da http://www.storiologia.it/suditalia/cap109n.htm
Franco Savelli
Il Meridione e l'unificazione
LA CONQUISTA
Sommario:
--- La situazione italiana
---La decadenza del Regno delle Due Sicilie, l’ultimo decennio di
Ferdinando II e la successione di Francesco II.
--- Il Regno di Sardegna fulcro dell’unificazione: Vittorio Emanuele
II, Cavour e Mazzini. La preparazione diplomatica con la
partecipazione alla guerra di Crimea e l’appoggio della Francia di
Napoleone III. La II Guerra d’Indipendenza, la pace di Villafranca e
l’annessione della Lombardia. L’annessione per plebiscito degli
Stati centrali (Toscana ed Emilia) e la cessione alla Francia di
Nizza e Savoia.
--- La liberazione del Meridione: Garibaldi, Vittorio Emanuele II e
Cavour.
--- Garibaldi e l’impresa dei Mille, la preparazione e l’attuazione:
lo sbarco, Salemi, Calatafimi, Palermo e Milazzo. L’attraversamento
dello Stretto di Messina ed il ruolo dei generali borbonici. La
conquista delle regioni continentali.
--- Francesco II lascia Napoli per Gaeta. Garibaldi giunge a Napoli.
La situazione italiana
Intorno alla metà del XIX secolo le idee portatrici di
socialismo e di democrazia avevano raggiunto vasti strati di
popolazione e divennero prioritarie particolarmente in quelle
regioni soggette a domini assoluti, acquisendo un grado diverso di
attualità a seconda delle condizioni sociopolitiche e dello
sviluppo culturale che esse vivevano. A Torino, Milano e, con
maggior difficoltà a Firenze e Napoli si erano sviluppati
negli ultimi decenni importanti iniziative culturali.
A Firenze era stata vietata dal granduca Leopoldo II la
pubblicazione dell’Antologia (2), sostituita da altre riviste che
comunque svolsero un certo ruolo, mentre a Napoli, a causa di una
censura oppressiva, ogni iniziativa perdeva mordente. Torino invece
fu il centro di quella scuola moderata che voleva trovare risposte
alla questione italiana che si poneva come obiettivo la
realizzazione dell’unità d’Italia senza rivoluzioni ma
affidando al Papa (neoguelfismo sostenuto da Gioberti*) o alla
Monarchia Savoia (ipotesi sostenuta da Balbo e d’Azeglio*) la guida
di una federazione di Stati italiani. A Milano Carlo Cattaneo (3)
con la rivista Il Politecnico cercò di dimostrare quanto
ormai fossero inadeguati i governi del tempo ed anacronistico il
frazionamento della nazione in una società la cui oppressione
politica ne limitava la crescita.
Intanto il fallimento delle rivoluzioni nel Regno delle Due Sicilie
e la sconfitta del Regno di Sardegna nella I Guerra d’Indipendenza
aveva portato ad una accentuazione della pressione austriaca. Il
Lombardo-Veneto venne gestito dalla ferma dittatura del maresciallo
Josef Radetzky (1766-1858) mentre truppe austriache si installavano
nell’Italia centrale per restaurare l’ordine.
Il Regno di Sardegna e quello delle Due Sicilie si indirizzarono
verso gestioni di diverso segno.
Il Regno delle Due Sicilie al collasso
- La decadenza
Nel Regno delle Due Sicilie, Ferdinando II che aveva controllato le
sommosse di Palermo, Napoli e di altre città (1848, *) senza
ricorrere all’aiuto straniero, aveva restaurato un regime
assolutistico che, basato sul controllo di polizia ed esercito,
travolgeva le più tipiche conquiste del liberalismo
(libertà di stampa e di parola). Inoltre, imprigionando
indegnamente (4) quasi tutti gli elementi migliori capaci di
assumere la guida del paese (*), aveva bloccato ogni prospettiva di
sviluppo politico, economico e culturale, nel timore che qualsiasi
iniziativa potesse preludere a nuove agitazioni, lesive per il
difficile equilibrio su cui si reggeva la monarchia. Il risultato
che ne conseguì fu quello di isolare il Regno (5) rispetto al
movimento progressista che si affacciava nelle altre regioni.
Nell’ultimo decennio del regno di Ferdinando II, le attività
agricole ed industriale languivano, l’attuazione di opere necessarie
fu bloccata ed il regno caratterizzato da un immobilismo che gli
fece perdere ogni prestigio internazionale. Situazione che divenne
ancor più critica dopo il congresso di Parigi (1856, v.
seguito) allorché Inghilterra e Francia, intervenendo nel
tentativo di favorire un alleggerimento dello stato repressivo,
riportarono, come riscontro, la rottura delle relazioni diplomatiche
(21 ottobre 1856).
In un quadro politico che si faceva sempre più esplosivo,
dopo il fallimento di un attentato a Napoli contro Ferdinando II per
mano di Agesilao Milano, Mazzini assunse l’iniziativa di
utilizzare un giovane socialista napoletano, Carlo Pisacane
(1818-57), per una impresa destinata miseramente a fallire. Questi,
imbarcatosi con un gruppo di ventitre compagni a Genova su un
battello diretto a Cagliari (23 maggio 1857), costrinse l’equipaggio
a dirigersi verso Ponza dove vennero liberati dalle carceri trecento
detenuti. Quindi attuò uno sbarco a Sapri coll’intendo di
provocare una sommossa sostenuta dai contadini, che, impreparati
all’evento o più verosimilmente disinteressati alla rivolta,
anziché unirsi al gruppo, collaborarono al loro
accerchiamento. Pisacane si uccise per evitare la cattura.
Ferdinando II, consapevole delle condizioni in cui versava il suo
popolo, pur di non gravare con nuove tasse sui consumi e fornire
occasione di proteste, cercò di economizzare su tutto e, caso
insolito, ridusse anche il suo appannaggio, ma non riuscì a
trovare soluzioni per la questione sociale del mezzogiorno
rappresentata dallo squilibrio esistente tra centro e provincia. Ma
ormai sia tra le personalità più avvedute del Regno,
che all’esterno tra coloro che miravano ad unificare il Regno delle
Due Sicilie con quello di Sardegna per la costituzione di una
nazione italiana, si radicava la convinzione che il regime
borbonico, per la sua debolezza, sarebbe stato prossimo al collasso.
Si predisponevano, pertanto, i piani per riceverne l’eredità.
Ferdinando II, alla sua scomparsa (maggio 1859), lasciò un
regno ormai in sfacelo al figlio ventitreenne Francesco II (6) che,
bigotto e di carattere mite, tenuto lontano dagli affari di Stato,
era privo di ogni esperienza atta a gestire la problematica
situazione. Francesco chiamò al governo Carlo Filangeri (7)
che, nei pochi mesi di attività, favorì il ritorno
degli esuli e, per orgoglio nazionale, licenziò i mercenari
svizzeri (*) che costituivano gli unici reparti efficienti
dell’esercito. Valutando gli avvenimenti che scandivano i
cambiamenti nelle regioni centrali e rendendosi conto che anche il
Regno sarebbe stato travolto dalla stessa ondata, Filangeri si
dimise nel marzo 1860 allorché Franceso II respinse il suo
progetto di Costituzione. Gli successe l’ottantenne Principe di
Cassaro.
Nel breve periodo di regno di Francesco II, furono decisi interventi
di carattere sociale quali, il dimezzamento dell’imposta sul
macinato, la riduzione delle tasse doganali, la distribuzione
sottocosto del grano acquistato all’estero a seguito della carestia,
progettò l’ampliamento della rete ferroviaria del regno con
la costruzione della Napoli-Foggia e della Palermo-Messina-Catania
(8). Dal punto di vista politico si allineò alle posizioni
conservatrici del padre e, pur avendo ristabilito le relazioni
diplomatiche con Francia ed Inghilterra, non si lasciò
convincere dalle sollecitazioni che il Cavour gli rivolse,
attraverso un suo inviato Salmour, per un mutamento di linea. E
senza mitigare la sua posizione assolutistica, si allontanò
sempre più dalla realtà del tempo, non riuscendo ad
impostare una qualche forma di governo che tenesse conto delle
diffuse aspirazioni di liberalismo, aggravando il fallimento cui era
destinata la società meridionale (9) .
- La Sicilia
Dopo il 1848 il generale Filangeri che aveva domato la rivolta
divenne governatore (fino al 1855) e mantenne equilibrio e buon
senso, pur in una situazione difficile nel controllo del territorio,
per la qualcosa ricorse ai capibanda Scordato e Di Miceli cui
affidò anche il compito di esattori e guardacoste.
Intanto la rivalità con il governo di Napoli, alimentata
dalle radicate tendenze autonomiste e dal movimento di unità
nazionale, era largamente diffusa. Ma i più avveduti erano i
primi a riconoscere che non esisteva, tra varie fasce sociali,
unità di intenti e capacità organizzative tali da
conquistarsi da soli l’indipendenza, malgrado alcune zone che, nel
1848, si erano mantenute ai margini della sommossa, manifestavano
ora maggiore consapevolezza e partecipazione.
E non potendo sperare che un aiuto diretto potesse venire
dall’Inghilterra verso cui i siciliani conservano un certo
gradimento, si pensava al liberali del nord.
Il Regno di Sardegna, fulcro dell’unificazione italiana
- La preparazione
La situazione in Piemonte, all’indomani dell’insediamento di
Vittorio Emanuele II, si presentava ben diversa che nel Regno delle
Due Sicilie dal momento che il re, dopo aver sedato la rivolta
democratica di Genova (10) si mosse coll’intento di salvare lo
Statuto Albertino a condizione che risultassero emarginate le
correnti antimonarchiche di sinistra. Queste non intendevano
approvare le gravose condizioni imposte dall’Austria a seguito della
sconfitta riportata nella I Guerra d’indipendenza (11) . La qualcosa
si verificò a seguito delle elezioni indette con il proclama
di Moncallieri (20 novembre 1849) mediante il quale il primo
ministro Massimo d’Azeglio sollecitava l’elezione di una Camera
moderata che ratificasse la pace con L’Austria. La maggioranza del
parlamento eletto, favorevole alla ratifica del trattato,
scongiurò, per un verso, le intenzioni della destra di
risolvere i problemi politici del Regno con un colpo di Stato che
avrebbe abolito lo Statuto e, per l’altro, diede la
possibilità al governo di riprendere la via delle riforme
interrotta a seguito dagli eventi del 1848. A cominciare con la
limitazione dei privilegi ecclesiastici ispirati dal ministro di
grazia e giustizia Giuseppe Siccardi (1802-57) (12) e sostenuti dal
nuovo ministro dell’agricoltura commercio e marina, il liberale di
centro-destra Camillo Benso di Cavour (13).
L’impegno di questi in una politica liberista, condivisa anche dalla
sinistra di Urbano Rattazzi (1808-73), fu alla base di un accordo
(polemicamente definito connubio dai conservatori) che, isolando le
estreme ed unendo progressisti di destra e moderati di sinistra, gli
consentì di assumere, nonostante l’avversione che il re
nutriva nei suoi confronti, la presidenza del Consiglio (novembre
1852) e condurre il Regno di Sardegna in una fase politica
intraprendente e dinamica. Il percorso del suo governo, coerente con
il rafforzamento del regime liberale, dello sviluppo economico e
dell’egemonia politica in Italia, incontrò difficoltà
nel momento in cui si decise di riprendere il cammino delle riforme
in campo ecclesiastico con un progetto di incameramento dei beni che
si scontrò con i sentimenti religiosi del re. Questi
cercò di mettere in crisi il governo ma nulla potè
contro la palese volontà della maggioranza dei deputati
favorevole a Cavour che vide rafforzata la sua posizione.
In politica estera gli obiettivi di Cavour furono rivolti alla
contrapposizione all’Austria evidenziata con una legge che concedeva
un indennizzo a tutti i rifugiati lombardi in Piemonte vittime di
sequestro dei loro beni a seguito dell’insurrezione milanese del
febbraio 1853 (n. 8). Contrapposizione che si sarebbe rivelata priva
di conseguenze se il Regno non si fosse inserito nel dinamismo delle
alleanze europee. Queste subivano, in quel tempo, un rimescolamento
a seguito della crisi emergente nelle nazioni orientali causata
dello sfaldamento dell’impero Ottomano (attuale Turchia), ritenuto
il malato d’Europa e sorretto unicamente in funzione antirussa.
Allorché la Russia dello Zar Nicola I approfittò del
progressivo cedimento dell’impero turco per occupare (1853) i
principati ottomani di Moldavia e Valacchia (attuale Romania) per
crearsi nuove vie verso il Mediterraneo, Inghilterra e Francia,
attente a mantenere l’equilibrio dei poteri e salvaguardare i loro
interessi, sostennero la Turchia, invitando altre potenze europee a
regolarsi in maniera analoga. Mentre la reazionaria Austria apparve
inizialmente riluttante a schierarsi a fianco delle potenze liberali
e contro una Russia altrettanto reazionaria, Cavour riuscì a
far entrare il regno Sardo nell’alleanza antirussa ma senza ottenere
garanzie in sede diplomatica. Che anzi, rispetto ai suoi obiettivi,
furono deludenti perché Francia ed Inghilterra, pur di
coinvolgere l’Austria, le garantirono l’integrità dei suoi
domini in Italia. L’episodio centrale della guerra vinta
dall’alleanza franco-inglese si svolse in Crimea (14) e l’armistizio
del 1856 preludeva al Trattato di pace di Parigi dove il quadro
internazionale messo a punto con il Congresso di Vienna del 1815 ne
uscì sensibilmente modificato:
- l’Austria che non aveva partecipato al conflitto ne uscì
isolata, in dissidio da una parte con la Francia che estese la sua
influenza a danno della stessa Austria, e dall’altra con la Russia
che perdette la sua supremazia militare in Europa;
- Il Regno Sardo con Cavour ottenne il risultato diplomatico di
mettere all’ordine del giorno di una seduta suppletiva la
discussione sulla situazione italiana, dove Cavour, sostenuto dal
ministro inglese Gorge Clarendon, ebbe modo di sollevare una
protesta sia per la presenza di truppe austriache che occupavano
arbitrariamente territori italiani operando una politica repressiva,
sia per la politica reazionaria che Ferdinando II attuava nel Regno
delle Due Sicilie, fornendo motivo di propaganda rivoluzionaria e
destabilizzante anche per gli altri stati italiani. Per entrambe le
situazioni evidenziate Cavour ottenne solo comprensione ma, al
momento, nessun impegno.
L’imperatore francese Napoleone III (15) che era riuscito a spezzare
il fronte conservatore tra Austria e Russia, si stava avvicinando
agli interessi di Cavour nella prospettiva di una alleanza
franco-piemontese mirante ad estendere l’influenza francese a danno
dell’Austria. Un attentato, operato dall’italiano Felice Orsini
(gennaio 1858) offrì a Cavour l’opportunità di
attribuire la responsabilità dell’attentato a Mazzini (16) e
di adottare una serie di efficaci misure contro i rivoluzionari,
convincendo Napoleone III della necessità di eliminare i
motivi che avrebbero potuto scatenare una rivoluzione di tipo
mazziniano e di incontrarlo segretamente Cavour a Plombiers (20
luglio del 1858) (17). Qui fu puntualizzato un accordo di alleanza
contro l’Austria che prevedeva una comune guerra che doveva assumere
un carattere difensivo e progettava la semplificazione della
situazione politica italiana con l’istituzione di una confederazione
di tre regni presieduti dal Papa:
- regno dell’Alta Italia con l’annessione del Lombardo-Veneto e
dell’Emilia e Romagna al Regno di Sardegna/Piemonte che avrebbe
ceduto alla Francia la Savoia e la provincia di Nizza;
- regno dell’Italia Centrale comprendente la Toscana e la parte
restante dello Stato Pontificio che sarebbe potuto andare al cugino
dell’imperatore, il principe Napoleone Girolamo, con la
sovranità su Roma riconosciuta al Papa;
- regno delle Due Sicilie che, protetto dallo zar, sarebbe rimasto
inalterato ma sul regno borbonico sarebbe dovuto subentrare un
discendente di Murat.
L’accordo, sul piano internazionale, non era quanto di meglio Cavour
auspicasse ma la sottrazione all’Austria dei domini Italiani avrebbe
aperto la prospettiva ad altri vantaggi per il Regno Sardo che,
tuttavia, avrebbe dovuto prepararsi a contenere le mire di Napoleone
III volte a sostituire l’egemonia austriaca con la sua. Sul piano
interno, l’accordo aveva potenziato il consenso intorno a Cavour al
punto da attrarre sulla sua linea monarchica e moderata gran parte
del movimento patriottico che si era finora riferito a quella
democratica e rivoluzionaria di Mazzini.
- La II Guerra d’Indipendenza
Avendo concordato l’intervento della Francia legato ad un pretesto
legalistico, il Regno Sardo, che non poteva dichiarare guerra
all’Austria, attese l’evento favorevole. Evento di chiara
aggressione, onde non consentire incertezze in Napoleone III e senza
smuovere gli interessi delle grandi nazioni europee (18).
Intanto l’attivismo diplomatico di Cavour aveva già allarmato
l’Austria che, a seguito della disponibilità emersa nel
discorso d’apertura del parlamento (10 gennaio 1859) da Vittorio
Emanuele II “Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante
parti d’Italia si leva verso di noi”, schierò un corpo
d’armata, sul Ticino, lungo il confine con il Piemonte, il quale,
nel timore di una aggressione, mobilitò l’esercito a cui si
aggiunse il corpo di volontari (Cacciatori delle Alpi) guidato da
Giuseppe Garibaldi (19).
Fin qui non vi sarebbe stato alcun chiaro motivo di guerra se
l’Austria non avesse intimato al Piemonte, con un ultimatum (23
aprile 1859), la smobilitazione delle truppe e lo scioglimento del
corpo volontario. Vittorio Emanuele respinse l’ultimatum e l’Austria
con le sue truppe varco il Ticino per invadere il Piemonte. Era
l’aggressione che avrebbe fatto scattare l’intervento francese in
appoggio al Regno Sardo.
Il comando supremo dell’esercito sardo fu assunto da Vittorio
Emanuele, coadiuvato dal ministro della guerra Lamarmora (n. 10) e
dal capo di Stato Maggiore Morozzo della Rocca, per quell’avventura
che viene denominata II Guerra d’Indipendenza.
Le operazioni videro due fasi distinte. Nella prima, caratterizzata
da un certo staticismo, l’esercito austriaco comandato dal
maresciallo Gyulai (20) invece di aggredire l’esercito piemontese
prima dell’arrivo dei francesi secondo le disposizioni ricevute,
procedette con cautela, nel timore di essere aggirato, fino ad
occupare Biella e Vercelli (inizio maggio), quindi, incerto se
puntare su Torino o attaccare Alessandria, base dell’esercito
piemontese, preferì sostare in Lomellina, concedendo ai
francesi il tempo di giungere ad Alessandria (14 maggio 1859) dove
Napoleone assunse il comando delle operazioni. Iniziava quindi la
seconda fase operativa della guerra e, mentre Garibaldi con i suoi
Cacciatori occupava Varese e sconfiggeva gli austriaci a San Fermo
(26-27 maggio), l’esercito franco-sardo si diresse verso nord (21),
sorprendendo Giulay che, sconfitto a Palestro (31 maggio) e pur
ritirandosi ad est del Ticino, non evitò lo scontro e la
sconfitta del 4 giugno a Magenta, a seguito di una incerta e
sanguinosa battaglia sostenuta dall’esiguo contingente franco-sardo
che era riuscito ad attraversare il Ticino.
L’esercito Austriaco demoralizzato retrocedette per trincerarsi nel
quadrilatero (le fortezze di Mantova, Peschiera, Verona e Legnago).
Napoleone, anziché pressare l’esercito austriaco in ritirata,
preferì prendere la strada, ormai priva di ostacoli, verso
Milano dove entrò, con Vittorio Emanuele II (8 giugno),
ricevendo un’accoglienza che ricordò quella ricevuta dallo
zio (1797).
Con le imprese di Garibaldi che, dopo aver occupato Bergamo e
Brescia, si avviava verso la Valtellina, la Lombardia era
conquistata ma la guerra non ancora vinta. Infatti l’imperatore
Francesco Giuseppe (22), dopo aver rimosso Giulay ed assunto il
comando del contingente austriaco, si preparava allo scontro
decisivo con l’esercito alleato. Questo, conseguite a Solferino da
parte dei francesi ed a San Martino dai sardi (24 giugno) vittorie
decisive, si predisponeva ad attraversare il Mincio per penetrare
nel Veneto pressando gli austriaci in ritirata. Frattanto la flotta
franco-sarda nell’Adriatico bloccava Venezia, mentre Napoleone III,
ritenendo pericoloso il prosieguo della guerra, concordava con gli
austriaci un armistizio a Villafranca (8 luglio) e, tre giorni dopo,
le condizioni di pace che prevedevano il passaggio della Lombardia
alla Francia che l’avrebbe trasferita al Regno Sardo, ricevendo in
cambio la Savoia e la provincia di Nizza (23). Veniva inoltre
auspicato che “.. i duchi di Toscana e di Modena rientrino nei loro
Stati”.
Varie sono le ipotesi volte a spiegare la prematura decisione di
Napoleone III di concordare l’armistizio senza consultare Vittorio
Emanuele II ma condizionandolo alla sua ratifica, che avvenne
malgrado il vivace dissenso di Cavour. Il re non aveva la visione
politica del Cavour e, pur se messo di fronte a fatti gestiti
unilateralmente da Napoleone, presumibilmente si sentì
appagato dell’acquisizione della Lombardia che realizzava un antico
desiderio dei suoi predecessori. Cavour invece, con il Veneto
rimasto sotto dominio austriaco, vide infrangersi i suoi obiettivi
di unificazione e si dimise, abbandonando freddamente il re che
diede incarico a Lamarmora (n. 10) e Rattazzi di formare il nuovo
ministero.
L’annessione di Toscana ed Emilia-Romagna al Regno Sardo avvenne
attraverso distinti momenti che, pur in tempi brevi, passarono dalla
fase di sostegno alla guerra contro l’Austria, all’istituzione di
governi provvisori ed all’adesione al regno costituzionale di
Vittorio Emanuele II.
Fin dalle prime avvisaglie di crisi con l’Austria, i democratici
toscani ed emiliani premettero per un diretto sostegno alla guerra
condotta dal Regno Sardo, scontrandosi con le posizioni dei
rispettivi sovrani che, collegati con l’Austria, scelsero una
posizione di neutralità che li costrinse ad abbandonare le
rispettive sedi rimaste sguarnite a seguito del ritiro dei
contingenti austriaci, utilizzati per sopperire i rovesci subiti
nella guerra.
In Toscana, Il granduca Leopoldo II di Lorena (n. 2), prendendo atto
del favore che si manifestava nelle varie organizzazioni liberali a
favore del Regno di Sardegna e rifiutandosi di abdicare in favore
del figlio Ferdinando, in concomitanza con una manifestazione
indetta per il 27 aprile dalla Società Nazionale (n. 13),
preferì abbandonare Firenze, consentendo l’istituzione di un
Governo Provvisorio Toscano che offrì la dittatura a Vittorio
Emanuele II. Questi temendo di sollevare problemi nell’incerto
panorama diplomatico, si limitò ad accordare la propria
protezione ed a nominare, con funzioni di capo di Stato il suo
inviato Carlo Boncompagni che formò un governo guidato da
Bettino Ricasoli (26). Questi, dopo la pace di Villafranca,
convocò le elezioni e l’assemblea eletta votò, 7
agosto 1859, una dichiarazione di decadenza della dinastia Lorenese
e la volontà della Toscana di entrare a far parte di una
Regno costituzionale diretto da Vittorio Emanuele II (27).
In Emilia, dopo l’abbandono del ducato di Modena da parte di
Francesco V d’Asburgo d’Este (duca di Modena, Reggio ecc) a seguito
della sconfitta subita dagli austriaci a Magenta, si formò un
governo provvisorio (15 giugno 1859) diretto da Luigi Farini (28)
che fece approvare da una assemblea (21 agosto) sia la decadenza
estense che l’unione al Regno Sardo.
Ugualmente accadde nel ducato di Parma con la partenza di Maria
Luisa di Borbone (reggente per conto del figlio Roberto) e
l’assunzione di poteri da parte i Giuseppe Manfredi.
Nelle Legazioni Pontificie dell’Emilia (Bologna e Romagna) dopo il
ritiro delle truppe austriache subentrò, a Bologna, nel
governo provvisorio Gioacchino Pepoli, sostituito l’11 luglio (dopo
l’armistizio) da Massimo D’Azeglio in qualità di commissario,
quindi dal governatore Leonetto Cipriani che, il 6 settembre,
convocò l’assemblea che sancì la fine del governo
pontificio e l’annessione al Regno Sardo.
Deliberate le annessioni, Toscana ed Emilia assunsero l’iniziativa
di costituire un lega militare al cui comando fu posto il generale
Manfredo Fanti (29). La determinazione con cui si era sviluppato il
movimento di liberazione nelle regioni centrali d’Italia, rendeva
evidente che un eventuale tentativo di restaurazione non sarebbe
stato privo di reazione e Napoleone garantì che non vi
sarebbe stato intervento armato in mancanza di disordini.
Intanto per Vittorio Emanuele II si pose il problema di come
accogliere diplomaticamente tali eventi e, secondo il suggerimento
di Napoleone che anche gli promise di sostenerlo in sede negoziale,
adottò la formula dell’accoglienza. La qualcosa lasciò
sconcertati i rappresentanti di Emilia e Toscana che, da Cavour, che
seguiva l’evoluzione dietro le quinte, ricevettero il suggerimento
di intenderla piuttosto come accettazione.
Quando, per l’inadeguatezza del governo Rattazzi-La Marmora rispetto
alle iniziative che la situazione chiedeva, fu richiamato al governo
Cavour (21 gennaio 1860), egli riuscì, con una serrata
trattativa ad attenuare la posizione di Napoleone in difesa dei
domini pontifici e di contrattare il consenso francese
all’annessione di Toscana ed Emilia, in cambio della conferma della
cessione del territorio di Nizza e Savoia (n. 23) (30).
Il plebiscito del 11-12 marzo 1860 in Toscana ed Emilia
confermò a grandissima maggioranza il favore all’annessione
al Regno di Sardegna. L’assimilazione al nuovo Stato si
realizzò in buona parte entro la fine dello stesso anno,
anche se alcune procedure rimasero in vigore per anni.
Le insurrezioni nelle Marche ed Umbria erano state frattanto
decisamente represse dalle truppe pontificie (31) aggravando la
situazione dello Stato che continuava a sopravvivere grazie alla
presenza di un presidio di truppe francesi. Marche ed Umbria saranno
successivamente annesse al Regno di Vittorio Emanuele II per
plebiscito dopo la battaglia di Castelfidardo (settembre 1860; v.
capitolo successivo).
In Veneto l’Austria manteneva l’occupazione malgrado le
difficoltà in cui essa versava per l’inasprirsi della
rivalità con la Prussia.
Il Regno delle Due Sicilie, chiuso ad ogni apertura liberale,
continuava a scivolare verso un decadimento sempre più
profondo.
La spedizione dei Mille e la liberazione del meridione
- Le premesse
Le vicende dell’Italia centrale avevano avviato il processo di
unificazione ma, parallelamente a quella dello Stato Pontificio, si
era ancor più aggravata la crisi politica nel Regno delle Due
Sicilie. L’obiettivo insurrezionale dei democratici che inizialmente
era rivolto allo Stato pontificio si spostò quindi verso la
Sicilia dove l’equilibrio tra popolazioni e governo era più
facilmente alterabile.
In Sicilia, nei moti degli anni ’20 e ’48 che avevano registrato una
massiccia partecipazione popolare, era ormai maturata la convinzione
che l’indipendenza da Napoli poteva essere ottenuta mediante
l’adesione ad un progetto di confederazione italiana. Non era
pertanto irrealistica la previsione che un intervento armato potesse
provocare una sollevazione. Della qualcosa non era convinto Cavour
mentre stavano cedendo le perplessità di Garibaldi (32). A
Francesco Crispi ed a Rosolino Pilo (33), ambedue siciliani ed il
primo in rapporti di vicinanza con Mazzini, era stato affidato il
compito di preparare il terreno per tale eventualità ed
avevano convinto Garibaldi che era maturato il momento di sfruttare
l’endemica irrequietezza contadina e che il sentimento di staccarsi
da Napoli era ormai diffuso in tutte le classi (34). Era pertanto
divenuta praticabile la possibilità di promuovere, secondo
l’idea mazziniana, la rivoluzione dal basso. Idea che Vittorio
Emanuele, in costante contatto con un Garibaldi deciso ad ottenere
adeguatezza di mezzi e finalità di unificazione al Regno
Sardo, incoraggiava segretamente senza compromettersi.
Altri esuli siciliani più conservatori, frattanto, allarmati
dal timore che si potessero ripetere gli eccessi del 1849, per
sondare la possibilità di una azione diplomatica sorretta da
una militare rivolta all’annessione, fatta salva l’autonomia,
avevano preso contatto con Cavour il quale promise che, ove gli
eventi portassero la Sicilia ad una annessione al Regno Sardo, essa
avrebbe ricevuto un notevole grado di autonomia. Cavour, aspramente
e personalmente avversato da Garibaldi per la cessione di Nizza,
malgrado si rendesse conto dello stato di crisi del regime
borbonico, riteneva prematura qualsiasi azione militare, comunque
condotta, nel timore che essa, per la tendenza separatista dei
siciliani, potesse assumere una impronta mazziniana difficilmente
gestibile. Tuttavia egli, in stretto contatto con l’esule La Farina
(35), era favorevole a mantenere in Sicilia un costante stato di
agitazione, sperando che il governo borbonico, non riuscendo a
controllare l’anarchia delle campagne, ricorresse al Piemonte per
una qualsiasi forma di sostegno. Ed, a tal fine, attraverso il suo
ministro Villamarina, cercava di stabilire con i Borboni un qualche
rapporto che li sottraesse all’influenza austriaca.
Mazzini sosteneva l’impresa cui si accingeva Garibaldi, avendo
superato la contrapposizione repubblica-monarchia e privilegiando
l’obiettivo dell’unità nazionale.
Crispi era ritornato segretamente in Sicilia stabilendo contatti con
la rete di forze insurrezionali e con alcuni capibanda per
organizzare le fasi iniziali della rivolta che avrebbero dovuto
preparare il terreno per l’azione di Garibaldi. All’inizio del 1860
piccoli focolai di disordine si manifestavano ovunque e la
popolazione, diffondendosi l’attesa di una imminente rivoluzione,
cominciò ad agitarsi per ottenere giustizia ed a porre le
prerogative per un movimento di vaste proporzioni. Un tentativo
insurrezionale, prematuramente organizzato e condotto da Francesco
Riso a Palermo (4 aprile), fu prontamente sedato presso il convento
della Gancia con la fucilazione di numerosi insorti.
Il fermento popolare non cessò e si estese alle campagne ed
ai centri (Messina, Carini, ecc.) assecondato dall’aristocrazia e
dalla nuova borghesia terriera che, mirando a difendere la solida
impalcatura feudale, tendeva ad attribuire al governo le colpe della
miseria e dello sfruttamento, trovando la solidarietà dei
contadini che furono trascinati in una guerriglia con obiettivo del
conseguimento dell’autonomia, non dell’unità nazionale. La
guerriglia si diffuse, attaccando gli avamposti delle truppe
borboniche che, pur preventivamente informate, non riuscivano a
prevenire. Vennero tagliate le linee telegrafiche (36) diffondendo
il panico tra i funzionari e vennero interrotti i rifornimenti,
causando un aumento dei prezzi che rinfocolava le proteste e, col
deteriorarsi dell’ordine, creava una situazione caotica e di diffusa
anarchia.
Scordato e De Miceli (v. prima), fiutando il corso degli eventi,
divennero rivoluzionari per controllare la rivolta e preservare i
loro imperi privati. Il governo per controllare il disordine
incoraggiò la formazione di una milizia di volontari della
classe media e trovò aiuto in coloro che, pur avversando i
Borboni, ancor più temevano la rivolta contadina.
Il 26 marzo Rosolino Pilo con Giovanni Carrao era partito da Genova
recando in Sicilia un ingente quantitativo d’armi ed appena arrivato
era riuscito, dopo l’insuccesso del 4 aprile, a serrare le fila dei
rivoltosi. Prese contatto anche con i capi della delinquenza locale
di Cinisi, Tenasini, Montelepre, S. Giuseppe Iato Corleone,
Partitico ecc. e, ridestando le speranze, riuscì a creare
un’attesa carica di tensione (37). La notizia della reazione
borbonica al tentativo insurrezionale fu taciuta a Garibaldi ma
provocò apprensione ed indusse Crispi a sollecitare
l’organizzazione di Genova ad accelerare i preparativi per la
spedizione che erano intralciati da difficoltà di ordine
politico create da Cavour. Questi si sentiva in difficoltà a
favorire un movimento diretto contro lo Stato borbonico con cui si
mantenevano relazioni diplomatiche ma, politicamente indebolito per
la cessione di Nizza e della Savoia, non era in grado di contrastare
apertamente Garibaldi. Comunque egli, pur non fidandosi di Garibaldi
e temendo l’influenza che avrebbe potuto esercitare Mazzini, non
aveva obiezioni di principio verso gli obiettivi della spedizione
ed, oltre ad operare un attento controllo della fase preparativa,
manteneva una cauta posizione di attesa.
- La partenza dei Mille
Al quartier generale dell’operazione di Genova, Villa Spinola, sotto
gli occhi vigili del governo, giungevano per arruolarsi poco
più di un migliaio di volontari (1162) tra esuli meridionali,
giovani intellettuali, studenti e popolani (38), provenienti dalle
regioni del nord che si acquartierarono presso la spiaggia di
Quarto. Restava la difficoltà degli scarsi armamenti e del
reperimento delle navi per il trasposto. A queste provvidero Nino
Bixio (39) e Benedetto Castiglia che, il 5 maggio, con poche decine
di uomini e con la collaborazione di Giambattista Fauché (n.
39), prese possesso, nel porto di Genova, di due navi a vapore della
compagnia marittima di Raffaele Ribattino (40), il Lombardo ed il
Piemonte, su cui si imbarcarono i volontari per partire, la mattina
del 6 maggio 1860, verso la Toscana. Qui, dal comandante della
guarnigione del Regno Sardo di Telamone, Garibaldi, dichiarandosi
generale dell’esercito piemontese, si fece consegnare armi e
munizioni. Quindi, prima di proseguire, inviò un gruppo di
sessantaquattro uomini che, guidati da Callimaco Zambianchi,
operarono una manovra diversiva verso territori dello Stato
pontificio quindi raggiunsero a scaglioni la Sicilia. Dopo la
partenza da Talamone (9 maggio) (41) le due imbarcazioni fecero
sosta a Porto S. Stefano per rifornimenti di carbone, quindi si
diressero verso la Sicilia. Nei pressi della quale, godettero della
provvidenziale copertura della flotta britannica che, con il
pretesto di proteggere i cittadini inglesi residenti in Sicilia,
incrociava intorno alle coste sicule, frapponendosi fra le navi
garibaldine e quelle borboniche per ostacolare l’eventuale
intervento di queste, a meno di rischiare uno scontro con gli
inglesi che avrebbe potuto causare il coinvolgimento armato
dell’Inghilterra (42). Anche all’arrivo a Marsala (11 maggio) dove e
non a caso Garibaldi scelse di sbarcare riuscendo a procedere le
navi borboniche all’inseguimento, fu protetto dalla presenza in
porto di navi inglesi (Argus ed Intrepid) che, non occasionalmente
alla fonda, manovravano opportunamente per proteggerlo dal
cannoneggiamento delle navi borboniche. Il Piemonte si arenò
per favorire lo sbarco mentre il Lombardo fu cannoneggiato ed
affondato quando ormai tutti i volontari garibaldini erano sbarcati.
- La conquista della Sicilia
Il contingente sbarcato, trovò fredda accoglienza dai
cittadini di Marsala. Il giorno successivo, salutato dal console
inglese Collins, diviso il suo contingente in sette compagnie cui si
erano uniti decine di volontari siciliani, Garibaldi concordò
la strategia con il suo capo di stato maggiore, Sirtori (44), quindi
procedette con cautela verso Salemi beneficiando della generosa
ospitalità ricevuta lungo il percorso dal marchese di
Torrealta. Lungo il trasferimento il contingente evitò le
principali vie di comunicazione, guidato dalla eccezionale
capacità di Garibaldi che, non volendo scontrarsi con forze
nettamente preponderanti, attuava una strategia di guerriglia
appresa nel decennio di lotte in Sud America. Essa consisteva
nell’evitare la battaglia in campo aperto e preferire assalti
improvvisi in campi angusti, rapide marce ed accurate dispersioni,
tattica che demoralizzava il nemico ed animava i suoi.
Giunto il 13 maggio a Salemi accolto da entusiastici festeggiamenti,
Garibaldi emanò, il giorno successivo, un proclama in cui
dichiarava di assumere la dittatura della Sicilia in nome di
Vittorio Emanuele II, quindi si diresse verso Calatafimi. Qui, il
generale borbonico Francesco Landi (45) inviò un
distaccamento, tre compagnie di 2000 uomini, guidato dal maggiore
Sforza il quale decise di attaccare appena resosi conto della
esiguità numerica dei volontari garibaldini. Questi,
schierati sulle alture di Pietralunga, rimasero in attesa
finché i borbonici non furono alla portata quindi spararono a
bruciapelo ed aggredirono all’arma bianca (15 maggio). Nello scontro
violento, sanguinoso ed incerto i garibaldini ebbero la meglio
grazie all’apporto di volontari siciliani (46).
La diffusione della notizia dello scontro vittorioso, propagata con
i falò sulle alture, rappresentò un elemento
determinante per il prosieguo dell’impresa che fu sostenuta
dall’entusiasmo e dal coinvolgimento delle masse contadine. Esse
vedevano in Garibaldi il vendicatore delle ingiustizie patite ed
egli, con il suo carisma e la sua sensibilità popolare,
riuscì a valorizzare la loro partecipazione creando una
atmosfera di entusiasmo e di fiducia che concorsero ad accrescerne
la leggenda.
L’aggregazione diretta al contingente di alcune migliaia di
volontari (picciotti) guidati da Rosolino Pilo e da Giuseppe La
Masa creò in tutta l’isola un clima rivoluzionario.
L’aggregazione diretta al contingente di alcune migliaia di
volontari (picciotti) (47) guidati da Rosolino Pilo e da Giuseppe La
Masa creò in tutta l’isola un clima rivoluzionario.
Da Calatafimi (16 maggio), attraverso Alcamo, Partinico e Borsetto,
il contingente garibaldino si diresse, in un susseguirsi di rapidi
scontri nel corso dei quali perse la vita (21 maggio) Rosolino Pilo
(n. 33), verso Palermo dove si stavano asserragliando, per preparare
una controffensiva, le truppe borboniche del generale Landi che, su
suggerimento di Filangeri (n. 7), venne sostituito dal generale
Ferdinando Lanza, siciliano conoscitore dei luoghi ma vecchio e
lento, cui era stato dato mandato di evitare il concentramento delle
forze a Palermo. Garibaldi che intuiva la minaccia incombente,
predispose una apparente manovra di ritirata con l’invio di un
gruppo di volontari, attraverso la Piana dei Greci, verso Corleone.
Manovra che trasse in inganno il corpo di tremila svizzeri che,
guidati dal colonnello Von Mekel, erano stati inviati ad
intercettare i garibaldini. Frattanto Garibaldi, col grosso dei suoi
volontari, di notte e per vie secondarie aggirò a sud Palermo
e all’alba del 27 maggio, con l’avanguardia condotta da Bixio,
sorprese le disorientate truppe borboniche da est, presso il ponte
dell’Ammiraglio conquistato all’arma bianca dopo un breve ma
violento combattimento (48).
I garibaldini, esprimendo livelli elevati di eroismo, si aprirono
l’accesso alla città che li accoglieva sostenendoli ed
affiancandoli. Il comandante delle truppe borboniche, Lanza,
abbandonò via via gran parte dei quartieri cittadini, premuto
dai garibaldini e dagli insorti e, nel tentativo di capovolgere le
sorti dello scontro, si ritirò sulle alture del forte di
Castellammare da dove, per tre giorni, cannoneggiò la
città sottoponendola ad un inutile massacro che causò
centinaia di morti. Malgrado l’arrivo di rinforzi, i borbonici
continuavano ad arretrare, finché su intervento del
comandante della squadra britannica nel porto di Palermo, ammiraglio
Mundy, fu proposto un armistizio. Questo, concordato su una nave
britannica (31 maggio) da Garibaldi e Crispi con gli inviati
borbonici, prevedeva il mantenimento delle rispettive posizioni
militari (49).
Il generale Lanza aveva ricevuto dal re, cui era stato fatto un
quadro molto più fosco della realtà, facoltà di
decidere. Egli, attanagliato dall’inevitabilità della
sconfitta, rinunciò alla difesa di Palermo lasciandola in
mano agli irregolari di cui conosceva l’ardore e, predisponendosi
per uno scontro in campo aperto, il 6 giugno, concordò
l’imbarco delle truppe. Queste, entro il 19 giugno, lasciarono
Palermo, attuando, come era accaduto nel 1848, il piano di emergenza
che consisteva nel ripiegare su Messina dove le truppe borboniche
vennero affidate al comando del generale Clary (50).
A Palermo Garibaldi istituì il quartier generale a Palazzo
Pretorio ed un governo provvisorio (2 giugno) da lui presieduto ma
sostanzialmente diretto da Crispi, in qualità di ministro
degli interni. Intanto l’eco provocata dai successi garibaldini ebbe
favorevoli ripercussioni all’interno in quanto tutta l’isola si
sollevava abbattendo, a parte la piazzaforte di Messina, i presidi
borbonici che, fin dall’inizio, assuefatti alla convinzione che
avrebbero agevolmente controllato l’arrivo di un migliaio di
garibaldini male armati, erano impreparati a reggere una vasta
rivolta popolare.
Nelle campagne, infatti, da parte del proletariato agrario si era
scatenata una sanguinosa sommossa che, priva di carattere politico,
si rivolgeva non solo contro i borbonici ma anche contro i
proprietari terrieri ed i gabellotti (affittuari di latifondi),
ritenuti responsabili del loro malessere.
I successi dei garibaldini promossero diverse reazioni.
A Napoli, consigliato da Carlo Filangeri, il re Francesco II
cercò di correre ai ripari con tardive concessioni liberali
fino a ripristinare la costituzione del 1848, dare avvio alla
formazione di un governo moderato diretto dal principe Antonio
Spinelli di Scalea (25 giugno 1860) ed adottare il tricolore. Scelte
che comunque non servirono ad arrestare la disgregazione del Regno.
In continente la fama risonante dell’impresa garibaldina e
l’entusiasmo destato aveva moltiplicato gli sforzi con ripetuti
invii, tra giugno e luglio, di materiali ed uomini che accorrevano
da tutte le parti d’Italia (51).
In luglio Garibaldi inviò tre colonne di circa seimila
uomini, tutti regolarmente inquadrati e giustamente equipaggiati a
presidio del territorio di Girgenti (Agrigento), quella comandata da
Bixio, a Catania quella di Stefano Turr (52) , e la terza, la
più consistente, di duemilacinquecento uomini, guidata da
Giacomo Medici (n. 51) verso Messina dove si erano raggruppate le
truppe borboniche. Quest’ultima, intercettata a Milazzo da un
contingente borbonico fu raggiunta da Garibaldi (19 luglio) ed il
giorno successivo avvenne lo scontro col contingente borbonico del
colonnello Beneventano del Bosco che, nello scontro più
articolato e sanguinoso fino ad allora combattuto in Sicilia
inflisse loro severe perdite (quasi ottocento garibaldini rimasero
sul campo) ma fu costretto a ritirarsi nel forte di Milazzo. Il 24
luglio, tra Medici e Clary, fu stabilito un accordo che prevedeva la
resa di Milazzo ed il 28 della città di Messina mentre il
contingente borbonico si sarebbe ritirato nella cittadella di
Messina.
Ora che la Sicilia era conquistata sorgevano le questioni di
carattere amministrativo e politico.
- L’amministrazione della Sicilia
Garibaldi, dopo la conquista di Palermo, doveva amministrare la
Sicilia ed, aiutato dalla sua autorità morale, lo fece con
zelo riformatore privilegiando gli interessi del popolo. Ma carente
come era di esperienza ed abilità politica, non riuscì
a portare a termine quanto era nei suoi intenti perché i
notabili, appena si riebbero dalla rapidità dei cambiamenti,
ripresero ad influenzare e determinare gli eventi. Inizialmente
furono emessi una serie di decreti che sancivano sgravi fiscali,
eliminazione della tassa sul macinato e dei dazi, nazionalizzazione
delle proprietà ecclesiastiche, ripartizione delle terre
demaniali regie tra i contadini che accettavano di combattere.
Ingenuamente Garibaldi cercò di impedire che i contadini si
rivolgessero al padrone chiamandolo “eccellenza” e baciandogli la
mano (usanza troppo radicata perché potesse essere rimossa
per decreto). Egli aveva in programma di liberalizzare gli scambi,
potenziare le infrastrutture, costruire villaggi, arginare fiumi,
rimboschire i fianchi delle montagne, costruire asili e potenziare
ogni tipo di scuola.
Ed anche se il governo dittatoriale aveva adottato provvedimenti a
favore della ripartizione delle terre ai contadini, furono repressi
gli eccessi soprattutto laddove essi avrebbero potuto limitare
l’azione di unificazione avviata.
Le lotte dei contadini si allargarono facendo tramontare ogni
possibilità di convivenza con la classe borghese ed
anticipando quel fenomeno di rivolta, brigantaggio, che
caratterizzerà, nel meridione, il primo decennio
dell’unificazione. Le rivolte scoppiate nell’area etnea, Randazzo,
Regalbuto, Biancavilla, Cesarò ecc. e soprattutto a Bronte
affondavano le loro radici nei decenni precedenti, allorché
essendosi avviati altrove processi di distribuzione di terre ai
contadini, in quella zona tutto era rimasto congelato, nella
protezione del feudo appartenente agli eredi dell’ammiraglio Horace
Nelson (54) e di altri possedimenti, in zona, di cittadini inglesi.
I contadini, dando libera interpretazione ai decreti di Garibaldi,
pensarono di potersi liberare prontamente dal giogo che li aveva
oppressi per secoli. Negli ultimi giorni di luglio, spinti non da
motivi politici ma sociali legati alla miseria ed all’ingiustizia,
si coalizzarono per impadronirsi degli immensi patrimoni terrieri e,
compatti ed armati, scesero nelle piazze creando tumulti e
presidiando, in un clima di terrore, le strade per impedire la fuga
dei possidenti. Il furore popolare, sostenuto da una miscela
veemente di desiderio di libertà e mosso da odi e soprusi a
lungo repressi, si sfogò in eccidi brutali.
Per tutelare gli interessi di cittadini inglesi, il console Goodwin
sollecitò l’intervento di Garibaldi. Questi, non potendo
ignorare l’aiuto inglese nell’organizzazione e conduzione della sua
impresa, non volendo alienarsi l’appoggio dei proprietari terrieri e
tantomeno cedere alle pressioni delle masse contadine, ordinò
a Bixio, di stanza a Giardini, di recarsi a Bronte per reprimere una
rivolta che aveva ampiamente oltrepassato il limite della
civiltà. Bixio, giunto a Bronte il 6 agosto, allorché
la rivolta aveva esaurito la sua carica violenta ed i contadini si
erano già dispersi nelle campagne, proclamò lo stato
d’assedio, intimò la consegna delle armi e, quale deterrente
per altre analoghe situazioni in atto in altri comuni, attuò
una rappresaglia senza precedenti, trasformando in vittime innocenti
coloro che per primi caddero nella rete (55).
Cavour, sorpreso dagli eventi e dalla rapidità con cui essi
si erano verificati, studiava la maniera di utilizzare la conquista
e, pensando ad una annessione, dopo aver verificato il favore degli
inglesi e la tacita approvazione di Napoleone III, inviò in
Sicilia La Farina (n. 35) con l’incarico di promuovere un plebiscito
(56). Questi incontrò il dissenso di Garibaldi, di Crispi e
di tutto l’entourage. Il primo, pur mantenendo una posizione di
lealtà nei confronti del re, non riteneva conclusa la sua
azione prima della conquista dei territori continentali e dello
Stato pontificio ed il secondo, pur essendo di sentimenti
democratici ma autonomista, ebbe un aspro scontro con La Farina. Il
quale, tuttavia, avviando diverse iniziative favorite da coloro che
non si sentivano protetti da Garibaldi ma non dalla moltitudine
interessata solo all’indipendenza e non ad una forma di
sottomissione, riuscì a consolidare l’ipotesi
dell’annessione. Ma il 7 luglio, con una sfida aperta al governo
sardo in cui Cavour non voleva perdere la possibilità di
controllare lo sviluppo degli eventi, La Farina fu arrestato ed
espulso (57), facendo cadere, per il momento, l’ipotesi
annessionista.
Garibaldi in previsione di lasciare la Sicilia per risalire il
continente, dovette accettare con Torino un compromesso che
comportò la nomina a prodittatore di Agostino Depretis (v.
capitolo successivo), un esponente della sinistra moderata da lui
imposto, su suggerimento di Crispi che lo affiancò.
Depretis si insediò il 22 luglio con l’impegno a non avviare
il processo di annessione senza il consenso di Garibaldi.
- La conquista dei territori continentali
Lo sbarco in Calabria che significava un affondo più diretto
alla dinastia borbonica fu proceduto da articolate valutazioni
politiche. L’operazione di sbarco infatti non poteva che avere come
risultato l’unificazione di tutta l’Italia ed il probabile attacco
allo Stato Vaticano che era nelle esplicite intenzioni di Garibaldi
e dei suoi collaboratori, in particolare di Bertani (n. 51). Gli
inglesi che erano in rotta con i Borboni e che avevano favorito la
prima fase dell’impresa di Garibaldi erano favorevoli alla
costituzione di uno Stato Italiano purché nessuna altra
nazione trovasse occasione di ingrandimenti. Nella Francia di
Napoleone III alla iniziale posizione di tacita accondiscendenza si
era sostituita la preoccupazione che gli eventi potessero assumere
un aspetto non facilmente controllabile. L’Austria manteneva la sua
posizione di ostilità impotente. Cavour voleva impedire che
il meridione continentale fosse conquistato da Garibaldi e, dopo
aver ottenuto, con la collaborazione della diplomazia francese, le
concessioni precedentemente indicate da parte di Francesco II a
Napoli (costituzione e formazione di un governo democratico) contava
su una subalternità di questo al governo piemontese.
A tal fine, Cavour fece rientrare a Napoli tutti gli esuli ma la
prospettiva era di lungo periodo mentre gli eventi incalzavano.
Restava la possibilità di fare scoppiare a Napoli un moto
rivoluzionario contro i borboni che anticipasse le mosse di
Garibaldi. Ma anche questa ipotesi svanì perché le
classi moderate che avrebbero dovuto provocarlo, sentendosi
minacciate da una rivolta, propendevano per l’annessione. Cavour,
che riteneva elevati i rischi legati all’impresa garibaldina
continuò a non sostenerla ed ordinò all’ammiraglio
della flotta sarda, Persano (58), che incrociava nelle acque
siciliane, di non ostacolare la flotta borbonica nei tentativi di
impedire l’attraversamento dello stretto dell’armata garibaldina.
Restava però attento ad utilizzare gli eventuali risvolti
positivi. Il re Vittorio Emanuele inviava a Garibaldi missive
ufficiali per invitarlo a desistere dall’impresa e,
confidenzialmente gli faceva pervenire suggerimenti per il rifiuto.
Era questa la situazione diplomatica al momento in cui Garibaldi
decise l’attraversamento dello stretto.
Anticipate da una fitta propaganda che prometteva regole che
consentissero forme di vita più eque, nella notte tra l’8 ed
il 9 agosto, sbarcarono, trasportati da barche, sull’estremo lembo
della penisola le avanguardie garibaldine di circa duecento uomini
guidati da Benedetto Musolino (*) che, con l’apporto di numerosi
volontari guidati da Agostino Plutino ed appartenenti a tutte le
classi sociali, stabilirono una testa di ponte da cui partirono
ripetuti e vani tentativi di conquistare il forte di Altafiumara,
difeso dal generale Ruiz (59).
Garibaldi, appena rientrato dalla Sardegna dove era andato a
sbloccare la partenza per la Sicilia di volontari che, organizzati
da Bertani, erano stati impediti dalle autorità nel timore
che fossero diretti contro lo Stato Pontificio, raggiunse Taormina.
Là si era radunato il grosso del contingente (3600 uomini)
che imbarcatosi a Giardini (Taormina) su due navi di trasporto
(Franklin e Torino) attraversò nella notte del 18 agosto le
acque dello Stretto di Messina senza essere ostacolato da presenze
ostili (60).
Sbarcò all’alba del 19 agosto, a Melito di Porto Salvo
accolto dall’entusiasmo popolare. La stessa notte Reggio fu
attaccata costringendo alla resa la guarnigione borbonica.
La felice operazione di sbarco riscosse risonanza all’estero,
suscitò favore in Italia e convinse Cavour delle prospettive
positive ad essa legate (61). Egli assunse di conseguenza una
posizione di favore impegnandosi a controllare l’evoluzione
dell’impresa al fine di evitare l’insorgere di suscettibilità
all’estero. E per questo era necessario non coinvolgere lo Stato
Pontificio su cui si stendeva la protezione di Napoleone III.
Dopo la liberazione di Reggio i garibaldini erano fronteggiati da
circa 16.000 soldati borbonici dislocati tra Reggio e Monteleone
(attuale Vibo Valentia). Il contingente guidato da Garibaldi e
Medici attaccò le truppe borboniche guidate dai generali
Fileno Briganti e Nicola Melendez attestati nel pressi di Scilla
che, non ricevendo il sostegno delle forze comandate dai generali
Ruiz e Vial, si arresero (62). Le truppe garibaldine, rafforzate da
un secondo contingente che, guidato da Bertani e Cosenz era
sbarcato, il 22 agosto, sul lido di Favazzina (tra Scilla e
Bagnara), iniziarono la risalita e, superato il fiume Amato nella
piana di Santa Eufemia, vennero in contatto, ad Agrifoglio, con un
reparto borbonico in ritirata che, con una manovra di aggiramento
condotta dal generale Stocco, fu accerchiato nei pressi di Soveria
Mannelli (30 agosto) costringendo il generale borbonico Ghio alla
resa, malgrado la prevalenza numerica.
Conquistata agevolmente la Calabria , Garibaldi, da Cosenza (30
agosto), attraverso Castrovillari raggiunge Scalea dove si
imbarcò per Sapri e, da qui, attraverso Sala, giunse il 6
settembre a Salerno. Qui lo raggiunsero ambasciatori inviati dal
ministro degli interni del governo napoletano, Liborio Romano , che,
preoccupato per l’ordine pubblico, lo invitava a prendere pacifico
possesso di Napoli e di assumere, come in Sicilia la carica di
dittatore.
Francesco II, vedendo che tutto gli crollava attorno (65), dopo il
rifiuto di Filangeri (n. 7) di riprendere in mano la situazione, il
4 settembre tenne un consiglio di guerra dove venne decisa di
posizionare la parte di esercito rimasta fedele, al comando del
generale Giosué Ritucci, su una area di difesa fortificata,
posizionata tra i fiumi Volturno e Garigliano. Quindi, il 6
settembre, in compagnia della moglie ed ignorato da tutti mentre gli
inservienti ne rimuovevano le insegne, lasciò Napoli,
portando con se solo poche cose. Sulla nave Messaggero raggiunse
Gaeta (66) dove, il giorno seguente, insediò un nuovo governo
borbonico guidato dal generale Casella. Nelle caserme di Napoli
restavano seimila soldati comandati dal generale Cataldo.
Il 7 settembre Garibaldi con Bertani, Cosenz e pochi altri giungeva
a Napoli per ferrovia (Napoli-Portici; si era imbarcato a Cava dei
Tirreni) accolto da un tripudio di popolo.
Venne affidata a Liborio Romano la guida del nuovo governo di cui
facevano parte i ministri Crispi agli esteri, Cosenz alla guerra e
Bertani, prodittatore per le province. Al generale Ghio fu affidato
il comando della piazza di Napoli mentre giungeva notizia che il
generale borbonico al comando delle truppe in Abruzzo aveva dato
ordine di cessare ogni resistenza.
Il regime borbonico era crollato ma non ancora completamente
abbattuto.
Note:
(2) Fu questa divieto, avvenuto su pressione austriaca uno dei pochi
episodi di intolleranza del governo riformatore ed illuminato di
Leopoldo II (1797-1870), figlio di Ferdinando III e di Maria Luisa
di Borbone-Napoli, divenne, in pectore granduca alla morte del
fratello maggiore Francesco Leopoldo (1800).
(3) Carlo Cattaneo (1801-69) estraneo alla politica attiva, diresse
il consiglio di guerra durante le cinque giornate di Milano (*) e fu
esule a Parigi. Dopo averla rifiutata nel 1861, accettò nel
1867 l’elezione a deputato ma senza partecipare ai lavori per non
dover giurare fedeltà alla corona.
(4) Legati ai ceppi come delinquenti comuni furono visitati dallo
statista britannico William Gledstone (1809-98) che ne rimase
talmente scosso da denunciare le illegalità del regime
borbonico “negazione di Dio eretta a sistema di governo”. E’
opinione diffusa che tale descrizione sia stata amplificata per
motivi di contrasto politico.
(5) Secondo Francesco Saverio Nitti, Ferdinando governò
“senza guardare all’avvenire, senza aver vedute, senza prospettive”
un regno che, secondo la sua visione, doveva galleggiare “tra
l’acqua salata e l’acqua santa”, cioè isolato dal mare e
dallo Stato Pontificio.
(6) Francesco II (1836-94), altrimenti noto come Franceschiello,
figlio di Maria Cristina di Savoia e, come lei, bigotto ma non
sprovveduto come generalmente viene ritenuto. Da poco sposato con la
sorella dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, (n. 22), Maria Sofia
di Baviera, con cui ebbe un avvio matrimoniale che richiese, su di
lui, l’intervento del confessore. Maria Sofia, di carattere risoluto
ed in conflitto con la regina madre Maria Teresa d’Asburgo-Lorena
(*) (matrigna di Francesco II), cercò di condizionare le
scelte del re.
(7) Carlo Filangieri (1784-1867) figlio del giurista Gaetano, fu
ufficiale dell’esercito Napoleonico e mantenuto nel grado anche dopo
la restaurazione borbonica del 1806. Partecipò ai moti
liberali del 1821 ed, espulso da Ferdinando I, fu riammesso
nell’esercito da Ferdinando II. Represse i moti del 1848 in Sicilia,
quindi ne divenne governatore. Divenne presidente del consiglio e
ministro della guerra nel 1859.
(8) Lo sviluppo della ferrovia in Sicilia era limitato dagli scarsi
investimenti privati e dalle controversie che sorgevano per la
scelta degli itinerari che venivano a favorire o meno
località e poderi. La costruzione della
Palermo-Messina-Catania pur progettata da Francesco II, fu
deliberata da Garibaldi nel suo periodo dittatoriale e realizzata
successivamente.
(9) Anche nei centri di una certa consistenza, la frequenza delle
scuole era sconosciuta ed il popolo cresceva senza istruzione e
nozioni di morale.
(10) Genova, dopo l’ingloriosa pace di Vignale (*), aveva promosso
una rivolta antimonarchica con l’intento di riacquistare la sua
antica indipendenza, perduta ad opera delle truppe napoleoniche nel
1797.
Il generale Alfonso Lamarmora (1804-78) che, dopo la sconfitta di
Novara era divenuto commissario reale a Genova, sedata la rivolta,
permise atti di cruda violenza sulla popolazione, definita “vile ed
infetta razza di canaglia”, ricevendo l’elogio del re. Lamarmora
divenne ministro della Guerra nei governi D’Azeglio e Cavour,
comandante della spedizione in Crimea e primo ministro, a seguito
delle dimissioni di Cavour successive alla pace di Villafranca.
Prefetto a Napoli nel 1861, condusse la lotta al brigantaggio. Fu
presidente del consiglio anche nel 1864-66 allorché si dimise
per guidare le operazioni della III Guerra d’indipendenza in cui
ebbe gravi responsabilità nella sconfitta di Custoza.
(11) Accordi di armistizio concordati da Vittorio Emanuele II con il
maresciallo Radetsky a Vignale il 24 maggio e che sarebbero dovuti
essere trasformati in trattato di pace dopo l’approvazione del
Parlamento (9 gennaio 1850). Essi prevedevano la cessione
all’Austria della fortezze di Alessandria e territori tra il Po, il
Sesia ed il Ticino.
(12) Esse, tra l’altro, prevedevano, per le corporazioni
ecclesiastiche il divieto di acquisire beni e ricevere
eredità e donazioni, senza l’approvazione del Governo. Contro
cui si sollevò la reazione clericale che fu controllata con
severi provvedimenti che videro l’incarcerazione dell’arcivescovo di
Torino e l’espulsione dal regno degli arcivescovi di Cagliari e
Sassari.
(13) Camillo Benso di Cavour (1810-61) dopo la giovinezza
nell’esercito e la formazione all’estero dove studiò gli
effetti della rivoluzione industriale in Gran Bretagna, Francia e
Svizzera acquisendo i principi economici e sociopolitici del sistema
liberale, assunse la presidenza del consiglio a seguito della caduta
del ministero d’Azeglio sul progetto istituzionale del matrimonio
civile osteggiato sia dal re che dai conservatori. Questione che
Cavour non ripropose per non alienarsi il consenso verso le sue
iniziative politiche che, miranti allo sviluppo dell’economia, delle
infrastrutture (ferrovie, bonifiche, sistemi di coltivazione,
politica doganale), all’accentuazione del sistema parlamentare e
potenziamento dei commerci, avrebbe acquisito per il Regno una
posizione di prestigio europeo. La laicizzazione dello Stato (libera
Chiesa in libero Stato), pur se contrastata da cattolici e dallo
stesso re, attrasse l’attenzione di noti repubblicani confluiti a
Torino, come Giuseppe Garibaldi, il toscano Giuseppe Montanelli, il
veneziano Daniele Manin (*), il siciliano Giuseppe la Farina (n.
35), il milanese Giorgio Pallavicino Trivulzio (n. 19), il
napoletano Francesco De Sanctis che diedero avvio alla formazione
della Società Nazionale Italiana con il motto “Italia e
Vittorio Emanuele” (1857). Queste personalità che avevano
abbandonato la linea rivoluzionaria di Mazzini, premettero
perché Cavour, assieme a Vittorio Emanuele II, tramutato
malgrado il suo residuo spirito antiparlamentare in un simbolo
rassicurante di sovrano costituzionale, assumesse il patrocinio
dell’unità nazionale. Egli, con il suo acume diplomatico,
riuscì a modificare gli equilibri internazionali favorevoli
all’Austria, acquisendo una posizione di riferimento nel processo di
Risorgimento italiano.
Mazzini (*), invece, che aveva accantonato la sua pregiudiziale
repubblicana solo nel 1848 in occasione della guerra di Carlo
Alberto contro l’Austria, dai suoi successivi esili (Marsiglia,
Ginevra, Parigi e Londra), attraverso comitati rivoluzionari,
continuava ad incoraggiare attività cospirative ed iniziative
insurrezionali volte a conquistare l’indipendenza e l’unità
nazionale in uno Stato repubblicano. A questa primaria esigenza egli
subordinò ogni azione invitando i socialisti a tralasciare, a
tal fine, le lotte di classe che riteneva un fattore di divisione
delle forze interessate ad abbattere i regimi assoluti. Egli,
ritenendo che l’Italia non sarebbe stata unificata con la diplomazia
e le armi straniere, collante inconsistente, si contrappose a Cavour
che, considerando che l’Italia non poteva essere unificata dai pochi
italiani impegnati senza il consenso delle masse, si era legato alle
potenze straniere nella speranza che ciò giovasse alla causa
Italia. Mazzini continuò nel tentativo di muovere dal basso
il movimento unitario ma dopo lo sfortunato tentativo milanese
disertato dalla borghesia (6 febbraio 1853) ed a seguito altri
tentativi falliti (Genova e Livorno dove la polizia ebbe facilmente
ragione dei pochi partecipanti e per cui era stato condannato a
morte ed escluso dall’amnistia concessa dal governo di Torino
all’inizio della guerra del 1859) che gli avevano procurato accuse e
fatto perdere prestigio, riprese la lotta trasformando il suo
movimento (Giovane Italia) in Partito d’azione (1853). Questo, con
le stesse finalità, organizzò una serie di falliti
tentativi insurrezionali, tra cui la spedizione di Pisacane. Tali
insuccessi causarono riserve e critiche anche all’interno dell’area
democratica e provocarono il distacco di Medici, Bertani e Cosenz
(n. 49) e delle personalità (v. sopra) che confluirono nella
Società Nazionale Italiana, per abbracciare la linea
monarchico unitaria, strumento della politica pragmatica di Cavour
in cui il raggiungimento dell’indipendenza era abbinato delle
conquiste sociali.
(14) Nel settembre 1854 le potenze alleate sbarcarono truppe in
Crimea, cui si aggiunsero nel 1855 circa !8.000 uomini del Regno
Sardo comandati dal generale Lamarmora (n. 10) con l’aperto dissenso
di Mazzini che vedeva i soldati italiani combattere a fianco di
potenze che avevano fornito garanzie all’Austria. Nell’assedio della
fortezza di Sebastopoli, base della flotta Russa nel Mar Nero, il
contingente italiano aveva contribuito validamente al successo.
L’Austria non aveva partecipato alla guerra cui la morte dello zar
Nicola I e la successione di Alessandro II poneva fine con
l’armistizio del 25 febbraio 1856.
(15) Luigi Napoleone (*), dopo l’elezione alla presidenza della
repubblica del 1848, con un colpo di Stato sciolse nel 1851 il
parlamento e col plebiscito del 1852 si fece proclamare imperatore,
dando origine al II Impero caratterizzato da un regime
clericheggiante e poliziesco.
(16) Orsini, pur essendo un mazziniano, aveva agito senza il
consenso di Mazzini che si indignò per le accuse ricevute.
Orsini aveva in mente di favorire una ripresa democratica sia in
Francia che in Italia e, prima di essere giustiziato, scrisse a
Napoleone suscitandone la sensibilità con l’invocazione ad
adoperarsi per la causa italiana.
(17) La disponibilità di Napoleone III all’accordo era stata
propiziata con una serie di vicende in cui la diplomazia sotterranea
ebbe un ruolo non trascurabile. Attraverso un giovane collaboratore,
Costantino Nigra (1828-1907), aveva appreso che Napoleone III mirava
a far sposare a Maria Clotilde, figlia quindicenne di Vittorio
Emanuele II, il cugino Gerolamo, un maturo libertino che aveva perso
il titolo di principe ereditario per la nascita di un erede. Per
vincere la ritrosia del re, Cavour usò con cinismo le sua
capacità di convinzione ed altrettanto fece nel convincere la
contessa di Castiglione a mettersi nella disponibilità del
Nigra ed usare la sua avvenenza per conquistare Napoleone alla causa
italiana.
(18) L’obiettivo era quello di far ricadere sull’Austria la
responsabilità del conflitto per garantirsi, da una parte, la
neutralità russa che, in caso diverso, non avrebbe tollerato
un aggressione all’Austria che avrebbe comportato una guerra nel
centro dell’Europa e, dall’altra, di contenere la diffidenza
dell’Inghilterra e della Prussia che, attente a non lasciar
modificare gli equilibri a favore della Francia, avevano preso
l’iniziativa di una infruttuosa azione diplomatica per prevenire la
guerra (febbraio 1859).
(19) Giuseppe Garibaldi (1807-82), nativo di Nizza, aderì
alla Giovine Italia mazziniana, si arruolò nella marina da
guerra sarda e per la partecipazione al fallito tentativo
insurrezionale mazziniano in Savoia fu condannato a morte in
contumacia. Per sottrarsi alla condanna riparò a Marsiglia
quindi fuggì in Sudamerica (1835) dove partecipò
(1842-46) alle lotte di liberazione del Rio Grande e dell’Uruguay, a
fianco del presidente Ribera e contro il dittatore argentino Rosas
(da qui l’appellativo di eroe dei due momdi). In questo periodo
costituì la Legione Italiana contraddistinta dalla camicia
rossa (colore occasionale risalente ad una stoffa o a casacche
acquistate a basso prezzo), sposò Anita Ribeiro da cui ebbe
quattro figli ed aderì alla Massoneria. Rientrato in Italia
per guidare una legione di volontari nella I Guerra d’indipendenza
(1848, *) ed espulso dopo l’armistizio, si recò a Roma per
partecipare agli eventi della Repubblica Romana, organizzando la
difesa contro i Francesi. Caduta la città e, persa la moglie
durante la fuga, espatriò esule a New York (1850-54).
Rientrato e trasferitosi nell’isola di Caprera da lui acquistata, si
allontanò dalla politica rivoluzionaria del Mazzini per
aderire alla Società Nazionale di cui divenne vicepresidente
(con Pallavicino, presidente; n. 13), attratto dalla politica del
Cavour cui riconosceva la capacità diplomatica di promuovere
l’indipendenza e l’unità dell’Italia.
(20) Ferencz Giulay aveva sostituito il maresciallo Radetzky, morto
da poco (*) e di cui dimostrò di non possedere né la
decisione né le capacità tattiche.
(21) Per la prima volta vennero utilizzate le tradotte ferroviarie.
(23) Francesco Giuseppe (1830-1916), figlio dell’Arciduca Francesco
Carlo, nipote dell’Imperatore Ferdinando I (1830-48), divenne nel
1848, a seguito dell’abdicazione dello zio e della rinuncia del
padre, imperatore per un periodo tra i più lunghi che la
storia conosca. Salito al trono dopo le sommosse del 1848 (Vienna,
Budapest, Milano e Venezia), perseguì un programma di
restaurazione dell’autorità imperiale. Nel 1854 sposò
Elisabetta di Baviera (Sissi) figlia di Massimiliano di Wittelsbach,
divenuto re di Baviera. La sua posizione esitante in occasione della
guerra di Crimea gli alienarono le simpatie dello zar senza fargli
conquistare quelle degli alleati, ponendo le promesse per il suo
isolamento nella guerra del 1859 con i franco-sardi che segnarono
l’inizio dell’estromissione dai domini d’Italia. Insuccessi che
proseguirono nel 1866 con la perdita del Veneto e dell’egemonia in
Germania. Subì anche da parte del suo governo liberale
l’abolizione del concordato (1870) che aveva sottoscritto con la
Santa Sede nel !855. L’annessione della Bosnia-Erzegovina (1908)
può essere ascritto come un suo successo. Ma da essa
partirono le vicende che causarono la I Guerra Mondiale.
(23) Gli accordi di Plombiers prevedevano la cessione della Savoia e
di Nizza in cambio dell’annessione del Lombardo-Veneto e non della
sola Lombardia. Quanto al ripristino dell’autorità legittima
negli Stati in cui si erano verificate ribellioni, non poteva
trattarsi che di un auspicio dal momento che i due sovrani si
impegnavano a non intervenire militarmente. Gli accordi di
Villafranca sarebbero state sancite nella conferenza di pace di
Zurigo (10 novembre 1859).
(24) In Toscana ed Emilia-Romagna si erano contemporaneamente
verificate sommosse che vengono spiegate di seguito.
(25) La decisione di concordare l’armistizio potrebbe essere in
parte attribuita al gran numero di morti che le due battaglie,
Magenta e Solforino, avevano causato (Jean Hanri Dunant
impressionato per la stage, prese l’iniziativa di costituire un
sodalizio per l’assistenza ai feriti delle guerre ed altre
calamità, iniziativa che si concretizzò nel 1863 con
la nascita della Croce Rossa Internazionale) e che poteva avere un
impatto sfavorevole sull’opinione francese, non disposta a tollerare
ulteriori sacrifici per una causa che non l’attraeva. Inoltre le
forze più conservatrici erano contrariate dalle insurrezioni
che la guerra aveva favorito nelle Legazioni pontificie. I compensi
territoriali concordati potevano giustificare il sacrificio fin qui
sostenuto ma proseguire nella guerra all’Austria asserragliata nelle
proprie fortezze comportava rischi incalcolabili. C’era poi la
considerazione che la Prussia, non era ancora intervenuta a sostegno
dell’Austria perché le condizioni poste (il riconoscimento di
Stato guida della Confederazione Germanica) non erano state da
questa accettate. Ma l’imperatore austriaco messo in
difficoltà avrebbe potuto cedere, creando l’intervento della
Prussica e condizioni ancor più difficili per la Francia. Vi
era inoltre da tener conto degli avvenimenti che, in svolgimento in
Toscana ed Emilia-Romagna, avevano dato una scossa ai suoi
intendimenti di influenza in Italia (nomina del cugino Napoleone
Girolamo per il Regno dell’Italia entrale e di Luciano Murat per
quello delle Due Sicilie) fecendogli temere di perdere ancor di
più il controllo della situazione.
(26) Bettino Ricasoli (1809-80), uomo d’azione, contribuì con
il giornale “La Patria” alla formazione del sentimento di
nazionalità italiana. La sua attività fu determinante
per adesione della Toscana al Regno d’Italia, nato il 12 marzo 1860.
Il 12 giugno 1861 successe a Cavour alla carica di Primo ministro
del Regno d’Italia.
(27) La dichiarazione conteneva la raccomandazione di accoglimento
da parte di Napoleone III e delle nazioni europee neutrali.
(28) Luigi Farini (1812-66) gestì l’annessione dell’Emilia al
Regno Sardo e fu primo ministro del Regno d’Italia nel 1862-63.
(29) Inizialmente si era pensato di affidare il comando a Garibaldi
che, ritenuto non gestibile, venne sopravanzato da Fanti che, per
assumere tale incarico, dovette prendere concedo dalle sue funzioni
a Torino. Garibaldi divenne comandante in seconda.
(30) Cavour aveva continuato a sostenere con i suoi liberali il
governo Rattazzi-La Marmora convinto che si sarebbero logorati da
soli, incapaci com’erano di assumere iniziative e lasciando il re
libero di assumere le sue personali. In tale situazione Cavour
manteneva contatti con Mazzini ed entrambi, pensando di utilizzarlo,
con Garibaldi, pronto ad accorrere là dove vi fossero state
sommosse. La qualcosa avrebbe potuto offrire pretesto all’Austria
per un intervento armato. Un timore del genere convinse Cavour a
rientrare ed attorno a lui fecero quadrato le forze moderate,
esercitando una tale pressione che convinse il re ad accettarlo,
malvolentieri, sapendo di dover rinunciare alla sua politica
personale. Cavour, sapendo che Napoleone si era convinto del fatto
che il Papa, riducendo il suo Stato a Roma e dintorni, avrebbe
accresciuto la sua autorità morale, prese contatto con lui,
comunicandogli la disponibilità a trattare per la cessione di
Nizza e Savoia. Intanto, con la strategia del fatto compiuto,
sollecitò Farini e Ricasoli ad avviare i plebisciti in Emilia
e Romagna. Napoleone, sapendo della disponibilità del governo
di Londra a lasciare decidere le popolazioni dell’Italia centrale
del proprio destino, non perse l’occasione per aderire. La notizia
dei risultati dei plebisciti in Emilia e Romagna giunse a Parigi
assieme a quella della firma del documento che sanciva l’annessione
di Nizza e Savoia alla Francia (aprile 1860). Garibaldi, deputato di
Nizza protestò vivacemente, ritenendo incostituzionale la
cessione in quanto le modifiche territoriali avrebbero dovuto essere
approvate dal parlamento. Ma all’imbarazzo di Cavour, rispose con un
discorso talmente approssimativo ed arruffato da mettere in
imbarazzo suoi stessi sostenitori. All’annuncio del risultato del
plebiscito di Nizza e Savoia, pressoché unanime
all’annessione alla Francia, Garibaldi si dimise da deputato. La
cittadina ligure di Chiavari gli offrì la cittadinanza.
(31) Il 20 giugno 1859 un contingente pontificio guidato dal
colonnello Schmidt assediò Perugia che il legato pontificio
aveva abbandonato per dissociarsi dalla diffusa intenzione di
partecipare alla guerra contro l’Austria. I soldati svizzeri,
penetrati in città, operarono atroci rappresaglie ed il loro
comandante Schmidt ricevette la promozione a generale.
(32) Garibaldi, dopo aver sposato ed immediatamente ripudiata
Giuseppina Raimondi, si era ritirato a Caprera. Egli era in buoni
rapporti con il re con cui aveva diverse cose in comune: entrambi,
di gusti plebei, detestavano Cavour ed erano attratti più
dall’azione che dalla politica. Egli, considerata la scarsa
partecipazione ai tentativi dei fratelli Bandiera (*), di Bentivegna
(n. 33), e di Pisacane, non confidava nello spirito rivoluzionario
dei meridionali se indirizzato a fini politici.
(33) Francesco Crispi (1819-1901), avvocato di Ribera, mazziniano,
oppositore dei Borbone, partecipò all’insurrezione del 1848
facendo parte del comitato di guerra, quindi esule in Piemonte da
dove venne espulso per le sue idee repubblicane. Dopo il fallito
tentativo insurrezionale a Milano (1853) fu esule a Malta ed a
Londra dove stabilì ottimi rapporti con Mazzini. Con i Mille
divenne ministro dell’interno del governo provvisorio siciliano.
Deputato del Regno nel 1861, fece parte dell’opposizione democratica
di sinistra, presidente della Camera (1876-77), ministro
dell’interno ((1877-78, costretto a dimettersi per l’accusa di
bigamia) e primo ministro (1887-91 e 1893-96).
Rosolino Pilo (1820-60), mazziniano partecipò
all’insurrezione del 1848 ed all’organizzazione della spedizione di
Pisacane.
(34) Alla fine del mese del novembre 1856, Francesco Bentivegna
aveva promosso una insurrezione rapidamente domata.
(35) Giuseppe La Farina (1815-63), patriota siciliano, repubblicano
convertito all’idea monarchica, fu tra i fondatori della
Società Nazionale, ebbe ruolo nella spedizione dei Mille,
come fiduciario di Cavour, in contrasto con Garibaldi e Crispi.
(36) Il telegrafo elettrico, inventato da Morse nel 1837, aveva
ormai sostituito quello ottico o ad asta di inizio secolo.
(37) Una analoga situazione si verificò, nel 1282, dopo la
rivolta dei Vespri, in attesa dell’arrivo i Pietro III d’Aragona.
(38) Tra i Mille era considerevole il numero di avvocati e medici,
numerosi anche gli ingegneri e qualche decina di farmacisti. Vi
erano anche numerosi appartenenti a classi benestanti e molti
stranieri, ungheresi, inglesi, turchi e tedeschi tra cui Wolff che
assunse il comando dei disertori tedeschi e svizzeri dalle fila
borboniche.
(39) Gerolamo Bixio detto Nino (1821-73), massone genovese
affiliato, come Giambattista Fauché, alla loggia Trionfo
Ligure, combatté con Garibaldi in difesa della Repubblica
romana (1849), nei Cacciatori delle Alpi. Nell’impresa dei Mille
resta emblematica la maniera con cui represse la rivolta contadina
di Bronte. Entrato nell’esercito regolare partecipò nella III
Guerra d’indipendenza. Fu deputato e senatore.
(40) In effetti, il giorno precedente a Torino era stato stipulato,
alla presenza del notaio Vincenzo Baldioli, un contratto con cui
Garibaldi, rappresentato da Giacomo Medici (n. 43) acquistava le due
imbarcazioni (con ruota laterale a pale) dalla Società
Ribattino, con un finanziamento garantito dal Regno di Sardegna.
Altri finanziamenti erano giunti da una sottoscrizione nazionale
“per un milione di fucili” avviata nel dicembre del 1859. Dalle
logge massoniche dell’Inghilterra (presumibilmente dal Governo
inglese attraverso le logge), dove grazie all’attività di
Mazzini, vi era molto favore per l’Italia, Garibaldi ricevette
rilevanti finanziamenti in piastre d’oro turche (moneta franca
nell’area mediterranea, corrispondente a svariati milioni degli
attuali euro) che furono amministrate da Ippolito Nievo (1831-61,
letterato che aveva partecipato con Garibaldi alla II Guerra
d’indipendenza ed alla spedizione di Mille. Morì in un
naufragio. Autore di racconti e romanzi di ambiente contadino,
Novelliere campagnolo, e di romanzi storici, Le confessioni di un
italiano) servirono anche a limitare l’impegno dei generali
borbonici.
Anche dagli Stati Uniti giunsero aiuti tra cui cento pistole inviate
dall’industriale Colt.
(41) Un gruppetto di volontari di ispirazione repubblicana avevano
abbandonato l’impresa. Restarono 1089 volontari diretti in Sicilia.
(42) L’ostilità britannica contro i Borbone datava dalla
guerra dello zolfo (*, 1838) e si era acuita con altri episodi (*).
Tuttavia il motivo politico prevalente alla base
dell’ostilità dell’Inghilterra nei riguardi del Regno
borbonico consisteva nella vicinanza di questo all’Impero russo che
aspirava ad avere uno sbocco nel Mediterraneo. Infatti, in
prossimità dell’apertura del canale di Suez (1869), i porti
siciliani assumevano una importanza strategica rilevante.
Marsala era quasi una colonia inglese per la presenza di numerosi
cittadini legati al commercio del vino pregiato e dello solfo,
ragion per cui era abituale la presenza di navi inglesi alla fonda
nel porto.
(43) Sembra che il comandante della nave borbonica Capri, Marino
Caracciolo, abbia aspettato lo sbarco dei volontari prima di
procedere al cannoneggiamento.
(44) Giuseppe Sirtori (1813-74), partecipò alla difesa di
Venezia (1849). Dopo l’impresa dei Mille divenne generale
dell’esercito italiano, prendendo parte alla III Guerra
d’indipendenza.
(45) Egli, malgrado avesse a disposizione 25.000 uomini, ritenne
sufficiente l’impiego di un esiguo distaccamento per affrontare i
garibaldini. Dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno
d’Italia, Landi fu promosso generale di corpo d’armata dalla nuova
amministrazione, quindi messo a riposo con una cospicua pensione.
(46) Il feudatario Coppola, uomo accorto e conoscitore degli umori
del luogo, si era unito con circa duecento contadini a Garibaldi.
Sembra che in questa occasione Garibaldi, in risposta a Bixio che,
valutando le difficoltà, gli consigliava un ripiegamento,
pronunciasse il leggendario “Qui si fa l’Italia o si muore!”
(47) Talvolta questi mancavano di disciplina e si combattevano tra
loro ma furono particolarmente utili a Garibaldi perché
creavano diversioni e, sapendo come muoversi nelle campagne,
controllavano le bande di irregolari. Questi ultimi, montanari
armati approssimativamente (un chiodo infilato in un bastone),
costituivano, nelle città, un mito terrificante. Essi
continuarono le loro lotte incendiando le proprietà dei
nobili, invadendo le terre demaniali e feudali e bruciando i
documenti di proprietà nei municipi.
(48) Garibaldi aveva avuto informazione della dislocazione delle
truppe borboniche a Palermo dai numerosi contatti che aveva con
ufficiali inglesi e giornalisti che andavano a trovarlo.
(49) Ciò accadeva mentre giungeva a Palermo von Makel il
quale, con improvvisi assalti, aveva ripreso alcuni quartieri ed
avrebbe potuto capovolgere la situazione se non fosse stato
obbligato da Lanza al rispetto dell’armistizio.
(50) Il generale Lanza era rientrato a Napoli dove venne
imprigionato e mandato sotto processo, che non fu realizzato per
l’evolversi degli eventi e la caduta del Borbone.
(51) Le spedizioni partivano da Genova, organizzate da Agostino
Bertani (1812-86, politico e medico, fu fra gli organizzatori delle
cinque giornate di Milano, dei servizi sanitari dei Cacciatori delle
Alpi e della spedizione dei Mille in cui ebbe funzioni direttive nel
governo dittatoriale. Massone ed aderente alla sinistra storica, fu
ispiratore della nascita del Partito radicale) e guidate da Giacomo
Medici (1817-82, volontario garibaldino di personalità
autorevole ed unico a rivolgersi a Garibaldi con il “tu”,
partecipò alla I, II e III Guerra d’indipendenza ed alla
difesa della Repubblica romana del 1849. Fu deputato e senatore al
Parlamento unitario) e da Enrico Cosenz (1820-98; ufficiale
dell’esercito borbonico, passò alle dipendenze di Garibaldi
nei Cacciatori delle Alpi ed ebbe un ruolo in Sicilia come ministro
della guerra e nella battaglia di Milazzo. Dopo il 1860, fu
deputato, senatore e capo di stato maggiore dell’esercito italiano)
che portarono in Sicilia, oltre a un considerevole quantità
di armi, circa 20.000 volontari che, secondo alcuni, non erano altro
che soldati piemontesi camuffati.
(52) Stefano Turr (1825-1908), ufficiale dell’esercito austriaco,
disertò durante le cinque giornate di Milano (1848),
rifugiandosi in Piemonte ed entrato nell’esercito Sardo da cui fu
espulso per aver partecipato alle insurrezioni mazziniane del 1853.
Partecipò alla guerra di Crimea nel corpo britannico ed alla
II Guerra di indipendenza con i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi.
Giacomo Medici (1817-82), volontario garibaldino, partecipò
alla I, II e III Guerra d’indipendenza ed alla difesa della
Repubblica romana del 1849. Fu deputato e senatore al Parlamento
unitario.
(53) Questa, difesa dal maresciallo Fergola, fu espugnata dal
generale Cialdini soltanto nel marzo 1861.
(54) Gli era stato donato da Ferdinando IV in cambio dei servizi
resigli: i fatti illustrati nel capitolo “Meridione d’Italia Borbone
di fine ‘700/ Parte II”.
(55) A Bronte, l’avv. Nicolò Lombardo, persona dotata di
equilibrio e correttezza, capo della fazione più popolare
(comunali) in contrapposizione con quella dei proprietari terrieri
(ducali), ma privo di poteri effettivi, malgrado ripetuti e convinti
tentativi, non era riuscito a fermare la violenza che si era
sviluppata in una serie di sedici barbare esecuzioni, caratterizzate
da eccessi che sconfinarono oltre ogni limite umano. Di queste
furono vittime non tanto i possidenti ma persone ad essi legate
(notaio, contabile, impiegato del catasto, ecc.). Gli avversari di
Lombardo colsero l’occasione per eliminarlo, indicandolo a Bixio
quale responsabile della rivolta. Gli amici gli suggerirono di
fuggire per sottrarsi alla rappresaglia ma egli, consapevole di aver
mantenuto corretti comportamenti, si presentò a Bixio che lo
aggredì verbalmente senza fornirgli occasione di discolpa,
ordinandone l’arresto e sottoponendolo a giudizio, assieme a quattro
malcapitati popolani analfabeti (fra cui uno mentalmente infermo)
ritenuti promotori degli eccidi. Il giudizio si celebrò il 9
agosto, con gravi carenze procedurali e con un esito scontato,
malgrado il Lombardo avesse cercato di convincere i giudici della
estraneità di tutti i sottoposti a giudizio. La fucilazione
avvenne all’alba del 10 agosto.
La scelta di Bixio trascurava ogni regola di giustizia per
soddisfare alle ciniche regole dell’opportunità imposte dalla
guerra e ripristinando quelle regole di vita che Garibaldi, coi suoi
proclami, aveva inteso abbattere.
I fatti di Bronte restano tutt’ora oggetto di dibattiti ed
interpretazione.
(56) Cavour cercava di affrettare l’annessione, pervaso come era dal
costante timore che, sotto l’influenza di Mazzini, l’impresa potesse
volgere verso un profilo repubblicano.
(57) Sembra che l’episodio vada connesso all’arresto di due spie
borboniche che poi risultò informassero anche Cavour.
(58) Carlo Persano (1806-83), personaggio insicuro, fu ministro
della guerra nel 1862, anno in cui avrà ruolo nell’assedio di
Ancona. Concluderà con la battaglia di Lissa (III Guerra
d’indipendenza) a seguito della quale, accusato di imperizia, fu
processato e destituito.
(59) Il forte verrà conquistato a fine agosto dalle
retroguardie garibaldine.
(60) Le navi borboniche Fulminante e Aquila rimasero inoperose al
punto che i loro comandanti subirono maltrattamenti dalla ciurma
indignata per la mancanza di reazione.
(61) Cavour scriveva a Nigra (n. 17) ambasciatore a Parigi:
“….preferisco veder sparire la mia popolarità, perdere a
reputazione, ma veder fare l’Italia …”
(62) La capitolazione fin troppo sollecita dei contingenti borbonici
può essere spiegata con la scarsa efficienza e la cattiva
direzione dai poco zelanti generali, forse scarsamente dotati e
motivati ma certamente assaliti dalla sindrome di disfacimento che
aleggiava sul Regno. Briganti, sospettato di tradimento venne ucciso
dagli stessi soldati a Mileto, Giambarttista Vial, nominato in
luglio comandante delle forze in Calabria, avviò trattative
con Garibaldi dopo aver ordinato al grosso delle sue truppe
(più di quindicimila uomini), guidate dal generale Ghio, di
ritirarsi verso Napoli. Quindi si imbarcò a Pizzo sulla
Protis per raggiungere Napoli. Così come fece il generale
Afan de Rivera. A Pizzo subito dopo sbarcava, dal piroscafo Eugenia,
il maggiore borbonico Ludovico de Sauget per raccogliere
informazioni su quanto stava verificandosi nell’esercito borbonico.
Re Francesco II aveva amaramente previsto: “dei nostri soldati non
si vedranno che i culi ed i tacchi”.
(63) Garibaldi e Stocco attribuirono la facilità con cui
avevano risalito la Calabria all’apporto del popolo cui Garibaldi
rivolse un messaggio di gratitudine “Dite al mondo…..”
(64) Questi, tramite il Persano, era in contatto con Cavour.
(65) Lo stesso ministro della guerra, generale Pianell, diede le
dimissioni (3 settembre) e partì per la Francia, per
ricomparire dopo alcuni mesi con i gradi di generale nelle fila
dell’esercito unificato.
(67) Il comandanti delle navi Fieramosca, Ruggiero e Guiscardo, si
rifiutarono di seguirlo.
Il Meridione e l'unificazione
(Parte seconda)
L'ANNESSIONE
di Franco Savelli
Sommario
--- Garibaldi a Napoli : la battaglia decisiva sul Volturno, il
plebiscito e l’annessione al Nuovo Stato dell’ex Regno delle Due
Sicilie. Garibaldi, incontro con Vittorio Emanuele II ed il triste
commiato.
--- L’esercito piemontese invade Umbria e Marche con il fine di
sedare disordini; l’esercito pontificio sconfitto si ritira e le
regioni votano l’annessione al Nuovo Stato.
--- La caduta delle roccaforti borboniche, l’assedio alla fortezza
di Gaeta ed esilio di Francesco II a Roma.
--- Il Nuovo Stato: la scomparsa di Cavour e la difficile
sostituzione, Ricasoli, Rattazi, Minghetti e La Marmora.
--- Il completamento dell’unità nazionale: i vani tentativi
di Garibaldini conquistare Roma ed il suo arresto in Aspromonte ed a
Villa Glori. La III Guerra d’indipendenza e la conquista di Roma.
--- Il governo del Meridione e la guerra contro il brigantaggio.
Rivolte in Sicilia.
--- Gli epiloghi: Mazzini, Vittorio Emanuele II, Pio IX, Garibaldi
(n. 59).
--- Il sottosviluppo e la “questione meridionale”.
L’annessione del Meridione
- Garibaldi a Napoli
Francesco II di Borbone con la moglie e poche cose si era già
imbarcato, il 6 settembre 1860, sulla nave a vapore Messaggero per
rifugiarsi con pochi fedeli nella fortezza di Gaeta (2) difesa con
coraggio ed efficienza da circa 13.000 soldati. La parte di esercito
rimasta fedele al sovrano borbonico, tra cui quei contingenti che
abbandonavano le caserme di Napoli, al comando del generale
Giosué Ricucci, si andarono a posizionare su una linea
fortificata tra il fiume Volturno e Gaeta per contrapporsi
all’esercito garibaldino.
Il giorno successivo alla partenza del re (7 settembre), Garibaldi
giunse a Napoli in ferrovia, accolto dall’entusiasmo del popolo e
dai governanti che si prostravano al nuovo padrone. Miscredente e
mangiapreti come era, ma fine conoscitore degli umori popolari,
così come aveva omaggiato a Palermo S. Rosalia, Garibaldi
manifestò il desiderio di rendere omaggio al sepolcro di S.
Gennaro dove fu portato in trionfo ed il giorno successivo non
mancò di inginocchiarsi davanti all’immagine della Madonna di
Piedigrotta.
Garibaldi che ormai riteneva vinta la partita contro i Borboni,
assunta la dittatura del Regno delle Due Sicilie per conto di
Vittorio Emanuele II, fece confiscare la consistente flotta
borbonica, nominò Giorgio Pallavicino (3) (*) profittatore
(indicazione accettata da Cavour), assegnò a Bertani (*) il
ruolo di prodittatore per le province ed a Liborio Romano (*) la
guida del Governo in cui Crispi (*) assumeva il ministero degli
esteri e Cosenz (*), quello della guerra. Mentre tutto il suo
esercito si schierava fra S. Maria Capua Vetere e Maddaloni,
Garibaldi si pose come prossimo obiettivo la conquista di Roma, in
ciò rassicurato, nei suoi frequenti contatti, del sostegno
inglese.
Cavour, avvertito da Persano, non fidandosi della vocazione realista
di Garibaldi, malgrado i ripetuti proclami emessi a nome di Vittorio
Emanuele, ritenne fosse giunto il momento di dare uno sbocco
istituzionale alla fortunosa ed imprevista conquista del meridione,
prima che le forze repubblicane, di vocazione mazziniana, potessero
attuare una rivoluzione popolare di difficile gestione. Cercò
quindi di porre al re in termini drammatici l’eventualità che
Garibaldi attuasse il suo intento di puntare su Roma, senza prendere
in considerare la reazione che avrebbe potuto mettere in atto
Napoleone III, da sempre protettore del Papato. Il re replicò
che in tale eventualità si sarebbe opposto con la forza,
placando l’ira di Cavour il quale si sentì legittimato a
procedere nel disegno di annettere i territori conquistati da
Garibaldi. A tal fine diede disposizione di organizzare il
plebiscito in Sicilia al prodittatore Agostino Depretis (4) , il
quale aveva assunto con Garibaldi l’impegno a non assumere una tale
decisione senza il suo consenso(*). Depretis, dopo essersi recato a
Napoli nel vano tentativo di convertire Garibaldi al plebiscito,
trovò opportuno rinunciare all’incarico, venendo ad
interrompere il canale di comunicazione che collegava Cavour e
Garibaldi e creando l’effettivo pericolo che quest’ultimo cedesse
alle sollecitazioni che gli venivano dai molti repubblicani
confluiti a Napoli, fra cui Mazzini e Carlo Cattaneo (*). Il primo,
pur accolto fraternamente da Garibaldi, non riuscì a
convincerlo ad ostacolare la soluzione annessionistica del Meridione
al Regno Sardo al fine di favorire la convocazione di una Assemblea
costituente, il secondo avanzò, inascoltato, la proposta di
costituzione di una federazione di Stati autonomi (5).
- Intanto in Umbria e Marche
Intanto Cavour, con una missione affidata a Farini (6) ed al
generale Cialdini, era riuscito ad allarmare Napoleone III e,
prospettandogli le intenzioni di Garibaldi di attaccare lo Stato
Pontificio, lo aveva convinto della necessità di fermarlo sul
Volturno, per la qualcosa, le truppe piemontesi sarebbero dovute
passare attraverso i territori pontifici (Marche ed Umbria), fermo
restando l’impegno alla inviolabilità di Roma. Napoleone
finse di credere o credette realmente alle motivazioni e, volendo
egli stesso sottrarre l’iniziativa a Garibaldi, diede il suo assenso
purché l’operazione fosse condotta con celerità
“faites, mais faites vite” (7).
Cavour, negli stessi giorni in cui Garibaldi giungeva a Napoli, era
impegnato a programmare il manifestarsi di disordini e tentativi
insurrezionali nei territori pontifici ed a predisporre un esercito
di quarantamila uomini pronto a muoversi con il pretesto di
intervenire a sedare i disordini nell’Italia centrale e con
l’obiettivo di controllare l’impresa garibaldina, nel timore che
essa potesse assumere connotazioni repubblicane. Quindi cercò
di creare il casus, ed a seguito dei disordini scoppiati,
intimò al segretario dello Stato pontificio, cardinale
Giacomo Antonelli, di sciogliere i reparti di volontari stranieri di
stanza nello Stato, ritenuti responsabili dei disordini stessi. Il
cardinale rispose negativamente e l’esercito piemontese, comandato
dal generale Fanti , entrò nelle Marche conquistando, tra
l’11 ed il 14 settembre, Pesaro, Urbino, Senigallia, Perugia e
Foligno e, con l’armata del generale Cialdini (n. 8), sconfiggendo
facilmente e disperdendo, il 18 settembre, a Castelfidardo
l’esercito pontificio guidato dal generale de Lamoriciere. Questi,
con il resto del suo contingente, si rifugiò nella fortezza
di Ancona che, mentre la città subiva un bombardamento navale
ad opera dell’ammiraglio Persano (*), espose bandiera bianca (27
settembre). Lamoriciere avviò trattative per la resa che,
senza che l’inutile massacro causato dal bombardamento fosse
interrotto, fu conclusa il 29 settembre.
Dopo qualche giorno (3 ottobre), compiaciuto dall’iniziativa da
Cavour, giunse ad Ancona Vittorio Emanuele per assumere il comando
di parte dell’esercito sabaudo e dirigersi (7 ottobre) verso Napoli
(9), lentamente, per dar tempo agli eventi di compiersi.
Per il governo dell’Umbria e delle Marche vennero nominati,
rispettivamente, Pepoli e Valerio che incominciarono ad assumere
provvedimenti in vista dell’unificazione. Il plebiscito nell’Umbria
e Marche avvenne con esito largamente positivo (n. 12), a breve
scadenza (4 novembre) di quello tenuto nel Regno delle Due Sicilie.
Al Papa restava il controllo del solo Lazio.
- La battaglia decisiva sul Volturno
Al rientro da Palermo dove si recò ad insediare (18
settembre) Antonio Mordini prodittatore in sostituzione di Depretis,
Garibaldi trovò che la situazione militare sul campo si era
evoluta e Stefano Turr (*) aveva assunto l’iniziativa di inviare (19
settembre) una squadra di 300 uomini ad occupare Caiazzo al di
là del fiume Volturno, provocando la reazione dei Borboni .
Questi, vantando forze decisamente preponderanti, passarono al
contrattacco riconquistando Caiazzo (21 settembre) ed aprendo una
falla nelle linee garibaldine che, Garibaldi, precipitatosi sul
terreno di battaglia, riuscì a colmare. Ma l’insuccesso,
opportunamente dilatato dalla propaganda cavouriana, fece perdere a
Garibaldi parte del favore popolare che, sensibile alla
invincibilità dei suoi eroi, si andava spostando i suoi
favori verso le scelte di Cavour. Garibaldi cominciò a capire
che l’esercito piemontese aveva colto l’opportunità di
conquistare i territori pontifici mosso dall’iniziale obiettivo di
costituire un argine alle sue iniziative. Amareggiato per
l’ingratitudine e disgustato per le trame politiche di Cavour, si
immerse nei problemi di carattere militare predisponendo uno scontro
con il nemico su terreno aperto che non era abituale alla sua
genialità di guerrigliero ma che mise a punto con la
collaborazione dei suoi aiutanti di campo (Sirtori, Medici, Cosenz,
Turr).
Il 1° ottobre il comandante borbonico scatenò su un ampio
fronte un attacco che prevedeva l’aggiramento delle forze
garibaldine da parte delle armate borboniche di Ruiz e von Mekel (n.
10) che si sarebbero dovute congiungere a Maddaloni. Ma Bixio,
riuscendo ad intercettare Von Mekel, impedì l’aggiramento ed
affidò ad iniziative estemporanee le fasi della battaglia
che, combattuta attorno alle località di S. Maria e S.
Angelo, ebbe esiti incerti fino al primo pomeriggio allorché
Garibaldi utilizzò le riserve stanziate a Caserta ed,
all’artiglieria, marinai inglesi giunti da Napoli e volontariamente
offertisi. Verso sera il comandante borbonico Ricucci ordinò
il ripiegamento verso Caserta ed il giorno successivo anche il
contingente di Von Mekel, in ritirata verso l’insediamento di Capua,
venne attaccato dai garibaldini segnando definitivamente le sorti
della battaglia e facendo affossare le residue speranze di rientrare
a Napoli di Francesco II. Egli si ritirò nella fortezza di
Gaeta con parte del suo esercito che conservava ancora una discreta
capacità operativa mentre alcuni reparti si asserragliarono
nelle roccaforti di Capua e Civitella del Tronto. Anche la
cittadella di Messina, come si è visto in precedenza (*), era
rimasta in mano ad una guarnigione borbonica.
Garibaldi, malgrado le gravi perdite subite, aveva conseguito forse
la più significativa delle sue vittorie, ma la gioia fu
appannata dall’evolversi degli avvenimenti che tendevano ad
emarginarlo.
- Il Plebiscito
Cavour, con la rapidità dell’intervento dell’esercito
piemontese nei territori pontifici, era riuscito a prevenire ogni
azione da parte delle potenze cattoliche europee ed a conquistare il
generale consenso dell’opinione pubblica italiana, dello stesso
parlamento che gli aveva affidato libertà di azione ed anche
del re che vedeva, nelle scelte del suo ministro la strategia
vincente. Anche i collaboratori più stretti di Garibaldi
(Turr, Bertani), rendendosi conto che, nel momento in cui occorreva
massimizzare il risultato delle conquiste effettuate, Garibaldi era
inidoneo a gestire un tale evento, cercavano di predisporlo al
trapasso dei poteri. Del resto, malgrado Garibaldi fosse formalmente
il dittatore del Regno conquistato, il potere gestionale effettivo
era nella mani dei due prodittatori, Mordini e Pallavicino che, pur
vicini a Garibaldi, ormai propendevano per l’organizzazione del
plebiscito piuttosto che per altre soluzioni dilatorie (11) che
avrebbero potuto mettere a rischio i risultati fin qui ottenuti.
Garibaldi oscillava fra varie ipotesi finché Pallavicino, da
convinto unitario quale era, superò gli indugi fissando la
data della convocazione per il plebiscito, il 21 ottobre e dandone
notizia. La qualcosa, oltre a giungere inattesa a Palermo, dove
tuttavia venne confermata la stessa data per il plebiscito in
Sicilia, suscitò l’ira di Garibaldi nei riguardi di
Pallavicino che, accusato di essere portatore delle disposizioni di
Cavour, si dimise provocando una serie di reazioni mal gestite da
Garibaldi che, per intervento di Turr, collegato a Cavour,
confermò la data del plebiscito. Esso si tenne regolarmente
sia in Sicilia che nelle regioni continentali alla data stabilita
fornendo un esito favorevole all’annessione, formalmente totalitario
anche se i più non capivano il significato e la destinazione
del loro consenso (12) in quanto non vi era stato il tempo per
informare anzi, per indurre la partecipazione, si diedero
spiegazioni di comodo miranti a far tacere ogni forma di dissenso.
L’alternativa democratica era quindi accantonata.
- L’incontro con Vittorio Emanuele ed il commiato
Vittorio Emanuele, malgrado l’avversione nei riguardi di Cavour, si
rendeva perfettamente conto che quella del suo ministro era la
strategia vincente ed, in quel momento, nonostante il comportamento
leale mantenuto dal dittatore Garibaldi, non avrebbe potuto
accettare alcuna richiesta di questi senza alterare i fragili
equilibri abilmente tessuti da Cavour che, al fine di condizionarne
le mosse, aveva affiancato al re il ministro degli interni Farini.
Era quindi nell’interesse di Vittorio Emanuele di mirare ad
assorbire nel più breve tempo l’opera portata a termine da
Garibaldi.
Accompagnato dal generale Fanti, re Vittorio, che all’inizio di
ottobre aveva raggiunto le sue truppe ad Ancona, si era avviato
verso il territorio borbonico andandosi a posizionare (13 ottobre)
presso l’area di Castel Morrone (Caserta). Successivamente (20
ottobre) ebbe uno scontro, nei pressi del Macerone, con un reparto
borbonico cui venne chiusa la via della ritirata verso Isernia.
Dopo il plebiscito del 21 settembre era giunto per il re il tempo di
avviarsi verso Napoli e Garibaldi decise di andargli incontro a
riceverlo affiancato dal suo contingente. Nel primo mattino del 26
ottobre, Garibaldi si diresse verso il luogo da dove proveniva il
suono della fanfara reale e come, presso Vairano (quadrivio della
Taverna della Catena) intravide il re affiancato da Fanti e Farini,
gli andò incontro e, togliendosi il cappello, lo accolse con
“Saluto il primo re d’Italia!” quindi affiancandolo cavalcarono fino
all’ingresso di Teano. Tutto qui. Pochi convenevoli, scarso calore e
frasi di circostanza.
Garibaldi accompagnò Vittorio Emanuele nel suo festoso
ingresso a Napoli (7 novembre) mentre le forze regolari si
sostituivano a quelle garibaldine.
Non accettò ricompense, offerti in forma di titoli nobiliari
o militari, dimore e pensione, e dovette subire l’amarezza della
mancata presenza del re e della proibizione dell’inno nell’atto di
commiato ai suoi volontari che ricevettero la medaglia decretata in
loro onore dalla città di Palermo. Dal re giunse un formale
ringraziamento, redatto e sottoscritto dal generale Della Rocca. Con
sua grande amarezza, infine, gli fu imposto di sciogliere il suo
esercito di garibaldini (13).
Ignorato dai piemontesi e salutato dal solo Persano, nella notte del
9 novembre, dando un intenzionale appuntamento a Roma, si
imbarcò con pochi amici sul Washington diretto verso l’isola
di Caprera che aveva acquistato e scelto come sua dimora, nel 1854.
Si concludeva così l’impresa dei Mille .
- L’esilio del re borbone, Francesco II
Vittorio Emanuele, sentendo il bisogno di mostrare una sua
partecipazione al crollo del reame di Napoli, aveva dato ordine di
attaccare le truppe borboniche sparse per la Campania e
principalmente quelle confluite a Capua e comandate da De
Corné. Dopo che l’esercito piemontese affiancato da volontari
guidati da Sirtori (*) respinse una sortita borbonica, il 1°
novembre, iniziò il cannoneggiamento contro Capua, cui
Garibaldi aveva rifiutato di parteciparvi e che provocò un
elevato numero di vittime tra i civili e la resa del contingente.
Dopo le battaglie del Volturno, la resa di Capua e di altre
località sotto controllo borbonico (Mola e Castellone), a
Gaeta, con la presenza del re, si era stabilita l’ultima e
più consistente resistenza borbonica. L’assedio a Gaeta,
iniziato il 13 novembre durò a lungo, per via della presenza
della flotta francese che impediva il cannoneggiamento dal mare e si
protrasse fino alla resa del 14 febbraio del 1861 . (15)
Prima di partire Francesco II rivolse un ringraziamento alle truppe
assediate e sconfitte dall’esercito piemontese. Quindi andò
in esilio a Roma dove inizialmente venne ospitato da Papa Pio IX nel
palazzo Quirinale quindi si stabilì nel palazzo Farnese fino
al 1870 per rifugiarsi quindi in Francia (16).
Il successivo 12 e 20 marzo cadevano rispettivamente la cittadella
di Messina ancora presidiata dal contingente borbonico comandato da
Fergola e la roccaforte di Civitella del Tronto.
Il Nuovo Stato
Il 18 febbraio 1861 si riuniva a Torino il primo Parlamento
nazionale nel quale erano rappresentate tutte le regioni unificate
ed, il 17 marzo, ratificò l’unificazione proclamando il Regno
d’Italia (17). Vittorio Emanuele II assunse “per grazia di Dio e
volontà della nazione “ il titolo di Re d’Italia, senza
mutare l’ordinale, con questo sottolineando non solo il principio
dinastico sabaudo ma piuttosto l’ampliamento di un regno. Venne
proclamato che Roma sarebbe stata sottratta al Papa per diventare la
capitale del Regno.
Dopo il plebiscito in Sicilia la carica di luogotenente generale
venne affidata a Montezemolo in sostituzione di Mordini ed, a
Napoli, a Farini, sostituito quindi da Costantino Nigra, nel 1861.
Nel nuovo Stato che si costituiva con l’affermazione della corrente
moderata rappresentata dalla borghesia progressista del nord che
aveva stabilito un compromesso con i latifondisti del sud ,
garantiti circa la continuità dei loro privilegi che
escludevano sia le masse contadine che importanti strati della
piccola borghesia da ogni influenza nella vita politica, emergevano
due necessità:
- completare l’unità nazionale con l’acquisizione del Lazio e
del Veneto;
- governare una nazione che si era formata dall’unione di
realtà sociali, culturali, economiche ed amministrative
profondamente diverse.
E mentre per la realizzazione della prima potevano verificarsi, sia
a Roma che nel Veneto, le condizioni per la soluzione in tempi
relativamente brevi, per la seconda occorreva un progetto articolato
che si sarebbe dovuto proiettare per un tempo piuttosto lungo al
fine di poter dipanare, soprattutto nel meridione, il peso di tutte
le contraddizioni non affrontate e dei problemi irrisolti,
accentuato dalla mancanza di competenze (19) e di tempo per crearle.
Competenze che avrebbero dovuto assumere ruoli di
responsabilità nella fase delicata in cui governo e
parlamento dovevano mettere a punto norme per regolare la nuova
struttura sociale in cui, oltre a dover unificare sette diversi
sistemi legislativi, amministrativi, metrici e monetari, bisognava
creare un mercato unico abolendo dazi interni, costruire
infrastrutture e ferrovie inesistenti nel meridione, ponendo
attenzione a ripartire gli appalti in maniera omogenea ed affrontare
il problema dell’analfabetismo.
Purtroppo in questo delicato momento si dovette registrare la
scomparsa di Cavour (6 giugno 1861) a causa di grave riacutizzazione
di una sua sofferenza. Egli, pur cinico calcolatore, con il suo
acume politico e diplomatico, capace di coniugare l’audacia con la
prudenza, era stato capace di muoversi, utilizzando le esigue
risorse di un piccolo Stato, conciliando diverse esigenze,
eludendone altrettante e forzandone molte altre, per realizzare
l’unificazione della nazione.
Cavour, fin dagli ultimi mesi del 1860, aveva iniziato a riflettere
sui problemi dell’annessione del Veneto, della riconciliazione con
la Chiesa (20) e quello di Roma che riteneva il più tortuoso.
La città possedeva i requisiti storici, intellettuali e
morali per divenire la capitale d’Italia ma la sua conquista non
doveva significare schiavitù per i cattolici. Doveva attuarsi
il principio di “libera Chiesa in libero Stato” che voleva
significare annessione di Roma con una Chiesa cui era garantita
l’indipendenza. Non ritenendo possibile, allo stato delle cose, una
contrapposizione con Napoleone III, inflessibile protettore della
difesa del potere temporale del Papa, per poterne vincere la
diffidenza aveva pensato di offrirgli la garanzia dello Stato
Italiano sui territori pontifici in cambio del ritiro del
contingente francese stanziato negli stessi territori.
Completamento dell’unità nazionale
(questione romana e questione veneta)
Alla successione di Cavour fu chiamato il toscano barone Ricasoli
(21) che, capo della maggioranza parlamentare, dovette subito
occuparsi del riconoscimento, da parte delle nazioni europee, del
Nuovo Regno. Va sottolineato che esso si era costituito inglobando,
senza dichiarazione di guerra, un Regno autonomo e sovrano come
quello borbonico, nell’indifferenza delle potenze europee. E se poi
esse non posero condizioni al riconoscimento, la Francia lo concesse
(giugno 1861) con la notazione che essa avrebbe ritirato la sua
guarnigione dallo Stato Pontificio solo dopo la riconciliazione del
Regno d’Italia con il Papa. Al riconoscimento della Francia
seguì quello dell’Inghilterra e delle altra importanti
nazioni.
Ricasoli si spese nel tentativo di riconciliazione mentre il re
anteponeva, alla questione romana la conquista del Veneto, in
ciò incoraggiato da Napoleone III (22) che aveva l’intento di
distogliere da Roma l’interesse del governo italiano. Nel momento in
cui il contrasto fra i due divenne evidente, Ricasoli si dimise
(marzo 1862) e fu chiamato a sostituirlo il piemontese Urbano
Rattazzi (23), legato al re e disponibile ad assecondarne le scelte.
Egli, quale esponente della sinistra, diede spazio a gruppi di
quest’area che avevano istituito una Associazione Emancipatrice ed
affidato la presidenza a Garibaldi (24). Questi stava volgendo il
suo interesse alla liberazione del Veneto al punto da recarsi in
Lombardia (Trescore) per reclutare volontari per l’impresa
(metà maggio). Il sovrano, preoccupato, inviò il
generale Saifront a vigilare ed, allorché occasionalmente a
seguito delle indagini per una rapina in una banca a Genova si
rinvenne il piano di Garibaldi per un attacco nel Veneto contro
l’Austria, fu dato mandato di intervento alle forze regolari che
arrestarono molti volontari e bloccarono i passi. Agli arresti
seguirono tumulti (Palazzolo, Sarnico) che la polizia dovette sedare
con azioni sbrigative e sanguinose. Garibaldi reagì
sostenendo le proteste contro il governo e smentendo le sue
effettive intenzioni. Ebbe un alterco con Rattazzi in cui i due si
scambiarono reciproche accuse ma non si seppe quanta
ambiguità vi fosse stata nei loro rapporti.
Garibaldi, rientrato a Caprera spostò il suo obiettivo su
Roma ed, a fine giugno 1862, si recò a Palermo dove,
circondato dall’entusiasmo popolare, pronunciò discorsi
infiammati al grido di “Roma o morte” incoraggiando l’accorrere di
migliaia di volontari, salutati con calore dalle truppe regolari che
ritenevano di essere di fronte al rifacimento dell’impresa dei
Mille, intimamente sostenuta dal re. Garibaldi fece concentrare i
suoi volontari nei pressi di Catania, mentre Vittorio Emanuele II,
consapevole che una azione contro Roma avrebbe provocato la reazione
di Napoleone III , emanò un proclama (3 agosto 1862) con
l’invito a non compiere atti di ostilità ed il monito che
essi sarebbero stati repressi. Garibaldi, cui era forse pervenuto il
segnale di un possibile appoggio, nella convinzione della pubblica
sconfessione e della segreta accondiscendenza, ignorò il
monito ma, mentre i più ritenevano il contrasto con il re una
finzione, ricevette emissari del re che lo scongiuravano di
fermarsi. Garibaldi, giunto a Catania (20 agosto) accolto da
entusiastici festeggiamenti, fece requisire (25 agosto) due
piroscafi alla fonda con cui traghettare i suoi circa duemila
volontari in Calabria, nello stesso luogo di sbarco della sua
precedente impresa, Melito di Porto Salvo. L’ammiraglio Albini al
comando di alcune navi da guerra, non avendo ricevuto chiari segnali
di comportamento, si limitò ad una inefficace azione
dimostrativa. Da Melito, per evitare una pattuglia di carabinieri
che invece sparava per davvero, si inoltrò verso
l’Aspromonte, seguito dal contingente del generale Cialdini che si
trovava in Sicilia dove aveva conquistato (marzo precedente) la
cittadella di Messina ancora in mano ai Borboni. I due contingenti
vennero a contatto (29 agosto) sulle falde dell’Aspromonte
(località Forestali) e malgrado Garibaldi avesse ordinato di
non rispondere al fuoco, vi fu comunque uno scambio di colpi che
provocarono una decina di morti ed una trentina di feriti, tra cui
lo stesso Garibaldi, ferito alla coscia ed al piede (26).
Catturato e ricevute le prime cure ed, ignorato da un Cialdini
borioso e sprezzante, fu trasportato a Scilla dove venne imbarcato
sulla fregata Duca di Genova (30 agosto) e trasportato presso la
fortezza del Varignano di La Spezia. Qui fu curato e raggiunto da
numerosi amici e visitatori mentre in Europa si susseguivano
dimostrazioni ed appelli in suo favore. Il re, d’accordo con
Napoleone III, colse l’occasione del matrimonio della figlia Maria
Pia con il re del Portogallo per promulgare una amnistia che
toglieva tutti dall’imbarazzo.
La repressione attuata contro le truppe garibaldine mise in crisi la
politica contraddittoria del governo Rattazzi che, per evitare di
coinvolgere il re, si dimise (29 novembre 1862), aprendo una
difficile successione.
Dopo alcune rinunce e la breve esperienza di Farini (n. 6),
costretto ad abbandonare per una grave malattia, il governo fu
affidato (marzo 1863) a Marco Minghetti (27) che, sintonizzato sulla
stessa linea politica cavouriana, affidò il ministero degli
esteri al giovane nobile Lombardo, Visconti Venosta (n. 27) che
ripropose la questione romana nei termini enunciati da Cavour,
cioè riportandola nell’ambito di una soluzione concordata con
la Francia. E per superare le diffidenze di quest’ultima si
pensò di allontanare la prospettiva di Roma capitale,
trasferendo la capitale a Firenze (28). Su tale base si
riuscì a convenire con la Francia (15 settembre 1864) il
ritiro, entro due anni, del contingente francese di stanza nello
Stato pontificio. La notizia del trasferimento suscitò a
Torino il timore di un ridimensionamento del Piemonte che si
espresse con manifestazioni di protesta contro cui la polizia
agì con decisione (21-22 settembre 1864) fornendo al re,
peraltro contrario al trasferimento della capitale da Torino, di
pretendere le dimissioni di Minghetti ed affidare il nuovo governo
al generale La Marmora (*). Che, comunque, attuò il
trasferimento della capitale a Firenze (1865) e trovò,
nell’ambito della crisi internazionale che si delineava, lo spazio
entro cui inserire la questione del Veneto.
- L’acquisizione del Veneto (1866)
Con l’assunzione al cancellierato da parte di Otto von Bismarck
(1862), in Prussia si era avviato il rafforzamento dell’esercito ed
iniziato attraverso l’annessione dei ducati Schleswig-Holtein (1863)
(29), imporre gradualmente in Germania l’egemonia prussiana fino a
porsi in conflitto con l’Austria. Conflitto egemonico cui Napoleone
guardava con interesse nell’intento di trarre vantaggi territoriali
sul Reno. Come l’Italia che puntava ad inserirsi in contrapposizione
all’Austria, tra i cui domini vi era il Veneto.
Nel momento in cui la Prussia decise di risolvere la questione della
supremazia con l’Austria, il cancelliere Bismarck avviò
approcci con l’Italia (1865), mirando a coinvolgerla nel conflitto
per costringere l’Austria a mantenere aperto anche un fronte di
guerra a sud. Approcci che furono avviati sia a livello ufficiale
con il governo che riservati con il re, ma anche con i mazziniani e
con agitatori perché fomentassero disordini nel Veneto. Per
evitare l’eventualità di una alleanza dell’Italia con la
Prussia, l’Austria era altrettanto interessata a raggiungere un
compromesso che avrebbe mantenuto fuori dal conflitto l’Italia.
Questa fu coinvolta in un complesso negoziato, in parte concordato
con la Francia ed in parte condotto autonomamente. Ed
allorché, a seguito della convenzione di Gastein (n. 29),
sembrava sopragiungere un’intesa tra Prussia ed Austria, l’Italia
cercò di ottenere dall’Austria la cessione del Veneto, per
via diplomatica ed in cambio di una consistente indennità. La
risposta negativa ricevuta a questa offerta, avvicinò
l’Italia alla Prussia e, nell’aprile 1866, fu concordata a Berlino
dal generale Giuseppe Govone (n. 56) una alleanza che impegnava
l’Italia, nei prossimi tre mesi, a dichiarare guerra all’Austra, nel
caso la Prussia l’avesse fatto. L’accordo prevedeva di non
concludere armistizio o pace separata fino a che l’Austria non
avesse accettato di cedere all’Italia il Veneto e la provincia di
Mantova ed alla Prussia territori di popolazione equivalente. (30)
A fronte di questo vi fu un tentativo (maggio 1866) dell’Austria
che, per garantirsi la neutralità di Italia e Francia, si
impegnava a cedere il Veneto a quest’ultima perché lo
trasmettesse all’Italia. La qualcosa, per la grave perdita di
prestigio che il baratto comportava, non fu ritenuta accettabile
(31).
Valutazione in parte spiegabile con l’errata convinzione di
Lamarmora di ottenere da una guerra non solo il Veneto ma anche il
Trentino e con il miraggio di condurre una guerra vittoriosa cui il
Regno d’Italia aspirava per guadagnarsi il prestigio internazionale
che la maniera fortunosa con cui si era arrivati all’unità
non gli aveva garantito.
Mentre l’Austria concordava la neutralità con la Francia (n.
31) La Prussia, contestando pretestuosamente alcune decisioni del
governatore austriaco nello Holstein (n. 29), rompeva le relazioni
con l’Austria e dava avvio alle operazioni di guerra sul fronte
tedesco (16 giugno) . L’Italia seguiva e, con la dichiarazione di
guerra all’Austria (20 giugno), dava avvio alla III Guerra
d’Indipendenza.
A metà maggio il re invitava Garibaldi ad assumere il comando
di un corpo di volontari che si stava costituendo in Lombardia.
Garibaldi giunse a metà giugno e, costatando il disordine e
lo scarso equipaggiamento, cercò di provvedere e sopperire
infondendo entusiasmo. Il generale La Marmora cedette a Bettino
Ricasoli la presidenza del consiglio, per assumere la carica di capo
di stato maggiore, affiancando Vittorio Emanuele II (per statuto
comandante in capo ma privo di esperienze militari) e Cialdini al
comando di un esercito ingente (più di 200.000 uomini).
Più numeroso di quello austriaco ma non addestrato, non
amalgamato (napoletani e piemontesi si erano combattuti fino a tempi
recenti), non coordinato nei comandi (gelosie dividevano i vari
generali) e con piani logistici inadeguati. Le armate di La Marmora
si disposero sul Mincio mentre quelle di Cialdini sul basso Po a
fronteggiare quelle austriache, parte delle quali erano
asserragliate nel quadrilatero (*). Il 24 giugno, il fronte delle
divisioni di La Marmora che, nei pressi di Custoza, avanzavano oltre
il Mincio, venne spezzato dalle guarnigioni austriache che,
comandate dall’arciduca Alberto, avanzavano compatte. Il fronte
italiano disarticolato subì una sconfitta pesante ma non
definitiva, considerando che l’armata di Cialdini non era ancora
stata impiegata. La dispersione del fronte che ne seguì
indusse La Marmora, malgrado le esigue perdite subite (750 uomini)
ad ordinare la ritirata mentre Cialdini (33), anziché correre
in supporto, ordinò, a sua volta, la ritirata verso Modena.
Gli austriaci, non avevano le forze sufficienti per insistere
nell’offensiva e non pressarono, travagliati dalle notizie dei
disastri subiti in Germania (n. 32). Ai primi di luglio, le armate
di Cialdini ripresero ad avanzare verso il Veneto, giungendo a
Padova (14 luglio).
Frattanto le dodici corazzate della flotta italiana, ancorate ad
Ancona e comandate da Persano, dopo la sconfitta di Custoza,
ricevettero l’ordine di entrare in azione (15 luglio). Persano che
non aveva reagito all’attacco subito dalla flotta ancora in porto da
parte della marina austriaca, mise a punto frettolosamente un piano
per attaccare l’isola di Lissa, base avanzata austriaca
nell’Adriatico. Nello scontro del 20 luglio, la meno consistente
flotta austriaca (sette corazzate) abilmente guidata dal vice
ammiraglio Tegetthoff, affondò due navi della flotta italiana
(Re d’Italia e Palestro) mal disposte per lo scontro. Dopo aver
subito il danneggiamento di una delle sue, la flotta austriaca si
ritirò verso la base di Pola non inseguita da quella
italiana, malgrado gli ufficiali facessero pressanti sollecitazioni
su Persano (34).
Solo Garibaldi, tenuto volontariamente lontano dal teatro delle
operazioni, con i suoi volontari salvava il prestigio italiano
conseguendo, nella battaglia di Bezzecca (21 luglio), una vittoria
faticosa ma costosa per le perdite subite che costrinse l’Austria,
già prostrata per i rovesci subiti sul fronte prussiano a
chiedere l’armistizio. Questo sottoscritto a Cormons (12 agosto) fu
il preliminare per la pace conclusa con il trattato di Vienna (3
ottobre) in cui l’Austria cedette il Veneto e la provincia di
Mantova alla Francia che, a sua volta, le cedette all’Italia. Non
venne accolta la richiesta italiana di mantenere i territori del
trentino conquistati da Garibaldi.
La cessione dei territori attraverso la Francia è il segno
dello scarso credito in cui l’Austria teneva l’Italia, battuta sul
campo, e dell’intenzione di compensare Napoleone per la sua
neutralità, offrendogli la possibilità di mantenere
una posizione condizionante sull’Italia.
Il plebiscito per l’annessione diede l’esito largamente scontato.
L’Italia, uscita moralmente ridimensionata dal conflitto, assistette
al penoso scambio di accuse fra generali che rigettavano la
responsabilità di quella disfatta (Custoza e Lissa).
L’Italia aveva fatto un altro passo in avanti nel completamento
delle sue frontiere naturali ma l’andamento della guerra non aveva
suscitato l’entusiasmo che avrebbe potuto contribuire a creare una
salda coscienza nazionale.
- La conquista di Roma (1867-70)
L’ultimo obiettivo per completare l’unità non poteva essere
raggiunto attraverso un accordo con Papa Pio IX che già
riteneva un sopruso la sottrazione di territori pontifici (Marche ed
Umbria) a beneficio del Regno d’Italia. A cui il Papa rispose con
una enciclica Quanta cura (dicembre 1864), contemporaneamente alla
quale pubblicò il Sillabo che, nell’elencare i principali
errori del suo tempo (36), condannava la libertà di
discussione (corromperebbe l’anima), la libertà di coscienza
e di stampa, il socialismo, il razionalismo e l’affermazione secondo
cui il pontefice deve conciliarsi con il progresso, il liberalismo e
la civiltà moderna. Questo decalogo provocò
indignazione e la gerarchia ecclesiastica lo accolse nella
stragrande maggioranza sebbene la parte meno illiberale del clero si
affrettasse a metterne in dubbio l’importanza e l’autorità.
Ed il governo italiano accrebbe il contrasto promulgando una serie
di leggi che metteva fine ai vistosi privilegi ecclesiastici,
sopprimendo congregazioni ed incamerandone i beni immobiliari con la
motivazione dell’assunzione di responsabilità da parte dello
Stato dell’istruzione e della pubblica beneficenza.
Dovendo ugualmente escludere, per l’acquisizione di Roma, una
posizione accondiscendente di Napoleone III dopo quanto concordato
con la convenzione di settembre (1864) (37), bisognava puntare sulla
possibilità di una insurrezione popolare all’interno dello
Stato pontificio che avrebbe costretto il governo italiano ad
intervenire.
Le elezioni politiche del marzo 1867 avevano riportato al governo
l’esponente della sinistra Urbano Rattazzi e Garibaldi, mosso dal
disappunto per la maniera con cui era stato acquisito il Veneto,
accese su tutte le piazze la polemica con lo Stato pontificio al
punto da indurre Napoleone a richiamare il rispetto della
convenzione (n. 37) mediante l’ambasciatore a Firenze. Le intenzioni
di Garibaldi, umiliato per la maniera con cui era stato acquisito il
Veneto e malgrado l’insolito invito alla prudenza formulato da
Mazzini, di indurre una sommossa nello Stato pontificio erano palesi
ed i volontari incominciarono a giungere spontaneamente a
Monterotondo, nell’iniziale indifferenza delle autorità.
Successivamente Garibaldi, mentre si trovava ospite di amici a
Sinalunga (Toscana) venne arrestato (24 settembre) dai carabinieri
e, malgrado la sua vivace reazione sostenuta anche dall’esterno,
ricondotto a Caprera (38). Questo non impedì la penetrazione
di volontari garibaldini nello Stato pontificio senza che ciò
sollevasse alcun segno di sommossa e di intervento che impedisse il
verificarsi di un disastro analogo a quello dell’Aspromonte.
Garibaldi riuscì a fuggire da Caprera e col suo ritorno in
continente, a Livorno (19 ottobre 1867), e con l’entusiasmo che
provocava, mise in crisi l’impotente Rattazzi che fu costretto a
dimettersi per essere sostituito da Menabrea (39).
Garibaldi, avvertito da Crispi di un nuovo mandato di cattura,
penetrò nel territorio pontificio dove si trovavano
già i suoi volontari (40).
Il piano di rivolta registrò solo due episodi, il 22 ottobre
l’assalto ad una caserma ed il 23 ottobre un fallito tentativo
insurrezionale a Roma con una serie di scontri fra cui quello nel
parco di Villa Glori, nei pressi di Ponte Milvio dove trovarono la
morte i fratelli Enrico e Giovanni Cairoli (41).
L’episodio indusse Napoleone III ad inviare in tutta fretta un
contingente francese che, guidato dal generale De Faille, giunse a
Civitavecchia il 30 ottobre e poco più tardi, il 3 novembre
1867, le forze garibaldine, tra l’indifferenza o addirittura
ostilità della cittadinanza romana (in maggioranza
ecclesiastici, albergatori e mendicanti), vennero sconfitte a
Mentana dalle truppe francesi armate con i nuovi fucili a
retrocarica Chassepots.
Garibaldi, ripassato il confine fu di nuovo arrestato e ricondotto a
Caprera, dopo aver sostato di nuovo per qualche giorno nel forte
Varignano di La Spezia.
La sconfitta di Mentana, seguente a quelle di Custoza e Lissa aveva
compromesso le sorti della monarchia e la soluzione della questione
romana, ostacolata dall’intransigenza francese, sembrava
allontanarsi.
Ma la soluzione si verificò non molto tempo dopo.
Nel dicembre del 1869, Lanza (n. 39) aveva sostituito Menabrea alla
presidenza del consiglio.
Nel 1870 la crisi dei rapporti della Francia con la Prussia (42) e
la guerra scoppiata nel luglio successivo costrinse Napoleone a
ritirare il presidio francese da Roma (agosto 1870). Poche settimane
più tardi, a seguito della caduta del II Impero francese di
Napoleone, il governo italiano tentò un accordo con Pio IX ed
al rifiuto ricevuto, superò le ultime reticenze, ricorrendo
all’azione. Il 12 settembre, le truppe italiane al comando del
generale Cadorna entrarono nel territorio pontificio senza
incontrare resistenza e la mattina del 20 settembre attraverso una
breccia che l’artiglieria aveva aperto nelle mura romane, presso
Porta Pia, i bersaglieri occuparono Roma, senza penetrare nel
Vaticano.
Roma divenne capitale d’Italia (27 marzo 1871) . (43)
Con quest’ultimo risultato, ottenuto anch’esso come i precedenti in
maniera casuale, si completava l’unità territoriale
dell’Italia che, inoltre, si sottraeva al condizionamento francese.
L’annessione dell’ultimo lembo di territorio italiano, il Trentino e
la Venezia Giulia, si realizzerà con la I Guerra mondiale
(1918).
Si concludeva anche la vicenda storica del potere temporale dei papi
che durava da quando si erano verificate le donazioni dei Longobardi
(44).
Il Papa si chiuse in Vaticano e lanciò la scomunica contro i
responsabili della caduta del suo potere (45) dando avvio ad un
contrasto che sarà risanato con i Patti Lateranensi del 1928.
Il governo del Meridione
Cavour, male o opportunisticamente interpretando il voto
plebiscitario e dimenticando la promessa di autogoverno fatta alla
Sicilia nella fase progettuale, nel timore che l’autonomia venisse
scambiata con disintegrazione della nazione e che i governi locali
potessero cadere in mano a potentati locali, cambiò parere ed
optò per uno Stato centralizzato più facile da
dirigere cui estese le leggi piemontesi. Che, nel Sud, vennero
imposte anche con l’uso della forza risollevando, in Sicilia, il
sentimento autonomista e facendo subentrare la delusione
all’iniziale entusiasmo con cui era stato accolto l’abbattimento del
regime borbonico (46).
Egli, pur non essendo mai stato a Napoli e tanto meno nel meridione
più profondo di Calabria, Puglia e Sicilia che riteneva la
parte debole e corrotta d’Italia, aveva ben chiaro il problema della
fusione effettiva fra Nord e Sud ma, ignorando le condizioni
socioeconomiche di quelle regioni, dove l’analfabetismo interessava
il 90% della popolazione e c’erano da combattere il rinascente
fenomeno sociale del brigantaggio, non aveva avuto il tempo di
elaborare in merito una politica globale ed efficace. Questa
impostazione di governo centralizzato rafforzò l’idea che una
regione, il Piemonte, avesse in pratica conquistato le altre. E che
di ciò si fosse trattato veniva confermato dalla evidenza che
il parlamento eletto nel 1861 assunse, nella terminologia ufficiale,
l’ordinale di ottavo anziché di primo del nuovo Regno come
non vi fosse stata alcuna discontinuità col Regno di Sardegna
e così Vittorio Emanuele mantenne l’ordinale di secondo e la
costituzione del Nuovo Stato fu esattamente la stessa piemontese del
1848 (Statuto Albertino).
I successori di Cavour, presi come erano dalle questioni del
contingente, da gestioni di governo piuttosto brevi, da un
parlamento in cui regnavano indisciplina ed interesse di parte, non
ebbero la capacità o la possibilità di programmare
obiettivi a lunga scadenza mentre le necessità e le richieste
delle regioni annesse e, particolarmente del meridione, erano
impellenti. Bisognava comunque dare risposte alle richieste che
provenivano da più parti, da quella di pane e lavoro a quella
di infrastrutture (ferrovie e strade) e di scuole (malgrado
mancassero i maestri), dalla necessità di presenze di
gendarmi nelle province a quella di compensi per i martiri e danni
subiti. A questo si aggiungeva il bisogno di agire con moderazione,
non abbandonando le competenze che si erano formate con le
precedenti amministrazioni, di mantenere le tradizioni ed
istituzioni locali e quanto di buono restava nell’amministrazione
locale. Ma bisognava agire con altrettanta accortezza ed evitare di
far sedere giudici dei passati regimi accanto a persone che avevano
perseguitato o condannato.
I funzionari locali si trovarono in difficoltà per la
dipendenza dall’amministrazione di Torino che, benché
sufficientemente onesta ed efficiente, appariva lontana, imbarazzata
e priva d’immaginazione nel suggerire la maniera di affrontare la
varietà di problemi che le si proponevano. E la presenza di
funzionari piemontesi che estromisero i locali sollevò la
protesta dei notabili che mal sopportavano di essere governati da
burocrati non appartenenti alla loro classe privilegiata e pertanto
insensibili alla loro rabbia che nasceva dal vedere i loro fondi
occupati con la forza dai loro stessi salariati. A questa protesta
si rispose vendendo loro a costi irrisosi le terre ecclesiastiche
confiscate ed a quella dei popolani in cerca di occupazione con il
loro impiego nella costruzione delle ferrovie.
L’organizzazione politica e militare creata da Garibaldi nel
mezzogiorno fu smantellata e la luogotenenza a Napoli e Palermo,
deludendo le aspettative di Garibaldi che sperava di restare in
qualità di viceré, fu assunta da rappresentanti del
governo piemontese (47) che, al fine di lanciare messaggi
rassicuranti ai potenziali investitori nelle strutture del sud,
ricevettero l’ordine di impiegare, ai primi segni di protesta,
l’esercito con metodi bruschi e di allontanare borbonici e
garibaldini. Questi ultimi, sebbene avessero conquistato metà
del territorio del Regno, nella gran maggioranza, vennero perfino
discriminati a favore dei componenti dello sconfitto esercito
borbonico, preferendo gli ufficiali piemontesi fondersi con
ufficiali che appartenevano al loro stesso rango che con personaggi
pur validi ma di diversa estrazione ideale.
Nelle regioni meridionali si percepiva tuttavia una ostilità
diffusa che rese necessaria la presenza di un esercito di 90.000
uomini in regioni in cui la profondità dei problemi e le
differenze non potevano essere eliminate in breve tempo attraverso
il rigido controllo del territorio (48). E dopo le attese suscitate
dal movimento che aveva abbattuto il vecchio regime borbonico e le
cui finalità non erano penetrate nelle coscienze della
moltitudine, l’occupazione militare diffuse tale disappunto da
collocare all’opposizione anche coloro (tra questi Garibaldi e
Mazzini) che erano stati ispiratori ed artefici del movimento
unitario ed ora temevano che tanti eroici sacrifici potessero
vanificarsi.
Il processo di centralizzazione con la celere introduzione delle
leggi del nord accanto alla sensazione di annessione, provocò
il risveglio di sentimenti locali che fecero fallire il tentativo di
sopprimere il Banco di Napoli mentre le filiali del Banco di Torino
cominciarono ad operare in perdita e gli operatori locali si
mostrarono riluttanti a servirsi di banconote del Nord. Il Sud che
si era ribellato al malgoverno dei Borboni si accorse incapace di
accettare una qualsiasi forma di governo che non avesse lasciato la
gestione ai potentati locali e diminuito le tasse. Questa
insoddisfazione aggravata dall’indignazione per la repressione
poliziesca avviata con l’arrivo di Cialdini (ottobre 1860) che
faceva fucilare sul posto ogni contadino trovato in possesso di
armi, si intensificò nell’anno successivo, in un clima di
insubordinazione e di anarchia, favorendo l’inasprimento del
brigantaggio o banditismo (49), non nuovo in quelle regioni ed a
cui, in diversi periodi, i re Borboni avevano ricorso come strumento
di lotta contro i nemici del momento. Anche Francesco II, dal suo
esilio romano e col favore del Papa, ricorse al reclutamento di
briganti come strumento di lotta e destabilizzazione contro il
governo dei piemontesi, questi stessi ritenuti briganti dal Papa a
causa della sottrazione dei domini centrali (Umbria e Marche).
- Il brigantaggio nel meridione continentale (1861-65)
Esso deve essere ritenuto prevalentemente un fenomeno di protesta
sociale prodotto dall’endemico malessere e sottosviluppo della
classe contadina che sconfinò il livello della semplice
delinquenza ed, a modello di coloro che dopo regolamenti di conti si
erano dati alla macchia per sfuggire alla giustizia, trovava nella
rapina la maniera di sopravvivenza.
Il brigantaggio, un fenomeno non nuovo né locale ma che nel
meridione assunse sempre caratteristiche peculiari, si
rinvigorì con la caduta della fortezza di Gaeta (febbraio
1861) allorché gruppi di soldati ed ufficiali del disciolto
esercito borbonico cominciarono ad organizzarsi per continuare la
guerra all’invasore piemontese, fu favorito dalla endemica
predisposizione alla rivolta degli strati più emarginati
della popolazione che reagirono alla introduzione di leggi,
regolamenti e codici avvertiti come estranei, a nuove imposte
particolarmente impopolari come quelle sul pane e sul sale ed dalla
leva militare obbligatoria (50) sconosciuta sotto i Borbone. Si
diffuse in tutte le regioni continentali a partire dall’Abruzzo si
era esteso in Calabria, Irpinia, Molise e Puglia, concentrandosi
particolarmente, nel Beventano ed in Basilicata. Esso assunse, in
questo passaggio storico, il livello di guerriglia organizzata,
accogliendo fra le sue fila oltre ai giovani che fuggivano dalla
coscrizione, contadini assetati di vendetta, evasi, avventurieri
attratti dal miraggio del bottino, preti rinnegati, popolani
frustati dalla difficoltà della sopravvivenza. Le bande, che
nel 1861 arrivarono ad essere circa 350 alcune delle quali
particolarmente numerose (sfioravano le 400 unità),
controllavano minuziosamente il territorio, colpivano i notabili e i
sospettati di essere liberali (ritenuti filoitaliani), imponevano
taglie e riscatti, assaltavano centri abitati sopraffacendo le
guarnigioni minori, massacravano i soldati fatti prigionieri,
incendiavano gli archivi degli uffici delle imposte.
Molti cittadini, assimilando i briganti alla stregua di combattenti
contro i proprietari terrieri e contro un governo remoto e straniero
che aveva arbitrariamente introdotte le proprie regole, li elessero
a simbolo delle loro stesse aspirazioni frustrate e, dimenticando le
pratiche di saccheggio e di rapina, li sostennero in quanto capaci
di procurarsi quella giustizia che la legge non riusciva a fornire e
diedero loro diverse forme di protezione (informazioni ed
ospitalità).
Il governo, che aveva sottovalutato il disordine economico e sociale
prodotto dall’unificazione, prima di organizzare la controffensiva
nelle province, dovette assicurarsi il controllo delle città
dove operavano numerose organizzazioni di ribelli ed a tal fine
vennero tentati contatti, con la vecchia aristocrazia, con i
radicali e persino con la malavita organizzata cui vennero affidate
funzioni di polizia. Quindi, essendo risultato infruttuoso un
contenimento non violento del brigantaggio affidato a Gustavo Ponza,
il governo, per rispondere alla efferata violenza del brigantaggio,
inviò (giugno 1861) il generale Cialdini con un esercito
iniziale di 22.000 soldati per operare una sanguinosa repressione
militare che si macchiò in tutto il meridione di
atrocità, massacri ed atti ignobili tali da essere paragonati
a quelli di vecchi campioni della violenza utilizzati da Ferdinando
IV di Borbone (n. 49). Persone vennero fucilate per semplici
sospetti, intere famiglie punite a causa di un loro membro, villaggi
saccheggiati ed incendiati per aver dato rifugio a briganti e venne
perseguitato lo stesso clero, il principale amico dei poveri.
Nel gennaio 1863, la commissione parlamentare guidata dal deputato
Giuseppe Massari (1821-84) per indagare sul brigantaggio
rilevò che questo era più debole là dove
esistevano soddisfacenti rapporti fra lavoratori e datori di lavoro
e dove vigeva il sistema della mezzadria che vincolava alla terra
gli interessi dei contadini (52). La relazione, esplicita nel
denunciare l’aiuto prestato dal governo pontificio che trasmetteva
ordini attraverso l’episcopato, rivelava come fosse indispensabile
dimostrare alle popolazioni locali i vantaggi che, con la
libertà, ne sarebbero derivate per il loro benessere. In essa
si suggeriva una serie di interventi necessari quali: frazionare e
distribuire le proprietà ecclesiastiche tenute in manomorta,
tutelare la sicurezza pubblica allontanando il timore della gente di
subire rappresaglie essendo remota l’eventualità di una
restaurazione borbonica e così indurla alla collaborazione,
migliorare la sicurezza delle carceri per evitare che facili
evasioni alimentassero il brigantaggio. Tali misure dovevano servire
a disincentivare il brigantaggio ma intanto era necessario
abbatterlo e la severità appariva la strategia più
facilmente applicabile.
In forza della legge che porta il nome del deputato abruzzese
Giuseppe Pica (53) fu posto in stato d’assedio quasi tutto il
meridione d’Italia (ad eccezione di Napoli, Teramo e Reggio
Calabria) con un esercito che arrivò a raggiungere le 120.000
unità e che, affidato ai generali Ferdinando Pinelli (in
Abruzzo) e Pallavicino di Priola (Campania e Basilcata) succeduti a
Cialdini venne dislocato nelle regioni meridionali col mandato di
applicare norme restrittive e la legge marziale anche nei riguardi
di semplici sospetti. Le rappresaglie da ambo le parti furono atroci
con il coinvolgimento, loro malgrado, delle masse che, vedendo
distrutti i loro villaggi, furono costretti a trovare rifugio
altrove, portandosi dietro odio e sete di vendetta.
Il brigantaggio, con l’uccisione di quasi diecimila briganti (54) le
cui teste sovente venivano esposte sui crocicchi delle strade e un
centinaio di miglia di imprigionati o fuoriusciti, fu sconfitto nel
1865 ma, nelle campagne, rimase in forma endemica fino al 1870.
Alcuni capi (n. 54) ripararono nello Stato pontificio ed i loro
affiliati continuarono l’attività di rapina sulle maggiori
vie di comunicazione, anche se molti contadini, affrancati dal
timore di rappresaglie, cominciarono a denunciare i reati subiti.
Il costo di questa lunga e crudele guerra civile contro il
brigantaggio fu enorme. Il numero di soldati morti di malaria fu
superiore a quelli periti in combattimento, il cui numero
complessivo fu rilevante ma imprecisato.
- Rivolta in Sicilia (1866)
Cavour, come si è detto in precedenza, per non dar spazio al
dibattito ed ignorando le promesse di una certa autonomia, decise
per una annessione in tempi rapidi, imponendo alla Sicilia le
istituzioni piemontesi, confidando nel consiglio di notabili locali
e di esuli siciliani che avevano ormai perso il contatto con la loro
terra e che talvolta nascondevano motivi personali non sempre
apprezzabili. L’amministrazione dell’isola fu affidata a persone che
non godevano il favore di Garibaldi iniziando a far nascere nei
siciliani quei sentimenti antigovernativi che prima avevano aiutato
Garibaldi contro i borboni e che poi si diressero contro il governo
piemontese. Sentimenti che si acuirono man mano che venivano varate
quelle norme, come coscrizione e nuove imposte.
Già nel 1861 funzionari piemontesi delusi nel trovarsi
immersi in una società così diversa dalla loro ed a
contatto con una lingua quasi incomprensibile, riferivano che le
stesse bande che avevano prestato aiuto a Garibaldi erano ricomparse
ed avevano ripreso ad operare contro il governo del Nord. Esse,
assieme a miglia di disertori alla macchia ed a vasti strati di
popolazione che viveva uno stato di semibarbarie, erano
difficilmente controllabili e protette dal clero che, a causa delle
enormi ricchezze e superfici agricole confiscati alla Chiesa , si
era schierato contro il nuovo Regno coprendo l’inosservanza verso la
legge e l’ordine.
Nel 1863 fu inviato in Sicilia con pieni poteri il generale Giuseppe
Govone (56) che condusse operazioni pianificate su vasta scala che,
non tralasciando la tortura e la crudeltà, perseguivano
l’obiettivo di catturare migliaia di renitenti alla leva, senza
tener conto del conseguente inasprimento del sentimento di
ribellione. E quando, ultimata nel nord la guerra del 1866, furono
trasferite nuove truppe in Sicilia, si verificò una rivolta
(16-22 settembre 1866) iniziata a Monreale e proseguita con una
marcia verso Palermo da parte delle bande armate (57) che, sostenute
da tutti coloro che erano ai margini della società o
estromessi dalla nuova amministrazione, diedero l’assalto agli
uffici amministrativi lasciando soltanto il porto ed il municipio al
controllo del sindaco marchese di Rudinì (58).
Gli insorti, favoriti dalla classe benestante fino a quando questa
stessa non venne da essi obbligata al versamento di ingenti somme di
denaro, costituirono un governo provvisorio cui furono costretti a
partecipare alcuni nobili e prelati.
Il governo centrale inviò la flotta a bombardare Palermo
causando diverse centinaia di vittime. Quindi, dopo negoziati
mediati dal console francese, la rivolta si placò e la
repressione mandò in prigione migliaia di individui e
numerosi ecclesiastici.
Garibaldi si dimise dal parlamento per protestare contro il brutale
trattamento riservato alla Sicilia.
Mentre i personaggi che avevano avuto ruolo nella costruzione
dell’unità dell’Italia scomparivano (59), il Meridione
d’Italia, non solo a seguito della lotta al banditismo ma anche di
scelte economiche che avevano aumentato le imposte, sostituito la
moneta aurea ed argentea borbonica con carta moneta piemontese (60),
abolito le tariffe protezionistiche ed affidato gli appalti per la
costruzione di infrastrutture alle imprese del nord, vedeva
devastata la sua economia.
Con l’economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche chiuse,
il commercio inaridito in moltissime province, la disoccupazione
divenuta un fenomeno di massa, si allargò nella popolazione
la fascia della miseria e della fame che fece dilagare il malessere
già esistente all’atto dell’unificazione e lasciò alla
deriva economica e sociale tutto il meridione. I politici
preferirono ritenere che le regioni meridionali fossero condannati
alla miseria dal malgoverno borbonico dimenticando il fatto che la
Sardegna si trovava in condizioni peggiori della Sicilia nonostante
i 150 anni di governo sabaudo piemontese.
Ci vollero decenni prima che il Mezzogiorno d’Italia fosse oggetto
di indagine che identificò, nel sottosviluppo del Sud, il
problema cruciale della vita italiana, la questione meridionale.
Note:
(2) Francesco, accompagnato da pochi aiutanti, portò con se
l’archivio personale e lasciò nella Reggia e nel Banco di
Napoli la sua personale e favolosa fortuna, i gioielli e gli abiti
della moglie ed i depositi privati di questa. Prima di partire, il 5
settembre, emanò un proclama in cui affermava di allontanarsi
da Napoli per evitare danni alla città ed evidenziava di non
aver reagito alle innumerevoli cospirazioni ordite contro di lui,
non per debolezza, ma per non macchiarsi di crudeltà. Nello
stesso proclama, rivolgendosi ai sudditi li ammoniva profeticamente
“…sognate l’Italia ma, arriverà il giorno che non avrete
più nulla, nemmeno gli occhi per piangere”. A Gaeta fu
istituito un nuovo governo affidato al generale Casella ed il re
ricevette il saluto dei diplomatici di molte nazioni, tranne
Inghilterra e Francia.
(3) Giorgio Pallavicino Trivulzio (1796-1878), componente della
società segreta del Federati, fu arrestato dalla polizia
austriaca e, con sue ammissioni, causò l’arresto di Federico
Gonfalonieri con cui scontò la pena presso il carcere
austriaco dello Spielberg. Condannato e rilasciato nel 1835 fu
animatore delle cinque giornate di Milano (1848). Rifugiatosi in
Piemonte, fu tra i fondatori della Società Nazionale (*).
Dopo l’impresa dei Mille, divenne senatore.
(4) Agostino Depretis (1813-87) deputato al Parlamento subalpino del
1848, mazziniano ed oppositore del governo fino al 1859.
Prodittatore in Sicilia (luglio-settembre 1860), ministro nei
governi Rattazzi e II-Ricasoli, nel 1876 diresse il primo governo di
sinistra con l’appoggio della destra in una maggioranza che,
prescindendo da posizioni ideologiche, si costituiva, di volta in
volta, su specifici problemi. Maniera che, definita trasformismo,
consentì il superamento di alcune rigidità
parlamentari e l’attuazione di una politica moderatamente
progressista che fu adottata anche nei governi di Giolitti. Depretis
diresse diversi governi negli anni: 1876-78, 1878-79 e 1881-87.
(5) Ambedue le ipotesi avrebbero allontanato l’annessione e favorito
percorsi e soluzioni di ardua gestione da parte di Cavour. Mazzini,
uscendone dal colloquio con Garibaldi amareggiato nel constatare la
debolezza politica di “.. quell’uomo..”, si convinse
dell’inutilità dei suoi progetti (esule in patria).
Criticò allora la scelta monarchica del Risorgimento italiano
e fondò “Il popolo d’Italia” per promuovere l’idea di una
Repubblica del Sud che si esaurì con il plebiscito del 21
ottobre.
(6) Luigi Carlo Farini (*) (1812-66), stretto collaboratore di
Cavour, dittatore in Emilia (1859) di cui ne gestì
l’annessione. Luogotenente generale (1860-61) nel Meridione dopo
l’annessione. Presidente del consiglio (dicembre 1862-marzo 1863),
si dimise per una grave malattia. Era un dichiarato avversario di
Garibaldi al punto di vantarsi di non avergli mai stretto la mano.
(7) Napoleone non intravedeva altra possibilità di intervento
se non concordato con l’Austria e, piuttosto che ridestare le forze
repubblicane, accolse l’idea di un allargamento della Stato Sardo
prevedendo che esso, dominato dai conseguenti problemi sociali,
sarebbe stato debole ed ancor più bisognoso della protezione
francese.
(8) Manfredo Fanti (1808-65), combattè nella I e II Guerra
d’indipendenza e partecipò alla spedizione in Crimea.
Ministro della guerra nel 1860-61, guidò l’occupazione di
Umbria e Marche e l’assedio a Gaeta. Fondò l’accademia
militare di Modena.
(9) Enrico Cialdini (1811-92), prese parte ai moti del 1831 a Parma,
quindi andò esule in Francia. Rientrato nel 1848, prese parte
alla spedizione in Crimea. Dopo la partecipazione ai fatti del 1860,
divenne luogotenente del re a Napoli (1861-62) e diresse le
operazioni che fermarono Garibaldi in Aspromonte (1862).
Partecipò con scarso successo alla III Guerra d’Indipendenza.
(9) “…per far mettere giudizio a Garibaldi e gettare al mare quel
nido di repubblicani rossi e di socialisti demagoghi che si era
formato attorno a lui…” (pensiero di Cavour espresso in una lettera
a Nigra).
(10) Le forze borboniche vantavano circa 50.000 uomini comandati da
Ricucci, affidati ai generali Afan de Rivera, Tabacchi, Ruiz,
Colonna di Stigliano, Von Mekel e sorretti dalla presenza di re
Francesco II e due suoi fratelli, il conte di Trani ed il conte di
Caserta.
(11) Una di queste era la istituzione di una Costituente che,
patrocinata da Crispi (come da Mazzini, n. 5), avrebbe allontanato
il plebiscito e ridestato i sentimenti di ispirazione
indipententistica o democratica repubblicana.
(12) Il voto venne esteso ad una fetta di popolazione più
ampia di quella (2% circa) che partecipava al voto politico. In
Sicilia votò il 75% degli iscritti alle liste elettorali
(575.000 rispetto ad una popolazione di 2.232.000 abitanti) e solo
667 espressero voto contrario. Anche nel continente votò il
75% degli iscritti alle liste elettorali (1.650.000 su 6.500.000
abitanti) e solo 10.302 espressero voto contrario. Il voto era
completamente pubblico in quanto veniva depositato in due urne, una
per il “SI” e l’altra per il “NO” sotto l’occhio vigile ed
intimidatorio di vari funzionari che, solidali con il nuovo corso,
gestivano il voto dei numerosi analfabeti. Mazzini e D’Azeglio
rimasero disgustati di tali modalità. In Sicilia, molti si
sottrassero al voto nascondendosi in montagna nel timore che esso
fosse collegato ad un nuovo sistema di riscossione delle imposte ed
i più ritennero di aver votato per l’autonomia. Il ministro
degli esteri inglese, Lord John Russel, approvò con una
circolare diplomatica (ottobre 1860) l’Unificazione Italiana anche
se in un dispaccio al ministro Palmerston rilevò che “I voti
del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore” e
l’ambasciatore inglese scrisse al suo governo: “moltissimi vogliono
l’autonomia, nessuno l’annessione ma i pochi che votano sono
costretti a votare questa”. Lo stesso Cavour ricevette diverse
segnalazioni che lo invitavano a non lasciarsi ingannare dal
risultato del plebiscito spiegabile con l’odio per il regime
borbonico, in quanto i fautori dell’annessione erano in netta
minoranza.
Come si può dedurre e secondo lo storico Mack Smith “non fu
chiara e libera manifestazione plebiscitaria della volontà
dei Siciliani ma un vero e proprio atto di forza”. Tuttavia
l’annessione, per Inghilterra e Francia, si inseriva nell’ambito
degli eventi previsti, mentre Russia (da sempre protettore del Regno
Borbone), Austria e Prussia, pur avendo preso in esame la nuova
situazione (25 ottobre a Varsavia) non concordarono alcuna azione.
Due settimane dopo, 4 novembre, si svolse il plebiscito nelle Marche
ed Umbria con risultati analoghi in quanto votarono rispettivamente
il 63% ed il 79% degli iscritti alle liste, esprimendo, in ambedue
le regioni, un consenso del 99% e meno dell’1% di dissenso.
(13) L’ingratitudine con cui fu ricompensato Garibaldi destò
sorpresa in Napoleone che consigliò tuttavia di non farne un
martire ed il primo ministro inglese Palmerston (*) che si era
adoperato a favore dell’unificazione non nascose la sua indignazione
per il trattamento riservato a Garibaldi.
(14) L’impresa dei Mille, che senza dubbio ebbe il merito di
provocare il definitivo collasso del Reame borbonico e favorirne
l’annessione, per quanto coatta si voglia (n. 12), al Regno di
Vittorio Emanuele II, è stata rivisitata ed analizzata
rispetto alle modalità di realizzazione. Come si può
desumere dall’illustrazione degli eventi è fuor di dubbio che
essa sia stata agevolata dall’appoggio finanziario e dalla
protezione del governo britannico, senza trascurare la presenza,
ricca di risorse finanziarie e solo apparentemente ostile, della
flotta piemontese guidata da Persano. Perché un gruppo
così esiguo di volontari non addestrati ed approssimamene
armati poco avrebbero potuto fare contro un esercito ampiamente
più numeroso come quello borbonico se non si fosse verificata
la fellonia di molti amministratori politici e generali borbonici,
gli uni e gli altri vecchi, incompetenti e preoccupati della
personale sopravvivenza. I primi assunsero un ruolo in mancanza
delle migliori personalità del Regno di Napoli, esuli in
Piemonte. I secondi, in parte venduti, in parte intimoriti
dall’ostilità popolare, erano attanagliati dalla sindrome
della disfatta che ne condizionò i comportamenti al punto che
alcuni di essi vennero uccisi dai loro stesi soldati indignati per
la chiara rinuncia a combattere. All’impresa di Garibaldi ha giovato
in particolare l’endemica disponibilità alla ribellione del
popolo siciliano che ritenne di trovare occasione di affrancarsi
dalla sopraffazione che da secoli subiva, a ciò inizialmente
attratto dal carisma dell’eroe e dai primi suoi decreti giudiziosi e
popolari. In sostanza il popolo, per quel poco di politico che vi
era nella sua azione, combatté con il miraggio
dell’autonomismo non certo per l’annessione che invece fu favorita
dalle classi che trovarono nel nuovo regime protezione per i
perpetuarsi dei loro privilegi. Le genti di Calabria e Basilicata
favorirono il passaggio dell’eroe inconsapevoli degli esiti che
sarebbero maturati. L’affrettata e cinica annessione di un mondo ad
un altro distinto e distante non favorì l’integrazione ed i
metodi e criteri di governo applicati produssero risentimenti
malintesi e rancori che provocarono malcontento e sconfortanti
delusioni che fecero germogliare il seme della ribellione.
(15) La fortezza, difesa da oltre 20.000 uomini, era dotata di
numerose ma obsolete bocche da fuoco. In città risiedevano
circa 3000 cittadini e mancava il vettovagliamento per resistere a
lungo senza rifornimenti. Già dopo pochi giorni si era
verificata una epidemia di tifo petecchiale che causò
parecchie vittime. Verso la fine di dicembre i bombardamenti
dell’esercito piemontese comandato da Cialdini divennero più
serrati ma gli assediati riuscirono a ricevere vettovagliamento da
Marsiglia. Cavour, d’accordo con la Gran Bretagna, riuscì a
convenire con Napoleone la partenza della flotta francese da Gaeta
entro il 19 gennaio in cambio della cessione di Mentone e Roccabruna
(trattato del 2 febbraio 1861). Partita la flotta francese l’accesso
del porto venne bloccato (21 gennaio) dalla flotta di Persano. Da
allora Gaeta fu sottoposta ad un continuo bombardamento da terra e
dal mare, inizialmente con scarso successo quindi con maggior
precisione. Dopo una tregua (6 febbraio) per seppellire i morti ed
evacuare i feriti, il 9 febbraio il bombardamento riprese con
violenza e precisione. Il giorno successivo iniziarono le trattative
per la cessione della fortezza, dopo che questa fosse stata
abbandonata dai sovrani. Durante le trattative, Cialdini
anziché sospendere il bombardamento lo intensificò
sottoponendo la popolazione ad un inutile massacro. Il 14 febbraio
il re e la regina, salutati da civili e militari commossi, uscirono
dalla fortezza per imbarcarsi sulla nave francese Mouette. Subito
dopo entrò la brigata piemontese comandata da De Regis che,
secondo gli accordi, avrebbe mantenuto prigioniera la guarnizione
borbonica fino alla caduta delle roccaforti di Civitella del Tronto
e Messina.
(16) Il palazzo era di proprietà di Elisabetta Farnese,
moglie di Filippo V di Borbone, re di Spagna, da cui venne la
discendenza Borbone di Napoli (v. capitolo “Il meridione d’Italia
conteso da Savoia, Asburgo e Borbone”.
Francesco II e la moglie, dopo la presa di Roma si stabilirono a
Parigi dove vissero senza grandi mezzi economici perché il
Regno d’Italia aveva confiscato tutti i beni dei Borboni,
proponendone la restituzione a condizione della rinuncia, da parte
di Francesco, ad ogni pretesa sul Regno delle Due Sicilie.
Compromesso che non accettò “il mio onore non è in
vendita”. Francesco morì nel 1894 durante un soggiorno in
Trentino. La moglie Maria Sofia sperò nella restaurazione del
Regno e, mantenendo contatti con socialisti ed esuli anarchici, fu
sospettata di essere stata ispiratrice dell’attentato di Giovanni
Passannante al re d’Italia Umberto I (1878) e del regicidio di
Umberto I ad opera di Gaetano Bresci (1900). Maria Sofia morì
a Monaco nel 1925 e, dal maggio 1984, è sepolta con il marito
nella Chiesa di Santa Chiara in Napoli.
(17) Nella formazione dello Stato unitario i moderati prevalsero,
rispetto alle altre correnti di pensiero, mazziniani, radicali e
socialisti, ma trovarono resistenze da parte della Chiesa e dei
sostenitori dei precedenti regimi.
(18) Questi inizialmente avevano assunto una posizione di non
interferenza rispetto all’impresa di Garibaldi quindi, nel timore di
essere travolti dal disordine e dall’anarchia per periodo
rivoluzionario, pensarono di collaborare, prima con Garibaldi,
quindi con il Piemonte da cui si sentivano più protetti, con
la speranza di restaurare un ordine che consentisse loro di
conservare quanto più era possibile del loro passato.
(19) Molti fra gli elementi migliori erano morti nelle varie guerre,
logorati dai lunghi anni di lotta o riparati all’estero o in
Piemonte. Là avevano modificato mentalità e, nel lungo
esilio, perso la sensibilità che il diretto contatto con il
territorio e gli eventi consente. Interpellati o coinvolti nelle
decisioni, finirono con il suggerire o condividere interventi
rivelatisi del tutto inadeguati.
(20) La Chiesa aveva scomunicato i capi del nuovo Stato,
benché formalmente cattolici e punì il frate che
assistette Cavour sul letto di morte.
(21) Bettino Ricasoli (1809-80), conservatore cattolico non
clericale, esponente della destra più austera, rigido,
inflessibile e tenace (barone di ferro), non possedeva la
vivacità, l’iniziativa e l’intuizione del grande politico.
Fondò con altri del giornale La Patria con cui stimolò
la costituzione della nazionalità italiana, assumendo un
ruolo nell’annessione della Toscana (*). Dopo del dimissioni del
1862, ritornò a presiedere il consiglio dei ministri in
occasione della III Guerra d’indipendenza.
(22) Nigra (*), ambasciatore a Parigi, avvertì Ricasoli che
il re manteneva con Napoleone contatti al di fuori della diplomazia
ufficiale. Ricasoli chiese a Napoleone di astenersi da questi
contatti e questi avvertì Vittorio Emanuele, il quale (1864)
manteneva contatti riservati anche con Mazzini che lo incitava, al
pari di Garibaldi, a marciare su Venezia, minacciandolo, nel caso di
tentennamenti, di riprendere la propaganda repubblicana.
(23) Urbano Rattazzi (1808-73), si accordò con Cavour per la
coalizione parlamentare del 1852 (connubio *). Da ministro degli
interni nel ministero La Marmora (1859-60) elaborò la legge
che estese gli ordinamenti piemontesi ai comuni e province lombarde
e che divenne la base del sistema amministrativo italiano.
Presidente del consiglio anche nel 1867, dovette, entrambe le volte,
dimettersi per crisi legate ai tentativi di Garibaldi (Aspromonte e
Mentana) di conquistare Roma.
(24) Egli godeva all’estero di ampia popolarità e prestigio
ed era in contatto con diplomatici, giornalisti, politici, ex
garibaldini e popolo di vario genere che andavano a trovarlo a
Caprera e con cui faceva progetti di ampia portata che uscivano dai
confini nazionali. Lincoln gli aveva offerto il comando di una
armata di nordisti nella guerra di secessione americana che egli
rifiutò.
(25) Napoleone non si era lasciato convincere dalle motivazioni con
cui gli si prospettava che era preferibile lasciare occupare Roma
agli italiani, per evitare che i radicali la potessero conquistare
con le armi.
(26) Alcuni soldati regolari che avevano disertato per unirsi a
Garibaldi furono giustiziati sul posto.
(27) Marco Minghetti (1818-86) emiliano, partecipa alla I Guerra
d’indipendenza nelle fila dell’esercito piemontese. Nel 1859 divenne
presidente dell’Assemblea delle Romagne e ministro degli interni con
Cavour e Ricasoli e ministro delle finanze con Farini. Nel 1870, con
l’appoggio di Quintino Sella, riformò l’accademia dei Lincei
sul modello dell’Istitute de France. Ad egli, quale ministro degli
interni, si deve il disegno di legge che avviava, con la creazione
delle regioni, una politica di decentramento dell’ordinamento
amministrativo che, a differenza del federalismo, non implicava
sovranità territoriale ma affidava ampi poteri agli enti
locali, regioni, province e comuni. Questa legge, presentata da
Cavour, trovò la decisa contrarietà dei conservatori e
Ricasoli, dopo un anno di dibattito, riuscì a bloccarla
provocando le dimissioni di Minghetti. Questo disegno di legge fu
ripreso approvato ma non completamente definito dall’Italia
repubblicana. In sostituzione del progetto Minghetti, il Regno fu
diviso in province (59), circondari (193) e mandamenti (1601).
Emilio Visconti Venosta (1829-1914), deputato dal 1860 subito si
distinse in missioni diplomatiche, ricevette da Cavour un incarico
stabile al Ministero degli Esteri quindi ricoprì più
volte la carica di ministro degli esteri fino al 1876 durante i
quali condusse delicati negoziati connessi alla guerra
franco-prussiana (1870) ed all’occupazione di Roma (1871). Senatore
dal 1886, impegnato in una missione diplomatica nel 1894 e di nuovo
ministro degli esteri (1896) con Di Rudinì nel difficile
passaggio della disfatta in Abissinia ed ancora nel 1899, nel
secondo governo Pelloux.
(28) L’eventualità che la capitale fosse trasferita a Napoli,
la più grande città del nuovo Regno, venne accantonata
per la decisa contrarietà dei siciliani.
(29) I ducati di Schleswig-Holtein, di tradizioni tedesche e facenti
parte della Confederazione germanica ma sotto la sovranità
della corona danese, dopo la morte di re Federico VII (1863)
,vengono sottratti alla Danimarca per incorporarli nello Stato. La
Prussia, ponendosi in conflitto con l’Austria ma garantendosi la
neutralità delle grandi potenze, prese l’iniziativa di
annessione dei due ducati. Nell’agosto 1865 a Gastein, Prussia ed
Austria si accordarono per la spartizione dei due ducati (Schleswig
alla Prussia ed Holtein all’Austria).
(30) Il tentativo dell’Italia di fare entrare nella trattativa
l’acquisizione del Tirolo e Trentino che facevano parte della
Confederazione Germanica, non trovò concrete risposte.
Bismarck aveva concordato con Garibaldi, e trovato il consenso di
Vittorio Emanuele, una azione in territorio slavo (Serbia e Croazia)
per promuovere una rivolta contro l’Austria. Il progetto ricevette
il veto di La Marmora e ciò spiega perché l’Italia non
riuscì a ricevere dalla Prussia tutti i vantaggi
dell’alleanza.
(31) Vi fu un successivo accordo in cui l’Austria, in cambio della
neutralità della Francia (giugno 1866), si impegnava, in caso
di vittoria, a non mutare lo stato dei domini in Italia senza il
consenso della Francia che, oltre a ricevere compensi territoriali,
non avrebbe ostacolato la distruzione dell’unità italiana.
(32) Le armate prussiane, con rapidità grazie ai trasporti
ferroviari, si concentrarono per invadere Sassonia Hannover ed
Assia, prima di penetrare in Boemia e travolgere le guarnizioni
austriache (22-23 giugno). Queste vengono di nuovo sconfitte ad
Hannover e Langensalza (29 giugno) ed ancora nella battaglia
decisiva di Sadowa (3 luglio). L’Austria fu costretta ad avviare
trattative di pace che, dopo i preliminari di Nikolsburg (26 luglio)
in cui Bismarck rifiutò la mediazione di Napoleone III, si
tennero a Praga (23 agosto). L’Austria ne uscì notevolmente
ridimensionata avendo dovuto cedere Holstein (n. 29) e territori
della Slesia mentre la Prussia acquisì tutti i territori del
nord ed estese la sua influenza nella Germania meridionale.
(33) Cialdini, arrogante ed altezzoso, se avesse varcato il Po
invece di ritirarsi senza motivo, avrebbe potuto capovolgere le
sorti dello scontro.
(34) L’opinione pubblica rimase sbalordita. L’ammiraglio Persano
che, dopo lo scontro, aveva telegrafato di essere rimasto “padrone
delle acque” cercò di incolpare del disastro i suoi
ufficiali. Egli subì un processo e, riconosciuto colpevole di
imperizia, fu destituito con la perdita della pensione e delle
decorazioni.
(35) Lo storico Pasquale Villari (1826-1917), nel commentare l’esito
della guerra nel settembre 1866, sul Politecnico di Carlo Cattaneo,
dava un quadro allarmante delle reali condizioni del Paese
“V’è nel seno della nazione stessa un nemico più
potente dell’Austria ed è la nostra colossale ignoranza, sono
le moltitudini analfabete, i burocrati macchina, i professori
ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali
incapaci, l’operaio inesperto, l’agricoltore patriarcale e la
retorica che ci rode le ossa. Non è il quadrilatero di
Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino, ma
è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e di 5 milioni
di Arcadi”.
(36) Il Sillabo era diviso in dieci paragrafi tematici riguardanti,
fra altri, razionalismo assoluto e moderato, socialismo, comunismo,
società segrete, diritti e privilegi della Chiesa e suoi
rapporti con la società civile, morale naturale e cristiana,
il matrimonio, il potere temporale del pontefice, il liberalismo.
(37) La Convenzione di settembre prevedeva il trasferimento della
capitale a Firenze a garanzia del ritiro del contingente francese da
Roma, cosa che si era regolarmente verificata entro la fine del
1866, sostituito da un gruppo di volontari provenienti da Antibes.
Operazione con cui Napoleone, sostanzialmente sfuggiva alla
convenzione che, peraltro, impegnava il governo italiano a non
attaccare dall’esterno ma non escludeva un rovesciamento
dall’interno. Rattazzi pensava che, nell’invio di volontari, vi
fossero gli elementi per denunciare la convenzione ed operare
l’annessione ma non osò realizzare il proposito.
(38) Il motivo del passaggio dalla apparente indifferenza all’azione
da parte del governo forse va spiegata con il timore di un presunto
accordo con Mazzini per una soluzione repubblicana della questione
romana.
(39) Luigi Federico Menabrea (1809-96) generale aiutante di campo
del re e politico esponente della destra, già ministro della
marina e dei lavori pubblici.
- Giovanni Lanza (1810-82) esponente della destra storica, fu
presidente del consiglio fino al 1873 con Quintino Sella (1827-84)
al ministero delle finanze.
(40) Il re confidava al ministro britannico Paget che il suo debole
esercito non gli consentiva di sostenere Garibaldi contro i Francesi
e si riprometteva invece di condividere l’eventuale reazione di
questi, a meno di schierarsi con Garibaldi ove fosse risultato
vincitore.
(41) Giovanni non morì in battaglia ma a seguito delle ferite
riportate. I loro fratelli Ernesto e Luigi erano già
scomparsi in altre imprese garibaldine, con i cacciatori il primo e
con i Mille il secondo. La loro madre rifiutò ogni ricompensa
ed onorificenza. L’altro fratello Benedetto Cairoli (1825-89),
ferito nell’impresa dei Mille, fu presidente del consiglio nel 1878
e nel 1879-81.
(42) I rapporti tra Francia e Prussia si erano incrinati nel 1863
allorché Bismarck aveva rifiutato l’intromissione di
Napoleone nella controversia con l’Austria. Dopo la guerra del 1866
la Prussia aveva acquisito tale potenza e prestigio da sembrare
inevitabile, per la supremazia in Europa, uno scontro con la Francia
dove Napoleone aveva consolidato la sua autorità interna
(plebiscito del maggio 1870). Il momento del contrasto si
verificò allorché Bimarck, senza consultare i
francesi, propose il principe Leopoldo di Hohenzollern per il trono
di Spagna, da cui una rivoluzione aveva allontanato la regina
Isabella II (1868). Una eventualità inaccettabile per la
Francia che si sarebbe venuta a trovare stategicamente accerchiata.
Una Francia costretta a reagire impreparata fu sconfitta dalle
armate prussiane di von Moltke, a Sedan, (2 settembre 1870).
Sconfitta che causò la caduta del regime imperiale di
Napoleone. La guerra si protrasse con l’istituzione della Repubblica
e con un governo di difesa nazionale, che, malgrado la sconfitta a
Metz (27 ottobre), resistette fino al 28 gennaio 1871 prima di
chiedere l’armistizio e cedere Alsazia e Lorena ad una Germania
unificata (v. Garibaldi, n. 51).
Leopoldo di Hohenzollern rifiutò il trono di Spagna che venne
assegnato (1870) al figlio di Vittorio Emanuele II, Amedeo di Savoia
Aosta (1845-90), il quale dovette poi (1873) abdicare per
l’ostilità degli aristocratici.
(43) Il 2 ottobre del 1870 si tenne il plebiscito, come al solito
addomesticato, con cui il Lazio con quasi la totalità (99%)
dei votanti (80% rispetto agli aventi diritto) sceglieva
l’annessione al Regno d’Italia.
(44) Liutprando nel 728 donò a Gregorio II i castelli di
Sutri, Ameria, Bomarzo ed Orte (capitolo Caduta dell’Impero romano e
dominazioni straniere, stesso sito).
(45) Enciclica Resipiscientes ea del 1 novembre 1870. Nel precedente
18 luglio 1870 era stata pubblicata la costituzione dogmatica Pastor
Aeternus con cui si definiva il dogma dell’infallibilità del
Papa perché sostenuto ed ispirato dallo Spirito Santo.
Il 15 maggio 1871 fu approvata la Legge sulle guarentigie con la
quale lo Stato italiano regolava le prerogative del sommo pontefice
e le relazioni fra Stato e Chiesa, garantendo al Papa
l’inviolabilità e l’immunità nei luoghi in cui
risiedeva (vaticano e Castel Gandolfo) fu respinta da Pio IX con
l’enciclica Ubi nos (15 maggio 1871), rimase in vigore fino alla
Conciliazione del 1829.
(46) In verità la mancata concessione dell’autonomia non
dispiacque ai singoli comuni che ritenevano di acquisire così
maggiore autonomia gestionale che se dipendessero dalle capitali
regionali.
(47) Montezemolo in Sicila, Farini (n. 6) già sofferente a
Napoli.
(48) Molti e D’Azeglio (*) fra questi si chiesero se fosse
necessario a sud del Tronto (confine delle Marche con i territori
appartenuti ai Borbone) un tale dislocamento di forze quando al nord
non se ne ravvisava la necessità.
(49) Il brigantaggio, un fenomeno presente nel meridione già
in epoca spagnola-aragonese, assunse rilevanza nel 1799 all’epoca
della repubblica Partenopea ed in periodi successivi (capitolo Il
meridione d’Italia Borbone di fine ‘700/ II parte, Il meridione
d’Italia nel periodo Napoleonico (stesso sito) con l’utilizzo di
bande di irregolari da parte di Garibaldi durante l’impresa dei
Mille (*).
(50) Circa metà dei richiamati in Sicilia ed i tre quarti in
Basilicata, per sottrarsi, fuggiva regolarmente sui monti unendosi
alle bande di briganti. Particolare risentimento suscitò il
fatto che i ricchi potessero comprarsi l’esenzione come avvenne per
lo scrittore siciliano Giovanni Verga.
Rilevando che giornalisti del tempo descrivevano questi giovani come
“… soldati che hanno rifiutato di arruolarsi…” mentre erano definiti
briganti dai piemontesi, va comunque sottolineata l’analogia con la
situazione che si verificò nel 1943 allorché molti
giovani delle province del nord, occupate dai tedeschi, per sfuggire
alla coscrizione imposta dalla Repubblica di Salò presero la
via dei monti unendosi alle bande partigiane. Queste erano definite
banditi dai tedeschi e partigiani dai sostenitori della resistenza
al nazi-fascismo. Molti vedono nelle attuali aree di crisi
mediorientali la medesima dicotomia fra terroristi e resistenti o
patrioti.
(51) Un esempio emblematico riguarda il sarto sordomuto Antonio
Cappello che viene torturato a morte perché ritenuto un
simulatore; il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli
verrà insignito della Croce dei SS Maurizio e Lazzaro.
Le violenze vennero di pubblica conoscenza al punto da indurre
Napoleone III a rilevare al re Vittorio Emanuele “I Borboni non
commisero in cento anni gli errori e gli orrori che hanno commesso
gli agenti di Sua Maestà in un anno” e da essere denunciate
da lord Henry Lennox alla camera dei Lords (8 maggio 1863),
occasione in cui rivelò che l’Inghilterra, più di
Garibaldi, aveva avuto ruolo nel processo di unificazione del
meridione italiano.
(52) Nella relazione si legge “...La vita del brigante abbonda di
attrattive per il povero contadino il quale ponendola a confronto
con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare
….. il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e
brutale della miseria contro le antiche secolari ingiustizie …….. la
sola miseria non sortirebbe forse effetti cotanto perniciosi se non
fosse congiunta ad altri mali che la infausta signoria dei Borboni
creò ed ha lasciato nelle province napoletane. Questi mali
sono l’ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la
superstizione diffusa ed accreditata e segnatamente la mancanza
assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia …. L’amministrazione
che non procede, le leggi antiche distrutte ma non le usanze antiche
né rimosse da quegli uffici le persone che quelle usanze
praticavano, le leggi nuove e male eseguite …. Da tutte queste cose
consegue una prostrazione degli spiriti, un languore da cui i tristi
si studiano continuamente di tra profitto ……… La diffusione
dell’istruzione pubblica, l’affrancazione delle terre, la equa
composizione delle questioni demaniali, l’attivazione dei lavori
pubblici ….. valgono ad innalzare le plebi a dignità di
popolo…. e produce in pari tempo il salutare effetto di trasformare
le condizioni del contadino e di distruggere quel proletariato
selvaggio che sotto l’impulso della fame e della miseria non
obbedisce ad altra voce se non quella dell’avidità e fornisce
si ampio contingente al brigantaggio”
(53) Rimasta in vigore fino alla fine del 1865 prevedeva
rastrellamenti alla ricerca di evasi, pregiudicati, renitenti alla
leva e semplici sospetti; la pena di morte mediante fucilazione per
tutti i briganti che avessero opposto resistenza e lavori forzati a
vita per chi si arrendeva e per i complici. La legge mise un freno
all’arbitrario esercizio della forza che, negli anni precedenti,
aveva condotto la repressione senza regole.
(54) Tra esse le bande a cavallo del brigante più noto
Carmine Crocco, con quelle di Vincenzo Mastronardi, Giuseppe Summa
ed Antonio Locaso che operavano in Basilicata, quelle di Luigi
Alonzi e Nicola Napoletano nel Beneventano, ed altre di Michele
Caruso nel Molise, Gaetano Manzo e Gaetano Trachella nel
Salernitano, ecc. Il più noto di questi, Carmine Crocco, si
era dato alla macchia nel 1860 ed, a capo di un manipolo di
ricercati, si mise alle dipendenze del re Borbone scontrandosi
ripetutamente con le forze regolari. Allorché queste
cominciarono a prevalere (luglio 1864), si rifugiò nello
Stato Pontificio dove venne arrestato e, nel 1872, processato dalla
giustizia italiana che lo condannò a morte, pena quindi
commutata in ergastolo.
(55) Esse ammontarono a circa 250.000 ettari che finirono col
divenire appannaggio dei latifondisti e solo un esigua porzione
finì a gente che coltivava attivamente.
(56) Giuseppe Govone (1825-72), combatté nella III Guerra
d’Indipendenza operando una serie di contrattacchi che, se
sostenuti, avrebbero potuto mutare le sorti della battaglia di
Custoza. Nella missione in Sicilia adoperò tale
brutalità da essere indicato come “criminale di guerra” e,
malgrado un contrastato dibattito in parlamento, non venne censurato
ma promosso. Nel 1866 fu inviato a Berlino per trattare l’alleanza
italo-prusiana.
(57) Di esse facevano parte anche elementi che avevano partecipato
alle insurrezioni del ’48 e ’60, tra cui Miceli (*) che trovò
la morte nel tentativo di liberare i carcerati dell’Ucciardone.
(58) Antonio Starabba marchese di Rudinì (1839-1908),
divenuto popolare per i suoi tentativi di reprimere il contrabbando,
rimase al suo posto. Il suo palazzo, presso i Quattro Canti fu
bruciato e successivamente gli risultò difficile continuare a
vivere a Palermo, ndignato per il comportamento della sua gente che
riteneva la più corrotta d’Italia Fu uno dei più
autorevoli esponenti della destra, ministro degli interni nel
governo Menabrea (1869) e presidente del consiglio nel 1891-92 e
1896-98 allorché si dovette dimettere per la decisione con
cui fece reprimere i moti di quell’anno.
(59) Gli epiloghi :
Mazzini (*; n. 5, 10, 22, 38) ripetutamente eletto in Parlamento
vide la sua elezione annullata. Nel 1870 venne catturato, ad opera
del suo allievo Giacomo Medici, dopo aver incoraggiato un tentativo
di rivolta in Sicilia. Liberato, morì due anni dopo a Pisa
(10.3.1872), sotto falso nome, ospite della famiglia Rosselli ed in
polemica aperta con Marx e Bakunin. Lasciò, con numerosi
scritti politici, l’esempio di concezioni anticipatrici e della sua
onestà e coerenza. Egli, in forte anticipo sui tempi, accanto
all’idea repubblicana, sostenne con coerenza la riforma sociale, la
libertà di coscienza, l’eguaglianza fra sessi ed un’Europa
Federale.
Vittorio Emanuele II (*), nel 1873, dopo Giovanni Lanza (n. 39)
chiamo Agostino Depretis (n. 4) a presiedere il primo governo di
sinistra. Scomparve il 9 gennaio del 1878, dopo un breve malattia
dovuta ad infezione malarica. Pio IX, facendo decadere la scomunica
che aveva inflitto a Casa Savoia, inviò un prelato per
somministrare i sacramenti. Fu tumulato a Roma nel Pantheon. Gli
successe il figlio Umberto (1878-1900) che assunse il numerale I,
anziché IV, relativo alla numerazione sabauda.
Pio IX (*), accusato da molti di ambiguità e cinismo per
l’uccisione di molti oppositori, per le numerose e macabre
esecuzioni operate su delinquenti comuni (il boia Mastro Titta!) e
per l’accusa di forzare la conversione giovani ebrei al
cattolicesimo (il caso di Edgardo Mortasa!), dopo la perdita di
Roma, istituì il non expedit (1874) con cui vietava ai
cattolici di partecipare alla vita politica. Morì l’8
febbraio 1878 e subito il Terz’Ordine Francescano di Vienna lo
propose per la beatificazione, il cui processo, iniziato nel
febbraio 1907, si concluse con il riconoscimento di venerabile
(luglio 1895) e di beato (settembre 2000).
Garibaldi, nel 1870, malgrado l’avversione per Napoleone III e per
il suo regime liberticida e clericheggiante, allorché fu
informato che i tedeschi dilagavano a Parigi lasciò una
Caprera presidiata dalla flotta italiana per accorrere in aiuto dei
francesi. Messo a capo di una brigata di volontari male equipaggiati
e di diversa estrazione, riuscì con la sua strategia da
guerrigliero ad ottenere gli unici, se pur non significativi,
successi di parte francese, mettendo in difficoltà le armate
di von Moltke (n. 42). Quale riconoscimento popolare, fu eletto
deputato in sei dipartimenti francesi. Elezione che rifiutò
per ritornarsene a Caprera e trascorrere un lungo tramonto. Nel
gennaio 1875 ricevette dalla Stato italiano una pensione ed un dono
nazionale che rifiutò per accettarlo nel 1876 dal primo
governo di sinistra presieduto da Agostino Depretis. Scomparve il 2
giugno 1881.
(60) Provvedimento del ministro dell’economia Quintino Sella del 12
luglio 1862.