da http://www.storiologia.it/suditalia/cap109l.htm

Il Meridione d'Italia nel periodo napoleonico

di Franco Savelli
 

Sommario (1)

--- Napoleone e l’Impero: rientro in Francia dall’Egitto e costituzione del Consolato. Incoronato Imperatore dei francesi e Re d’Italia. La prevalenza napoleonica sulle nazioni europee e matrimonio con la granduchessa d’Austria. Accordo e contrapposizione con l’impero russo, la disastrosa campagna di Russia. La VI coalizione antinapoleonica lo costringe a rinunciare senza condizioni all’impero. L’effimero intermezzo dei cento giorni e la resa definitiva.
--- Il regno di Napoli: trattato di amicizia con la Francia ed immediata alleanza antifrancese con l’Austria. Invasione francese del Regno, nomina di Giuseppe Bonaparte re di Napoli e della Sicilia. Azioni di guerra per la conquista della Calabria. Norme di ristrutturazione del Regno. Gioacchino Murat subentra a Giuseppe, attività di governo, attività militari di contenimento e di iniziativa. Lotta al brigantaggio. Partecipazione alle ultime guerre napoleoniche. Sconfitta a Tolentino e perdita del Regno. Rientro del re Borbone. L’estremo tentativo di Murat.
--- Vicende della Sicilia di Ferdinando IV e della Sardegna di Vittorio Emanuele I nel periodo Napoleonico.
--- Congresso di Vienna e restaurazione

______________

Napoleone e l’Impero

- L’ascesa

Napoleone (2) resosi conto delle difficoltà di condurre la guerra in Egitto (3) volta a tagliare alla Gran Bretagna la via delle Indie ed informato dei rovesci subite dalle armate francesi in Europa (4) , dopo aver sventato un tentativo di sbarco ad Abukir di un corpo di spedizione turco, decise di lasciare il comando delle operazioni al generale Kleber (5) e di rientrare in Francia su una goletta fortunosamente sfuggita al controllo inglese del Mediterraneo. Sbarcato a Frejus (agosto 1799), il suo viaggio verso Parigi fu salutato con entusiasmo dalla popolazione. I fautori di un nuovo assetto istituzionale individuarono nella popolarità e prestigio di Napoleone lo strumento idoneo da utilizzare in un progetto di revisione costituzionale. La qualcosa diffuse sconcerto tra i giacobini, pur se parte di loro auspicava un svolta a sinistra di un eventuale governo autoritario. Arrivato a Parigi, Napoleone aderì al progetto e, nominato comandante in capo delle forze armate, riuscì a far sciogliere le camere (Consiglio dei 500 (6) e Consiglio degli anziani) e, su iniziativa del componente del Direttorio ed ideologo della borghesia rivoluzionaria, l’abate Joseph Sieyés, si operò l’abbattimento del Direttorio (9 novembre 1799) e la creazione di un Consolato di tre membri di cui fece parte anche Roger Ducos. Praticamente un colpo di Stato in cui Napoleone, anziché strumento, divenne protagonista assicurandosi, con la Costituzione dell’anno VIII, il potere assoluto ed il ruolo di primo console, lasciando agli altri due un ruolo marginale di consultazione.
Napoleone, elaborate le modifiche da apportare all’organizzazione politica ed amministrativa del paese ed accentrate, sotto il suo personale controllo, le leve del potere sul ministero dell’Interno, riprese le operazioni di guerra sul fronte del Reno, affidate al comando del generale Moreau,, e sul fronte italiano di cui assunse direttamente il comando per la seconda campagna d’Italia. Dove giunse con la sua armata, dopo aver valicato audacemente il Gran S.Bernardo, cogliendo di sorpresa gli austriaci che vennero sconfitti a Montebello e nella battaglia decisiva di Marengo (14 giugno 1800) . (7)

Questo successo, consolidato da quello del Moreau (8) ad Hohenlinden (13 dicembre 1800) sull’esercito austriaco, e l’abilità del diplomatico principe di Talleyrand portarono al convegno di pace di Luneville dove alla urgenza della Francia di siglare l’intesa si contrapponeva il tatticismo diplomatico di Austria ed Inghilterra . Napoleone non volendo perdere il vantaggio che la situazione sul campo gli garantiva riprese le ostilità (guerra d’inverno) occupando territori della Lombardia e Toscana dove il Regno di Napoli, sfuggendo ad ogni principio di cautela, aveva inutilmente inviato da contrapporre i francesi tre legioni di sanfedisti (**) che, precedentemente insediati nei territori dello Stato Vaticano ed inesperti di guerra campale, furono agevolmente messi in fuga.

Con la firma del trattato di Luneville (9, febbraio 1801) in cui, oltre alla conferma di quello di Campoformio (*), veniva riconosciuto alla Francia l’influenza sulle regioni italiane del nord con l’annessione di Piemonte, il controllo della Toscana con i Presidi e delle repubbliche Ligure e Cisalpina . (10)
All’Austria, d’altra parte, veniva accordato il mantenimento di Veneto, Istria e Dalmazia.

Il momento favorevole non poté essere sfruttato a pieno per l’assassinio dello zar Paolo I (11) con cui stava impostando una alleanza in funzione antinglese. Napoleone trovò comunque produttivo l’accordo di pace di Amiens (marzo 1802) con una Inghilterra in difficoltà per motivi interni (12) . Tale accordo, da un lato, gli consentiva di ristabilire il dominio coloniale francese sulle Antille, occupate dall’Inghilterra durante la rivoluzione e, dall’altro lato, agevolato dai successi militari ottenuti, gli forniva l’opportunità di stabilire nuovi accordi diplomatici oltre ad intraprendere iniziative legislative (13) volte a consolidare il suo personale potere. In tale ambito, infatti, una proposta del Senato, confermata con un plebiscito (2 agosto 1802), conferì a Napoleone il consolato a vita (Costituzione dell’anno X) e successivamente, con l’approvazione della Costituzione dell’anno XII, ricevette il titolo di Imperatore dei francesi (14 maggio 1804) con facoltà di nominare il successore. In sostanza il conferimento di un potere monarchico . (14)

Nel 1803, a seguito di reciproche accuse di violazione del trattato di Amiens, tra cui la mancata restituzione all’indipendenza dell’isola di Malta da una parte ed il mantenimento delle truppe francesi in Olanda dall’altra, si riproposero motivi di guerra fra Francia ed Inghilterra per cui Napoleone diede avvio al piano di sbarco in Inghilterra che, preparato da tempo, fallì per le gravi perdite subite dalla flotta francese dell’ammiraglio Villeneuve (15) nella baia di capo Trafalgar (21 luglio 1805) ad opera della flotta inglese guidata da Nelson (*) (**).

Napoleone riparò allo smacco subito utilizzando l’armata, concentrata a Boulogne in vista dello sbarco in Inghilterra, per combattere, sui teatri di guerra continentali di Italia e Germania, le nazioni della III coalizione antinapoleonica (agosto 1805) che comprendeva un vasto schieramento composto dall’Inghilterra, Austria, Prussia, Russia, regno di Napoli, Svezia e Turchia. In Italia il maresciallo Massena avanzò verso il Veneto ed, in un susseguirsi di successi, giunse fino a Trieste, impegnando l’esercito austriaco che veniva così sottratto alle azioni di guerra in Germania. Dove Napoleone dopo aver sconfitto, ad Ulm, gli austriaci guidati da Mack (*) e, fatta occupare Vienna (15 novembre 1805) , affrontò gli eserciti austro-russi ad Austerlitz (2 dicembre 1805) dove il suo genio tattico gli consentì di ottenere una delle sue più significative vittorie. Ché, se poco veniva a costare alla Russia che combatteva al di fuori del suo territorio ed il cui esercito, avendo ottenuto facoltà di rientro attraverso un percorso stabilito, mantenne intatta la propria capacità offensiva, registrò invece gravi conseguenze per l’Austria, obbligata a ritirarsi dalla coalizione e ad accettare (dicembre 1805) (16) le condizioni della pace di Presburgo (attuale Bratislava). Esse sancivano, in termini territoriali, la cessione del Veneto e delle Marche al Regno d’Italia ed, in termini politici, il riconoscimento di quest’ultimo e la costituzione della Confederazione del Reno contratta da quegli Stati germanici che, pur compresi nell’impero asburgico, si erano schierati con Napoleone (17). La qualcosa conseguiva la fine del Sacro Romano Impero e l’assunzione, da parte dell’Imperatore SRI Francesco II, del meno prestigioso titolo di Imperatore d’Austria col nome di Francesco I (1806).

La Prussia con l’Inghilterra (IV coalizione) proseguì le ostilità e Federico Guglielmo III di Prussia, sconfitto a Jena e ad Auerstedt (ottobre 1806), si rifugiò in Russia lasciando a Napoleone aperta la strada per Berlino. Lo zar Alessandro (nota 11), sconfitto a Eylau e Friedland (febbraio e giugno 1807) trovò conveniente accordarsi con la Francia in un trattato (Tilsit, giugno 1807), che, stipulato in funzione antinglese, permise agli imperi francese e russo di dividersi l’Europa in zone di influenza, di concordare, a carico della Prussia, perdite territoriali che andavano a formare il regno di Westfalia e di stabilire un equilibrio il cui mantenimento era garantito da contatti diplomatici non privi di diffidenze . (18)

Napoleone utilizzò le sue vittorie, che avevano alterato la geografia politica dell’Europa (19), nella logica dell’espansionismo (20) ed, avendo recepito le difficoltà di una invasione territoriale dell’Inghilterra, spostò la lotta politica sul piano commerciale imponendo a tutti i paesi europei il blocco economico contro l’Inghilterra. Per renderlo più efficace ed eliminare la testa di ponte commerciale che essa aveva in Portogallo, paese tradizionalmente legato agli inglesi, nel 1807 ingiunse alla corte di Lisbona di chiudere i suoi scali al commercio britannico. Essa tergiversò nel timore di crearsi problemi con la potente Inghilterra ma Napoleone, che aveva in mente di estendere il suo dominio sulla penisola iberica, strinse con la Spagna (trattato di Fontainebleau, ottobre 1807) un accordo di spartizione e, sostenuto da un contingente spagnolo, invase il Portogallo, spodestando Giovanni VI di Braganza (21) ed istallando al governo il generale Junot. Approfittando quindi del contrasto tra re Carlo IV di Spagna ed il figlio erede al trono, Ferdinando, principe delle Asturie, che intendeva assumere la corona (22), impose ad ambedue la rinuncia al trono ed occupò la Spagna con l’armata del generale Murat (1808), collocando sul trono il fratello Giuseppe, a quel tempo re di Napoli. Evento che nel popolo spagnolo, già sensibilizzato dalle vicende che avevano coinvolto Papa Pio VII (nota 13), sviluppò contro l’arroganza napoleonica un sentimento di ribellione, anche in quegli strati più liberali e sostenitori delle idee ispiratrici della rivoluzionarie francese. Questa ribellione (Madrid, 2 maggio 1808) fece vacillare il trono di Giuseppe e lo stesso Napoleone dovette direttamente dirigere una feroce repressione (1809) (23) ed imporre una brutale occupazione che, comunque, non riuscì a spegnere i focolai di resistenza. Questi, fomentati dal clero, aspro avversario dell’anticlericalismo francese, si protrassero nel tempo infliggendo anche umilianti sconfitte alle milizie di occupazione francesi ed evidenziando le prime crepe nel controllo dell’impero.

Gli inglesi reagirono (24) al blocco commerciale imposto da Napoleone ed in Portogallo inviarono un contingente militare, comandato da Artur Welleslay (futuro duca di Wellington) che costrinse i francesi ad abbandonare il paese (resa di Cintra). Successivamente, nel 1813, allorché Napoleone era in difficoltà ad oriente, lo stesso Welleslay invase la Spagna, cacciando Giuseppe Bonaparte ed imponendo il legittimo erede Ferdinando VII (note 22 e 65).

L’Austria sostenuta dalla Gran Bretagna (V coalizione) tentò nel 1809 di risollevarsi da una posizione di sudditanza nei riguardi della Francia ma, sconfitta a Wagram (luglio 1809), fu costretta alla pace di Schombrunn (1809) la cui durezza delle condizioni (25) furono attenuate dalla richiesta di Napoleone di sposare la figlia dell’imperatore Francesco I. Questi, su suggerimento del suo ministro degli esteri, principe di Metternich, sacrificò alla ragion di stato la figlia Maria Luisa, dandola in sposa a Napoleone (1 aprile 1810) che così realizzava il sogno di imparentarsi con la dinastia Asburgo-Lorena, la più prestigiosa d’Europa (26) . Evento che fece perdere a Napoleone larghe fasce di favore, infatti i giacobini si sentirono lesi nel loro sentimento repubblicano, ed ancor più il popolo fu toccato dallo sfarzo delle cerimonie in un periodo in cui si manifestava una acuta crisi economica, ed altrettanto la borghesia che in più soffriva per la sottrazione di diritti acquisiti.

- La resa

A Napoleone, in Europa, restava la sola contrapposizione con il sospettoso imperatore russo il quale, confidando nella insoddisfazione della Prussia e nell’infedeltà dell’Austria che, grazie ai rapporti di parentela, non era stata inglobata nell’impero francese e subendo la pressione dell’Inghilterra, decise di sottrarsi al blocco economico contro di essa. Napoleone, nell’ambizione di risolvere a suo favore tale dualismo ed assuefatto al vantaggioso ruolo dell’assalitore, preparò, con il contributo militare di Austria e Prussia, ridotti ormai al rango di paesi satelliti, l’armata più consistente mai messa assieme (600.000 uomini). Il 22 giugno 1812, anticipando i preparativi bellici dello zar, attraversò, con la cavalleria guidata da Murat, il fiume Niemen di demarcazione tra i due imperi, impegnando in agosto a Smolensk una parte dell’esercito russo guidato da generale Kutuzov. In settembre, presa Vilna, si scontrò in battaglia presso la cittadella fortificata di Borodino dove rimasero sul campo complessivamente 75.000 uomini e dove i russi, conoscitori del territorio, operarono una strategica ritirata, nel corso della quale abbatterono barbaramente ogni presidio utile all’esercito invasore.

A Napoleone fu proposto dai suoi generali di arrestare l’avanzata e rafforzare le strategie di rifornimento in vista della prossima primavera ma, superati i dubbi iniziali, egli diede ordine di procedere in un territorio devastato e privato di ogni risorsa dagli stessi russi che fecero trovare a Napoleone, al suo ingresso a Mosca, una città in preda agli incendi (15-18 settembre). Napoleone, dopo aver atteso invano una proposta di pace dallo zar che confidava nel prossimo arrivo dell’inverno e nella carenza di approvvigionamenti dell’armata invasore, in ottobre, diede ordine di iniziare la ritirata.

Questa, drammatizzata dal clima e dalla carenza di vettovaglie, ben presto si trasformò in fuga, esposta agli improvvisi e spietati attacchi dei russi che, all’atto dell’attraversamento del fiume gelato Beresina (26-28 novembre 1812), causarono la perdita di quasi 400.000 uomini dell’armata francese, trasformando la ritirata in una inesorabile disfatta. Solo 20.000 uomini riuscirono a riattraversare, il 18 dicembre, il Niemen. Napoleone, scoprendosi vulnerabile, anticipò il suo rientro in Francia per contenere il malcontento che si diffondeva e per una veloce riorganizzazione dell’esercito in vista di prevedibili prossimi scontri.

Lo zar, confortato dall’aver allontanato Napoleone dalla Russia, con l’apporto di Inghilterra e Prussia (VI coalizione), quest’ultima all’insegna della guerra di liberazione dei popoli germanici, puntò ad estrometterlo dall’Europa, costringendolo ad una guerra difensiva. Napoleone che aveva ricostituito un esercito giovane ma carente di addestramento, pur avendo riportato qualche iniziale successo (maggio 1813) a Lutzen, Bautzen e Wurtchen, venne raggiunto dal principe Metternich, inviato di Francesco I che, in conflitto con se stesso, pur non avendo partecipato alla guerra per il legame della figlia con Napoleone, aspirava a sottrarsi al condizionamento francese. Metternich, in un tempestoso colloquio, esigeva la concessione di un armistizio offrendo, anche per conto di Prussia e Russia, una pace che avrebbe previsto il ripristino della situazione territoriale fissata con la pace di Campoformio. Offerta che Napoleone respinse, inducendo l’Austria, assieme alla Svezia (27), a scendere in campo a fianco delle nazioni della VI coalizione. Napoleone, dopo un iniziale successo a Dresda (27 agosto 1813), venne sconfitto a Lipsia (16-18 ottobre 1813), riuscendo tuttavia a sottrarsi all’accerchiamento e rientrare in Francia mentre gli eserciti stranieri, giunti ormai sul Reno, rifiutarono l’offerta di pace avanzata Napoleone e mirante al riconoscimento della dinastia dei Bonaparte in una Francia ristretta ai suoi confini naturali. Alla fine di dicembre 1813, gli alleati entrarono sul territorio di una Francia gravata dagli oneri che le guerre avevano richiesto e non più incline ad assecondare l’ambizione di potere di Napoleone che fallì nei tentativi di contenimento delle armate avversarie e, consapevole di non riuscire ad anticiparle nella marcia verso Parigi, ripiegò su Fontainebleau, dove il 4 aprile 1814 fu costretto dai suoi stessi marescialli ad abdicare in favore del figlio (Napoleone II; nota 26), estromesso due giorni dopo (6 aprile) dal Governo provvisorio, che, imposto dagli alleati giunti a Parigi (31 marzo), obbligò Napoleone a rinunciare alla corona per se e per i suoi discendenti.

Restava per Napoleone il titolo di imperatore e la sovranità, sotto sorveglianza inglese, dell’isola d’Elba dove giunse camuffato per sottrarsi all’ira dei francesi, nel maggio 1814. La moglie Maria Luisa si assoggettava alla protezione del padre Francesco I mentre a Parigi si installava il nuovo sovrano Luigi XVIII della dinasta Borbone, fratello minore di Luigi XVI.

Il Trattato di Parigi (maggio 1814) riconosceva alla Francia i confini del 1792 con l’aggiunta di Avignone, rimandando le altre questioni al Congresso che si sarebbe tenuto a Vienna a partire dall’ottobre successivo. Intanto nelle regioni italiane di Piemonte e Toscana venivano restaurati gli antichi sovrani.

A Vienna (1 ottobre 1814) si apriva il Congresso internazionale che doveva dare un nuovo assetto all’Europa post-napoleonica e che si concluse il 9 giugno 1815 (v. seguito), nove giorni prima della definitiva sconfitta di Napoleone.
Dall’Elba, Napoleone, il 28 febbraio 1814 era riuscito ad eludere la sorveglianza ed a raggiungere, con cinquecento uomini, la Francia (Frejus, 1 marzo 1815) di nuovo disposta a sostenerlo al punto che i contingenti, inviati dal Luigi XVIII, anziché contrastarlo, si univano a lui. Il 20 marzo giunse a Parigi da dove il re era fuggito per rifugiarsi in Belgio. Nei cento giorni di potere, oltre ad assumere decisioni di rilevanza politica con l’Atto addizionale alle costituzioni dell’Impero, riuscì a riorganizzare l’esercito ed a muovere contro tutte le potenze europee che, deciso l’intervento armato congiunto fin dalla notizia della sua fuga, dopo aver ceduto a Ligny con l’esercito prussiano di Blucher, lo sconfissero definitivamente, 18 giugno 1815, a Waterloo in una battaglia in cui l’inefficienza di alcuni marescialli francesi consentì alle truppe prussiane di ricongiungersi con quelle inglesi di Wellington e sopraffare i francesi.
Il 15 luglio 1815, Napoleone che aveva ricevuto una proposta di fuga negli Stati Uniti, vanificata dalla sorveglianza inglese, sulla nave inglese Bellerofont firmò la sua resa e raggiunse l’esilio nell’isola di S.Elena dove sopravvisse fino al 5 maggio 1821.


Il Regno di Napoli sotto il  dominio napoleonico

Dopo la descrizione dei quindici anni di articolati eventi che avevano coinvolto le nazioni europee, viene di seguito illustrato come lo stesso periodo fu vissuto nelle regioni del meridione d’Italia.

Napoleone, irritato per la partecipazione del Regno di Napoli nella guerra d’inverno del 1801, diede mandato al generale Murat di stabilirsi con una armata nei territori vaticani. Murat, dopo assicurato rispetto al Papa, rivelò intenzioni non amichevoli nei riguardi del contingente napoletano di stanza in Roma  al cui comandante Damas ingiunse di sgombrare subito lo Stato Vaticano ed al re di Napoli di interdire i porti del Regno alle navi inglesi. Con la mediazione dall’ambasciatore russo si pervenne ad un compromesso gravoso per la corte di Napoli (28).
Esso prevedeva che, a fronte della protezione russa e francese in caso di aggressione, le milizie napoletane sgomberassero lo Stato Vaticano, i porti fossero interdetti agli inglesi, si rinunciasse a tutti i possedimenti in Toscana e fosse accordato ai fuoriusciti napoletani libero rientro con la promessa di restituzione dei beni.
Nel 1802, Murat andò in visita a Napoli dove ricevette onori e doni dal reggente, principe Francesco e dopo che il Regno fu sgomberato da tutte le milizie straniere che avevano contribuito alla caduta della Repubblica Partenopea, rientrarono festeggiati a Napoli, il re Ferdinando IV da Palermo (metà del 1802) e, dalla corte di Vienna, la regina Maria Carolina, i cui intrighi erano ben noti a Napoleone. (29)

Il comandante delle truppe francesi di stanza nel regno di Napoli, Saint-Cyr, era stato allertato a predisporsi per una azione offensiva di conquista e mantenimento del Regno o, se assalito, a tagliare al nemico la via verso il Po. Allorché gli giunse l’ordine di portare le sue truppe al di fuori del regno, quale contropartita per il trattato di amicizia che, concluso a Parigi (21 settembre e ratificato il 9 ottobre 1805), impegnava il re di Napoli alla neutralità in ogni azione di guerra in cui era impegnata la Francia ed al divieto di stanza sul territorio e di accesso ai porti di truppe o navi appartenenti a nazioni in conflitto con la Francia. In larghi strati della popolazione non si era ancora spenta la soddisfazione per questo trattato che riportava la pace e liberava il regno dalla gravosa presenza del contingente straniero, che Ferdinando IV stringeva a Vienna (26 ottobre 1805) un patto di alleanza con le nazioni dello schieramento antifrancese della III coalizione. Conseguenza del quale, in novembre, mentre le armate francesi, occupata Vienna, conseguivano i successi descritti e pervenivano alla pace di Presburgo, giunsero nei porti e sul territorio del Regno di Napoli truppe russe ed inglesi che, nello sconcerto dell’ambasciatore francese che lasciava Napoli, si installavano sulle frontiere, pronte ad entrare negli stati italiani controllati dalla Francia.

Napoleone, che pur aveva tenuto in così poco conto la partecipazione del regno di Napoli alla III coalizione, irritato per lo sleale comportamento del re di Napoli, ingiungeva alle armate di Saint-Cyr e del maresciallo Massena, a cui si era aggregato il luogotenente dell’impero, Giuseppe Bonaparte, di dirigersi verso i territori del Regno di Napoli. Evento che mise i comandanti russi ed inglesi delle truppe schierate all’interno del Regno nella problematica scelta se impostare una azione di difesa o ritirarsi lasciando al suo destino il Regno stesso. Essendo prevalsa quest’ultima soluzione, Ferdinando non vide altra possibilità che riparare di nuovo in Sicilia, lasciando in qualità di vicario (23 gennaio 1806) lo smarrito principe ereditario Francesco, al quale non restava altra scelta che denunciare la vile aggressione straniera e nominare un consiglio di reggenza (30) prima di lasciare Napoli.

Così come fece la combattiva regina, ma dopo aver affidato al generale Damas ed all’inutile presenza dei figli Francesco e Leopoldo la linea di difesa, individuata sulle impervie alture di Campotenese (in Basilicata,) ed essersi appellata, memore delle vicende legate alla caduta della Repubblica Partenopea, agli stessi personaggi di quella stagione ed all’amore del popolo che, in quella stagione, aveva avuto un ruolo determinante. Ma il popolo, memore della spietata repressione usata dai sovrani in quell’occasione, rimase indifferente al richiamo ed anche la plebe, volitiva e minacciosa, ma cautamente controllata dai partigiani del cambiamento, non trovò modo di sfogare i propri istinti sui funzionari borbonici, già dileguati.

Il maresciallo Massena, prima di dare avvio ad azioni di guerra, raccomandò ai soldati il rispetto del popolo e Giuseppe emanò un bando dove, con la denuncia del tradimento degli accordi stipulati da parte di Ferdinando IV, rassicurava il popolo circa l’amichevole comportamento dei soldati francesi. Il consistente esercito francese avanzò verso Napoli, senza conquistare le fortezze di Pescara, Civitella, Capua e Gaeta. Gli ambasciatori, inviati a Giuseppe Bonaparte dal consiglio di reggenza con la richiesta di un armistizio, ricevettero l’ingiunzione di aprire le porte della città o di

---farsi carico del sangue che sarebbe stato inutilmente versato. Gli stessi ambasciatori non poterono che concordare il libero ingresso in città e la consegna delle fortezze . Il consiglio di reggenza, preoccupato per le manifeste contrapposizioni tra gruppi di lazzari (*)(**), assemblati e decisi alla resistenza, e gruppi di partigiani francesi, decisi a mantenere l’ordine, emanò un decreto di accoglienza delle richieste francesi con l’invito alla quiete.
Il 14 febbraio 1806 entrarono a Napoli le truppe francesi guidate dal luogotenente Giuseppe, verso cui l’animo della gente era agitato da contrastanti sentimenti. Ma l’incanto della potenza e della fortuna dei Bonaparte faceva sperare ai moderati che l’instaurazione di una dinastia legata alla rivoluzione rappresentasse la migliore garanzia contro il ritorno dei Borboni.

- Il regno di Giuseppe Bonaparte (1806-1808) (33)

Prima ancora di provvedere al governo, Giuseppe, che aveva acquisito le fortezze, a parte Gaeta (nota 32), ed occupato le isole di Capri, Ischia e Procida, dispose di inviare consistenti milizie guidate dal generale Reynier a contrastare in Calabria lo schieramento dell’esercito Borbonico di Damas che, non sorretto dal sostegno del popolo, venne facilmente messo in fuga verso le spiagge d’imbarco per la Sicilia, lasciando al controllo francese tutta la Calabria, a parte le fortificate Maratea, Amantea e Scilla che verranno successivamente assediate ed acquisite.

Fu costituito un governo che, composto da quattro napoletani di fede monarchica, tra cui il magistrato Cianculli (nota 30) e due francesi, uno moderato al ministero per la guerra e l’altro, il giacobino Saliceti , al ministero della polizia. Scelta che suscitò la perplessità dei patrioti per il loro mancato coinvolgimento. Quindi mentre si avviavano norme volte a rifondare il Regno, dotandolo di una efficiente organizzazione , Giuseppe in aprile si mise in viaggio per le regioni del sud (Calabria e Puglia), coll’intento di conquistare quel popolo che lo accolse con manifestazioni di gioia e, durante il quale, a Reggio, lo raggiunse il decreto che gli conferiva la corona del Regno di Napoli e Sicilia.

Non si erano ancora spenti, al suo rientro a Napoli (11 maggio 1806), gli echi dei festeggiamenti per l’investitura, che la flotta inglese riuscì ad operare una improvvisa escursione conquistando l’isola di Capri e successivamente Ponza, mentre in altre province (Basilicata, Molise, Abruzzo e Puglie) si accendevano focolai di sommossa fomentate da bande borboniche. A Palermo re Ferdinando aveva affidato ad un contingente inglese ed a vecchi suoi capibanda Sciarpa e Fra Diavolo l’impresa di sbarcare in Calabria, scelta quale comoda base operativa per rinnovare l’impresa del 1799 (**) o quanto meno per difendere la Sicilia dal rischio di uno sbarco francese.

A fine maggio piccole bande sbarcarono a Pellaro ed Amantea per dirigersi verso la Basilicata e la Puglia sollecitando la popolazione alla rivolta. A S.Eufemia sbarcò un contingente inglese che, guidato dal generale Steward sconfisse duramente a Maida quello francese di Reynier, dando un segnale di rivolta ad alcuni centri (Marcellinara) che attaccono il contingente francese, in ritirata verso Nicastro e Tirolo e diretto per acquartierarsi a Catanzaro, da dove uscì per escursioni di rappresaglia contro comunità ostili (S.Giovanni in Fiore). Considerata la situazione, il comandante francese Massena ritenne opportuno far rientrare il contingente dalla Calabria ed, ultimato l’assedio di Gaeta, egli stesso, a fine luglio, si mise a capo di una spedizione che si diresse per cingere la Calabria in un assedio che, per conquistare le città fortezze e per venire a capo di una guerra civile alimentata dai contadini e costantemente sostenuta da Ferdinando IV, si protrasse per oltre due anni. E, nonostante la raccomandazione di re Giuseppe volta a non infierire sulle comunità, furono ugualmente operati gravi abusi in varie località della Calabria e Basilicata, in cui i comportamenti degli abitanti non possono giustificare gli incendi, i saccheggi, le violenze, le carcerazioni e le fucilazioni da esse patite. Ad incominciare da Lauria, Lagonegro, Cammerota e Sora incendiate e saccheggiate, mentre altri borghi, più cautamente accolsero i francesi con segni di amicizia. Altre cittadine, quali Maratea, Amantea e Crotone, vissero travagliati assedi. Maratea caduta dopo un breve assedio fu messa a sacco, Amantea, difesa dalle truppe di colonnello Rodolfo Mirabelli, oppose cinque mesi di accanita resistenza prima di capitolare (febbraio 1807). Crotone, occupata dai francesi nel gennaio 1807, fu rioccupata da truppe borboniche il 27 maggio per essere definitivamente conquistata dai francesi a metà luglio, mentre i cittadini di sentimenti antifrancesi riuscirono ad imbarcarsi per la Sicilia. Reggio e Scilla, basi per incursioni contro i francesi, furono conquistate per ultime dal generale Reynier (febbraio 1808) . (36)

Travolta ogni resistenza armata, prese avvio la stagione dei processi (37) le cui crudeltà incentivarono per un verso l’opposizione clandestina e, per l’altro, spinsero i francesi ad applicare esemplari sanzioni anche a personaggi di potere e della nobiltà. Dilagò il fenomeno del brigantaggio (38), incapace comunque di intaccare il nuovo regime che poté assicurare al regno una parentesi di buon governo.

Giuseppe intanto, prendendo a modello l’amministrazione francese (39) e con la mentalità paternalistica del sovrano illuminato, aveva scelto una serie di efficienti collaboratori democratici e, con il loro apporto, aveva dato avvio ad una serie di norme radicali di ricomposizione dell’assetto economico, sociale e proprietario che, purtroppo, restarono praticamente irrealizzate in quanto lo stato amministrativo e burocratico del Regno ne impediva gli effetti o l’applicazione.

A cominciare dalla legge del 2 agosto 1806 di eversione della feudalità, un mirabile esempio innovativo di trasformazione in senso capitalistico della proprietà fondiaria su cui si basava il potere della nobiltà la quale risultò scossa ma non abbattuta in quanto, pur conservando i titoli, veniva privata dai privilegi. Il re successore, Murat, dovette infatti intervenire per completare l’opera avviata. Erano infatti emersi limiti di applicazione delle norme emanate che, benché fossero stati regolati da una nuova legge (1 settembre 1806) di divisione delle terre demaniali, non venne chiarito che l’assegnazione delle terre demaniali doveva favorire tutti gli strati sociali e non quelli economicamente più forti. Sorsero pertanto una serie di contese la cui soluzione, con le regole vigenti, avrebbe comportato procedimenti lunghissimi. Per correggerne la funzionalità, l’applicazione delle norme fu affidata ad una commissione feudale che, tuttavia, non riuscì ad evitare che gran parte delle terre finisse col rafforzare le classi abbienti, aristocratici borghesi e funzionari di corte, lasciando inalterata la condizione delle masse contadine. Situazione che si ripeté con la vendita, a beneficio dello Stato, dei beni ecclesiastici. Ad ogni modo alla legge va riconosciuto il pregio di aver affiancato la vecchia baronia con una classe di proprietari borghesi che avrebbe potuto contribuire a rendere più dinamica l’economia stagnante del tempo.

Fu riordinata la finanza, abolendo le ineguali contribuzioni dirette ed imponendo un tributo sui poderi rustici ed urbani che veniva ad eliminare ogni favore riservato alle terre regie, feudali ed ecclesiastiche. Si diede avvio (1806) alla compilazione di un catasto che fu interrotta nel 1818.

In ambito giudiziario, furono adottati i codici napoleonici (nota 13) ed istituiti nuovi tribunali di otto giudici che giudicavano inappellabilmente i delitti di Stato ed, eliminate le vecchie procedure, si diede avvio al processo dibattimentale che attrasse il popolo e lo avviò alla comprensione delle leggi.

Fu migliorata l’istruzione pubblica, sottraendo al clero la gestione delle scuole e con la prescrizione che in ogni città e borgo operassero maestri e maestre per una istruzione accessibile a tutti. Vennero fondate scuole speciali (di belle arti, musica, accademie militari, di storia e di antichità), collegi privati vigilati nei metodi e premiati nei successi e sviluppati i licei ed accademie.

Anche a livello urbanistico furono operati miglioramenti nella viabilità ed abbellimenti strutturali a Napoli che fu dotata di illuminazione notturna, iniziativa imitata in altre città del regno.
Nell’ambito dei costumi, fu vietato il gioco d’azzardo privato, permettendo quello pubblico con beneficio per il fisco, censite e controllate le prostitute a cui fu concessa la pratica con il pagamento di un contributo mensile.
Fu dato impulso agli scavi di Pompei.

Nel maggio 1808 Giuseppe lasciò Napoli e, dopo circa un mese, emanò per il Regno delle Due Sicilie, lo Statuto di Bajona (20 giugno) garantito dall’imperatore Napoleone. Esso era composto da 11 capi che riguardavano la religione, la corona, le istituzioni, il parlamento , l’ordine giudiziario e l’amministrazione.
Con la pubblicazione dello Statuto, Giuseppe annunciava il passaggio ad altro regno e, con un decreto, Napoleone nominava (15 luglio 1808) il cognato Gioacchino Murat, re di Napoli e Sicilia con il nome di Gioacchino Napoleone.

- Il regno di Gioacchino Murat (1808-1814) (41)

Gioacchino Murat (1767-1815), nato a Labastide (regione dei Pirenei) di modeste origini fu avviato inizialmente alla carriera ecclesiastica ma nel 1787 lasciò il seminario per arruolarsi tra i cacciatori a cavallo divenendo ufficiale (1783) e stretto collaboratore di Napoleone in qualità di aiutante di campo (nota 6) e sposo della sorella Carolina (1800). Nel 1805 ricevette i principati di Berg e Cleves. Partecipò a tutte le campagne Napoleoniche, in particolare alla conquista della Spagna ed alle campagne di Italia, Russia ed alla sconfitta di Lipsia. Di aspetto attraente, imponente nella figura ed accattivante nell’approccio, di indole guerriera era definito l’Achille di Francia perché prode ed invulnerabile. Era impaziente negli affari di stato. Morì giustiziato a Pizzo (v. seguito)

Gioacchino, d’atteggiamento più regale rispetto a Giuseppe, da questi non si discostò nella linea di governo che fu caratterizzata da un maggior dinamismo, in linea con un personaggio più d’armi più di governo ma animato da ambizione e da uno spirito d’indipendenza che lo portarono a collidere più volte con gli interessi di Napoleone.
Fece il suo ingresso a Napoli ai primi di settembre 1808 superbamente vestito da militare ed, ultimati i festeggiamenti di accoglienza anche per la moglie Carolina che giunse subito dopo, diede disposizioni d’immagine a sostegno di militari e di vedove ed orfani della milizia napoletana, aumentò gli onori ai cappellani di S.Gennaro, fondò istituzioni a carattere educativo. Quindi, con la collaborazione di efficienti ministri tra cui il marchese del Gallo, il conte Zurlo e Francesco Ricciardi, rispettivamente agli esteri, interni e giustizia, intraprese iniziative strutturali rimuovendo gli ostacoli che intralciavano l’applicazione dei nuovi codici e delle disposizioni relative a feudalità ed a riordino amministrativo emanate da Giuseppe. Diede un definitivo assetto all’amministrazione delle province e nominò un corpo di ingegneri per migliorare la pubblica viabilità (42). Revocò lo stato di guerra in una Calabria ormai pacificata, senza peraltro concedere, nel timore che potessero rigenerare nuovi disordini, l’immediato ritorno agli imprigionati nelle galere francesi.

Riorganizzò, impiegando personali risorse, la milizia e la marina da guerra, di cui si magnificavano orgogliosamente le imprese, costituendo due nuovi reggimenti di veliti e stabilendo regole per la coscrizione obbligatoria (43) che eliminavano le esenzioni di privilegio.
Si dedicò quindi a perseguire la grandezza del Regno ed a tal fine, con uno sbarco notturno in uno dei luoghi più impervi dell’isola di Capri, realizzò l’impresa di sottrarla al controllo inglese, il cui comandante, colonnello Lowe, alimentava l’opposizione antifrancese sulla terraferma. Napoleone non gradì l’impresa realizzata al di fuori del suo controllo e fu il primo motivo di contrasto e di disagio per Murat che non intendeva svolgere il ruolo di luogotenente e vassallo dell’impero.

Tra il giugno 1809 ed il marzo dell’anno successivo, mentre il contingente napoletano era impiegato in altri scenari di guerra, dovette contrastare due tentativi di aggressione da parte di contingenti siciliani appoggiati dagli inglesi.
Nel primo tentativo (giugno 1809) una flotta anglo-sicula, dopo aver effettuato nella Calabria tirrenica (Palmi) uno sbarco di truppe che andò a cingere d’assedio Scilla e di briganti che battevano le campagne, giunse nel golfo di Napoli, occupando Procida ed Ischia. La flotta aggressore fu contrastata da quella napoletana di Bausan e Giovanni Caracciolo ed in agosto, a seguito dell’arrivo della notizia della vittoria di Napoleone a Wagram (luglio 1809), si ritirò dalle isole occupate e tolse l’assedio a Scilla.
Il secondo tentativo di aggressione si verificò nell’aprile 1810, allorché una flottiglia inglese comandata da Brenton, presentatasi nelle acque di Napoli, fu contrastata aspramente e respinta da una comandata da Ramatuelle.

Rimaneva attiva la guerra interna condotta da bande di briganti che battevano le province di Puglia, Basilicata e Calabria. Gioacchino per contrastarle dislocò truppe a Lagonegro e Monteleone e, richiamato da Roma il ministro della polizia Saliceti (nota 34) per garantire l’applicazione di leggi speciali. Queste, tra l’altro, prevedevano la compilazione di liste provinciali di briganti, con facoltà per i cittadini di arresto o uccisione, la incarcerazione delle loro famiglie e la confisca dei beni. Non soddisfatto dei risultati della lotta al brigantaggio, decise di conferire pieni poteri al giovane generale Manhes che, dall’ottobre 1810, in pochi mesi, agendo con risolutezza, spietatezza ed atrocità, peggiori di quelle verificatesi sotto il regno di Giuseppe, riuscì a ripulire le province di tutti i briganti e dei loro favoreggiatori (44), tanto che quelli possono essere ritenuti i soli anni in cui il Regno non fu infestato da alcun malfattore.

Nel maggio dello stesso anno (1810) Gioacchino, di ritorno dalla cerimonia di matrimonio di Napoleone, in vista di una operazione di invasione della Sicilia, concentrò due divisioni francesi ed una napoletana accanto ad una consistente flotta nell’estremo lembo della Calabria, tra Reggio e Scilla. Qui rimase per circa tre mesi ad impegnare in un susseguirsi di scontri la flotta inglese disposta sulle coste siciliane, tra Messina e Torre del Faro. Il comando supremo era affidato al generale Grenier che riceveva riservati dispacci direttamente da Napoleone, interessato ad una strategia tesa a tenere impegnata la flotta inglese piuttosto che ad una problematica conquista dell’isola (45).
In settembre Murat, desideroso di conquistare quella parte di regno di cui era solo nominalmente titolare, nonostante il diverso parere dei generali, decise di attuare lo sbarco in Sicilia con la divisione napoletana comandata da Cavaignac che, non sostenuto nell’azione dalle divisioni francesi, si vide costretto ad una immediata ritirata, abbandonando nell’isola materiale ed uomini. Gioacchino indispettito per il fallimento dell’operazione causata dal disimpegno francese, diede ordine di smontare il campo e si diresse a Pizzo dove si imbarcò per Napoli, tra entusiastiche manifestazioni popolari che gli fornirono probabilmente una sensazione di cui, da qui a cinque anni, ne avrebbe constatato amaramente la illusorietà.

La rinuncia all’impresa fu un nuovo motivo di contrasto tra Gioacchino e Napoleone che si rinnovò allorché, Gioacchino, rientrato anzitempo dai festeggiamenti per la nascita del figlio di Napoleone (marzo 1811), decretò che nessun straniero, privo di cittadinanza del Regno di Napoli potesse assumere mansioni militari o civili. Napoleone rispose con decreto imperiale che, per tali mansioni, ai francesi come Murat, non necessitava la cittadinanza napoletana. Decreto che, pur suscitando le ire di Murat, finì col prevalere, per il consenso pacificatorio della regina e per la controversa accoglienza a corte, consentendo ai francesi residenti di essere assorbiti dalle strutture dello stato mentre l’esercito francese era obbligato ad uscire dal territorio del Regno.

Nella campagna di Russia in cui Napoleone affidò a Gioacchino il comando della poderosa cavalleria, questi brillò per prudenza e valore tanto da riceverne l’elogio. Ma mentre l’impero Napoleonico dava segni di sfaldamento, Gioacchino, nel corso della ritirata, abbandonò (Posen, gennaio 1813) il comando supremo dell’armata affidatogli da Napoleone (che aveva anticipato il rientro in Francia) per trasferirlo al principe Eugenio di Beauharnais (nota 10) e rientrare a Napoli, suscitando un aspro conflitto con Napoleone da cui rivendicò desiderio di indipendenza . (46)
In tale situazione di conflitto, un Gioacchino desideroso di soddisfare la propria ambizione, rivolse l’attenzione all’Italia ed, accostandosi al sentimento di unità che incominciava a coinvolgere larghi settori della popolazione, sembrò offrire speranze alle aspirazioni patriottiche che venivano cullate all’interno delle sette , tra cui la Carboneria. Questa, diffidente di Gioacchino per non aver applicato lo statuto di Bajona e per aver perseguitato affiliati calabresi nel corso della lotta al banditismo condotta da Manhes, era invece piuttosto allettata dalle offerte del plenipotenziario inglese in Sicilia, lord Bentinck, che aveva fatto emanare in Sicilia una Costituzione liberale (v. seguito).

Quando ormai si profilava la caduta di Napoleone, nel tentativo di conservare il regno, Gioacchino assunse una posizione di distacco, avviando segrete trattative con Austria ed Inghilterra (48), oscillando tra le lusinghe austro-inglesi e le sollecitazioni francesi, tra cui quelle della moglie, che lo mettevano in guardia dalla non partecipazione alla guerra accanto a Napoleone. E quando si avviò lo scontro con le forze della VI coalizione (ottobre 1813), assillato dalle conseguenze che ne sarebbero derivate da una vittoria di Napoleone e mosso da un sentimento di lealtà, con scarso acume politico, lasciò il prosieguo dei contatti alla moglie, andando a porsi validamente a fianco di Napoleone ma generando sentimenti di diffidenza in entrambe le parti.

Dopo la sconfitta di Lipsia (ottobre 1813), allorché le sorti dell’impero precipitavano, Giacchino, dopo aver preso, ad Erfurt l’ultimo fraterno e commosso commiato da Napoleone, lasciò il campo francese. L’11 gennaio 1814, concluse un trattato di alleanza con l’Austria (per conto della quale trattava il generale Neipperg; n. 26) che prevedeva la sua conferma sul trono di Napoli con vantaggi territoriali a scapito dello Stato Vaticano a fronte dell’abbandono di pretese sulla Sicilia del Borbone. Questi sarebbe stato diversamente indennizzato per la perdita di Napoli. Il trattato impegnava Murat a partecipare alle operazioni di guerra contro la Francia. Nello stesso mese di gennaio stipulò, tramite Bentinck, un armistizio ed accordi commerciali anche con la diffidente Inghilterra. Per tener fede al trattato sottoscritto con l’Austria, ma senza una dichiarata e piuttosto ambigua scelta di campo, dislocò, tra Roma ed Ancona, due legioni, guardate con sospetto e vigilanza dai generali francesi che le ritenevano alleate, e non strategicamente collegate col generale austriaco Bellegarde e con quello inglese Bentinck .
Si rivolse quindi contro il Regno d’Italia, collegato alla Francia e, volendo evitare lo scontro con le truppe francesi presenti a Castel S.Angelo e Civitavecchia, andò ad occupare la Toscana per poi scontrarsi con l’incerto viceré Eugenio (50), ormai solo a contrastare nello scenario di guerra italiano anche il dilagare dell’esercito austriaco dalla Dalmazia al Veneto. Il 15 aprile 1814 il generale Bellegarde divulgava gli esiti della guerra in Europa e la sospensione delle ostilità, notizia che suscitò profondo turbamento in Murat.

Nel corso dei negoziati di Parigi (maggio 1814), circa l’attribuzione del regno di Napoli, era in atto tra i partecipanti una discussione in cui gli austriaci, in virtù del trattato di pace del gennaio 1814 peraltro svuotatosi di contenuto politico dopo la caduta di Napoleone, sostenevano le ragioni di Murat. Ragioni avversate invece dalla Francia di Luigi XVIII rappresentata da Tayllerand (51) e da Russia ed Inghilterra che auspicavano il ritorno sul trono di Napoli del re Borbone.

La questione, rimandata al congresso di Vienna che si sarebbe aperto in ottobre (1814), sarebbe stata poi risolta dalla decisione di Murat di sconfessare (marzo 1815) il trattato con l’Austria.

Murat infatti, non confidando nel sostegno austriaco al Congresso di Vienna dove i suoi ministri erano stati male accetti e sentendosi circondato ovunque in Italia da diffidenze, ritenne di dover fare affidamento solo sulle proprie forze e di porsi a paladino della indipendenza italiana. Con tale obiettivo avanzanò (marzo 1815) con forze non rilevanti ma con rapidità, verso la Romagna dove, il 30 marzo 1815 da Rimini, rotta l’alleanza con l’Austria a cui dichiarava guerra, lanciò un proclama, elaborato da Pellegrino Rossi (52) . Con questo egli prometteva di dare all’Italia un ordinamento costituzionale ed incitava gli italiani a conquistare l’indipendenza sollevandosi contro la dominazione austriaca. Un invito che oltre a non trovare adeguate risposte tra le masse, ebbe il solo effetto di aumentare lo sdegno nei suoi confronti dei delegati riuniti a Vienna e lo stesso Napoleone (rientrato dall’Elba a Parigi) biasimò le incaute iniziative di Murat. Il quale, ormai lanciato nella sua azione, si aggregò le Marche e progredì nella sua avanzata fino a Ferrara, inducendo l’Inghilterra, tramite lord Bentinck, ad accusarlo di aver rotto senza motivo l’alleanza con l’Austria ed a schierarsi (5 aprile 1815) a fianco di quest’ultima. Scelta che causò il tracollo delle aspettative di Murat. Egli comunque dispose su un lungo arco di fronte, senza seconde linee né riserve, un esercito ormai in preda allo sconforto e decimato dalle defezioni. L’esercito tedesco frattanto si infoltiva sulla riva sinistra del Po ed inevitabilmente, con l’apporto degli anglo-siciliani, il 3 maggio 1815 fermava Murat a Tolentino, nei pressi di Macerata.

Con l’esercito napoletano in rotta, dal nord gli austriaci a cui si era aggregato il principe Borbone don Leopoldo e dal sud i siciliani invadevano le province del regno, mentre a Napoli la flotta del commodoro inglese Campbell intimava la consegna dell’arsenale navale ed ospitava sulla nave la Regina Carolina (53) per trattare la pace con l’Inghilterra.
Malgrado il suo potere fosse al collasso, Gioacchino tentò ancora. E, facendo ricorso ad una residua risorsa per rianimare il consenso, inviò a Napoli una Costituzione (pubblicata il 12 maggio) (54). Verificatane l’inutilità, incaricò i suoi emissari, generali Carascosa e Colletta a trattare la resa (di Casa Lanza, 20 maggio) con gli austriaci Bianchi e Neipperg (nota 26) sulla base della restaurazione sul trono di Ferdinando IV e del mantenimento delle istituzioni esistenti e delle norme emanate nel decennio napoleonico.

Murat partì da Pozzuoli per Ischia, da qui per la Francia dove giunse a Frejus il 28 marzo.

- Tentativo di Murat di riconquistare il regno

In Francia Murat stressato da due anni di dubbi e di ansie, respinto dal cognato (ancora a Parigi) irritato per l’abbandono dell’anno precedente, si trovò in grave difficoltà, accresciute con la notizia della sconfitta di Waterloo e con i manifestanti antimperialisti che si erano messi sulle sue tracce. Non più protetto da amici e risultata vana la ricerca di un approdo protetto in Inghilterra o nella stessa Francia (55) , da semplice cittadino rispettoso delle leggi, decise di raggiungere la Corsica che trovò dilaniata da lotte fra fautori del Borbone di Francia, bonapartisti ed indipendentisti. Murat si ritirò a Vescovato presso il generale Franceschetti, suo aiutante di campo dove maturò il desiderio di abbandonare l’isola e di operare, richiamandosi al suo onore di soldato, un tentativo di riconquista del regno perduto. Da qui la decisione di organizzare una spedizione che, il 28 settembre 1815, con sei imbarcazioni e duecentocinquanta uomini salpò dalla Corsica con l’intento di sbarcare nel Cilento dove, contando su molti e risoluti sostenitori ex militanti del suo esercito (56) , pensava si innescare un moto di ribellione antiborbonico delle masse contadine. Dopo giorni di tranquilla navigazione, una tempesta disperse la flottiglia e Gioacchino si trovò nel golfo di S. Eufemia con tre imbarcazioni. Due uomini scesi a terra in cerca di informazioni furono arrestati e due imbarcazioni comandate da un certo Curaud lo abbandonarono. Quegli eventi lo sconfortarono al limite della rinuncia, quindi esasperato dalle pretese del comandante del vascello Barbarà (57), decise di sbarcare ugualmente (8 ottobre) a Pizzo con ventotto uomini e di là avviare l’impresa.

La piazza del paese, gremita per il giorno di festa, accolse con sorpresa la piccola schiera guidata da Murat che, disorientato per la fredda accoglienza, sconsigliato da alcuni ed affiancato da tre suoi ex veliti, si diresse speranzoso verso il vicino capoluogo Monteleone, mentre il capitano Trentacapilli, di antica e solerte fede borbonica, composta una improvvisata schiera che via via si ingrossava, inseguì ed assalì con colpi di archibugio il drappello di Murat. Questi, con la decisione di non reagire, incrementò la foga degli assalitori i quali preclusero ogni via di fuga se non quella del mare che Murat ed i suoi raggiunsero, attraverso un ripido precipizio, in tempo per vedere il vascello di Barbarà veleggiare verso il largo, portandosi via le ricche riserve che avrebbero dovuto finanziare l’impresa. Il tentativo di utilizzare una barca a secco sulla spiaggia consentì alla schiera di Trantacapilli di raggiungere il drappello di Murat che, trattenuto, oltraggiato, ferito in volto da uno zoccolo scagliato da una popolana, fu imprigionato nel castello-fortezza aragonese .(58)

Il comandante della Calabria, generale Nunziante, inviò a Pizzo dapprima un manipolo di soldati guidati dal capitano Stratti che trattò con deferenza l’ex re, quindi, da Napoli, fu inviato con pieni poteri in Calabria il principe di Canosa, uno sperimentato strumento di tirannia, per prevenire ogni azione dei murattiani. Il 12 ottobre arrivò l’ordine governativo di istituire un tribunale (59) composto da sette giudici.
Il 13 ottobre 1815, ascoltata con freddezza la sentenza, fu condotto in un recinto della fortezza dove era schierata una squadra per la fucilazione. Rifiutò la benda agli occhi e pregò si salvaguardare il viso.
I suoi resti giacciono indistinti nella fossa comune della Chiesa Madre di Pizzo.

La Sicilia e la Sardegna nel periodo napoleonico

Le due grandi isole restarono al di fuori del sistema napoleonico.

- La Sicilia

La parentesi siciliana del secondo soggiorno obbligato di Ferdinando IV e della sua corte (1806-1815) si caratterizzò non tanto per sue iniziative amministrative dirette quanto per il condizionamento che su di esse esercitò la presenza degli inglesi, i quali, chiamati da Ferdinando per il controllo dell’isola, si erano installati nei punti strategici, impedendo al governo napoleonico di Napoli ogni interferenza e prevenendo azioni di serio pericolo.

Il ritorno della corte a Palermo fu inizialmente accolto con favore ed anche la presenza di un forte esercito straniero che portava nell’isola una prosperità sconosciuta da secoli contribuì a dare impulso alle attività commerciali favorendo le esportazioni di vini ed alimenti che venivano scortate e garantite contro la pirateria. Ma la conduzione del governo, affidata ad elementi napoletani malvisti dai siciliani, perché incapaci di uniformarsi alle loro aspettative, ed il sorgere di un’inflazione causata dalle enormi risorse dissipate per incentivare la guerriglia antifrancese nelle regioni continentali del regno di Napoli, provocò contrasti, fra corona e parlamento.Essi esplosero nel 1811 allorché il re chiese, per alimentare le sue scelte, una contribuzione straordinaria. Questa fu negata dal parlamento la cui componente nobiliare, guidata dal principe di Belmonte, un aristocratico di talento, pur di mettere in difficoltà la monarchia, si rese disponibile a rinunciare ai privilegi fiscali ed accettare la proporzionalità delle imposte. Ferdinando, non volendo utilizzare in maniera più consistente il contributo che riceveva dagli inglesi nel timore di essere ancor più condizionato, reagì con decreti fiscali (tassa dell’1% su tutti i pagamenti, istituzione di una lotteria ed acquisizione di proprietà della Chiesa) emanati d’autorità, premendo sulla Deputazione (*) per l’approvazione ed incarcerando gli esponenti più ostili della nobiltà (i principi di Belmonte, di Castelnuovo, di Villafranca, d’Aci e d’Angiò) provocando una accentuazione del contrasto con questa componente.

Il giovane e risoluto plenipotenziario britannico e comandante delle forze dislocate in Sicilia, lord William Cavendish Bentinck (nota 49), rendendosi conto di quanto problematica fosse una tale situazione che veniva anche ad ostacolare la sua funzione e temendo che si creassero le condizioni favorevoli ad una invasione francese, si vide costretto ad intervenire risolutamente, minacciando il ritiro delle truppe e la sospensione del contributo finanziario britannico, affinché il re rilasciasse i baroni imprigionati e ritirasse i decreti fiscali. Concordò quindi la sostituzione del re con trasferimento delle funzioni al vicario, principe ereditario Francesco e, preteso l’allontanamento della intrigante regina Carolina (nota 45) insofferente della presenza inglese, costituì un nuovo governo con il coinvolgimento dei baroni precedentemente incarcerati da Ferdinando (Belmonte, Castelnuovo ed Aci).

Il governo incontrò il favore del popolo essendo riuscito a fronteggiare le carestie con acquisto di cereali all’estero e con l’approvazione (luglio 1812) di una Costituzione liberale, che, redatta su modello inglese dall’abate Paolo Balsamo, avviava una cauta abolizione della feudalità. Progetto che i nobili accettarono, recependo che per la loro sopravvivenza economica era necessario un cambiamento. La costituzione prevedeva anche l’istituzione di un parlamento bicamerale dove, accanto alla prevalente presenza nobiliare, sedeva una componente comunale eletta su base censitaria. Il modello di costituzione condiviso dal parlamento fu fatto accettare al re ed al figlio con la concessione di un contributo la cui entità fu dal Bentinck giudicata scandalosa.

Svanito l’iniziale entusiasmo, non trascorse molto tempo prima che i contenuti della costituzione facessero sorgere, sia in ambito comunale che parlamentare, dissidi e sospetti fra realisti e riformatori (60) che portarono ad una lunga discussione la quale, sovrapponendosi a tumulti popolari provocati dalla penuria di pane e dall’aumento del costo della vita, diedero occasione a Ferdinando, sollecitato dalle regina Carolina, di tentare di riprendere il governo. Tentativo sconsigliato dal figlio vicario e dal genero ed ostacolato dal Bentinck che chiese ed ottenne l’allontanamento dalla Sicilia della regina che fu costretta a partire per Vienna (giugno 1813), accompagnata dal figlio Leopoldo e da una piccola corte.

Dal nuovo parlamento (luglio 1813), eletto sulla base della nuova costituzione, nacque un governo di realisti incapace di occuparsi delle urgenti questioni finanziarie. Bentinck impose un nuovo governo prima di lasciare temporaneamente l’isola richiamato dalle guerre d’Europa (febbraio-giugno 1814). Al suo rientro cercò di conciliare i contrasti (particolarmente tra Belmonte e Castelnuovo; n. 60) che, irrisolti, finirono con il favorire il rientro di Ferdinando. Questi, nel dichiarato rispetto della costituzione che non sopportava e che mirava ad abolire, richiamò al governo tutti i vecchi ministri realisti (tra cui Diego Naselli d’Aragona, n. 30) destituiti dal Bentinck. Frattanto, con l’acuirsi delle dispute (62) veniva messo in crisi il sistema legislativo ed affossate costituzione ed autonomia della Sicilia, nell’esaltazione delle contraddizioni di quella società dominata da inettitudini e da ambiguità che contribuivano a dilatare il divario esistente rispetto alle altre realtà continentali.

Il Bentinck fu quindi sostituito dal ministro A’Court che, analizzata la situazione commentò “Se decidessimo di appoggiare la costituzione , appoggeremmo una cosa pochissimo adatta al paese”.

L’8 settembre 1814 ad Hozendorf, in procinto di rientrare in Sicilia, moriva sessantaduenne, la regina Carolina e Ferdinando, per nulla toccato dall’evento, nel novembre successivo, sposò segretamente Lucia Migliaccio (63) e, nel maggio del 1815, con la sua corte rientrava in una Napoli, già controllata dagli austriaci, lasciando luogotenente in Sicilia l’erede Francesco.

- La Sardegna

Si è visto (**) che Carlo Emanuele IV era stato costretto ad abdicare in favore del fratello Vittorio Emanuele I che, solo nel 1806 si stabilì nell’isola e non rientrò in Piemonte se non dopo il 1814. Deciso nemico di Napoleone e costretto a subire (1808) da questi l’embargo di ogni commercio con l’isola, potenziò le forze armate con nuovi reggimenti e l’istituzione del servizio militare obbligatorio. Questo, male accetto, diede origine ad una serie di agitazioni controllate senza l’uso della violenza che, invece, fu brutalmente adoperata per sedare i violenti contrasti che contrapponevano fazioni agricole con quelle pastorali ed i comuni fra di loro, in un clima avvelenato da congiure (64) ed aggravato da incursioni barbaresche sulle coste.

Vittorio Emanuele I non si fece ricordare per significativi interventi legislativi (65) nell’isola, a meno di qualche iniziativa di carattere amministrativo e finanziario. Tra le prime rientra la divisione dell’isola in quindici prefetture, l’istituzione del ministero della marina ed del corpo scelto dei Carabinieri. Fra quelle di carattere finanziario rientra la istituzione del Monte di riscatto volto ad estinguere il debito pubblico.

Appena ripristinato il suo regno dal Congresso di Vienna, che oltre a restituirgli il Piemonte e la Savoia gli diede anche i territori della repubblica di Genova, sottopose la Sardegna ad una accresciuta subordinazione politica ed economica al Piemonte. Abrogò tutte le leggi e costituzioni emanate dopo la rivoluzione francese, restaurando un soffocante regime assolutistico, affidando l'istruzione al clero e ristabilendo le discriminazioni nei confronti di ebrei e valdesi.
Conferì il titolo di duca di Genova al fratello Carlo Felice e, non avendo avuto eredi maschi, nel timore che la corona finisse al giovane Carlo Alberto del ramo cadetto dei Carignano, cercò di crearsi una alternativa di successione dando in sposa la figlia Maria Beatrice a Francesco IV d’Asburgo Este (v. seguito) che, con Carlo Alberto, avranno ruolo nelle vicende dell’Italia risorgimentale.


Il Congresso di Vienna e la restaurazione

I negoziati di Parigi (maggio 1814) avevano rinviato le questioni irrisolte al Congresso di Vienna che, tenutosi fra l’ottobre del 1814 ed il giugno 1815 ridisegnò, ispirandosi al principio di legittimità dei sovrani e dell’equilibrio fra le potenze europee, il nuovo assetto geopolitico dell’Europa, mirante anche a garantire la stabilità interna degli Stati. Scelta che contribuì a mantenere la coesione tra le nazioni convinte della necessità di mantenere costanti forme di collaborazione per prevenire ogni possibilità di ripresa rivoluzionaria. Così, con un processo politico ed ideologico che cancellava tutte le innumerevoli trasformazioni che si erano verificate nell’ultimo ventennio, veniva restaurato un ordine che non avrebbe potuto arrestare la crescita del sentimento nazionale e di libertà. Questi, infatti, a seguito delle conquiste rivoluzionarie che avevano scardinato i capisaldi del regime feudale, si erano insinuati in larghi settori delle società, dove avrebbero svolto la funzione di stimolare e selezionare scelte politiche coerenti.

I negoziati, condotti tra le quattro potenze, Inghilterra, Austria, Prussia e Russia, rappresentate rispettivamente dal duca di Wellington, principe Metternich, ministro von Hardenberg, zar Alessandro o dal suo ambasciatore Nesselrode e legate dall’intesa di Chaumont (marzo 1814) a non avviare trattative separate ed a proseguire la lotta fino alla caduta di Napoleone, si erano allargati all’apporto delle potenze minori e della Francia restaurata di Luigi XVIII, rappresentata da Talleyrand.

Le conclusioni definitive (66) stabilirono per quanto riguarda l’Italia :
- al predomino francese si sostituiva quello dell’Austria che conservò il Veneto ed ottenne la Lombardia, dando origine al regno Lombardo-Veneto, cui fu annessa la Valtellina, sottratta alla Svizzera. Passarono sotto l’indiretto controllo austriaco i ducati emiliani di Parma, Piacenza e Guastalla e quello di Modena e Reggio assegnati rispettivamente ai principi austriaci Maria Luisa d’Austria, moglie di Napoleone, ed a Francesco IV d’Asburgo Este (67) che avrebbe acquisito anche Massa e Carrara, .
- Sul regno di Napoli venne completamente restaurato il dominio Borbone con una modifica istituzionale che unificava i precedenti regni di Napoli e di Sicilia nel Regno delle Due Sicilie (68) e con l’assunzione da parte di Ferdinando IV del nuovo ordinale di Ferdinando I. Questi, sottoscritto un’intesa con l’Austria (12 giugno 1815), soppresse la Costituzione concessa in Sicilia nel 1812 ma dovette sottostare agli accordi di Casa Lanza (v. sopra).
- In Toscana, con l’acquisizione dello Stato dei Presidi appartenuto al regno di Napoli (69), ritornavano i Lorena con Ferdinando III d’Austria-Lorena. Il ducato di Lucca, destinato ad essere aggregato alla Toscana, veniva assegnato a Maria Luisa di Borbone.
- Il Regno di Sardegna, ripristinato con il Piemonte, la Savoia e Nizza, acquisì ed il territorio dell’antica repubblica di Genova veniva restituito a Vittorio Emanuele I e restava unico, fra gli stati italiani, a non essere sottomesso all’Austria (70).
- Lo Stato Pontificio perse i territori ferraresi assegnati all’Austria e mantenne Benevento e Pontecorvo (v. capitoli precedenti) nel Regno di Napoli.

Le conclusioni del Congresso (71), pur avendo subìto, al tempo, critiche per non aver tenuto conto degli impulsi nazionali e liberali dei vari popoli, furono in seguito apprezzate per aver impedito per un secolo una guerra generale delle nazioni europee.

Il germe lasciato dai movimenti rivoluzionari, tuttavia, non poteva essere distrutto e, pur nelle condizioni ricreate di antico regime, riprese ben presto a far crescere il sentimento di libertà ed autodeterminazione.


 

NOTE

(2) La personalità di Napoleone fu caratterizzata da un insieme di qualità straordinarie che ne determinarono il successo. Alla spiccata e versatile intelligenza, ad una memoria prodigiosa e ad un genio straripante e carismatico promotore di una politica energica e sbrigativa, si unirono visione globale delle situazioni, intuizione, fantasia nelle decisioni e rapidità di esecuzione (“.. di quel securo il fulmine – tenea dietro al baleno .. ; 5 Maggio/Manzoni), capacità organizzative ed amministrative (n. 13). A questi fecero da contrappunto qualità morali meno apprezzabili ed una visione politica condizionata dall’ambizione che lo portò a sottovalutare gli avversari ed a sopravalutare la consistenza delle sue possibilità. Egli emerse nell’assedio di Tolone (1793) dove era capitano, quindi, avendo condotto la repressione dell’insurrezione realista contro il Direttorio (ottobre 1795), divenne generale di brigata, quindi, come generale di corpo d’armata (marzo 1796), guidò la prima campagna d’Italia (*).
(3) In Egitto ebbe il merito di far scoprire grandezze archeologiche nascoste. Si deve al capitano Pierre-Francois Bourchard che durante i lavori di scavo per la costruzione di un forte sulla foce del Nilo, il ritrovamento della Stele di Rosetta (Rosetta: attuale Rashid), un masso in basalto nero in cui l’incisione in tre lingue, egiziano, greco e geroglifico, consentì di decifrare quest’ultima e da qui l’avvio della moderna egittologia.
(4) Le nazioni della II coalizione antifrancese (Russia, Gran Bretagna, Austria, Prussia, Turchia e Regno di Napoli) guidate dal generale russo Suvorov, avevano sconfitto i francesi (1799) a Magnano, Cassano d’Adda, Novi ligure e riconquistato Milano e Torino.
(5) La spedizione in Egitto si rivelerà un insuccesso e lo stesso Kleber sarà ucciso in un attentato.
(6) Il presidente del Consiglio dei cinquecento era il fratello di Napoleone, Luciano, che, incapace di dominare il consiglio, fu sorretto in maniera determinante dal generale Murat che cacciò i deputati, consentendo a Napoleone di riprendere il controllo della situazione.
(7) Napoleone aveva inviato, attraverso il S.Gottardo, il piccolo S.Bernardo ed il Moncenisio, altre tre armate, comandate rispettivamente da Moncey, Chabran e Thureau. Sul finire del giorno della battaglia di Marengo, a sconfitta francese già delineata, le sorti volsero in loro favore per l’intervento delle truppe di riserva che dispersero l’esercito austriaco di Melas, ormai disunito perché certo della vittoria. Napoleone attribuì il merito al generale Desaix, caduto in quell’azione mentre altri ritengono ancor più determinante l’apporto del generale Kellermann (*) (già distintosi nella conquista di Napoli) ed il sostegno del generale Murat.
(8) Moreau partecipò nel 1803 al complotto di Cadoudal di matrice monarchica, guidato dal duca d’Enghien e mirante a rimuovere Napoleone. Sventato il complotto, Moreau, dopo due anni di prigione, espatriò in America da dove rientrò nel 1813 per combattere contro Napoleone nelle fila dell’esercito russo, e morire nella battaglia di Dresda.
(9) L’Austria mirava a prendere tempo per riorganizzare l’esercito e l’Inghilterra per prolungare il blocco dell’esercito francese in Egitto.
(10) La Toscana, governata da Ferdinando III di Lorena (1790-1801 e 1814-1824) fu trasformata in Regno di Etruria ed affidata a Ludovico di Borbone, duca di Parma, fino al 1807, anno in cui venne incorporata alla Francia, quindi ricostituita in Granducato (1809) ed affidata ad Elisa Baiocchi (n. 20), sorella di Napoleone.
Il Piemonte e la Liguria (1802-1805) annessi alla Francia diventarono dipartimenti al di qua delle Alpi, di cui divenne governatore Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte (n. 20).
La Repubblica Cisalpina assorbiva il ducato di Parma e veniva (1802) ribattezzata Repubblica Italiana, di cui Napoleone ne divenne Presidente. La vicepresidenza fu affidata al duca Francesco Melzi d’Avril, un borghese illuminato che riteneva che la Repubblica cisalpina dovesse essere il nucleo di una federazione di repubbliche comprendente Toscana e Veneto. Nel 1805 fu trasformata in Regno d’Italia e Napoleone, divenuto re cingendo (Duomo di Milano, 26 maggio 1805) la corona ferrea dei Longobardi, affidò la reggenza al vicerè Eugenio Beauharnais (1781-1824, figlio della moglie Giuseppina), promosse la nascita del I° Statuto Costituzionale del Regno d’Italia. Nelle regioni controllate da Napoleone si registrò una febbrile attività di modernizzazione delle strutture (furono aperte strade, scavati canali, riorganizzate le scuole), riorganizzazione dell’amministrazione, risanamento delle finanze ed incentivazione del commercio.
(11) Gli successe lo zar Alessandro I (1801-1825).
(12) Essa fu siglata dopo le dimissioni del convinto oppositore della Francia, primo ministro Pitt (1783-1801 e 1804-1806), causate dalle crisi finanziaria e da quella irlandese. L’accordo di Amiens prevedeva inoltre lo sgombero da parte francese di ogni presidio negli stati Vaticano e di Napoli e da parte inglese di ogni presidio nel Mediterraneo, compreso Malta che sarebbe dovuta diventare indipendente.
(13) Tra le iniziative legislative si colloca l’avvio della stesura organica del Codice civile, noto come Codice Napoleonico che, promulgato il 28 marzo del 1804, eliminava definitivamente i retaggi del feudalesimo e dell’assolutismo, disegnava una nuova società laica, borghese e liberale in cui veniva consacrato il diritto di eguaglianza. A questo codice seguirono quelli di procedura civile (1806), del commercio (1807), di procedura penale (1808) e penale (1810).
Tra gli accordi diplomatici, seguenti all’abbandono della politica anticlericale, vi è il Concordato (1801) sottoscritto con papa Pio VII (Gregorio Chiaromonti, 1800-1823). Con esso il cattolicesimo fu riconosciuto religione della maggioranza dei francesi, protetta dallo Stato a cui il clero fu subordinato. A questo seguì un concordato tra la Repubblica Italiana e Pio VII (16 settembre 1803) che rimarrà in vigore fino al 1905. Ma i dissensi non tardarono a manifestarsi e si acuirono fino all’imposizione al Papa dell’adozione del codice napoleonico, del diritto imperiale di nomina di 1/3 dei cardinali, dell’abolizione sia del celibato ecclesiastico che degli ordini religiosi. Al rifiuto del Papa, Napoleone, da Vienna (1809) spogliava il Papa della potestà temporale e faceva occupare lo Stato Pontificio dal generale Miollis (1807).



Il Papa rispose con la scomunica e Napoleone lo fece arrestare dal generale Rodet (1809), mantenendolo prigioniero prima a Savona, quindi a Fontainebleau. Una giunta composta dal Miollis e dal ministro della polizia del Regno di Napoli, Saliceti, gestì il cambiamento. Dopo la caduta di Napoleone (1814), lo Stato Pontificio fu ricostituito e Pio VII, rientrato a Roma, provvide all’abolizione dei diritti feudali, all’avvio di una politica liberale, a ristabilire la Compagnia di Gesù ed avviare vari concordati per ripristinare il ruolo del Cattolicesimo in Europa.
(14) Egli, paradossalmente, si definì imperatore rivoluzionario. I suoi fratelli divenuti principi vennero nominati senatori di diritto.
(15) Villeneuve, che ignorava il piano complessivo, fu inviato in una escursione nelle Antille per sorreggere i possedimenti francesi e distogliere dall’Europa la flotta inglese. Rientrato per congiungersi con le flotte provenienti delle basi di Rochefort e Brest ed intercettato dalla flotta inglese di Calder, riparò a Cadice. Fiducioso delle proprie forze, uscì per affrontare la flotta di Nelson che, in agguato davanti a Cadice, lo sconfisse nella storica battaglia di Trafalgar. Nelson cadde nello scontro fra la sua ammiraglia Victory e quella francese Bucintoro.
(16) L’imperatore Francesco II, allontanandosi da Vienna con la famiglia, diffuse un saggio editto che sollecitava il popolo a non resistere inutilmente ma ad obbedire al vincitore. Questo segno dell’interesse del principe per la sicurezza del popolo dà la misura del rapporto civile esistente tra essi in un contesto in cui l’agiatezza era diffusa e la povertà soccorsa.
(17) Baviera, Wurtenberg, Baden che inoltre si ampliarono con l’acquisizione del Trentino, Tirolo e Svevia.
(18) Lo zar Alessandro, col consenso di Napoleone, strappò la Finlandia alla Svezia ed acquisì ingrandimenti territoriali a danno di Persia e Turchia. Non era accondiscendente alle mire francesi sulla Svezia che, in previsione della scomparsa senza eredi di Carlo XIII di Svezia, contava di mettere sul trono il generale francese Jean-Baptiste Bernadotte (nota 28).
(19) Il primo ministro inglese Pitt (n. 12) fece ritirare dal suo studio la carta geografica d’Europa, ritenendola inservibile per i prossimi sette anni.
(20) Fece annettere territori alla Francia ed in Europa creò i nuovi regni di Olanda (1806) e Westfalia (1807) che, volendo direttamente estendere su tutti i territori assoggettati il suo potere, assegnò rispettivamente ai fratelli Luigi e Girolamo. L’Olanda ed il Belgio furono poi (1810) annesse alla Francia. Così in Italia, il Granducato di Toscana fu assegnato alla sorella Elisa (n. 10), Alla sorella Paolina il ducato di Guastalla, al cognato Generale Gioacchino Murat che aveva sposato la sorella Carolina andò il Regno di Napoli (1808-14) in sostituzione di Giuseppe (re dal 1806-1808), spostato sul trono di Spagna (1808-1813). Il fratello Luciano, ritiratosi dalla politica attiva (n. 6), fu nominato da Pio VII, principe di Canino (una tenuta acquistata nello Stato Vaticano).
(21) Reggente in nome della madre inferma, si rifugiò in Brasile da dove rientrò nel 1822.
(22) Carlo IV (1748-1819), della famiglia Borbone di Spagna (v. capitolo 6 della serie, stesso sito), indolente, incapace e dominato dalla moglie Maria Luisa di Parma e dal suo favorito Godoy, venne in contrapposizione con il figlio Ferdinando, cui dovette cedere la corona e fuggire. Il principe delle Asturie, divenuto Ferdinando VII, fu imprigionato da Napoleone fino al 1814 allorché, riammesso sul trono (1814-1833) dal Congresso di Vienna, impose un regime di terrore ma nulla poté fare contro la ribellione delle colonie d’America. Le guerre napoleoniche, infatti, avevano causato la separazione dei domini coloniali latino-americani dall’Europa continentale, favorendo, per un verso, gli interessi dell’Inghilterra nel crearsi nuovi sbocchi commerciali e, d’altro canto, consentendo il sorgere in quelle colonie di movimenti di indipendenza che, nel breve periodo, portarono alla creazione di nuovi stati nazionali. Nel 1810, a Buenos Aires, approfittando dell’occupazione napoleonica della Spagna, si insediò una giunta creola che, sotto la guida di José de San Martin, nel 1816 proclamò la sua indipendenza. Seguirono Perù, Bolivia, ecc.
(23) Saragozza fu conquistata casa per casa ed oltre 50.000 cittadini restarono sul campo. 80 acqueforti di Goya pubblicati dopo la sua morte (1863) forniscono una testimonianza della sanguinosa repressione di quel periodo.
(24) La Danimarca che stava per aderire al blocco antifrancese fu fatta oggetto di cannoneggiamento e confisca dell’arsenale navale. Per reazione si alleò con la Francia.
(25) L’Austria doveva rinunciare alla regione Trentino-sud Tirolo, Istria e Dalmazia. Gran parte d’Europa risultava così alleata o satellite della Francia.
(26) Napoleone aveva divorziato dalla prima moglie Giuseppina Beauharnais che, in dieci anni, non gli aveva dato eredi. Lo scioglimento del matrimonio fu approvato, in una riunione, da tutti i componenti la famiglia, compreso il viceré Eugenio (n. 10) ma avversato da Murat. La proposta di matrimonio con una principessa proveniente dlla dinastia Asburgo, la più prestigiosa d’Europa, fu condivisa da tutti, eccetto Murat che avrebbe preferito un legame con una principessa appartenente alla più potente dinastia Russia. Dal matrimonio con la granduchessa Maria Luisa d’Austria (1791-1847) nacque un figlio (1811), a cui fu dato il titolo di re di Roma e che per due giorni (4-6 aprile 1814) ricevette, a seguito dell’abdicazione del padre, il titolo di imperatore che valse a giustificare il nome di Napoleone II. Maria Luisa fino al 1813 fu vicina al marito e forse anche innamorata. Nominata reggente dell’Impero (1813), assolse all’incarico con scarsa partecipazione ormai travagliata dal conflitto fra il marito ed il padre. Dopo la caduta di Napoleone (1814) le venne affidato, e confermato dal congresso di Vienna (1816), il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla dove (ventiduenne), non più soggetta all’imperio del marito o del padre, acquisì la sua indipendenza instaurando, diversamente da quanto accadeva negli altri stati italiani, un regime liberale. La ragion di Stato ed il legame con il conte Neipperg (da cui ebbe due figli, Albertna e Guglielmo) prevalsero nel non essere mai andata, benché sollecitata, a trovare il marito durante la prigionia all’Elba e l’esilio a S.Elena. Poco si interessò del figlio che, divenuto, dopo la caduta del padre, duca di Reichstadt, crebbe tra gli eccessi alla corte di Vienna e morì a 21 anni, lontano dalla madre.
(27) Governata dall’ex generale francese Bernadotte (n. 18) che, posto da Napoleone sul trono di Svezia, si era alleato con i Russi mostrando il tipico zelo di chi cambia fazione.
(28) Come in altre occasioni, si rivelò arrendevole con i potenti mentre non mancava di mostrarsi arrogante e spietata con i deboli.
(29) Nella cerimonia per l’incoronamento a Re d’Italia, Napoleone si rivolse all’ambasciatore del regno di Napoli: “Dite alla vostra regina che io so le sue bugie contro la Francia, ch’ella andrà maledetta dai suoi figli, perché in pena dei suoi mancamenti non lascerò a lei ne alla sua casa tanta poca terra quanto ne occupa il sepolcro”. Napoleone fu informato dei festeggiamenti tenuti alla Corte di Napoli alla notizia dell’esito della battaglia di Trafalgar.
(30) Composto da Diego Naselli d’Aragona (*), il principe di Canosa ed il magistrato Michelangelo Cianciulli.
(31) Le fortezze di Pescara e Capua si consegnarono ai francesi mentre quelle di Civitella e Gaeta si predisposero a resistere. Civitella, comandata dal colonnello Wood ed arresasi dopo tre mesi di assedio per mancanza di vettovaglie, subì l’abbattimento delle mura. Gaeta, comandata da un deciso avversario francese, il principe Philipstadt, e potendosi rifornire dal mare resistette, prima di arrendersi, per cinque mesi, durante i quali anche i francesi subirono cospicue perdite. Il 19 luglio 1806 la fortezza si consegnò a Massena che aveva diretto l’assalto finale. Parte degli assedianti si ritirò con le navi e parte chiese di arruolarsi nell’esercito francese.
(32) L’ingresso a Napoli fu seguito da un proclama di Napoleone dove affermava: “ … in dieci anni io tutto ho fatto per serbare il re di Napoli, egli tutto ha fatto per perdersi. …. Dopo Dego …….. gli fui generoso … dopo Marengo ….. mi si raccomandò, benché nemico ed io gli perdonai la seconda volta. … Son pochi mesi … io sospettava nuovi tradimenti ….. ma fui generoso ….. riconobbi la neutralità di Napoli: v’imposi di sgomberare quel regno e per la terza volta la casa di Borbone fu confermata sul trono e salvata. Perdoneremo la quarta volta? Confideremo di nuovo in una corte senza fede, senza onore, senza senno? No, no! ….. “
(33) Giuseppe Bonaparte (1768-1844) il maggiore dei fratelli di Napoleone, cultore di lettere e di politica, avido di ricchezze, era di carattere timido e prudente, desideroso di operare bene con l’intento di soddisfare più il fratello che il popolo.
(34) Saliceti subì successivamente l’oltraggio di una aggressione di popolo che distrusse la sua abitazione a riviera di Chiaia (gennaio 1807). Componente a Roma, con il generale Miollis (n. 13) della giunta che doveva dar seguito al decreto napoleonico di annessione alla Francia dello Stato Pontificio. Scomparve a 53 anni, per tifo o sospetto veleno.
(35) In quel periodo la situazione del regno era tra le più arretrate d’Europa con una giustizia che si rifaceva a norme confuse, non codificate e sovente soggetta all’arbitraria volontà del re, l’amministrazione dolosamente priva di ordine, la proprietà patrimonio di pochi (baronie, vescovati e monasteri), poche le industrie, scarse e rozze le manifatture, gli uomini migliori avviliti e la nobiltà inferma. Lo spirito riformatore della seconda metà del ‘700 (quello di Carlo di Borbone e di Ferdinando fino al 1790) non era mai giunto alla coscienza del popolo e la società, sconvolta dalla repressione seguente alla caduta della Repubblica (**), mostrava il bisogno di leggi migliori. Il Colletta conclude: “Era perciò impossibile riordinare lo Stato con le forze dei propri elementi; bisognava un nuovo re, nuovo regno, ed avvenimento che per la sua grandezza sopisse le domestiche brighe e desse scopo comune alle opere ed alle speranze”.
(36) A Reggio era sbarcato, nel maggio 1807, il principe Philippstadt (n. 31) con un consistente contingente e, giunto fino a Mileto, fu, dai francesi di stanza a Monteleone, respinto dopo aspri combattimenti fino a Reggio, senza che i francesi completassero la conquista della città se non dopo otto mesi, allorché conquistarono anche Scilla (febbraio 1808).
(37) Sorsero, dopo la completa conquista della Calabria, i tribunali speciali che lavorarono a pieno regime emettendo, sulla base di semplici sospetti o per delazioni, condanne a morte di cui qualcuna venne eseguita con barbarie: a Lagonegro si utilizzò il barbaro metodo turco dell’impalazione, a Monteleone (odierna Vibo Valentia) un uomo fu appeso e lapidato. Le carceri si riempirono di prigionieri ed i personaggi di cui non si poté fare giustizia sommaria, vennero trasferiti nelle carceri francesi. Tra i giustiziati vi furono Fra Diavolo ed il marchese Rodio (**). Il primo, dopo il 1799 aveva cercato di rigenerarsi moralmente pur avendo conservato l’indole del brigante. La condanna a morte di Rodio, onesto ufficiale borbonico designato alla difesa di territori non ancora invasi, destò scalpore per il modo con cui fu emanata. La commissione militare lo aveva mandato assolto ma, nello stesso giorno, il maresciallo Massena, interprete dei sentimenti del ministro Saliceti (n. 35), istituì una nuova commissione con l’ordine di giudicarlo colpevole per aver sobillato alla rivolta popoli sottomessi.
(38) Esso si era organizzato ed, evitando gli scontri, operava nelle campagne, assalendo gli inermi, predando, distruggendo e nascondendosi. Non potendo arginare il fenomeno, il re provò con la concessione del perdono a chi rientrasse nella regalità giurando fede al governo. La norma che fu successivamente adottata anche da re Gioacchino indusse molti ad usufruirne (falso pentitismo), non per amore di pace ma per godersi il bottino acquisito e per riprendere quindi l’attività. Pratica che indusse i funzionari di provincia a fare strage dei perdonati.
(39) Gli apparati amministrativi furono ristrutturati dividendo il Regno in province, distretti e comunità dirette, rispettivamente, da un intendente, sotto-intendente e sindaco soggetti alle rispettive assemblee consiliari.
(40) Il parlamento di cento membri era diviso in cinque Sedili (**) rappresentanti clero, nobiltà, dotti, commercianti (tutti nominati dal re) e possidenti (elettivi). I rappresentanti delle prime tre classi erano nominati a vita. Il parlamento che si doveva riunire almeno una volta ogni tre anni trattava gli argomenti proposti dal governo ed era convocato, prorogato e disciolto dal re.
(41) Gioacchino Murat (1767-1815), nato a Labastide (regione dei Pirenei) di modeste origini fu avviato inizialmente alla carriera ecclesiastica ma nel 1787 lasciò il seminario per arruolarsi tra i cacciatori a cavallo divenendo ufficiale (1783) e stretto collaboratore di Napoleone in qualità di aiutante di campo (nota 6) e sposo della sorella Carolina (1800). Nel 1805 ricevette i principati di Berg e Cleves. Partecipò a tutte le campagne Napoleoniche, in particolare alla conquista della Spagna ed alle campagne di Italia, Russia ed alla sconfitta di Lipsia. Di aspetto attraente, imponente nella figura ed accattivante nell’approccio, di indole guerriera era definito l’Achille di Francia perché prode ed invulnerabile. Era impaziente negli affari di stato. Morì giustiziato a Pizzo (v. seguito).
(42) Dai tempi di Carlo di Borbone non si era fatto nulla nel settore della viabilità. Il Croce afferma che “Si mietè in quel decennio la messe preparata da un secolo di fatiche”.
(43) I veliti componevano la fanteria leggera e venivano impiegati per primi in combattimento.
Con la coscrizione obbligatoria ogni anno dovevano prestare servizio due giovani ogni mille. Venivano esentati ammogliati, figli unici e chi si dedicava allo studio. Giuseppe, non volle ricorrere alla coscrizione nel timore che i giovani, per sfuggire, avrebbero finito coll’ingrossare il brigantaggio o fuggire in Sicilia, alimentando così l’esercito avversario. Giuseppe aveva costruito i suoi reggimenti con uomini provenienti dalle galere o catturati dalla polizia o nelle azioni di guerra, perdonati di brigantaggio ed inviati a combattere in regioni lontane.
(44) Il Colletta commenta : “Il brigantaggio del 1810 teneva il regno in foco, distruggitore di uomini e di cose cittadine, senza fine politico, alimentato di vendette, di sdegni, o, più turpemente, d’invidia al nostro bene, e di furore. …era enormità ed il generale Manhes fu istrumento di inflessibile giustizia, incapace, come sono i flagelli, di limite o di misura”. In merito all’azione del gen. Manhes il De Castro riporta : “... quell’inesorabile uomo non perdonò ad età, a sesso, a parentela. Con i veri rei caddero anche gli innocenti ….. dichiarò la pena di morte a coloro che nelle campagne nascondevano dei viveri …. A nessuno perdonò, neppure ad una madre che ignara degli ordini, portava il solito vitto ad un figliolo che stava lavorando nei campi….. La Calabria era diventata un campo chiuso dove gli uomini davano la caccia da altri uomini. Nella torre di Castrovillari languirono e morirono centinaia di inquisiti. La puzza degli insepolti ….”
(45) La regina di Sicilia Maria Carolina, insofferente della ingombrante presenza inglese in Sicilia ed invogliata dal matrimonio della nipote Maria Luisa (figlia della figlia di Carolina, Maria Teresa che aveva sposato in seconde nozze Francesco I d’Asburgo, figlio del fratello di Carolina, Leopoldo II) con Napoleone, conduceva con questi, in una sorta di commedia degli inganni, trattative volte a riconquistare il Regno di Napoli con la promessa di mantenere il controllo francese, salvo poi legarsi all’Austria. A Napoleone non dispiaceva l’acquisizione della Sicilia senza colpo ferire e comunque voleva mantenere vivo il contrasto tra la regina e gli inglesi. In questo scenario, egli aveva dato disposizione a Grenier di avviare l’operazione di invasione della Sicilia solo dietro richiesta della regina o nel momento in cui si sarebbero verificati scontri tra Siciliani ed Inglesi.
(46) Durante la campagna di Russia, Napoleone disse di Gioacchino: “ In tutta la guerra di Russia questo principe si è mostrato degno del supremo grado di re”. Dopo che Gioacchino ebbe abbandonato l’armata per rientrare a Napoli, Napoleone, attraverso la Gazzetta di Francia (Monitore) biasimò Gioacchino e lodò Eugenio quindi scrisse alla sorella Carolina, regina di Napoli, pesanti commenti nei riguardi del marito. A queste Gioacchino rispose : “La ferita al mio onore è già fatta e non è in potere di Vostra Maestà il medicarla. ….. Quando si ha l’onore, ella dice, di appartenere alla sua illustre famiglia ….. ed io, sire, le dico in risposta che la sua famiglia ha ricevuto da me tanto onore quanto me ne ha dato collegandomi in matrimonio alla Carolina. Mille volte, benché re, sospiro i tempi nei quali, semplice ufficiale io avea superiori e non padrone. Divenuto re, ma in questo grado supremo tiranneggiato da Vostra Maestà, dominato in famiglia, ho sentito più che non mai bisogno di indipendenza, sete di libertà. Così voi sacrificate al vostro sospetto gli uomini più fidi a voi …… così Fouché fu immolato a Savary, Talleyrand a Champagny, …. e Murat a Beauharnais …. che ha lietamente annunziato al senato di Francia il ripudio di sua madre ……”
(47) L’inizio dello sfaldamento dell’impero Napoleonico diede speranze agli oppositori rappresentati da varie componenti come nostalgici del vecchio regime, giacobini delusi, moderati, borghesi e popolani tutti stanchi di sottostare alle imposizioni straniere, nella continua e disillusa attesa del nuovo. A questi nuclei di opposizione si aggiunse quella organizzata in sette segrete tra cui la Carboneria che si era diffusa nel meridione, assorbendo sette minori. Queste erano nate da una comune matrice, la massoneria, e si distinguevano per l’ispirazione giacobina e liberal-nazionale.
(48) La contropartita richiesta da Gioacchino per l’alleanza era il sostegno austro-inglese per la conquista, da nemico di Napoleone, il Regno d’Italia che avrebbe dovuto ricevere il riconoscimento da parte delle nazioni europee. Offrendo, quale contropartita, la rinuncia a pretese sulla Sicilia, mai conquistata, e la cessione di Gaeta agli Inglesi.
(49) I rapporti di ambiguità erano tali che Lord Bentinck permetteva che i siciliani del suo contingente diffondessero tra i napoletani un editto di Ferdinando che li incitava alla ribellione contro Gioacchino. Il quale, a sua volta confidando in una vittoria della Francia ed aspettando l’opportunità per ricollegarsi ad essa, temeva che le strategie degli attuali alleati austriaci ed inglesi mirassero ad aumentare le difficoltà in cui già si trovava con i suoi generali, desiderosi di condizionare le scelte strategiche.
(50) Murat cercò di mantenere segreti contatti con Eugenio che li respinse e fece modo di informare di ciò i generali austriaci al fine di screditarlo. Eugenio, era sollecitato dal suocero, Massimiliano I, re di Baviera di cui aveva sposato la figlia Augusta Amalia (1788-1852) ad abbandonare il campo francese. Eugenio concluse, nei pressi di Mantova (Schiarino-Rizzino) un armistizio con l’Austria secondo il quale conservava, in attesa di successivi accordi fra le potenze, un Regno d’Italia, territorialmente ristretto alla Lombardia. A Milano, intanto i patrioti tra cui Federico Confalonieri, guardavano, secondo il progetto del duca Melzi d’Evril (n. 10), al principe Eugenio quale possibile sovrano di un Regno indipendente dalla Francia e dall’Austria. Per ottenere una designazione in tal senso Melzi d’Evril che, in assenza di Eugenio dirigeva il governo, convocò il senato, dove non riuscendo a trovare un accordo sulla delibera si procedette alla convocazione dei collegi elettorali per stabilire il futuro del Regno. Gli avversari di Eugenio si erano attivati ed, in occasione di una riunione del senato, una manifestazione si trasformò in sommossa antifrancese che scaricò la sua ira col massacro del ministro delle finanze Giuseppe Prina (20 aprile 1814). La qualcosa segnò la fine delle aspirazioni di Eugenio sul trono d’Italia, per cui egli nobilmente consegnò il territorio del Regno al controllo dell’Austria (23 Aprile) e si ritirò in Baviera. Il potere dell’Austria sulla Lombardia fu confermata dal Congresso di Vienna ed alle aspirazioni dei patrioti non restò che il ricorso alla cospirazione.
(51) Tayllerand (n. 47), come tutti coloro che cambiano fazione, mostrava risentimento nei riguardi dei napoleonici ma era anche sollecitato dalla cupidigia di ricevere il premio di un milione di franchi che Ferdinando IV gli aveva promesso per il recupero del trono.
(52) Pellegrino Rossi (1787-1848) economista toscano, ottenne la cittadinanza francese nel 1834, divenendo nel 1845 ambasciatore francese a Roma ed assumendo un ruolo nel nuovo corso liberale di papa Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti, 1846-1878). Divenne capo del governo Vaticano (1848) con un programma che scontentò sia i reazionari che lo ritennero troppo egualitario, che i rivoluzionari che lo ritennero non sufficientemente democratico. Gli scontri fra queste due componenti causò il suo assassinio e la fuga del Papa a Gaeta.
(53) Carolina Bonaparte (1782-1839) da Murat ebbe quattro figli Achille, Letizia, Luciano e Luisa. Dopo la cessione del regno di Napoli si trasferì a Venezia e Trieste e quindi a Firenze.
(54) Essa prevedeva un re proponente, due camere legiferanti, consigli dei Ministri e di Stato, magistratura indipendente ed amministrazioni provinciali e comunali.
(55) Solo dall’imperatore d’Austria ricevette una tardiva offerta di asilo con l’invio del passaporto.
(56) Il corso Carabelli, promosso a suo tempo da Gioacchino ma ora al soldo del Borbone di Napoli, lo aveva amichevolmente avvicinato per sondarne le intenzioni e farle conoscere al governo di Napoli che nulla predispose, non avendo appreso il luogo dello sbarco.
(57) Barbarà, un vecchio corsaro maltese a suo tempo gratificato da Murat, come garanzia per l’appoggio, chiese di tenere il passaporto austriaco di Gioacchino.
(58) Carmelo Bilotta che, in G. Murat sul trono di Napoli, analizza i fatti e spiega i comportamenti di chi ha avuto ruolo in quel Regno. Per quanto riguarda gli avvenimenti di Pizzo, sulla base delle dirette testimonianze riportate da Ettore Capialbi (Murat a Pizzo), pur concordando con la ricostruzione del Colletta e del canonico Masdea (n. 59), offre una interpretazione diversa degli stessi, differenziando la vile condotta di Barbarà da quella del Trentacapilli e dei cittadini. Egli non giustifica ma spiega lo zelo del primo col timore della ritorsione borbonica ed il rifiuto dei secondi, presumibilmente analogo a quello di qualsiasi cittadinanza calabrese di quel periodo, con gli eccessi patiti durante la lotta al brigantaggio.
(59) All’annuncio dell’istituzione del tribunale Murat esclamò: “Ahi, io son perduto! Il comando di giudizio è comando di morte”. Il tribunale era composto da sette giudici che, pur promossi durante il regno Murat, si videro costretti ad accettare l’incarico per mostrare fede al nuovo re e mantenere la posizione acquisita. Murat rifiuò di essere difeso dal capitano Storace (“Voi non potrete salvare la mia vita, fate che io salvi il decoro di re. Qui non si tratta di giudizio ma di condanna ….”) e scrisse alla moglie Carolina ed ai figli la lettera di commiato, accludendovi una ciocca di capelli. Prima del giudizio ricevette il canonico Antonio Masdea, cui cinque anni prima aveva concesso un obolo per le opere della Chiesa Madre ed a cui dichiarò di morire da buon cristiano.
(60) Tra cui le figure di maggior prestigio erano i principi di Belmonte e di Castelnuovo senza il cui accordo la costituzione poteva difficilmente sopravvivere. Il primo abile ma in gelosa contrapposizione con il secondo, lo zio che, di sentimenti più dichiaratamente liberali, alla fine dovette ammettere “noi non siamo adatti per la nuova costituzione”. Belmonte abbandonò la Sicilia dopo la sostituzione di Bentinck e Castelnuovo negò la sua adesione ad un nuovo tentativo di costituzione proposto da Ferdinando con cui ebbe un violento scontro.
(61) Luigi Filippo d’Orleans, futuro re di Francia (1830-1848; Luigi Filippo I), aveva sposato (1809) Maria Amelia di Borbone Napoli.
(62) Tra il 1813 ed il 1814 si riunirono tre parlamenti che non riuscirono ad accordarsi su quasi nulla (“tutti erano discordi negli interessi e nelle mire, ma tutti perfettamente concordi nel non far nulla”), mirando unicamente a rendere inoperante la costituzione e facendo commentare al Bentinck “Vogliono la libertà ma nessuno è disposto a sacrifici per ottenerla”.
(63) Il Colletta la definisce: “Vedova del principe di Partanna, madre di molti figli, di nobile stirpe ma di volgare ingegno e famosa per antiche libidini”.
(64) Quella promossa dagli avvocati Cadeddu e Garau, dal prof. Zedda e dai sacerdoti Muroni e Melis fu scoperta e repressa.
(65) Fu soprannominato “Re delle Marmotte” perché disse di aver dormito dal 1792 al 1814, cioè per tutto il periodo trascorso tra la rivoluzione francese ed il Congresso di Vienna.
(66) In Europa la Russia conservò la Finlandia e mantenne il controllo del regno di Polonia. La Prussia ottenne le regioni limitrofe di Posnania, Pomerania svedese e l’ex Vestfalia. L’Austria perse il Belgio ma riprese tutti i territori perduti ed il controllo delle regioni costituenti la Confederazione del Reno che si trasformò in Confederazione Germanica. Furono riconosciuti Regni Baviera, Sassonia e Wurttemberg. La Gran Bretagna mantenne il possesso di Malta, delle isole Ionie e di altre posizioni strategiche. In Spagna e Portogallo vennero ripristinate le dinastie di Borbone (Ferdinando VII) e Braganza (Giovanni VI). La Danimarca (fedele a Napoleone) perse la Norvegia che passò alla Svezia. La Corsica rimase legata alla Francia.
(67) Francesco IV era figlio dell’arciduca Ferdinando e di Maria Beatrice d’Este, signora di di Massa e Carrara che avrebbe lasciato in eredità al figlio.
(68) Denominazione risalente ad Alfonso I (v. capitolo: Il meridione d’Italia aragonese; nota 10), Rex utriusque Siciliae ed adottata da Murat.
(69) Vedi il capitolo “Il meridione d’Italia conteso da Savoia, Asburgo e Borbone” stesso sito.
(70) Vittorio Emanuele I, accantonate le aspirazioni sulla Lombardia, aveva dovuto contenere quelle austriache sul territorio piemontese, motivi sopiti di futuri antagonismi.
(71) Cui si deve anche riconoscere il merito della presa di posizione contro lo schiavismo con la sottoscrizione della Dichiarazione contro la tratta dei negri.