
L’oligarchia mercantile che dominava Firenze, nel Quattrocento
dovette cedere il potere alla famiglia dei Medici. Banchieri e
grandi mercanti, essi si erano arricchiti con il servizio di cassa
per conto del papa: nei primi decenni del XV secolo, Cosimo dei
Medici era l’Uomo più ricco di Firenze e uno dei più ricchi
d’Europa. Con l’ appoggio di cui godeva da parte del popolo minuto,
Cosimo riuscì a far bandire dalla città gli Albizzi, la famiglia che
in precedenza aveva il maggior potere a Firenze, rimanendo il vero
signore della città, pur facendo il possibile per non darlo a
vedere. Egli infatti non cambiò nulla nelle istituzioni e negli
ordinamenti tradizionali, ma in realtà non si effettuavano nuovi
provvedimenti governativi e non si eleggevano nuovi pubblici
ufficiali senza il suo consenso.
Cosimo dei Medici ottenne il sostegno del popolo minuto grazie ad
alcune misure che egli seppe adottare per migliorare la situazione
del popolo fiorentino, ed in particolare una riforma fiscale che
sgravò in parte del peso tributario i meno abbienti, per caricarlo
sulle famiglie dei banchieri sui diretti concorrenti ed avversari
politici. Dopo trent’anni di supremazia incontrastata (dal 1434 al
1464), Cosimo, morendo, lasciò il potere al figlio Piero il Gottoso,
che morì molto presto. Il potere venne ereditato dai suoi due figli
Lorenzo e Giuliano, che poco dopo subirono un attentato da parte di
un gruppo di congiurati appartenenti alle più nobili famiglie
fiorentine, capeggiate dalla famiglia dei Pazzi, banchieri in
diretta competizione con i Medici. Nell’agguato,avvenuto nella
Cappella adiacente la Chiesa di Santa Maria del Fiore, Giuliano
perse la vita, mentre Lorenzo venne ferito ma riuscù a mettersi in
salvo. La congiura dei Pazzi ottenne il risultato opposto di quello
che i congiurati avevano previsto. Il popolo, infatti, si sollevò
contro i cospiratori inneggiando ai Medici. I Pazzi e il loro amici
vennero sommariamente giustiziati e Lorenzo dei Medici assunse i
pieni poteri, con forme molto più aperte di quanto non avesse fatto
il nonno Cosimo: egli tenne una magnifica corte nella quale
trovavano ospitalità poeti ed artisti, e sotto il suo governo si
ebbe il periodo più splendido del Rinascimento fiorentino. In
Italia, Lorenzo il Magnifico, come ormai il Signore di Firenze
veniva definito, grazie alla sua potenza economica e la sua abilità
diplomatica, ebbe una parte importante nella soluzione di diversi
conflitti tra gli Stati della penisola.
Nello stesso secolo, nel Sud dell’Italia, sotto il regno di Alfonso
di Aragona, la Sicilia e la Sardegna vennero unite al regno di
Napoli. Alla sua morte, Alfonso lasciò le due isole al fratello, che
gli succcedette sul trono di Aragona, dimodochè le due isole vennero
nuovamente separate dal resto del regno di Napoli. Successivamente,
esse sarebbero servite agli spagnoli come base di partenza per la
conquista dell’Italia alla fine del XV secolo. Il regno di Napoli
venne invece ereditato da Ferdinando, figlio naturale di Alfonso,
che diede origine ad una monarchia nazionale. L’opera del nuovo re
venne fortemente osteggiata dai grandi feudatari meridionali, che
non esitarono, per l’ennesima volta, a chiedere l’appoggio degli
Angioini di Francia. Sconfitti i francesi, Ferdinando si trovò
presto coinvolto come vittima designata in un complotto ordito dai
nobili, meglio conosciuto come la congiura dei baroni, che vedeva
unite contro il re tutte le maggiori casate feudali. Venuto a
conoscenza delle trame baronali, Ferdinando attirò con l’inganno i
colpevoli nel suo castello, il Maschio Angioino di Napoli, e li fece
giustizia, mettendo a morte tutti i principali congiurati e
condannando a forti pene detentive gli altri. Tuttavia egli non
riuscì a portare a termine la sua opera di consolidamento
dell’autorità regia, poichè morì nel 1494. Nello stesso anno iniziò
l’invasione del regno da parte dei francesi.
La decadenza del regno di Napoli
A Carlo lo Zoppo, che non era riuscito ad evitare la conquista della
Sicilia da parte degli Aragonesi, fece seguito l’elezione a re di
Napoli di Roberto d’Angiò, terzo re di questa dinastia, che regnò
dal 1309 al 1343. Egli continuò la politica di ingerenze negli
affari dell’Italia centrosettentrionale, allo scopo di appoggiare i
Guelfi nella loro lotta contro i Ghibellini. Per sostenere questa
politica, gli Angioini continuarono a vessare le popolazioni
meridionali con sempre nuove tasse, consumandone così ogni risorsa.
All’ambizione del sovrano, fece seguito un fenomeno ancora più
rovinoso: la diffusione del feudalesimo, che spezzettò lo Stato
faticosamente riunito dai Normanni prima e da Federico II poi. Le
campagne e le città vennero infeudate ai favoriti del re, per
ingraziarseli e mantenerli fedeli alla corona. Si aggiunse inoltre
l’uso di contrarre matrimoni con case regnanti straniere, allo scopo
di accrescere la potenza della Casa d’Angiò. I risultati di queste
scelte sciagurate si videro poi alla morte di Roberto, quando a
succedergli venne chiamata sua nipote Giovanna I, il cui regno durò
dal 1343 al 1382 e fu costellato da una serie interminabile di
guerre civili, poichè tentarono d’impadronirsi del Regno di Napoli
il ramo ungherese della Casa d’Angiò, che prese vita a seguito del
matrimonio contratto dal figlio di Carlo lo Zoppo, Carlo Martello,
con l’erede al trono d’Ungheria, il Ramo di Durazzo, costituito dai
discendenti di un altro figlio di Carlo lo Zoppo, che assunse il
titolo di conte di Durazzo, e la Casa reale di Francia.Ognuno di
questi pretendenti trovò nel meridione un buon numero di baroni
disposti a fornire il proprio aiuto in cambio di maggior potere.
Queste guerre civili completarono la rovina dell’Italia meridionale,
iniziata nel secolo precedente con l’arrivo di Carlo d’Angiò. Il
commercio e l’industria decaddero completamente e nelle campagne
presero a diffondersi le paludi e la malaria, mentre una buona parte
della popolazione si rifugiò sui monti per sfuggire alle pianure
ormai inabitabili. Il regno divenne una colonia dei banchieri
fiorentini, che fornivano ai re angioini i finanziamenti necessari
per perseguire i propri scopi politici. Gli altissimi interessi
richiesti dalle banche furono anch’essi causa dell’impoverimento
economico del Meridione. Nel 1382, la regina Giovanna I venne
assassinata, ma nonostante ciò le guerre civili proseguirono tra i
sostenitori della Casa di Durazzo ed i seguaci della Casa regnante
francese. Le lotte tra Angioini e Durazzeschi, terminarono con la
vittoria di questi ultimi, capeggiati dal re Ladislao di Durazzo. Il
consolidamento dell’autorità regia, non fu da lui utilizzato per
tentare di riordinare economicamente la situazione del regno, ma
egli si dedicò ad un’avventurosa politica di conquista in Italia.
Ladislao sperava infatti di poter ricostituire la potenza che era
stata raggiunta sotto il primo re d’Angiò. Le vittorie non gli
mancarono, grazie anche allo stato di grande disgregazione nel quale
si trovava l’Italia centrale: occupata più volte Roma, egli pensò
addirittura di annettere al proprio regno tutto lo Stato della
Chiesa, ma la resistenza opposta da Firenze rese vani i suoi
tentativi, facendogli esaurire le forze in inutili imprese. Egli
morì all’età di trent’anni ed il regno passò alla sorella Giovanna
II, che ne resse le sorti dal 1414 al 1435. Durante questo periodo
ripresero le guerre civili e gli scontri con gli Aragonesi di
Sicilia e di Spagna.
L'espansione di Venezia nel XIV secolo
Nel Trecento Venezia era il centro di un vasto impero marittimo
dominante su gran parte delle coste orientali del Mar Adriatico,
comprendente le città di Trieste, Pola e Zara, numerose cittadine di
minore importanza, su una parte della Penisola di Morea, sulle
grandi isole greche di Creta, Cipro ed Eubea e sulla maggior parte
delle isole Cicladi. Alla fine del XIV secolo la flotta veneziana
poteva contare su circa 17.000 marinai e oltre 3.000 navi di vario
tipo, che permettevano alla città lagunare di avere quasi il
completo controllo commerciale nel bacino orientale del
Mediterraneo. Inoltre, le flotte veneziane gestivano regolarmente
una linea di collegamento marittimo che, attraverso le coste
dell’Europa occidentale, collegavano la città all’Inghilterra e alle
Fiandre, consentendo un ampliamento della rete commerciale.
L’attività principale di questi traffici era dedicata al commercio
dei prodotti provenienti dall’Oriente, che i mercanti veneziani
portavano in città, distribuendole in seguito in tutta Europa. Oltre
alle entrate dovute a questo tipo di commercio, l’economia di
Venezia doveva la propria forza anche alla fiorente industria
locale, che produceva panni di seta e di lana, vetro e armi. Il più
importante ramo industriale, era senza dubbio la cantieristica
navale, che prevedeva la costruzione e la riparazione di navi di
tutti i tipi: questa fiorente attività veniva svolta nell’Arsenale
di Stato, ed in diversi altri cantieri privati. La banca veneta, al
contrario delle altre grandi banche italiane, non si dedicava molto
ai prestiti esterni, quanto al finanziamento delle attività
commerciali e marittime cittadine. L’attività mercantile era
particolarmente agevole grazie anche alla stabilità della moneta di
Venezia, il ducato d’oro, che in seguito venne chiamato zecchino,
del peso di 3,600 gr. al titolo di 24 carati: le misure di questa
moneta restarono invariate per oltre cinque secoli e grazie alla
fiducia di cui essa godeva sui mercati, assunse presto le funzioni e
l’importanza proprie di una moneta internazionale. Della floridezza
economica veneziana, godeva anche la parte più povera della
popolazione, che trovava facilmente lavoro e tranquillità, a
Venezia: mentre sulle navi degli altri Stati, i rematori erano
solitamente dei galeotti o dei prigionieri di guerra, che svolgevano
il proprio lavoro incatenati al remo e costretti a remare dalla
frusta di un’aguzzino, la Serenissima non introdusse questo sistema
se non agli inizi del Cinquecento. In questo modo, i più poveri che
non fossero riusciti a trovare un lavoro a terra, potevano
arruolarsi come rematori sulle navi veneziane percependo un regolare
stipendio. Le ampie possibilità di lavoro e l’operosità del popolo
veneziano, furono la ragione del benessere e della tranquillità,
politica della città. Nel XIV secolo, si ritiene che il reddito
medio dei veneziani fosse di 50 lire in oro pro capite, una somma
che era molto superiore alla media dell’epoca. Questo spiega come la
popolazione di Venezia raggiungesse nel Trecento le 200.000 unità,
la più popolosa città europea del periodo. Il dominio dei mari e
l’attività commerciale, vennero costruiti e mantenuti a seguito di
durissime lotte, prima contro gli Arabi ed i Bizantini, ed in
seguito contro Genova e contro i Turchi. I Genovesi in particolare
avevano aiutato i Greci a ritornare in possesso di Costantinopoli,
causando la caduta dell’Impero Latino ed acquisendo una posizione di
privilegio nel nuovo Impero Bizantino e sull’importante mercato
della sua capitale. In seguito essi si spinsero fino al Mar Nero e
sulla sponda della Crimea, dove fondarono le tre colonie di Caffa,
oggi Feodosia, Balaclava e Sudak. Da queste basi del Mar Nero,
Genova riceveva le granaglie, le pelli ed il legname provenienti
dalla Russia e la seta cinese, che giungeva al porto di Trebisonda
attraverso l’Asia centrale. Non soddisfatti, i genovesi intrapresero
una dura lotta contro Venezia per il possesso degli scali greci e
orientali: le guerre tra queste due potenti Repubbliche Marinare,
durarono decenni, con alterni risultati. Nel 1298 la flotta genovese
penetrò nell’Adriatico sconfiggendo la flotta veneziana nella
battaglia delle Isole Curzolane. Più gravi furono gli scontri
avvenuti nel XIV secolo: nella guerra combattuta nel periodo
compreso tra il 1350 ed il 1354, i veneziani riuscirono ad ottenere
una prima vittoria nelle acque della Sardegna, ma vennero a loro
volta sconfitti nel 1354 nelle acque della Morea, a Portolungo,
dalla flotta genovese comandata da Paganino Doria. Nel 1378 la
guerra riprese: in quello stesso anno, davanti ad Anzio,
l’ammiraglio veneziano Vettor Pisani sconfisse la flotta genovese
catturandone il comandante Luigi Fieschi. L’anno successivo fu la
volta di Venezia a subire una durissima sconfitta nelle acque di
Pola: in quell’occasione, Vettor Pisani riuscì a scampare con sole
sei navi superstiti; tornato a Venezia venne processato e
incarcerato. I genovesi, galvanizzati dal successo, guidati
dall’ammiraglio Pietro Doria, assalirono ed occuparono Chioggia. Per
Venezia fu il momento più drammatico: assalita contemporaneamente
dai Carraresi di Padova, dal re d’Ungheria e dal patriarca di
Aquileia, la città si trovò, con i genovesi che da Chioggia
avanzarono ulteriormente occupando Malamocco. Con uno sforzo
incredibile, la popolazione veneziana riuscì in poco tempo ad
allestire una nuova flotta che bloccò i genovesi a Chioggia
costringendoli poi alla resa. Nel 1381 venne firmata la Pace di
Torino, che pose fine alla Guerra di Chioggia. La condizione storica
più importante fra quelle sancite da questo trattato di pace, fu il
riconoscimento da parte di Venezia, dell’indipendenza della città di
Trieste, che poco tempo dopo passò sotto il dominio degli Asburgo,
rimanendovi fino al 1918. La guerra di Chioggia e la successiva
pace, furono sfavorevoli alla Repubblica di Genova, che esurì nel
corso del conflitto gran parte delle proprie forze e che, a causa di
questo, fu costretta a ridurre la propria presenza nel Mediterraneo
orientale consentendo a Venezia di prendere il sopravvento anche nel
Mar Nero, fondandovi la nuova colonia di Tana, sorta alla foce del
fiume Don, non molto distante dall’odierna città di Azov. Per secoli
la Repubblica di Venezia si impegnò ad estendere i propri domini
solo alle coste adriatiche e del Mediterraneo orientale, sentendosi
sufficientemente protetta sul versante terrestre dalla laguna. In
seguito, con la costituzione nel Veneto e in Lombardia di potenti
Signorie, Venezia fu costretta a cercare un’espansione anche sui
territori di terraferma, come i veneziani definivano le aree poste
fuori dalle lagune. La prima città veneta ad essere occupata fu
Treviso nel 1339. Nei decenni successivi, in seguito alle guerre
sostenute contro i genovesi e le questioni orientali, impedirono
ulteriori progressi. Solo in seguito alla minacciosa espansione
condotta dal signore di Milano Gian Galeazzo Visconti sul territorio
veneto, richiamò nuovamente l’attenzione dei governanti della
Serenissima sulla necessità di estendere i propri territori in
quella direzione. Alla morte del condottiero milanese,
approfittarono della confusione che si era venuta a creare per
annettersi Belluno ed altre terre cedute dagli eredi di Gian
Galeazzo Visconti. Successivamente, dopo una rapida guerra contro il
signore di Padova Francesco Novello da Carrara, Venezia incorporò
tra i propri domini le città di Verona e Vicenza; poco dopo, nel
1405 anche la stessa Padova divenne possesso veneziano. Francesco
Novello, catturato e imprigionato, venne processato, condannato a
morte e strangolato con i suoi due figli. La crudeltà e la
risolutezza dimostrate in questa occasione dal governo veneziano,
tolsero le residue speranze di riscossa ai Da Carrara, la potente
famiglia che per circa un secolo aveva dominato su Padova e su buona
parte del Veneto. Circa nello stesso periodo, venne tolto il
Polesine agli Este, come conseguenza di un prestito non restituito.
In pochi anni Venezia si assicurò il dominio di gran parte del
territorio veneto, inserendosi tra i maggiori Stati italiani come
ampiezza del territorio, solidità economica e stabilità sociale.
Mentre Venezia prosperava sotto la guida dell’oligarchia mercantile,
le altre due importanti Repubbliche Marinare dell’Italia medievale
entravano in un periodo di decadenza. Genova era riuscita nel XIII
secolo a togliere la Sardegna a Pisa, salvo poi perderla a vantaggio
della Casa di Aragona, ponendo in tal modo un’altra regione italiana
sotto il dominio straniero. In Corsica i genovesi riuscirono a
mantenere il proprio controllo, imponendosi con la forza sui baroni
locali. Genova stessa era straziata al suo interno dalle lotte di
fazione e dalle ricorrenti discordie tra i nobili ed il popolo. Per
ovviare a questa situazione, per un certo periodo la città si mise
sotto la protezione dei Visconti, signori di Milano. Poco dopo
Genova si ribellò al dominio milanese e riconquistò la propria
indipendenza. Essa durò poco, poichè a causa di nuove tensioni
interne, il governo decise di porre la città sotto la tutela del re
di Francia, che inviò in città un presidio militare. Liberatasi
anche dall’occupazione francese, Genova tornò, ad essere nuovamente
preda degli scontri tra fazioni che si prolungarono ancora per
secoli. Nonostante questo, grazie alla propria intraprendenza e alle
capacità, lavorative del popolo, l’economia genovese riuscì a
rifiorire. I banchieri genovesi in particolare, continuarono a
concludere affari molto redditizi, soprattutto con i sovrani
spagnoli, mentre la marineria ligure continuava a tener alto il
proprio prestigio. Ben peggiore fu il destino di Pisa: dopo la grave
sconfitta subita nel 1284 ad opera dei genovesi nella battaglia
della Meloria, essa dovette subire l’aggressione da parte di Firenze
e delle altre città toscane sue alleate. In particolare, Firenze era
intenzionata ad impadronirsi della foce dell’Arno per i propri
traffici d’oltremare. Proprio per evitare questo assoggettamento,
Pisa si pose sotto la protezione di Signorie locali e straniere. La
prima di queste Signorie, fu quella del conte Ugolino della
Gherardesca, mentre l’ultima fu quella di Gian Galeazzo Visconti,
sotto la cui protezione i pisani si erano posti per evitare di
cadere sotto il dominio fiorentino. Alla sua morte, Firenze riprese
l’offensiva contro Pisa: il lungo assedio posto dall’esercito
fiorentino alla città causò la morte per fame di una buona parte
della popolazione locale. Nel 1406 Pisa si arrese ed entrò a far
parte dello Stato fiorentino, ma da allora il suo commercio non
tornò più florido come un tempo.
Il Ducato di Milano nel XIV secolo
Una delle maggiori Signorie costituitesi nella Valle Padana, fu
senza dubbio quella dei Della Scala di Verona. Essa estese il
proprio dominio su buona parte del Veneto, penetrando in Lombardia,
Emilia e perfino in Toscana. La potenza dello Stato scaligero finì
per urtare contro gli interessi di altri Stati ben più solidi
economicamente e finanziariamente quali Venezia, Milano e Firenze.
Aggrediti da una lega formata da città vicine, i Dalla Scala non
furono in grado di difendersi adeguatamente e nel 1339 i loro domini
si riducevano alle sole città di Verona e Vicenza, dalle quali
vennero definitivamente spodestati nel 1384. Il loro posto venne
preso dalla Signoria milanese dei Visconti, che ebbe un rapido
sviluppo. Milano aveva avuto da sempre un ruolo di primo piano tra
le città lombarde: la sua industria e specialmente quella delle armi
era in pieno sviluppo, mentre l’artigianato milanese godeva ormai di
fama internazionale. La città si trovava al centro di una delle aree
agricole più fertili della penisola; una fitta rete di canali,
consentiva la navigazione interna ed il collegamento al mare per
mezzo del fiume Po. Il commercio e le banche, facevano di Milano una
delle principali città italiane ed una delle meglio collegate ai
mercati stranieri ed in particolare con quello francese. Tutte
queste circostanze favorevoli fornirono larghi mezzi finanziari ai
Visconti, signori di Milano: i sussidi da loro fatti pervenire al re
Carlo V di Francia, permisero al sovrano di risollevarsi dalle
condizioni disastrose nelle quali si era venuto a trovare il regno
dopo la pace di Brétigny del 1360 eriprendere la guerra contro gli
Inglesi. I Visconti approfittarono della loro potenza economica per
allargare i propri domini, in un crescendo di guerre che si
protrassero per tutto il XIV secolo. Questa espansione raggiunse il
suo apice nel periodo compreso tra il 1378 ed 1402, sotto il governo
di Gian Galeazzo Visconti, che ottenne dall’Imperatore il titolo di
Duca di Milano. Dei suoi domini entrarono a far parte, oltre alla
Lombardia, una parte del Piemonte comprendente le città di Novara,
Vercelli ed Asti, buona parte del Veneto, con le città di Verona,
Vicenza e Padova, le città di Siena e Pisa in Toscana, Bologna e
Parma in Emilia e perfino Perugia in Umbria. Quando ormai si
accingeva ad occupare anche Firenze, vene colto dalla morte. Dal
momento che i territori da lui conquistati non erano ancora
unificati in un saldo organismo statale, dopo la sua morte, gran
parte di questi territori andarono perduti. Rimase la sola
Lombardia, già da tempo unificata nel Ducato di Milano.
Rinascimento
L'Italia alla fine dell'epoca medievale
Alla fine del Medioevo, nonostante si fossero costituite unità
politiche territoriali di ragguardevoli dimensioni, l’Italia contava
ancora una gran quantità di Stati minori come ad esempio Ferrara,
nella quale regnava la signoria d’Este, Mantova sotto i Gonzaga, le
repubbliche di Siena, Lucca e Genova. Il più ragguardevole fra gli
Stati minori era la Repubblica di Genova, che comprendeva oltre alla
Liguria anche la Corsica; essa era sempre agitata dalle discordie
interne della sua oligarchia mercantile e doscillava fra la
soggezione a Milano e quella alla Francia. Un altro Stato che in
futuro avrebbe avuto un peso sempre maggiore nella politica italiana
era quello dei Savoia, antica nobile famiglia originaria di Paesi
posti al di là delle Alpi. I conti di savoia apparvero per la prima
volta sulla scena politica italiana nel corso del XIV secolo: Amedeo
VI, soprannominato il Conte Verde, fece da mediatore fra Genova e
Venezia al termine della Guerra di Chioggia, mentre il suo
successore Amedeo VII, detto il Conte Rosso, si impadronì della
città di Nizza. Infine, Amedeo VIII alla morte di Gian Galeazzo
Visconti, s’impadronì di buona parte del Piemonte, riuscendo ad
ottenere dall’Imperatore il titolo di Duca di Savoia. Nel 1430
abdicò ritirandosi in un convento, dal quale uscì, dopo la sua
elezione ad antipapa decisa dal Concilio di Basilea. Il nome da lui
scelto fu Felice V. Dopo dieci anni egli rinunciò al soglio
pontificio ponendo fine allo scisma che si era nuovamente aperto
all’interno della Chiesa. I suoi successori presero parte attiva
alla politica italiana, mirando soprattutto ad acquistare il dominio
completo sul Piemonte, nel quale ancora si reggevano realtà quali il
Marchesato del Monferrato, il Comune di Asti e la città, di Novara,
ancora in possesso dei signori di Milano. Ma L’Italia non era solo
afflitta dalla frammentazione in molti Stati, ma anche dalle
divisioni interne nei singoli Stati. L’unica eccezione a questa
situazione era la Repubblica di Venezia, dove la ferrea politica
esercitata dall’oligarchia era riuscita ad escludere totalmente la
popolazione dagli affari pubblici e, nonostante ciò a mantenerla
unita ed in pace. Tutto ciò, era dovuto da una parte all’alleanza
con le oligarchie locali del Veneto e dall’altra al benessere che il
governo della Repubblica riusciva ad assicurare alla popolazione.
Inoltre l’amministrazione veneziana era ben organizzata e retta
onestamente, specialmente per quanto riguardava la giustizia. In
tutti gli altri Stati italiani la discordia ed il sospetto regnavano
sovraniportando come conseguenza l’arbitrio ed il disordine. Nel
Meridione, i baroni vessavano i contadini e fremevano in attesa
dell’occasione propizia per tradire il loro re; nello Stato
Pontificio, le Signorie locali spadroneggiavano sulle città e nelle
campagne, contrastate inutilmente dal potere centrale; nelle
Signorie maggiori e minori, che in qualche modo era riuscito a
prendere il potere, viveva perennemente nell’ansia che altre potenti
famiglie riuscissero a sottrarglielo. Le cospirazioni erano
piuttosto frequenti, ed in esse non di rado partecipavano membri
scontenti della stessa famiglia che deteneva il potere: pugnale e
veleno erano i mezzi più usati di difesa e offesa. In più occasioni,
famiglie e cricche di potenti fecero appello all’aiuto dello
straniero per conservare o conquistare il potere: fu proprio da uno
di questi intrighi di famiglia che scoccò la scintilla che in breve
incendiò l’Italia. Per usurpare definitivamente il Ducato di Milano,
che in precedenza aveva occupato con l’inganno, ed abbattere il re
di Napoli, suo possibile avversario nella losca impresa, Ludovico il
Moro chiese aiuto al re di Francia, che nel 1494 rispose all’appello
e scese con il proprio esercito in Italia. Iniziarono così per
l’Italia tre secoli di occupazione straniera.
Lotta tra Stati italiani per la supremazia
La prima metà del Quattrocento, fu segnata in Italia da aspre lotte
fra Stati per il raggiungimento della supremazia. I principali
protagonisti di questi scontri furono il Ducato di Milano e la
Repubblica di Venezia. Quest’ultima, dopo la morte di Gian Galeazzo
Visconti, approfittò del momento di confusione venutosi a creare
nello Stato milanese per estendere i propri domini nel Veneto
occidentale; inoltre, dopo aver lottato contro i patriarchi di
Aquileia e i duchi d’Austria, estese il proprio territorio in Friuli
fino all’Isonzo e nel Trentino fino alla città di Rovereto, divenedo
quindi un forte Stato territoriale, potente finanziariamente, grazie
ai suoi traffici marittimi e politicamente, grazie al governo
oligarchico nobiliare che garantiva stabilità. Dopo la morte di Gian
Galeazzo Visconti, Il Ducato di Milano perse molte delle conquiste
territoriali conseguite dal defunto duca. Nonostante tutto, il
figlio di Gian Galeazzo, Filippo Maria Visconti, una volta preso il
potere, riuscì ad estendere i propri domini in parte del Piemonte e
dell’Emilia, attirando nuovamente nell’orbita milanese la Repubblica
di Genova. Le ambizioni espansionistiche dei milanesi e dei
veneziani, condussero inevitabilmente ad uno scontro armato che ebbe
inizio nel 1423 e terminò nel 1433 con la vittoria di Venezia,
sancita dalla Pace di Ferrara e che fruttò alla Repubblica le città
di Bergamo e Brescia. Ma questo non era ancora sufficiente per il
governo veneziano, che alla morte di Filippo Maria Visconti,
intravvide la possibilità di divenire padrone dell’intera Lombardia.
Le aspirazioni veneziane, erano tuttavia contrastate da Firenze, che
non vedeva di buon l'espansione veneta nell’Italia settentrionale. A
Milano venne proclamata la Repubblica Ambrosiana, che aveva posto
alla guida delle sue milizie Francesco Sforza. Entrato in città alla
testa delle sue truppe, la occuppò con l’inganno, divenendone il
Signore, riprendendo subito dopo la guerra contro Venezia. La lotta
tra i due Stati proseguì fino al 1454, allorquando i contendenti
addivennero alla Pace di Lodi, che riconosceva a Francesco Sforza il
titolo di duca di Milano, mentre dal punto di vista territoriale
nulla cambiò. In realtà , Venezia si convinse a sottoscrivere la
pace a causa della drammatica notizia della caduta di Costantinopoli
nelle mani degli Ottomani; in seguito, il pericolo turco richiamò su
di sè tutta l’attenzione del governo veneziano, che tralasciò ogni
ulteriore tentativo di espansione in Italia.
Un’altra guerra che in modo diverso interessò gli Stati italiani, fu
quella che si combattè nel Meridione fra Renato d’Angiò e Alfonso
d’Aragona, per la successione della regina Giovanna II. Grande e
abile condottiero, Alfonso D’Aragona sconfisse il rivale e conquistò
l’intero regno, fondando la nuova dinastia degli Aragona. Nel 1441,
a seguito della Pace di Cremona, egli venne riconosciuto come re di
Napoli dagli altri Stati italiani. Sotto il suop regno e quelli dei
suoi successori, le popolazioni meridionali poterono finalmente
godere di alcuni decenni di pace, dopo quasi un secolo di continue
guerre civili.
La Pace di Lodi segnò per l’Italia l’inizio di un quarantennio di
pace, interrotto solo da alcuni scontri di scarsa importanza. Questo
buon risultato fu dovuto principalmente alla partà di forze dei
maggiori Stati italiani, che si risolse successivamente in un grave
danno per la nazione, poichè impedì l’unificazione dell’Italia in un
unico organismo statale. Presto i piccoli Stati italiani caddero
preda delle potenze straniere, e il Paese divenne un grande campo di
battaglia per gli eserciti delle maggiori potenze europee.
Nella seconda metà del Quattrocento, gli Stati italiani attuarono
una politica di equilibrio, che consisteva essenzialmente nel
bilanciarsi a vicenda, in modo tale da impedire modificazioni delle
condizioni territoriali e dei rapporti di potenza tra gli Stati.
Umanesimo e Rinascimento
La fioritura dell’Umanesimo, era strettamente connessa all’epoca
medievale, poichètrasse le proprie origini dalla forma più compiuta
della civiltà medievale, la civiltà dei Comuni. L’organizzazione
comunale, pose infatti l’uomo al centro della vita cittadina,
attribuendo al suo lavoro la massima importanza, creando le premesse
per l’Umanesimo. Quest’ultimo, nacque come affermazione del diritto
dell’uomo a realizzare nel mondo la propria personalità, in pieno
contrasto con la religione medievale che indicava come l’unico scopo
della vita umana, il raggiungimento della felicità ultraterrena.Il
vagheggiamento dell’antichità ebbe come immediata conseguenza il
culto per l’arte e la letteratura, già presente in precedenza nelle
opere di Dante Alighieri. Furono le opere di Francesco Petrarca, ad
annunciare la concezione della vita come una gioiosa manifestazione
della bellezza, propria del mondo umanistico e rinascimentale. Con
il Boccaccio, fa la sua comparsa nella letteratura l’uomo vivo e
vero, grazie alla prima rappresentazione della vita e del costume
dei vari strati sociali nell’epoca compresa tra il declino della
civiltà comunale e l’avvento delle Signorie. L’Umanesimo trovò i
propri riflessi nei nuovi programmi pedagogici, che miravano ad
impartire un tipo di educazione intesa alla valorizzazione delle
qualità di ciascun individuo, al di fuori di ogni forzatura; esso si
espresse nella filosofia, innalzando l’uomo al livello di
intermediario tra la Terra ed il cielo. Venne in tal modo a formarsi
una nuova ideologia che trovò un’ anche nelle classi popolari. Uno
sviluppo diretto del movimento umanista, fu nel XVI secolo il
Rinascimento, titolo coniato da Giorgio Vasari che esprimeva la
certezza di essere vicini ad una nuova era di rigenerazione
dell’umanità. L’uomo veniva ormai concepito come una entità
individuale completa e autonoma, contrapposta all’infinità
dell’universo. A lui spettava il compito di dominare ed asservire le
forze della natura, creando un mondo a propria misura. In due opere
filosofiche questi ideali assunsero forme utopistiche: La città del
sole dell’Italiano Tommaso Campanella e L’Utopia dell'Inglese
Tommaso Moro, che auspicavano una società fondata su di un principio
comunitario, nella quale gli ideali dell’Umanesimo prima e del
Rinascimento in seguito, trovarono una diretta espressione.Quando
però dagli ideali si doveva passare alle applicazioni pratiche, il
modello al quale si ispirarono i condottieri dell’epoca, fu Il
Principe di Niccolò Macchiavelli, l’iniziatore del pensiero politico
moderno. Libero da preoccupazioni moralistiche e soprattutto
consapevole dell’impossibilità di realizzare ideali che trovassero
la propria base nella realtà effettuale, ossia quella realtà che
affondava le sue radici nell’organizzazione economica, il
Macchiavelli propugnò uno Stato forte, del tutto indipendente dalla
Chiesa e capace di compiere l’unificazione nazionale. Proprio per il
fatto che la nuova cultura trasse origine dall’organizzazione
politica dell’etàcomunale, essa conobbe una certa diffusione nella
maggior parte dei paesi europei, anche se l’Italia ne fu il centro
propulsore ed anche il Paese nel quale essa si sviluppò per la prima
volta. L’Umanesimo fu quindi un movimento europeo che annoverò in
quasi ogni Paese europeo i propri più insigni rappresentanti:
dall’Italia alla Francia, dall’Inghilterra alle Fiandre. Questi
uomini, legati da comuni interessi culturali e da rapporti di
fraterna amicizia, confrontarono le loro conoscenze al di là delle
differenze nazionali e dei contrasti politici.