Medio Evo e Rinascimento


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Origine e sviluppo del Feudalesimo

Alla morte di Carlo Magno, l’impero carolingio si frantumò, portando alla creazione di una miriade di distretti autonomi, che vennero denominati feudi; questi territori venivano generalmente concessi da un sovrano ai suoi servitori più fedeli. Questa pratica era particolarmente in uso presso i germanici e risaliva all’epoca delle prime conquiste effettuate dai re barbarici Alarico, Odoacre, e Teodorico. Questa consuetudine, trovò la sua massima applicazione nell’Italia longobarda con l’istituzione dei ducati e nella Francia carolingia con la creazione dele contee e delle marche.I successori di Carlo Magno, non riuscirono ad esercitare un adeguato controllo sull’operato dei conti e dei marchesi e mantenere così l’unità dello Stato al contrario, fecero di tutto perchè si creassero i presupposti per il disfacimento dell’Impero; infatti, per riuscire ad assicurarsi le forze militari necessarie per poter prevalere sull’avversario nella corsa alla Corona imperiale, essi non esitarono a concedere dei benefici ai propri Vassalli : la riscossione delle imposte a titolo personale, l’arruolamento delle truppe, lo sfruttamento delle saline e delle miniere e l’amministrazione della giustizia, che veniva resa ai sudditi nel corso di un pubblico giudizio detto placito. L’esercizio di tutti questi poteri veniva definito immunità, ed in cambio di tutto ciò, i dignitari, fossero essi laici o religiosi, si riconoscevano fedeli al sovrano e gli rendevano omaggio giurandogli fedeltà nel corso di una cerimonia solenne. Il giuramento impegnava il vassallo a non fare mai guerra al suo signore, a fornirgli in caso di bisogno aiuto militare e finanziario, ospitandolo presso la propria corte quando questi si trovava a passare nel suo feudo e a fornire viveri al suo esercito in caso di necessità. Da parte sua il re si assumeva il dovere di proteggere il proprio vassallo in qualsiasi situazione, ma si riservava di privarlo di tutti i benefici concessi se questi avesse violato il suo giuramento. Ricapitolando, il potere feudale si fondava quindi essenzialmente su tre istituzioni: l’omaggio, il beneficio e l’immunità. Una variazione importante rispetto all’epoca carolingia, fu che l’usufrutto su un territorio, da temporaneo divenne vitalizio. Successivamente, Carlo il Calvo, nel Capitolare di Querzy dell’877, stabilì che quando il possessore del feudo moriva, tutto passava ai figli o ai legittimi successori. In tale modo, i nobili laici tramandavano la propria signoria da padre in figlio, mentre nei feudi amministrati da ecclesiastici, i vescovi e gli abati ne beneficiavano per tutta la durata del loro mandato. A loro volta i feudatari potevano concedere benefici ai propri fedelissimi, sottoponendoli agli stessi obblighi di fedeltà e mutuo soccorso in caso di necessità. Questi nuovi beneficiari erano detti Valvassori, che potevano cedere a loro volta parte dei diritti acquisiti ad altri loro conoscenti dettiValvassini. Questa subinfeudazione proseguiva finchè era possibile offrire a qualcuno un beneficio anche minimo, ottenendo in cambio appoggio e fedeltà. Veniva così a crearsi sul territorio di un unico grande feudo, un rapporto di vassallaggio che legava fra loro diverse persone, ognuna delle quali aveva diritto a determinati benefici, sottostando in cambio a diversi obblighi. Verso la fine del X secolo, tutta l’Europa centro-occidentale e l’Italia centro-settentrionale apparivano smembrate in una moltitudine di feudi di varia estensione, ed i Regni sorti dallo sfaldamento dell’Impero dei Franchi, erano in balia dei feudatari che mal tolleravano l’autorità del re. In ognuno di questi regni, il sovrano aveva almeno nominalmente il potere supremo e rappresentava il vertice della gerarchia feudale. I gradi intermedi erano rappresentati dai grandi vassalli, dai valvassori, che in Francia erano conosciuti con il nome di baroni, mentre in Italia erano detti capitanei; ultimi per importanza erano i valvassini ed i militi, che molto spesso erano dei vassalli privi però di benefici. Tutte queste categorie di persone formavano la nobiltà, governavano i feudi, esercitavano la pratica delle armi ed abitavano in castelli situati all’interno delle loro proprietà. L’altra classe feudale era quella dei dipendenti, così detta perchè formata da uomini soggetti alla nobiltà e divisi in due categorie: contadini ed artigiani. I primi erano molto numerosi ed il loro nome derivava da contea o contado ed erano generalmente dei servi della gleba, facevano quindi parte del fondo agricolo sul quale lavoravano e vivevano seguendone il destino; erano praticamente di proprietà del feudatario, anche se la loro condizione non era in nulla simile a quella degli antichi schiavi. Questi coloni feudali avevano infatti il diritto di possedere dei beni, che potevano essere poi ereditati dai loro figli, oltre al diritto di crearsi un famiglia. Alcuni di loro, che coltivavano le terre del signore, vivevano nel borgo, un agglomerato di case costruite a ridosso delle mura del castello; lì vivevano anche gli artigiani che producevano tutti gli strumenti, i manufatti e gli attrezzi necessari agli abitanti del feudo. Nei fondi rustici più o meno lontani dal castello vivevano quei coloni detti censuari, sottoposti cioè al pagamento delle imposte. In cambio del godimento dei prodotti forniti dal fondo da essi coltivato, i contadini dovevano assicurare al loro signore determinati servizi detti corvées: coltivare gratuitamente i suoi poderi, effettuare il servizio di sorveglianza al castello e al territorio circostante, prestare il servizio militare come truppe ausiliarie in caso di guerra ed inoltre effettuare la manutenzione di tutte le opere murarie e delle strade del feudo. Oltre a tutto ciò erano gravati da banalità, erano cioè obbligati ad utilizzare pagando un tributo solo i mulini, i forni ed i torchi di proprietà del feudatario. Egli era solito riscuotere diversi tributi occasionali di varia natura: il ripatico, che veniva corrisposto da chi camminava sulla riva di un fiume; il pontático, pagato da chi passava su un ponte; l’erbático, dovuto da chi tagliava o calpestava l’erba di un prato; altri tributi come ad esempio il rotático o il polverático, dovevano essere corrisposti al signore per danni causati alle strade dalle ruote dei carri e per il fastidio arrecatogli dalla polvere sollevata dai veicoli. Non era abitudine del feudatario sfruttare spietatamente i propri sudditi; era considerato come un patriarca, nel quale i sottoposti vedevano un protettore e nel castello l’insostituibile centro della vita economica e sociale del feudo. La terza classe, il clero, era costituita da uomini liberi dediti alle pratiche religiose. Il clero regolare soggetto alla regola di San Benedetto da Norcia, viveva nei monasteri, mentre il clero secolare esercitava il proprio ministero tra gli abitanti delle città e delle campagne. Pur godendo di vari privilegi, il clero di grado inferiore viveva a contatto diretto con i sudditi feudali condividendone spesso le dure condizioni di vita. La condizione dei monaci era invece diversa, essi passavano la maggior parte della loro vita pregando e lavorando all’interno dei loro monasteri, nei quali, in età feudale si mantenne viva la cultura e continuarono ad operare anche le scuole istituite in epoca carolingia. L’alto clero era costituito da vescovi ed abati che appartenevano alla nobiltà feudale, godendo di tutti i diritti e di tutti gli obblighi che ne derivavano. In genere i feudi ecclesiastici erano meglio organizzati di quelli laici, essendo i vescovi-conti assistiti nell’opera di amministrazione da funzionari di grande esperienza e di cultura superiore, provenienti dal clero. Erano pochi i non nobili liberi da servitù feudali; si trattava nella maggior parte dei casi di individui proprietari di modesti poderi, esenti da tributi e chiamati allodii.

Cavalleria

Secondo il diritto feudale, il feudo ottenuto in beneficio doveva essere trasmesso alla morte del signore al suo primogenito maschio. I figli minori, i cadetti, dovevano quindi adattarsi a vivere sotto la tutela del fratello maggiore, oppure abbracciare la carriera ecclesiastica o, in alternativa quella militare. Nel primo caso essi ottenevano spesso dei benefici collegati al monastero nel quale entravano, oppure potevano ambire al possesso di feudi ecclesiastici vacanti. Se decidevano di seguire la carriera militare, prendevano servizio presso un signore e dopo un duro tirocinio in qualità da scudieri, gli era possibile ambire al titolo di cavalieri. La Chiesa, allo scopo di limitare lo spirito guerresco dei signori, tentava di dirigere l’operato degli aspiranti cavalieri, verso fini nobili e più degni di tale titolo: giustizia, probità, lealtà, cortesia e soprattutto la difesa dei più deboli. In questo modo l’investitura cavalleresca veniva ad assumere il carattere di una consacrazione religiosa, per mezzo della quale il cavaliere entrava a far parte di una confraternita, la Cavalleria, nella quale vigeva un codice comprendente regole estremamente severe ed esclusive. Molto spesso la Cavalleria costituì per molti un valido aiuto contro le prepotenze dei feudatari e la Chiesa stessa vi fece assegnamento per la lotta contro barbari e infedeli. In realtà molti cavalieri vennero meno alle regole, mostrandosi avidi di ricchezze e sanguinari, quindi molto diversi dai cavalieri erranti spesso citati come esempi di rettitudine nelle poesie medioevali.

La vita nell'epoca feudale

Le fiorenti città dell’epoca Romana, attivi centri culturali, economici e politici, in seguito alla conquista da parte delle rozze popolazioni germaniche, decaddero sempre più. Questi popoli erano infatti poco inclini alla cultura e concepivano come unica utile proprietà la terra, mentre come attività alternativa all’agricoltura prediligevano l’agricoltura. I feudi possono quindi essere considerati come il frutto di questo processo di ruralizzazione dell’economia. Nell’età feudale l’unica vera fonte di ricchezza era rappresentata dall’agricoltura, e poichè ogni feudo rappresentava una comunità chiusa e concentrata intorno al castello del signore, dava origine ad un’economia detta acircolo chiuso. Poche erano le vie di grande comunicazione, insicure per via delle continue scorribande di gruppi di ladroni. Gli innumerevoli castelli erano un po’ le capitali dei numerosi staterelli, ognuno dei quali viveva chiuso in se stesso, quasi come se i limiti che lo dividevano dai villaggi confinanti, rappresentassero i confini del mondo. Le attività agricole e l’allevamento venivano praticati con mezzi inadeguati e di conseguenza si aveva una bassa produttività e frequenti carestie. Ogni feudo era suddiviso in due circoscrizioni agricole: la parte dominicale, che era la meno estesa ma più fertile, veniva coltivata dai servi del feudatario, al quale era riservata la totalità dei prodotti, e la parte colonica, appartenente anch’essa al signore, ma divisa in mansi veniva coltivata dai censuari che ne godevano i frutti. Su questi contadini gravavano però dei tributi in natura destinati al feudatario e delle contribuzioni straordinarie relative all’utilizzo di determinati servizi o strutture; a tutto questo si dovevano aggiungere le corvées, prestazioni gratuite che i censuari dovevano fornire al signore quando questi lo richiedeva. I prodotti di queste due parti confluivano negli edifici che componevano il corpo periferico del castello; qui venivano lavorati e conservati. Essendo il feudo autosufficiente dal punto di vista della sussistenza, gli scambi erano inutili; un’eccezione era rappresentata da un modesto commercio di metalli, sale, olio e spezie. Con la cessazione dei traffici cessa anche la circolazione delle monete, sostituite nuovamente dal baratto. Nei feudi ecclesiastici e nei grandi monasteri benedettini, grazie all'operosità dei monaci la vita era più fervida e meno dura. La cultura era ormai un patrimonio gestito da loro e dal clero operante nelle città al fianco dei vescovi-conti. Gli argomenti letterari erano prevalentemente ispirati ai testi sacri e alla vita dei santi; la lingua utilizzata era il latino, nella quale erano pure redatti i testi profani, mentre iniziavano a diffondersi in Italia, Francia e Spagna i primi manoscritti in lingua popolare o volgare, testimonianza del lento formarsi delle lingue neolatine. L’architettura degli edifici presentava linee molto semplici e sobrie e sia che essi fossero edifici religiosi, palazzi pubblici o dimore, assomigliavano a fortilizi, poichè in caso di necessità dovevano essere in grado di accogliere e proteggere gli abitanti dei dintorni. Le arti figurative, praticamente inesistenti, erano limitate alle miniature dei codici e alle sculture contenute nei bassorilievi ornamentali. Il castello rappresentava il vero centro della vita feudale; concepito a scopo di difesa e di ricetto del feudatario, dei coloni e di tutti i beni del feudo, si presentava come una costruzione massiccia, realizzata originariamente con tronchi d’albero, ed in seguito con pietre e mattoni ricavati a volte dalla demolizione di preesistenti costruzioni romane. Cinto da cerchie murarie o da palizzate, era il luogo nel quale risiedeva abitualmente il signore con la propria famiglia, i servi e gli eventuali ospiti. Il castello veniva generalmente edificato in un punto del feudo ben difeso naturalmente, che poteva essere un’altura, l’ansa di un fiume, oppure un punto dominante un passaggio obbligato. Molte volte appariva circondato da dirupi inaccessibili o da fossi profondi pieni d’acqua. Attraverso un ponte levatoio e una stretta passerella, entrambi difesi dal barbacane, un piccolo fortilizio esterno, si giungeva al torrione centrale, il mastio. Ed era qui che viveva il feudatario con la sua famiglia. Spartanamente arredato e privo di vetri alle poche e piccole finestrelle, il castello si presenta inizialmente come una dimora scomoda, buia e fredda, ma piuttosto salda contro i pericoli provenienti dall’esterno. Solo a partire dal XII secolo viene abbellito divendo una confortevole sede di una società più brillante ed evoluta, più sensibile alle arti, seguendo quindi le usanze delle Corti feudali della Provenza. Nel X secolo tutto questo è ancora ben lontano: i castellani sono infatti alquanto rozzi, molto violenti e spesso analfabeti. La loro vita è scandita dalle consuetudini imposte dalle esigenze del feudo. Le maggiori occupazioni dei feudatari sono rappresentate dalla guerra, dalla caccia, dalle passeggiate a cavallo e dall’addestramento nell’uso delle armi; queste attività sono intervallate dai placiti, nel corso dei quali viene amministrata la giustizia per i sudditi, oppure dagli intrattenimenti offerti dai giocolieri, artisti abilissimi nei giochi di equilibrio e destrezza. A volte i signori più importanti organizzavano giostre o tornei, nel corso dei quali succedeva spesso che qualche duellante rimanesse privo di vita sul terreno, nonostante che per questi scontri venissero utilizzate spade e lance smussate e scudi più rinforzati rispetto a quelli utilizzati nei combattimenti veri e propri. Molto diversa era la vita per i contadini e gli artigiani alle dipendenze del feudatario. Essi dovevano innanzitutto svolgere i lavori obbligatori ed i servizi straordinari imposti dal loro signore, per svolgere le quali occorreva la prima parte della settimana; nei rimanenti giorni, i contadini affittuari potevano coltivare i propri poderi, ognuno dei quali forniva il nutrimento ad una famiglia. Il tempo rimasto veniva impiegato nello sfruttamento delle terre comuni, lasciate incolte per poter far legna da ardere o per il pascolo; queste terre erano a disposizione di tutti gli abitanti del feudo. Il lavoro nei campi veniva svolto con metodi antiquati ed inadatti: i contadini utilizzavano per l'aratura dei campi un aratro di legno che riusciva a malapena a scalfire la superficie del terreno e questo, insufficientemente concimato, dava uno scarso raccolto e per questo motivo doveva essere lasciato incolto per due anni su tre. I coloni vivevano in capanne molto povere e malsane, nelle quali si cercava di campare alla meglio; il vitto era costituito principalmente da zuppe a base di cereali o legumi, pane e latticini, mentre le carni venivano consumate molto di rado. Le già misere condizioni di vita, venivano ulteriormente peggiorate con l’arrivo di tre flagelli molto ricorrenti nell’epoca medievale: le carestie, le epidemie e le guerre. Le città fino ala fine del X secolo ebbero poca importanza nel mondo feudale. I feudatari furono incapaci di riportarle agli antichi splendori; essi infatti preferivano la vita al castello, che era divenuto il centro di un sistema economico-rurale che assicurava loro ricchezza, potere ed i sudditi sui quali esercitarlo. Le antiche ed un tempo ricche città, si erano ridotte a piccoli centri privi di vita sociale e di commercio, sulle quali vegliava, unica autorità forte rimasta, un vescovo. Fu proprio intorno a lui che si formò una nuova categoria sociale composta da artigiani, mercanti e funzionari: la borghesia. I vescovi, spesso investiti di autorità feudale, curavano e promuovevano gli interessi dei loro cittadini, molto meglio di quanto non facessero i feudatari laici con i loro contadini. Fu così che nelle città iniziò nuovamente a svilupparsi la vita economica e culturale: si cominciò col rilanciare l’iniziativa commerciale, che presto avrebbe permesso ai borghesi di confrontarsi con successo contro i signori feudali del contado.

Tasse e balzelli nel Medio Evo

periodo medievale.
Il Focatico
L'imposta istituita da Carlo I D'Angiò nel 1263, era una tassa applicata a ciascun fuoco o focolare, cioè su ciascuna abitazione di un gruppo familiare o su ciascun fumante se l'abitazione comprendeva più gruppi familiari. Il fuoco nel basso medioevo denominava, come detto, l'unità famigliare composta da tutti coloro che vivono nella stessa casa, saldano dosi e cucinano al medesimo fuoco. Nella primavera di ogni anno, il comune inviava alla Magistratura Comunitarie la consueta stampa occorrenti a compilare le operarazioni di focatico. Entro il 30 giugno venivano inoltrate le scritture che alla fine di agosto veniva rispedite alla rappresentanza comunitaria, con il foglio di riparto approvato per detta imposta, mentre i ruoli venivano passati all'esattore comunale per la riscossione da farsi entro date ben precise. Il ruolo si divideva in tre categorie:il fuoco, la terra coltivata e la classe di reddito. I meno abbienti non era assoggettati a tale imposta, ma questo dava origine ad evasioni o a esenzioni concesse per individui che ricoprivano cariche pubbliche (senatori, notai, clero, ecc…).

L'Imbottato
Il dazio era sostanzialmente una tassa che doveva essere pagata da tutta la comunità per i prodotti agricoli che si possedevano. In un registro risulta "d'imbottar li grani et vini in calende di Novembre di ciascuno Anno per quali grani et vini, quelli che in detto giorno si trovano averli in casa sono tenuti subito fatta la visita et descrittione d'essi pagar alla comunità. Per esempio a Gambolà nel 1619 erano tassati per imbottato un sacco di frumento, fagioli, segale, ceci, fave per due soldi; un sacco di miglio, avena, melega per un soldo; una brenta di vino buono puro per quattro soldi; una brenta di vino chiappato per due soldi e otto denari, ma venivano tassati nuovamente se questi beni venivano venduti o comprati da forestieri.

Fodro
Dal francone fodar, nutrimento, indica l'obbligo di fornire ospitalità e sostentamento al re, all'imperatore, ai titolari di pubbliche funzioni, al loro seguito e alle milizie, incombente sui vassalli, sui possessori di terre o complessivamente sulle collettività delle località attraversate durante il loro passaggio. Utilizzato nei diritti germanici e nordici, presentava analogie con l'annona romana. Determinante per l'esercizio effettivo della giurisdizionale, perchè garantiva i rifornimenti alle autorità itineranti, ebbe costante applicazione nel corso del medioevo e costituiva uno dei fondamentali diritti pubblici.
Dal sovrano il fodro passò ai conti, ai vescovi, agli abati, alle città e grandi o medi proprietari. Fu uno dei principali scontri da Federico Barbarossa e le città lombarde. E detto anche albergaria.

Altri tributi e diritti feudali

abbeverata: per dissetare gli animali nei fontanili; in latino medioevale ius beverandi

acquatico: per attingere acqua da fonti o sorgenti; in latino medioevale ius aquandi

erbatico: per falciare l'erba in un prato; detto anche erbaggio

glandatico: per raccogliere ghiande o condurre maiali nei querceti; anche escatico e ghiandatico

legnatico: per tagliare e raccogliere legna di alto fusto; in latino medioevale ius lignandi; altro sinonimo boscatico

macchiatico: per raccogliere legna di basso fusto, arbusti

pantanatico: per pescare anguille e rane negli stagni

pascolatico: per condurre greggi al pascolo (ius pascendi); più diffuso il diritto di fida

pedatico: per attraversare o percorrere a piedi strade, sentieri o proprietà private; anche pedaggio

piscatico: per catturare pesci in acqua dolce o salata; anche pescatico

pontatico: per transitare sui ponti doganali o di proprietà privata

ripatico: per approdare o sostare su rive di acque interne

siliquatico: per raccogliere carrube ed altri baccelli

spicatico: per raccogliere spighe dopo la mietitura; in latino medioevale ius spicandi; inoltre spicilegio e spigaggio

Il papato di Innocenzo III

Lotario dei conti di Segni, venne eletto papa a soli 37 anni nel 1198 e fu una delle figure di maggior spicco nella lunga storia della Chiesa. Egli professava il principio della supremazia assoluta del papa su tutti regnanti della terra, che da lui vedevano derivare tutto il loro splendore. Ai sovrani spettava il potere sui corpi, mentre al papa quello sulle anime. Egli seppe tradurre talmente bene nella pratica questi concetti, da garantire al papato un prestigio e un’autorità rimaste senza pari ancora oggi. Nonostante la sua grande potenza, egli era personalmente un asceta, che portava sempre sulle carni il cilicio, professava rigidissimi costumi ed era animato da un costante pessimismo verso le cose terrene ed umane, come è ampiamente dimostrato nel principale dei suoi scritti: De contemptu hominis che tradotto significa Sul disprezzo dell’uomo.Attuò sempre una politica duttile e paziente, egli fu piuttosto abile a trarre profitto dalle diverse situazioni, là dove le circostanze lo permettevano. Alla morte di Enrico VI, seppe approfittare della crisi venutasi a creare nell’interno dell’Impero tedesco, per indurre o, in alcuni casi costringere, i feudatari o i ministeriali tedeschi ad abbandonare le città dell’ Umbria, delle Marche e della Romagna, i cui governi prestarono giuramento di fedeltà al papa, il quale riconobbe loro le franchigie comunali.Anche se per il momento queste regioni mantennero la propria autonomia, erano già stati posti in realtà i fondamenti giuridici che avrebbero portato ad un rafforzamento dello Stato della Chiesa, del quale esse avrebbero fatto parte. Anche nel Lazio, Innocenzo III riuscì a sottomettere i feudatari ed i Comuni, oltre allo stesso Comune di Roma, al quale venne tuttavia concessa una certa autonomia. Il papa si occupò molto della politica internazionale dell’epoca, riuscendo a farsi riconoscere come arbitro in molte contese. Il suo prestigio, gli guadagnò il favore di numerosi sovrani europei tra i quali i re di Aragona, di Castiglia, del Portogallo e d’Inghilterra. La Curia romana acquisì autorità non solo in materia religiosa ma anche civile: ad esempio, per lo scioglimento di matrimoni reali e di altri importanti personaggi, doveva essere richiesto il permesso a Roma. Per sostenere la complessa organizzazione della Curia papale, diversi paesi corrispondevano alla Camera apostolica, un tributo annuo denominato Obolo di San Pietro, fornendo così al pontefice i mezzi finanziari necessari per lo svolgimento della propria attività. Ma un grave pericolo minacciava in quell’epoca la Chiesa: l’eresia. Per reprimere i moti ereticali, Innocenzo III riorganizzò e rafforzò, dotandolo di sempre maggiori poteri, il Tribunale della Santa Inquisizione. Questo organismo, aveva il compito di scoprire e giudicare gli eretici e quindi, riconosciuta l’effettiva colpevolezza, di consegnarli al braccio secolare, ossia all’autorità civile, perchè eseguisse la sentenza. Drastiche misure vennero adottate contro gli Albigesi, una setta diffusa nel sud della Francia. Contro di essi, il papa bandì addirittura una crociata, che venne sfruttata a fini personali da una miriade di cavalieri senza averi provenienti dal nord della Francia. Costoro, si diressero verso il meridione del Paese, saccheggiando e massacrando popolazioni inermi, senza fare distinzione fra cattolici ed eretici. La stessa cosa fecero i cavalieri tedeschi che con la scusa della crociata avevano ripreso la loro espansione verso est, la Drang nach Osten, la spinta verso Oriente. Essi si abbandonarono a terribili massacri nei confronti delle popolazioni slave e baltiche, impadronendosi delle terre affacciate sul Mar Baltico.

Federico II di Svevia

Federico II di Svevia, ultimo discendente degli Hohenstaufen, venne incoronato imperatore di Germania e re di Sicilia nel 1212. Per poter iniziare il proprio regno, egli dovette attendere che il suo rivale, Ottone IV, venisse sconfitto dai francesi a Bouvines nel 1214. In virtù di quella sconfitta, Ottone si ritirò dalla vita politica, morendo poi misteriosamente nel 1218 in Sassonia. Cresciuto in Italia sotto la tutela di papa Innocenzo III, ebbe come precettore il futuro papa Onorio III. Federico II non aveva nulla di tedesco: egli disprezzava la Germania a causa delle continue lotte feudali. Vi si recò in poche occasioni, preferendo dedicarsi ai domini italiani, che volle costituire in un forte Stato monarchico accentrato. Nell’aspra lotta sostenuta contro le forze avverse, manifestò qualità eccezionali: dotato di una cultura superiore alla norma, conosceva e parlava correttamente sei lingue, amava dilettarsi con gli studi letterari e componeva poemi in stile provenzale. Era attratto dagli studi di medicina, astronomia e scienze naturali, nei quali si rifugiava nei momenti liberi dagli impegni governativi. Notevole fu la sua tolleranza per le diverse religioni: Federico II amava intrattenersi presso la sua corte con studiosi arabi ed ebrei oltre che cristiani. Per questo motivo venne accusato come eretico, anche se questa accusa risultava palesemente fuori luogo. L’Imperatore, si dimostrò in più occasioni molto duro nei riguardi degli eretici, non tanto per le dottrine da essi professate, ma perchè li considerava ribelli contro lo Stato e contro la Chiesa. Lo scopo primario di Federico II, fu l’affermazione della sovranità regia, che egli perseguì per tutta la durata della sua vita, senza tuttavia riuscire a raggiungerla. Secondo le sue idee, il potere dell’Imperatore doveva essere assoluto e senza alcuna limitazione. A queste idee, Federico II volle dare un’attuazione rigidissima tramite le misure adottate contro la feudalità. Rivendicò al demanio regio tutte le terre usurpate dai vari baroni e fece abbattere tutti i castelli edificati costruiti dai signori feudali mentre egli era ancora minorenne e quindi impossibilitato a governare. Inoltre proibì duelli e guerre private, tolse ai feudatari il potere di esercitare la giustizia penale nei loro territori, lasciandole solo i processi civili; i nobili che commettevano dei delitti venivano giudicati dal tribunale regio. Venne proibito a chi non era al servizio del re di portare armi e anche i matrimoni tra figli di famiglie nobili erano subordinati al permesso di Federico II, con lo scopo d’impedire alleanze matrimoniali tra famiglie molto potenti. Anche con la Chiesa egli dimostrò la stessa rigidità, imponendole imposte e sottoponendo i membri del clero colpevoli di aver commesseo reati, al giudizio dei tribunali regi. L’imperatore ptoibì poi la la vendita e la donazione di beni stabili alle chiese, per diminuirne la potenza economica e stroncare il fenomeno della feudalità ecclesiastica. Infine estromise gli ecclesiastici dalle funzioni pubbliche, preferendo loro dei funzionari laici. Neppure le città vennero risparmiate: esse furono sottoposte al governo di un funzionario regio, mentre veniva loro proibito di eleggere i propri consoli, i podestà o i rettori. L’ordinamento che avrebbe dovuto reggere il regno, venne fissato nelle Costituzioni melfitane, che vennero promulgate a Melfi nel 1231.Secondo queste regole, il potere di legiferare, spettava unicamente al re: da lui dipendeva la Magna curia, un tribunale supremo che giudicava in prima istanza sulle cause feudali, mentre in sede di appello poteva esprimersi su qualunque causa le fosse stata sottoposta. Questo tribunale era composto da quattro giudici ed era presieduto dal Gran giustiziere, che progressivamente ebbe nelle proprie mani tutte le più importanti funzioni governative, comprese quelle militari in caso di assenza del sovrano.Venne quindi istituita una Gran corte dei contiche provvedeva all’amministrazione finanziaria del regno. Nelle province gli affari finanziari e civili venivano amministrati dai camerari, mentre i giustizieri presiedevano alla polizia e all’amministrazione della giustizia. Sotto di essi operavano i balivi, che nei centri minori avevano funzioni amministrative, giudiziarie e finanziarie, sorvegliando la percezione dei tributi e delle altre entrate statali. Questa rete di funzionari era composta interamente da persone nominate direttamente dal re e che rispondevano a lui direttamente. Federico II amava scegliere i sui funzionari, non solo tra i nobili, che spesso si rivelavano ignoranti e infidi, ma soprattutto fra i borghesi delle città; per agevolare la formazione culturale di questo esercito di burocrati, nel 1224 egli fondò l’Università di Napoli. Così facendo, diede il via alla formazione di un ceto di funzionari laici acculturati professionalmente, che costituirono l’embrione della moderna burocrazia. Anche le istituzioni militari iniziarono ad assumere un aspetto più moderno: oltre ai vassalli, che erano obbligati a prestare il servizio militare ogni anno, Federico II ebbe ai propri ordini un esercito ed una flotta permanenti , composti da mercenari a lui completamente devoti. Per sostenere le spese derivanti dal mantenimento di un così imponente apparato statale, egli si basò su tre diverse categorie di proventi: Le rendite dei beni demaniali, che venivano normalmente concessi in affitto, ma a volte anche coltivati in economia; le imposte dirette ed indirette, tra le quali la colletta, un’imposta fondiaria che colpiva tutte le proprietà terriere; infine, i monopoli di Stato come quelli del rame, del ferro e del sale, dei quali l’amministrazione statale rivendicò il commercio in esclusiva. Con i proventi derivanti da queste imposte, le casse dello Stato si riempirono, permettendo il finanziamento delle continue guerre dell’imperatore ed il lusso della sua corte. Questo modo di operare, portò però ad un grave impoverimento del regno del sud.

Le guerre di Federico II

Il regime politico accentrato e autoritario imposto da Federico II, suscitò aspre resistenze soprattutto da parte dei grandi signori feudali, obbligati dall’Imperatore all’obbedienza nei confronti della monarchia; scoppiarono sommosse in tutto il regno, domate con durezza da Federico II. Ma le sconfitte sul campo e le conseguenti pene capitali, non riuscirono a domare la nobiltà meridionale, che per tutta la durata del suo regno, cospirò contro di lui, fornendo il proprio appoggio a tutti i nemici esterni dell’Imperatore. Anche le città non ebbero un migliore trattamento: venne loro negata ogni tipo di autonomia e furono sottoposte all’amministrazione di funzionari di nomina regia. Catania , Messina e Siracusa, che si erano ribellate, vennero riconquistate e duramente punite. I Saraceni ancora presenti in Sicilia, che avevano rifiutato di sottostare alla sua autorità, vennero sconfitti e, per dare l’esempio, due dei loro sceicchi vennero impiccati. La rimanente popolazione di origine araba venne deportata in massa sul continente presso Lucera in Puglia e a Nocera in Campania. A queste popolazioni, Federico II concesse terre coltivabili e creò le condizioni affinchè non venissero molestate in alcun modo dai feudatari locali. Grazie a questo suo accorgimento, questi Saraceni le rimasero fedeli fino alla fine, fornendogli reparti militari scelti, sui quali egli potè contare per tutta la durata del suo regno. I nemici principali dell’Imperatore si trovavano fuori dai territori di Federico II, infatti, la sua doppia investitura di Imperatore di Germania e re di Sicilia, rendeva molto sospettosi i Comuni dell’Italia settentrionale ed il Papato, che venivano a trovarsi stretti in una morsa da Nord a Sud. Per questo motivo essi lottarono duramente contro di lui. Federico II riuscì a tenere a bada il Papato, finchè venne retto da papa Onorio III. Le cose cambiarono quando nel 1227, salì al soglio pontificio Gregorio IX che con la sua fierezza rese inevitabile lo scontro. Federico II venne costretto ad adempiere alla sua promessa di partire per la crociata: pochi giorni dopo la sua partenza, a causa di una pestilenza scoppiata a bordo delle navi della flotta, fu costretto a rientrare, incorrendo così nella scomunica del papa. Partito per una seconda volta, Federico II raggiunse la Terra Santa, dove trovò scarsa collaborazione da parte dell’arcivescovo di Gerusalemme e dei Cavalieri Templari, restii a fornire il proprio appoggio ad un imperatore scomunicato. Per questo motivo, egli, anzichè intrapprendere una guerra logorante contro i Musulmani, preferì scegliere la diplomazia, ottenendo un pieno successo. Federico II riuscì infatti ad ottenere il possesso di Gerusalemme e di Betlemme, con una striscia di terra che consentiva il collegamento al mare. Completò il proprio successo autonominadosi re di Gerusalemme. Questo suo aumento di potere, convinse Gregorio IX a far invadere il regno del Sud da milizie mercenarie, sovvenzionate dai ricchi Comuni del Nord Italia. Di fronte a questa aperta dichiarazione di guerra, Federico II rientrò immediatamente in Italia, riconquistando in poche settimane il proprio regno e invadendo lo Stato della Chiesa. Nel 1230, il papa fu costretto a sottoscrivere la Pace di San Germano, con la quale Gregorio IX acconsentiva a togliere la scomunica all’Imperatore e a riconoscere l’unione della corana di Germania con quella di Sicilia. Ma questa pace forzata era destinata a durare poco: i Comuni settentrionali si riunirono nuovamente sotto i vessilli della Lega Lombarda, dando inizio ad una nuova guerra, con il sostegno del papa. Le forze comunali di parte guelfa, ossia partigiani del papa, si scontrarono con le truppe dei ghibellini, che sostenevano l’Imperatore. Fra queste ultime particolare importanza rivestivano le forze messe in campo dalla città di Pisa e dalla signoria creata in Veneto da Ezzelino da Romano, che comprendeva le città di Treviso, Vicenza, Verona e Padova. nel 1237, nella battaglia di Cortenova, gli imperiali sconfissero l’esercito della Lega Lombarda, ma questa vittoria non servì a porre fine alla guerra. Nel frattempo, Gregorio IX riuscì a coinvolgere nel conflitto le due potentissime repubbliche marinare di Genova e Venezia e scomunicò nuovamente Federico II indicendo un grande concilio a Roma, per confermare la nuova condanna inflitta al re. Nel 1241, le navi genovesi incaricate di portare a Roma un gran numero di prelati diretti al concilio, vennero attaccate e annientate dalla flotta imperiale nelle acque antistanti l’isola del Giglio, causando l’annullamento del concilio stesso. Gregorio IX , ormai centenario, morì poco dopo. Suo successore per un breve periodo, fu Celestino IV, al quale succedette Innocenzo IV, papa discendente dalla potente famiglia guelfa genovese dei Fieschi, che riprese immediatamente la lotta contro Federico II: egli convocò un concilio a Lione, che proclamò l’imperatore eretico e quindi decaduto dal regno. Federico II marciò allora alla volta di Lione, che all’epoca era un possedimento imperiale, con la volontà di sorprendervi il papa, ma venne trattenuto in Italia da nuove ostilità scatenate dai Comuni settentrionali. Assediata la città di Parma, egli subì una prima grave sconfitta nel 1248; l’anno successivo, venne nuovamente sconfitto dai bolognesi a Fossalta, dove presero prigioniero suo figlio Enzo, che rimase in prigionia a Bologna per 23 anni, fino alla sua morte. Gli ultimi anni di vita di Federico II furono molto tristi: il suo primogenito Enrico, al quale aveva affidato il governo della Germania, gli si era ribellato, ma sconfitto e fatto prigioniero, morì in prigionia; anche i suoi ministri più fidati lo avevano lasciato: Taddeo da Sessa, morì in battaglia, mentre Pier delle Vigne, accusato di tradimento venne torturato e imprigionato: alla condanna a morte preferì il suicidio. Intanto, all’interno del regno stremato dalle continue lotte, si moltiplicavano le cospirazioni. Nonostante tutto ciò, nel 1250, Federico II era pronto a riprendere la lotta, quando morì improvvisamente a Castel Del Monte, nei pressi di Bari. Le sue spoglie mortali, vennero sepolte nella cattedrale di Palermo.

La fine della casa di Svevia

Alla morte di Federico II di Svevia, gli succedette sul trono il figlio Corrado, che assunse da imperatore il nome di Corrado IV. Egli morì dopo soli quattro anni di regno, senza essere riuscito a riconciliarsi con il Papato e lasciando il trono imperiale al figlioletto di due anni, sotto la tutela materna. Di questa situazione approfittò Manfredi, il figlio naturale di Federico II e da questi incaricato della reggenza del regno di Sicilia. Egli si fece incoronare re a Palermo, separando in questo modo la corona imperiale da quella reale, creando in questo modo la possibilità di una vita più tranquilla per il regno meridionale. Per assicurarsi il trono, Manfredi riprese ad immischiarsi nelle questioni italiane, assumendo il ruolo di capo della fazione ghibellina. In questa veste non gli mancarono i successi, il più importante dei quali fu la vittoria nella sanguinosa battaglia di Montaperti nel 1260, nella quale le forze ghibelline toscane, capeggiate da Siena, sconfissero la guelfa Firenze. Furono proprio questi suoi successi ad attirarle l’ostilità del pontefice. Papa Clemente IV, di origine francese, chiese l’aiuto di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX, offrendole in cambio la corona di Sicilia, che i pontefici avevano sempre considerato un feudo pontificio. Allettato dalla proposta, questi scese in Italia con un esercito di 30.000 uomini. Egli potè recarsi nel meridione praticamente indisturbato, grazie anche all’appoggio delle città guelfe. Giunto ai confini del regno del Sud, riuscì facilmente a penetrarvi grazie alla defezione di molti baroni meridionali, e nel 1266, si scontrò con l’esercito di Manfredi presso Benevento. La fuga o il tradimento di molti baroni, decisero le sorti dello scontro. Manfredi rimasto con pochi fedelissimi a sostenere la battaglia, cadde ucciso e Carlo d’Angiò, assunta la carica di nuovo re, s’insediò a Napoli, la sua capitale. Due anni più tardi, il figlio di Corrado IV, sedicenne, che in Italia venne soprannominato Corradino, decise di scendere nella penisola per riconquistare i propri possedimenti italiani. Facendo affidamento sulla resistenza dei fedeli Saraceni di Lucera e sulla ribellione delle popolazioni siciliane, stufe delle ruberie e delle efferatezze commesse dagli inviati dell’Angioino, egli si diresse verso il Sud alla testa di un buon esercito. Giunto a Tagliacozzo, in Abruzzo, ripetè lo stesso errore di Manfredi, rischiando il regno e la propria vita in un’unico scontro, prima ancora di aver raccolto attorno a se tutte le forze disponibili. Sconfitto dagli esperti comandanti francesi, perse tutto il suo esercito, tentando poi una fuga che si concluse con la sua cattura da parte del nobile romano Frangipane, che poi lo vendette a Carlo d’Angiò. Questi lo condannò a morte come ribelle e nel 1268 Corradino, l’ultimo discendente della casa di Svevia, venne decapitato sulla piazza del mercato di Napoli, ponendo fino ad un casato che per circa un secolo e mezzo aveva dominato la scena politica europea.

Dal regno Angioni al regno Aragonese

I nobili francesi che avevano partecipato alla conquista del regno di Sicilia a fianco di Carlo d’Angiò, si precipitarono sui centri del meridione avidi di bottino. Molti dei feudatari locali, anche quelli che tradirono Manfredi per schierarsi con il principe francese, vennero uccisi o spogliati di ogni loro bene a vantaggio dei nuovi venuti. Per ingraziarsi il Papato, Carlo d’Angiò fece alla Chiesa ampie donazioni di beni del demanio regio, che divenivano di conseguenza beni feudali, causando in tal modo un peggioramento del tenore di vita dei contadini. Il re stesso era oberato di debiti contratti per l’organizzazione della spedizione in Italia, oltre alle somme che doveva pagare alla corte pontificia in cambio dell’investitura ricevuta. Ai saccheggi e alle ruberie seguite alla conquista, fece seguito una durissima imposizione fiscale. Infatti i tributi richiesti in via eccezionale, prima da Federico II e poi da Manfredi, per sopperire alle necessità belliche, sotto la dominazione angioina divennero permanenti. In questo modo il regno meridionale, già prostrato per le continue guerre combattute dagli ultimi Svevi, perse definitivamente la floridezza che aveva raggiunto sotto la dominizazione degli Arabi e dei Normanni. Le ambizioni di Carlo d’Angiò andavano ben oltre i confini del regno di Sicilia e, come già gli Svevi prima di lui, anch’egli iniziò ad immischiarsi nelle questioni italiane, con l’unica differenza che parteggiava per la fazione guelfa anzichè ghibellina. I risultati furono però identici a quelli ottenuti dagli imperatori tedeschi: un aumento della confusione e delle lotte fratricide in Italia e il risveglio di antichi timori nella corte Papale, sempre diffidente nei confronti del rafforzamento del regno nella rimanente parte della penisola. Il re francese mirava inoltre ad abbattere l’Impero Bizantino e a sottomettere la Grecia e la Tracia. Nel contempo, per assecondare la sua politica di espansione ad est, fece sposare al proprio figlio la figlia ed erede del re d’Ungheria. Convinse infine il fratello Luigi IX, re di Francia a compiere una crociata a Tunisi, per poi in caso di successo, impadronirsi dell’opposta sponda del Mediterraneo. Questo suo sogno restò tale, poichè Luigi IX, giunto a Tunisi vi morì di peste. Anche in Italia le cose non andarono benissimo: contro la sua politica che portò al trasferimento della capitale da Palermo a Napoli, si coalizzarono molte forze. Nel Nord Italia i ghibellini riuscirono a riconquistare i territori piemontesi occupati in precedenza dal suo esercito, ed il Papato, turbato dall’ambizione di questo sovrano, gli revocò la carica di Senatore di Roma, che le aveva accordato in precedenza. Ma le difficoltà maggiori provenivano dall’interno del suo regno, dove i nobili siciliani avevano ripreso a cospirare, rivolgendosi in cerca di aiuto presso la corte di Pietro III, re di Aragona e genero di Manfredi; alla sua corte trovarono sicuro rifugio numerosi dignitari della casa di Svevia perseguitati dagli Angioini, fra i quali il famoso medico Giovanni da Procida ed il grande ammiraglio Ruggero di Lauria. La cospirazione dei nobili ebbe pieno successo grazie allo sfruttamento di un tumulto popolare scoppiato a Palermo il martedì di Pasqua del 1282. All’ora del Vespro - da qui derivò il nome di questo storico episodio (Vespri Siciliani)- un soldato francese, che aveva offeso una ragazza siciliana, venne ucciso dal fidanzato di questa. Da questo episodio prese il via un tumulto nel corso del quale, il popolo palermitano si gettò sui francesi massacrandoli. Alimentata dalla nobiltà, la rivolta si estese a tutta l’isola, dalla quale in meno di due mesi vennero cacciati gli invasori francesi. Fu a questo punto che intervenne la flotta aragonese, che unita a quella siciliana sotto il comando di Ruggero di Lauria sconfisse ripetutamente gli Angioini, riuscendo perfino a catturare nelle acque del Golfo di Napoli il primogenito di Carlo d’Angiò, Carlo lo Zoppo. Per l’equilibrio delle forze in campo, la guerra del Vespro durò ancora vent’anni, finchè nel 1302 venne stipulata la Pace di Caltabellotta, che sancì il passaggio della Sicilia a Federico III, il figlio di Pietro III di Aragona. Fu la prima regione italiana a cadere sotto la dominazione spagnola, sotto la quale rimase per quattro secoli.

Battaglia di Campaldino

La battaglia si svolse l’11 Giugno del 1289 nella piana alluvionale dell’alto Casentino estesa sulla riva sinistra dell’Arno poichè i Guelfi decisero di sorprendere gli avversari passando per il Passo della Consuma, tragitto montano tutt’altro che agevole nel XIII secolo, invece che scendere in Valdarno, naturale percorso da Firenze verso Arezzo. Consapevoli della loro inferiorità numerica ma anche del loro superiore addestramento gli aretini riposero la possibilità di ottenere la vittoria conducendo un deciso attacco al centro dello schieramento avversario furono gli aretini, com’era uso all’epoca, a mandare il guanto di sfida agli avversari per chiedere battaglia. I fiorentini, accettata la sfida, schierarono le truppe in tre file compatte con le ali protette da speciali fanti dotati di grandi scudi (palvesi) mentre gli aretini si disposero secondo la consueta disposizione a tre file: la prima formata dai fenditori a cavallo; la seconda dal resto della cavalleria e la terza dai fanti. La battaglia iniziò con il subitaneo attacco della cavalleria ghibellina diretto al cento dello schieramento nemico con l’evidente scopo di spezzarne le file prima che il numero delle forze avversarie prendesse il sopravvento. In effetti la carica dei fenditori e delle unità appiedate che seguivano al grido di San Donato Cavaliere (il patrono di Arezzo) produsse un impatto dirompente penetrando profondamente nella formazione guelfa che fu costretta ad arretrare. Ciò nonostante le file fiorentine riuscirono a ricompattarsi e quindi a prendere lentamente il sopravvento bloccando il nemico tra le ali di fanteria. Il definitivo colpo di grazia alle truppe ghibelline fu inferto dal fiorentino Corso Donati che, in contrasto con l’ordine ricevuto di mantenere la posizione, al comando della cavalleria di riserva guelfa di Lucca e di Pistoia attaccò al fianco i nemici già in mischia. Dal lato opposto il comandante della riserva aretina Guido Novello non fu altrettanto valoroso e vista la mala sorte, fuggì nel suo castello. La battaglia per i ghibellini era perduta, fortunatamente per loro i resti dell’esercito trovarono rifugio entro le mura di Arezzo grazie ad un forte temporale che ostacolò l’inseguimento dei vincitori. La vittoria ottenuta a Campaldino non fu determinante per la risoluzione del conflitto tra i Fiorentini ed i Guelfi di Toscana contro i Ghibellini poichè i vincitori, invece di proseguire rapidamente verso Arezzo, indugiarono nell’assedio dei castelli del Casentino dando così tempo ai Ghibellini per riorganizzarsi. L’evento storico di Campaldino è ricordato da una colonna eretta nel 1921 sulla strada statale (al bivio verso Pratovecchio). Un’iscrizione sul monumento (Inferno XXII, 4-5) ricorda che Dante Alighieri partecipò alla battaglia come feditore a cavallo guelfo, cioè nel ruolo di cavaliere schierato nelle prime file incaricate di iniziare lo scontro con il nemico.

Alcuni numeri:
Nella piana si affrontano l’armata Guelfa composta da Fiorentini, Pistoiesi, Lucchesi e Pratesi e comandata da Amerigo di Nerbona e l’armata Ghibellina composta da Aretini e comandata dal Vescovo Guglielmino degli Ubertini. L’armata Guelfa conta 1900 cavalieri e 10000 fanti, mentre l’armata Ghibellina conta di 800 cavalieri e 10000 fanti. Per l’armata Guelfa è di riserva la cavalleria e fanteria di Pistoia e Lucca al comando di Corso Donati composta da 200 cavalieri ed un numero imprecisato di fanti. Per l’armata Ghibellina è di riserva la cavalleria di Guido Novello composta da 150 cavalieri. A Campaldino al centro della prima linea dei fenditori Guelfi c’era un giovane ragazzo che combatteva per i Vieri de’ Cerchi dal nome Dante Alighieri.

L'età dei Comuni

L'importanza storica dei Comuni

I Comuni non significarono la fine immediata del feudalesimo, poichè di fronte al re o all’imperatore, essi non erano altro che dei vassalli come i signori feudali; l’unica differenza stava nel fatto che essi erano dei vassalli collettivi. I diritti che i Comuni riuscirono a conquistare altro non furono che dei privilegi concessi alle città o alle diverse categorie di cittadini, del tutto simili ai privilegi concessi ai vari signori feudali. Di conseguenza con la nascita dei Comuni, non si uscì ancora dalla struttura giuridica feudale.All’interno dei Comuni non vigeva la democrazia, dal momento che il governo era nelle mani di una minoranza; ancor meno si poteva parlare di democrazia nei rapporti tra il Comune ed i sudditi delle campagne. Molti villaggi restavano feudi del Comune e una persona che in città era un semplice cittadino, fuori dalle mura della città poteva essere un potente feudatario. Così come la struttura politica e giuridica del feudalesimo non venne distrutta con l’avvento dei Comuni, allo stesso modo rimase integra la struttura economica: nonostante in tutta l’Europa occidentale le città fossero ormai fiorenti e offrissero sicurezza e lavoro, esse furono sempre scarsamente popolate. Infatti, la maggioranza della popolazione viveva nelle campagne ed era appena sfiorata dal commercio e dall’economia di mercato. Nonostante tutte le manchevolezze, l’importanza storica dei Comuni fu enorme: essi introdussero nell’economia, nel diritto, nella cultura e nella politica feudale, quel germe che sviluppandosi, avrebbe condotto nel corso dei secoli alla fine del feudalesimo. Nei Comuni venne affermata per la prima volta la libertà personale di tutti gli abitanti fossero essi nobili o poveri. Le attività artigianali e commerciali da essi promosse, prepararono quei rivolgimenti della struttura economica che si affermarono poi nell’epoca moderna. Le città furono inoltre le più fide alleate delle varie monarchie, nella lotta che queste condussero per la costituzione degli Stati nazionali.

Le caratteristiche dei Comuni

Il Comune fu un’associazione giurata, libera e volontaria di cittadini che ottennero di potersi governare in modo autonomo e per mezzo di propri rappresentanti. Il governo comunale verteva su di un’ assemblea di liberi cittadini detta Arengo o Parlamento, che aveva il compito di esercitare il potere, di deliberare sulle questioni più importanti ed eleggere i capi del Comune, i consoli o giudici, che venivano eletti dall’assemblea ed erano i capi effettivi del Comune; essi restavano al potere per un periodo variabile da città a città di due o quattro anni. Altro organo politico del governo comunale consisteva nei consigli, eletti anch’essi dall’assemblea, che svolgevano funzioni consultive, collaborando con i consoli nel disbrigo delle pratiche di governo. A seconda delle località e delle vicende storiche, i Comuni subirono vari cambiamenti nella loro struttura, pur conservando inlterate le proprie caratteristiche nel corso delle fasi evolutive che possono distinguersi in tre diversi periodi: il Periodo consolare, caratterizzato da un predominio dei feudatari residenti nelle città sulla borghesia. Si trattava nella maggior parte dei casi di appartenenti alla piccola nobiltà contadina, cavalieri o valvassori, che avevano collaborato alla costituzione del Comune per sottrarsi alla sudditanza dei grandi feudatari, trasferendosi in città con le proprie milizie. Ad essi andavano aggiunti i feudatari ecclesiastici, i vescovianch’essi con proprie milizie al seguito e i grandi mercanti. Tutti costoro riuscirono con la forza del denaro e delle armi a prevalere nei Comuni, esercitando il loro potere per mezzo dei consoli, del Consiglio maggiore, costituito da loro stessi, e del Consiglio di Credenza o Consiglio minore, un’assemblea ancor più ristretta alla quale spettava il compito di deliberare sugli affari più importanti, affiancando in questo i consoli. In questo modo tutte le cariche pubbliche erano ad esclusivo appannaggio dei nobili. Per contrastare questa situazione, la borghesia si coalizzò nelle associazioni di arti. Nel corso del Periodo podestarile, questa situazione causò gravi disordini, resi ancor più gravi dalla formazione all’interno dei Comuni di alcune fazioni organizzate. Questi scontri danneggiarono l’attività economica e ciò determinò l’esigenza di di adottare una compagine governativa imparziale. Venne così creata una nuova autorità: il podestà. In questo modo si mise fine ai governi oligarchici, pur mantenedo il Comune un carattere aristocratico. Per garantirne l’imparzialità, il podestà venne spesso scelto tra i cittadini di altri Comuni; questi era soggetto a vari vincoli che ne garantivano l’imparzialità, come ad esempio, il limite posto al tempo di durata della carica e l’impegno a non stringere relazioni con i cittadini. Nel corso della terza fase, detta Periodo del governo dele arti, la borghesia si organizzo nelle corporazioni, dotandole nel tempo anche di una valida organizzazione. A capo di esse erano posti dei priori. Per proteggersi dalle prepotenze dei nobili, la borghesia si dotò in seguito anche di una propria milizia, alla testa della quale era posto un capitano del popolo. In questo terzo periodo, la borghesia riuscì a raggiungere il potere tramite i priori, che sostituirono i podestà. Ma questo non bastò a porre fine agli scontri, in quanto le lotte di classe persistevano; gli scontri aumentarono quando nella lotta per il potere entrò anche il popolo organizzato nelle arti minori, denominato popolo minuto. Le varie fazioni si alternarono al potere, perseguitando e bandendo dalle città gli sconfitti. Questa fu la causa che portò alla decadenza dei Comuni, rendendo possibile l’avvento nelle città di principi o signori, che furono dei veri e propri sovrani assoluti. Ebbe così termine il periodo comunale ed iniziò il periodo delle Signorie.La popolazione comunale era suddivisa per classi sociali e sia in Italia che all’estero essa comprendeva generalmente: igrandi o magnati, classe che inizialmente comprendeva i grandi feudatari, ai quali si unirono successivamente i piccoli feudatari e più avanti i borghesi arricchiti, diventati nobili per privilegio imperiale; il popolo o civitas, comprendente tutti coloro che esercitavano attività economiche e che avevano il diritto di partecipare alla vita politica. Il popolo si distingueva a sua volta in popolo grasso, organizzato nelle arti maggiori, che comprendevano i banchieri, i mercanti, i giudici, i notai e altre professioni ritenute di maggiore importanza e in popolo minuto, organizzato nelle arti minori quali artigiani, maestri d’arte e bottegai.Ultima classe sociale era la plebe, composta dai lavoratori dipendenti privi di diritti politici. La formazione di un ampio ceto cittadino partecipante alla vita politica, portOgrave; alla diffusione di nuovi istituti di istruzione, in molti casi promossi dai Comuni. In questo modo si incentivò la diffusione della cultura nel mondo laico e fiorirono gli Studia, scuole d'insegnamento superiore, dalle quali si svilupparono successivamente le Università. I migliori maestri dell’epoca insegnarono diritto a Bologna e a Padova, medicina a Padova e a Salerno, mentre la letteratura iniziava a diffondersi fra il popolo: vennero abbandonati i temi cavallereschi di origine francese e iniziò ad esprimersi in volgare l’ispirazione religiosa derivante dal misticismo francescano. Nacque il teatro popolare basato inizialmente su temi religiosi quali le Sacre rappresentazioni ed i Misteri come quelle composte da Jacopone da Todi. La poesia trovò accenti tra il realistico ed il popolare, come quelli utilizzati dal poeta toscano Cecco Angiolieri da un lato, mentre dall’altro subiva un’evoluzione fino a giungere al raffinato stil novo del Guinizelli e del Cavalcanti. Un’altissima sintesi della civiltà comunale fu data da Dante Alighieri (1265-1321). In quest’epoca l’arte è caratterizzata dallo stile Romanico, il cui centro di maggiore diffusione fu l’Italia settentrionale. Le cattedrali romaniche erano dominate da volte a crociera, mentre le navate erano contornate da sottili colonne; le facciate, divise da pilastri, presentavano ampi portali sormontati da rosoni. I palazzi comunali di linee estremamente pure, erano affiancati da torri campanarie. Nella pittura, allo stile Bizantino si sostituì un vigoroso realismo i cui massimi interpreti furono Cimabue e Giotto. Bellissime piazze sulle quali si affacciano contemporaneamente la cattedrale, il palazzo comunale e in molti casi anche il palazzo del capitano del popolo, restano in molte città e cittadine italiane a dimostrazione di una civiltà che volle le città costruite a misura d’uomo.

Le corporazioni e le Confraternite

Una delle tante eredità che l’antichità lasciò al medioevo furono i primi prototipi di corporazioni.
Più o meno chiaramente e direttamente ma è certo che i corpi e collegia romani furono i primi esempi di quelle che poi, nel medioevo, diventeranno, appunto, le corporazioni.
Tralasciando i motivi della loro nascita, mi limito solo a far sapere che le difficoltà imperiali, obbligavano queste collegia a un vincolismo rigido.
Era quindi impossibile l’abbandono di un mestiere da parte di chi lo esercitava: un figlio di un calzolaio doveva fare per forza il calzolaio e così via…
Questi vincoli sono da ricercare nelle varie riforme che l’imperatore Diocleziano (284-305) attuò nel corso del suo governo.
Ma tale vincolismo ebbe effetti negativi sui lavoratori: scoraggiò, ma non eliminò del tutto la fuga dei mestieri e svuotò di ogni elasticità e dinamicità l’economia romana tardo-imperiale.
Nel V secolo si ebbe una liberalizzazione dei mestieri per poi tornare alla rigidità con il periodo ostrogoto in Italia, per ovviare alla crisi di produzione.
Nel mondo barbaro, il lavoro è considerato ai livelli più bassi; questo significa che andarono perdute ogni forma di associazione che non producesse beni di pubblica utilità.
Non diversa era la concezione nella sfera bizantina, ove erano solo strumenti totalmente subordinati all’impero.
Qual’è dunque l’anello mancante tra le corporazioni medievali e i rudimentali strumenti dell’antichità e del primo periodo dell’ età di mezzo?
Tale anello sembrerebbe essere quell’ organizzazione franco-longobarda di età ottoniana (metà X secolo).
La prova di questo è da ricercarsi in un documento: le Honoratie civitatis Papie un documento dell’XI secolo.
Gli artigiani che praticavano lo stesso mestiere erano riuniti in ministeria; tali strumenti erano solo “espressioni di un sistema vincolistico sopravvissuto” sia per l’area del nord Italia, sia per l’area bizantina.
Ma molti erano i contrasti tra i ministeria e il potere politico che le vincolava e frenava i il loro dinamismo economico.
E qui nascono le differenze locali: si va dall’episodio più eclatante di Pavia nel 1025 ove ci fu una vera e propria rivolta a episodi più morbidi, con coesistenze tra le due diverse forme.
A Pisa, nel XII, il commercio del vino, grano e dell’olio, dipendevano ancora dal visconte etc…ossia, diritti pubblici esercitati sui mestieri dell’approvvigionamento della città.
Ma anche altre corporazioni protrassero per tutto il medioevo questi vincoli di ministerialità: fabbri, muratori, acquaioli…
Anche servizi pubblici ben più ampi e straordinari venivano esercitati facendo svolgere ai propri membri una funzione di vigili del fuoco e altri casi di emergenza. Dal XII secolo però queste associazioni si svincolano dal potere e si incentravano sul libero associazionismo, dal rapporto confraternale e di mutuo soccorso. Difatti prima del XIII secolo è difficile fare una distinzione tra corporazioni e confraternite e anche quando ciò avvenne, esse conservarono molti aspetti comuni. Le corporazioni però accentuavano sempre più la loro vocazione economica eliminando forme di concorrenza, garantendo un prezzo di mercato (o calmierato). Non è un caso inoltre che dal XII secolo compaiono sempre più atti pubblici firmati da arti o dai loro “capi” insieme ai rappresentanti del potere politico.
Com’era organizzata una corporazione?
Al suo vertice c’erano i maestri che dettavano le direttive, la proteggevano da fuoriuscite di tecniche e conoscenze, redigevano gli statuti e tenevano rapporti coi lavoratori subalterni.
Si diventava maestro solo dopo un lungo periodo di apprendistato: il discepolo lavorava e viveva insieme al maestro.
Modi, tempi e costi furono presto regolamentati: si andava dal notaio tra la famiglia dell’ apprendista e il maestro, si controllava la provenienza, in alcuni casi si controllava perfino che non avesse vincoli con qualche signore…insomma, l’ingresso all’apprendistato era molto difficile, generalmente non più di due per maestro.
L’apprendista pagava il maestro che, in cambio di vitto e alloggio, aveva anche manodopera a costo zero.
L’inizio avveniva quando il ragazzo aveva dodici o quattordici anni e variava anche il numero totale di anni di apprendistato.
Il tempo passato in apprendistato era molto importante, perfino più della prova finale.
Tale prova, il capolavoro cioè un manufatto realizzato a regola d’arte che l’allievo doveva presentarlo ai maestri per ricevere il permesso di entrare nella corporazione (dietro anche a una tassa di accesso).
Ma non erano cose fisse: se gli affari andavano male e c’era una crisi generale, i tirocini e le tasse aumentavano, viceversa diminuivano se era un periodo economicamente florido.
Ma c’erano altre difficoltà quali, ad esempio, il fatto che non tutti potevano permettersi una risorsa che non solo era immobilizzata ma che in più richiedeva un costo per il suo mantenimento dal maestro. Inoltre non era nemmeno facile aprire in proprio una bottega. Infatti era cosa molto comune che i figli degli artigiani stessi seguissero le orme paterne ereditando la bottega e il lavoro.
I maestri detti “forestieri”, uomini provenienti dalle altre città ma anche da altri paesi, erano spesso presenti nei periodi di espansione economica, e per entrare in una corporazione, prendevano la cittadinanza e pagavano una tassa di immatricolazione.
Invece nei momenti di difficoltà economica potevano nascere frizioni tali da comportare, in casi limite, la creazione di due corporazioni per lo stesso mestiere: una composta dai locali e l’altra dai forestieri.
Molto forte era la rete di solidarietà all’interno delle corporazione e confraternite: nei confronti di membri ammalati o feriti si facevano sovvenzioni alla sua famiglia; per i defunti si esercitava la pietas degli altri membri.
I lavoratori stranieri, soprattutto nel Quattrocento e Cinquecento, avevano a loro disposizione ospedali riservati all’accoglienza di lavoratori della loro natio. E le donne?
Il rapporto donne-corporazioni fu complesso.
Nell’ Europa del Nord fu abbastanza semplice, in quanto non solo ebbero facile accesso, ma anche avevano proprie corporazioni femminili.
In Italia invece, anche nei casi previsti, esse furono sempre estromesse e in subalternità al maschio.
Questo discorso, in genere, valeva solo per alcune corporazioni come quella del tessile, alberghi, locande...ma è possibile trovare donne anche in mestieri non prettamente femminili come i fabbri, falegnami e muratori.
Ma in questi ultimi casi vi ci erano entrate solo perché il marito, defunto, gliela aveva lasciata in eredità.
Ma mille erano i modi di fare ostruzionismo nei loro confronti: tasse di iscrizione esorbitanti per loro, considerare decadute le vedove dalla corporazione etc…
Per quanto riguarda le regole di una corporazione, possiamo dire che essa ricalcava, in genere, lo statuto di un comune.
Anzi era proprio il comune a controllarne la compilazione e, in genere, i vari statuti si assomigliavano da corporazione a corporazione, tranne quelli della lana e della mercanzia che erano un po’ più diversi, data la loro estrema importanza nell’economia di una città.
In comune c’erano le regole per accedervi, le cariche più importanti, le varie disposizioni per la convivenza tra i maestri, le giornate in cui era proibito lavorare, esortazioni a esercitare il proprio mestiere con coscienza, obblighi morali e religiosi per i vari membri…raramente si può trovare delle fonti che parlano dell’ organizzazione del lavoro.
I luoghi d’Europa in cui si svilupparono maggiormente le corporazioni erano l’Italia, le Fiandre, la Francia, Penisola Iberica e alcune città tedesche.
Quello che le differenzia era come si proponevano nei confronti della politica: in Francia e nell’Italia del sud furono sempre sotto tutela regia (proprio nel sud Italia si formarono tardi, in epoca angioina).
Le confraternite europee non si differenziarono molto da quelle italiane: erano luoghi ove la priorità era la preghiera e non il lavoro.
Guardiamo meglio l’Italia centro-settentrionale.
Non sempre il binomio corporazione-comune è reale, cioè non sempre la corporazione comanda in città; questo discorso vale per Firenze dove il potere economico era identico a quello politico invece a Milano le due componenti trattavano alla pari senza però essere la stessa cosa mentre a Venezia le arti furono sempre subalterne al potere politico.
Inoltre bisogna precisare anche che l’affermazione politica del “popolo” non è identica a quella delle arti.
Il “popolo” formò proprie strutture organizzative e una sua egemonia in molte città del nord Italia ma nei luoghi dove questo non avvenne, fu il ceto mercantile e non gli artigiani, a prendere il potere.
Ma è anche vero che le arti, in certi casi, aiutarono il popolo nella sua ascesa. Resta però il fatto che “popolo”, arti, nobiltà e signori erano enti politici differenti e che erano possibili tutte le combinazioni di alleanze tra le varie componenti e non un fenomeni generalizzati.
Inoltre il “popolo”, come definizione, varia da città a città, da situazione a situazione e quindi non sempre la sua connessione con le arti è netta e precisa.
I mestieri dei Giudici e Mercanti erano talmente importanti che, soprattutto nel XII secolo, finirono per esercitare una tutela giurisdizionale anche sulle altre corporazioni (questo vale a maggior ragione per i mercanti).
I mercanti erano dunque una corporazione che tutelava i propri membri e una sovracorporazione in quanto dirigeva l’intera economia e quindi esercitava una notevole influenza anche nelle altre corporazioni.
Inoltre, per tutto il Medioevo, continuarono anche a svolgere una funzione pubblica: regolamentarono l’applicazione di pesi e misure, il diritto di rappresaglia etc… Nelle processioni laico-religiose cittadine, le varie corporazioni sfilavano a parata seguendo un ordine ben preciso, e questo ci dà l’idea della loro importanza e del peso che avevano in una città: giudici, notai e mercanti occupavano le prime file, poi venivano gli artigiani metallurgici (fabbri, orafi etc…), quelli del cuoio, l’abbigliamento.
È scontato dire che per alcune arti, il loro peso varia da città a città: i macellai (o “becchai”) erano insieme alle arti del tessile, spadai, speziali…ma altre volte erano in posizioni più marginali.
Osti e tavernieri sfilavano, generalmente, in fondo insieme al vettovagliamento, ai pittori, barbieri, falegnami.
Infine lardaioli, mugnai, facchini, vetrai e altri mestieri di basso prestigio sociale, non perché fossero inutili, ma, visto che su di loro continuava a esser ben presente un controllo comunale che li vincolava a forme di ministerialità, essi avevano ben poca indipendenza decisionale.
Non tutto il lavoro veniva organizzato in corporazioni, solo i mestieri più importanti. Chi esercitava un lavoro in maniera libera, come piccoli artigiani, era esente da una tutela, da un aiuto (non a caso, nel Trecento, quando questi si rivoltarono, chiesero di costituirsi a corporazione).
Soprattutto in certi settori, come il tessile e la lana, i conflitti tra corporazioni e lavoratori liberi erano più complessi: come un primo distacco da capitale e forza lavoro, dove si accentuavano sempre più i lavoratori specializzati rispetto a quelli che conoscevano tutta la catena di produzione e il ricorso a manodopera salariata, a un maggior controllo degli orari e della produttività.
A metà Trecento, in città come Siena e Firenze, tra le corporazioni della lana e i lavoratori salariati ci furono tumulti e frizioni.
I Ciompi fiorentini del 1378 e a Siena nel 1371 non furono altro che esempi di tali rivalità dovute, in gran parte, alla crisi del Trecento e che volevano rovesciare tutte le strutture istituzionali, quindi anche le corporazioni.
Ma se a Siena la repressione portò a un allargamento temporaneo anche ai lavoratori subalterni, a Firenze si ebbe un inasprimento.
Proprio la crisi del Trecento portò con sé una necessità di riconsiderare il lavoro corporativo, ristrutturando il modo di produzione.
Si incominciò a utilizzare la manodopera delle manifatture rurali, non inquadrate a tutte quelle regole corporative come i minimi salariali.
Inoltre le corporazioni non erano adeguate a un mercato sempre più di massa, con prodotti di minor pregio ma anche di minor costo.
Questa erosione avvenne in primis nelle Fiandre che, con una progressiva liberalizzazione, smantellò tutte le strutture corporative.
In Italia non è chiaro l’indirizzo preso.
Ci si mantenne su un indirizzo di manufatti di lusso e a una struttura delle arti e queste ultime non furono trasformate dall’economia.
Ciò che cambiò furono le istituzioni, coi signori e le famiglie, che privaronole corporazioni della loro indipendenza decisionale; si mantenne però la parte religiosa e assistenziale ma furono anch’esse inquadrate all’interno del disciplinamento ecclesiastico del Cinquecento.
Sia le corporazioni che le confraternite furono private del loro potere decisionale e divennero strumenti in mano a altri soggetti (stato, Chiesa, privati…) fino alla loro progressiva scomparsa.

Le corporazioni artigiane nel periodo dei Comuni

Nelle città medievali la produzione di manufatti e altre lavorazioni tese alla realizzazione di oggetti di uso comune e prodotti destinati all'esportazione, veniva svolto dagli artigiani. Ognuno di essi era un piccolo imprenditore che realizzava le proprie merci all’interno della sua bottega, utilizzando per la realizzazione delle stesse propri strumenti di produzione; tutto il denaro ricavato dalla vendita di queste merci veniva interamente intascato dal produttore. In questo modo si otteneva l’unione nello stesso individuo del lavoro, della proprietà degli attrezzi utilizzati per la produzione, e dell’appropriazione dei ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti venduti. Il titolare della bottega era il maestro; con lui collaboravano un certo numero di aiutanti denominati apprendisti o soci. Per poter avviare un’attività artigianale propria, all’apprendista era necessario un lungo tirocinio presso la bottega di un maestro, al fine di impratichirsi sui segreti dell’arte e per affinare le sue capacità, anche perchè gli strumenti in uso per la produzione, erano ancora imperfetti e piuttosto scarsi di numero; inoltre tutto il lavoro veniva svolto a mano. Solo terminato il periodo di tirocinio, l’apprendista entrava a far parte della categoria dei soci o compagni, vale a dire degli operai finiti, che non disponendo ancora di una propria bottega, rimanevano a lavorare con il maestro fino a quando non fossero riusciti a procurarsi gli attrezzi necessari ad avviare una propria azienda. Generalmente non occorreva molto tempo perchè ciò accadesse; infatti, per avviare una bottega non occorrevano grandi mezzi ed in tal modo nei primi secoli dell’età comunale, il socio poteva presto diventare maestro, ossia proprietario di una bottega. Ciò avveniva solo dopo il superamento di un esame da tenersi presso la corporazione di appartenenza; questa prova consisteva nell’esecuzione di un modello di lavorazione detto capo d’opera o capolavoro, che doveva essere eseguito entro un tempo determinato. L’oggetto da eseguire variava in base al mestiere esercitato e poteva quindi essere a seconda dei casi una scarpa, un coltello, un gioiello o altro ancora. Superato l’esame, egli doveva offrire un banchetto in onore dei maestri dell’arte, pagare una imposta all’erario regio oppure al tesoro comunale ed elargire un’elemosina alla chiesa; solo al termine di tutti questi passaggi veniva proclamato maestro. Quasi tutti gli artigiani residenti in una stessa città erano uniti in corporazioni di arti e mestieri che a seconda delle zone assumevano nomi diversi: in Italia esse venivano chiamate arti, fraglie, paratici o maestranze; all’estero assunsero le denominazioni di mestieri, ghilde e zuenfte. Queste unioni nacquero per scopi economici, religiosi, di mutua assistenza e in seguito, divennero delle vere e proprie unioni politiche e militari. In campo economico, la loro prima preoccupazione era di assicurare il lavoro a tutti i soci, esercitando una politica di controllo sulla concorrenza e sul mercato, e regolando le lavorazioni. Queste attività erano rese necessarie dalla ristrettezza dei mercati locali, che in massima parte erano costituiti da città di piccole dimensioni, poco distanti da altre che proponevano le stesse lavorazioni e con un contado dove i contadini si fabbricavano in proprio gli attrezzi o gli oggetti dei quali abbisognavano. Con queste condizioni, le corporazioni provvedevano innanzitutto a ripartire il lavoro disponibile tra i loro aderenti, seguendo delle regole piuttosto rigide: gli orari di apertura e chiusura erano uguali per tutti; uguali dovevano essere anche gli strumenti utilizzati per lo svolgimento dell’attività produttiva; dovevano impiegare lo stesso numero di soci e di apprendisti, acquistare la stessa quantità di materie prime, produrre la stessa quantità di merci. Queste ultime dovevano essere conformi ai modelli e alle qualità fissate dalla corporazione. Le pene per chi trasgrediva a queste regole, andavano dalle pene pecuniarie, alla chiusura della bottega o all’espulsione dalla corporazione di appartenenza. Tutte queste usanze furono molto utili nei primi secoli, poichè servirono a proteggere le attività artigianali e a garantire la vita e l’attività economica delle botteghe; in seguito però, esse si rivelarono un ostacolo al progresso: infatti si arrivò a proibire l’introduzione di nuovi procedimenti e strumenti di lavoro, per il semplice motivo che essi avrebbero potuto danneggiare chi non ne avesse fatto uso, o non se li fosse potuti permettere. Inoltre, l’ermetica protezione del mercato comunale, con il divieto di introdurvi merci provenienti da città commercialmente concorrenti, ostacolava in modo molto marcato la costituzione di un mercato unico nazionale. La corporazione coinvolgeva i propri aderenti sotto tutti i punti di vista, non solo quelli economici: i membri di ciascuna corporazione abitavano nelle stesse vie, come si può ancora oggi desumere dai nomi di alcune strade presenti nei centri storici dele città italiane: via degli orefici, via dei calderai, via degli spadari e molte altre ancora. Ogni corporazione aveva un santo protettore e disponeva di una propria chiesa, o quantomeno di una cappella, e di una festa annuale dedicata al proprio patrono, nel corso della quale gli affiliati sfilavano con i propri stendardi. In caso di decesso di un confratello che non disponesse di mezzi sufficienti per il funerale, la corporazione se ne assumeva le spese, assistendo inoltre la vedova e i figli, provvedendo in seguito a fornire la dote alle figlie da marito. I confratelli deceduti, venivano sepolti nella chiesa della corporazione e ogni anno veniva celebrata una messa in loro suffragio. In caso di guerra, tutti i confratelli combattevano insieme dispiegando il proprio stendardo e al comando del maestro più rispettato. Esistevano inoltre dei tribunali corporativi che giudicavano su questioni interne alla corporazione. Viene quindi da se che le corporazioni rappresentarono un organo estremamente importante nel contesto di quel complesso organismo rappresentato dal Comune medievale. Nonostante la loro importanza, le corporazioni delle arti e dei mestieri dovettero lottare a lungo contro il patriziato, per poter ottenere una partecipazione al governo cittadino. Da questi scontri ebbe origine la seconda fase della lotta politico-sociale all’interno dei Comuni, condotta dalle corporazioni artigianali contro i patrizi. Nelle città più potenti economicamente, nelle quali i grossi mercanti, gli armatori e i banchieri prevalevano per ricchezza e potenza, la lotta non fu loro favorevole; sconfitte, esse vennero escluse definitivamente dal potere, mentre i patrizi si costituivano in oligarchia chiusa, riprendendo l’esempio dell’antica nobiltà feudale. Esempi di questo sistema di governo si ebbero in Italia a Genova e Venezia, mentre fuori dai confini nazionali, ciò avvenne soprattutto nelle più ricche tra le città tedesche. In tutte quelle città dove invece erano numerose e ben avviate le attività industriali, i patrizi furono invece costretti a scendere a patti; a Firenze, le corporazioni più ricche e con maggior influenza, le cosiddette arti maggiori, ottennero di essere ammesse al governo della città. I maestri di queste corporazioni, uniti ai membri dell’antico patriziato, costituirono una nuova alleanza di governo, escludendo dal potere comunale le corporazioni meno ricche o arti minori. Contro questa nuova e potente alleanza si scatenò la lotta condotta dai membri delle arti minori, che segnò l’inizio della terza fase della lotta comunale.

Lo sviluppo del commercio e le origini dell'attività bancaria

L’epoca immediatemente successiva alle prime crociate, si caratterizza per un forte incremento del commercio interno ed internazionale. Il Mediterranneo rappresenta il crocevia principale degli scambi tra Oriente ed Occidente e viceversa. Protagoniste di questi scambi furono le quattro Repubbliche Marinare di Genova, Venezia, Pisa e Amalfi. Nello stesso bacino, operarono con buon successo anche le città marittime della Francia meridionale e della Catalogna; fra queste erano particolarmente attive Marsiglia e Barcellona. I porti del Mediterraneo orientale erano il punto di arrivo delle merci provenienti dalla via della seta, che dalla Cina, attraversando l’Asia centrale e la Persia, terminava il suo percorso in Asia Minore e in Siria. Un’altra importante via commerciale partiva dall’India e l’Estremo Oriente, passando per il Mar Rosso e quindi ancora per via terra fino a raggiungere Alessandria d’Egitto. Le navi provenienti dall’Italia caricavano le merci nei porti di Trebisonda, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto e negli altri porti del Levante; si trattava in massima parte di merci molto preziose e rare provenienti dalle varie zone dell’Asia: zucchero, cotone, medicinali, essenze profuamte, incenso, preziose sete cinesi, fili d’oro e d’argento provenienti dall’Asia Anteriore, stupendi tappeti persiani, avorio africano, porcellane cinesi, perle e pietre preziose indiane e molte altre merci rare. Tutti questi prodotti di lusso potevano essere acquistati solo da pochi, dato il loro costo di mercato, dando quindi origine ad un modesto volume di traffico. Questo traffico era concentrato in poche città, principalmente Genova e Venezia, che poi provvedevano a far giungere in tutta Europa questi prodotti, ottenendo guadagni favolosi. In cambio di queste merci, l’Occidente inviava panni di lana, armi, vini pregiati, oli, e legname; ma in genere queste merci non valevano tanto da controbilanciare il valore delle importazioni e pertanto la differenza doveva essere pagata in oro e argento, indebolendo quindi l’Europa di questi metalli. Fiorente era anche il mercato degli schiavi, che venivano acquistati nella Russia meridionale e poi rivenduti sui mercati orientali. Nell’altra importante area commerciale, il Mare del Nord, le città tedesche e fiamminghe avevano un ruolo primario; esse esportavano i loro prodotti industriali, importando il legname e il catrame dei boschi del Nord necessari per l’allestimento delle navi delle proprie flotte, pelli e lana dall’Inghilterra, pellicce, cuoio e suini dalla Russia, pesce salato e affumicato dai paesi del Nord. Oltre ad effettuare questi traffici, gli armatori di Brema, Amburgo, Lubecca e Amsterdam distribuivano tutte le merci provenienti dal Mediterraneo. Essi proponevano quindi un tipo di commercio diversificato: non solo merci pregiate, ma anche materie prime utili allo sviluppo dell’industria e prodotti di prima necessità e quindi con un maggiore bacino d’utenza. Pur esendo inferiore come traffico a quello del Mediterraneo, esso riuscirà a conservarsi per poi rifiorire in epoca moderna permettendo così lo sviluppo dell’Europa settentrionale, nel momento in cui il commercio sul mediterraneo entrerà in crisi. Queste due grandi aree commerciali erano unite tra loro da due collegamenti principali: il primo, attraverso i passi alpini, collegava Venezia e l’Italia con la città di Augusta, il fiume Reno e la Germania; il secondo vedeva le navi genovesi e veneziane, circumnavigare Spagna, Portogallo e Francia, per portare le loro merci in Inghilterra e nelle Fiandre. Per la distribuzione all’interno dei vari paesi, si utilizzavano le vie dàacqua interne, ricorrendo alle vie di terra quando proprio non se ne poteva fare a meno. Era una tipologia di commercio resa difficile e pericolosa dalla scarsezza di strade e ponti in buone condizioni, dagli innumerevoli diritti di pedaggio richiesti dai feudatari ed infine a causa delle numerose bande di fuorilegge che non si facevano scrupolo di uccidere per procurarsi le ricchezze alle quali ambivano. Tutte queste cause portavano ad una levitazione dei prezzi, rallentando lo sviluppo del commercio. Nonostante i molti progressi nel settore, l’economia europea continuava ad essere un’economia naturale, nel senso che si consumava solo ciò che si produceva personalmente. Nelle città, gli stessi artigiani non disdegnavano di coltivare un proprio poderetto o allevare qualche animale domestico per i propri bisogni,dato che gli utili della propria professione non sempre garantivano di poterli soddisfare. Frequenti carestie erano dovute a cattivi raccolti o all’impossibilità d’importare derrate alimentari da altri paesi; Venezia, unica città che riusciva ad essere sempre abbondantemente rifornita di tutto ciò che era necessario alla vita, rappresentava un caso rarissimo nella stessa penisola italiana, che era il Paese più economicamente florido del Medioevo europeo. Nelle città, i mercanti costituivano proprie corporazioni che spesso erano le più importanti del Comune; in alcuni casi poteva capitare che si ritrovassero nella stessa corporazione artigiani e mercanti operanti nello stesso ramo di attività. Si diffusero poi unioni di mercanti operanti in città diverse, che vennero chiamate ghilde o hanse: la più famosa fu l’Hansa delle città renane e del Mare del Nord, che si trasformò in un’alleanza mercantile, politica e militare tra diverse città, disponendo inoltre di proprie flotte e di eserciti; nel periodo di maggiore potenza essa riunì oltre 80 città tedesche e fiamminghe. Una speciale forma di commercio fu quella relativa al denaro: la diversità tra le varie monete coniate da re, imperatori, feudatari e dalle città economicamente più importanti, rese necessaria la diffusione del nuovo mestiere del cambiavalute. Già dall’Alto Medioevo, i cambiatores furono fra i personaggi più ragguardevoli del commercio cittadino. Disponendo di grandi quantità di denaro liquido, essi iniziarono a prestarlo a tassi elevatissimi, gettando così le basi del sistema bancario. Ai cambiavalute si affiancarono i grossi mercanti, che ai proventi del commercio aggiunsero quelli derivanti dal prestito ad usura. L’esercizio del credito venne incrementato e favorito dall’estensione del commercio interno e internazionale, che comportò la necessità di spostare grandi quantità di denaro anche fra paesi lontani; quindi le grandi compagnie e le case commerciali, soprattutto quelle italiane, unirono con sempre maggiore continuità il commercio dei panni o quello delle spezie all’attività bancaria svolta a favore dei poropri clienti o di chiunque si fosse rivolto a loro. In Toscana quest’attività venne agevolata dal fatto che le banche e le case mercantili di Siena, Lucca ed in seguito soprattutto di Firenze, vennero incaricate di riscuotere l’obolo di San Pietro e le altre entrate della Curia romana all’estero. Inizialmente lo svolgimento delle attività bancarie venne attribuito agli Ebrei, essendo ad essi precluse, a causa delle persecuzioni in atto, tutte le altre attività economiche; in genere essi non riuscirono mai ad andare oltre al piccolo credito su pegno, mentre il grande credito fu quasi sempre ad appannaggio degli italiani, in modo particolare dei toscani, che in Francia ed in Inghilterra venivano chiamati lombardi. Ancora oggi molti termini del linguaggio bancario internazionale sono di chiara origine italiana. Ai banchieri italiani si affiancarono successivamente banchieri stranieri, come ad esempio i caorsini, che presero il nome dalla loro città d’origine, Caors, in Francia. I tassi d’interesse nel Medioevo erano altissimi e giungevano fino al 60% annuo, poichè la mancanza di sicurezza rendeva piuttosto improbabile la restituzione del prestito. A tutto questo occorre aggiungere che la Chiesa condannava il prestito a usura, ma questo ostacolo veniva aggirato facendo figurare gli interessi inclusi nel capitale, oppure concedendo il prestito per il primo mese senza interessi, ma inserendo nelle clausole di concessione un forte indennizzo per ogni mese di ritardo nella restituzione. Ma queste pratiche disoneste, unite agli alti tassi richiesti per i prestiti, comportarono un rallentamento dell’attività economica.

L'emancipazione delle città

Nell'Europa occidentale le città si svilupparono nell’Alto Medioevo sui territori dei signori feudali; in alcuni casi, settori della stessa città potevano trovarsi su un territorio appartenente a feudatari diversi, come accadde in Francia alla città di Amiens, suddivisa in quattro giurisdizioni signorili. Spesso erano i feudatari stessi a favorire la costituzione delle città sui propri domini, spinti dalla certezza dei ricchi guadagni che il commercio e l’industria, che si andavano sviluppando al loro interno, avrebbero potuto procurare alle casse dell’erario. Ben presto l’oppressione feudale e le ingiustizie provocate dai signori e dai loro miliziani, provocarono duri scontri per l’emancipazione delle città. Quelle più ricche riuscirono con il denaro a riscattare la propria indipendenza, ma si trattò solo di una piccola parte di esse; a volte succedeva che il signore del luogo, dopo aver concesso determinate libertà in cambio di oro o di merci pregiate, violasse gli accordi e pretendesse di riavere quanto in precedenza aveva concesso. Per questo motivo, già dal XI secolo si scatenarono in tutta l’Europa Occidentale dure lotte fra città e feudatari, che avevano per scopo il riscatto delle libertà cittadine. Da questo scontro le città uscirono vittoriose anche se con modalità differenti da uno Stato all’altro. I migliori risultati vennero ottenuti nei centri dell’Italia centrale e settentrionale, dove con l’appoggio della piccola nobiltà, le città ebbero la meglio sull’Impero, costituendosi in repubbliche cittadine indipendenti. Più tardi ciò avvenne anche in Germania, dove l’indebolimento del potere imperiale consentì alle più importanti città tedesche di raggiungere un’ampia autonomia, conservando solo una dipendenza formale dall’imperatore: queste città, assunsero la denominazione di Reichsstaedte, città imperiali. Diversamente andarono le cose in Spagna, in Francia ed in Inghilterra, dove le rispettive monarchie conservarono il controllo delle città: al loro interno esse accoglievano un funzionario regio, pagavano un tributo all’erario reale e mettevano a disposizione del sovrano le proprie milizie, ottenendo però in cambio un prezioso documento: la carta comunale, che le liberava dagli obblighi feudali e concedeva loro l’amministrazione cittadina, la possibilità di amministrare per mezzo di propri giudici la giustizia, diritti di libertà personale per tutti i residenti, il libero possesso dei propri beni ed inoltre la libertà di commercio e la possibilità di formare delle associazioni corporative. Gli uomini che condussero la lotta per l’emancipazione delle città, furono gli stessi che costituirono il primo nucleo di una nuova classe sociale: la borghesia, che assunse questo nome perchè composta da tutti gli abitanti non di sangue nobile residenti nella Burg, detti appunto in tedesco Buerger e in francese bourgeois. In Italia e in Francia, i borghesi furono aiutati nella loro lotta dalla piccola nobiltà.Tutta la popolazione collaborò alla lotta contro i feudatari allo scopo di ottenere i diritti comunali, ma solo una parte di essa potè godere dei frutti della vittoria; infatti, raggiunto lo scopo, il potere restò nelle mani dei cittadini più importanti, che costituirono quello che in Germania venne ribattezzato patriziato. Si trattò principalmente di ricchi mercanti, banchieri, proprietari di terreni e case situati sul territorio della città o nel contado. Tutti costorono crearono una ristretta oligarchia, che governava le città a proprio vantaggio, escludendo il resto della popolazione da ogni partecipazione alla politica attiva e soprattutto dal governo; per quanto riguardava l’aspetto fiscale essi riversavano il peso tributario sulle altre classi sociali, creando malcontento nella popolazione. Ben presto questo malessere condusse ad una seconda fase dello scontro politico-sociale fra il patriziato ed il resto della popolazione, in mezzo alla quale apparvero i membri delle corporazioni.

L'influenza dei Comuni sulla campagna

Lo sviluppo delle città e delle industrie, resero necessaria una maggiore fornitura di viveri e materie prime come pelli, legname, fibre tessili e altre ancora, da parte delle campagne. Non si trattava di forniture enormi, poichè all’interno delle città medievali, ampi spazi erano destinati all’agricoltura ed i cittadini possedevano campi coltivati, boschi oppure dei pascoli nei pressi della città inoltre i contadini molto spesso erano usi fabbricarsi da sè molti dei prodotti necessari alla loro attività: vestiti, biancheria, scarpe, ecc.. In questo modo era meno sentita la necessità di acquistare degli articoli provenienti dalle botteghe artigiane cittadine. Nonostante tutto ciò, il commercio e i rapporti monetario-mercantili riuscirono ad ottenere una buona penetrazione nelle campagne, nelle quali destarono degli effetti profondi, segnando la nascita di un’agricoltura mercantile. Nelle terre più prossime alle città, l’agricoltore era incentivato a produrre su almeno una parte dei suoi terreni, non più i prodotti necessari alla propria sussistenza, ma generi vendibili con un buon profitto sul mercato urbano, come ad esempio le fibre tessili, ortaggi, vino e frutta. Con il denaro ricavato da questo commercio, i contadini avevano la possibilità di estendere le superfici coltivate e a migliorare i sistemi di coltivazione. In questo modo essi potevano variare anche la propria produzione, aggiungendo ai prodotti classici della terra, la coltivazione della vite e quindi inserendo la produzione del vino; oppure, utilizzando il latte ottenuto con l’allevamento di bovini ed ovini, iniziare la produzione di formaggi e burro.L’estendersi del commercio e delle necessità da esso suscitate, con i sempre più lussuosi prodotti disponibili, portò ad un accrescimento del bisogno di denaro dei signori feudali, inducendoli a sostituire la rendita in natura o in lavoro gratuito con la rendita in denaro, costringendo i contadini a versare annualmente una somma a discrezione del feudatario. Già nell’XI secolo i campi allodiali, di proprietà del signore, venivano lasciati in affitto ai contadini in quasi tutto l’Occidente. Allo stesso tempo, i signori accrescevano le pretese di aumento della rendita, superando i limiti concessi dagli usi tradizionali, causando con questo loro comportamento l’ inizio di una dura lotta nelle campagne e l’inasprimento dell’antagonismo sociale. Nello steso periodo si assisteva ad un aumento dell’abbandono delle campagne a vantaggio delle città, che promettevano ai fuggiaschi lavoro e soprattutto la libertà per i servi della gleba. Coloro che restavano nelle campagne, se ne avevano la possibilità, riscattavano la propria libertà con il denaro, contando anche sul perenne bisogno di moneta dei feudatari che accettavano di buon grado questo tipo di affrancamento da parte dei propri servi. La liberazione dei servi fu un fenomeno molto frequente in tutta l’Europa occidentale nel corso dei secoli del periodo comunale. Maggiore diffusione l’ebbe in Italia, a causa della maggiore potenza dei Comuni: ogni primavera l’esercito comunale usciva per porre l’assedio alle rocche dei signori che non volevano sottostare all’autorità del Comune, danneggiandone in questo modo i commerci. Soprattutto in Toscana, i castelli venivano distrutti ed i loro proprietari costretti a prendere casa all’interno delle città; i loro servi venivano liberati, anche se alla liberazione personale non faceva seguito la liberazione economica. Infatti l’obbligo di pagare i tributi feudali non venne abrogato, ma semplicemente trasferito al governo comunale. I ricchi mercanti ed i banchieri cittadini, aprofittando delle difficoltà economiche nelle quali venivano a trovarsi gli antichi signori del feudo, procedevano all’acquisto di grandi proprietà terriere a prezzi irrisori. In questo modo il contadino, che personalmente era ormai libero, restò in condizioni di dipendenza economica; venne così a ricostituirsi la grande proprietà terriera gestita dai latifondisti cittadini. Uguale sorte toccò anche ai contadini dei Comuni rustici costituiti in gran numero nell’Alta Italia nella lotta contro il feudalesimo. Proprio per difendersi dalle prepotenze dei signori feudali questi piccoli borghi cercarono l’aiuto dei potenti Comuni urbani; successivamente questo rapporto di alleanza si trasformò in un rapporto di sudditanza.

I rapporti tra i Comuni e l'Impero

All’inizio del XII secolo, l’Italia era il paese europeo dove il processo di affrancamento delle città dal dominio feudale e imperiale si era sviluppato maggiormente. Oltre alle quattro Repubbliche Marinare, Venezia, Genova, Pisa e Amalfi, che da tempo si erano rese indipendenti, numerosissime altre città dell’Italia ccentrale e settentrionale erano riuscite ad ottenere diritti comunali più o meno ampi. Per raggiungere il loro scopo, tutte queste città avevano approfittato della lotta che il Papato aveva iniziato contro i vescovi simoniaci e contro l’Impero che li appoggiava, per tentare di abbattere o almeno limitare il potere esercitato dai vescovi e dai feudatari più potenti, grandi sostenitori del potere imperiale. Le città approfittarono anche della debolezza nella quale si trovavano gli imperatori, che pur di riuscire ad assicurarsi il loro favore, al fine di contrastare il sempre più crescente potere dei feudatari maggiori, fecero alle città larghe concessioni come l’esenzione dai tributi, anche se in realtà i Comuni godevano già di una notevole autonomia. Contro questa autonomia si battè Federico I Barbarossa, la cui politica in Italia era tutta tesa a ristabilire l’autorità imperiale sui Comuni e il predominio dell’imperatore sul papa.

La guerra di Federico Barbarossa contro i Comuni

Nell'autunno del 1154 Federico I Barbarossa scese per la prima volta in Italia. Le modeste forze che si era portato al seguito, non gli permisero grandi azioni. In questa prima fase egli si limitò ad incendiare a scopo dimostrativo i Comuni di Asti, Chieri e Tortona, che avevano tentato di opporsi alla sua autorità, ma non osò assediare Milano. Si diresse quindi verso Roma, allo scopo di farsi incoronare dal papa. Nella città eterna era sorto un Comune fin dal 1141, governato dalle famiglie nobili locali, in conflitto perenne con il papa, che rifiutava di riconoscere questa nuova forma di governo. Essendo la stragrande maggioranza della popolazione favorevole al Comune, i papi furono più volte costretti ad abbandonare la città. Il popolo romano era incitato nella sua lotta da un monaco agostiniano, Arnaldo da Brescia, che perseguiva come proprio scopo principale, la lotta contro il clero simoniaco e predicava in favore di un ritorno della Chiesa alla semplicità dei tempi apostolici e per la rinuncia da parte degli ecclesiastici ai beni e alle cariche temporali. Il governo comunale di Roma, intimorito per l’interdetto lanciato da papa Adriano IV contro la città, decise di espellere il monaco dai confini comunali. L’imperatore, al fine di ingraziarsi il pontefice, e sperando di poterlo avere come alleato per l’imminente aggressione al Regno normanno, fece arrestare Arnaldo, ospite in un castello della Toscana e lo consegnò al papa, che dopo averlo accusato di eresia, lo condannò alla pena di morte per impiccaggione e al rogo. Federico I entrò quindi a Roma al fianco di Adriano IV, dalle mani del quale ricevette la corona imperiale. Ma essendosi rifiutato di riconoscere il governo comunale della città, le sue truppe vennerò attaccate nella zona di Trastevere dai popolani romani, che seppure respinti indussero l’Imperatore a ritornare al Nord, rinunciando al progetto di agressione del Regno normanno. Quattro anni più tardi, nel 1158, egli discese nuovamente in Italia con un esercito più numeroso. Convocò nei pressi di Piacenza i rappresentanti delle città ed i vassalli; nel corso della Dieta di Roncaglia, fece esporre da alcuni giuristi dell’Università di Bologna quali fossero i diritti e le prerogative dell’Imperatore romano. In conformità di quanto da essi esposto, Federico I emanò la Constitutio de regalibus, nella quale rivendicava per sè tutti i diritti sovrani che erano stati assunti dalle città e invalidava ogni cessione di beni feudali. Venivano inoltre vietate faide e rappresaglie private e ogni lega tra le città. Con queste disposizioni, egli tentò di annullare l’ormai secolare evoluzione dei Comuni italiani, negando loro tutti quei diritti che essi avevano acquisito dopo una lotta lunga e faticosa. Ad accrescere lo scontento fu l’imposizione della presenza in ogni Comune di un funzionario imperiale denominato podestà, che avrebbe governato con ampi poteri. Contro le prepotenze commesse dai tedeschi, si sollevò la protesta di alcune città lombarde capeggiate da Milano; dopo aver distrutto Crema, nel 1162 il Barbarossa cinse d’assedio Milano, costringendola alla resa per fame. Per punizione fece radere al suolo la città; gli abitanti vennero divisi in quattro borgate distanti l’una dall’altra. Soddisfatto per la rappresaglia fece quindi ritorno in Germania. Nel frattempo anche i rapporti tra l’Impero ed il Papato divennero sempre più tesi in conseguenza degli atti arbitrari compiuti da Federico I nei confronti di territori appartenenti alla Chiesa. Egli aveva infatti ceduto un feudo toscano facente parte delle donazioni effettuate da Matilde di Canossa in favore della Chiesa ad un suo fedelissimo; non esitò inoltre a nominare vescovi italiani in contrasto con il Concordato di Worms. Lo scontro si aggravò ulteriormente con l’elezione al soglio pontificio di Rolando Bandinelli di Siena, che assunse il nome di Alessandro III, al quale Federico I oppose un antipapa eletto dalla minoranza. A seguito di ciò il papa si schierò apertamente a favore delle città dell’Alta Italia, che si opponevano alle pretese imperiali. Nell’Italia settentrionale infatti, l’imposizione dei podestà continuò a suscitare molto malcontento, anche in quelle città, come Cremona e Como, che in un primo tempo si erano schierate con l’Imperatore contro Milano.Opprimendo e impoverendo le popolazioni con imposte varie, i podestà imperiali tendevano ad eliminare progressivamente tutti i diritti comunali che esse avevano conquistato faticosamente. La Repubblica di Venezia, iniziando a temere per la propria secolare indipendenza, propose la costituzione di una lega tra le città venete con a capo Verona e che prenderà il nome di Lega Veronese; a questa fece seguito la costituzione a Pontida di una lega ancora più imponente composta da Comuni lombardi, piemontesi ed emiliani. Le due leghe si allearono cacciando i podestà imperiali, rivendicando i propri diritti comunali e riprendendo con maggior vigore l’assedio dei castelli feudali del contado appartenenti a feudatari fedeli all’impero. Di fronte a questi atti, Federico I nel 1176 scese per la terza volta in Italia, venendo sconfitto una prima volta ad Alessandria, una nuova città edificata in posizione strategica e alla quale i collegati assegnarono il nome in onore del nuovo pontefice Alessandro III. L’imperatore decise quindi di dirigersi su Milano, ricostruita con il contributo delle altre città lombarde, ma il 29 maggio 1176, nella pianura di Legnano si scontrò con l’esercito della Lega Lombarda, subendo una nuova gravissima sconfitta. Federico I caduto da cavallo riuscì a salvarsi nascondendosi sotto un mucchio di cadaveri, riuscendo successivamente a raggiungere Pavia con il favore dell’oscurità. La battaglia di Legnano, rappresentò la prima vittoria della fanteria nella storia medievale. L’esercito della Lega Lombarda, composto in massima parte da artigiani male armati e con un addestramento sommario, riuscirono a sconfiggere la famosa cavalleria pesante tedesca. A seguito di questa sconfitta, il Barbarossa riconobbe in Alessandro III il vero ed unico papa, sconfessando l’antipapa da lui precedentemente appoggiato. Nel 1177, con la tregua di Venezia, acconsentì alla sospensione delle ostilità contro i Comuni e nel 1183, con la Pace di Costanza, riconobbe ai Comuni italiani tutti i loro diritti in cambio di un modesto tributo da versare alle casse imperiali. In tal modo l’impero pur mantenendo la propria sovranità, fu costretto a riconoscere le autonomie comunali. Nel 1184 Federico I compì l’ultima azione della sua polica italiana unendo in matrimonio suo figlio Enrico VI e la zia del re normanno Guglielmo il Buono, Costanza d'Altavilla; dato che il re normanno era senza figli, alla coppia era garantita la successione nel Regno di Sicilia. Quell’unione rappresentò per le aspirazioni del Barbarossa un indubbio successo, salvo poi rivelarsi la causa della rovina della casa di Svevia. Infatti con l’acquisizione del Regno insulare, il nuovo re fu sempre più legato alle questioni italiane, perdendo in tal modo la sua affermazione definitiva in Germania.

Dal Comune consolare alla decadenza comunale

Lo sviluppo delle città e delle industrie, resero necessaria una maggiore fornitura di viveri e materie prime come pelli, legname, fibre tessili e altre ancora, da parte delle campagne. Non si trattava di forniture enormi, poichè all’interno delle città medievali, ampi spazi erano destinati all’agricoltura ed i cittadini possedevano campi coltivati, boschi oppure dei pascoli nei pressi della città inoltre i contadini molto spesso erano usi fabbricarsi da sè molti dei prodotti necessari alla loro attività: vestiti, biancheria, scarpe, ecc.. In questo modo era meno sentita la necessità di acquistare degli articoli provenienti dalle botteghe artigiane cittadine. Nonostante tutto ciò, il commercio e i rapporti monetario-mercantili riuscirono ad ottenere una buona penetrazione nelle campagne, nelle quali destarono degli effetti profondi, segnando la nascita di un’agricoltura mercantile. Nelle terre più prossime alle città, l’agricoltore era incentivato a produrre su almeno una parte dei suoi terreni, non più i prodotti necessari alla propria sussistenza, ma generi vendibili con un buon profitto sul mercato urbano, come ad esempio le fibre tessili, ortaggi, vino e frutta. Con il denaro ricavato da questo commercio, i contadini avevano la possibilità di estendere le superfici coltivate e a migliorare i sistemi di coltivazione. In questo modo essi potevano variare anche la propria produzione, aggiungendo ai prodotti classici della terra, la coltivazione della vite e quindi inserendo la produzione del vino; oppure, utilizzando il latte ottenuto con l’allevamento di bovini ed ovini, iniziare la produzione di formaggi e burro.L’estendersi del commercio e delle necessità da esso suscitate, con i sempre più lussuosi prodotti disponibili, portò ad un accrescimento del bisogno di denaro dei signori feudali, inducendoli a sostituire la rendita in natura o in lavoro gratuito con la rendita in denaro, costringendo i contadini a versare annualmente una somma a discrezione del feudatario. Già nell’XI secolo i campi allodiali, di proprietà del signore, venivano lasciati in affitto ai contadini in quasi tutto l’Occidente. Allo stesso tempo, i signori accrescevano le pretese di aumento della rendita, superando i limiti concessi dagli usi tradizionali, causando con questo loro comportamento l’ inizio di una dura lotta nelle campagne e l’inasprimento dell’antagonismo sociale. Nello steso periodo si assisteva ad un aumento dell’abbandono delle campagne a vantaggio delle città, che promettevano ai fuggiaschi lavoro e soprattutto la libertà per i servi della gleba. Coloro che restavano nelle campagne, se ne avevano la possibilità, riscattavano la propria libertà con il denaro, contando anche sul perenne bisogno di moneta dei feudatari che accettavano di buon grado questo tipo di affrancamento da parte dei propri servi. La liberazione dei servi fu un fenomeno molto frequente in tutta l’Europa occidentale nel corso dei secoli del periodo comunale. Maggiore diffusione l’ebbe in Italia, a causa della maggiore potenza dei Comuni: ogni primavera l’esercito comunale usciva per porre l’assedio alle rocche dei signori che non volevano sottostare all’autorità del Comune, danneggiandone in questo modo i commerci. Soprattutto in Toscana, i castelli venivano distrutti ed i loro proprietari costretti a prendere casa all’interno delle città; i loro servi venivano liberati, anche se alla liberazione personale non faceva seguito la liberazione economica. Infatti l’obbligo di pagare i tributi feudali non venne abrogato, ma semplicemente trasferito al governo comunale. I ricchi mercanti ed i banchieri cittadini, aprofittando delle difficoltà economiche nelle quali venivano a trovarsi gli antichi signori del feudo, procedevano all’acquisto di grandi proprietà terriere a prezzi irrisori. In questo modo il contadino, che personalmente era ormai libero, restò in condizioni di dipendenza economica; venne così a ricostituirsi la grande proprietà terriera gestita dai latifondisti cittadini. Uguale sorte toccò anche ai contadini dei Comuni rustici costituiti in gran numero nell’Alta Italia nella lotta contro il feudalesimo. Proprio per difendersi dalle prepotenze dei signori feudali questi piccoli borghi cercarono l’aiuto dei potenti Comuni urbani; successivamente questo rapporto di alleanza si trasformò in un rapporto di sudditanza.

Le Signorie

La nascita delle signorie in Italia

I dissapori interni e le continue guerre locali finirono per stancare gli abitanti dei Comuni ed in particolar modo la parte più povera di essi. Sul finire del XIII secolo, il desiderio di pace era comune a tutta l’Italia: si cercò di soddisfare questa necessità appellandosi ad un’autorità superiore che fosse in grado di porre termine alle discordie e alle guerre. Gli stessi grossi mercanti e banchieri che avevano assunto il potere nei Comuni, non sentendosi più al sicuro di fronte all’ostilità del popolo, cercavano un potere forte in grado di difendere il loro predominio economico-sociale. Sulla base di queste aspirazioni e di questi interessi, iniziò a svilupparsi in molti Comuni italiani una Signoria, ossia il potere di un uomo a cui viene affidato il compito di governare in sostituzione dei consigli comunali: spesso si trattava di un podestà o di un capitano del popolo, al quale veniva prolungata la durata del mandato, finchè non veniva proclamato signore a vita. Saranno poi questi stessi uomini a rendere ereditaria la carica, trasmettendola ai propri figli. I signori provenivano da famiglie nobili che disponevano di feudi e di reparti armati, con i quali potevano imporsi alle fazioni comunali, imponendo loro la propria volontà. Sotto questo punto di vista, la Signoria appariva come un compromesso tra la vecchia nobiltà feudale e la ricca borghesia cittadina, delle quali il signore continuava la politica interna ed estera, difendendone le posizioni economico-sociali. Per varie ragioni essa non era sgradita neppure al popolo minuto e alla plebe: grazie sia ai provvedimenti demagogici che di solito i potenti adottavano per ingraziarsi il popolo, come ad esempio l’abolizione di imposte particolarmente sgradite o danativi alle famiglie più povere; inoltre il signore risolveva la questione del potere togliendolo in eguale misura a tutte le classi sociali, attribuendolo a se stesso, in modo da apparire sopra le parti. Altro motivo che rendeva la signoria gradita ai meno fortunati era rappresentato dalla lotta che questa conduceva contro le vecchie casate nobiliari che non volevano sottomettersi alla sua autorità; in ultimo, perchè i signori riscirono in molti casi a riportare effettivamente la pace nelle città da loro amministrate, pace saltuariamente interrotta da congiure o colpi di mano posti in essere dalle famiglie nobili più riottose, che però non riuscirono quasi mai a raggiungere il loro scopo. Per contro, la Signoria continuò la politica espansionistica perseguita dal Comune, voluta in modo particolare dal popolo grasso; in questo modo, se da una parte vi fu più ordine e pace all’interno delle città, dall’altra vi fu un aumento delle guerre esterne, che divennero sempre più estese e cruente. Già all’epoca di Federico II di Svevia e di Manfredi, nel Veneto si affermò la potente Signoria di Ezzelino da Romano: signore delle città di Treviso, Padova, Vicenza e Verona e diverse altre città minori. Egli aveva costituito un vasto dominio che si estendeva sulla totalità del Veneto occidentale, minacciando la Lombardia e l’Emilia, che durò fino a quando una lega costituita da città lombarde e appoggiata dalla Repubblica di Venezia, non tolse ad Ezzelino i suoi domini e la vita. A Ferrara si impose la Signoria degli Este, una delle più antiche famiglie feudali italiane, che estendevano il proprio dominio anche su Modena e Reggio: lo Stato estense durerà fino all’unificazione d’Italia nel XIX secolo. Nel centro della Valle Padana si diffuse la Signoria dei Pallavicino, nobili imparentati con gli Este e signori di Cremona, Pavia, Piacenza, Parma, Novara ed altre città minori; il loro dominio si disgregò abbastanza rapidamente. La Signoria che si costituì a Milano era invece destinata a durare molto più a lungo: nel 1240, viene eletto capitano e difensore del popolo il nobile Pagano Della Torre, con l’ordine di combattere contro i magnati che scaricavano tutto il peso delle imposte sui ceti più deboli. Il casato dei Della Torre governerà Milano fino al 1277, quando i nobili capitanati dall’arcivescovo Ottone Visconti, riuscirono a sconfiggerli nella battaglia di Desio. L’arcivescovo vincitore, pur essendo a capo della fazione nobiliare, seppe farsi apprezzare anche dalla parte più povera della popolazione milanese per la sua moderazione e per la sua saggezza, consentendo alla Signoria dei Visconti di dominare Milano per circa due secoli. Nel frattempo, dopo la morte di Ezzelino da Romano, i suoi domini vennero suddivisi tra altre Signorie che si erano costituite all’epoca: Treviso divenne dominio dei Da Camino, Padova dei Da Carrara, Verona dei potenti signori Dalla Scala, che riuscirono, nel secolo successivo, a fondare un vasto Stato che si estendeva su buona parte del nord Italia, tentando di penetrare successivamente anche al Centro. Verso la fine del XIII secolo le Signorie divengono sempre più numerose, finchè, agli inizi del ’300 ben poche furono le città italiane che ancora non erano governate da signori.

Il tramonto dell'Impero e la scarsa influenza del Papato nell'Italia del XIV secolo

Subito dopo la morte di Manfredi l’autorità imperiale in Italia si dissolse, sia a causa del Grande Interregno,sia in seguito alla politica estera seguita da Rodolfo ed Alberto d’Asburgo, che si disinteressarono totalmente della Penisola. In seguito, il loro successore Enrico VII di Lussemburgo, nel 1310 discese in Italia con il proposito di restaurare l’autorità imperiale senza riuscirvi: egli morì con buona parte del suo esercito a seguito di una epidemia, mentre si stava dirigendo verso il Meridione d’Italia, nei pressi di Buonconvento, vicino a Siena. Nel 1328 fu la volta del suo successore Ludovico il Bavaro, che sceso in Italia con gli stessi propositi del suo predecessore, si trovò invischiato nella caotica situazione italiana e nelle rivalità che dividevano fra loro i diversi Stati. Non avendo forze sufficienti per aiutare gli amici o per sconfiggere i propri nemici, fu costretto ad una precipitosa ritirata verso la Germania. Dopo di lui altri imperatori scesero occasionalmente in Italia, tra questi Carlo IV, Sigismondo e Venceslao, che approfittarono dell’occasione per raccogliere denaro, in cambio del quale offrirono titoli nobiliari. Del resto non poterono fare altro, dato che l’autorità imperiale era ormai inesistente nella stessa Germania. Migliore situazione non godeva lo Stato della Chiesa: il trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone, ebbe gravissime conseguenze su di esso, che si disgregò in una moltitudine di piccole entità locali in permanente lotta tra loro. Di questo disordine generale soffrì in modo particolare Roma. In città, le fazioni dei Colonna, degli Orsini, dei Savelli, dei Caetani e di altre nobili famiglie romane, sconvolgevano la vita cittadina con continue lotte. L’economia languiva per l’assenza della corte papale, che attirava in città un gran numero di pellegrini; le campagne circostanti, vessate dal feudalesimo e dalla malaria derivante dalle numerose paludi sparse sul territorio, nulla potevano fare per risanare almeno l’economia locale. Per tentare di ristabilire nella regione la propria autorità, il papa Giovanni XXIIinviò in Italia il cardinale Bertrando del Poggetto, ma la missione non sortì l’effetto sperato. Sembrò invece ottenere maggior successo un movimento popolare costituitosi nel 1347 a Roma. Questo movimento era formato da cittadini che, esasperati dalle prepotenze dei baroni, riuscì a cacciare dalla città le casate nobiliari coinvolte nei continui scontri, portando alla creazione di un potere personale assunto da Cola di Rienzo, il promotore del movimento, che assunse per sè il titolo di Tribuno del popolo. Costui era figlio di un oste e di una lavandaia, che grazie agli studi assidui riuscì a diventare notaio. Con la lettura degli scrittori antichi, egli iniziò a nutrire un’amore sfrenato per l’antica Roma, che sperava di poter restaurare. Naturalmente egli sapeva che era un sogno irrealizzabile, che però traduceva in forma utopistica un’esigenza effettiva: quella di una pacificazione dell’Italia e di una unificazione politica che potesse mettere fine ale miserie che affliggevano in quell’epoca il Paese. Purtroppo Cola non disponeva delle doti politiche necessarie per affrontare nella giusta maniera le condizioni del momento, non essendo sostenuto da forze sufficienti: la borghesia mercantile romana era infatti alquanto insignificante, mentre la plebe di Roma era ancor meno organizzata.L’immaturità dei tempi e dell’ambiente, portarono Cola di Rienzo a compiere i primi gravi errori. Egli convocò a Roma una grande assemblea di città, signori e principi, per dibattere sull’assegnazione della corona imperiale. Nonostante avessero risposto al suo appello più di duecento inviati da tutta la Penisola, apparve chiaro a tutti che la politica da lui seguita mancava di ogni ragionevole fondamento; inoltre egli amava circondarsi di un fasto ritenuto eccessivo, sfoggiato per far aumentare l’importanza della sua carica. In questo modo finì per alienarsi le simpatie del popolo, oppresso dalle alte imposte necessarie a pagare tanto sfarzo. Dopo circa sette mesi di tribunato, Cola di Rienzo venne colpito dalla scomunica papale e dagli assalti dei nobili che cercavano con la forza di rientrare in città: il popolo non lo appoggiò ed egli fu costretto all’esilio. Venne eletto al suo posto un altro popolano, mentre Cola cercò rifugio presso l’Imperatore Carlo IV, che lo fece arrestare e consegnare al papa Clemente VI per essere giudicato come eretico e ribelle, ma la morte del papa e l’elezione al soglio pontificio di Innocenzo VI, lo salvò da morte certa. Il nuovo papa pensò inoltre di servirsi di lui per abbattere il Comune popolare di Roma. Inviato in Italia con il nuovo titolo di Senatore di RomaCola venne accolto entusiasticamente dalla popolazione. Dopo poco tempo, egli ripetè gli errori già commessi in passato: per affrontare le spese militari derivanti dai continui assalti portati alla città dai baroni che tentavano di rientrare a Roma, egli accresceva le imposte, che finivano per gravare sulle spalle della parte più povera del popolo. Divenuto estremamente sospettoso per i continui tentativi di insidiare il suo potere, Cola si macchiò di diversi atti di crudeltà, alcuni dei quali portarono alla condanna a morte di persone totalmente innocenti. Tutto ciò gli inimicò definitivamente i romani, che nel 1354, sobillati dai nobili si sollevarono contro di lui uccidendolo mentre tentava di fuggire. La sua opera non andò persa con lui, poichè i nobili non riuscirono a tornare al governo della città: al posto dei due senatori della parte nobiliare, venne istituito l’ufficio di un solo senatore non romano e nominato direttamente dal papa. A suo fianco operava un consiglio composto da sette popolani, che rappresentavano il vero governo di Roma. Sotto questo governo, la città divenne molto più tranquilla che in precedenza. L’invio in Italia di Cola di Rienzo faceva parte di un più vasto piano politico che Innocenzo VI cercò di realizzare con l’aiuto dell’abile ed energico cardinale spagnolo Egidio di Albornoz. Giunto nella Penisola questi seppe in poco tempo ricondurre sotto l’autorità papale le città del Lazio e dell’Umbria, molte delle quali vi tornaro con entusiasmo allo scopo di sottrarsi alle prepotenze dei baroni. Si spostò quindi nelle Marche e in Romagna, dove portò a termine una dura lotta contro i signori locali. Nonostante le gravissime difficoltà , l’Albornoz riuscì, a riportare l’ordine anche in queste due regioni, riducendo in modo notevole i territori delle varie Signorie e stabilendo in tutte le città occupate dei rettori pontifici. A completamento della sua opera, il cardinale promulgò le famose Constitutiones Aegidianae, un testo giuridico che valse per molto tempo come fonte di diritto pubblico nello Stato della Chiesa. L’opera dell’Albornoz durò dal 1352 al 1367 e creOgrave; i presupposti per un ritorno della corte papale a Roma, insistentemente richiesto da numerose persone di fede, prima fra tutte Santa Caterina da Siena. A questo si aggiungevano gravi considerazioni di politica internazionale: la Francia era infatti impegnata nella Guerra dei Cento Anni, e la presenza del papa in territorio francese, poneva il pontefice in cattiva luce presso gli Inglesi. Inoltre la declinante potenza dei re francesi, non era più in grado di imporsi alla curia papale. Sulla base di tutto ciò, nel 1378 il papa Gregorio XI tornò a Roma ponendo fine alla cattività di Avignone, ma non ai dissensi all’interno dello Stato della Chiesa e neppure alle difficoltà all’interno della Chiesa stessa, nella quale si aprì poco dopo il pericoloso Scisma d’Occidente.

Le repubbliche oligarchiche in Italia

In alcune città come Firenze, Siena, Lucca, Genova e Venezia, la Signoria non riuscì mai ad insediarsi stabilmente, oppure lo fece in ritardo rispetto al resto d'Italia. Questo stato di cose era dovuto alla presenza in queste città di una potente oligarchia mercantile, che dominava la scena politica interna. A Venezia il potere era gestito da un centinaio di famiglie di grandi mercanti, armatori e banchieri. I diversi moti popolari che nel tempo tentarono di sovvertire questo potere, vennero sempre soffocati nel sangue. Nel 1297, un atto definito Serrata del Maggior Consiglio, ridusse ulteriormente il numero delle famiglie che avevano il diritto di partecipare al Consiglio Maggiore, che rappresentava il più importante organo legislativo della repubblica. Queste famiglie vennero iscritte, come si usava all'epoca, nel Libro d'Oro della nobiltà veneziana. Contro queste restrizioni si levarono molte proteste, la più nota delle quali fu quella messa in atto da Martin Bocconio, un ricco popolano che nel 1300 ordì una congiura destinata a fallire: scoperto, egli venne giustiziato insieme a tutti gli altri cospiratori. Dieci anni più tardi furono due famiglie nobili, i Querini e i Tiepolo a porsi alla testa di un movimento al quale partecipò anche una parte della popolazione veneziana. Anche questo tentativo fallì ed i capi della rivolta vennero giustiziati o condannati all'esilio perenne. Dopo questi eventi, il governo veneziano assunse caratteri sempre più oligarchici: fra tutte le famiglie iscritte al Libro d'Oro, solo una quarantina erano quelle che effettivamente gestivano il potere politico in città, passandosi a turno le magistrature di anno in anno. Fra le magistrature veneziane, assunse sempre più importanza il Consiglio dei Dieci, nato come tribunale per la difesa della Costituzione, ma divenuto in seguito l'organo supremo di governo effettivo della Repubblica di Venezia, mentre i poteri del Doge erano minimi, poco più che nominali. Il Consiglio dei Dieci manteneva il dominio dell'oligarchia mediante sistemi poco ortodossi quali lo spionaggio praticato tra i vari ceti della popolazione, gli arresti ed i processi segreti, ai quali facevano seguito delle esecuzioni capitali altrettanto segrete. La sua vigilanza si estendeva agli stessi componenti dell'oligarchia: la vittima più illustre di queste forme di controllo, fu il doge Marin Faliero, che nel 1355 venne improvvisamente arrestato e decapitato poco dopo, con l'accusa di aver cospirato per divenire signore di Venezia; alcuni suoi amici appartenenti al ceto popolare, vennero impiccati alle finestre del Palazzo Ducale. Fra di essi figurava Filippo Calendario, uno dei costruttori del palazzo. Grazie a questi esempi, l'oligarchia riuscì a mantenere saldamente le redini del potere, aiutata in questo anche dalla floridezza economica di cui godeva la città. A differenza di Venezia, la politica a Genova era sempre agitata dalla lotta fra le fazioni nobiliari in perenne contrasto fra loro. La nobiltà genovese era composta da signori feudali, che partecipavano attivamente alla vita economica cittadina gestendo in proprio le banche, il commercio e la navigazione, mantenendo contemporaneamente la propria potenza nelle campagne, dove possedevano i loro feudi e dove disponevano di propri reparti di armati. A Genova i nobili erano divisi in due fazioni principali: il partito dei Guelfi capeggiato dalle famiglie dei Fieschi e dei Grimaldi, alle quali si contrapponeva la fazione dei Ghibellini, capitanata dalle famiglie dei Doria e degli Spinola. Ma le discordie serpeggiavano anche all'interno dei due schieramenti: in alcune occasioni capitò che gli Spinola cacciassero dalla città i loro consociati della famiglia dei Doria. Questi continui contrasti danneggiavano molto il popolo che ormai stentava a nascondere il proprio malcontento per la situazione. Questo malcontento fu la causa della grande sollevazione popolare, che nel 1339 portò all'elezione del primo doge di nomina popolare: Simon Boccanegra. Al suo fianco vennero istituiti dei consigli comunali costituiti da popolani , in buona parte mercanti, mentre la maggior parte dei nobili venne costretta all'esilio. Il trionfo popolare fu però di breve durata poichè i nobili esiliati tornarono in città, dove riuscirono a comporre un governo di compromesso formato da rappresentanti della classe nobiliare e del popolo grasso. In mezzo ai tumulti del popolo minuto e della plebe, la vita politica genovese continuò a fornire un pessimo esempio d'instabilità e disordine. Anche Firenze per molto tempo fu dilaniata dalle lotte fra Guelfi e Ghibellini: si trattava nella maggior parte dei casi di lotte tra fazioni nobiliari che detenevano il potere sulla città, mentre il popolo restava estraneo a queste contese. Nel 1250, dopo la morte dell'Imperatore Federico II, la borghesia fiorentina tolse il potere ai ghibellini, istituendo il primo governo formato dai rappresentanti del popolo grasso alleato con la fazione guelfa. Questo governo durò poco a causa del ritorno dei Ghibellini capeggiati da Manfredi: alla battaglia di Montaperti, nel 1260, i Ghibellini senesi, alleatisi con quelli delle altre città toscane e dei fuoriusciti fiorentini guidati da Farinata degli Uberti, sconfissero pesantemente l'esercito di Firenze, costringendo la città ad eleggere un nuovo governo ghibellino. Circa dieci anni più tardi nel 1269, Firenze si prese la sua rivincita sconfiggendo gli avversari nella battaglia di Colle Val d'Elsa, ed espellendo dalla città in modo permanente i capi della fazione ghibellina. Tuttavia il nuovo governo guelfo che si insediò in città non fu stabile, ed i nobili stessi, a causa dei diversi interessi si suddivisero a loro volta in due fazioni: i Guelfi Neri ed i Guelfi Bianchi, che lottarono aspramente fra loro per il potere. Da queste discordie trasse profitto il popolo grasso che riuscì ad imporre notevoli trasformazioni costituzionali: venne istituita la carica di capitano del popolo, che aveva il compito di organizzare le milizie popolari; nel 1282 venne istituita la Signoria, la forma di governo fiorentina, composta dai Priori delle Arti. Questi successi vennero consolidati nel 1293 con l'alleanza tra il popolo grasso ed il popolo minuto, sotto la guida di un nobile, Giano della Bella, che era passato dalla parte della fazione popolana. Gli Ordinamenti di giustizia da lui promulgati, sancirono che nessun nobile avrebbe potuto far parte delle magistrature urbane, riservate esclusivamente a chi era associato ad un'arte. Negli anni seguenti, l'alleanza tra popolo grasso e popolo minuto si dissolse e Giano della Bella venne costretto all'esilio. Il popolo grasso stipulò un'alleanza con i Guelfi Neri e con il sostegno del papa Bonifacio VIII, nel 1302 riuscirono a cacciare dalla città i Guelfi Bianchi. Tra gli esiliati figuravano personaggi di spicco come Dante Alighieri ed il padre di Francesco Petrarca. Quando nel 1308 vennero cacciati da Firenze anche i Guelfi Neri, in città venne ad instaurarsi un governo composto da ricchi popolani appartenenti alle sette arti maggiori: l'arte di Calimala, che importava i tessuti grezzi e li riesportava una volta lavorati; l'arte della Lana, che importava le lane grezze traendone tessuti di qualità; l'arte del Cambio, che comprendeva i banchieri ed i cambiavalute; e le arti della Seta, dei Pellicciai, dei Giudici e Notai, e l'arte dei Medici e Speziali. A tutte queste arti appartenvano i proprietari di grandi botteghe o laboratori di tipo industriale più che artigianale, che in quell'epoca erano estremamente importanti. Il peso maggiore apparteneva comunque ai mercanti dediti al commercio internazionale, ed ai banchieri, titolari delle famose banche fiorentine, i cui affari si estendevano per tutta la cristianità, fino al punto da dare loro il primato europeo. L'unione fra il popolo grasso ed il patriziato dei Guelfi Neri, diede origine alla nuova nobiltà fiorentina , chiamata dei Grandie composta da non più di una quarantina di famiglie. Anche Firenze si trasformò quindi in una repubblica oligarchica al pari di Genova e Venezia, rimanendo tale per circa un secolo, nonostante le frequenti manifestazioni capeggiate dagli appartenenti alle arti minori e dalla numerosa plebe, che era esclusa sia dalle arti che dal governo.

Le trasformazioni della vita economica

Per buona parte del XIV secolo, il Papato, assente dal suolo italiano a causa del trasferimento ad Avignone della sede papale, non ebbe modo di influire sullo sviluppo politico della penisola. Inoltre l’Italia era ormai indipendente anche dall’Impero germanico, sempre più in decadenza. Le altre grandi potenze europee, Francia, Inghilterra e Spagna, erano troppo impegnate a combattersi tra loro per potersi anche occupare della politica interna italiana. Abbandonata a se stessa, l’Italia divenne preda delle forze locali che nel corso del secolo poterono svilupparsi liberamente, dando vita ad una interminabile serie di guerre e conflitti interni dai quali scaturì una nuova conformazione del Paese.Sul territorio italiano vennero a costituirsi pochi Stati egemonici che si estendevano su intere regioni: dai piccoli Stati cittadini, si passò ai grandi Stati regionali, dalleSignorie, si passò, aiPrincipati. Nonostante la situazione di guerra permanente, il ’Trecento si segnalò come il periodo di massimo sviluppo dell’ economia medievale italiana: le flotte commerciali delle città italiane, ed in particolare di Genova e Venezia, dominavano i traffici mercantili nel Mediterraneo, rifornendo l’Europa di prodotti orientali; l’industria nazionale esportava ovunque le sue pregiate produzioni; le banche italiane avevano succursali in tutto il continente e gestivano buona parte della circolazione del denaro da un paese all’altro. All’interno dell’economia italiana avvennero in quel periodo delle radicali trasformazioni, che mutarono il volto della precedente economia corporativa. Nell’economia dell’artigianato medievale, l’artigiano era padrone della bottega e degli stumenti necessari al suo lavoro e acquistava con i propri ricavi le materie prime necessarie alla produzione, lavorandole direttamente o con l’aiuto di pochi garzoni o soci, vendendole poi direttamente al cliente e intascando interamente i proventi della vendita. In questo modo si aveva una perfetta fusione fra il lavoro manuale, la proprietà dei mezzi di produzione e l’approppriazione dei ricavi derivanti dalla vendita. Questa unità poteva essere mantenuta solo nel caso di una economia artigiana limitata al mercato locale, ma non di certo in una città che lavorava per un mercato internazionale. Nelle città più importanti, i mercanti vennero ben presto ad assumere una maggiore importanza nell’economia manifatturiera, arrivando al punto di assumerne il pieno controllo. Essi avevano infatti la possibilità di acquistare grandi quantità di materia prima, di trasportarla in Italia e quindi di rivendere il prodotto finito all’estero. Tutto ciò era possibile ai grandi mercanti, poichè essi disponevano di ampio credito, essendo essi stessi in buona parte dei banchieri, oppure ricevendo credito dalle banche che preferivano lavorare con grandi aziende anzichè con le piccole che offrivano minori garanzie. I mercanti di una stessa specializzazione, si servivano dell’economia corporativa per associarsi tra loro anche nella fissazione dei prezzi, che in questo modo divengono prezzi di monopolio. Gli artigiani erano così obbligati ad acquistare le materie prime da questi grandi mercanti, ai prezzi da loro stabiliti. Grazie a questo monopolio, ai grandi mercanti era possibile approppriarsi di un profitto sempre maggiore sul lavoro svolto dall’artigiano, sia rialzando i prezzi delle materie prime, che abbassando il prezzo del prodotto finito. In conseguenza di ciò, gli artigiani caddero in una sorta di dipendenza dal mercante: pur mantenendo il possesso della bottega e degli stumenti di lavoro, essi divennero dei semisalariati. Infatti, il guadagno che veniva loro lasciato dai mercanti, corrispondeva ad un magro stipendio, sufficiente alla sussistenza dell’artigiano. Venne quindi a crearsi una rottura dell’unità fra il lavoro e l’appropriazione dei ricavi da esso derivanti, dal momento che la maggior parte di questi ultimi finivano nelle casse dei mercanti come profitto del capitale, per le anticipazioni di denaro da essi effettuate. Questo fenomeno si manifestò in modo ancor più chiaro quando il ruolo principale nella produzione venne assunto da quei maestri artigiani riusciti ad emergere sui propri consoci e trasformatisi in piccoli industriali. Essi non si contentavano più, di lavorare con i pochi garzoni o soci concessi dalla corporazione, ma bensì ampliando l’organico delle propria azienda con l’assunzione di un numero maggiore di lavoratori salariati. Per le operazioni nelle quali non era necessaria mano d’opera qualificata, essi impiantavano degli appositi opifici nei quali, manovali pagati a giornata eseguivano le diverse operazioni sulle materie prime di proprietà del maestro. Questo sistema rappresentava la forma perfetta del lavoro salariato, che si diffonderà diversi secoli dopo con la nascita del sistema fabbrica, del quale gli opifici del XIV secolo rappresentavano le prime manifestazioni. In molti casi, le operazioni che richiedevano accuratezza e capacità, venivano affidate a domicilio a contadini e contadine che in questo modo integravano i proventi derivanti dall’agricoltura. In entrambi i casi si trattava da una parte di lavoratori salariati e dall’altra di capitalisti. Questi ultimi avevano come mezzo di lavoro il denaro, che utilizzavano per l’acquisto delle materie prime, per il pagamento dei salari agli operai e per le spese di produzione. Il denaro si era quindi trasformato in capitale e su di esso veniva percepito un profitto. Il sistema economico basato sull’impiego del capitale venne chiamato capitalismo e poichè questo sistema nacque nelle città italiane, viene ricordato come precapitalismo italiano. I mercanti e i piccoli industriali, non avevano alcun interesse ad accrescere il numero delle ditte concorrenti, per cui essi tentarono sempre di limitare l’apertura di nuove botteghe artigiane. Per raggiungere il loro scopo, essi si rifiutavano di sottoporre ad esame i soci che lo richiedevano, oppure li sottoponevano ad un esame difficilissimo, o ancora, servendosi dell’autorità della corporazione, veniva rifiutato il permesso di aprire una nuova bottega. In questo modo, la gran parte dei soci, non potendo avere un’attività propria, finivano per diventare operai salariati le cui condizioni di vita erano estremamente precarie per la concorrenza derivante dal lavoro svolto a domicilio nelle campagne. Già nel ’Trecento diversi gruppi di soci, emigrarono da una città all’altra dell’Italia in cerca di lavoro, fino a quando, le città interessate non presero dei provvedimenti per fermare l’emigrazione di manodopera specializzata. Nel XIV secolo si assistette ad un fortissimo sviluppo del settore bancario Non si trattava ancora di grandi compagnie bancarie ma di case bancarie proprietà di un’unica famiglia. In tutta Europa si diffusero le succursali delle grandi banche genovesi, lucchesi, senesi e fiorentine. Indispensabili al commercio italiano, esse adempivano anche a importanti funzioni di carattere pubblico: le banche fiorentine raccoglievano in tutta Europa l’Obolo di San Pietro e le altre somme destinate alla Santa Sede, trasmettendole poi a Roma o ad Avignone, ottenendo dei buoni profitti da questi servizi. Approfittando degli ingenti capitali accumulati, i banchieri italiani, ed in particolare quelli di Firenze, Milano e Genova, concedevano grossi prestiti ai sovrani europei e al papa stesso. Per evitare che i re stranieri non restituissero le somme prestate, i banchieri erano soliti farsi concedere a garanzia del prestito degli appalti o privilegi, come ad esempio la riscossione delle imposte, la vendita del sale o lo sfruttamento di miniere.In questo modo, i possibili danni derivanti dalla mancata restituzione del denaro, venivano ampiamente ripagati dai guadagni ottenuti svolgendo tali attività. Con la grande estensione raggiunta da queste operazioni creditizie a Stati stranieri, i banchieri italiani ebbero anche una notevole influenza sulle questioni politiche europee. Con lo sviluppo del precapitalismo, prese a diffondersi nel Paese una nuova classe sociale formata dalla grossa borghesia mercantile, che fu in grado di opporsi con successo alla piccola borghesia artigiana e alla plebe cittadina. Questo fu reso possibile dal fatto che sia gli artigiani che i piccoli mercanti erano sempre più soggetti alla dipendenza economica dalla grande borghesia, venendo così a perdere quell’intraprendenza e quel vigore che avevano contraddistinto l’artigianato di epoca comunale, mentre la plebe era ormai ridotta ad una massa di manovali e disoccupati, alla quale la miseria totale aveva tolto ogni ambizione politica. Le sporadiche rivolte di questi strati sociali, non furono mai in grado di cambiare il corso delle cose e venivano sempre domate con la forza. Vi fu quindi un dominio assoluto delle oligarchie mercantili all’interno dei Comuni, sotto la forma di Signorie, soprattutto in quelli più grandi e ricchi. In seguito le Signorie più forti, grazie anche all’appoggio dei grossi mercanti e dei banchieri più, importanti, presero il sopravvento sulle Signorie più deboli, dando inizio alla formazione in Italia di Stati a carattere regionale, che si svilupparono attorno alle città, più grandi e floride quali Milano, Venezia, Genova e Firenze. Questo processo di concentrazione territoriale durò, per tutto il XIV secolo ed i primi decenni del XV, portando dal governo amministrato dalle Signorie locali ai Principati territoriali. In campo militare, durante il ’Trecento, le milizie comunali vennero progressivamente sostituite da reparti mercenari raggruppati in unità denominate Compagnie di Ventura. Esse non combattevano sempre al servizio dello stesso Stato, ma fornivano i propri servizi a chi offriva loro la paga migliore. Inizialmente le Compagnie di Ventura erano costituite da uomini d’arme tedeschi, scesi in Italia al seguito di qualche imperatore e poi sbandatisi. In seguito iniziarono a formarsi anche compagnie costituite da italiani di ogni ceto sociale: si trattava essenzialmente di uomini che le vicende economiche, politiche o belliche, respingevano dal processo di produzione, oppure dal luogo di residenza o dal proprio feudo. Piccoli nobili feudali che praticavano la guerra con lo scopo di aumentare la propria potenza economica o di estendere i propri domini, nobili senza terra, artigiani rovinati dal cambio dal sistema produttivo, contadini privati della propria terra o rovinati dagli eventi bellici: questi erano gli appartenenti a queste compagnie, tutti individui che nulla avevano da perdere ed erano quindi più che disposti a vendersi al miglior offerente. I motivi che portarono alla sostituzione delle milizie comunali con le milizie mercenarie, erano dovuti alla diffidenza che i signori e le oligarchie mercantili nutrivano verso le popolazioni loro sottomesse. Bisogna infatti ricordare che le milizie comunali erano comunque composte da gente del luogo, ed in caso di rivolta difficilmente avrebbero rivolto le armi contro amici e parenti. In secondo luogo, l’evoluzione storica dell’epoca, rendeva necessarie formazioni militari ben più preparate di quanto non potessero essere le milizie comunali. Le guerre, più lunghe e sanguinose, rendevano necessarie delle truppe ben organizzate e attrezzate, per cui si rese necessaria la sostituzione delle formazioni locali con dei veri professionisti. Nella prima metà del XIV secolo entrarono in servizio le prime rudimentali artiglierie, che resero più difficile l’arte militare: queste nuove armi potevano essere utilizzate solo da addetti ben addestrati al loro uso, quindi non dai negozianti o dagli artigiani che venivano tolti alle proprie attività solo nel momento del reale bisogno e che quindi non avevano nessun tipo di addestramento specifico. Il passaggio a truppe mercenarie si diffuse presto in tutta Europa ma con differenze notevoli: mentre negli Stati nazionali le truppe mercenarie servivano il proprio re con fedeltà, in Italia combatterono mercenari senza patria e senza onore, sempre disponibili a tradire il proprio signore in cambio di un maggior compenso, fortissimi quando si trattava di uccidere civili inermi, ma del tutto incapaci di combattere contro un esercito organizzato. Le compagnie mercenarie, furono la causa principale della decadenza dell’arte militare italiana, e lasciarono l’Italia indifesa contro le successive invasioni straniere. Tuttavia, inizialmente esse furono di grande aiuto alle città più potenti, che tramite i servigi resi da queste milizie riuscirono ad assoggettare le città più piccole, accelerando in tal modo il parziale processo di unificazione del territorio italiano attorno a queste grandi città, portando alla formazione dei Principati regionali.

La Repubblica di Firenze nel '300

Nel 1302, dopo l’espulsione dalla città dei Guelfi Bianchi, ci fu a Firenze un breve periodo di dominio dei Guelfi Neri, capeggiati da Corso Donati. Presto anche questa consorteria venne eliminata dalla vita pubblica fiorentina, ed il potere tornò nelle mani delle sette arti maggiori, che costituivano il popolo grasso.Tra i membri di queste corporazioni, si venne successivamente a costituire un’oligarchia composta da una quarantina di famiglie, in massima parte di grandi mercanti-banchieri, che riuscì a mantenere il potere per circa un secolo. Durante quel periodo, non vennero abolite le forme repubblicane, in quanto esse servivano a garantire l’equilibrio tra le famiglie detentrici del potere, evitando che una di esse potesse divenire troppo forte e in tal modo imporsi alle altre. Venne quindi mantenuta la Signoria, costituita dai Priori delle arti e presieduta dal Gonfaloniere di giustizia, anche se i governanti venivano sempre scelti rigorosamente tra i membri delle famiglie che componevano l’oligarchia. In occasione di momenti difficili, il popolo grasso ricorse a magistrature eccezionali, conferendo temporaneamente il potere a qualche importante condottiero di fuori città. Questo avvenne per esempio tra il 1342 ed il 1343, quando per fronteggiare una sollevazione popolare e portare a termine la guerra contro la nemica città di Lucca, venne chiamato a Firenze Gualtiero di Brienne duca di Atene, un avventuriero che poco tempo dopo essersi insediato in città, mostrò la volontà mal celata di costituire a Firenze una Signoria personale e per questo motivo venne cacciato. Il monopolio del potere da parte del popolo grasso non era ben visto dal popolo minuto, composto dagli appartenenti alle 14 arti minori, che raggruppavano i piccoli negozianti e gli artigiani che lavoravano esclusivamernte per il mercato locale. Alla protesta di questa parte di cittadini, si univa quella della plebe, la parte più povera ed anche più numerosa dei fiorentini, composta nella gran parte da operai salariati senza diritti politici, esclusi dalle corporazioni e senza la possibilità di potersi associare tra loro. Queste proibizioni erano dettate dal timore che pervadeva i grossi mercanti ed i maestri, che gli operai, associandosi tra loro potessero successivamente rivendicare migliori condizioni di lavoro e di retribuzione, che all’epoca erano veramente misere. Nonostante queste misure restrittive, nel 1345, gli operai tintori scioperarono e scesero in piazza guidati da un operaio del settore laniero, Ciuto Brandini. Dotato di grande perspicacia e intelligenza egli vedeva la necessità di raggruppare i propri compagni di lavoro in un’arte o in una corporazione, che avrebbe permesso di ottenere, oltre al miglioramento del salario e delle condizioni di lavoro, anche l’accesso alla vita politica cittadina. Il tentativo di Ciuto Brandini, fallì a causa dello scarso sostegno avuto dalle altre classi operaie, consentendo alla Signoria di normalizzare la situazione con la forza. Catturato, egli venne condannato a morte e giustiziato. Ben più grave ed estesa fu la sollevazione dell’estate del 1378: in quell’occasione la plebe, guidata dagli scardassatori di lana, si ribellò occupando la sede della Signoria, ponendo al governo della città Michele di Lando, un operaio laniero. Questa volta gli operai non furono soli, a loro fianco si schierarono infatti gli appartenenti alle arti minori, il popolo minuto. I rivoltosi chiesero che venissero approvate subito alcune riforme nell’ordinamento cittadino: le più importanti richieste riguardavano l’istituzione di nuove arti che comprendessero al loro interno anche gli operai; la partecipazione di tutte le arti al governo della città; una riforma del sistema tributario, che avrebbe dovuto gravare maggiormente sui più ricchi; la proroga della riscossione dei debiti che gli operai avevano contratto con i loro padroni per alimentarsi. L’ultima richiesta riguardava l’esclusione dalla Signoria di alcune delle famiglie oligarchiche particolarmente invise al popolo. In questa difficile situazione, il popolo grasso fu costretto a concedere ai propri antagonisti quanto richiesto: vennero quindi istituite tre nuove arti, due delle quali includevano gli operai tintori e farsettai, mentre la terza comprendeva tutte le altre categorie di operai, conosciuti come ciompi, o arte del popolo di Dio. Fu accetata anche la richiesta riguardante le modifiche della composizione della Signoria, che da quel momento fu composta da otto priori scelti a turno fra i rappresentanti delle arti maggiori e minori. In questo modo, il popolo grasso ottenne il risultato di dividere i propri avversari, poichè le arti minori e gli operai farsettai e tintori, avendo ottenuto i propri scopi, si separarono dagli altri operai. La massa dei ciompi continuò però nella sua protesta, causata dalle proprie difficili condizioni di vita. Per rappresaglia, i grandi mercanti chiusero le proprie botteghe privando gli operai dell’unico mezzo di sussistenza, costituito dal pur magro salario. Dalle campagne, i proprietari terrieri interruppero l’afflusso di generi alimentari, facendo così mancare gli alimenti a quanti non possedevano un podere. Contro questi atti, i ciompi insorsero nuovamente, ma questa volta si trovarono isolati e finirono per essere combattuti dai loro vecchi compagni di lotta, le arti minori, gli operi tintori ed i farsettai. Michele di Lando, probabilmente corrotto, guidò personalmente l’attacco contro i manifestanti. Al termine della lotta fecero seguito numerose condanne a morte e lo scioglimento dell’arte dei ciompi. Pochi anni dopo anche le arti dei farsettai e dei tintori vennero sciolte e le arti minori vennero nuovamente estromesse dal potere. Michele di Lando venne esiliato e le famiglie oligarchiche, con a capo la ricchissima famiglia dei banchieri Albizzi, ripresero il dominio assoluto sulla città. Gli Albizzi erano favorevoli ad una politica di tolleranza zero nei confronti delle rivendicazioni popolari e per questo motivo erano odiati dalla maggior parte della popolazione fiorentina. Ma poichè la loro linea politica corrispondeva agli interessi del popolo grasso, essi videro accrescere notevolmente il loro potere all’interno dell’oligarchia: con gli Albizzi iniziò per Firenze la Signoria di un’unica famiglia, anche se mascherata dalle forme repubblicane. Ma non tutti i magnati fiorentini erano daccordo con questa politica: in particolare la famiglia Medici, ricchi banchieri che grazie ai fruttuosi affari conclusi in Francia ed ai servigi prestati dalla loro banca alla Santa Sede, si accingevano a divenire la famiglia più ricca della città. Fu la rivalità con le famiglie più antiche e potenti di Firenze che spinse i Medici ad opporsi alla pericolosa politica degli Albizzi. Durante il tumulto dei ciompi, Silvestro dè Medici sostenne le rivendicazioni del popolo minuto, mantenendo relazioni amichevoli con esso. Quando la rivolta venne soffocata nel sangue, la famiglia Medici non prese parte alla repressione. Favoriti da questa loro neutralità, essi inviarono propri seguaci a promuovere tra i ciompi un’agitazione a favore della propria famiglia, in modo tale che il nome dei Medici divenne presto molto popolare fra la plebe e le arti minori, popolarità sostenuta anche dalle cospicue elargizioni di beneficenza che la famiglia aveva cura di fare nei momenti nei quali più grave era il disagio popolare. Con il grande favore popolare raggiunto, i Medici si apprestavano alla loro ascesa alla Signoria. Durante tutto il XIV secolo, Firenze fu impegnata in una serie di guerre che avevano lo scopo di espandere il dominio della Repubblica a tutta la Toscana. Tuttavia, la sua ricchezza e la sua potenza, la posero presto in contrasto con le altre città della regione: la conseguenza di ciò fu che, nel corso di un secolo, i risultati raggiunti furono quanto mai modesti. La minaccia di cadere sotto il dominio fiorentino, obbligava le altre città toscane a mettersi nelle mani di capi politici e militari che facevano loro sperare in una possibilità di difesa. Il primo di questi capi fu l’Imperatore Enrico VII di Lussemburgo, che nel 1310 scese in Italia con il proposito di restaurare l’autorità imperiale. In Toscana egli pose l’assedio a Firenze, che infine lo costrinse a desistere senza aver raggiunto alcun risultato utile. Nel 1313, mentre si recava verso il sud della Penisola, l’Imperatore ed il suo seguito furono pressochè sterminati da un’epidemia nei pressi di Buonconvento, nelle vicinanze di Siena. Due anni più tardi, Uguccione della Faggiola, venne insignito del titolo di signore di Lucca e Pisa e alla testa del proprio esercito sbaragliò i fiorentini nei pressi di Montecatini. Ma poco tempo dopo egli morì, lasciando incompiuta l’opera di costituzione di una nuova Signoria. A lui fece seguito Castruccio Castracani degli Antelminelli, che nel 1325 sconfisse le forze fiornetine nella battaglia di Altopascio. Dopo tredici anni di governo, che sembrarono potergli aprire la strada alla signoria dell’intera Toscana, anch’egli venne colto dalla morte. Per tutto il 'Trecento continuarono i tentativi espansionistici di Firenze, ma senza ottenere risultati apprezzabili, poichè verso la fine del XIV secolo, le uniche città sottomesse erano Arezzo, Prato e Pistoia, con i loro territori. Al tempo di Gian Galeazzo Visconti, il signore di Milano, Firenze fu costretta ad adottare una politica difensiva per evitare di essere conquistata dal condottiero milanese, tutto preso dalla sua politica di espansione. Solo alla morte di quest’ultimo, definitivamente fuori pericolo, i fiorentini ripresero la loro secolare lotta contro Pisa, riuscendo finalmente a sottometterla nel 1406, conquistando così l’agognato sbocco al mare, raggiungibile ora per mezzo dell'Arno, all’epoca navigabile. Lo Stato fiorentino era il più piccolo come territorio tra gli Stati italiani di una certa importanza: il suo peso nella politica italiana, era però garantito dalle sue ricchezze, provenienti in massima parte dalle sue fiorenti industrie e dalle sue famosissime case bancarie, fra le più importanti della cristianità.

Medici a Firenze e Regno aragonese a napoli

L’oligarchia mercantile che dominava Firenze, nel Quattrocento dovette cedere il potere alla famiglia dei Medici. Banchieri e grandi mercanti, essi si erano arricchiti con il servizio di cassa per conto del papa: nei primi decenni del XV secolo, Cosimo dei Medici era l’Uomo più ricco di Firenze e uno dei più ricchi d’Europa. Con l’ appoggio di cui godeva da parte del popolo minuto, Cosimo riuscì a far bandire dalla città gli Albizzi, la famiglia che in precedenza aveva il maggior potere a Firenze, rimanendo il vero signore della città, pur facendo il possibile per non darlo a vedere. Egli infatti non cambiò nulla nelle istituzioni e negli ordinamenti tradizionali, ma in realtà non si effettuavano nuovi provvedimenti governativi e non si eleggevano nuovi pubblici ufficiali senza il suo consenso.
Cosimo dei Medici ottenne il sostegno del popolo minuto grazie ad alcune misure che egli seppe adottare per migliorare la situazione del popolo fiorentino, ed in particolare una riforma fiscale che sgravò in parte del peso tributario i meno abbienti, per caricarlo sulle famiglie dei banchieri sui diretti concorrenti ed avversari politici. Dopo trent’anni di supremazia incontrastata (dal 1434 al 1464), Cosimo, morendo, lasciò il potere al figlio Piero il Gottoso, che morì molto presto. Il potere venne ereditato dai suoi due figli Lorenzo e Giuliano, che poco dopo subirono un attentato da parte di un gruppo di congiurati appartenenti alle più nobili famiglie fiorentine, capeggiate dalla famiglia dei Pazzi, banchieri in diretta competizione con i Medici. Nell’agguato,avvenuto nella Cappella adiacente la Chiesa di Santa Maria del Fiore, Giuliano perse la vita, mentre Lorenzo venne ferito ma riuscù a mettersi in salvo. La congiura dei Pazzi ottenne il risultato opposto di quello che i congiurati avevano previsto. Il popolo, infatti, si sollevò contro i cospiratori inneggiando ai Medici. I Pazzi e il loro amici vennero sommariamente giustiziati e Lorenzo dei Medici assunse i pieni poteri, con forme molto più aperte di quanto non avesse fatto il nonno Cosimo: egli tenne una magnifica corte nella quale trovavano ospitalità poeti ed artisti, e sotto il suo governo si ebbe il periodo più splendido del Rinascimento fiorentino. In Italia, Lorenzo il Magnifico, come ormai il Signore di Firenze veniva definito, grazie alla sua potenza economica e la sua abilità diplomatica, ebbe una parte importante nella soluzione di diversi conflitti tra gli Stati della penisola.
Nello stesso secolo, nel Sud dell’Italia, sotto il regno di Alfonso di Aragona, la Sicilia e la Sardegna vennero unite al regno di Napoli. Alla sua morte, Alfonso lasciò le due isole al fratello, che gli succcedette sul trono di Aragona, dimodochè le due isole vennero nuovamente separate dal resto del regno di Napoli. Successivamente, esse sarebbero servite agli spagnoli come base di partenza per la conquista dell’Italia alla fine del XV secolo. Il regno di Napoli venne invece ereditato da Ferdinando, figlio naturale di Alfonso, che diede origine ad una monarchia nazionale. L’opera del nuovo re venne fortemente osteggiata dai grandi feudatari meridionali, che non esitarono, per l’ennesima volta, a chiedere l’appoggio degli Angioini di Francia. Sconfitti i francesi, Ferdinando si trovò presto coinvolto come vittima designata in un complotto ordito dai nobili, meglio conosciuto come la congiura dei baroni, che vedeva unite contro il re tutte le maggiori casate feudali. Venuto a conoscenza delle trame baronali, Ferdinando attirò con l’inganno i colpevoli nel suo castello, il Maschio Angioino di Napoli, e li fece giustizia, mettendo a morte tutti i principali congiurati e condannando a forti pene detentive gli altri. Tuttavia egli non riuscì a portare a termine la sua opera di consolidamento dell’autorità regia, poichè morì nel 1494. Nello stesso anno iniziò l’invasione del regno da parte dei francesi.

La decadenza del regno di Napoli

A Carlo lo Zoppo, che non era riuscito ad evitare la conquista della Sicilia da parte degli Aragonesi, fece seguito l’elezione a re di Napoli di Roberto d’Angiò, terzo re di questa dinastia, che regnò dal 1309 al 1343. Egli continuò la politica di ingerenze negli affari dell’Italia centrosettentrionale, allo scopo di appoggiare i Guelfi nella loro lotta contro i Ghibellini. Per sostenere questa politica, gli Angioini continuarono a vessare le popolazioni meridionali con sempre nuove tasse, consumandone così ogni risorsa. All’ambizione del sovrano, fece seguito un fenomeno ancora più rovinoso: la diffusione del feudalesimo, che spezzettò lo Stato faticosamente riunito dai Normanni prima e da Federico II poi. Le campagne e le città vennero infeudate ai favoriti del re, per ingraziarseli e mantenerli fedeli alla corona. Si aggiunse inoltre l’uso di contrarre matrimoni con case regnanti straniere, allo scopo di accrescere la potenza della Casa d’Angiò. I risultati di queste scelte sciagurate si videro poi alla morte di Roberto, quando a succedergli venne chiamata sua nipote Giovanna I, il cui regno durò dal 1343 al 1382 e fu costellato da una serie interminabile di guerre civili, poichè tentarono d’impadronirsi del Regno di Napoli il ramo ungherese della Casa d’Angiò, che prese vita a seguito del matrimonio contratto dal figlio di Carlo lo Zoppo, Carlo Martello, con l’erede al trono d’Ungheria, il Ramo di Durazzo, costituito dai discendenti di un altro figlio di Carlo lo Zoppo, che assunse il titolo di conte di Durazzo, e la Casa reale di Francia.Ognuno di questi pretendenti trovò nel meridione un buon numero di baroni disposti a fornire il proprio aiuto in cambio di maggior potere. Queste guerre civili completarono la rovina dell’Italia meridionale, iniziata nel secolo precedente con l’arrivo di Carlo d’Angiò. Il commercio e l’industria decaddero completamente e nelle campagne presero a diffondersi le paludi e la malaria, mentre una buona parte della popolazione si rifugiò sui monti per sfuggire alle pianure ormai inabitabili. Il regno divenne una colonia dei banchieri fiorentini, che fornivano ai re angioini i finanziamenti necessari per perseguire i propri scopi politici. Gli altissimi interessi richiesti dalle banche furono anch’essi causa dell’impoverimento economico del Meridione. Nel 1382, la regina Giovanna I venne assassinata, ma nonostante ciò le guerre civili proseguirono tra i sostenitori della Casa di Durazzo ed i seguaci della Casa regnante francese. Le lotte tra Angioini e Durazzeschi, terminarono con la vittoria di questi ultimi, capeggiati dal re Ladislao di Durazzo. Il consolidamento dell’autorità regia, non fu da lui utilizzato per tentare di riordinare economicamente la situazione del regno, ma egli si dedicò ad un’avventurosa politica di conquista in Italia. Ladislao sperava infatti di poter ricostituire la potenza che era stata raggiunta sotto il primo re d’Angiò. Le vittorie non gli mancarono, grazie anche allo stato di grande disgregazione nel quale si trovava l’Italia centrale: occupata più volte Roma, egli pensò addirittura di annettere al proprio regno tutto lo Stato della Chiesa, ma la resistenza opposta da Firenze rese vani i suoi tentativi, facendogli esaurire le forze in inutili imprese. Egli morì all’età di trent’anni ed il regno passò alla sorella Giovanna II, che ne resse le sorti dal 1414 al 1435. Durante questo periodo ripresero le guerre civili e gli scontri con gli Aragonesi di Sicilia e di Spagna.

L'espansione di Venezia nel XIV secolo

Nel Trecento Venezia era il centro di un vasto impero marittimo dominante su gran parte delle coste orientali del Mar Adriatico, comprendente le città di Trieste, Pola e Zara, numerose cittadine di minore importanza, su una parte della Penisola di Morea, sulle grandi isole greche di Creta, Cipro ed Eubea e sulla maggior parte delle isole Cicladi. Alla fine del XIV secolo la flotta veneziana poteva contare su circa 17.000 marinai e oltre 3.000 navi di vario tipo, che permettevano alla città lagunare di avere quasi il completo controllo commerciale nel bacino orientale del Mediterraneo. Inoltre, le flotte veneziane gestivano regolarmente una linea di collegamento marittimo che, attraverso le coste dell’Europa occidentale, collegavano la città all’Inghilterra e alle Fiandre, consentendo un ampliamento della rete commerciale. L’attività principale di questi traffici era dedicata al commercio dei prodotti provenienti dall’Oriente, che i mercanti veneziani portavano in città, distribuendole in seguito in tutta Europa. Oltre alle entrate dovute a questo tipo di commercio, l’economia di Venezia doveva la propria forza anche alla fiorente industria locale, che produceva panni di seta e di lana, vetro e armi. Il più importante ramo industriale, era senza dubbio la cantieristica navale, che prevedeva la costruzione e la riparazione di navi di tutti i tipi: questa fiorente attività veniva svolta nell’Arsenale di Stato, ed in diversi altri cantieri privati. La banca veneta, al contrario delle altre grandi banche italiane, non si dedicava molto ai prestiti esterni, quanto al finanziamento delle attività commerciali e marittime cittadine. L’attività mercantile era particolarmente agevole grazie anche alla stabilità della moneta di Venezia, il ducato d’oro, che in seguito venne chiamato zecchino, del peso di 3,600 gr. al titolo di 24 carati: le misure di questa moneta restarono invariate per oltre cinque secoli e grazie alla fiducia di cui essa godeva sui mercati, assunse presto le funzioni e l’importanza proprie di una moneta internazionale. Della floridezza economica veneziana, godeva anche la parte più povera della popolazione, che trovava facilmente lavoro e tranquillità, a Venezia: mentre sulle navi degli altri Stati, i rematori erano solitamente dei galeotti o dei prigionieri di guerra, che svolgevano il proprio lavoro incatenati al remo e costretti a remare dalla frusta di un’aguzzino, la Serenissima non introdusse questo sistema se non agli inizi del Cinquecento. In questo modo, i più poveri che non fossero riusciti a trovare un lavoro a terra, potevano arruolarsi come rematori sulle navi veneziane percependo un regolare stipendio. Le ampie possibilità di lavoro e l’operosità del popolo veneziano, furono la ragione del benessere e della tranquillità, politica della città. Nel XIV secolo, si ritiene che il reddito medio dei veneziani fosse di 50 lire in oro pro capite, una somma che era molto superiore alla media dell’epoca. Questo spiega come la popolazione di Venezia raggiungesse nel Trecento le 200.000 unità, la più popolosa città europea del periodo. Il dominio dei mari e l’attività commerciale, vennero costruiti e mantenuti a seguito di durissime lotte, prima contro gli Arabi ed i Bizantini, ed in seguito contro Genova e contro i Turchi. I Genovesi in particolare avevano aiutato i Greci a ritornare in possesso di Costantinopoli, causando la caduta dell’Impero Latino ed acquisendo una posizione di privilegio nel nuovo Impero Bizantino e sull’importante mercato della sua capitale. In seguito essi si spinsero fino al Mar Nero e sulla sponda della Crimea, dove fondarono le tre colonie di Caffa, oggi Feodosia, Balaclava e Sudak. Da queste basi del Mar Nero, Genova riceveva le granaglie, le pelli ed il legname provenienti dalla Russia e la seta cinese, che giungeva al porto di Trebisonda attraverso l’Asia centrale. Non soddisfatti, i genovesi intrapresero una dura lotta contro Venezia per il possesso degli scali greci e orientali: le guerre tra queste due potenti Repubbliche Marinare, durarono decenni, con alterni risultati. Nel 1298 la flotta genovese penetrò nell’Adriatico sconfiggendo la flotta veneziana nella battaglia delle Isole Curzolane. Più gravi furono gli scontri avvenuti nel XIV secolo: nella guerra combattuta nel periodo compreso tra il 1350 ed il 1354, i veneziani riuscirono ad ottenere una prima vittoria nelle acque della Sardegna, ma vennero a loro volta sconfitti nel 1354 nelle acque della Morea, a Portolungo, dalla flotta genovese comandata da Paganino Doria. Nel 1378 la guerra riprese: in quello stesso anno, davanti ad Anzio, l’ammiraglio veneziano Vettor Pisani sconfisse la flotta genovese catturandone il comandante Luigi Fieschi. L’anno successivo fu la volta di Venezia a subire una durissima sconfitta nelle acque di Pola: in quell’occasione, Vettor Pisani riuscì a scampare con sole sei navi superstiti; tornato a Venezia venne processato e incarcerato. I genovesi, galvanizzati dal successo, guidati dall’ammiraglio Pietro Doria, assalirono ed occuparono Chioggia. Per Venezia fu il momento più drammatico: assalita contemporaneamente dai Carraresi di Padova, dal re d’Ungheria e dal patriarca di Aquileia, la città si trovò, con i genovesi che da Chioggia avanzarono ulteriormente occupando Malamocco. Con uno sforzo incredibile, la popolazione veneziana riuscì in poco tempo ad allestire una nuova flotta che bloccò i genovesi a Chioggia costringendoli poi alla resa. Nel 1381 venne firmata la Pace di Torino, che pose fine alla Guerra di Chioggia. La condizione storica più importante fra quelle sancite da questo trattato di pace, fu il riconoscimento da parte di Venezia, dell’indipendenza della città di Trieste, che poco tempo dopo passò sotto il dominio degli Asburgo, rimanendovi fino al 1918. La guerra di Chioggia e la successiva pace, furono sfavorevoli alla Repubblica di Genova, che esurì nel corso del conflitto gran parte delle proprie forze e che, a causa di questo, fu costretta a ridurre la propria presenza nel Mediterraneo orientale consentendo a Venezia di prendere il sopravvento anche nel Mar Nero, fondandovi la nuova colonia di Tana, sorta alla foce del fiume Don, non molto distante dall’odierna città di Azov. Per secoli la Repubblica di Venezia si impegnò ad estendere i propri domini solo alle coste adriatiche e del Mediterraneo orientale, sentendosi sufficientemente protetta sul versante terrestre dalla laguna. In seguito, con la costituzione nel Veneto e in Lombardia di potenti Signorie, Venezia fu costretta a cercare un’espansione anche sui territori di terraferma, come i veneziani definivano le aree poste fuori dalle lagune. La prima città veneta ad essere occupata fu Treviso nel 1339. Nei decenni successivi, in seguito alle guerre sostenute contro i genovesi e le questioni orientali, impedirono ulteriori progressi. Solo in seguito alla minacciosa espansione condotta dal signore di Milano Gian Galeazzo Visconti sul territorio veneto, richiamò nuovamente l’attenzione dei governanti della Serenissima sulla necessità di estendere i propri territori in quella direzione. Alla morte del condottiero milanese, approfittarono della confusione che si era venuta a creare per annettersi Belluno ed altre terre cedute dagli eredi di Gian Galeazzo Visconti. Successivamente, dopo una rapida guerra contro il signore di Padova Francesco Novello da Carrara, Venezia incorporò tra i propri domini le città di Verona e Vicenza; poco dopo, nel 1405 anche la stessa Padova divenne possesso veneziano. Francesco Novello, catturato e imprigionato, venne processato, condannato a morte e strangolato con i suoi due figli. La crudeltà e la risolutezza dimostrate in questa occasione dal governo veneziano, tolsero le residue speranze di riscossa ai Da Carrara, la potente famiglia che per circa un secolo aveva dominato su Padova e su buona parte del Veneto. Circa nello stesso periodo, venne tolto il Polesine agli Este, come conseguenza di un prestito non restituito. In pochi anni Venezia si assicurò il dominio di gran parte del territorio veneto, inserendosi tra i maggiori Stati italiani come ampiezza del territorio, solidità economica e stabilità sociale. Mentre Venezia prosperava sotto la guida dell’oligarchia mercantile, le altre due importanti Repubbliche Marinare dell’Italia medievale entravano in un periodo di decadenza. Genova era riuscita nel XIII secolo a togliere la Sardegna a Pisa, salvo poi perderla a vantaggio della Casa di Aragona, ponendo in tal modo un’altra regione italiana sotto il dominio straniero. In Corsica i genovesi riuscirono a mantenere il proprio controllo, imponendosi con la forza sui baroni locali. Genova stessa era straziata al suo interno dalle lotte di fazione e dalle ricorrenti discordie tra i nobili ed il popolo. Per ovviare a questa situazione, per un certo periodo la città si mise sotto la protezione dei Visconti, signori di Milano. Poco dopo Genova si ribellò al dominio milanese e riconquistò la propria indipendenza. Essa durò poco, poichè a causa di nuove tensioni interne, il governo decise di porre la città sotto la tutela del re di Francia, che inviò in città un presidio militare. Liberatasi anche dall’occupazione francese, Genova tornò, ad essere nuovamente preda degli scontri tra fazioni che si prolungarono ancora per secoli. Nonostante questo, grazie alla propria intraprendenza e alle capacità, lavorative del popolo, l’economia genovese riuscì a rifiorire. I banchieri genovesi in particolare, continuarono a concludere affari molto redditizi, soprattutto con i sovrani spagnoli, mentre la marineria ligure continuava a tener alto il proprio prestigio. Ben peggiore fu il destino di Pisa: dopo la grave sconfitta subita nel 1284 ad opera dei genovesi nella battaglia della Meloria, essa dovette subire l’aggressione da parte di Firenze e delle altre città toscane sue alleate. In particolare, Firenze era intenzionata ad impadronirsi della foce dell’Arno per i propri traffici d’oltremare. Proprio per evitare questo assoggettamento, Pisa si pose sotto la protezione di Signorie locali e straniere. La prima di queste Signorie, fu quella del conte Ugolino della Gherardesca, mentre l’ultima fu quella di Gian Galeazzo Visconti, sotto la cui protezione i pisani si erano posti per evitare di cadere sotto il dominio fiorentino. Alla sua morte, Firenze riprese l’offensiva contro Pisa: il lungo assedio posto dall’esercito fiorentino alla città causò la morte per fame di una buona parte della popolazione locale. Nel 1406 Pisa si arrese ed entrò a far parte dello Stato fiorentino, ma da allora il suo commercio non tornò più florido come un tempo.

Il Ducato di Milano nel XIV secolo

Una delle maggiori Signorie costituitesi nella Valle Padana, fu senza dubbio quella dei Della Scala di Verona. Essa estese il proprio dominio su buona parte del Veneto, penetrando in Lombardia, Emilia e perfino in Toscana. La potenza dello Stato scaligero finì per urtare contro gli interessi di altri Stati ben più solidi economicamente e finanziariamente quali Venezia, Milano e Firenze. Aggrediti da una lega formata da città vicine, i Dalla Scala non furono in grado di difendersi adeguatamente e nel 1339 i loro domini si riducevano alle sole città di Verona e Vicenza, dalle quali vennero definitivamente spodestati nel 1384. Il loro posto venne preso dalla Signoria milanese dei Visconti, che ebbe un rapido sviluppo. Milano aveva avuto da sempre un ruolo di primo piano tra le città lombarde: la sua industria e specialmente quella delle armi era in pieno sviluppo, mentre l’artigianato milanese godeva ormai di fama internazionale. La città si trovava al centro di una delle aree agricole più fertili della penisola; una fitta rete di canali, consentiva la navigazione interna ed il collegamento al mare per mezzo del fiume Po. Il commercio e le banche, facevano di Milano una delle principali città italiane ed una delle meglio collegate ai mercati stranieri ed in particolare con quello francese. Tutte queste circostanze favorevoli fornirono larghi mezzi finanziari ai Visconti, signori di Milano: i sussidi da loro fatti pervenire al re Carlo V di Francia, permisero al sovrano di risollevarsi dalle condizioni disastrose nelle quali si era venuto a trovare il regno dopo la pace di Brétigny del 1360 eriprendere la guerra contro gli Inglesi. I Visconti approfittarono della loro potenza economica per allargare i propri domini, in un crescendo di guerre che si protrassero per tutto il XIV secolo. Questa espansione raggiunse il suo apice nel periodo compreso tra il 1378 ed 1402, sotto il governo di Gian Galeazzo Visconti, che ottenne dall’Imperatore il titolo di Duca di Milano. Dei suoi domini entrarono a far parte, oltre alla Lombardia, una parte del Piemonte comprendente le città di Novara, Vercelli ed Asti, buona parte del Veneto, con le città di Verona, Vicenza e Padova, le città di Siena e Pisa in Toscana, Bologna e Parma in Emilia e perfino Perugia in Umbria. Quando ormai si accingeva ad occupare anche Firenze, vene colto dalla morte. Dal momento che i territori da lui conquistati non erano ancora unificati in un saldo organismo statale, dopo la sua morte, gran parte di questi territori andarono perduti. Rimase la sola Lombardia, già da tempo unificata nel Ducato di Milano.

Rinascimento

L'Italia alla fine dell'epoca medievale

Alla fine del Medioevo, nonostante si fossero costituite unità politiche territoriali di ragguardevoli dimensioni, l’Italia contava ancora una gran quantità di Stati minori come ad esempio Ferrara, nella quale regnava la signoria d’Este, Mantova sotto i Gonzaga, le repubbliche di Siena, Lucca e Genova. Il più ragguardevole fra gli Stati minori era la Repubblica di Genova, che comprendeva oltre alla Liguria anche la Corsica; essa era sempre agitata dalle discordie interne della sua oligarchia mercantile e doscillava fra la soggezione a Milano e quella alla Francia. Un altro Stato che in futuro avrebbe avuto un peso sempre maggiore nella politica italiana era quello dei Savoia, antica nobile famiglia originaria di Paesi posti al di là delle Alpi. I conti di savoia apparvero per la prima volta sulla scena politica italiana nel corso del XIV secolo: Amedeo VI, soprannominato il Conte Verde, fece da mediatore fra Genova e Venezia al termine della Guerra di Chioggia, mentre il suo successore Amedeo VII, detto il Conte Rosso, si impadronì della città di Nizza. Infine, Amedeo VIII alla morte di Gian Galeazzo Visconti, s’impadronì di buona parte del Piemonte, riuscendo ad ottenere dall’Imperatore il titolo di Duca di Savoia. Nel 1430 abdicò ritirandosi in un convento, dal quale uscì, dopo la sua elezione ad antipapa decisa dal Concilio di Basilea. Il nome da lui scelto fu Felice V. Dopo dieci anni egli rinunciò al soglio pontificio ponendo fine allo scisma che si era nuovamente aperto all’interno della Chiesa. I suoi successori presero parte attiva alla politica italiana, mirando soprattutto ad acquistare il dominio completo sul Piemonte, nel quale ancora si reggevano realtà quali il Marchesato del Monferrato, il Comune di Asti e la città, di Novara, ancora in possesso dei signori di Milano. Ma L’Italia non era solo afflitta dalla frammentazione in molti Stati, ma anche dalle divisioni interne nei singoli Stati. L’unica eccezione a questa situazione era la Repubblica di Venezia, dove la ferrea politica esercitata dall’oligarchia era riuscita ad escludere totalmente la popolazione dagli affari pubblici e, nonostante ciò a mantenerla unita ed in pace. Tutto ciò, era dovuto da una parte all’alleanza con le oligarchie locali del Veneto e dall’altra al benessere che il governo della Repubblica riusciva ad assicurare alla popolazione. Inoltre l’amministrazione veneziana era ben organizzata e retta onestamente, specialmente per quanto riguardava la giustizia. In tutti gli altri Stati italiani la discordia ed il sospetto regnavano sovraniportando come conseguenza l’arbitrio ed il disordine. Nel Meridione, i baroni vessavano i contadini e fremevano in attesa dell’occasione propizia per tradire il loro re; nello Stato Pontificio, le Signorie locali spadroneggiavano sulle città e nelle campagne, contrastate inutilmente dal potere centrale; nelle Signorie maggiori e minori, che in qualche modo era riuscito a prendere il potere, viveva perennemente nell’ansia che altre potenti famiglie riuscissero a sottrarglielo. Le cospirazioni erano piuttosto frequenti, ed in esse non di rado partecipavano membri scontenti della stessa famiglia che deteneva il potere: pugnale e veleno erano i mezzi più usati di difesa e offesa. In più occasioni, famiglie e cricche di potenti fecero appello all’aiuto dello straniero per conservare o conquistare il potere: fu proprio da uno di questi intrighi di famiglia che scoccò la scintilla che in breve incendiò l’Italia. Per usurpare definitivamente il Ducato di Milano, che in precedenza aveva occupato con l’inganno, ed abbattere il re di Napoli, suo possibile avversario nella losca impresa, Ludovico il Moro chiese aiuto al re di Francia, che nel 1494 rispose all’appello e scese con il proprio esercito in Italia. Iniziarono così per l’Italia tre secoli di occupazione straniera.

Lotta tra Stati italiani per la supremazia

La prima metà del Quattrocento, fu segnata in Italia da aspre lotte fra Stati per il raggiungimento della supremazia. I principali protagonisti di questi scontri furono il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia. Quest’ultima, dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti, approfittò del momento di confusione venutosi a creare nello Stato milanese per estendere i propri domini nel Veneto occidentale; inoltre, dopo aver lottato contro i patriarchi di Aquileia e i duchi d’Austria, estese il proprio territorio in Friuli fino all’Isonzo e nel Trentino fino alla città di Rovereto, divenedo quindi un forte Stato territoriale, potente finanziariamente, grazie ai suoi traffici marittimi e politicamente, grazie al governo oligarchico nobiliare che garantiva stabilità. Dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti, Il Ducato di Milano perse molte delle conquiste territoriali conseguite dal defunto duca. Nonostante tutto, il figlio di Gian Galeazzo, Filippo Maria Visconti, una volta preso il potere, riuscì ad estendere i propri domini in parte del Piemonte e dell’Emilia, attirando nuovamente nell’orbita milanese la Repubblica di Genova. Le ambizioni espansionistiche dei milanesi e dei veneziani, condussero inevitabilmente ad uno scontro armato che ebbe inizio nel 1423 e terminò nel 1433 con la vittoria di Venezia, sancita dalla Pace di Ferrara e che fruttò alla Repubblica le città di Bergamo e Brescia. Ma questo non era ancora sufficiente per il governo veneziano, che alla morte di Filippo Maria Visconti, intravvide la possibilità di divenire padrone dell’intera Lombardia. Le aspirazioni veneziane, erano tuttavia contrastate da Firenze, che non vedeva di buon l'espansione veneta nell’Italia settentrionale. A Milano venne proclamata la Repubblica Ambrosiana, che aveva posto alla guida delle sue milizie Francesco Sforza. Entrato in città alla testa delle sue truppe, la occuppò con l’inganno, divenendone il Signore, riprendendo subito dopo la guerra contro Venezia. La lotta tra i due Stati proseguì fino al 1454, allorquando i contendenti addivennero alla Pace di Lodi, che riconosceva a Francesco Sforza il titolo di duca di Milano, mentre dal punto di vista territoriale nulla cambiò. In realtà , Venezia si convinse a sottoscrivere la pace a causa della drammatica notizia della caduta di Costantinopoli nelle mani degli Ottomani; in seguito, il pericolo turco richiamò su di sè tutta l’attenzione del governo veneziano, che tralasciò ogni ulteriore tentativo di espansione in Italia.
Un’altra guerra che in modo diverso interessò gli Stati italiani, fu quella che si combattè nel Meridione fra Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, per la successione della regina Giovanna II. Grande e abile condottiero, Alfonso D’Aragona sconfisse il rivale e conquistò l’intero regno, fondando la nuova dinastia degli Aragona. Nel 1441, a seguito della Pace di Cremona, egli venne riconosciuto come re di Napoli dagli altri Stati italiani. Sotto il suop regno e quelli dei suoi successori, le popolazioni meridionali poterono finalmente godere di alcuni decenni di pace, dopo quasi un secolo di continue guerre civili.
La Pace di Lodi segnò per l’Italia l’inizio di un quarantennio di pace, interrotto solo da alcuni scontri di scarsa importanza. Questo buon risultato fu dovuto principalmente alla partà di forze dei maggiori Stati italiani, che si risolse successivamente in un grave danno per la nazione, poichè impedì l’unificazione dell’Italia in un unico organismo statale. Presto i piccoli Stati italiani caddero preda delle potenze straniere, e il Paese divenne un grande campo di battaglia per gli eserciti delle maggiori potenze europee.
Nella seconda metà del Quattrocento, gli Stati italiani attuarono una politica di equilibrio, che consisteva essenzialmente nel bilanciarsi a vicenda, in modo tale da impedire modificazioni delle condizioni territoriali e dei rapporti di potenza tra gli Stati.

Umanesimo e Rinascimento

La fioritura dell’Umanesimo, era strettamente connessa all’epoca medievale, poichètrasse le proprie origini dalla forma più compiuta della civiltà medievale, la civiltà dei Comuni. L’organizzazione comunale, pose infatti l’uomo al centro della vita cittadina, attribuendo al suo lavoro la massima importanza, creando le premesse per l’Umanesimo. Quest’ultimo, nacque come affermazione del diritto dell’uomo a realizzare nel mondo la propria personalità, in pieno contrasto con la religione medievale che indicava come l’unico scopo della vita umana, il raggiungimento della felicità ultraterrena.Il vagheggiamento dell’antichità ebbe come immediata conseguenza il culto per l’arte e la letteratura, già presente in precedenza nelle opere di Dante Alighieri. Furono le opere di Francesco Petrarca, ad annunciare la concezione della vita come una gioiosa manifestazione della bellezza, propria del mondo umanistico e rinascimentale. Con il Boccaccio, fa la sua comparsa nella letteratura l’uomo vivo e vero, grazie alla prima rappresentazione della vita e del costume dei vari strati sociali nell’epoca compresa tra il declino della civiltà comunale e l’avvento delle Signorie. L’Umanesimo trovò i propri riflessi nei nuovi programmi pedagogici, che miravano ad impartire un tipo di educazione intesa alla valorizzazione delle qualità di ciascun individuo, al di fuori di ogni forzatura; esso si espresse nella filosofia, innalzando l’uomo al livello di intermediario tra la Terra ed il cielo. Venne in tal modo a formarsi una nuova ideologia che trovò un’ anche nelle classi popolari. Uno sviluppo diretto del movimento umanista, fu nel XVI secolo il Rinascimento, titolo coniato da Giorgio Vasari che esprimeva la certezza di essere vicini ad una nuova era di rigenerazione dell’umanità. L’uomo veniva ormai concepito come una entità individuale completa e autonoma, contrapposta all’infinità dell’universo. A lui spettava il compito di dominare ed asservire le forze della natura, creando un mondo a propria misura. In due opere filosofiche questi ideali assunsero forme utopistiche: La città del sole dell’Italiano Tommaso Campanella e L’Utopia dell'Inglese Tommaso Moro, che auspicavano una società fondata su di un principio comunitario, nella quale gli ideali dell’Umanesimo prima e del Rinascimento in seguito, trovarono una diretta espressione.Quando però dagli ideali si doveva passare alle applicazioni pratiche, il modello al quale si ispirarono i condottieri dell’epoca, fu Il Principe di Niccolò Macchiavelli, l’iniziatore del pensiero politico moderno. Libero da preoccupazioni moralistiche e soprattutto consapevole dell’impossibilità di realizzare ideali che trovassero la propria base nella realtà effettuale, ossia quella realtà che affondava le sue radici nell’organizzazione economica, il Macchiavelli propugnò uno Stato forte, del tutto indipendente dalla Chiesa e capace di compiere l’unificazione nazionale. Proprio per il fatto che la nuova cultura trasse origine dall’organizzazione politica dell’etàcomunale, essa conobbe una certa diffusione nella maggior parte dei paesi europei, anche se l’Italia ne fu il centro propulsore ed anche il Paese nel quale essa si sviluppò per la prima volta. L’Umanesimo fu quindi un movimento europeo che annoverò in quasi ogni Paese europeo i propri più insigni rappresentanti: dall’Italia alla Francia, dall’Inghilterra alle Fiandre. Questi uomini, legati da comuni interessi culturali e da rapporti di fraterna amicizia, confrontarono le loro conoscenze al di là delle differenze nazionali e dei contrasti politici.