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Il Meridione d'Italia nel periodo napoleonico
di Franco Savelli
Sommario (1)
--- Napoleone e l’Impero: rientro in Francia dall’Egitto e
costituzione del Consolato. Incoronato Imperatore dei francesi e Re
d’Italia. La prevalenza napoleonica sulle nazioni europee e
matrimonio con la granduchessa d’Austria. Accordo e contrapposizione
con l’impero russo, la disastrosa campagna di Russia. La VI
coalizione antinapoleonica lo costringe a rinunciare senza
condizioni all’impero. L’effimero intermezzo dei cento giorni e la
resa definitiva.
--- Il regno di Napoli: trattato di amicizia con la Francia ed
immediata alleanza antifrancese con l’Austria. Invasione francese
del Regno, nomina di Giuseppe Bonaparte re di Napoli e della
Sicilia. Azioni di guerra per la conquista della Calabria. Norme di
ristrutturazione del Regno. Gioacchino Murat subentra a Giuseppe,
attività di governo, attività militari di contenimento
e di iniziativa. Lotta al brigantaggio. Partecipazione alle ultime
guerre napoleoniche. Sconfitta a Tolentino e perdita del Regno.
Rientro del re Borbone. L’estremo tentativo di Murat.
--- Vicende della Sicilia di Ferdinando IV e della Sardegna di
Vittorio Emanuele I nel periodo Napoleonico.
--- Congresso di Vienna e restaurazione
______________
Napoleone e l’Impero
- L’ascesa
Napoleone (2) resosi conto delle difficoltà di condurre la
guerra in Egitto (3) volta a tagliare alla Gran Bretagna la via
delle Indie ed informato dei rovesci subite dalle armate francesi in
Europa (4) , dopo aver sventato un tentativo di sbarco ad Abukir di
un corpo di spedizione turco, decise di lasciare il comando delle
operazioni al generale Kleber (5) e di rientrare in Francia su una
goletta fortunosamente sfuggita al controllo inglese del
Mediterraneo. Sbarcato a Frejus (agosto 1799), il suo viaggio verso
Parigi fu salutato con entusiasmo dalla popolazione. I fautori di un
nuovo assetto istituzionale individuarono nella popolarità e
prestigio di Napoleone lo strumento idoneo da utilizzare in un
progetto di revisione costituzionale. La qualcosa diffuse sconcerto
tra i giacobini, pur se parte di loro auspicava un svolta a sinistra
di un eventuale governo autoritario. Arrivato a Parigi, Napoleone
aderì al progetto e, nominato comandante in capo delle forze
armate, riuscì a far sciogliere le camere (Consiglio dei 500
(6) e Consiglio degli anziani) e, su iniziativa del componente del
Direttorio ed ideologo della borghesia rivoluzionaria, l’abate
Joseph Sieyés, si operò l’abbattimento del Direttorio
(9 novembre 1799) e la creazione di un Consolato di tre membri di
cui fece parte anche Roger Ducos. Praticamente un colpo di Stato in
cui Napoleone, anziché strumento, divenne protagonista
assicurandosi, con la Costituzione dell’anno VIII, il potere
assoluto ed il ruolo di primo console, lasciando agli altri due un
ruolo marginale di consultazione.
Napoleone, elaborate le modifiche da apportare all’organizzazione
politica ed amministrativa del paese ed accentrate, sotto il suo
personale controllo, le leve del potere sul ministero dell’Interno,
riprese le operazioni di guerra sul fronte del Reno, affidate al
comando del generale Moreau,, e sul fronte italiano di cui assunse
direttamente il comando per la seconda campagna d’Italia. Dove
giunse con la sua armata, dopo aver valicato audacemente il Gran
S.Bernardo, cogliendo di sorpresa gli austriaci che vennero
sconfitti a Montebello e nella battaglia decisiva di Marengo (14
giugno 1800) . (7)
Questo successo, consolidato da quello del Moreau (8) ad Hohenlinden
(13 dicembre 1800) sull’esercito austriaco, e l’abilità del
diplomatico principe di Talleyrand portarono al convegno di pace di
Luneville dove alla urgenza della Francia di siglare l’intesa si
contrapponeva il tatticismo diplomatico di Austria ed Inghilterra .
Napoleone non volendo perdere il vantaggio che la situazione sul
campo gli garantiva riprese le ostilità (guerra d’inverno)
occupando territori della Lombardia e Toscana dove il Regno di
Napoli, sfuggendo ad ogni principio di cautela, aveva inutilmente
inviato da contrapporre i francesi tre legioni di sanfedisti (**)
che, precedentemente insediati nei territori dello Stato Vaticano ed
inesperti di guerra campale, furono agevolmente messi in fuga.
Con la firma del trattato di Luneville (9, febbraio 1801) in cui,
oltre alla conferma di quello di Campoformio (*), veniva
riconosciuto alla Francia l’influenza sulle regioni italiane del
nord con l’annessione di Piemonte, il controllo della Toscana con i
Presidi e delle repubbliche Ligure e Cisalpina . (10)
All’Austria, d’altra parte, veniva accordato il mantenimento di
Veneto, Istria e Dalmazia.
Il momento favorevole non poté essere sfruttato a pieno per
l’assassinio dello zar Paolo I (11) con cui stava impostando una
alleanza in funzione antinglese. Napoleone trovò comunque
produttivo l’accordo di pace di Amiens (marzo 1802) con una
Inghilterra in difficoltà per motivi interni (12) . Tale
accordo, da un lato, gli consentiva di ristabilire il dominio
coloniale francese sulle Antille, occupate dall’Inghilterra durante
la rivoluzione e, dall’altro lato, agevolato dai successi militari
ottenuti, gli forniva l’opportunità di stabilire nuovi
accordi diplomatici oltre ad intraprendere iniziative legislative
(13) volte a consolidare il suo personale potere. In tale ambito,
infatti, una proposta del Senato, confermata con un plebiscito (2
agosto 1802), conferì a Napoleone il consolato a vita
(Costituzione dell’anno X) e successivamente, con l’approvazione
della Costituzione dell’anno XII, ricevette il titolo di Imperatore
dei francesi (14 maggio 1804) con facoltà di nominare il
successore. In sostanza il conferimento di un potere monarchico .
(14)
Nel 1803, a seguito di reciproche accuse di violazione del trattato
di Amiens, tra cui la mancata restituzione all’indipendenza
dell’isola di Malta da una parte ed il mantenimento delle truppe
francesi in Olanda dall’altra, si riproposero motivi di guerra fra
Francia ed Inghilterra per cui Napoleone diede avvio al piano di
sbarco in Inghilterra che, preparato da tempo, fallì per le
gravi perdite subite dalla flotta francese dell’ammiraglio
Villeneuve (15) nella baia di capo Trafalgar (21 luglio 1805) ad
opera della flotta inglese guidata da Nelson (*) (**).
Napoleone riparò allo smacco subito utilizzando l’armata,
concentrata a Boulogne in vista dello sbarco in Inghilterra, per
combattere, sui teatri di guerra continentali di Italia e Germania,
le nazioni della III coalizione antinapoleonica (agosto 1805) che
comprendeva un vasto schieramento composto dall’Inghilterra,
Austria, Prussia, Russia, regno di Napoli, Svezia e Turchia. In
Italia il maresciallo Massena avanzò verso il Veneto ed, in
un susseguirsi di successi, giunse fino a Trieste, impegnando
l’esercito austriaco che veniva così sottratto alle azioni di
guerra in Germania. Dove Napoleone dopo aver sconfitto, ad Ulm, gli
austriaci guidati da Mack (*) e, fatta occupare Vienna (15 novembre
1805) , affrontò gli eserciti austro-russi ad Austerlitz (2
dicembre 1805) dove il suo genio tattico gli consentì di
ottenere una delle sue più significative vittorie.
Ché, se poco veniva a costare alla Russia che combatteva al
di fuori del suo territorio ed il cui esercito, avendo ottenuto
facoltà di rientro attraverso un percorso stabilito, mantenne
intatta la propria capacità offensiva, registrò invece
gravi conseguenze per l’Austria, obbligata a ritirarsi dalla
coalizione e ad accettare (dicembre 1805) (16) le condizioni della
pace di Presburgo (attuale Bratislava). Esse sancivano, in termini
territoriali, la cessione del Veneto e delle Marche al Regno
d’Italia ed, in termini politici, il riconoscimento di quest’ultimo
e la costituzione della Confederazione del Reno contratta da quegli
Stati germanici che, pur compresi nell’impero asburgico, si erano
schierati con Napoleone (17). La qualcosa conseguiva la fine del
Sacro Romano Impero e l’assunzione, da parte dell’Imperatore SRI
Francesco II, del meno prestigioso titolo di Imperatore d’Austria
col nome di Francesco I (1806).
La Prussia con l’Inghilterra (IV coalizione) proseguì le
ostilità e Federico Guglielmo III di Prussia, sconfitto a
Jena e ad Auerstedt (ottobre 1806), si rifugiò in Russia
lasciando a Napoleone aperta la strada per Berlino. Lo zar
Alessandro (nota 11), sconfitto a Eylau e Friedland (febbraio e
giugno 1807) trovò conveniente accordarsi con la Francia in
un trattato (Tilsit, giugno 1807), che, stipulato in funzione
antinglese, permise agli imperi francese e russo di dividersi
l’Europa in zone di influenza, di concordare, a carico della
Prussia, perdite territoriali che andavano a formare il regno di
Westfalia e di stabilire un equilibrio il cui mantenimento era
garantito da contatti diplomatici non privi di diffidenze . (18)
Napoleone utilizzò le sue vittorie, che avevano alterato la
geografia politica dell’Europa (19), nella logica dell’espansionismo
(20) ed, avendo recepito le difficoltà di una invasione
territoriale dell’Inghilterra, spostò la lotta politica sul
piano commerciale imponendo a tutti i paesi europei il blocco
economico contro l’Inghilterra. Per renderlo più efficace ed
eliminare la testa di ponte commerciale che essa aveva in
Portogallo, paese tradizionalmente legato agli inglesi, nel 1807
ingiunse alla corte di Lisbona di chiudere i suoi scali al commercio
britannico. Essa tergiversò nel timore di crearsi problemi
con la potente Inghilterra ma Napoleone, che aveva in mente di
estendere il suo dominio sulla penisola iberica, strinse con la
Spagna (trattato di Fontainebleau, ottobre 1807) un accordo di
spartizione e, sostenuto da un contingente spagnolo, invase il
Portogallo, spodestando Giovanni VI di Braganza (21) ed istallando
al governo il generale Junot. Approfittando quindi del contrasto tra
re Carlo IV di Spagna ed il figlio erede al trono, Ferdinando,
principe delle Asturie, che intendeva assumere la corona (22),
impose ad ambedue la rinuncia al trono ed occupò la Spagna
con l’armata del generale Murat (1808), collocando sul trono il
fratello Giuseppe, a quel tempo re di Napoli. Evento che nel popolo
spagnolo, già sensibilizzato dalle vicende che avevano
coinvolto Papa Pio VII (nota 13), sviluppò contro l’arroganza
napoleonica un sentimento di ribellione, anche in quegli strati
più liberali e sostenitori delle idee ispiratrici della
rivoluzionarie francese. Questa ribellione (Madrid, 2 maggio 1808)
fece vacillare il trono di Giuseppe e lo stesso Napoleone dovette
direttamente dirigere una feroce repressione (1809) (23) ed imporre
una brutale occupazione che, comunque, non riuscì a spegnere
i focolai di resistenza. Questi, fomentati dal clero, aspro
avversario dell’anticlericalismo francese, si protrassero nel tempo
infliggendo anche umilianti sconfitte alle milizie di occupazione
francesi ed evidenziando le prime crepe nel controllo dell’impero.
Gli inglesi reagirono (24) al blocco commerciale imposto da
Napoleone ed in Portogallo inviarono un contingente militare,
comandato da Artur Welleslay (futuro duca di Wellington) che
costrinse i francesi ad abbandonare il paese (resa di Cintra).
Successivamente, nel 1813, allorché Napoleone era in
difficoltà ad oriente, lo stesso Welleslay invase la Spagna,
cacciando Giuseppe Bonaparte ed imponendo il legittimo erede
Ferdinando VII (note 22 e 65).
L’Austria sostenuta dalla Gran Bretagna (V coalizione) tentò
nel 1809 di risollevarsi da una posizione di sudditanza nei riguardi
della Francia ma, sconfitta a Wagram (luglio 1809), fu costretta
alla pace di Schombrunn (1809) la cui durezza delle condizioni (25)
furono attenuate dalla richiesta di Napoleone di sposare la figlia
dell’imperatore Francesco I. Questi, su suggerimento del suo
ministro degli esteri, principe di Metternich, sacrificò alla
ragion di stato la figlia Maria Luisa, dandola in sposa a Napoleone
(1 aprile 1810) che così realizzava il sogno di imparentarsi
con la dinastia Asburgo-Lorena, la più prestigiosa d’Europa
(26) . Evento che fece perdere a Napoleone larghe fasce di favore,
infatti i giacobini si sentirono lesi nel loro sentimento
repubblicano, ed ancor più il popolo fu toccato dallo sfarzo
delle cerimonie in un periodo in cui si manifestava una acuta crisi
economica, ed altrettanto la borghesia che in più soffriva
per la sottrazione di diritti acquisiti.
- La resa
A Napoleone, in Europa, restava la sola contrapposizione con il
sospettoso imperatore russo il quale, confidando nella
insoddisfazione della Prussia e nell’infedeltà dell’Austria
che, grazie ai rapporti di parentela, non era stata inglobata
nell’impero francese e subendo la pressione dell’Inghilterra, decise
di sottrarsi al blocco economico contro di essa. Napoleone,
nell’ambizione di risolvere a suo favore tale dualismo ed assuefatto
al vantaggioso ruolo dell’assalitore, preparò, con il
contributo militare di Austria e Prussia, ridotti ormai al rango di
paesi satelliti, l’armata più consistente mai messa assieme
(600.000 uomini). Il 22 giugno 1812, anticipando i preparativi
bellici dello zar, attraversò, con la cavalleria guidata da
Murat, il fiume Niemen di demarcazione tra i due imperi, impegnando
in agosto a Smolensk una parte dell’esercito russo guidato da
generale Kutuzov. In settembre, presa Vilna, si scontrò in
battaglia presso la cittadella fortificata di Borodino dove rimasero
sul campo complessivamente 75.000 uomini e dove i russi, conoscitori
del territorio, operarono una strategica ritirata, nel corso della
quale abbatterono barbaramente ogni presidio utile all’esercito
invasore.
A Napoleone fu proposto dai suoi generali di arrestare l’avanzata e
rafforzare le strategie di rifornimento in vista della prossima
primavera ma, superati i dubbi iniziali, egli diede ordine di
procedere in un territorio devastato e privato di ogni risorsa dagli
stessi russi che fecero trovare a Napoleone, al suo ingresso a
Mosca, una città in preda agli incendi (15-18 settembre).
Napoleone, dopo aver atteso invano una proposta di pace dallo zar
che confidava nel prossimo arrivo dell’inverno e nella carenza di
approvvigionamenti dell’armata invasore, in ottobre, diede ordine di
iniziare la ritirata.
Questa, drammatizzata dal clima e dalla carenza di vettovaglie, ben
presto si trasformò in fuga, esposta agli improvvisi e
spietati attacchi dei russi che, all’atto dell’attraversamento del
fiume gelato Beresina (26-28 novembre 1812), causarono la perdita di
quasi 400.000 uomini dell’armata francese, trasformando la ritirata
in una inesorabile disfatta. Solo 20.000 uomini riuscirono a
riattraversare, il 18 dicembre, il Niemen. Napoleone, scoprendosi
vulnerabile, anticipò il suo rientro in Francia per contenere
il malcontento che si diffondeva e per una veloce riorganizzazione
dell’esercito in vista di prevedibili prossimi scontri.
Lo zar, confortato dall’aver allontanato Napoleone dalla Russia, con
l’apporto di Inghilterra e Prussia (VI coalizione), quest’ultima
all’insegna della guerra di liberazione dei popoli germanici,
puntò ad estrometterlo dall’Europa, costringendolo ad una
guerra difensiva. Napoleone che aveva ricostituito un esercito
giovane ma carente di addestramento, pur avendo riportato qualche
iniziale successo (maggio 1813) a Lutzen, Bautzen e Wurtchen, venne
raggiunto dal principe Metternich, inviato di Francesco I che, in
conflitto con se stesso, pur non avendo partecipato alla guerra per
il legame della figlia con Napoleone, aspirava a sottrarsi al
condizionamento francese. Metternich, in un tempestoso colloquio,
esigeva la concessione di un armistizio offrendo, anche per conto di
Prussia e Russia, una pace che avrebbe previsto il ripristino della
situazione territoriale fissata con la pace di Campoformio. Offerta
che Napoleone respinse, inducendo l’Austria, assieme alla Svezia
(27), a scendere in campo a fianco delle nazioni della VI
coalizione. Napoleone, dopo un iniziale successo a Dresda (27 agosto
1813), venne sconfitto a Lipsia (16-18 ottobre 1813), riuscendo
tuttavia a sottrarsi all’accerchiamento e rientrare in Francia
mentre gli eserciti stranieri, giunti ormai sul Reno, rifiutarono
l’offerta di pace avanzata Napoleone e mirante al riconoscimento
della dinastia dei Bonaparte in una Francia ristretta ai suoi
confini naturali. Alla fine di dicembre 1813, gli alleati entrarono
sul territorio di una Francia gravata dagli oneri che le guerre
avevano richiesto e non più incline ad assecondare
l’ambizione di potere di Napoleone che fallì nei tentativi di
contenimento delle armate avversarie e, consapevole di non riuscire
ad anticiparle nella marcia verso Parigi, ripiegò su
Fontainebleau, dove il 4 aprile 1814 fu costretto dai suoi stessi
marescialli ad abdicare in favore del figlio (Napoleone II; nota
26), estromesso due giorni dopo (6 aprile) dal Governo provvisorio,
che, imposto dagli alleati giunti a Parigi (31 marzo),
obbligò Napoleone a rinunciare alla corona per se e per i
suoi discendenti.
Restava per Napoleone il titolo di imperatore e la sovranità,
sotto sorveglianza inglese, dell’isola d’Elba dove giunse camuffato
per sottrarsi all’ira dei francesi, nel maggio 1814. La moglie Maria
Luisa si assoggettava alla protezione del padre Francesco I mentre a
Parigi si installava il nuovo sovrano Luigi XVIII della dinasta
Borbone, fratello minore di Luigi XVI.
Il Trattato di Parigi (maggio 1814) riconosceva alla Francia i
confini del 1792 con l’aggiunta di Avignone, rimandando le altre
questioni al Congresso che si sarebbe tenuto a Vienna a partire
dall’ottobre successivo. Intanto nelle regioni italiane di Piemonte
e Toscana venivano restaurati gli antichi sovrani.
A Vienna (1 ottobre 1814) si apriva il Congresso internazionale che
doveva dare un nuovo assetto all’Europa post-napoleonica e che si
concluse il 9 giugno 1815 (v. seguito), nove giorni prima della
definitiva sconfitta di Napoleone.
Dall’Elba, Napoleone, il 28 febbraio 1814 era riuscito ad eludere la
sorveglianza ed a raggiungere, con cinquecento uomini, la Francia
(Frejus, 1 marzo 1815) di nuovo disposta a sostenerlo al punto che i
contingenti, inviati dal Luigi XVIII, anziché contrastarlo,
si univano a lui. Il 20 marzo giunse a Parigi da dove il re era
fuggito per rifugiarsi in Belgio. Nei cento giorni di potere, oltre
ad assumere decisioni di rilevanza politica con l’Atto addizionale
alle costituzioni dell’Impero, riuscì a riorganizzare
l’esercito ed a muovere contro tutte le potenze europee che, deciso
l’intervento armato congiunto fin dalla notizia della sua fuga, dopo
aver ceduto a Ligny con l’esercito prussiano di Blucher, lo
sconfissero definitivamente, 18 giugno 1815, a Waterloo in una
battaglia in cui l’inefficienza di alcuni marescialli francesi
consentì alle truppe prussiane di ricongiungersi con quelle
inglesi di Wellington e sopraffare i francesi.
Il 15 luglio 1815, Napoleone che aveva ricevuto una proposta di fuga
negli Stati Uniti, vanificata dalla sorveglianza inglese, sulla nave
inglese Bellerofont firmò la sua resa e raggiunse l’esilio
nell’isola di S.Elena dove sopravvisse fino al 5 maggio 1821.
Il Regno di Napoli sotto il dominio napoleonico
Dopo la descrizione dei quindici anni di articolati eventi che
avevano coinvolto le nazioni europee, viene di seguito illustrato
come lo stesso periodo fu vissuto nelle regioni del meridione
d’Italia.
Napoleone, irritato per la partecipazione del Regno di Napoli nella
guerra d’inverno del 1801, diede mandato al generale Murat di
stabilirsi con una armata nei territori vaticani. Murat, dopo
assicurato rispetto al Papa, rivelò intenzioni non amichevoli
nei riguardi del contingente napoletano di stanza in Roma al
cui comandante Damas ingiunse di sgombrare subito lo Stato Vaticano
ed al re di Napoli di interdire i porti del Regno alle navi inglesi.
Con la mediazione dall’ambasciatore russo si pervenne ad un
compromesso gravoso per la corte di Napoli (28).
Esso prevedeva che, a fronte della protezione russa e francese in
caso di aggressione, le milizie napoletane sgomberassero lo Stato
Vaticano, i porti fossero interdetti agli inglesi, si rinunciasse a
tutti i possedimenti in Toscana e fosse accordato ai fuoriusciti
napoletani libero rientro con la promessa di restituzione dei beni.
Nel 1802, Murat andò in visita a Napoli dove ricevette onori
e doni dal reggente, principe Francesco e dopo che il Regno fu
sgomberato da tutte le milizie straniere che avevano contribuito
alla caduta della Repubblica Partenopea, rientrarono festeggiati a
Napoli, il re Ferdinando IV da Palermo (metà del 1802) e,
dalla corte di Vienna, la regina Maria Carolina, i cui intrighi
erano ben noti a Napoleone. (29)
Il comandante delle truppe francesi di stanza nel regno di Napoli,
Saint-Cyr, era stato allertato a predisporsi per una azione
offensiva di conquista e mantenimento del Regno o, se assalito, a
tagliare al nemico la via verso il Po. Allorché gli giunse
l’ordine di portare le sue truppe al di fuori del regno, quale
contropartita per il trattato di amicizia che, concluso a Parigi (21
settembre e ratificato il 9 ottobre 1805), impegnava il re di Napoli
alla neutralità in ogni azione di guerra in cui era impegnata
la Francia ed al divieto di stanza sul territorio e di accesso ai
porti di truppe o navi appartenenti a nazioni in conflitto con la
Francia. In larghi strati della popolazione non si era ancora spenta
la soddisfazione per questo trattato che riportava la pace e
liberava il regno dalla gravosa presenza del contingente straniero,
che Ferdinando IV stringeva a Vienna (26 ottobre 1805) un patto di
alleanza con le nazioni dello schieramento antifrancese della III
coalizione. Conseguenza del quale, in novembre, mentre le armate
francesi, occupata Vienna, conseguivano i successi descritti e
pervenivano alla pace di Presburgo, giunsero nei porti e sul
territorio del Regno di Napoli truppe russe ed inglesi che, nello
sconcerto dell’ambasciatore francese che lasciava Napoli, si
installavano sulle frontiere, pronte ad entrare negli stati italiani
controllati dalla Francia.
Napoleone, che pur aveva tenuto in così poco conto la
partecipazione del regno di Napoli alla III coalizione, irritato per
lo sleale comportamento del re di Napoli, ingiungeva alle armate di
Saint-Cyr e del maresciallo Massena, a cui si era aggregato il
luogotenente dell’impero, Giuseppe Bonaparte, di dirigersi verso i
territori del Regno di Napoli. Evento che mise i comandanti russi ed
inglesi delle truppe schierate all’interno del Regno nella
problematica scelta se impostare una azione di difesa o ritirarsi
lasciando al suo destino il Regno stesso. Essendo prevalsa
quest’ultima soluzione, Ferdinando non vide altra possibilità
che riparare di nuovo in Sicilia, lasciando in qualità di
vicario (23 gennaio 1806) lo smarrito principe ereditario Francesco,
al quale non restava altra scelta che denunciare la vile aggressione
straniera e nominare un consiglio di reggenza (30) prima di lasciare
Napoli.
Così come fece la combattiva regina, ma dopo aver affidato al
generale Damas ed all’inutile presenza dei figli Francesco e
Leopoldo la linea di difesa, individuata sulle impervie alture di
Campotenese (in Basilicata,) ed essersi appellata, memore delle
vicende legate alla caduta della Repubblica Partenopea, agli stessi
personaggi di quella stagione ed all’amore del popolo che, in quella
stagione, aveva avuto un ruolo determinante. Ma il popolo, memore
della spietata repressione usata dai sovrani in quell’occasione,
rimase indifferente al richiamo ed anche la plebe, volitiva e
minacciosa, ma cautamente controllata dai partigiani del
cambiamento, non trovò modo di sfogare i propri istinti sui
funzionari borbonici, già dileguati.
Il maresciallo Massena, prima di dare avvio ad azioni di guerra,
raccomandò ai soldati il rispetto del popolo e Giuseppe
emanò un bando dove, con la denuncia del tradimento degli
accordi stipulati da parte di Ferdinando IV, rassicurava il popolo
circa l’amichevole comportamento dei soldati francesi. Il
consistente esercito francese avanzò verso Napoli, senza
conquistare le fortezze di Pescara, Civitella, Capua e Gaeta. Gli
ambasciatori, inviati a Giuseppe Bonaparte dal consiglio di reggenza
con la richiesta di un armistizio, ricevettero l’ingiunzione di
aprire le porte della città o di
---farsi carico del sangue che sarebbe stato inutilmente versato.
Gli stessi ambasciatori non poterono che concordare il libero
ingresso in città e la consegna delle fortezze . Il consiglio
di reggenza, preoccupato per le manifeste contrapposizioni tra
gruppi di lazzari (*)(**), assemblati e decisi alla resistenza, e
gruppi di partigiani francesi, decisi a mantenere l’ordine,
emanò un decreto di accoglienza delle richieste francesi con
l’invito alla quiete.
Il 14 febbraio 1806 entrarono a Napoli le truppe francesi guidate
dal luogotenente Giuseppe, verso cui l’animo della gente era agitato
da contrastanti sentimenti. Ma l’incanto della potenza e della
fortuna dei Bonaparte faceva sperare ai moderati che l’instaurazione
di una dinastia legata alla rivoluzione rappresentasse la migliore
garanzia contro il ritorno dei Borboni.
- Il regno di Giuseppe Bonaparte (1806-1808) (33)
Prima ancora di provvedere al governo, Giuseppe, che aveva acquisito
le fortezze, a parte Gaeta (nota 32), ed occupato le isole di Capri,
Ischia e Procida, dispose di inviare consistenti milizie guidate dal
generale Reynier a contrastare in Calabria lo schieramento
dell’esercito Borbonico di Damas che, non sorretto dal sostegno del
popolo, venne facilmente messo in fuga verso le spiagge d’imbarco
per la Sicilia, lasciando al controllo francese tutta la Calabria, a
parte le fortificate Maratea, Amantea e Scilla che verranno
successivamente assediate ed acquisite.
Fu costituito un governo che, composto da quattro napoletani di fede
monarchica, tra cui il magistrato Cianculli (nota 30) e due
francesi, uno moderato al ministero per la guerra e l’altro, il
giacobino Saliceti , al ministero della polizia. Scelta che
suscitò la perplessità dei patrioti per il loro
mancato coinvolgimento. Quindi mentre si avviavano norme volte a
rifondare il Regno, dotandolo di una efficiente organizzazione ,
Giuseppe in aprile si mise in viaggio per le regioni del sud
(Calabria e Puglia), coll’intento di conquistare quel popolo che lo
accolse con manifestazioni di gioia e, durante il quale, a Reggio,
lo raggiunse il decreto che gli conferiva la corona del Regno di
Napoli e Sicilia.
Non si erano ancora spenti, al suo rientro a Napoli (11 maggio
1806), gli echi dei festeggiamenti per l’investitura, che la flotta
inglese riuscì ad operare una improvvisa escursione
conquistando l’isola di Capri e successivamente Ponza, mentre in
altre province (Basilicata, Molise, Abruzzo e Puglie) si accendevano
focolai di sommossa fomentate da bande borboniche. A Palermo re
Ferdinando aveva affidato ad un contingente inglese ed a vecchi suoi
capibanda Sciarpa e Fra Diavolo l’impresa di sbarcare in Calabria,
scelta quale comoda base operativa per rinnovare l’impresa del 1799
(**) o quanto meno per difendere la Sicilia dal rischio di uno
sbarco francese.
A fine maggio piccole bande sbarcarono a Pellaro ed Amantea per
dirigersi verso la Basilicata e la Puglia sollecitando la
popolazione alla rivolta. A S.Eufemia sbarcò un contingente
inglese che, guidato dal generale Steward sconfisse duramente a
Maida quello francese di Reynier, dando un segnale di rivolta ad
alcuni centri (Marcellinara) che attaccono il contingente francese,
in ritirata verso Nicastro e Tirolo e diretto per acquartierarsi a
Catanzaro, da dove uscì per escursioni di rappresaglia contro
comunità ostili (S.Giovanni in Fiore). Considerata la
situazione, il comandante francese Massena ritenne opportuno far
rientrare il contingente dalla Calabria ed, ultimato l’assedio di
Gaeta, egli stesso, a fine luglio, si mise a capo di una spedizione
che si diresse per cingere la Calabria in un assedio che, per
conquistare le città fortezze e per venire a capo di una
guerra civile alimentata dai contadini e costantemente sostenuta da
Ferdinando IV, si protrasse per oltre due anni. E, nonostante la
raccomandazione di re Giuseppe volta a non infierire sulle
comunità, furono ugualmente operati gravi abusi in varie
località della Calabria e Basilicata, in cui i comportamenti
degli abitanti non possono giustificare gli incendi, i saccheggi, le
violenze, le carcerazioni e le fucilazioni da esse patite. Ad
incominciare da Lauria, Lagonegro, Cammerota e Sora incendiate e
saccheggiate, mentre altri borghi, più cautamente accolsero i
francesi con segni di amicizia. Altre cittadine, quali Maratea,
Amantea e Crotone, vissero travagliati assedi. Maratea caduta dopo
un breve assedio fu messa a sacco, Amantea, difesa dalle truppe di
colonnello Rodolfo Mirabelli, oppose cinque mesi di accanita
resistenza prima di capitolare (febbraio 1807). Crotone, occupata
dai francesi nel gennaio 1807, fu rioccupata da truppe borboniche il
27 maggio per essere definitivamente conquistata dai francesi a
metà luglio, mentre i cittadini di sentimenti antifrancesi
riuscirono ad imbarcarsi per la Sicilia. Reggio e Scilla, basi per
incursioni contro i francesi, furono conquistate per ultime dal
generale Reynier (febbraio 1808) . (36)
Travolta ogni resistenza armata, prese avvio la stagione dei
processi (37) le cui crudeltà incentivarono per un verso
l’opposizione clandestina e, per l’altro, spinsero i francesi ad
applicare esemplari sanzioni anche a personaggi di potere e della
nobiltà. Dilagò il fenomeno del brigantaggio (38),
incapace comunque di intaccare il nuovo regime che poté
assicurare al regno una parentesi di buon governo.
Giuseppe intanto, prendendo a modello l’amministrazione francese
(39) e con la mentalità paternalistica del sovrano
illuminato, aveva scelto una serie di efficienti collaboratori
democratici e, con il loro apporto, aveva dato avvio ad una serie di
norme radicali di ricomposizione dell’assetto economico, sociale e
proprietario che, purtroppo, restarono praticamente irrealizzate in
quanto lo stato amministrativo e burocratico del Regno ne impediva
gli effetti o l’applicazione.
A cominciare dalla legge del 2 agosto 1806 di eversione della
feudalità, un mirabile esempio innovativo di trasformazione
in senso capitalistico della proprietà fondiaria su cui si
basava il potere della nobiltà la quale risultò scossa
ma non abbattuta in quanto, pur conservando i titoli, veniva privata
dai privilegi. Il re successore, Murat, dovette infatti intervenire
per completare l’opera avviata. Erano infatti emersi limiti di
applicazione delle norme emanate che, benché fossero stati
regolati da una nuova legge (1 settembre 1806) di divisione delle
terre demaniali, non venne chiarito che l’assegnazione delle terre
demaniali doveva favorire tutti gli strati sociali e non quelli
economicamente più forti. Sorsero pertanto una serie di
contese la cui soluzione, con le regole vigenti, avrebbe comportato
procedimenti lunghissimi. Per correggerne la funzionalità,
l’applicazione delle norme fu affidata ad una commissione feudale
che, tuttavia, non riuscì ad evitare che gran parte delle
terre finisse col rafforzare le classi abbienti, aristocratici
borghesi e funzionari di corte, lasciando inalterata la condizione
delle masse contadine. Situazione che si ripeté con la
vendita, a beneficio dello Stato, dei beni ecclesiastici. Ad ogni
modo alla legge va riconosciuto il pregio di aver affiancato la
vecchia baronia con una classe di proprietari borghesi che avrebbe
potuto contribuire a rendere più dinamica l’economia
stagnante del tempo.
Fu riordinata la finanza, abolendo le ineguali contribuzioni dirette
ed imponendo un tributo sui poderi rustici ed urbani che veniva ad
eliminare ogni favore riservato alle terre regie, feudali ed
ecclesiastiche. Si diede avvio (1806) alla compilazione di un
catasto che fu interrotta nel 1818.
In ambito giudiziario, furono adottati i codici napoleonici (nota
13) ed istituiti nuovi tribunali di otto giudici che giudicavano
inappellabilmente i delitti di Stato ed, eliminate le vecchie
procedure, si diede avvio al processo dibattimentale che attrasse il
popolo e lo avviò alla comprensione delle leggi.
Fu migliorata l’istruzione pubblica, sottraendo al clero la gestione
delle scuole e con la prescrizione che in ogni città e borgo
operassero maestri e maestre per una istruzione accessibile a tutti.
Vennero fondate scuole speciali (di belle arti, musica, accademie
militari, di storia e di antichità), collegi privati vigilati
nei metodi e premiati nei successi e sviluppati i licei ed
accademie.
Anche a livello urbanistico furono operati miglioramenti nella
viabilità ed abbellimenti strutturali a Napoli che fu dotata
di illuminazione notturna, iniziativa imitata in altre città
del regno.
Nell’ambito dei costumi, fu vietato il gioco d’azzardo privato,
permettendo quello pubblico con beneficio per il fisco, censite e
controllate le prostitute a cui fu concessa la pratica con il
pagamento di un contributo mensile.
Fu dato impulso agli scavi di Pompei.
Nel maggio 1808 Giuseppe lasciò Napoli e, dopo circa un mese,
emanò per il Regno delle Due Sicilie, lo Statuto di Bajona
(20 giugno) garantito dall’imperatore Napoleone. Esso era composto
da 11 capi che riguardavano la religione, la corona, le istituzioni,
il parlamento , l’ordine giudiziario e l’amministrazione.
Con la pubblicazione dello Statuto, Giuseppe annunciava il passaggio
ad altro regno e, con un decreto, Napoleone nominava (15 luglio
1808) il cognato Gioacchino Murat, re di Napoli e Sicilia con il
nome di Gioacchino Napoleone.
- Il regno di Gioacchino Murat (1808-1814) (41)
Gioacchino Murat (1767-1815), nato a Labastide (regione dei Pirenei)
di modeste origini fu avviato inizialmente alla carriera
ecclesiastica ma nel 1787 lasciò il seminario per arruolarsi
tra i cacciatori a cavallo divenendo ufficiale (1783) e stretto
collaboratore di Napoleone in qualità di aiutante di campo
(nota 6) e sposo della sorella Carolina (1800). Nel 1805 ricevette i
principati di Berg e Cleves. Partecipò a tutte le campagne
Napoleoniche, in particolare alla conquista della Spagna ed alle
campagne di Italia, Russia ed alla sconfitta di Lipsia. Di aspetto
attraente, imponente nella figura ed accattivante nell’approccio, di
indole guerriera era definito l’Achille di Francia perché
prode ed invulnerabile. Era impaziente negli affari di stato.
Morì giustiziato a Pizzo (v. seguito)
Gioacchino, d’atteggiamento più regale rispetto a Giuseppe,
da questi non si discostò nella linea di governo che fu
caratterizzata da un maggior dinamismo, in linea con un personaggio
più d’armi più di governo ma animato da ambizione e da
uno spirito d’indipendenza che lo portarono a collidere più
volte con gli interessi di Napoleone.
Fece il suo ingresso a Napoli ai primi di settembre 1808
superbamente vestito da militare ed, ultimati i festeggiamenti di
accoglienza anche per la moglie Carolina che giunse subito dopo,
diede disposizioni d’immagine a sostegno di militari e di vedove ed
orfani della milizia napoletana, aumentò gli onori ai
cappellani di S.Gennaro, fondò istituzioni a carattere
educativo. Quindi, con la collaborazione di efficienti ministri tra
cui il marchese del Gallo, il conte Zurlo e Francesco Ricciardi,
rispettivamente agli esteri, interni e giustizia, intraprese
iniziative strutturali rimuovendo gli ostacoli che intralciavano
l’applicazione dei nuovi codici e delle disposizioni relative a
feudalità ed a riordino amministrativo emanate da Giuseppe.
Diede un definitivo assetto all’amministrazione delle province e
nominò un corpo di ingegneri per migliorare la pubblica
viabilità (42). Revocò lo stato di guerra in una
Calabria ormai pacificata, senza peraltro concedere, nel timore che
potessero rigenerare nuovi disordini, l’immediato ritorno agli
imprigionati nelle galere francesi.
Riorganizzò, impiegando personali risorse, la milizia e la
marina da guerra, di cui si magnificavano orgogliosamente le
imprese, costituendo due nuovi reggimenti di veliti e stabilendo
regole per la coscrizione obbligatoria (43) che eliminavano le
esenzioni di privilegio.
Si dedicò quindi a perseguire la grandezza del Regno ed a tal
fine, con uno sbarco notturno in uno dei luoghi più impervi
dell’isola di Capri, realizzò l’impresa di sottrarla al
controllo inglese, il cui comandante, colonnello Lowe, alimentava
l’opposizione antifrancese sulla terraferma. Napoleone non
gradì l’impresa realizzata al di fuori del suo controllo e fu
il primo motivo di contrasto e di disagio per Murat che non
intendeva svolgere il ruolo di luogotenente e vassallo dell’impero.
Tra il giugno 1809 ed il marzo dell’anno successivo, mentre il
contingente napoletano era impiegato in altri scenari di guerra,
dovette contrastare due tentativi di aggressione da parte di
contingenti siciliani appoggiati dagli inglesi.
Nel primo tentativo (giugno 1809) una flotta anglo-sicula, dopo aver
effettuato nella Calabria tirrenica (Palmi) uno sbarco di truppe che
andò a cingere d’assedio Scilla e di briganti che battevano
le campagne, giunse nel golfo di Napoli, occupando Procida ed
Ischia. La flotta aggressore fu contrastata da quella napoletana di
Bausan e Giovanni Caracciolo ed in agosto, a seguito dell’arrivo
della notizia della vittoria di Napoleone a Wagram (luglio 1809), si
ritirò dalle isole occupate e tolse l’assedio a Scilla.
Il secondo tentativo di aggressione si verificò nell’aprile
1810, allorché una flottiglia inglese comandata da Brenton,
presentatasi nelle acque di Napoli, fu contrastata aspramente e
respinta da una comandata da Ramatuelle.
Rimaneva attiva la guerra interna condotta da bande di briganti che
battevano le province di Puglia, Basilicata e Calabria. Gioacchino
per contrastarle dislocò truppe a Lagonegro e Monteleone e,
richiamato da Roma il ministro della polizia Saliceti (nota 34) per
garantire l’applicazione di leggi speciali. Queste, tra l’altro,
prevedevano la compilazione di liste provinciali di briganti, con
facoltà per i cittadini di arresto o uccisione, la
incarcerazione delle loro famiglie e la confisca dei beni. Non
soddisfatto dei risultati della lotta al brigantaggio, decise di
conferire pieni poteri al giovane generale Manhes che, dall’ottobre
1810, in pochi mesi, agendo con risolutezza, spietatezza ed
atrocità, peggiori di quelle verificatesi sotto il regno di
Giuseppe, riuscì a ripulire le province di tutti i briganti e
dei loro favoreggiatori (44), tanto che quelli possono essere
ritenuti i soli anni in cui il Regno non fu infestato da alcun
malfattore.
Nel maggio dello stesso anno (1810) Gioacchino, di ritorno dalla
cerimonia di matrimonio di Napoleone, in vista di una operazione di
invasione della Sicilia, concentrò due divisioni francesi ed
una napoletana accanto ad una consistente flotta nell’estremo lembo
della Calabria, tra Reggio e Scilla. Qui rimase per circa tre mesi
ad impegnare in un susseguirsi di scontri la flotta inglese disposta
sulle coste siciliane, tra Messina e Torre del Faro. Il comando
supremo era affidato al generale Grenier che riceveva riservati
dispacci direttamente da Napoleone, interessato ad una strategia
tesa a tenere impegnata la flotta inglese piuttosto che ad una
problematica conquista dell’isola (45).
In settembre Murat, desideroso di conquistare quella parte di regno
di cui era solo nominalmente titolare, nonostante il diverso parere
dei generali, decise di attuare lo sbarco in Sicilia con la
divisione napoletana comandata da Cavaignac che, non sostenuto
nell’azione dalle divisioni francesi, si vide costretto ad una
immediata ritirata, abbandonando nell’isola materiale ed uomini.
Gioacchino indispettito per il fallimento dell’operazione causata
dal disimpegno francese, diede ordine di smontare il campo e si
diresse a Pizzo dove si imbarcò per Napoli, tra entusiastiche
manifestazioni popolari che gli fornirono probabilmente una
sensazione di cui, da qui a cinque anni, ne avrebbe constatato
amaramente la illusorietà.
La rinuncia all’impresa fu un nuovo motivo di contrasto tra
Gioacchino e Napoleone che si rinnovò allorché,
Gioacchino, rientrato anzitempo dai festeggiamenti per la nascita
del figlio di Napoleone (marzo 1811), decretò che nessun
straniero, privo di cittadinanza del Regno di Napoli potesse
assumere mansioni militari o civili. Napoleone rispose con decreto
imperiale che, per tali mansioni, ai francesi come Murat, non
necessitava la cittadinanza napoletana. Decreto che, pur suscitando
le ire di Murat, finì col prevalere, per il consenso
pacificatorio della regina e per la controversa accoglienza a corte,
consentendo ai francesi residenti di essere assorbiti dalle
strutture dello stato mentre l’esercito francese era obbligato ad
uscire dal territorio del Regno.
Nella campagna di Russia in cui Napoleone affidò a Gioacchino
il comando della poderosa cavalleria, questi brillò per
prudenza e valore tanto da riceverne l’elogio. Ma mentre l’impero
Napoleonico dava segni di sfaldamento, Gioacchino, nel corso della
ritirata, abbandonò (Posen, gennaio 1813) il comando supremo
dell’armata affidatogli da Napoleone (che aveva anticipato il
rientro in Francia) per trasferirlo al principe Eugenio di
Beauharnais (nota 10) e rientrare a Napoli, suscitando un aspro
conflitto con Napoleone da cui rivendicò desiderio di
indipendenza . (46)
In tale situazione di conflitto, un Gioacchino desideroso di
soddisfare la propria ambizione, rivolse l’attenzione all’Italia ed,
accostandosi al sentimento di unità che incominciava a
coinvolgere larghi settori della popolazione, sembrò offrire
speranze alle aspirazioni patriottiche che venivano cullate
all’interno delle sette , tra cui la Carboneria. Questa, diffidente
di Gioacchino per non aver applicato lo statuto di Bajona e per aver
perseguitato affiliati calabresi nel corso della lotta al banditismo
condotta da Manhes, era invece piuttosto allettata dalle offerte del
plenipotenziario inglese in Sicilia, lord Bentinck, che aveva fatto
emanare in Sicilia una Costituzione liberale (v. seguito).
Quando ormai si profilava la caduta di Napoleone, nel tentativo di
conservare il regno, Gioacchino assunse una posizione di distacco,
avviando segrete trattative con Austria ed Inghilterra (48),
oscillando tra le lusinghe austro-inglesi e le sollecitazioni
francesi, tra cui quelle della moglie, che lo mettevano in guardia
dalla non partecipazione alla guerra accanto a Napoleone. E quando
si avviò lo scontro con le forze della VI coalizione (ottobre
1813), assillato dalle conseguenze che ne sarebbero derivate da una
vittoria di Napoleone e mosso da un sentimento di lealtà, con
scarso acume politico, lasciò il prosieguo dei contatti alla
moglie, andando a porsi validamente a fianco di Napoleone ma
generando sentimenti di diffidenza in entrambe le parti.
Dopo la sconfitta di Lipsia (ottobre 1813), allorché le sorti
dell’impero precipitavano, Giacchino, dopo aver preso, ad Erfurt
l’ultimo fraterno e commosso commiato da Napoleone, lasciò il
campo francese. L’11 gennaio 1814, concluse un trattato di alleanza
con l’Austria (per conto della quale trattava il generale Neipperg;
n. 26) che prevedeva la sua conferma sul trono di Napoli con
vantaggi territoriali a scapito dello Stato Vaticano a fronte
dell’abbandono di pretese sulla Sicilia del Borbone. Questi sarebbe
stato diversamente indennizzato per la perdita di Napoli. Il
trattato impegnava Murat a partecipare alle operazioni di guerra
contro la Francia. Nello stesso mese di gennaio stipulò,
tramite Bentinck, un armistizio ed accordi commerciali anche con la
diffidente Inghilterra. Per tener fede al trattato sottoscritto con
l’Austria, ma senza una dichiarata e piuttosto ambigua scelta di
campo, dislocò, tra Roma ed Ancona, due legioni, guardate con
sospetto e vigilanza dai generali francesi che le ritenevano
alleate, e non strategicamente collegate col generale austriaco
Bellegarde e con quello inglese Bentinck .
Si rivolse quindi contro il Regno d’Italia, collegato alla Francia
e, volendo evitare lo scontro con le truppe francesi presenti a
Castel S.Angelo e Civitavecchia, andò ad occupare la Toscana
per poi scontrarsi con l’incerto viceré Eugenio (50), ormai
solo a contrastare nello scenario di guerra italiano anche il
dilagare dell’esercito austriaco dalla Dalmazia al Veneto. Il 15
aprile 1814 il generale Bellegarde divulgava gli esiti della guerra
in Europa e la sospensione delle ostilità, notizia che
suscitò profondo turbamento in Murat.
Nel corso dei negoziati di Parigi (maggio 1814), circa
l’attribuzione del regno di Napoli, era in atto tra i partecipanti
una discussione in cui gli austriaci, in virtù del trattato
di pace del gennaio 1814 peraltro svuotatosi di contenuto politico
dopo la caduta di Napoleone, sostenevano le ragioni di Murat.
Ragioni avversate invece dalla Francia di Luigi XVIII rappresentata
da Tayllerand (51) e da Russia ed Inghilterra che auspicavano il
ritorno sul trono di Napoli del re Borbone.
La questione, rimandata al congresso di Vienna che si sarebbe aperto
in ottobre (1814), sarebbe stata poi risolta dalla decisione di
Murat di sconfessare (marzo 1815) il trattato con l’Austria.
Murat infatti, non confidando nel sostegno austriaco al Congresso di
Vienna dove i suoi ministri erano stati male accetti e sentendosi
circondato ovunque in Italia da diffidenze, ritenne di dover fare
affidamento solo sulle proprie forze e di porsi a paladino della
indipendenza italiana. Con tale obiettivo avanzanò (marzo
1815) con forze non rilevanti ma con rapidità, verso la
Romagna dove, il 30 marzo 1815 da Rimini, rotta l’alleanza con
l’Austria a cui dichiarava guerra, lanciò un proclama,
elaborato da Pellegrino Rossi (52) . Con questo egli prometteva di
dare all’Italia un ordinamento costituzionale ed incitava gli
italiani a conquistare l’indipendenza sollevandosi contro la
dominazione austriaca. Un invito che oltre a non trovare adeguate
risposte tra le masse, ebbe il solo effetto di aumentare lo sdegno
nei suoi confronti dei delegati riuniti a Vienna e lo stesso
Napoleone (rientrato dall’Elba a Parigi) biasimò le incaute
iniziative di Murat. Il quale, ormai lanciato nella sua azione, si
aggregò le Marche e progredì nella sua avanzata fino a
Ferrara, inducendo l’Inghilterra, tramite lord Bentinck, ad
accusarlo di aver rotto senza motivo l’alleanza con l’Austria ed a
schierarsi (5 aprile 1815) a fianco di quest’ultima. Scelta che
causò il tracollo delle aspettative di Murat. Egli comunque
dispose su un lungo arco di fronte, senza seconde linee né
riserve, un esercito ormai in preda allo sconforto e decimato dalle
defezioni. L’esercito tedesco frattanto si infoltiva sulla riva
sinistra del Po ed inevitabilmente, con l’apporto degli
anglo-siciliani, il 3 maggio 1815 fermava Murat a Tolentino, nei
pressi di Macerata.
Con l’esercito napoletano in rotta, dal nord gli austriaci a cui si
era aggregato il principe Borbone don Leopoldo e dal sud i siciliani
invadevano le province del regno, mentre a Napoli la flotta del
commodoro inglese Campbell intimava la consegna dell’arsenale navale
ed ospitava sulla nave la Regina Carolina (53) per trattare la pace
con l’Inghilterra.
Malgrado il suo potere fosse al collasso, Gioacchino tentò
ancora. E, facendo ricorso ad una residua risorsa per rianimare il
consenso, inviò a Napoli una Costituzione (pubblicata il 12
maggio) (54). Verificatane l’inutilità, incaricò i
suoi emissari, generali Carascosa e Colletta a trattare la resa (di
Casa Lanza, 20 maggio) con gli austriaci Bianchi e Neipperg (nota
26) sulla base della restaurazione sul trono di Ferdinando IV e del
mantenimento delle istituzioni esistenti e delle norme emanate nel
decennio napoleonico.
Murat partì da Pozzuoli per Ischia, da qui per la Francia
dove giunse a Frejus il 28 marzo.
- Tentativo di Murat di riconquistare il regno
In Francia Murat stressato da due anni di dubbi e di ansie, respinto
dal cognato (ancora a Parigi) irritato per l’abbandono dell’anno
precedente, si trovò in grave difficoltà, accresciute
con la notizia della sconfitta di Waterloo e con i manifestanti
antimperialisti che si erano messi sulle sue tracce. Non più
protetto da amici e risultata vana la ricerca di un approdo protetto
in Inghilterra o nella stessa Francia (55) , da semplice cittadino
rispettoso delle leggi, decise di raggiungere la Corsica che
trovò dilaniata da lotte fra fautori del Borbone di Francia,
bonapartisti ed indipendentisti. Murat si ritirò a Vescovato
presso il generale Franceschetti, suo aiutante di campo dove
maturò il desiderio di abbandonare l’isola e di operare,
richiamandosi al suo onore di soldato, un tentativo di riconquista
del regno perduto. Da qui la decisione di organizzare una spedizione
che, il 28 settembre 1815, con sei imbarcazioni e duecentocinquanta
uomini salpò dalla Corsica con l’intento di sbarcare nel
Cilento dove, contando su molti e risoluti sostenitori ex militanti
del suo esercito (56) , pensava si innescare un moto di ribellione
antiborbonico delle masse contadine. Dopo giorni di tranquilla
navigazione, una tempesta disperse la flottiglia e Gioacchino si
trovò nel golfo di S. Eufemia con tre imbarcazioni. Due
uomini scesi a terra in cerca di informazioni furono arrestati e due
imbarcazioni comandate da un certo Curaud lo abbandonarono. Quegli
eventi lo sconfortarono al limite della rinuncia, quindi esasperato
dalle pretese del comandante del vascello Barbarà (57),
decise di sbarcare ugualmente (8 ottobre) a Pizzo con ventotto
uomini e di là avviare l’impresa.
La piazza del paese, gremita per il giorno di festa, accolse con
sorpresa la piccola schiera guidata da Murat che, disorientato per
la fredda accoglienza, sconsigliato da alcuni ed affiancato da tre
suoi ex veliti, si diresse speranzoso verso il vicino capoluogo
Monteleone, mentre il capitano Trentacapilli, di antica e solerte
fede borbonica, composta una improvvisata schiera che via via si
ingrossava, inseguì ed assalì con colpi di archibugio
il drappello di Murat. Questi, con la decisione di non reagire,
incrementò la foga degli assalitori i quali preclusero ogni
via di fuga se non quella del mare che Murat ed i suoi raggiunsero,
attraverso un ripido precipizio, in tempo per vedere il vascello di
Barbarà veleggiare verso il largo, portandosi via le ricche
riserve che avrebbero dovuto finanziare l’impresa. Il tentativo di
utilizzare una barca a secco sulla spiaggia consentì alla
schiera di Trantacapilli di raggiungere il drappello di Murat che,
trattenuto, oltraggiato, ferito in volto da uno zoccolo scagliato da
una popolana, fu imprigionato nel castello-fortezza aragonese .(58)
Il comandante della Calabria, generale Nunziante, inviò a
Pizzo dapprima un manipolo di soldati guidati dal capitano Stratti
che trattò con deferenza l’ex re, quindi, da Napoli, fu
inviato con pieni poteri in Calabria il principe di Canosa, uno
sperimentato strumento di tirannia, per prevenire ogni azione dei
murattiani. Il 12 ottobre arrivò l’ordine governativo di
istituire un tribunale (59) composto da sette giudici.
Il 13 ottobre 1815, ascoltata con freddezza la sentenza, fu condotto
in un recinto della fortezza dove era schierata una squadra per la
fucilazione. Rifiutò la benda agli occhi e pregò si
salvaguardare il viso.
I suoi resti giacciono indistinti nella fossa comune della Chiesa
Madre di Pizzo.
La Sicilia e la Sardegna nel periodo napoleonico
Le due grandi isole restarono al di fuori del sistema napoleonico.
- La Sicilia
La parentesi siciliana del secondo soggiorno obbligato di Ferdinando
IV e della sua corte (1806-1815) si caratterizzò non tanto
per sue iniziative amministrative dirette quanto per il
condizionamento che su di esse esercitò la presenza degli
inglesi, i quali, chiamati da Ferdinando per il controllo
dell’isola, si erano installati nei punti strategici, impedendo al
governo napoleonico di Napoli ogni interferenza e prevenendo azioni
di serio pericolo.
Il ritorno della corte a Palermo fu inizialmente accolto con favore
ed anche la presenza di un forte esercito straniero che portava
nell’isola una prosperità sconosciuta da secoli
contribuì a dare impulso alle attività commerciali
favorendo le esportazioni di vini ed alimenti che venivano scortate
e garantite contro la pirateria. Ma la conduzione del governo,
affidata ad elementi napoletani malvisti dai siciliani,
perché incapaci di uniformarsi alle loro aspettative, ed il
sorgere di un’inflazione causata dalle enormi risorse dissipate per
incentivare la guerriglia antifrancese nelle regioni continentali
del regno di Napoli, provocò contrasti, fra corona e
parlamento.Essi esplosero nel 1811 allorché il re chiese, per
alimentare le sue scelte, una contribuzione straordinaria. Questa fu
negata dal parlamento la cui componente nobiliare, guidata dal
principe di Belmonte, un aristocratico di talento, pur di mettere in
difficoltà la monarchia, si rese disponibile a rinunciare ai
privilegi fiscali ed accettare la proporzionalità delle
imposte. Ferdinando, non volendo utilizzare in maniera più
consistente il contributo che riceveva dagli inglesi nel timore di
essere ancor più condizionato, reagì con decreti
fiscali (tassa dell’1% su tutti i pagamenti, istituzione di una
lotteria ed acquisizione di proprietà della Chiesa) emanati
d’autorità, premendo sulla Deputazione (*) per l’approvazione
ed incarcerando gli esponenti più ostili della nobiltà
(i principi di Belmonte, di Castelnuovo, di Villafranca, d’Aci e
d’Angiò) provocando una accentuazione del contrasto con
questa componente.
Il giovane e risoluto plenipotenziario britannico e comandante delle
forze dislocate in Sicilia, lord William Cavendish Bentinck (nota
49), rendendosi conto di quanto problematica fosse una tale
situazione che veniva anche ad ostacolare la sua funzione e temendo
che si creassero le condizioni favorevoli ad una invasione francese,
si vide costretto ad intervenire risolutamente, minacciando il
ritiro delle truppe e la sospensione del contributo finanziario
britannico, affinché il re rilasciasse i baroni imprigionati
e ritirasse i decreti fiscali. Concordò quindi la
sostituzione del re con trasferimento delle funzioni al vicario,
principe ereditario Francesco e, preteso l’allontanamento della
intrigante regina Carolina (nota 45) insofferente della presenza
inglese, costituì un nuovo governo con il coinvolgimento dei
baroni precedentemente incarcerati da Ferdinando (Belmonte,
Castelnuovo ed Aci).
Il governo incontrò il favore del popolo essendo riuscito a
fronteggiare le carestie con acquisto di cereali all’estero e con
l’approvazione (luglio 1812) di una Costituzione liberale, che,
redatta su modello inglese dall’abate Paolo Balsamo, avviava una
cauta abolizione della feudalità. Progetto che i nobili
accettarono, recependo che per la loro sopravvivenza economica era
necessario un cambiamento. La costituzione prevedeva anche
l’istituzione di un parlamento bicamerale dove, accanto alla
prevalente presenza nobiliare, sedeva una componente comunale eletta
su base censitaria. Il modello di costituzione condiviso dal
parlamento fu fatto accettare al re ed al figlio con la concessione
di un contributo la cui entità fu dal Bentinck giudicata
scandalosa.
Svanito l’iniziale entusiasmo, non trascorse molto tempo prima che i
contenuti della costituzione facessero sorgere, sia in ambito
comunale che parlamentare, dissidi e sospetti fra realisti e
riformatori (60) che portarono ad una lunga discussione la quale,
sovrapponendosi a tumulti popolari provocati dalla penuria di pane e
dall’aumento del costo della vita, diedero occasione a Ferdinando,
sollecitato dalle regina Carolina, di tentare di riprendere il
governo. Tentativo sconsigliato dal figlio vicario e dal genero ed
ostacolato dal Bentinck che chiese ed ottenne l’allontanamento dalla
Sicilia della regina che fu costretta a partire per Vienna (giugno
1813), accompagnata dal figlio Leopoldo e da una piccola corte.
Dal nuovo parlamento (luglio 1813), eletto sulla base della nuova
costituzione, nacque un governo di realisti incapace di occuparsi
delle urgenti questioni finanziarie. Bentinck impose un nuovo
governo prima di lasciare temporaneamente l’isola richiamato dalle
guerre d’Europa (febbraio-giugno 1814). Al suo rientro cercò
di conciliare i contrasti (particolarmente tra Belmonte e
Castelnuovo; n. 60) che, irrisolti, finirono con il favorire il
rientro di Ferdinando. Questi, nel dichiarato rispetto della
costituzione che non sopportava e che mirava ad abolire,
richiamò al governo tutti i vecchi ministri realisti (tra cui
Diego Naselli d’Aragona, n. 30) destituiti dal Bentinck. Frattanto,
con l’acuirsi delle dispute (62) veniva messo in crisi il sistema
legislativo ed affossate costituzione ed autonomia della Sicilia,
nell’esaltazione delle contraddizioni di quella società
dominata da inettitudini e da ambiguità che contribuivano a
dilatare il divario esistente rispetto alle altre realtà
continentali.
Il Bentinck fu quindi sostituito dal ministro A’Court che,
analizzata la situazione commentò “Se decidessimo di
appoggiare la costituzione , appoggeremmo una cosa pochissimo adatta
al paese”.
L’8 settembre 1814 ad Hozendorf, in procinto di rientrare in
Sicilia, moriva sessantaduenne, la regina Carolina e Ferdinando, per
nulla toccato dall’evento, nel novembre successivo, sposò
segretamente Lucia Migliaccio (63) e, nel maggio del 1815, con la
sua corte rientrava in una Napoli, già controllata dagli
austriaci, lasciando luogotenente in Sicilia l’erede Francesco.
- La Sardegna
Si è visto (**) che Carlo Emanuele IV era stato costretto ad
abdicare in favore del fratello Vittorio Emanuele I che, solo nel
1806 si stabilì nell’isola e non rientrò in Piemonte
se non dopo il 1814. Deciso nemico di Napoleone e costretto a subire
(1808) da questi l’embargo di ogni commercio con l’isola,
potenziò le forze armate con nuovi reggimenti e l’istituzione
del servizio militare obbligatorio. Questo, male accetto, diede
origine ad una serie di agitazioni controllate senza l’uso della
violenza che, invece, fu brutalmente adoperata per sedare i violenti
contrasti che contrapponevano fazioni agricole con quelle pastorali
ed i comuni fra di loro, in un clima avvelenato da congiure (64) ed
aggravato da incursioni barbaresche sulle coste.
Vittorio Emanuele I non si fece ricordare per significativi
interventi legislativi (65) nell’isola, a meno di qualche iniziativa
di carattere amministrativo e finanziario. Tra le prime rientra la
divisione dell’isola in quindici prefetture, l’istituzione del
ministero della marina ed del corpo scelto dei Carabinieri. Fra
quelle di carattere finanziario rientra la istituzione del Monte di
riscatto volto ad estinguere il debito pubblico.
Appena ripristinato il suo regno dal Congresso di Vienna, che oltre
a restituirgli il Piemonte e la Savoia gli diede anche i territori
della repubblica di Genova, sottopose la Sardegna ad una accresciuta
subordinazione politica ed economica al Piemonte. Abrogò
tutte le leggi e costituzioni emanate dopo la rivoluzione francese,
restaurando un soffocante regime assolutistico, affidando
l'istruzione al clero e ristabilendo le discriminazioni nei
confronti di ebrei e valdesi.
Conferì il titolo di duca di Genova al fratello Carlo Felice
e, non avendo avuto eredi maschi, nel timore che la corona finisse
al giovane Carlo Alberto del ramo cadetto dei Carignano,
cercò di crearsi una alternativa di successione dando in
sposa la figlia Maria Beatrice a Francesco IV d’Asburgo Este (v.
seguito) che, con Carlo Alberto, avranno ruolo nelle vicende
dell’Italia risorgimentale.
Il Congresso di Vienna e la restaurazione
I negoziati di Parigi (maggio 1814) avevano rinviato le questioni
irrisolte al Congresso di Vienna che, tenutosi fra l’ottobre del
1814 ed il giugno 1815 ridisegnò, ispirandosi al principio di
legittimità dei sovrani e dell’equilibrio fra le potenze
europee, il nuovo assetto geopolitico dell’Europa, mirante anche a
garantire la stabilità interna degli Stati. Scelta che
contribuì a mantenere la coesione tra le nazioni convinte
della necessità di mantenere costanti forme di collaborazione
per prevenire ogni possibilità di ripresa rivoluzionaria.
Così, con un processo politico ed ideologico che cancellava
tutte le innumerevoli trasformazioni che si erano verificate
nell’ultimo ventennio, veniva restaurato un ordine che non avrebbe
potuto arrestare la crescita del sentimento nazionale e di
libertà. Questi, infatti, a seguito delle conquiste
rivoluzionarie che avevano scardinato i capisaldi del regime
feudale, si erano insinuati in larghi settori delle società,
dove avrebbero svolto la funzione di stimolare e selezionare scelte
politiche coerenti.
I negoziati, condotti tra le quattro potenze, Inghilterra, Austria,
Prussia e Russia, rappresentate rispettivamente dal duca di
Wellington, principe Metternich, ministro von Hardenberg, zar
Alessandro o dal suo ambasciatore Nesselrode e legate dall’intesa di
Chaumont (marzo 1814) a non avviare trattative separate ed a
proseguire la lotta fino alla caduta di Napoleone, si erano
allargati all’apporto delle potenze minori e della Francia
restaurata di Luigi XVIII, rappresentata da Talleyrand.
Le conclusioni definitive (66) stabilirono per quanto riguarda
l’Italia :
- al predomino francese si sostituiva quello dell’Austria che
conservò il Veneto ed ottenne la Lombardia, dando origine al
regno Lombardo-Veneto, cui fu annessa la Valtellina, sottratta alla
Svizzera. Passarono sotto l’indiretto controllo austriaco i ducati
emiliani di Parma, Piacenza e Guastalla e quello di Modena e Reggio
assegnati rispettivamente ai principi austriaci Maria Luisa
d’Austria, moglie di Napoleone, ed a Francesco IV d’Asburgo Este
(67) che avrebbe acquisito anche Massa e Carrara, .
- Sul regno di Napoli venne completamente restaurato il dominio
Borbone con una modifica istituzionale che unificava i precedenti
regni di Napoli e di Sicilia nel Regno delle Due Sicilie (68) e con
l’assunzione da parte di Ferdinando IV del nuovo ordinale di
Ferdinando I. Questi, sottoscritto un’intesa con l’Austria (12
giugno 1815), soppresse la Costituzione concessa in Sicilia nel 1812
ma dovette sottostare agli accordi di Casa Lanza (v. sopra).
- In Toscana, con l’acquisizione dello Stato dei Presidi appartenuto
al regno di Napoli (69), ritornavano i Lorena con Ferdinando III
d’Austria-Lorena. Il ducato di Lucca, destinato ad essere aggregato
alla Toscana, veniva assegnato a Maria Luisa di Borbone.
- Il Regno di Sardegna, ripristinato con il Piemonte, la Savoia e
Nizza, acquisì ed il territorio dell’antica repubblica di
Genova veniva restituito a Vittorio Emanuele I e restava unico, fra
gli stati italiani, a non essere sottomesso all’Austria (70).
- Lo Stato Pontificio perse i territori ferraresi assegnati
all’Austria e mantenne Benevento e Pontecorvo (v. capitoli
precedenti) nel Regno di Napoli.
Le conclusioni del Congresso (71), pur avendo subìto, al
tempo, critiche per non aver tenuto conto degli impulsi nazionali e
liberali dei vari popoli, furono in seguito apprezzate per aver
impedito per un secolo una guerra generale delle nazioni europee.
Il germe lasciato dai movimenti rivoluzionari, tuttavia, non poteva
essere distrutto e, pur nelle condizioni ricreate di antico regime,
riprese ben presto a far crescere il sentimento di libertà ed
autodeterminazione.
NOTE
(2) La personalità di Napoleone fu caratterizzata da un
insieme di qualità straordinarie che ne determinarono il
successo. Alla spiccata e versatile intelligenza, ad una memoria
prodigiosa e ad un genio straripante e carismatico promotore di una
politica energica e sbrigativa, si unirono visione globale delle
situazioni, intuizione, fantasia nelle decisioni e rapidità
di esecuzione (“.. di quel securo il fulmine – tenea dietro al
baleno .. ; 5 Maggio/Manzoni), capacità organizzative ed
amministrative (n. 13). A questi fecero da contrappunto
qualità morali meno apprezzabili ed una visione politica
condizionata dall’ambizione che lo portò a sottovalutare gli
avversari ed a sopravalutare la consistenza delle sue
possibilità. Egli emerse nell’assedio di Tolone (1793) dove
era capitano, quindi, avendo condotto la repressione
dell’insurrezione realista contro il Direttorio (ottobre 1795),
divenne generale di brigata, quindi, come generale di corpo d’armata
(marzo 1796), guidò la prima campagna d’Italia (*).
(3) In Egitto ebbe il merito di far scoprire grandezze archeologiche
nascoste. Si deve al capitano Pierre-Francois Bourchard che durante
i lavori di scavo per la costruzione di un forte sulla foce del
Nilo, il ritrovamento della Stele di Rosetta (Rosetta: attuale
Rashid), un masso in basalto nero in cui l’incisione in tre lingue,
egiziano, greco e geroglifico, consentì di decifrare
quest’ultima e da qui l’avvio della moderna egittologia.
(4) Le nazioni della II coalizione antifrancese (Russia, Gran
Bretagna, Austria, Prussia, Turchia e Regno di Napoli) guidate dal
generale russo Suvorov, avevano sconfitto i francesi (1799) a
Magnano, Cassano d’Adda, Novi ligure e riconquistato Milano e
Torino.
(5) La spedizione in Egitto si rivelerà un insuccesso e lo
stesso Kleber sarà ucciso in un attentato.
(6) Il presidente del Consiglio dei cinquecento era il fratello di
Napoleone, Luciano, che, incapace di dominare il consiglio, fu
sorretto in maniera determinante dal generale Murat che
cacciò i deputati, consentendo a Napoleone di riprendere il
controllo della situazione.
(7) Napoleone aveva inviato, attraverso il S.Gottardo, il piccolo
S.Bernardo ed il Moncenisio, altre tre armate, comandate
rispettivamente da Moncey, Chabran e Thureau. Sul finire del giorno
della battaglia di Marengo, a sconfitta francese già
delineata, le sorti volsero in loro favore per l’intervento delle
truppe di riserva che dispersero l’esercito austriaco di Melas,
ormai disunito perché certo della vittoria. Napoleone
attribuì il merito al generale Desaix, caduto in quell’azione
mentre altri ritengono ancor più determinante l’apporto del
generale Kellermann (*) (già distintosi nella conquista di
Napoli) ed il sostegno del generale Murat.
(8) Moreau partecipò nel 1803 al complotto di Cadoudal di
matrice monarchica, guidato dal duca d’Enghien e mirante a rimuovere
Napoleone. Sventato il complotto, Moreau, dopo due anni di prigione,
espatriò in America da dove rientrò nel 1813 per
combattere contro Napoleone nelle fila dell’esercito russo, e morire
nella battaglia di Dresda.
(9) L’Austria mirava a prendere tempo per riorganizzare l’esercito e
l’Inghilterra per prolungare il blocco dell’esercito francese in
Egitto.
(10) La Toscana, governata da Ferdinando III di Lorena (1790-1801 e
1814-1824) fu trasformata in Regno di Etruria ed affidata a Ludovico
di Borbone, duca di Parma, fino al 1807, anno in cui venne
incorporata alla Francia, quindi ricostituita in Granducato (1809)
ed affidata ad Elisa Baiocchi (n. 20), sorella di Napoleone.
Il Piemonte e la Liguria (1802-1805) annessi alla Francia
diventarono dipartimenti al di qua delle Alpi, di cui divenne
governatore Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte (n. 20).
La Repubblica Cisalpina assorbiva il ducato di Parma e veniva (1802)
ribattezzata Repubblica Italiana, di cui Napoleone ne divenne
Presidente. La vicepresidenza fu affidata al duca Francesco Melzi
d’Avril, un borghese illuminato che riteneva che la Repubblica
cisalpina dovesse essere il nucleo di una federazione di repubbliche
comprendente Toscana e Veneto. Nel 1805 fu trasformata in Regno
d’Italia e Napoleone, divenuto re cingendo (Duomo di Milano, 26
maggio 1805) la corona ferrea dei Longobardi, affidò la
reggenza al vicerè Eugenio Beauharnais (1781-1824, figlio
della moglie Giuseppina), promosse la nascita del I° Statuto
Costituzionale del Regno d’Italia. Nelle regioni controllate da
Napoleone si registrò una febbrile attività di
modernizzazione delle strutture (furono aperte strade, scavati
canali, riorganizzate le scuole), riorganizzazione
dell’amministrazione, risanamento delle finanze ed incentivazione
del commercio.
(11) Gli successe lo zar Alessandro I (1801-1825).
(12) Essa fu siglata dopo le dimissioni del convinto oppositore
della Francia, primo ministro Pitt (1783-1801 e 1804-1806), causate
dalle crisi finanziaria e da quella irlandese. L’accordo di Amiens
prevedeva inoltre lo sgombero da parte francese di ogni presidio
negli stati Vaticano e di Napoli e da parte inglese di ogni presidio
nel Mediterraneo, compreso Malta che sarebbe dovuta diventare
indipendente.
(13) Tra le iniziative legislative si colloca l’avvio della stesura
organica del Codice civile, noto come Codice Napoleonico che,
promulgato il 28 marzo del 1804, eliminava definitivamente i retaggi
del feudalesimo e dell’assolutismo, disegnava una nuova
società laica, borghese e liberale in cui veniva consacrato
il diritto di eguaglianza. A questo codice seguirono quelli di
procedura civile (1806), del commercio (1807), di procedura penale
(1808) e penale (1810).
Tra gli accordi diplomatici, seguenti all’abbandono della politica
anticlericale, vi è il Concordato (1801) sottoscritto con
papa Pio VII (Gregorio Chiaromonti, 1800-1823). Con esso il
cattolicesimo fu riconosciuto religione della maggioranza dei
francesi, protetta dallo Stato a cui il clero fu subordinato. A
questo seguì un concordato tra la Repubblica Italiana e Pio
VII (16 settembre 1803) che rimarrà in vigore fino al 1905.
Ma i dissensi non tardarono a manifestarsi e si acuirono fino
all’imposizione al Papa dell’adozione del codice napoleonico, del
diritto imperiale di nomina di 1/3 dei cardinali, dell’abolizione
sia del celibato ecclesiastico che degli ordini religiosi. Al
rifiuto del Papa, Napoleone, da Vienna (1809) spogliava il Papa
della potestà temporale e faceva occupare lo Stato Pontificio
dal generale Miollis (1807).
Il Papa rispose con la scomunica e Napoleone lo fece arrestare dal
generale Rodet (1809), mantenendolo prigioniero prima a Savona,
quindi a Fontainebleau. Una giunta composta dal Miollis e dal
ministro della polizia del Regno di Napoli, Saliceti, gestì
il cambiamento. Dopo la caduta di Napoleone (1814), lo Stato
Pontificio fu ricostituito e Pio VII, rientrato a Roma, provvide
all’abolizione dei diritti feudali, all’avvio di una politica
liberale, a ristabilire la Compagnia di Gesù ed avviare vari
concordati per ripristinare il ruolo del Cattolicesimo in Europa.
(14) Egli, paradossalmente, si definì imperatore
rivoluzionario. I suoi fratelli divenuti principi vennero nominati
senatori di diritto.
(15) Villeneuve, che ignorava il piano complessivo, fu inviato in
una escursione nelle Antille per sorreggere i possedimenti francesi
e distogliere dall’Europa la flotta inglese. Rientrato per
congiungersi con le flotte provenienti delle basi di Rochefort e
Brest ed intercettato dalla flotta inglese di Calder, riparò
a Cadice. Fiducioso delle proprie forze, uscì per affrontare
la flotta di Nelson che, in agguato davanti a Cadice, lo sconfisse
nella storica battaglia di Trafalgar. Nelson cadde nello scontro fra
la sua ammiraglia Victory e quella francese Bucintoro.
(16) L’imperatore Francesco II, allontanandosi da Vienna con la
famiglia, diffuse un saggio editto che sollecitava il popolo a non
resistere inutilmente ma ad obbedire al vincitore. Questo segno
dell’interesse del principe per la sicurezza del popolo dà la
misura del rapporto civile esistente tra essi in un contesto in cui
l’agiatezza era diffusa e la povertà soccorsa.
(17) Baviera, Wurtenberg, Baden che inoltre si ampliarono con
l’acquisizione del Trentino, Tirolo e Svevia.
(18) Lo zar Alessandro, col consenso di Napoleone, strappò la
Finlandia alla Svezia ed acquisì ingrandimenti territoriali a
danno di Persia e Turchia. Non era accondiscendente alle mire
francesi sulla Svezia che, in previsione della scomparsa senza eredi
di Carlo XIII di Svezia, contava di mettere sul trono il generale
francese Jean-Baptiste Bernadotte (nota 28).
(19) Il primo ministro inglese Pitt (n. 12) fece ritirare dal suo
studio la carta geografica d’Europa, ritenendola inservibile per i
prossimi sette anni.
(20) Fece annettere territori alla Francia ed in Europa creò
i nuovi regni di Olanda (1806) e Westfalia (1807) che, volendo
direttamente estendere su tutti i territori assoggettati il suo
potere, assegnò rispettivamente ai fratelli Luigi e Girolamo.
L’Olanda ed il Belgio furono poi (1810) annesse alla Francia.
Così in Italia, il Granducato di Toscana fu assegnato alla
sorella Elisa (n. 10), Alla sorella Paolina il ducato di Guastalla,
al cognato Generale Gioacchino Murat che aveva sposato la sorella
Carolina andò il Regno di Napoli (1808-14) in sostituzione di
Giuseppe (re dal 1806-1808), spostato sul trono di Spagna
(1808-1813). Il fratello Luciano, ritiratosi dalla politica attiva
(n. 6), fu nominato da Pio VII, principe di Canino (una tenuta
acquistata nello Stato Vaticano).
(21) Reggente in nome della madre inferma, si rifugiò in
Brasile da dove rientrò nel 1822.
(22) Carlo IV (1748-1819), della famiglia Borbone di Spagna (v.
capitolo 6 della serie, stesso sito), indolente, incapace e dominato
dalla moglie Maria Luisa di Parma e dal suo favorito Godoy, venne in
contrapposizione con il figlio Ferdinando, cui dovette cedere la
corona e fuggire. Il principe delle Asturie, divenuto Ferdinando
VII, fu imprigionato da Napoleone fino al 1814 allorché,
riammesso sul trono (1814-1833) dal Congresso di Vienna, impose un
regime di terrore ma nulla poté fare contro la ribellione
delle colonie d’America. Le guerre napoleoniche, infatti, avevano
causato la separazione dei domini coloniali latino-americani
dall’Europa continentale, favorendo, per un verso, gli interessi
dell’Inghilterra nel crearsi nuovi sbocchi commerciali e, d’altro
canto, consentendo il sorgere in quelle colonie di movimenti di
indipendenza che, nel breve periodo, portarono alla creazione di
nuovi stati nazionali. Nel 1810, a Buenos Aires, approfittando
dell’occupazione napoleonica della Spagna, si insediò una
giunta creola che, sotto la guida di José de San Martin, nel
1816 proclamò la sua indipendenza. Seguirono Perù,
Bolivia, ecc.
(23) Saragozza fu conquistata casa per casa ed oltre 50.000
cittadini restarono sul campo. 80 acqueforti di Goya pubblicati dopo
la sua morte (1863) forniscono una testimonianza della sanguinosa
repressione di quel periodo.
(24) La Danimarca che stava per aderire al blocco antifrancese fu
fatta oggetto di cannoneggiamento e confisca dell’arsenale navale.
Per reazione si alleò con la Francia.
(25) L’Austria doveva rinunciare alla regione Trentino-sud Tirolo,
Istria e Dalmazia. Gran parte d’Europa risultava così alleata
o satellite della Francia.
(26) Napoleone aveva divorziato dalla prima moglie Giuseppina
Beauharnais che, in dieci anni, non gli aveva dato eredi. Lo
scioglimento del matrimonio fu approvato, in una riunione, da tutti
i componenti la famiglia, compreso il viceré Eugenio (n. 10)
ma avversato da Murat. La proposta di matrimonio con una principessa
proveniente dlla dinastia Asburgo, la più prestigiosa
d’Europa, fu condivisa da tutti, eccetto Murat che avrebbe preferito
un legame con una principessa appartenente alla più potente
dinastia Russia. Dal matrimonio con la granduchessa Maria Luisa
d’Austria (1791-1847) nacque un figlio (1811), a cui fu dato il
titolo di re di Roma e che per due giorni (4-6 aprile 1814)
ricevette, a seguito dell’abdicazione del padre, il titolo di
imperatore che valse a giustificare il nome di Napoleone II. Maria
Luisa fino al 1813 fu vicina al marito e forse anche innamorata.
Nominata reggente dell’Impero (1813), assolse all’incarico con
scarsa partecipazione ormai travagliata dal conflitto fra il marito
ed il padre. Dopo la caduta di Napoleone (1814) le venne affidato, e
confermato dal congresso di Vienna (1816), il Ducato di Parma,
Piacenza e Guastalla dove (ventiduenne), non più soggetta
all’imperio del marito o del padre, acquisì la sua
indipendenza instaurando, diversamente da quanto accadeva negli
altri stati italiani, un regime liberale. La ragion di Stato ed il
legame con il conte Neipperg (da cui ebbe due figli, Albertna e
Guglielmo) prevalsero nel non essere mai andata, benché
sollecitata, a trovare il marito durante la prigionia all’Elba e
l’esilio a S.Elena. Poco si interessò del figlio che,
divenuto, dopo la caduta del padre, duca di Reichstadt, crebbe tra
gli eccessi alla corte di Vienna e morì a 21 anni, lontano
dalla madre.
(27) Governata dall’ex generale francese Bernadotte (n. 18) che,
posto da Napoleone sul trono di Svezia, si era alleato con i Russi
mostrando il tipico zelo di chi cambia fazione.
(28) Come in altre occasioni, si rivelò arrendevole con i
potenti mentre non mancava di mostrarsi arrogante e spietata con i
deboli.
(29) Nella cerimonia per l’incoronamento a Re d’Italia, Napoleone si
rivolse all’ambasciatore del regno di Napoli: “Dite alla vostra
regina che io so le sue bugie contro la Francia, ch’ella
andrà maledetta dai suoi figli, perché in pena dei
suoi mancamenti non lascerò a lei ne alla sua casa tanta poca
terra quanto ne occupa il sepolcro”. Napoleone fu informato dei
festeggiamenti tenuti alla Corte di Napoli alla notizia dell’esito
della battaglia di Trafalgar.
(30) Composto da Diego Naselli d’Aragona (*), il principe di Canosa
ed il magistrato Michelangelo Cianciulli.
(31) Le fortezze di Pescara e Capua si consegnarono ai francesi
mentre quelle di Civitella e Gaeta si predisposero a resistere.
Civitella, comandata dal colonnello Wood ed arresasi dopo tre mesi
di assedio per mancanza di vettovaglie, subì l’abbattimento
delle mura. Gaeta, comandata da un deciso avversario francese, il
principe Philipstadt, e potendosi rifornire dal mare resistette,
prima di arrendersi, per cinque mesi, durante i quali anche i
francesi subirono cospicue perdite. Il 19 luglio 1806 la fortezza si
consegnò a Massena che aveva diretto l’assalto finale. Parte
degli assedianti si ritirò con le navi e parte chiese di
arruolarsi nell’esercito francese.
(32) L’ingresso a Napoli fu seguito da un proclama di Napoleone dove
affermava: “ … in dieci anni io tutto ho fatto per serbare il re di
Napoli, egli tutto ha fatto per perdersi. …. Dopo Dego …….. gli fui
generoso … dopo Marengo ….. mi si raccomandò, benché
nemico ed io gli perdonai la seconda volta. … Son pochi mesi … io
sospettava nuovi tradimenti ….. ma fui generoso ….. riconobbi la
neutralità di Napoli: v’imposi di sgomberare quel regno e per
la terza volta la casa di Borbone fu confermata sul trono e salvata.
Perdoneremo la quarta volta? Confideremo di nuovo in una corte senza
fede, senza onore, senza senno? No, no! ….. “
(33) Giuseppe Bonaparte (1768-1844) il maggiore dei fratelli di
Napoleone, cultore di lettere e di politica, avido di ricchezze, era
di carattere timido e prudente, desideroso di operare bene con
l’intento di soddisfare più il fratello che il popolo.
(34) Saliceti subì successivamente l’oltraggio di una
aggressione di popolo che distrusse la sua abitazione a riviera di
Chiaia (gennaio 1807). Componente a Roma, con il generale Miollis
(n. 13) della giunta che doveva dar seguito al decreto napoleonico
di annessione alla Francia dello Stato Pontificio. Scomparve a 53
anni, per tifo o sospetto veleno.
(35) In quel periodo la situazione del regno era tra le più
arretrate d’Europa con una giustizia che si rifaceva a norme
confuse, non codificate e sovente soggetta all’arbitraria
volontà del re, l’amministrazione dolosamente priva di
ordine, la proprietà patrimonio di pochi (baronie, vescovati
e monasteri), poche le industrie, scarse e rozze le manifatture, gli
uomini migliori avviliti e la nobiltà inferma. Lo spirito
riformatore della seconda metà del ‘700 (quello di Carlo di
Borbone e di Ferdinando fino al 1790) non era mai giunto alla
coscienza del popolo e la società, sconvolta dalla
repressione seguente alla caduta della Repubblica (**), mostrava il
bisogno di leggi migliori. Il Colletta conclude: “Era perciò
impossibile riordinare lo Stato con le forze dei propri elementi;
bisognava un nuovo re, nuovo regno, ed avvenimento che per la sua
grandezza sopisse le domestiche brighe e desse scopo comune alle
opere ed alle speranze”.
(36) A Reggio era sbarcato, nel maggio 1807, il principe
Philippstadt (n. 31) con un consistente contingente e, giunto fino a
Mileto, fu, dai francesi di stanza a Monteleone, respinto dopo aspri
combattimenti fino a Reggio, senza che i francesi completassero la
conquista della città se non dopo otto mesi, allorché
conquistarono anche Scilla (febbraio 1808).
(37) Sorsero, dopo la completa conquista della Calabria, i tribunali
speciali che lavorarono a pieno regime emettendo, sulla base di
semplici sospetti o per delazioni, condanne a morte di cui qualcuna
venne eseguita con barbarie: a Lagonegro si utilizzò il
barbaro metodo turco dell’impalazione, a Monteleone (odierna Vibo
Valentia) un uomo fu appeso e lapidato. Le carceri si riempirono di
prigionieri ed i personaggi di cui non si poté fare giustizia
sommaria, vennero trasferiti nelle carceri francesi. Tra i
giustiziati vi furono Fra Diavolo ed il marchese Rodio (**). Il
primo, dopo il 1799 aveva cercato di rigenerarsi moralmente pur
avendo conservato l’indole del brigante. La condanna a morte di
Rodio, onesto ufficiale borbonico designato alla difesa di territori
non ancora invasi, destò scalpore per il modo con cui fu
emanata. La commissione militare lo aveva mandato assolto ma, nello
stesso giorno, il maresciallo Massena, interprete dei sentimenti del
ministro Saliceti (n. 35), istituì una nuova commissione con
l’ordine di giudicarlo colpevole per aver sobillato alla rivolta
popoli sottomessi.
(38) Esso si era organizzato ed, evitando gli scontri, operava nelle
campagne, assalendo gli inermi, predando, distruggendo e
nascondendosi. Non potendo arginare il fenomeno, il re provò
con la concessione del perdono a chi rientrasse nella
regalità giurando fede al governo. La norma che fu
successivamente adottata anche da re Gioacchino indusse molti ad
usufruirne (falso pentitismo), non per amore di pace ma per godersi
il bottino acquisito e per riprendere quindi l’attività.
Pratica che indusse i funzionari di provincia a fare strage dei
perdonati.
(39) Gli apparati amministrativi furono ristrutturati dividendo il
Regno in province, distretti e comunità dirette,
rispettivamente, da un intendente, sotto-intendente e sindaco
soggetti alle rispettive assemblee consiliari.
(40) Il parlamento di cento membri era diviso in cinque Sedili (**)
rappresentanti clero, nobiltà, dotti, commercianti (tutti
nominati dal re) e possidenti (elettivi). I rappresentanti delle
prime tre classi erano nominati a vita. Il parlamento che si doveva
riunire almeno una volta ogni tre anni trattava gli argomenti
proposti dal governo ed era convocato, prorogato e disciolto dal re.
(41) Gioacchino Murat (1767-1815), nato a Labastide (regione dei
Pirenei) di modeste origini fu avviato inizialmente alla carriera
ecclesiastica ma nel 1787 lasciò il seminario per arruolarsi
tra i cacciatori a cavallo divenendo ufficiale (1783) e stretto
collaboratore di Napoleone in qualità di aiutante di campo
(nota 6) e sposo della sorella Carolina (1800). Nel 1805 ricevette i
principati di Berg e Cleves. Partecipò a tutte le campagne
Napoleoniche, in particolare alla conquista della Spagna ed alle
campagne di Italia, Russia ed alla sconfitta di Lipsia. Di aspetto
attraente, imponente nella figura ed accattivante nell’approccio, di
indole guerriera era definito l’Achille di Francia perché
prode ed invulnerabile. Era impaziente negli affari di stato.
Morì giustiziato a Pizzo (v. seguito).
(42) Dai tempi di Carlo di Borbone non si era fatto nulla nel
settore della viabilità. Il Croce afferma che “Si
mietè in quel decennio la messe preparata da un secolo di
fatiche”.
(43) I veliti componevano la fanteria leggera e venivano impiegati
per primi in combattimento.
Con la coscrizione obbligatoria ogni anno dovevano prestare servizio
due giovani ogni mille. Venivano esentati ammogliati, figli unici e
chi si dedicava allo studio. Giuseppe, non volle ricorrere alla
coscrizione nel timore che i giovani, per sfuggire, avrebbero finito
coll’ingrossare il brigantaggio o fuggire in Sicilia, alimentando
così l’esercito avversario. Giuseppe aveva costruito i suoi
reggimenti con uomini provenienti dalle galere o catturati dalla
polizia o nelle azioni di guerra, perdonati di brigantaggio ed
inviati a combattere in regioni lontane.
(44) Il Colletta commenta : “Il brigantaggio del 1810 teneva il
regno in foco, distruggitore di uomini e di cose cittadine, senza
fine politico, alimentato di vendette, di sdegni, o, più
turpemente, d’invidia al nostro bene, e di furore. …era
enormità ed il generale Manhes fu istrumento di inflessibile
giustizia, incapace, come sono i flagelli, di limite o di misura”.
In merito all’azione del gen. Manhes il De Castro riporta : “...
quell’inesorabile uomo non perdonò ad età, a sesso, a
parentela. Con i veri rei caddero anche gli innocenti …..
dichiarò la pena di morte a coloro che nelle campagne
nascondevano dei viveri …. A nessuno perdonò, neppure ad una
madre che ignara degli ordini, portava il solito vitto ad un
figliolo che stava lavorando nei campi….. La Calabria era diventata
un campo chiuso dove gli uomini davano la caccia da altri uomini.
Nella torre di Castrovillari languirono e morirono centinaia di
inquisiti. La puzza degli insepolti ….”
(45) La regina di Sicilia Maria Carolina, insofferente della
ingombrante presenza inglese in Sicilia ed invogliata dal matrimonio
della nipote Maria Luisa (figlia della figlia di Carolina, Maria
Teresa che aveva sposato in seconde nozze Francesco I d’Asburgo,
figlio del fratello di Carolina, Leopoldo II) con Napoleone,
conduceva con questi, in una sorta di commedia degli inganni,
trattative volte a riconquistare il Regno di Napoli con la promessa
di mantenere il controllo francese, salvo poi legarsi all’Austria. A
Napoleone non dispiaceva l’acquisizione della Sicilia senza colpo
ferire e comunque voleva mantenere vivo il contrasto tra la regina e
gli inglesi. In questo scenario, egli aveva dato disposizione a
Grenier di avviare l’operazione di invasione della Sicilia solo
dietro richiesta della regina o nel momento in cui si sarebbero
verificati scontri tra Siciliani ed Inglesi.
(46) Durante la campagna di Russia, Napoleone disse di Gioacchino: “
In tutta la guerra di Russia questo principe si è mostrato
degno del supremo grado di re”. Dopo che Gioacchino ebbe abbandonato
l’armata per rientrare a Napoli, Napoleone, attraverso la Gazzetta
di Francia (Monitore) biasimò Gioacchino e lodò
Eugenio quindi scrisse alla sorella Carolina, regina di Napoli,
pesanti commenti nei riguardi del marito. A queste Gioacchino
rispose : “La ferita al mio onore è già fatta e non
è in potere di Vostra Maestà il medicarla. ….. Quando
si ha l’onore, ella dice, di appartenere alla sua illustre famiglia
….. ed io, sire, le dico in risposta che la sua famiglia ha ricevuto
da me tanto onore quanto me ne ha dato collegandomi in matrimonio
alla Carolina. Mille volte, benché re, sospiro i tempi nei
quali, semplice ufficiale io avea superiori e non padrone. Divenuto
re, ma in questo grado supremo tiranneggiato da Vostra
Maestà, dominato in famiglia, ho sentito più che non
mai bisogno di indipendenza, sete di libertà. Così voi
sacrificate al vostro sospetto gli uomini più fidi a voi ……
così Fouché fu immolato a Savary, Talleyrand a
Champagny, …. e Murat a Beauharnais …. che ha lietamente annunziato
al senato di Francia il ripudio di sua madre ……”
(47) L’inizio dello sfaldamento dell’impero Napoleonico diede
speranze agli oppositori rappresentati da varie componenti come
nostalgici del vecchio regime, giacobini delusi, moderati, borghesi
e popolani tutti stanchi di sottostare alle imposizioni straniere,
nella continua e disillusa attesa del nuovo. A questi nuclei di
opposizione si aggiunse quella organizzata in sette segrete tra cui
la Carboneria che si era diffusa nel meridione, assorbendo sette
minori. Queste erano nate da una comune matrice, la massoneria, e si
distinguevano per l’ispirazione giacobina e liberal-nazionale.
(48) La contropartita richiesta da Gioacchino per l’alleanza era il
sostegno austro-inglese per la conquista, da nemico di Napoleone, il
Regno d’Italia che avrebbe dovuto ricevere il riconoscimento da
parte delle nazioni europee. Offrendo, quale contropartita, la
rinuncia a pretese sulla Sicilia, mai conquistata, e la cessione di
Gaeta agli Inglesi.
(49) I rapporti di ambiguità erano tali che Lord Bentinck
permetteva che i siciliani del suo contingente diffondessero tra i
napoletani un editto di Ferdinando che li incitava alla ribellione
contro Gioacchino. Il quale, a sua volta confidando in una vittoria
della Francia ed aspettando l’opportunità per ricollegarsi ad
essa, temeva che le strategie degli attuali alleati austriaci ed
inglesi mirassero ad aumentare le difficoltà in cui
già si trovava con i suoi generali, desiderosi di
condizionare le scelte strategiche.
(50) Murat cercò di mantenere segreti contatti con Eugenio
che li respinse e fece modo di informare di ciò i generali
austriaci al fine di screditarlo. Eugenio, era sollecitato dal
suocero, Massimiliano I, re di Baviera di cui aveva sposato la
figlia Augusta Amalia (1788-1852) ad abbandonare il campo francese.
Eugenio concluse, nei pressi di Mantova (Schiarino-Rizzino) un
armistizio con l’Austria secondo il quale conservava, in attesa di
successivi accordi fra le potenze, un Regno d’Italia,
territorialmente ristretto alla Lombardia. A Milano, intanto i
patrioti tra cui Federico Confalonieri, guardavano, secondo il
progetto del duca Melzi d’Evril (n. 10), al principe Eugenio quale
possibile sovrano di un Regno indipendente dalla Francia e
dall’Austria. Per ottenere una designazione in tal senso Melzi
d’Evril che, in assenza di Eugenio dirigeva il governo,
convocò il senato, dove non riuscendo a trovare un accordo
sulla delibera si procedette alla convocazione dei collegi
elettorali per stabilire il futuro del Regno. Gli avversari di
Eugenio si erano attivati ed, in occasione di una riunione del
senato, una manifestazione si trasformò in sommossa
antifrancese che scaricò la sua ira col massacro del ministro
delle finanze Giuseppe Prina (20 aprile 1814). La qualcosa
segnò la fine delle aspirazioni di Eugenio sul trono
d’Italia, per cui egli nobilmente consegnò il territorio del
Regno al controllo dell’Austria (23 Aprile) e si ritirò in
Baviera. Il potere dell’Austria sulla Lombardia fu confermata dal
Congresso di Vienna ed alle aspirazioni dei patrioti non
restò che il ricorso alla cospirazione.
(51) Tayllerand (n. 47), come tutti coloro che cambiano fazione,
mostrava risentimento nei riguardi dei napoleonici ma era anche
sollecitato dalla cupidigia di ricevere il premio di un milione di
franchi che Ferdinando IV gli aveva promesso per il recupero del
trono.
(52) Pellegrino Rossi (1787-1848) economista toscano, ottenne la
cittadinanza francese nel 1834, divenendo nel 1845 ambasciatore
francese a Roma ed assumendo un ruolo nel nuovo corso liberale di
papa Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti, 1846-1878). Divenne
capo del governo Vaticano (1848) con un programma che
scontentò sia i reazionari che lo ritennero troppo
egualitario, che i rivoluzionari che lo ritennero non
sufficientemente democratico. Gli scontri fra queste due componenti
causò il suo assassinio e la fuga del Papa a Gaeta.
(53) Carolina Bonaparte (1782-1839) da Murat ebbe quattro figli
Achille, Letizia, Luciano e Luisa. Dopo la cessione del regno di
Napoli si trasferì a Venezia e Trieste e quindi a Firenze.
(54) Essa prevedeva un re proponente, due camere legiferanti,
consigli dei Ministri e di Stato, magistratura indipendente ed
amministrazioni provinciali e comunali.
(55) Solo dall’imperatore d’Austria ricevette una tardiva offerta di
asilo con l’invio del passaporto.
(56) Il corso Carabelli, promosso a suo tempo da Gioacchino ma ora
al soldo del Borbone di Napoli, lo aveva amichevolmente avvicinato
per sondarne le intenzioni e farle conoscere al governo di Napoli
che nulla predispose, non avendo appreso il luogo dello sbarco.
(57) Barbarà, un vecchio corsaro maltese a suo tempo
gratificato da Murat, come garanzia per l’appoggio, chiese di tenere
il passaporto austriaco di Gioacchino.
(58) Carmelo Bilotta che, in G. Murat sul trono di Napoli, analizza
i fatti e spiega i comportamenti di chi ha avuto ruolo in quel
Regno. Per quanto riguarda gli avvenimenti di Pizzo, sulla base
delle dirette testimonianze riportate da Ettore Capialbi (Murat a
Pizzo), pur concordando con la ricostruzione del Colletta e del
canonico Masdea (n. 59), offre una interpretazione diversa degli
stessi, differenziando la vile condotta di Barbarà da quella
del Trentacapilli e dei cittadini. Egli non giustifica ma spiega lo
zelo del primo col timore della ritorsione borbonica ed il rifiuto
dei secondi, presumibilmente analogo a quello di qualsiasi
cittadinanza calabrese di quel periodo, con gli eccessi patiti
durante la lotta al brigantaggio.
(59) All’annuncio dell’istituzione del tribunale Murat
esclamò: “Ahi, io son perduto! Il comando di giudizio
è comando di morte”. Il tribunale era composto da sette
giudici che, pur promossi durante il regno Murat, si videro
costretti ad accettare l’incarico per mostrare fede al nuovo re e
mantenere la posizione acquisita. Murat rifiuò di essere
difeso dal capitano Storace (“Voi non potrete salvare la mia vita,
fate che io salvi il decoro di re. Qui non si tratta di giudizio ma
di condanna ….”) e scrisse alla moglie Carolina ed ai figli la
lettera di commiato, accludendovi una ciocca di capelli. Prima del
giudizio ricevette il canonico Antonio Masdea, cui cinque anni prima
aveva concesso un obolo per le opere della Chiesa Madre ed a cui
dichiarò di morire da buon cristiano.
(60) Tra cui le figure di maggior prestigio erano i principi di
Belmonte e di Castelnuovo senza il cui accordo la costituzione
poteva difficilmente sopravvivere. Il primo abile ma in gelosa
contrapposizione con il secondo, lo zio che, di sentimenti
più dichiaratamente liberali, alla fine dovette ammettere
“noi non siamo adatti per la nuova costituzione”. Belmonte
abbandonò la Sicilia dopo la sostituzione di Bentinck e
Castelnuovo negò la sua adesione ad un nuovo tentativo di
costituzione proposto da Ferdinando con cui ebbe un violento
scontro.
(61) Luigi Filippo d’Orleans, futuro re di Francia (1830-1848; Luigi
Filippo I), aveva sposato (1809) Maria Amelia di Borbone Napoli.
(62) Tra il 1813 ed il 1814 si riunirono tre parlamenti che non
riuscirono ad accordarsi su quasi nulla (“tutti erano discordi negli
interessi e nelle mire, ma tutti perfettamente concordi nel non far
nulla”), mirando unicamente a rendere inoperante la costituzione e
facendo commentare al Bentinck “Vogliono la libertà ma
nessuno è disposto a sacrifici per ottenerla”.
(63) Il Colletta la definisce: “Vedova del principe di Partanna,
madre di molti figli, di nobile stirpe ma di volgare ingegno e
famosa per antiche libidini”.
(64) Quella promossa dagli avvocati Cadeddu e Garau, dal prof. Zedda
e dai sacerdoti Muroni e Melis fu scoperta e repressa.
(65) Fu soprannominato “Re delle Marmotte” perché disse di
aver dormito dal 1792 al 1814, cioè per tutto il periodo
trascorso tra la rivoluzione francese ed il Congresso di Vienna.
(66) In Europa la Russia conservò la Finlandia e mantenne il
controllo del regno di Polonia. La Prussia ottenne le regioni
limitrofe di Posnania, Pomerania svedese e l’ex Vestfalia. L’Austria
perse il Belgio ma riprese tutti i territori perduti ed il controllo
delle regioni costituenti la Confederazione del Reno che si
trasformò in Confederazione Germanica. Furono riconosciuti
Regni Baviera, Sassonia e Wurttemberg. La Gran Bretagna mantenne il
possesso di Malta, delle isole Ionie e di altre posizioni
strategiche. In Spagna e Portogallo vennero ripristinate le dinastie
di Borbone (Ferdinando VII) e Braganza (Giovanni VI). La Danimarca
(fedele a Napoleone) perse la Norvegia che passò alla Svezia.
La Corsica rimase legata alla Francia.
(67) Francesco IV era figlio dell’arciduca Ferdinando e di Maria
Beatrice d’Este, signora di di Massa e Carrara che avrebbe lasciato
in eredità al figlio.
(68) Denominazione risalente ad Alfonso I (v. capitolo: Il meridione
d’Italia aragonese; nota 10), Rex utriusque Siciliae ed adottata da
Murat.
(69) Vedi il capitolo “Il meridione d’Italia conteso da Savoia,
Asburgo e Borbone” stesso sito.
(70) Vittorio Emanuele I, accantonate le aspirazioni sulla
Lombardia, aveva dovuto contenere quelle austriache sul territorio
piemontese, motivi sopiti di futuri antagonismi.
(71) Cui si deve anche riconoscere il merito della presa di
posizione contro lo schiavismo con la sottoscrizione della
Dichiarazione contro la tratta dei negri.