Risorgimento


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Termine storiografico usato per indicare quel complesso processo spirituale e politico, quella serie di trasformazioni economiche e sociali, di atteggiamenti letterari e culturali, di eventi diplomatici e militari, che tra la fine del Settecento e l’Ottocento, intrecciandosi e contrastandosi, portarono l’Italia dal secolare frazionamento politico all’unità, dal dominio straniero all’indipendenza nazionale, dall’assolutismo monarchico allo Stato liberale e costituzionale sotto la dinastia sabauda.

Il Congresso di Vienna (1814-15) aveva riportato l’Italia alla frammentazione in vari Stati, soggetti al dominio diretto o indiretto dell’Austria. Contro la Restaurazione si formarono alcune società segrete di orientamento democratico-radicale, che animarono la prima fase del R. battendosi per un’Italia libera, unita e indipendente: la Carboneria organizzò i moti del 1820-21 nei regni delle Due Sicilie e di Sardegna e del 1831 in Emilia Romagna e nelle Marche; la Giovine Italia di G. Mazzini promosse diverse insurrezioni.

Il fallimento di queste azioni favorì la nascita di correnti moderate, che cercarono la collaborazione di sovrani e ceti dominanti. Il neoguelfismo, propugnato da V. Gioberti, proponeva una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del papa; C. Balbo e M. d’Azeglio promossero il ruolo di guida del Piemonte sabaudo; C. Cattaneo mirò a una federazione italiana di repubbliche autonome. La breve stagione delle riforme, inaugurata dall’elezione al pontificato di Pio IX (1846), vide i sovrani concedere gli statuti, ma si concluse con le rivoluzioni del 1848.

Carlo Alberto di Savoia dichiarò guerra all’Austria, dando inizio alla prima guerra d’indipendenza; nella prima fase i piemontesi furono affiancati da Pio IX, Leopoldo di Toscana e Ferdinando re delle Due Sicilie, ma, dopo il ritiro degli alleati, la controffensiva austriaca fu affrontata dai soli piemontesi. Dopo la sconfitta di Carlo Alberto (1848) a muoversi furono i democratici, con la proclamazione delle Repubbliche di Toscana, Venezia e Roma.

Nel 1849 Carlo Alberto attaccò nuovamente l’Austria, ma, dopo essere stato sconfitto a Novara, abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II. Cadute le Repubbliche, tutte le Costituzioni furono revocate, a eccezione dello Statuto albertino.

Dopo il fallimento dei tentativi insurrezionali mazziniani, l’iniziativa passò alla monarchia sabauda e a Cavour, capo del governo piemontese, che cercò in Europa le condizioni diplomatiche per la seconda guerra d’indipendenza, assicurandosi l’appoggio di Napoleone III.

Il conflitto (1859-60), dopo le insurrezioni dell’Italia centrale e la spedizione dei Mille di G. Garibaldi, si concluse con i plebisciti per l’annessione delle regioni centro-meridionali e la proclamazione del Regno d’Italia (1861) da parte del Parlamento di Torino e quindi con il successo del programma monarchico unitario.

1. Le guerre del Risorgimento

Con il nome di guerre del R. si designano le guerre, dette d'indipendenza, combattute contro l'Austria le prime due dal Regno di Sardegna e la terza dal Regno d'Italia. Guerre del R. si considerano anche tutte le campagne del 1860, cioè la spedizione garibaldina per la liberazione della Sicilia e del Mezzogiorno, e la spedizione piemontese per la liberazione dell'Italia centrale, alle quali seguì la proclamazione del Regno d'Italia. Dopo tali guerre e campagne rimanevano ancora fuori dell'Italia unificata il Lazio e Roma, liberati nel 1870, e il Trentino, Trieste e l'Istria, liberati con la Prima guerra mondiale.

1.1 La prima guerra d'indipendenza

Il 23 marzo 1848 il re Carlo Alberto dichiarò guerra all'Austria. All'esercito piemontese (ca. 80.000 uomini) si aggiungevano i reparti volontari degli altri Stati italiani (6000 Toscani, 14.000 Romani, 14.000 Napoletani e nuclei di Parmensi, Modenesi, Lombardi e Veneti). L'esercito austriaco (ca. 70.000 unità) era comandato dal maresciallo J. Radetzky. L'8 e 9 aprile i Piemontesi occuparono i passi più importanti sul Mincio, e divennero padroni delle porte per entrare nel Quadrilatero (formato dalle fortezze di Peschiera, Mantova, Verona e Legnago). Tuttavia solo il 28 aprile l'esercito piemontese intraprese un'avanzata sotto Verona allo scopo di costringere Radetzky a uscire dalla città. Fallito questo tentativo, le operazioni conobbero uno stallo; assediata Peschiera, i Piemontesi ne attendevano la caduta. Frattanto Radetzky decise di prendere l'offensiva, aggirando le posizioni nemiche per tagliar loro la ritirata (28-29 maggio). Tale manovra venne a urtare, sulla linea Curtatone-Montanara, contro i battaglioni degli studenti toscani che combattendo eroicamente diedero tempo ai Piemontesi di rispondere. Dopo la battaglia di Goito (30 maggio), gli Austriaci dovettero ritirarsi su Mantova; lo stesso giorno Peschiera capitolava. Ai primi di giugno Radetzky costrinse alla resa, intorno a Vicenza, l'esercito pontificio. L'incerta condotta dell'esercito sardo, la diffidenza dello Stato Maggiore nei confronti dei volontari e l'isolamento in cui era rimasto il Piemonte dopo l'allocuzione pontificia del 29 aprile, con il successivo ritiro dal fronte di tutti i reparti regolari degli Stati italiani, contribuirono a capovolgere la situazione.

L'offensiva asburgica (23-25 luglio) culminò nella battaglia di Custoza. Dispostisi intorno a Milano, i Piemontesi dovettero cedere. Nella notte del 4 agosto il re chiese una capitolazione, cui seguì (9 agosto) l'armistizio, stipulato dal generale C. Canera di Salasco, per il quale i Piemontesi si ritiravano al di là del Ticino. Nella seconda metà d'agosto, Garibaldi tentò un riuscito colpo di mano su Varese; ma, costretto poi a ritirarsi, si rifugiò in Svizzera.

Fallite le trattative di pace, l'esercito piemontese fu oggetto di riforme organiche. Per il comando supremo fu scelto il polacco W. Chrzanowski. Cedendo alle pressioni dei democratici e degli emigrati, il Piemonte il 12 marzo 1849 denunciò l'armistizio. Il 20 marzo, grossi contingenti austriaci passarono il Ticino senza incontrare resistenza. Chrzanowski dispose allora un completo cambiamento di fronte a S, mentre gli Austriaci avanzavano ancora. Il 23 marzo l'esercito piemontese fu battuto a Novara da quello austriaco. Carlo Alberto, travolto dalla sconfitta, abdicò a favore di Vittorio Emanuele che il 24 concludeva l'armistizio di Vignale, in base al quale le truppe austriache occupavano la Lomellina e il Novarese, e i Piemontesi dovevano sgomberare dai territori di Piacenza, Modena e Toscana.

1.2 La seconda guerra d'indipendenza

Mentre Cavour preparava il Piemonte alla guerra sul piano politico interno e internazionale con l'alleanza francese, il generale A. La Marmora, ministro della Guerra, attendeva a migliorare l'esercito. I volontari provenienti da tutta l'Italia furono in parte incorporati nelle truppe regolari (ammontanti a ca. 60.000 combattenti), mentre i più costituirono corpi speciali autonomi, come i Cacciatori delle Alpi, comandati da G. Garibaldi. Il 26 aprile 1859, rifiutato dal Piemonte l'ultimatum austriaco, ebbe inizio la guerra. I Francesi (ca. 120.000 uomini) scesero in Italia e si concentrarono attorno ad Alessandria facendo massa con i Piemontesi (16 maggio). Solo dopo energiche pressioni da parte di Vienna il capo dell'esercito austriaco, generale F. Gyulai, si decise all'azione, dispersa in vari e non coordinati tentativi di passare il Po e poi di puntare su Torino. Sconfitti a Montebello (20 maggio) e a Palestro (31 maggio), gli Austriaci furono costretti a ripiegare oltre il Ticino. Napoleone III puntò allora in direzione di Milano e il 4 giugno si ebbe lo scontro di Magenta, il cui esito rimase incerto finché Gyulai decise la ritirata generale verso il quadrilatero veneto. L'8 giugno i sovrani del Piemonte e di Francia entravano in Milano, mentre nello stesso giorno si svolse il combattimento di retroguardia di Melegnano.

Intanto, con poco meno di 5000 volontari Garibaldi aveva sostenuto con successo il 26 maggio un combattimento a Varese, seguito il 27 da un altro successo a San Fermo (Como). Dopo Magenta, poté occupare anche Lecco, Bergamo e Brescia. Garibaldi fu poi inviato in Valtellina, da dove intendeva invadere il Trentino, ma la firma dei preliminari di Villafranca gli impedì di mettere in atto i suoi piani.

Il 22 giugno l'imperatore Francesco Giuseppe, che aveva assunto il comando dell'esercito assistito da H.H. Hess, ordinò di ripassare il Mincio per un attacco in grande; gli Austriaci e i Franco-Sardi il 24 si scontrarono a S del Garda, a Solferino e a San Martino. Dopo combattimenti accaniti la battaglia fu vinta dagli Alleati. La sera stessa gli Austriaci ripararono dietro il Mincio, per poi entrare nel Quadrilatero. Mentre Garibaldi teneva sotto la sua minaccia il Trentino e l'Alto Adige, la flotta alleata avrebbe dovuto attaccare Venezia, ma Napoleone III propose a Francesco Giuseppe l'armistizio, firmato la mattina dell'8 a Villafranca; i due imperatori poi s'incontrarono l'11, ancora a Villafranca, e siglarono i preliminari di pace.

1.3 La liberazione del Mezzogiorno e dell'Italia centrale

Mentre nell'Italia meridionale, sotto la guida di G. Garibaldi si svolgeva la Spedizione dei Mille (Mille, Spedizione dei), Cavour spingeva avanti gli ultimi preparativi per l'invasione dello Stato pontificio. Il 10 settembre 1860 mandava un doppio ultimatum alla corte di Roma e al generale Lamoricière, perché licenziassero le truppe straniere; alla risposta negativa, l'11 Cavour ordinava d'invadere lo Stato pontificio. Lamoricière tentò di raggiungere Ancona, dove confidava di ricevere soccorsi dall'Austria via mare; ma fu battuto a Castelfidardo. Il 28 settembre Ancona capitolava e il 3 ottobre vi faceva il suo ingresso Vittorio Emanuele, assumendo il comando supremo. Si voleva infatti al più presto essere presenti là dove operava Garibaldi, dovendosi compiere l'accerchiamento delle forze residue di Francesco II dopo la battaglia del Volturno (1°-2 ottobre). I Borbonici si ritrassero dietro il Garigliano; quindi si rifugiarono a Gaeta, che resistette fino al 13 febbraio 1861, poiché Napoleone III si era deciso a ritirare la flotta francese solo verso la fine di gennaio.

1.4 La terza guerra d'indipendenza


La terza guerra d'indipendenza è strettamente legata, nei suoi precedenti diplomatici e nelle sue vicende, alla contemporanea guerra austro-prussiana. Per quanto riguarda le operazioni del Veneto, la superiorità numerica dell'esercito italiano era nettissima, essendo l'Austria impegnata in Boemia. Quanto alle forze di mare, il rapporto risultava ancora più favorevole agli Italiani. L'esercito italiano, che era comandato da Vittorio Emanuele II e aveva come capo di Stato Maggiore A. La Marmora, era supportato da un numeroso corpo di volontari, agli ordini di Garibaldi, per la difesa della Valtellina. L'esercito austriaco era comandato dell'arciduca Alberto; a difesa del Trentino fu costituito un corpo di montanari, agli ordini del generale F. Kuhn. Sei giorni dopo l'inizio delle ostilità fra Austria, Baviera, Hannover, Sassonia, Württemberg da una parte, e Prussia dall'altra, il 20 giugno 1866 l'Italia dichiarò la guerra e il 23 La Marmora iniziò il passaggio del Mincio. La mattina del 24 si accese la battaglia di Custoza. L'insuccesso italiano costrinse La Marmora a ordinare la ritirata dell'armata del Mincio sulla destra del fiume. Gli Austriaci non poterono però muovere all'inseguimento, poiché il disastroso andamento della guerra in Boemia dopo la battaglia di Sadowa (3 luglio) rese necessario richiamare forze dal Veneto per avviarle al Danubio e affidare all'arciduca Alberto il comando delle operazioni contro la Prussia.

Nel campo italiano, dimessosi La Marmora, il comando supremo fu affidato a E. Cialdini. Intanto l'Austria decise di dare immediato corso alla convenzione segreta del 12 giugno 1866 stipulata con Napoleone III e rimetteva a questo in anticipo la Venezia, che avrebbe dovuto consegnargli solo dopo la guerra, in caso di vittoria dell'Austria sulla Prussia. Napoleone III fece pressione sull'Italia perché sospendesse le operazioni, ma l'insistenza dell'opinione pubblica e del governo spinsero il re a continuare la guerra tentando di ottenere la liberazione del Trentino e della Venezia Giulia prima che si giungesse alla pace. L'8 luglio Cialdini passava il Po dirigendosi su Rovigo. Un nuovo piano di guerra fu preparato il 14 luglio. Fino all'Isonzo (24 luglio) l'avanzata fu compiuta senza incontrare il nemico, ma l'annuncio dell'armistizio austro-prussiano rese necessario arrestare le operazioni (12 agosto, armistizio di Cormons). Contemporaneamente Garibaldi, che si era aperto la via di Trento, ricevette l'ordine di sgombrare tutto il Trentino occupato.

La conquista di Trieste fallì completamente anche in mare. Dopo l'entrata in guerra dell'Italia (20 giugno), la flotta, comandata dall'ammiraglio C. Persano, da Taranto si portò ad Ancona, dove giunse il 26. Il comandante della flotta asburgica, W. von Tegetthoff, il 27 giugno si presentò con la sua squadra davanti al porto di Ancona e la flotta italiana, in gran parte ancora immobilizzata, non gli uscì incontro. Tegetthoff ripiegò verso Pola. In sostanza nulla di grave era avvenuto in quel giorno, ma l'episodio fu considerato come un'evidente prova di pavidità di Persano. Il ministro della Marina, A. Depretis, ordinò allora di tentare l'occupazione dell'isola di Lissa, per costringere gli Austriaci a uscir fuori dalla loro munita base di Fasana. Pur dopo lo scacco, gli Italiani disponevano di una netta superiorità quantitativa sugli avversari, ma l'armistizio di Nikolsburg costrinse il quartier generale di Ferrara a ordinare la fine di qualsiasi operazione nell'Adriatico.

2. La storiografia del Risorgimento

Sul piano storiografico il R. è stato a lungo oggetto di polemiche accese. I primi contrasti interpretativi esplosero all’indomani stesso dell’unificazione politica dell’Italia: le esaltazioni apologetiche e agiografiche dei vincitori, monarchici, moderati, liberali da una parte, le requisitorie e le recriminazioni dei vinti, mazziniani e repubblicani, borbonici e clericali dall’altra, hanno radici nelle stesse lotte e passioni risorgimentali. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, alle rappresentazioni spesso convenzionali dell’epopea risorgimentale si contrappose un proficuo lavoro di ricerca filologica e archivistica, di pubblicazione di documenti e di ricostruzione biografica.

Alcuni studiosi, sensibili all’orientamento idealistico prevalente nella cultura italiana dell’epoca, richiamandosi esplicitamente al mito di rigenerazione umana proclamato dai profeti risorgimentali (V. Alfieri, U. Foscolo, G. Mazzini, V. Cuoco, V. Gioberti ecc.), finirono con il ridurre l’intero periodo a questa unica matrice culturale. In opposizione a questa unilaterale interpretazione del R., sotto la spinta inoltre di una ripresa delle forze democratiche nella lotta politica e con l’affermazione del pensiero socialista, verso la fine dell’Ottocento scesero in campo gli storici della cosiddetta scuola economico-giuridica.

A complicare e confondere il puro problema storiografico s’insinuarono nel dibattito anche preoccupazioni di carattere nazionalistico: storici e pubblicisti cercarono di rivendicare la piena originalità e autonomia del processo risorgimentale rispetto alle influenze politiche e culturali straniere, soprattutto rispetto alla Rivoluzione francese e al dominio napoleonico, a cui tradizionalmente si facevano risalire gli inizi di quel processo. Contro la dilagante ondata nazionalistica, che poi divenne particolarmente insistente durante il fascismo, lo stesso B. Croce intervenne sostenendo che, sul piano politico, di storia propriamente italiana si poteva parlare soltanto a partire dal 1860, da quando il popolo italiano si era costituito politicamente in un effettivo organismo statale.

Studiosi di ogni tendenza storiografica si dedicarono all’analisi delle epoche anteriori al Settecento, nell’intento di cogliere sul nascere le prime aspirazioni unitarie e liberali: furono condotte ricerche sulle condizioni politiche e diplomatiche dell’Italia e dell’Europa alla fine delle guerre di successione e sulle profonde trasformazioni sociali avvenute durante il dominio spagnolo in Italia. Per effetto di questo allargarsi delle indagini si ripudiò la data del 1815, tradizionalmente assunta come inizio del R., e si tese a riportare sempre più indietro le origini del movimento patriottico, sia sul piano culturale, sia sul piano più propriamente politico. Una tale esaltazione della continuità storica rischiò di dissolvere il concetto stesso di R.: una volta dissociati e singolarmente riportati alla loro origine i motivi confluiti nella sintesi risorgimentale, la sua storia si risolveva senza residui nella più generale storia italiana del 18° e del 19° secolo.

Come tradizionalmente veniva narrata, la storia del R. appariva opera di un’esigua minoranza, e il fenomeno della frattura fra minoranza intellettuale e popolo era stato soltanto sfiorato, ma mai sviluppato nelle sue implicazioni. Sotto l’urgenza delle agitazioni sociali scoppiate alla fine della Prima guerra mondiale, alcuni uomini politici e studiosi furono indotti a rivolgere la loro attenzione a questo problema: si riparlò allora di conquista regia, di grettezza conservatrice e di tradimento degli ideali morali e religiosi affermati da Mazzini e dagli altri protagonisti risorgimentali. Tra i numerosi studi pubblicati in questo filone spiccano le opere di P. Gobetti. Esse dettero impulso a una più meditata valutazione del R., che il clima instaurato dal fascismo non riuscì a soffocare: La Storia del liberalismo europeo di G. De Ruggiero, gli scritti sul R. e in particolare L’opera politica del conte di Cavour di A. Omodeo e la Storia d’Europa nel sec. XIX di B. Croce nacquero anche come risposta polemica alle tesi antiliberali del fascismo. Sul motivo religioso insistevano altri studiosi tra cui F. Ruffini, i quali vedevano nel giansenismo italiano del Settecento una delle componenti essenziali del R., e a partire da questo ricostruirono l’ambiente morale e intellettuale in cui si formarono uomini come Manzoni e Cavour. Ma anche sul terreno religioso si doveva constatare la frattura che divideva il popolo italiano dalle aristocrazie intellettuali.

Nuovo vigore e nuovi spunti problematici alle ricerche sul R. portò nel 1949 la pubblicazione delle riflessioni di A. Gramsci Sul Risorgimento, in cui il processo che condusse all’unificazione è classificato come la prima grande rivoluzione politica dell’età contemporanea, da analizzare nei suoi aspetti economici e sociali a partire dall’apporto delle varie componenti della società italiana. L’analisi di Gramsci rinnovò completamente la storiografia italiana del secondo dopoguerra, stimolando una più acuta sensibilità ai temi delle classi popolari e della questione agraria, e introducendo ottiche e strumenti nuovi nello studio dei movimenti politici e delle sette segrete.

Negli ultimi decenni del 20° sec. accanto a ricerche su vari aspetti del ‘politico’ nel R. italiano (leader, organizzazioni, idee, istituzioni) si fece largo un’inclinazione non ideologica, con studi sulle formazioni sociali (nobiltà, borghesie, ceti popolari), le dinamiche economiche (processi di accumulazione e di trasformazione, soprattutto nel settore agrario) e gli assetti istituzionali (giurisprudenza e strutture statuali degli Stati preunitari) dell’Italia di primo Ottocento.

Tuttavia, sia la prospettiva storiografica tradizionale (interessata agli aspetti politico-ideologici) sia quella più originale (interessata alle questioni economiche, sociali e istituzionali) avevano, per ragioni diverse, messo in second’ordine un aspetto essenziale per la comprensione del processo risorgimentale, ossia la formazione e il radicamento di un senso di appartenenza a una comunità nazionale italiana e, di conseguenza, anche la profondità culturale del processo di edificazione di uno Stato-nazione che da tale senso di appartenenza era derivato.

A colmare questa lacuna si sono dedicati prima studi che hanno indagato i rituali di ‘nazionalizzazione delle masse’ nell’Italia postunitaria, fra cui spiccano, in particolare, quelli di B. Tobia (Una patria per gli italiani, 1991), di U. Levra (Fare gli italiani, 1992) e di I. Porciani (La festa della nazione, 1997).

A essi hanno fatto seguito ricerche più direttamente impegnate nella ricostruzione delle connotazioni fondamentali dell’idea di nazione in epoca risorgimentale (A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, 2000; C. Sorba, Teatri. L’Italia del melodramma nell’età del Risorgimento, 2001; Le immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, a cura di A.M. Banti, R. Bizzochi, 2002; e Storia d’Italia, Annali, 22° vol., Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti, P. Ginsborg, 2007).

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Enciclopedia italiana 1936

di W. M., A. B.


RISORGIMENTO. - La parola e il concetto.

- La parola Risorgimento per designare un periodo della storia italiana fu usata la prima volta dal padre Saverio Bettinelli nell'opera Il Risorgimento d'Italia dopo il Mille (1775), ma nell'accezione di ciò che oggi siamo soliti chiamare Rinascimento, e in tale accezione continuarono a servirsi del vocabolo alcuni scrittori italiani dell'Ottocento, principalmente F. Fiorentino nel suo notissimo manuale di Storia della filosofia e in altre sue opere.

Più vicino al nostro significato di Risorgimento è, senza dubbio, l'"imminente risorgimento" di cui parla il conte Benvenuto Robbio di San Raffaele nella prefazione al suo Secolo d'Augusto (Milano 1769), ma egli intendeva presagire soltanto un imminente risorgimento letterario d'Italia, che era stata due volte "maestra di tutte le nazioni ringentilite d'Europa" e che lo sarebbe stato una terza, mercé l'iniziativa delle accademie subalpine della Filopatria e della Sampaolina. Non si può trovare, però, in tutti quegli studiosi, che costituivano le due accademie, in nuce il concetto del Risorgimento piemontese e italiano, come altri ha pensato, perché solo estrinsecamente i Santarosa, i Balbo, i Vidua, i Gioberti possono essere loro allacciati; nella sostanza, invece, essi si sentirono figli non di Galeani Napione o di Denina, né tanto meno del buon conte di San Raffaele, ma di un altro piemontese, di un piemontese non conformista, di Vittorio Alfieri. Per il Galeani Napione, per il Denina, per il San Raffaele l'Italia era un fatto; per l'Alfieri una profezia.

Vittorio Alfieri, dunque, diede per il primo forma vigorosa al Risorgimento, che è nella sua essenza un mito etico-politico-nazionale, consistente nell'attesa fiduciosa in un giorno in cui l'Italia "inerme, divisa, avvilita, non libera, impotente" sarebbe risorta "virtuosa, magnanima, libera e una". Nella storia d'Italia e nell'energia naturale dell'uomo singolo italiano, l'Alfieri trovò le basi della speranza: "Ma tra quante schiave contrade nell'Europa rimiro, nessuna al nuovo cospetto delle lettere potrebbe più facilmente, a parer mio, assumere un nuovo aspetto politico, che la nostra Italia. Non so se l'esservi io nato di ciò mi lusinga; ma ragionando coi fatti, codesta penisoletta è pur quella che da prima conquistava quasi tutto il rimanente del mondo ancora conosciuto, e che, conquistando, libera nondimeno ad un tempo rimanea, esempio unico nelle storie. Ed era pure la stessa Italia, quella che, più secoli dopo, tutto il rimanente d'Europa illuminava colle lettere e scienze, ricovrate, a dir vero, di Grecia, ma ben altrimenti oltre i monti trasmesse da quelle che d'oltremare ricevute si fossero. Ed è pur dessa, che il rimanente d'Europa reingentiliva dappoi con tutte le divine belle arti, più assai riprocreate da lei, che imitate. Ed è, pur quella in fine, che stanca, vecchia, battuta, avvilita, e di tutta l'altre superiorità dispogliata, tante altre nazioni ancor governava, e atterriva per tanti anni, colla sola astuzia ed ingegno tributarie rendendole. Questi quattro modi con cui l'Italia signoreggiava tutte le altre regioni, abbracciano tutte le umane facoltà e virtù; e fanno indubitabile vivissima prova, che fra i suoi abitatori vi è stata in ogni tempo una assai maggior copia di quei bollenti animi, che, spinti da impulsi naturali, la gloria cercavano nelle altissime imprese; e che diversa, secondo i diversi tempi, ma sempre pur somma riuscivano a procacciarsela. Che più? la moderna Italia, nell'apice della sua viltà e nullità, mi manifesta e dimostra ancora (e il deggio pur dire?) agli enormi e sublimi delitti che tutto dì vi si van commettendo, ch'ella, anche adesso, più che ogni altra contrada d'Europa, abbonda di caldi e ferocissimi spiriti, a cui nulla manca per fare alte cose, che il campo e i mezzi".

Risorgeva così e diveniva dottrina morale il concetto machiavelliano della virtù: "La virtù è quella tal cosa più ch'altra cui il molto laudarla, lo insegnarla, amarla, sperarla, e volerla, la fanno pur essere: e che null'altra la rende impossibile, quanto l'obbrobriosamente reputarla impossibile". Il primo effetto dell'insegnamento dell'Alfieri fu la trasformazione del vecchio letterato italiano e dello scrittore riformatore del Settecento a servizio del principe nell'intellettuale uomo libero del Risorgimento. Non solo, infatti, egli bollava il Metastasio, ma anche coloro che fiancheggiavano il principe nella lotta contro la Chiesa, non perché la Chiesa era la Chiesa, ma perché era indifesa: "Viltà è questa - tonava - viltà inescusabile". Con l'Alfieri, insomma, siamo condotti di colpo nell'anima stessa del Risorgimento. "Ciascuna volta - scriveva nel 1858 il De Sanctis - che l'Italia sorge a libertà, saluta con riverente entusiasmo Alfieri, e si riconosce in lui. Nel 99 il primo fatto dei repubblicani di Napoli fu di batter le mani ad Alfieri in teatro. Nella prima ebbrezza del 1848 ciascuno diceva tra sé: Ecco l'Italia futura d'Alfieri". Dai Napoletani ai Lombardi, da Mazzini a Guerrazzi, da Santarosa a Gioberti e a D'Azeglio, tutti riconoscono in Alfieri il padre della nuova Italia.

Con l'Alfieri si afferma il primo presupposto d'una nazionalità: la volontà di essere uno stato-nazione. Col Foscolo tale volontà subisce la prova dei fatti nel modo più drammatico: l'atto egoisticamente volpino del dominatore straniero, in cui si era avuto tanta fiducia, a Campoformio, e la rivolta delle plebi italiane contro i patrioti. Seguace del Machiavelli, il Foscolo sente l'ineluttabilità della legge della forza, ma continua a lottare senza speranza, per l'onore. Il Risorgimento resta per lui un cibo destinato agli eletti. "Quanto alla plebe, non accade parlarne; e in qualunque governo le basta un aratro o il modo d'aver del pane, un sacerdote, e un carnefice; e si dee lasciare in pace; perché, per quanto santa sia la ragione che la sommove, ogni suo moto finisce in rapine, in sangue, in delitti; e com'ella si è avveduta della sua forza, è difficile renderla debole". Ma i patrioti lombardi e napoletani, che venivano dalla politica pura e non dalla letteratura, non lo seguirono in tale dottrina e cominciarono a versare alle moltitudini, scrive assai bene il Cattaneo, "ciò che Foscolo riputava gelosamente serbato agli eletti del gregge umano". Il Cuoco accolse tutto l'insegnamento che si poteva cogliere dalla rivolta delle plebi italiane e predicò come dovere morale l'opera di colmare l'abisso tra popolo e minoranze intellettuali. E un altro grande contributo portò il Cuoco al concetto di Risorgimento: il culto del Vico. Se Alfieri insegnò agl'Italiani ad agire in grande, Vico insegnò loro a pensare in grande; se con l'Alfieri l'Italia s'individuò come volontà di essere stato tra gli stati europei, col Vico acquistò coscienza di avere una propria personalità nella cultura europea. Dalla fusione delle dottrine di questi due grandi nacque la nuova Italia, pensante e operante con una sua particolare fisionomia nel seno dell'Europa.

Tanto nell'Alfieri quanto nel Cuoco, l'elemento nazionalistico predominò su ogni velleità universalistica: era il momento in cui l'Italia, come già l'Inghilterra col Burke e come poi la Germania col Fichte, sentiva la necessità di serrare tutte le sue forze per resistere alla dominazione francese, tanto più pericolosa in quanto che non era solo di natura politica ma di natura spirituale. Verso il tramonto dell'era napoleonica, l'Italia si accorse di non essere più sola, abbandonata a sé stessa: due svizzeri, Madame de Staël e il Sismondi, le svelarono un nuovo mondo, il mondo delle nazioni, tutto in rivolta contro il dominatore, mentre le società segrete, come la Carboneria in contatto con Bentinck, cominciavano a operare di conserva con forze internazionali. L'Italia sperò allora nell'Europa ufficiale e fu delusa al Congresso di Vienna, ma, poiché Metternich, creando una solidarietà fra i troni, postulava per antitesi una solidarietà tra i popoli, lungi dallo spezzarsi, l'internazionalismo italiano si consolidò e diede alla causa rivoluzionaria europea uomini come il toscano Filippo Buonarroti, che serviva d'intermediario tra settarî italiani e francesi, e Gioacchino a Prato, trentino, che manteneva i contatti tra settarî italiani e tedeschi. La fiaccola dell'apostolato del Risorgimento passò addirittura nelle mani d'un generoso straniero, Sismondo dei Sismondi, che credeva discendere dai vecchi Sismondi di Pisa. Era il riconoscimento implicito, tanto più significativo quanto più spontaneo, da parte della nuova Europa dell'Italia. L'Europa aveva abbandonato l'astratto cosmopolitismo settecentesco, che persisteva solo in alcune correnti estreme della democrazia francese, e, per opera del Guizot e del Ranke, aveva acquistato coscienza di sé come d'una società storica in continuo divenire, che si articolava nelle varie individualità nazionali, ognuna delle quali dveva la sua missione e poteva, perfino, dare il tono alle altre, se avesse preso l'iniziativa, a suo rischio e pericolo, del grande movimento ideale d'un'epoca.

Deluse ancora nelle rivoluzioni del 1820-21 e del 1831 le speranze d'Italia nelle potenze liberali (Francia, Inghilterra) e nell'iniziativa rivoluzionaria francese del 1830, sfuggita alla Francia borghese di Luigi Filippo ogni missione europea rivoluzionaria o cattolica, Mazzini sognò che l'Italia potesse prenderne il posto e dare il suo nome alla nuova vita etico ptilitica europea. Nella dottrina del Mazzini dell'iniziativa si fondono armonicamente le idee dell'Alfieri, del Foscolo e del Cuoco con l'esperienza europea della Restaurazione. Il Risorgimento italiano sarà l'inizio del risorgimento delle nazioni europee. Più generoso del popolo francese, il popolo italiano darà agli altri popoli la libertà e si contenterà d'un semplice primato d'onore, che meriterà col sangue versato per la causa degli altri. Mentre Mazzini strappava alla Francia l'iniziativa rivoluzionaria, Gioberti le strappava l'iniziativa cattolica. Non la Francia ma l'Italia doveva essere la figlia primogenita della Chiesa, la promotrice di ogni rinnovamento nel suo seno. Tanto Mazzini quanto Gioberti collocarono, quindi, il Risorgimento tra i grandi miti ottocenteschi di rigenerazione morale dell'umanità, in quel clima generale di attesa palingenesiaca d'una nuova era, d'una nuova mistica unità, che De Maistre aveva iniziato e che Marx doveva chiudere.

Intanto Balbo scioglieva il concetto alfieriano del nuovo letterato, dell'uomo libero, nel concetto generale di civiltà, intesa come circolo di cultura e vita morale, e perveniva a dare al Risorgimento la sua peculiare fisionomia morale nella storia d'Italia con la critica al Rinascimento, fondata appunto sulla contrapposizione della civiltà alla cultura. Il Rinascimento fu un'epoca di cultura, curò solo gli aspetti teoretici dello spirito, l'arte, la filosofia, la scienza, e gli agi, i comodi, gl'interessi particolari dell'individuo, ma non creò quei valori morali, che presuppongono il sacrificio dell'individuo a un'idea, a una fede, non fu un'epoca di grande civiltà. E così il Balbo si ricongiungeva per altra via alla nuova etica europea, che col Guizot aveva trasformato il concetto individualistico e intellettualistico della civilisation settecentesca anglo-francese nel concetto del circolo di cultura e vita morale. Questo insegnamento trovò negli esuli i suoi più convinti assertori, negli esuli che qualunque cosa facessero o dicessero avevano sempre "la patria in cor", come cantava il Berchet. Dante, l'"alma sdegnosa", divenne un modello di vita. Il culto del proprio particulare dei vecchi italiani del Rinascimento venne bollato come peccaminoso. Guicciardini e Botero nel passato, Vincenzo Monti nel presente, furono i principali capri espiatorî della nuova etica.

Col Cattaneo, col Cavour, col Petitti, col Balbo stesso d'un elemento nuovo si arricchì il Risorgimento. Fin dal Settecento il Genovesi e altri avevano augurato l'unità economica della penisola come fonte d'infinito benessere materiale. Con gli economisti lombardi e piemontesi l'attesa d'una unità economica della penisola s'inserisce in vasti piani d'economia europea. Nel Cavour alcuni motivi vigorosi del concetto individualistico anglo-francese di civilisation appaiono assai netti, ma sono temperati dall'ethos particolare del Risorgimento. Il Risorgimento cessa di essere l'aurora dell'emancipazione di tutte le nazionalità. Dinnanzi alle illusioni della democrazia subalpina, il Cavour proclama che le diverse nazioni sono già troppo formate, perché una sola potesse dare il tono alle altre; in fasi di sviluppo troppo diverse perché potessero consociarsi. Pur servendosi del principio di nazionalità e dei moti nazionali dell'Ungheria e della Romania, Cavour abbandona a Garibaldi il programma rivoluzionario nazionalitario di Mazzini, ma conserva la speranza che la nuova Italia agendo indirettamente sul papato possa contribuire al rinnovamento religioso europeo. L'ultimo discorso del Cavour, quello sulla questione romana, è un atto di fede nella missione incivilitrice italiana. Con le gesta garibaldine per il trionfo del principio di nazionalità, l'età eroica del Risorgimento si compie, l'entusiasmo morale si spegne, i grandi ideali si esauriscono.

Il Risorgimento si trasformò allora da idea-forza, da mito eticopolitico, in mito retorico. S'iniziò l'età delle morti celebri, dei necrologi, delle commemorazioni, dei discorsi, dei monumenti, dei musei, mentre gli epigoni della scuola storica piemontese e moderata fissavano la storia dei vincitori, e gli agitatori romagnoli, i repubblicani, i vecchi cattolici liberali, i clericali, i borbonici, affidavano alla storia la vendetta dei vinti.
Tra la storia retorica e la storia passionale due belle figure di studiosi, Vittorio Fiorini e Alessandro Luzio, affermarono la storia pura e il Risorgimento si andò configurando in un corpo letterario, in un concetto scientifico. Nel 1888 Vittorio Fiorini pubblicò il Catalogo illustrato dei libri, documenti e oggetti esposti dalle provincie d'Emilia e Romagna nel tempo del Risorgimento italiano. Proprio tra i Romagnoli, che avevano vissuto nel modo più passionale il Risorgimento, il Fiorini, con sereno coraggio scientifico, osava porre, come base solida d'una storia di quel periodo, non sentimenti e risentimenti, ma un repertorio utile e compiuto di nomi, date, fatti, immagini. Nel 1897 al Catalogo seguì l'iniziativa d'una Biblioteca storica del Risorgimento, con l'intento di pubblicare documenti e monografie critiche originali. Intanto A. Luzio compiva a Vienna le sue ricerche critiche sull'Austria in Lombardia.
La storia pura finì col lasciarsi troppo dominare dal documento, che è emanazione dell'individuo, e, quindi, in un certo senso passionalità; la storia pura si fermava troppo agli uomini singoli e trascurava le idee, le classi politiche e sociali, gli stati regionali italiani e l'Europa. Sorsero altre tendenze. Era l'epoca in cui Benedetto Croce criticava i concetti delle scienze naturali e i generi letterarî, Gaetano Salvemini insorgeva contro i nomi collettivi astratti di comune, rinascimento, rivoluzione francese, e Gioacchino Volpe, dietro quei nomi, quegli schemi, sentiva la storia nel suo infinito, sconfinato mareggiare. Il Risorgimento fu ridotto allora a un puro nome e dissolto prima nella storia politica del secolo XIX, poi nella più vasta storia iniziata dal tramonto del secolo XVII, mentre gli elementi più avanzati risalivano fino al Cinquecento nella ricerca in Italia degl'ideali d'indipendenza, e, quindi, di Risorgimento, o fino alla Riforma per la lontana genesi degli ideali di libertà. Il concetto di Risorgimento si scioglieva senza residui nel concetto di storia dell'età moderna e contemporanea.

Il dopoguerra, lungi dal provocare una dissoluzione completa del mito di Risorgimento, come il nominalismo storiografico prevedeva (Croce, 1916), segnò una seconda vita di quel mito. Si era ad una svolta decisiva della storia d'Italia e la polemica sul Risorgimento divenne uno degli aspetti dell'esame di coscienza degl'Italiani contemporanei. Da alcuni si eresse il Risorgimento alla dignità d'un tabu, che non si poteva toccare neanche per andare avanti, da altri si gridò al fallimento del Risorgimento; alcuni non videro del Risorgimento, in un senso o in un altro, che i limiti, altri ne accentuarono con energia passionale solo un aspetto. Il Risorgimento operava non più come storiografia, ma, a pezzi o a bocconi, come storia. Il culto dell'Oriani, cui si rifacevano gli uomini delle più diverse tendenze politiche, segnò il punto culminante di questa fase della fortuna del Risorgimento.

Ne è derivato che il concetto tradizionale del Risorgimento ha subito modificazioni profonde: poiché o si considera la storia del Risorgimento come storia di potenza (Staatsgeschichte) e s'incentra nella storia sabauda moderna, che ha origine da Vittorio Amedeo II (e si potrebbe risalire anche a Emanuele Filiberto), o come storia di libertà e si parte dalla Riforma o dal movimento sociniano. Nell'uno e nell'altro caso i confini tradizionali iniziali del Risorgimento sono spezzati: si ripresenta quindi il problema, già da noi accennato come risultato della storiografia idealista ed economico-giuridica, se si debba o no sciogliere senza esitare la storia del Risorgimento nella storia dell'età moderna e contemporanea d' Italia.

E ciò mentre il vocabolo Risorgimento come concetto storico trionfa nel linguaggio storiografico internazionale. La curiosità straniera di conoscere le origini prossime dell'Italia, il Risorgimento, l'età in cui l'Italia ha assunto una netta fisionomia nella società europea, è cresciuta. Le principali riviste storiche straniere (Revue Historique; The Journal of Modern History) contengono magnifiche rassegne sul Risorgimento; la produzione straniera sull'argomento va aumentando. Il nome Risorgimento gode ormai nella parola italiana d'una fama internazionale e alcuni fatti o uomini di esso sono divenuti tipici: Serbia, Piemonte della Iugoslavia; Paši?, Cavour serbo, Beneš, Cavour cèco. A questa diffusione, crediamo, ha contribuito grandemente la storiografia francese, che ha seguito passo passo il movimento italiano, non sempre con intelligente comprensione, sempre con molto interesse. Noi siamo del parere che occorra restaurare il concetto tradizionale del Risorgimento come concetto storico. I concetti storici non sono puri nomi, mere convenzioni, ma miti, realtà spirituali, di cui ciascuna età ha avuto una coscienza, che è la vera oggettività della storia. Di fronte ai fraintendimenti della dottrina della con temporaneità della storia, necessario rinnovare il rispetto religioso per le idee storiche, che avevano il Vico e il Ranke: è lì il fuoco vivo della nostra disciplina. Si tratta di riconvertire al concetto tradizionale di Risorgimento non la coscienza storica volgare e straniera, per le quali il Risorgimento è ancora quello dell'Alfieri e del Cavour, ma gli storici di mestiere.

Questa tesi potrebbe essere tacciata di soverchio ideologismo, se non si tenessero presenti le seguenti considerazioni. L'esperienza storiografica contemporanea ha dimostrato che il Risorgimento non si può spiegare che con criterî d'indole essenzialmente morale. I più combattivi rappresentanti del cosiddetto indirizzo di storia economico-giuridica dinnanzi ad esso hanno dovuto dichiarare il fallimento dei loro metodi e ricorrere a concetti direttivi di diversa natura. Ricchi di una più scaltrita esperienza, dobbiamo tornare al Risorgimento per intendere il Risorgimento e porre come canone d'interpretazione di quel periodo la dottrina italiana della nazionalità. "Moltiplicate quanto volete i punti di contatto materiale ed esteriore in mezzo ad un'aggregazione di uomini: questi non formeranno mai una nazione senza la unità morale di un pensiero comune, di un'idea predominante che fa una società quel ch'essa è, perché in essa vien realizzata. L'invisibile possanza di siffatto principio di azione è come la face di Prometeo, che sveglia a vita propria ed indipendente l'argilla, onde creasi un popolo; essa è il Penso dunque esisto dei filosofi, applicato alle nazionalità". Così scriveva nel 1851 il Mencini e così potremmo ripetere noi: per chi non avrà compreso Alfieri e Foscolo, i patriotti lombardi e i patriotti napoletani, Santarosa e Guglielmo Pepe, Mazzini e Gioberti, Cavour e Garibaldi, il Risorgimento sarà sempre un palinsesto che non si sa decifrare. Ma quando si afferma che la storia del Risorgimento nasce col sorgere e finisce col dissolversi del mito del Risorgimento, non si vuol ridurre naturalmente la storia di quel periodo alla storia di quel mito, ma si vuol fissare la spina dorsale di un'epoca storica. S'intende che in tanto il messaggio di Alfieri venne accolto dagl'Italiani in quanto esso venne lanciato nell'atto stesso in cui lo stato regionale italiano attraversava una profonda crisi morale, economica, politica, militare, diplomatica.

Crisi morale, poiché la coscienza politica regionale, dopo avere realizzato in pieno accordo col principe le sue esigenze di libertà civile, incontrava un'insormontabile difficoltà, salvo che in Toscana, a fissare con costituzioni nuovi limiti al potere esecutivo da sostituire a quelli invecchiati che si mandavano in frantumi. Crisi economica, poiché l'economia regionale tendeva sempre più a spezzare le barriere che la racchiudevano. Crisi sociale, poiché si faceva sempre più netto lo stacco tra medio ceto o avanguardie intellettuali del medio ceto e le masse. Crisi politica, poiché la monarchia assoluta non si decideva ad autolimitarsi. Crisi militare connessa a crisi diplomatica, poiché a coloro che si proponevano i problemi della difesa militare appariva chiaro che lo stato regionale non sarebbe bastato a reggere alle prove d'una grande guerra europea e, quindi, la necessità di leghe italiane, che congiungessero i vantaggi dei piccoli stati con quelli dei grossi corpi politici, come pensavano il Galeani Napione e il Filangieri. In questo clima il messaggio di Alfieri fermentò.

Un altro dubbio è da dissipare: quello che un Risorgimento così inteso possa turbare la continuità della storia d'Italia: preoccupazione insussistente perché la parola stessa postula la credenza in un organismo morale, la nazione, che ha un'infinita possibilità di rinnovarsi. La storia d'Italia è, come assai bene ha scritto G. Bourgin, la storia d'un peuple qui se réalise, celle d'une création phisique et morale continue. Senza spezzare la continuità storica, occorre dare ad ogni età il suo peculiare rilievo, il suo sapore. Nel caso contrario tutto si perderebbe nell'unità indifferenziata d'una storia nazionale.

Una riprova della nostra tesi è data dalla critica a quelle, alle quali si contrappone. La teorica dominante sulle origini del nostro Risorgimento, quella che lo riallaccia al dispotismo illuminato, non ne serra in effetti il problema. Se nel dispotismo illuminato s'insiste sull'opera d'accentramento del principe per la creazione dello stato moderno si deve risalire all'epoca delle signorie e dei principati per comprenderne tutto il processo, ma per il Risorgimento in senso stretto conta conoscere non tanto questo processo quanto il momento in cui lo stato regionale non soddisfa più completamente la coscienza politica italiana. Così pure se nel dispotismo illuminato si bada al risorgere d'una coscienza politica, d'un interesse per la cosa pubblica in strati sempre più larghi di cittadini, occorre risalire al Seicento, ma anche in tal campo il fenomeno di questo risorgimento è ristretto nei limiti dello stato regionale e, infatti, spuntano allora le nazioni napoletana, toscana, lombarda, piemontese. Per la genesi del Risorgimento bisogna isolare e porre in rilievo l'istante in cui il regionalismo comincia ad apparire una forma inadeguata al nuovo sentimento politico. Concludendo, occorre, senza dubbio, che lo studioso del Risorgimento conosca bene la storia del dispotismo illuminato, ma se egli vuole spiegare, come deve spiegare, il Risorgimento, deve badare alla crisi della coscienza politica dei nostri stati regionali, non distrarsi nell'indagine del loro sviluppo.

Se la storia si considera come storia di stati-potenze, se lo stato regionale italiano più seriamente dotato degli attributi dello statopotenza era il regno di Sardegna, se dal regno di Sardegna è sorto, senza soluzione di continuità, il regno d' Italia, la storia del Risorgimento deve cominciare il giorno in cui la monarchia sabauda, resistendo eroicamente al colosso francese, ha affermato la sua piena efficienza militare e quindi diplomatica (battaglia di Torino). Questa tesi, peraltro assai suggestiva, urta contro due difficoltà. Vittorio Amedeo II, che insieme col principe Eugenio vinse la battaglia di Torino, si può intendere completamente solo immerso nella storia moderna degli stati sabaudi, di cui Emanuele Filiberto pose le basi. Fu Emanuele Filiberto che trasformò la funzione di stato cuscinetto, data allo stato sabaudo dal trattato di Cateau-Cambrésis, nella volontà di crescere d'una potenza militare di secondo ordine tipica, che vuol giovarsi delle gelosie dei grandi per vivere ed espandersi. Ad Emanuele Filiberto si deve militarmente la creazione dell'esercito sabaudo e la meravigliosa concezione di quella cintura fortificata, al centro della quale era come ridotto Torino, concezione che, perfezionata da Vittorio Amedeo II e da Carlo Emanuele III, permise al piccolo Piemonte di fiaccare i gagliardi sforzi d'un Luigi XIV e d'un Luigi XV. Se dopo il trattato di Cherasco lo stato sabaudo divenne un satellite della Francia, non bisogna dimenticare che il desiderio di scuotere il suo duro giogo fu vivo nello stato sabaudo, ebbe i suoi martiri nel padre Monod e in Filippo San Martino d'Agliè e costituì le secret, direbbe uno storico francese, di Carlo Emanuele II.

Una seconda difficoltà è che una caratteristica essenziale del Risorgimento fu quella dell'armonica compenetrazione tra le forze regolari della monarchia sabauda e le forze irregolari della rivoluzione nazionale italiana, grazie all'efficace e intelligente mediazione della classe politica piemontese. Secondo noi il Risorgimento comincia appunto quando la classe politica piemontese crea il mito del Risorgimento nazionale, forte della sua lunga esperienza delle lotte internazionali e della sua interna morale gagliardia. Si aggiunga ancora che proprio all'epoca dell'Alfieri. Napoleone rovesciò con la sua strategia la concezione difensiva d'Emanuele Filiberto, il gioco diplomatico che poggiava su di essa e la possibilità che uno stato militare di secondo ordine potesse prosperare a poco a poco. Da allora i Piemontesi, che, da unico stato militare che sapesse farsi rispettare, si videro abbassati alle condizioni di provincia francese, i Piemontesi, che da conquistatori videro addensarsi su loro le cupide brame della repubblica francese, cisalpina, ligure, i Piemontesi compresero che i tempi del lento sicuro sviluppo erano finiti, che ad un'altra crisi europea non avrebbero potuto resistere, che bisognava farsi grandi o perire.

Così pure è da criticare la tesi diplomatico-europea, che fissa al trattato di Utrecht l'inizio del Risorgimento. Senza dubbio nel Settecento la diplomazia europea, che aveva risolto il problema germanico coi trattati di Westfalia e il problema baltico col trattato di Oliva, si concentra sul problema italiano. Ma i modi di risolvere il problema italiano sono vecchi. La funzione data ai Savoia di mantenere l'equilibrio in Italia tra le due grandi potenze continentali, serbando indipendente la regione strategicamente allora più importante della penisola, era un cavallo di ritorno, perché non faceva altro che rendere efficiente un sistema inaugurato a Cateau-Cambrésis. La creazione d'un regno indipendente del Mezzogiorno corona una serie di sforzi francesi del Seicento. L'espansione austriaca, sotto veste imperiale, ripiglia i disegni di Carlo V. Il modo di risolvere il problema italiano in modo totalitario con una lega o una federazione di principi è molto più vicino ai progetti del Cinque-Seicento, che a quelli dell'Ottocento: tra gli uni e gli altri non è passata invano l'opera tendenzialmente uniformatrice degli istituti regionali compiuta dai principi riformatori e dai francesi. Per intendere alcuni concetti diplomatici del Settecento - libertà d'Italia, neutralità d'Italia - dobbiamo risalire ad epoche anteriori. Ma, allora, avrebbero ragione gli storici francesi, che fanno ancora risalire alla rivoluzione francese il nostro Risorgimento? Ciò che distingue la nostra tesi da quella francese, rappresentata ancora dal Bourgin, è il valore che noi diamo all'epoca del dispotismo illuminato e al principio della lotta delle nazioni come necessario indispensabile generatore delle nazioni. Senza le riforme del Settecento, senza l'insoddisfazione dei nostri elementi regionali più intelligenti verso lo stato regionale, senza lo stacco che l'opera riformatrice aveva posto in Italia tra minoranze sovvertitrici di vecchi ordini statali e masse meccanicamente attacca?te a quegli istituti, la rivoluzione francese non si sarebbe potuta inserire tra le lotte politiche e sociali italiane e non avrebbe trovato il germe fertile, il terreno fecondo.

D'altro canto le grandi lotte settecentesche tra Francia e Inghilterra avevano insegnato agl'Italiani la fecondità delle lotte nazionali. L'opera politica dell'occupazione francese, non solo secondatrice degli sforzi locali come erano state l'occupazione spagnola e austriaca, ma violentemente sovvertitrice, presentò l'occasione agognata dall'Alfieri perché l'Italia si rivelasse a sé stessa. Tutto ci riconduce insomma all'antitesi logico-scientifica: o sciogliere il Risorgimento nel concetto di storia moderna e contemporanea o concepirlo nei suoi limiti tradizionali da Alfieri a Cavour e a Garibaldi.
Studî e aspetti di storia del Risorgimento. - Base sicura d'una storia del Risorgimento debbono essere i testi e i documenti sincroni. L'indirizzo scientifico nella storia del Risorgimento si è iniziato, come si è visto, con il culto del documento, e il documento deve essere sempre il fondamento di ogni seria ricerca storica, ma il documento non deve essere amato in sé e per sé, deve essere subordinato alla critica. È principalmente merito di N. Rodolico l'avere sempre insistito su questa necessità nella sua un tempo assai frequente attività recensionale.

Fondato essenzialmente su valori morali, il Risorgimento è innanzi tutto storia d'individui, e, quindi, la biografia è il genere storiografico dominante nei suoi studî, e la biografia in cui possano armonicamente conciliarsi etica e biografia. Ciò costituisce il fascino dei profili e dei bozzetti sul nostro Risorgimento di A. Luzio, B. Croce, F. Ruffini, ma ne segna anche il limite. Finché si tratta di patrioti italiani tutto va benissimo, ma quando si tratta di diplomatici o di reazionari, se essi non siano dei retti caratteri morali o dei combattenti d'un ideale, bensì puri maestri dell'arte diplomatica, quali Metternich, Talleyrand, Castlereagh, Bismarck, la storiografia italiana (Croce, L. Salvatorelli) non mostra quella larga comprensione umana, che costituisce il pregio singolare della scuola storica diplomatica francese (A. Sorel, A. Vandal).

L'aver tolto l'individuo dall'empiricità, in cui lo considerava la storiografia pura, e l'averlo immesso nel pieno della cultura regionale, nazionale, europea, è stato il merito principale della scuola idealista, che ha saputo dare il suo pieno valore alle indagini degli storici di mestiere. La formazione della classe dirigente napoletana (M. Schipa, Croce, F. Nicolini, N. Cortese, A. Simioni), toscana (G. Gentile, A. Anzilotti), piemontese (Gentile, P. Gobetti, Anzilotti), lombarda (Rota, Morandi, Valsecchi), siciliana (Gentile, R. De Mattei, E. Pontieri) è stata intimamente collegata con la storia degli stati regionali italiani ed è stato colto assai bene il processo di scioglimento della cultura regionale nella cultura nazionale. Il circolo tra cultura europea e cultura nazionale ha trovato interpreti intelligenti in B. Croce, A. Omodeo, G. Prato. Manca ancora, però, un bel lavoro sulla vita etico-politica degli esuli, sul tipo di quello che F. Baldensperger ha dedicato agli emigrati francesi del tempo della Rivoluzione: la storia dell'Italia fuori dell'Italia.

All'idealismo ancora, e più all'esperienza etico-religiosa prodotta in Italia dallo studio sul cristianesimo primitivo, si deve se dal Gentile, dall'Omodeo e dal Salvatorelli è stato posto in rilievo l'aspetto escatologico del Risorgimento, che ne costituisce, come si è visto, l'intima essenza. Manca ancora un buon lavoro su Roma nella memoria e nell'immaginazione del Risorgimento. Il mito di Roma è indissolubilmente legato in Mazzini, in Gioberti, in Cavour con l'attesa dell'imminente risorgimento non solo nazionale ma etico-religioso dell'umanità. Riguardo al Gioberti il Gentile si stacca dall'Omodeo e dal Salvatorelli; egli valorizza storicamente il mito neoguelfo, che l'Omodeo e il Salvatorelli ripudiano come insincerità morale, rifiutandosi persino di ammetterne l'importanza storica. I rapporti tra il neoguelfismo o cattolicismo liberale italiano e il giansenismo francese sono stati indagati (Ruffini) e quelli tra esso e il cattolicismo europeo si vanno indagando (Omodeo) con squisita sensibilità etico-religiosa, ma un lavoro complessivo sul movimento religioso italiano nel sec. XIX manca, né è facile farlo. La religiosità italiana non è una religiosità brillante alla luce del sole e delle stelle come quella francese; è una religiosità tutta intima, timida, celata nei privati conversari, negli epistolarî privati (Manzoni, Lambruschini, Ricasoli), onde le benemerenze di coloro che, come A. Gambaro, curano la ricerca e la pubblicazione degli epistolarî religiosi. Più felice del neoguelfismo ê stato il giansenismo, scoperto dal Rota, studiato nelle sue profonde scaturigini teologicomorali (Ruffini, A.C. Jemolo), indagato nella sua varia diffusione regionale - in Lombardia (Rota), in Piemonte (Rumni, Gorino), in Liguria (Nurra), in Toscana (Rodolico), a Napoli (Croce) -, colto nelle sue analogie suggestive col movimento riformatore politico-sociale (Anzilotti). Dalla religiosità degli uomini d'eccezione, si è tentato scendere alla religiosità popolare e il Croce ha scritto alcune gustose pagine sulla vita religiosa a Napoli nel Settecento.

Particolare rilievo si è dato allo studio dei rapporti Stato-Chiesa, posti in relazione tanto col pensiero politico-giuridico (F. Scaduto, Ruffini) e con la coscienza etico-religiosa (Gentile), quanto con le esigenze politiche contingenti del nuovo stato italiano (M. Falco). Il Falco ha reso assai bene i contrasti tra la scuola liberale cavourriana e il giurisdizionalismo liberale, erede del vecchio giurisdizionalismo regionale italiano. Attraverso una polemica vigorosa si è giunti, con Francesco Ruffini, a fissare quale fosse la caratteristica giurisdizionale del nuovo stato italiano prima dei patti lateranensi. L'affermazione dello stato etico fatta da B. Spaventa in polemica con i gesuiti e posta in rilievo dal Gentile, provocò la serrata requisitoria contro il fallimento etico-religioso del Risorgimento di M. Missiroli, che aprì in Italia quel culto dell'Oriani come base d'una polemica sul Risorgimento, di cui abbiamo fatto cenno. Fallimento del Risorgimento? Se si volesse misurare alla stregua rigorosa dell'ideale il risultato dei grandi movimenti spirituali europei, il Risorgimento è fallito non meno che il Medioevo, che non riuscì a realizzare il suo sogno teocratico o sacro imperiale; non meno che il Rinascimento, che si lasciò assorbire dalla Controriforma, ecc. Queste affermazioni di fallimento non hanno valore storiografico, ma pratico, in quanto sulle deficienze del passato costruiscono i sogni dell'avvenire. A parte tale naturale contingente deviazione, gli studî sui rapporti Stato-Chiesa sono assai bene avviati in Italia.

La forte accentuazione dell'aspetto etico-politico si riflette anche negli studî di storia strettamente politica del Risorgimento. Il De Sanctis caratterizzò in modo vigoroso le due opposte mentalità del liberalismo e della democrazia; E. Solmi ha tentato di ridurre il conflitto tra le due mentalità a un conflitto tra due metodi, ma col Croce si è ritornati, approfondendola, all'interpretazione del De Sanctis. Il Salvemini tentò dare un'autonomia alla storia politica, introducendovi i concetti, elaborati dal Pareto, di classe politica e di circolazione delle élites, ma il suo esperimento non ebbe seguaci. La storiografia politica italiana è restata una storiografia essenzialmente di tendenza politica, nella quale peraltro ciò che v'è di vitale non è tanto l'esperienza delle cose presenti, come nella vecchia storiografia di partito franco-inglese, quanto ciò che le deriva dalla filosofia e dalle scienze sociali. La storia tecnica dei partiti, come organizzazione, genesi e sviluppo d'ideali, evoluzione dell'esperienza politica, in Italia manca. Uomini, classi politiche, partiti rivelano la varia composizione delle classi sociali.

La formazione della borghesia professionista, agraria, commerciale italiana risale al Seicento, alla politica antifeudale spagnola, medicea, sabauda: il Croce, il Cortese, lo Schipa per Napoli, il Rota e il Morandi per la Lombardia, il Prato per il Piemonte hanno gettato sulla questione sprazzi suggestivi di luce. E anche al Seicento risalgono quelle lotte giurisdizionali, che hanno tanto contribuito dal punto di vista economico e morale alla formazione della borghesia italiana. L'abisso che separò tale borghesia dalle plebi e che permette d'individuarla in pieno è la crisi prodotta dalla rivoluzinne francese in Italia, che ha avuto due interpreti intelligenti e accorati nel Prato per il Piemonte e nel Rodolico per Napoli. Ma il Prato e il Rodolico si sono troppo fermati al disfattismo della borghesia e al presunto patriottismo delle plebi e non hanno visto come quel disfattismo fosse ben tosto rinnegato e che l'anelito a colmare il fossato tra borghesia e popolo divenne una delle speranze del Risorgimento e costituisce il segreto della storia dell'Italia contemporanea. G. Fortunato e la sua scuola hanno studiato il successivo progredire della borghesia nel Mezzogiorno attraverso l'acquisto dei beni ecclesiastici, feudali e demaniali e i nuovi turbamenti sociali, che ne derivarono. Come nella Sicilia ottocentesca si formasse una borghesia, ci permette di vedere un lavoro di S. Nicastro su una città sicula, Mazara, ma fatto in modo da poter studiare la storia effettuale di tutta l'isola.

Quando si dice che la storia del Risorgimento è una storia essenzialmente etico-politica non s'intende affatto negare l'utilità dello studio degli altri aspetti di quella storia. "Gli ideali del Mazzini", scrive uno storico americano, "erano una luce nel cielo", e sarebbero rimasti tali se non fossero stati materiati di realtà economica. Lasciando stare che perché trionfi anche una determinata forma di economia politica occorre che si trasformi in ideale e che diventi passione, sta di fatto che se si esamina la grande polemica tra gli economisti lumbardi (Cattaneo) e gli economisti piemontesi (Cavour, Petitti) sull'inserzione dell'economia nazionale nell'economia europea, si vede che la vittoria nel Risorgimento non toccò alla regione che sentiva nella sua purezza l'economia, ma a quella che subordinava l'economia alla politica. In ogni modo nessuna prevenzione hanno gli storici di mestiere per gli studî di storia non politica del Risorgimento. Il Prato è stato levato a cielo, saccheggiato, additato a modello, stimato, amato dagli storici, perché aveva un concetto esatto della storia economica come circolo tra vita economica e pensiero degli economisti, in cui il rapporto tra idea e fatto era posto come rapporto sostanzialmente di realtà e di coscienza della realtà, dal quale esulava ogni determinismo. Per la dottrina deterministica, che non gli perveniva dal marxismo dialettico, ma dal naturalismo storico di G. Fortunato, l'opera fondamentale di R. Ciasca sull'Origine del programma per l'opinione pubblica nazionale italiana, ha incontrato forti opposizioni e il Rodolico si spinse fino a proclamare il fallimento dell'indirizzo economico-giuridico dinnanzi al Risorgimento. Ma se noi risalissimo al maestro del Ciasca, al Fortunato, ritroveremmo la riabilitazione dell'ideale postulata dall'eccesso stesso del naturalismo pessimistico. Posto che il Mezzogiorno è per sua natura misero e che, quindi, ha avuto una storia di miserie e d'avvilimenti, gli uomini che per il Mezzogiorno agirono e sognarono apparivano al Fortunato come dei sublimi folli, ribelli alla storia, alla natura, al destino. Lo spietato agronomo, geologo ed economista si trasformava nel poeta dei martiri del 1799.

Classi politiche, classi sociali, struttura economica italiana si erano formati nel quadro dei vecchi stati regionali. Gli studî sul Risorgimento, cogliendo lo stato regionale al suo culmine, hanno permesso di comprendere la sua opera per il trionfo dello stato moderno, e ne sta derivando la riabilitazione del principato territoriale in Italia, che i polemisti del Risorgimento avevano denigrato, sia per il suo municipalismo, sia perché aveva posto fine alla libera età dei comuni. I lavori del Rota, del Morandi e del Sandonà sull'amministrazione austriaca in Lombardia, del Prato e dell'Einaudi sul Piemonte settecentesco, dell'Anzilotti sulla Toscana, del Croce su Napoli hanno mostrato come si sia maturata la tendenza all'unità entro i quadri dei vecchi ordinamenti politico-economici. Occorre, però, che gli storici italiani superino due idiosincrasie cronologiche: la repulsione verso l'età napoleonica e verso la Restaurazione. Sull'età napoleonica i migliori lavori sono quelli stranieri, sia che pongano in piena luce l'opera d'organizzazione statale che essa compì (A. Pingaud, J. Rambaud, Madelin), sia che lancino contro tale opera la più serrata requisitoria (E. Tarlé).

Per la Restaurazione, salvo che per l'Austria in Lombardia, si prova ancora della ripugnanza a studiare l'opera dei Luigi Medici, dei Ferdinando II, dei Prospero Balbo, dei Carlo Alberto, dei Fossombroni, dei Neipperg, dei Consalvi, come la prosecuzione dell'opera dei riformatori del Settecento e di Napoleone nella costruzione dello stato moderno. Ciò è dovuto alla trista fama che la Restaurazione come persecutrice dei patrioti ha lasciato nella coscienza italiana, ma occorre velare questi ricordi. Particolarmente notevoli per lo studio del processo di disintegrazione dei vecchi stati italiani furono le secessioni provocate nel loro seno dalla politica d'accentramento, come i problemi della Savoia e di Genova negli stati sabaudi e quello siciliano nelle Due Sicilie. Il problema della Savoia è stato trattato dagli studiosi di quella regione, ma non è stato ancora approfondito dagli storici italiani. Il problema di Genova, invece, e la sua funzione propulsiva e disintegrativa insieme negli stati sabaudi ha trovato valenti illustratori in C. Bornate, A. Codignola e V. Vitale. La questione siciliana, infine, è stata oggetto di accurate indagini da parte del Pontieri, che l'ha colta alle origini, del Cortese e del Paladino.

Nessun lavoro notevole possediamo, invece, sul tramonto del dominio temporale dei papi. La trasformazione dello stato pontificio, operata dal Consalvi, le aspirazioni ideali dei sudditi di quello stato, il carattere dell'intervento delle potenze nei tentativi di rimodernarlo, attendono ancora il loro storico e occorre ancora far capo al vecchio ma sempre penetrante saggio del Ranke sul Consalvi e alla pubblicistica del Risorgimento, che vanta sull'argomento opere di polso come quella del Galeotti.

Lo sfaldamento degli stati regionali italiani si compie dal di dentro con la crisi di crescenza delle forze militari e dal di fuori con gli attacchi delle forze rivoluzionarie. Come e perché l'ufficialità piemontese fosse avviata verso una soluzione nazionale del problema militare, come e perché l'ufficialità napoletana prendesse così viva parte ai moti del 1820 e defezionasse dalla causa borbonica nel 1860 non hanno ancora formato oggetto d'indagini sistematiche. Sul Foscolo, sul Balbo, sul Pisacane mancano dei buoni saggi storici tra politici e militari, come hanno i Tedeschi per lo Scharnhorst, il Gneisenau, il Clausewitz. Così pure dal punto di vista storico sarebbe assai interessante lo studio delle istituzioni militari napoletane e piemontesi, delle quali ultime il Brancaccio ha raccolto gli elementi. Insomma una storia etico-militare è ancora da fondare in Italia. G. Volpe cerca diffonderne il gusto e l'interesse con la sua collana La guerra e la milizia negli scrittori militari italiani d'ogni tempo. La storia delle guerre del Risorgimento, invece, è stata trattata in modo esauriente nelle pubblicazioni del Corpo di stato maggiore e conta per alcuni momenti opere classiche come quelle del Pollio su Custoza e del Guerrini su Lissa.

I vecchi storici rivoluzionarî italiani contrapponevano il loro mondo al mondo moderato diplomatico e militare, come la morale che si contrapponeva alla forza. Ma, in realtà, nei moderati vi sono elementi di civiltà che temperano e subordinano gli elementi di forza, e nei rivoluzionarî in quanto non intendevano essere profeti disarmati, era implicita la postulazione d'una particolare forza. Occorrerebbe studiare le organizzazioni rivoluzionarie italiane, come sono state studiate quelle della rivoluzione francese.

Le basi della storia diplomatica del Risorgimento furono poste dalla scuola storica piemontese (F. Sclopis, D. Carutti, N. Bianchi), ma gl'iniziatori dell'odierno risveglio in tale campo sono stati G. Volpe, P. Silva e A. Solmi. Il Volpe e il Silva hanno approfondito specialmente il problema del Mediterraneo nella diplomazia contemporanea; il Solmi ha trovato le origini diplomatiche del Risorgimento nella guerra di successione spagnola. Il Volpe eccelle nel ricostruire a grandi tratti le tradizioni diplomatiche dei popoli europei; il Silva predilige l'analisi del giuoco diplomatico nei singoli drammatici momenti della storia; il Solmi pone i problemi diplomatici con l'ordine e la limpida chiarezza del giurista. Ma due deficienze ha ancora la storiografia diplomatica italiana. Manca di psicologia e manca del senso profondo dei grandi problemi di politica internazionale. È ciò che appare dal volume del Capasso sulla Grande Alleanza del 1814-15, che pure ha il merito di avere portatD in Italia al fuoco delle discussioni le grandi opere dello Srbik e del Waliszewski, del Webster e del Temperley, del Gooch e del granduca Nicola Michailovi?. Più che un bilancio da compiere, v'è un programma da stendere di studî di storia diplomiatica.

Ciò che ha contribuito a far sorgere le grandi scuole di storia diplomatica piemontese, inglese e francese è stato il circolo di cultura e diplomazia. Stretti furono i legami tra il Cavour e gli storici della diplomazia piemontese, stretti quelli tra il Quai d'Orsay e A. Sorel, stretti sono, infine, anche quelli tra il Foreign Office e il Webster e il Temperley. I documenti di storia diplomatica del Risorgimento non sono presso il Ministero degli affari esteri italiano, ma la pubblicazione o lo studio di documenti diplomatici di epoche a noi più vicine potrebbe affinare nei nostri storici il senso dell'attualità di certi problemi. Così pure mancano in Italia studî sistematici comparati in archivî italiani ed esteri, il che è uno dei pregi singolari delle storiografie straniere. Invano si cercherebbe, salvo per il problema del Mediterraneo, qualche studio italiano sul problema della neutralità d'Italia, della libertà d'Italia, dell'Europa, dell'organizzazione internazionale nel passato, della formazione del sistema delle grandi potenze, del principio dell'equilibrio, di quello di legittimità, di quello perfino di nazionalità. Lo stesso problema delle origini diplomatiche del Risorgimento posto nel Settecento, va sottoposto come si è visto, a cauzione e a riserve.

Quanto alla crisi risolutiva del Risorgimento o s'insiste troppo sull'aspetto diplomatico o troppo sull'iniziativa rivoluzionaria: in realtà v'è tra i due aspetti completa reciprocità. In quanto che postulava un nuovo assetto territoriale dell'Europa, il movimento delle nazionalità non poteva prescindere dalla diplomazia, ma il grado d'urgenza del compimento di ciascuna nazionalità era nell'agitazione rivoluzionaria continua, oltre che nelle felici combinazioni diplomatiche. E così se i Cavour, i Bismarck, i Paši?, i Beneš sono stati i costruttori degli stati nazionali, i Mazzini e gli altri agitatori vi hanno avuta anche la loro parte.

Tutti questi sparsi motivi non sono stati ancora fusi in una grande opera complessiva. Il volume dell'Omodeo è certo assai più d'un manuale, ma è ancora meno d'una storia organicamente pensata e condotta in tutte le sue parti. Le opere del Rosi, del Raulich e dello Spellanzon sono una buona sistemazione dei migliori risultati delle ricerche erudite. L'opera di E. Masi ha pregi non comuni di giudizio equilibrato. Delle opere straniere la migliore resta quella di A. Bolton King, ma un buon ristretto è quello recente di G. Bourgin.

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Enciclopedia italiana (III Appendice, 1961)

di Giuseppe Talamo

RISORGIMENTO (XXIX, p. 434).

Nel decennio 1945 la storiografia risorgimentista fu percorsa dalla polemica ora cauta e sottintesa, ora esplicita e violenta fra due tendenze: una che dava del R. un'interpretazione politico-territoriale, attenta unicamente al "fatto" politico rappresentato dalla formazione dello Stato unitario, ed un'altra, prevalentemente ispirata all'idealismo storicistico, per la quale il R., lungi dall'esaurirsi nell'opera della dinastia sabauda, si configurava come un processo di carattere spirituale nel quale doveva trovare adeguata valutazione anche l'opera di quanti, militando in campi diversi, avevano, ciascuno a suo modo, contribuito alla creazione della nuova realtà italiana.

Nell'interpretazione della prima corrente, l'unificazione politica appariva come la progressiva espansione del regno sardo, la logica attuazione di un preesistente disegno implicito nel retorico concetto di una "missione nazionale" affidata a casa Savoia. Al lume di questa concezione si tentò di stabilire (N. Rodolico) una continuità tra il Carlo Alberto del Trocadero e quello del'48, tra il persecutore dei liberali e l'iniziatore della prima guerra d'indipendenza, o si delineò un Vittorio Emanuele II (F. Cognasso) su di un piano sempre nettamente superiore non solo al "bohémien e spesso cinico Massimo d'Azeglio", ma anche al "ginevrinizzato Camillo di Cavour". A parte l'evidente deformazione agiografica, opere similmente ispirate, pur segnando un sensibile progresso rispetto alle precedenti ricerche (A. Luzio, A. Colombo, E. Passamonti), restavano, sostanzialmente, legate al limitato angolo visuale della storiografia "risorgimentale", vale a dire interpretavano l'azione politica di un sovrano unicamente col metro della posteriore soluzione unitaria. Mirando esclusivamente a dimostrare la perfetta adesione dei personaggi esaminati ai "valori" del R. (principio di nazionalità, libertà costituzionali, indipendenza dallo straniero) si finiva per rinunciare a comprendere il mondo politico e morale del quale essi erano autentica espressione.

All'acrisìa nei confronti della casa regnante, si accompagnava spesso una forma di nazionalismo storiografico che si manifestava in una marcata ostilità verso quanto pareva legato con la rivoluzione francese, parallela ad un'esaltazione verso quanto sembrava proprio dello "spirito" italiano. L'illuminismo nostrano veniva così inteso come un movimento autoctono, ispiratore del riformismo settecentesco nel quale venivano appunto trovate le origini del R. (E. Rota). Non era più la tesi di C. Calcaterra circa la funzione "negativa" svolta dalla rivoluzione francese nei confronti del movimento nazionale italiano, ma era pur sempre un'interpretazione del sec. 18° in chiave esclusivamente risorgimentale.

La corrente storiografica che si oppose con energia al sabaudismo e al nazionalismo prevalenti fu capeggiata da A. Omodeo. Nel ricordare (1944) le polemiche condotte nel quindicennio precedente "contro una serie di alterazioni tendenziose della storia del R.", egli citò i suoi saggi su Carlo Alberto e su Gioberti come i più significativi e caratterizzanti. Nei primi aveva cercato di distruggere la "leggenda" creata attorno al re sabaudo, il cui atteggiamento gli apparve incontestabilmente reazionario fino al 1848: le riforme degli anni precedenti, infatti, dimostravano unicamente la persistenza d'ideali - come quello della "monarchia amministrativa" - tipici dell'età napoleonica e della restaurazione, ma del tutto estranei allo spirito del Risorgimento. Solo la disperata decisione di riprendere la guerra nel'49 e la fine "shakespeariana" avevano operato la "catarsi" del re.

L'interpretazione nazionalistica del Gioberti, iniziata da G. Gentile, fu l'oggetto del secondo gruppo di saggi. Al neoguelfismo l'Omodeo negò il valore formativo che era stato proprio del liberalismo cavouriano e del mazzinianesimo e lo giudicò soltanto un "espediente pratico" una "sapientissima macchina di guerra" di cui l'abate aveva saputo servirsi con grande abilità e spregiudicatezza.

Tali polemiche carloalbertine e giobertiane, apparse in Leonardo, la Critica, la Nuova Italia (e raccolte, rispettivamente, in volume nel 1940 e nel 1941) adempirono a una fondamentale funzione moralizzatrice degli studî nel conformistico clima politico-culturale del ventennio fascista, ma, staccate da quel particolare momento storico possono apparire talvolta eccessive (alla rigida interpretazione pragmatistica del Gioberti, ad esempio, E. Passerin d'Entrèves ne ha contrapposto una più sensibile ai motivi autenticamente religiosi, presenti, accanto a quelli politici, nell'animo dell'abate torinese). L'opera che, invece, incise più profondamente e durevolmente sulla storiografia risorgimentista fu la magistrale ricerca sul Cavour, che cessò di apparire il retorico e demiurgico "tessitore", creatore delle più intricate situazioni internazionali, preparatore da anni ed anni di distanza di avvenimenti decisivi che poi la storia era chiamata puntualmente a realizzare, e fu inteso come la forza costruttiva della coscienza nazionale e liberale italiana. Anche se non riuscì a realizzare completamente la saldatura con la storia economica e con la storia della cultura del periodo, quell'opera, superando l'angustia delle varie agiografiche ricostruzioni in senso monarchico o repubblicano, interpretava per la prima volta in modo organico il nesso dialettico Mazzini-Cavour e la loro "involontaria" collaborazione.

Non accettò questa tesi uno storico che pure era stato assai vicino all'Omodeo nella battaglia politica e culturale antifascista, L. Salvatorelli. Questi, nell'accentuare, in contrasto con l'andazzo dei tempi, il momento etico su quello politico, sottolineò l'importanza dell'opera formatrice di Mazzini anche rispetto a quella svolta dal Cavour (nel quale, del resto, fin dal 1935, aveva distinto una "faccia" conservatrice e una liberale). La rivalutazione del "vinto" Mazzini e la perenne validità dei suoi ideali doveva suonare come monito per quanti facevano professione di un facile realismo politico e storiografico.Gli studî nel secondo dopoguerraLa dissoluzione interna del fascismo e della monarchia, la disastrosa fine della guerra, il ripristino del regime parlamentare hanno costituito uno stimolo assai efficace per un riesame critico del Risorgimento. Dal crollo dello stato italiano si è risaliti alla sua costituzione: ancora una volta la ricerca storiografica nasceva dalla necessità di chiarire alcuni problemi contemporanei, espressi dal mondo in cui si viveva e si lottava. Questa esigenza di carattere pratico da un lato evitava il limite rappresentato dalla pura erudizione fine a se stessa, ma dall'altro rischiava di trasformare la ricerca stessa in una querelle, di "travestire il passato con le vesti del presente", dandoci pamphlets fortemente politicizzati anziché opere storicamente distaccate.

In questo secondo dopoguerra si sono avuti, pertanto, diversi tentativi di nuove interpretazioni del Risorgimento, di ispirazione marxista, cattolica o radicale, miranti tutti, in sostanza, a sottolineare gli elementi negativi di quel processo storico, cioè le sue insufficienze liberali o la scarsa sensibilità per i problemi sociali e religiosi.

La corrente marxista ha ripreso una tesi formulata da A. Gramsci fin dal 1927 (e pubblicata su una rivista parigina nel 1930), ma conosciuta largamente in Italia solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale, mediante la pubblicazione di una vasta ricerca di E. Sereni (Il capitalismo nelle campagne,1860-1900, del 1947) e delle Opere di Antonio Gramsci (soprattutto Il Risorgimento, del 1949). Secondo tale tesi, il limite fondamentale del processo unitario nazionale sarebbe consistito nella mancanza di una rivoluzione agraria. I moderati avrebbero combattuto "più per impedire che il popolo intervenisse nella lotta e la facesse diventare sociale (nel senso di una riforma agraria) che non contro i nemici dell'Unità"; era mancato un partito "giacobino", che fosse tale "non per la forma esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economico-sociale", con il risultato che né moderati né democratici erano riusciti a rendere "nazionale" e "popolare" il R. per l'avversione dei primi e l'incapacità dei secondi a immettere nel movimento le masse contadine italiane. Queste masse erano mobilitabili; esistevano, cioè, le condizioni obbiettive per una rivoluzione agraria. E invece i democratici, che solo legandosi strettamente alle classi rurali avrebbero potuto differenziarsi dai moderati e costituire una concreta alternativa politica, avevano trascurato questa possibilità e s'erano lasciati guidare, in sostanza, dagli avversarî.

Lo stesso Gramsci, in una pagina in cui l'esigenza di carattere storicistico superò la polemica politica contingente aveva intravista la spiegazione del fenomeno. La causa della mancata formazione di un movimento giacobino era da ricercarsi nella debolezza della borghesia italiana e nel generale clima conservatore dell'Europa dopo il 1815. Il parallelo con la Francia, poi, andava fatto con estrema cautela: "La Francia da molti secoli era una nazione egemonica; la sua autonomia era molto ampia. Per l'Italia niente di simile: essa non aveva nessuna autonomia internazionale. In tali speciali condizioni si capisce che la diplomazia fosse completamente superiore alla politica creativa: fosse la sola politica creativa".

L'originalità dell'interpretazione gramsciana non ci sembra stia né nel carattere classista attribuito al R., perché (come L. Bulferetti ha ampiamente documentato) simili tentativi risalgono all'ultimo ventennio dell'Ottocento, e neppur nell'invito ad occuparsi delle classi subalterne (la storiografia romantica affrontò largamente il problema degli umili e del loro peso nelle vicende degli stati), ma nell'aver inteso le deficienze del R., nel quadro dell'intera civiltà italiana, caratterizzata fin dal Medioevo dal contrasto città-campagna risoltosi sempre a favore della prima. Non aveva, del resto, il Cattaneo, in un noto saggio, apparso nel 1858 sulle colonne del Crepuscolo, fatto della città "il principio ideale delle istorie italiane", il solo che rendesse possibile un'esposizione "evidente e continua" di trenta secoli di storia? La soluzione risorgimentale che aveva ignorato le esigenze del mondo contadino s'inseriva, in tal modo, in tutta una plurisecolare tradizione "cittadina". Il giudizio di Gramsci sul Risorgimento perciò, lungi dal costituire una semplice rivendicazione dell'importanza della "campagna" (sulla scia di quel che il Correnti fin dal 1852 aveva scritto a proposito della "cittadinerìa" considerata la peggiore "maledizione" italiana) o una forma di "revisionismo" risorgimentale che si esaurisse nella contrapposizione di quanto sarebbe potuto accadere di fronte alla concreta realtà storica, voleva essere una nuova concezione della storia d'Italia condotta tutta secondo un'angolazione critica costante e conseguente, la cui base teorica era l'allargamento dell'unità crociana storia-filosofia nella più vasta unità storia-filosofia-politica.

Il pericolo di questo stretto legame che assegna alla ricerca storiografica il compito, sia pure indiretto e mediato, di "suscitare forze politiche attuali" fu messo subito in rilievo dai maggiori rappresentanti della cultura idealistica da B. Croce a C. Antoni e a F. Chabod che ribadirono la "distinzione" tra l'attività conoscitiva e l'attività pratica, come unico mezzo per evitare l'"anacronismo" di giudizî che spostavano arbitrariamente nel passato, sotto la spinta di contingenti situazioni politiche, problemi posteriori di generazioni. R. Romeo ha ritenuto necessario, più recentemente, andare oltre la "mera discussione di principio" cercando d'intendere il pensiero del Gramsci "nell'ambito della sua particolare metodologia: salvo poi a tentare di tradurre i risultati di questa analisi in una interpretazione valida anche per correnti culturali di diversa ispirazione". Egli ha negato sia la possibilità di una rivoluzione agraria - anche se le condizioni dei quindici milioni di contadini erano di grande miseria e serpeggiava in quella massa un diffuso malcontento che si manifestava in sporadici moti di rivolta - sia il carattere progressivo di quella rivoluzione, se si fosse verificata.

Posizione non meno polemica hanno assunto in questo secondo dopoguerra nei confronti del R., e della sua interpretazione da parte della storiografia liberale, alcuni giovani studiosi di formazione cattolica ai quali la classe dirigente risorgimentale, costituita da una ristretta e aristocratica élite, è parsa insensibile verso le autentiche esigenze religiose delle masse e verso il grave problema sociale. Pari inadeguatezza aveva mostrato successivamente la storiografia risorgimentista che aveva rivolto la propria attenzione, nell'ambito del mondo cattolico, esclusivamente ai cattolici-liberali, cioè a quei gruppi transigenti pronti a giungere a un'intesa con lo stato unitario. Ma questi gruppi rappresentavano soltanto una piccola parte del cattolicesimo italiano. E la stragrande maggioranza di esso, e le masse "povere e incolte"? A queste si è rivolta la nuova indagine e al movimento intransigente (F. Fonzi) la cui opposizione verso le nuove istituzioni, né aprioristica, né esclusivamente legata a un legittimismo retrivo, avrebbe presentato notevoli aperture sociali destinate ad essere riprese e approfondite successivamente dal movimento cattolico. L'insufficienza religiosa e sociale dello stato unitario risaliva, secondo tale interpretazione, all'individualismo economico e politico dei liberali i quali, quasi a compenso dell'indifferentismo professato nel campo religioso, avrebbero diffuso "un culto esclusivo e assoluto" per la nazione e la dottrina dello stato etico, preludio a ogni possibile dittatura. Qualche studioso è andato anche più in là, stabilendo addirittura uno stretto rapporto tra laicismo, nazionalismo e razzismo. "Involuzione e degenerazione inevitabile (quella da civiltà a razza), conseguenza necessaria del laicismo su cui la civiltà medesima ha voluto costruirsi a qualunque costo, privandosi di quei concetti filosofici e religiosi di trascendenza, di rivelazione, di soprannaturale ecc., i soli che possono salvare i valori spirituali e rendere veramente universale una civiltà" (M.F. Sciacca).

A parte il legame laicismo-nazionalismo, in realtà tutt'altro che necessario (basta pensare all'atteggiamento di B. Croce e della più responsabile cultura liberale di fronte alle tendenze nazionalistiche), l'interesse che presenta la nuova corrente d'ispirazione cattolica non sta tanto nella sottolineata scarsa rappresentatività dello stato liberale e nella distinzione-opposizione tra paese legale e paese reale - motivi, questi, sparsi largamente in tutta la pubblicistica ottocentesca - ma piuttosto nel legame stabilito tra motivi religiosi e motivi sociali che dà un particolare carattere alla "protesta" cattolica. Il R. viene a configurarsi in tal modo come una rivoluzione meramente politica, che aveva espresso uno stato il cui rapporto con la società civile era rimasto formale e giuridico senza mai diventare intrinseco ed organico.

Andrebbe, invero, a questo proposito, approfondita la ricerca sulla funzione storica dello stato laico e liberale che costituì la condizione necessaria perché il movimento cattolico si affermasse come forza politica autonoma e perché le stesse rivendicazioni sociali sfuggissero a suggestioni corporative o paternalistiche.

Comune ci sembra ad ambedue le correnti, marxista e cattolica, l'intento di spostare l'indagine storiografica dalle élites alle masse, che si traduce nell'aspirazione ad acquistare consapevolezza sul piano culturale della loro passata e presente lotta politica. Da questo bisogno sono nate le numerose ricerche sul movimento operaio e contadino, sul movimento cattolico, sull'Opera dei Congressi, che hanno indubbiamente contribuito a diradare vaste zone d'ombra. Il problema, però, non si esaurisce in termini quantitativi: non si tratta di allargare la conoscenza storica, ma di concezioni filosofiche, che esprimono ciascuna una diversa interpretazione del passato, cioè una propria storiografia.

Ancora una revisione del nostro R., ma in senso democratico-radicale, è stata compiuta prevalentemente da storici anglo-sassoni, e da qualche settore culturale italiano si è guardato ad essa con aperta simpatia. Il problema centrale di quegli studiosi non era, in realtà, il R., ma il fascismo, le cui origini venivano cercate sempre più indietro nel tempo, quasi che il percorrere a ritroso la storia d'Italia costituisse una garanzia della validità della ricerca. I "vizî" della costituzione politica del nostro paese sono stati così rintracciati assai indietro nel tempo, oltre Giolitti, oltre Crispi, oltre il trasformismo per giungere addirittura a Cavour, la cui pratica di governo avrebbe dato un tono di disinvolta spregiudicatezza alla vita politica piemontese prima e italiana poi. L'alleanza con Rattazzi del 1852 - il "connubio" - avrebbe stabilito "la consuetudine di basare il potere su alleanze mutevoli, all'interno di un'amorfa maggioranza parlamentare, piuttosto che su di un singolo partito con un programma ben definito e coerente" (D. Mack Smith). I successori di Cavour avrebbero proseguito per la stessa strada, e la lotta politica avrebbe presentato perciò in Italia non "grandi contrapposizioni di principî" e una netta distinzione tra due partiti contrapposti, ma ondeggiamenti opportunistici e una continua equivoca collaborazione tra forze intrinsecamente diverse.

È stato già osservato, a questo proposito, che "la rappresentazione della vita italiana prima del fascismo unicamente come una sequela di guai, e come lo sviluppo fatale di una malattia in cui si preparava la catastrofe, sarebbe una geremiade efficace nelle prediche, utile forse nella politica militante, ma non certamente un discorso storico" (N. Valeri). Ma c'è anche un'obbiezione di principio che deve essere mossa a ricerche del genere, riguardante la liceità o meno, sul piano metodologico, di condurre un'indagine puramente strumentale su di un determinato periodo storico (il Risorgimento) per cercarvi le origini di un fenomeno successivo (il fascismo). Non si tratta, ovviamente, di negare quei "legami nascosti ma pressoché infrangibili che stringono le idee di un secolo a quelle del secolo che l'ha preceduto" (A. de Tocqueville), ma di ricordare l'importanza del richiamo di L. von Ranke intorno al valore "autonomo" di ogni epoca. La ricerca storica si basa infatti proprio sulla capacità di cogliere quel che caratterizza un certo periodo e lo distingue dagli altri, vale a dire la sua individualità, condizione indispensabile per ricavare un nesso che non sia meramente causalistico fra periodi contigui.

Ma anche volendo porre l'accento sulla continuità, il problema va posto su un piano assai più ampio e argomentato in maniera adeguata, come ha fatto Lewis Namier, secondo il quale la vera essenza del principio di nazionalità è la volontà di dominio e di sopraffazione che si può manifestare liberamente nel posteriore nazionalismo, una volta caduta la quarantottesca "doratura idealistica".

La contrapposizione stabilita in tal modo tra nazionalità e libertà non può però essere accettata, almeno per quanto concerne l'Italia, dove l'idea di nazionalità è decisamente volontaristica, poggia cioè non già su caratteri etnici, geografici e territoriali, ma piuttosto su una cultura, un'educazione una tradizione comuni ed è collegata intimamente all'idea di libertà (F. Chabod).

Distinguere, comunque, l'Italia del R. e del postrisorgimento dal fascismo non vuol dire contrapporre un periodo idilliaco a un periodo "negativo", rendendo implicitamente inspiegabile il passaggio dall'uno all'altro (secondo l'accusa frequentemente mossa alla Storia d'Italia dal 1871 al 1915 del Croce). La dimostrazione di come sia possibile intendere il nesso tra le due epoche rimanendo sul piano storico, pur tenendo nel debito conto l'esperienza della ventennale dittatura, l'ha fornita lo Chabod con la Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, certamente crociana come ispirazione - il giudizio sull'Italia risorgimentale non differisce sostanzialmente da quello del Croce - ma con un accento pessimistico del tutto originale, recentemente sottolineato da G. Sasso. Scrivendo tra il 1940 e il 1951 quelle pagine, mentre il destino dell'Europa andava fatalmente compiendosi, Chabod dovette sentire particolarmente vicino il dramma del continente europeo dopo il 1870, allorché la Machtpolitik bismarckiana sembrò dominare incontrastata nei rapporti fra le potenze, e gli ideali coltivati nel mezzo secolo precedente apparvero oggetto di irrisione e di compatimento. Nell'Europa di Bismarck e nell'Italia postunitaria, Chabod colse lo svuotarsi progressivo del mondo risorgimentale e dei suoi ideali quarantotteschi, l'involuzione del principio di nazionalità, fautore di libertà, nel nazionalismo oppressore dei popoli. Al posto del convenzionale quadro della belle époque, Chabod delineava in tal modo una società che celava in sé i germi che l'avrebbero distrutta, assai distante, comunque, dalla vecchia Europa ottocentesca ispiratrice delle burckhardtiane riflessioni sul piccolo stato ch'egli aveva a lungo meditato.

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Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

di Giuseppe Talamo

RISORGIMENTO (XXIX, p. 434; App. III, II, p. 622)

Gli studi sul R. hanno ricevuto un innegabile impulso dalle celebrazioni centenarie dell'unificazione politica italiana, che diedero luogo non solo a mostre significative e a congressi internazionali di ampio respiro (come quelli dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano tenutisi a Milano nel 1959, a Palermo-Napoli nel 1960 e a Torino nel 1961) ma anche a importanti iniziative editoriali, come la collana dell'editore Giuffrè "L'organizzazione dello Stato", in 10 volumi, diretta da A.M. Ghisalberti e coordinata da A. Caracciolo. Quelle manifestazioni confermarono il definitivo superamento, nel campo degli studi, di ogni agiografica concezione del R., già abbandonata, del resto, dalla migliore storiografia sempre attenta all'ammonimento espresso da G. Volpe fin dal 1921 (in una recensione alla Storia del Risorgimento politico d'Italia di I. Raulich) a non identificare la storia del R. con la storia del patriottismo italiano.

Non è privo di significato il fatto che proprio a ridosso della ricorrenza centenaria ci si sia interrogati anche sulla presenza della tradizione liberale del R. nella realtà politica italiana contemporanea, e che l'interrogativo abbia avuto da parte di due storici come R. Moscati e R. Romeo, di comune matrice ''liberale'' ma di diversa generazione, una risposta affermativa dal primo e negativa dal secondo.

Il definitivo abbandono di ogni atteggiamento agiografico è stato accompagnato da un allargamento degli studi sul R. che infatti, nell'ultimo trentennio (anni Sessanta-Novanta), hanno avuto in prevalenza come oggetto l'intera società italiana tra la fine del secolo 18° e gli inizi del 20°, colta in tutte le sue manifestazioni politiche, sociali, economiche, culturali, religiose, artistiche. Sono stati oggetto d'indagine quindi le condizioni degli antichi stati italiani esaminati nella loro realtà, indipendentemente dalla successiva soluzione unitaria, la grande trasformazione politica della penisola sfociata nell'unificazione, l'organizzazione dello stato unitario, il travaglio del Mezzogiorno, il sistema economico nazionale e lo sforzo per superare condizioni di arretratezza secolari.

Né sono state trascurate le arti figurative, come dimostra il profilo storico artistico di C. Maltese (1960), che ha rinnovato gli studi sull'arte dell'Ottocento italiano con un'attenzione particolare al rapporto tra aspirazione all'unificazione politica della penisola e ''momento unitario'' dell'arte italiana. Di conseguenza, con le tematiche strettamente politiche si sono intrecciate sempre più spesso ricerche sistematiche, spesso su base regionale, riguardanti le dinamiche socio-economiche, i fatti demografici e finanziari, l'agricoltura e l'industria, lo sviluppo e l'istruzione.

Quest'allargamento di prospettive ha rappresentato un aspetto e una conferma di quel rinnovamento storiografico che aveva avuto inizio a metà degli anni Cinquanta, quando l'Italia, sul punto di fare il suo ingresso fra le maggiori nazioni industrializzate, aveva cominciato a interrogarsi sulle origini e sui caratteri della sua formazione industriale. La questione, tradizionalmente riservata agli studiosi di storia economica, o comunque agli specialisti che erano soliti affrontare i temi connessi ai problemi dello sviluppo, questa volta coinvolse direttamente anche quanti studiavano la trasformazione della società italiana, le sue strutture politiche e amministrative, le classi subalterne, i movimenti politici, la classe dirigente, la sua composizione sociale. A questa collaborazione tra storici ed economisti − già a lungo discussa nella Rivista di storia economica fondata nel 1936 da L. Einaudi e auspicata da eminenti studiosi come A. Sapori, F. Chabod e G. Luzzatto (v. A. Caracciolo, La formazione dell'Italia industriale, 1963) − aveva dato l'avvio concreto R. Romeo con i due saggi La storiografia politica marxista e Problemi dello sviluppo capitalistico in Italia dal 1861 al 1887 (in Nord e Sud, 1956 e 1958, poi in Id., Risorgimento e capitalismo, 1959).

Il grande dibattito sullo sviluppo economico italiano, che ne derivò, coinvolse quindi, oltre gli storici dell'economia, gli storici del R., dell'Italia unita, dell'età giolittiana, dell'Italia contemporanea. Spiegare, infatti, lo sviluppo degli anni Ottanta del 19° secolo e la rivoluzione industriale degli inizi del Novecento con l'indispensabile funzione preparatoria svolta in Italia, nei primi due decenni dopo l'unificazione politica, dall'accumulazione di capitale presso i proprietari fondiari, resa possibile dall'accresciuta produzione agraria e dalla compressione dei consumi del mondo contadino (Romeo), ovvero negare o ridimensionare questo processo di accumulazione e attribuire il ritardo della formazione della grande industria in Italia a una struttura creditizia modesta e non adeguata, superata soltanto con la creazione delle nuove banche miste di tipo tedesco (A. Gerschenkron), comportava anche un giudizio assai diverso sulla classe dirigente liberale.

Riprendendo l'insegnamento di M. Bloch, secondo cui "in una società qualunque essa sia, tutto si lega e condiziona vicendevolmente, la struttura politica e sociale, l'economia, le credenze, le manifestazioni più elementari come le più sottili della mentalità", quest'integrazione dell'analisi storica con l'analisi economica fu accompagnata dall'esigenza di un allargamento della ricerca storica nella direzione delle scienze sociali, che venne discussa con particolare impegno dalla cultura storica internazionale dalla metà degli anni Cinquanta agli anni Sessanta e diffusa in Italia nel decennio successivo (Colloquio dell'Ecole Normale Supérieure di Saint-Cloud del maggio 1965, in L'histoire sociale. Sources et méthodes, 1967; trad. it., 1975).

Alle nuove tendenze storiografiche s'ispirarono alcune tra le maggiori iniziative editoriali italiane degli anni Settanta e Ottanta pubblicate da parte di grandi case editrici (Einaudi, UTET, Edizioni Scientifiche Italiane, Teti, La Nuova Italia), come le diverse storie d'Italia che "per la rilevanza delle energie intellettuali mobilitate, l'audacia, in qualche caso, degli obiettivi storiografici dichiaratamente perseguiti, l'importanza, data l'ampiezza del mercato a cui si sono rivolte, assunta nella formazione della coscienza storica di larghe fasce di opinione pubblica neoacculturata, hanno nettamente superato le poche iniziative di questo tipo realizzate nel precedente ventennio" (Pescosolido 1989, p. 37).

Queste storie generali − nelle quali il R. e l'Italia unita occupano sempre un posto di rilievo − presentano dimensioni e caratteristiche diverse: alcune risalgono al mondo antico, altre alla caduta dell'Impero romano, altre infine si limitano all'esame degli avvenimenti dell'ultimo secolo e mezzo. Diversa anche la loro caratterizzazione storiografica: ispirata in genere alla lezione della scuola francese delle Annales è la Storia d'Italia Einaudi, che proprio nei volumi dedicati al Settecento e all'Ottocento preunitario (J. Stuart Woolf, A. Caracciolo, N. Badaloni, F. Venturi) e all'Italia unita, còlta nel suo aspetto politico-sociale (E. Ragionieri), economico (V. Castronovo) e culturale (A. Asor Rosa), ha raggiunto forse i risultati più convincenti.

Attente alla salvaguardia dell'eredità dello storicismo crociano, ma aperte nel contempo a suggestioni ed esperienze della realtà culturale contemporanea, la Storia d'Italia della UTET, diretta da G. Galasso, e la Storia dell'Italia contemporanea, diretta da R. De Felice per le Edizioni Scientifiche Italiane; di orientamento marxista la Storia della società italiana dell'editore Teti, diretta da G. Cherubini, F. Della Peruta, E. Lepore, G. Mori, G. Procacci, R. Villari, che ricostruisce, in un ampio arco di tempo che prende le mosse dall'antichità, le trasformazioni sociali, politiche, economiche e culturali dell'Italia; nato sul finire degli anni Settanta da un'esigenza di "integrazione sostanziale e non formale tra la storia, l'economia, la sociologia, il diritto, l'antropologia, la psicologia e le altre scienze sociali" è invece Il mondo contemporaneo, un'iniziativa di F. Levi, U. Levra, N. Tranfaglia per La Nuova Italia, nella quale le ''voci'' alfabetiche − di taglio prevalentemente storiografico − dedicate all'Italia dell'Ottocento e del Novecento occupano i primi tre volumi (Storia d'Italia).

Accanto a queste opere collettive, nelle quali, anche se la ricostruzione del singolo periodo è dovuta a un unico studioso, l'impianto generale è necessariamente comune, il trentennio passato ha visto concludersi storie generali frutto di iniziative singole che, se non possono offrire la ricchezza di motivi presenti nelle ricostruzioni a più voci, guadagnano però in unitarietà di concezione e compattezza di disegno. Tra queste, la Storia del Risorgimento e dell'unità d'Italia, iniziata nel lontano 1933 da C. Spellanzon (voll. 1-5) e che ha conservato, nei volumi pubblicati tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta da E. Di Nolfo (voll. 6-8), quella larghezza di documentazione e quel rigore scientifico già apprezzati da A. Omodeo, e la Storia dell'Italia moderna di G. Candeloro in 11 volumi (1956-86), in cui la chiara ispirazione gramsciana non nuoce a una ricostruzione equilibrata e scrupolosa, che riesce, tra l'altro, a tener ferma l'unità concettuale degli aspetti propriamente politici con quelli economici e culturali.

A un'esigenza di narrazioni complessive, scientificamente fondate ma non appesantite da apparati di note, e rivolte quindi anche a un pubblico di non specialisti, hanno risposto alla fine degli anni Sessanta la Storia degli italiani di G. Procacci (il 2° volume riguarda l'Italia tra il Settecento e la 2ª guerra mondiale) e, tra la fine degli anni Settanta e i primissimi anni Novanta, i volumi della casa editrice Il Mulino dedicati al R. (A. Scirocco), all'età liberale (R. Romanelli), all'età giolittiana (E. Gentile), e La storia dell'Ottocento. Dalla restaurazione alla ''belle époque'' (1992), di F. Della Peruta per la Le Monnier.

Nel trentennio decorso si è progressivamente rafforzata l'azione volta a mettere a disposizione degli studiosi strumenti bibliografici adeguati e nuove fonti. Tra i primi va ricordata la grande Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti (1971-77), un'opera di vasto respiro, curata da E. Morelli e realizzata da oltre 40 collaboratori, strumento di consultazione indispensabile per chi studi il R. e l'Italia unita fino alla prima guerra mondiale.

Per quanto riguarda la sistematica pubblicazione di fonti devono essere ricordate, oltre agli Istituti per la storia del Risorgimento e per l'età moderna e contemporanea, e alla Commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici (le prime cinque serie dei Documenti diplomatici italiani riguardano l'Italia dal 1861 al 1918), le attività delle commissioni nazionali editrici degli scritti di G. Mazzini, di C. Cavour e di G. Garibaldi. La prima ha pubblicato i preziosi Indici dell'Edizione nazionale degli scritti editi e inediti di Mazzini e gli Zibaldoni giovanili; per la commissione cavouriana C. Pischedda e collaboratori hanno proceduto, a partire dagli anni Sessanta, a una nuova edizione dell'Epistolario di Cavour; per la commissione garibaldina è in corso di pubblicazione dal 1973 una nuova edizione dell'Epistolario di Garibaldi.

È stato già osservato che rispetto al primo ventennio postbellico gli studi sul Settecento e sull'Ottocento hanno mostrato nei decenni successivi "minore originalità e vigore", anche se si è aggiunto che ciò che si era perduto in vigore polemico e in originalità d'impostazione lo si era poi guadagnato "in una più sicura disciplina di ricerca, in una maggiore consapevolezza della complessità degli intrecci, in una più varia articolazione dei temi, e soprattutto nella presenza di un più folto numero di ricerche e di ricercatori" (Villani 1989, p. 168).

Questo giudizio conserva tuttora la sua sostanziale validità, come è dimostrato dal gran numero di ricerche e soprattutto dalla varietà di approcci che caratterizzano la produzione storiografica più recente. E così gli studi sull'Italia fra la fine del Settecento e la restaurazione hanno ribadito la frattura tra riformismo settecentesco e giacobinismo, sottolineando la novità rappresentata da quest'ultimo, ma hanno anche contrapposto il momento rivoluzionario, innovativo e di rottura, a quello napoleonico, più raccolto, e volto al consolidamento delle precedenti conquiste.

Una storiografia per lo più tesa in precedenza alla ricostruzione del pensiero e dei movimenti politici si è arricchita con ricerche volte alla ricostruzione delle strutture socio-economiche (nuovo assetto della proprietà dopo la vendita dei beni nazionali) e del funzionamento delle istituzioni (consigli provinciali e distrettuali e singoli funzionari) nonché dei mutamenti antropologici e delle mentalità (A. Saitta, F. Diaz, P. Villani, M. Berengo, C. Zaghi, C. Capra). Nel mondo della restaurazione, e in genere nell'Italia preunitaria, sono stati oggetto di indagini proficue il rapporto tra il potere e la cultura, la formazione dell'opinione pubblica, gli editori, la storia della stampa e la diffusione dell'istruzione (M. Berengo, V. Castronovo, D. Bertoni Jovine, G. Ricuperati, M. Roggero), la vita sociale e il movimento democratico (Della Peruta 1975), la complessa realtà meridionale studiata nelle istituzioni e nella società (A. Scirocco, G. Aliberti).

Mondo della restaurazione europea e crisi del sistema di stati italiani rappresentano lo sfondo della grande biografia di Cavour, apparsa tra il 1969 e il 1984, con la quale Romeo ha risposto anzitutto al problema di grande rilevanza, nel campo della conoscenza storica e in quello della coscienza civile e politica, della trasformazione dell'Italia da nazione culturale in nazione politica. Al di là delle nuove acquisizioni e delle radicali correzioni di giudizi storiografici − riguardanti il formarsi della riflessione politica di Cavour negli anni Quaranta e la sua collocazione nel contesto culturale europeo, la nascita del connubio e il collegamento tra il centro-sinistra di Rattazzi e la democrazia quarantottesca, il passaggio dal protezionismo al liberismo negli stati sardi − rese possibili da un imponente scavo archivistico e dall'uso di nuovi strumenti d'indagine, come le tecniche quantitative, il Cavour di Romeo ha affrontato anche il problema del rapporto tra storia politica e storia sociale. La biografia di un uomo politico è per Romeo "essenzialmente storia politica", ma nessuna storia politica, a suo giudizio, può esimersi dall'analizzare a fondo la materia su cui si esercita, cioè le forze presenti nella società che i movimenti politici cercano di dominare e d'indirizzare: in tal modo la rivendicazione del primato della storiografia politica e del ruolo dell'individuo nel processo storico presuppone una seria e approfondita analisi della realtà economico-sociale e delle forze che in essa si manifestano.

Mentre la polemica sullo sviluppo dell'Italia postunitaria (F. Bonelli, V. Castronovo, L. De Rosa, G. Mori, A. Caracciolo, G. Are, G. Pescosolido) aveva avuto per lo più come protagonisti storici di formazione crociana o gramsciana, a partire dalla fine degli anni Settanta, e soprattutto negli anni Ottanta, è stato messo in dubbio che la storia politica o politico-economica potesse continuare a essere l'osservatorio privilegiato dal quale esaminare i mutamenti dell'Italia postunitaria (P. Villani, A. Caracciolo, P. Macry) secondo un ''paradigma storicistico'' comune alle correnti storiografiche idealiste e marxiste.

L'apertura ai metodi e ai temi delle scienze sociali (G. Levi, E. Grendi, R. Romanelli, A.M. Banti) ha comportato lo sviluppo della storia urbana, della demografia storica, della storia orale, della storia delle donne, della microstoria, con un recupero della petite histoire, per dirla con M. Agulhon, e della storia della sociabilité. Il dibattito che ne è seguito ha contribuito anche a modificare aree di ricerca già largamente arate: gli studi sulla storia del Mezzogiorno, per es., si sono andati distaccando dal vecchio meridionalismo e dalla tradizionale coincidenza tra storia del Mezzogiorno e storia della questione meridionale, per dare del problema una lettura non ideologica ma compiutamente storica (P. Bevilacqua, Breve storia dell'Italia meridionale dall'Ottocento a oggi, 1993).

La storia della scuola, che nei primi anni Ottanta era stata oggetto di approfondite ricerche su base regionale (S. Pivato, G. Bonetta) o attente a cogliere il nesso tra questione scolastica e trasformazione del paese (G.C. Lacaita, M. Barbagli, G. Vigo, M. Raicich, S. Soldani), più recentemente è stata alimentata da una sistematica pubblicazione di fonti (L'istruzione normale dalla legge Casati all'età giolittiana, 1994; Il Consiglio superiore della pubblica istruzione 1848-1928, 1994; L'istruzione classica 1861-1910, 1994) e da opere volte a ripercorrere la costruzione della nostra identità nazionale attraverso l'esame della funzione svolta dalle istituzioni educative (Fare gli italiani. Scuola e cultura nell'Italia contemporanea, 1993).

Le stesse biografie di personaggi di rilievo dell'Italia ottocentesca hanno risentito del rinnovato clima storiografico. Ne fornisce un ottimo esempio l'ampio lavoro dedicato a Q. Sella da G. Quazza (L'utopia di Quintino Sella. La politica della scienza, 1992), nel quale il taglio narrativo è integrato da approcci che vanno dalla biologia alla psicologia, dall'economia alla statistica. Del politico di Biella, che proveniva, a differenza della grande maggioranza della classe dirigente risorgimentale, dalla borghesia imprenditoriale e non dal patriziato o dalla borghesia agraria, Quazza ha ricostruito, utilizzando una larghissima documentazione, "la lezione della comunità natìa, dell'educazione familiare, dell'autoeducazione" per giungere alla formulazione della sua ''utopia'', la politica della scienza − basata "sulla formazione della persona e sull'unità del sapere" al di là della contrapposizione delle due culture −, condizione essenziale per una convivenza pacifica fra i singoli e fra i popoli.

Il rinnovato interesse per i problemi delle nazionalità, suscitato dal crollo del sistema politico internazionale instaurato dal dopoguerra a partire dalla fine degli anni Ottanta, ha investito anche il R. e lo stato unitario, ma, in larga misura, si è trattato di ricerche volte non a una migliore comprensione del nostro passato, ma alla sua utilizzazione per una battaglia politica in corso: pubblicistica politica, pertanto, e non lavoro propriamente storico.

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da http://noicrediamo.acmos.net/files/2011/03/le-interpretazioni-del-risorgimento.pdf

Le interpretazioni del Risorgimento

(tratto da A.De Bernardi-S.Guarracino, I saperi della storia, Bruno Mondadori 2006, pp.608-9)
 
In questa lunga vicenda di dibattiti e interpretazioni si possono distinguere quattro fasi: la prima riguarda l'iniziale riflessione critica sul Risorgimento che si apri all'interno stesso dei movimenti che stavano contribuendo alla sua riuscita all'indomani del biennio rivoluzionario 1848- 49; la seconda coincide con i primi decenni postunitari e fu incentrata essenzialmente sul tentativo di dare  un'immagine mitica  del processo di formazione dello stato unitario; la  terza consiste nell'ampia e complessa discussione che si aprì sul Risorgimento in epoca fascista, soprattutto dopo la pubblicazione nel 1928 del saggio del filosofo Benedetto Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1914; la quarta è quella che prese avvio con la pubblicazione nell'immediato secondo dopoguerra dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci.

Analizziamo separatamente ciascuna di queste fasi.
 
La riflessione critica all'interno dei movimenti artefici del Risorgimento.

Come si è detto, la prima fase coincise cronologicamente con gli eventi stessi che portarono all'unificazione nazionale, e il dibattito storiografico si intrecciò con quello politico, anzi ne fu una parte integrante fino a giungere quasi a sovrapporsi. Già dopo il fallimento della rivoluzione del 1848-49 si aprì un ampio dibattito tra i democratici (Carlo Cattaneo, Mazzini, Pisacane, Ferrari, Montanelli) e tra i liberali moderati (La Farina, Cesare Balbo, Farini) nel quale si delinearono alcune questioni che caratterizzarono in maniera permanente il dibattito storiografico fino ai giorni nostri: la funzione che il Piemonte venne assumendo nel processo risorgimentale; il ruolo della casa Savoia nel determinare gli esiti della battaglia nazionalistica; l'influenza della rivoluzione francese e più in generale della Francia nelle vicende italiane; gli esiti storici che la mancata o la scarsa partecipazione dei ceti popolari ebbe sui caratteri del moto risorgimentale e sulla futura connotazione dello stato unitario.
 
Le ricostruzioni ideologiche del processo unitario.

Dopo questa fase ricca di contrasti e di chiaroscuri, il dibattito si mosse in direzione opposta. Nei decenni immediatamente postunitari infatti gli storici, tra cui spiccano Nìcomede Bianchi con la sua monumentale Storia documentata della diplomazia europea in Italia dall'anno 1814 all'anno 1861, scritta fra il 1865 e il 1872, e Carlo Tivaroni, con la sua Storia critica del Risorgimento italiano, pubblicata a partire dal 1888, tentarono di ricostruire un'immagine mitica e profondamente ideologica del Risorgimento. Come ha scritto lo storico contemporaneo Giorgio Candeloro: "Si venne formando, pur attraverso persistenti polemiche tra monarchici e repubblicani, l'immagine di un Risorgimento perfettamente concluso con la formazione del regno d'Italia e sì diffuse quindi la tendenza a considerare la contrastante attività delle correnti politiche risorgimentali come cospirante, quasi per disegno provvidenziale, ad una soluzione da accettarsi ormai da tutti senza discussioni nei suoi due aspetti fondamentali: l'unità e la monarchia sabauda».

Esempio, forse meno noto, ma non meno significativo di questa tendenza fu la ricostruzione storica che del Risorgimento ci consegnò Alessandro Manzoni in alcune sue note sparse del 1873, che in parte confluirono nel trattatello Dell’indipendenza italiana. «Certo – scriveva Manzoni - a nessuna mente umana era dato di predire la successione dei mezzi con cui l'Italia sarebbe arrivata alla sua mirabile formazione e che, tra questi mezzi, uno dei più potenti, anzi il solo efficiente e determinante, avesse a essere la concordia, allora tanto lontana, degli Italiani, nell'intendere e nel volere, delle specie immaginate, di una tale formazione, la sola desiderabile. E fu però questa concordia che, iniziata dai primi fatti [...] d'un re e di un popolo d'una parte d'Italia, e portata sempre più avanti da una continuità non interrotta di fatti consentanei ai primi, pervenne in dieci anni, a quell'alta maggioranza che, nelle cose del genere è la sola sperabile e, come l'esito ha mostrato, poté ciò che volle.»

Questa storiografia,  tutta  rivolta,  per  dirla con  Gramsci,  a  ricostruire una  ideale  e spesso  ideologica «biografia della nazione», cominciò a mostrare notevoli crepe già sul finire dell'Ottocento; una serie di saggi, prevalentemente di storici appartenenti alla cosiddetta scuola economico-giuridica - tra cui spicca Antonio Anzillotti -, allargarono l'orizzonte delle ricerche agli aspetti economici che sottesero il Risorgimento e ai diversi gruppi sociali di cui fu espressione.
 
L'interpretazione del fascismo e quella dei liberali

La terza fase del dibattito si intreccia strettamente con la crisi dello stato liberale e con l'avvento del fascismo. Si sviluppò una riconsiderazione storica delle vicende risorgimentali orientata su due direttrici di fondo: quella degli storici fascisti come Gioacchino Volpe che, riprendendo la valutazione positiva del Risorgimento come "conquista regia della casa Savoia, spostavano l'accento sulla costruzione della compagine statale unitaria e individuavano nel fascismo l'esito culminante di tutte le vicende risorgimentali; quella degli storici liberali fortemente ispirati da Croce, che si mossero in direzione di una complessa opera di rivalutazione della linea d'intervento del movimento liberale. In questa corrente di pensiero si inserisce il libro di Adolfo Omodeo su L'opera politica del Conte di Cavour, uscito nel 1940, in cui veniva ricostruita l'elaborazione dello statista piemontese riuscendo a mettere in luce il ruolo da lui svolto nella formazione del regime parlamentare nello stato italiano.

Questo lavoro si configurava soprattutto come risposta alle tesi sostenute diversi anni addietro da un giovane intellettuale torinese, Piero Gobetti, militante antifascista, morto esule a Parigi appena venticinquenne anche per le conseguenze di una barbara aggressione di alcuni squadristi torinesi. Gobetti, nello sforzo di individuare le ragioni della crisi dello stato liberale, operò una profonda revisione delle analisi storiografiche del Risorgimento, definendo il processo di creazione dello stato unitario una "rivoluzione fallita". Per "rivoluzione fallita" Gobetti intendeva il fatto che la direzione liberale e moderata del movimento risorgimentale non era riuscita a coinvolgere le grandi masse popolari, formando sulla loro partecipazione le basi sociali della nuova compagine sorta dalla lotta per l'indipendenza.

Omodeo sostenne invece che la rivoluzione non era affatto fallita, anzi aveva sortito gli esiti migliori, perché era stata il trionfo di quel liberalismo moderato incarnato dalla figura dì Cavour, che aveva contribuito maggiormente alla realizzazione del Risorgimento.
 
Gramsci e la rivoluzione fallita.

La nuova fase di dibattito si aprì dopo la Seconda guerra mondiale. Fu soprattutto per merito di Antonio Granisci e delle felici elaborazioni contenute nei famosi Quaderni, compilati durante la lunga carcerazione impostagli dai tribunali fascisti, che la riflessione critica sul Risorgimento fece un notevole salto di qualità, esplorando nuovi territori e confrontandosi con nuove e più ampie problematiche. Analizzando la vittoria dei moderati, Gramsci la spiegava con il fatto che essi erano un gruppo di intellettuali socialmente e culturalmente omogeneo con le classi e i ceti, la grande e la media borghesia, sia urbana sia rurale, che di fatto alimentarono ed egemonizzarono il processo unitario. I democratici al contrario non erano l'espressione politica di classi omogenee; per esserlo avrebbero dovuto trasformare il loro programma in senso sociale, come indicavano Pisacane e Ferrari, diventando il partito dei lavoratori poveri e delle masse contadine diseredate, prevalentemente meridionali. Essi non operarono questa conversione del programma e rimasero stritolati politicamente tra l'egemonia moderata della borghesia e l'immobilismo popolare. Il Risorgimento era quindi una "rivoluzione fallita" perché non aveva saputo raccogliere, attraverso una decisa riforma agraria, l'adesione delle masse contadine, che rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione, allargando così le basi dello stato e garantendo il superamento dell'arretratezza economica di tanta parte del paese.

Gramsci intende anche come “rivoluzione passiva” quella in cui i liberali moderati hanno avuto strategicamente la meglio sui repubblicani democratici mantenendo l’ordine feudale esistente causando la permanente spaccatura tra Stato e società civile. Il fascismo è la diretta conseguenza di questa situazione, cioè un tentativo della borghesia debole di ridefinire un sistema politico che stava crollando.

Questa chiave interpretativa fu ripresa da parecchi studiosi e divenne il punto di riferimento teorico di numerose ricerche tra cui spiccano quelle di Emilio Sereni, di Giuseppe Berti, di Franco Della Peruta e di Giorgio Candeloro. Queste posizioni critiche, che configurano una vera e propria scuola storiografica di ispirazione marxista, suscitarono notevole opposizione, soprattutto sul problema della questione agraria nel Risorgimento.

Lo storico Rosario Romeo, per esempio, in due interventi comparsi sulla rivista "Nord-Sud" nel 1956 e nel 1958 sostenne che la posizione degli storici gramsciani era errata, quando attribuivano alla mancata riforma agraria l'arretratezza della società e dello stato italiano, perché l'accumulazione di capitali che si verificò dopo l'Unità (la cosiddetta accumulazione primitiva) e che consentì il decollo industriale di fine Ottocento non si sarebbe potuta determinare se una redistribuzione delle terre avesse impedito una rivoluzione agricola di segno capitalistico, soprattutto nelle campagne settentrionali.

In opposizione alle interpretazioni marxiste, gli storici liberali (Romeo, Luzzatto) sottolineano gli ostacoli al progresso politico ed economico dell’Italia: la dipendenza dalle potenze straniere, la discordia interna, l’arretratezza dei governi reazionari.

Le ricerche di Romeo, fortemente influenzate dai nuovi approcci della storia economica e della teoria dello sviluppo, aprirono una nuova prospettiva di studio indirizzata all'analisi della storia dell'industrializzazione italiana, che avrebbe costituito negli anni seguenti il vero centro degli interessi della storiografia italiana.

Luzzatto critica l’interpretazione del Risorgimento come espressione borghese, dal momento che questa classe sociale non esisteva a causa dell’assenza di uno sviluppo economico pre-1960. Le interpretazioni marxiste e liberali condividono l’esigenza di spiegare il significato della vittoria moderata del Sessanta alla luce degli insuccessi successivi dell’Italia Liberale: idea di una deviazione rispetto a modelli democratico-borghesi.
 
La storiografia revisionista.

L’unificazione nazionale viene considerata una soluzione parziale a problemi specifici, non un momento di rottura con il passato: rimessa in discussione di nessi causali prima consolidati.  Per i revisionisti, l’idea di deviazione italiana è stata inventata dagli storici influenzati da modelli di spiegazione deterministici dello sviluppo politico ed economico. Si tende, così, a sottolineare gli aspetti positivi dei regimi pre-unitari e a inserire la crisi dei governi della restaurazione e l’unificazione in un contesto più ampio: l’unità è esito di processi diversi, a volte contraddittori, identificabili con l’affermazione degli stati moderni, con la formazione di una cultura nazionale basata su lingua e economia capitalista. La storiografia revisionista non analizza l’azione politica, dimentica gli elementi di conflitto e di crisi dell’Italia 800.

La dimensione culturale

Nuova corrente di ricerca che ha orientato la propria attenzione sulla creazione, nell’ambito della cultura romantica, di un’idea di Italia. Il tentativo di Banti (La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell'Italia unita 2006) è quello di rimettere in discussione l’immagine dell’identità Italiana frammentata, indebolita dai conflitti interni: esisteva “una sorta di narrazione coerente della nazione italiana, un discorso ricco di rimandi e di coerenze, una sorta di pensiero unico della nazione” che attingeva ad un comune repertorio di temi, metafore e simboli.

Il Risorgimento viene considerato un movimento di massa, attivamente partecipato dai cittadini (nelle sue guerre, nella lotta politica, nelle feste e commemorazioni), che ha creato un movimento culturale più ampio, di portata europea. L’approccio secondo cui si mette al centro la cultura permette di mettere in rilievo il processo di “italianizzazione” già precedente l’Unità: pur mantenendo una dimensione locale, l’attività culturale iniziò a proporre temi, linguaggi, rituali “Italiani” (cfr: il campo musicale, pittorico e soprattutto teatrale; lo sviluppo della lingua italiana; la nascita di associazioni economiche e scientifiche nazionali).

www.filosofico.net

A cura di Diego Fusaro

La maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia. (Quaderni del carcere, 10, II)

L'interpretazione gramsciana del Risorgimento

Gramsci ha meditato a lungo sul processo storico che, nel secolo XIX, ha prodotto la travagliata costituzione dello stato italiano unitario. A suo avviso, tale processo è stato diretto fondamentalmente da forze moderate, e il cosiddetto Partito d' azione (cioè il complesso di gruppi e di correnti che si richiamavano in parte a Mazzini e a Garibaldi) si è rivelato incapace di svolgere un'opera adeguatamente incisiva e trasformatrice nel contesto politico del tempo.

Quella risorgimentale è stata, per usare una celebre espressione gramsciana, una "rivoluzione mancata" - e la causa e la natura di tale "mancanza" sono state essenzialmente di carattere sociale. In effetti il limite storico del Partito d' azione va individuato nel fatto che è rimasto sempre un partito borghese di élite, non disposto o non capace di ricercare l' appoggio dei ceti non borghesi. Quali ceti?

E' qui che Gramsci mostra la sua relativa eterodossia rispetto alle tesi canoniche del marxismo. Egli sa bene che nell' Italia dell' Ottocento non c' era un proletariato industriale e tanto meno una classe operaia organizzata - ossia il solo soggetto sociale in grado, secondo i princìpi marxisti, di promuovere una trasformazione radicale della società. L' autore dei Quaderni del carcere ritiene però che il risorgimento avrebbe potuto e dovuto ugualmente assumere un carattere rivoluzionario, acquisendo il consenso dei contadini. Proprio questi ultimi costituivano, infatti, quella massa popolare la cui partecipazione all'azione risorgimentale le avrebbe dato un sostanziale contenuto sociale e un adeguato impulso rinnovatore.

Gramsci precisa che il movimento democratico avrebbe realizzato tale disegno e tale strategia se fosse stato capace di farsi partito "giacobino": se avesse saputo far propri gli interessi e le esigenze della classe contadina attraverso una riforma agraria volta a spezzare il latifondo e a creare un ceto di contadini piccoli proprietari. Proprio questo obiettivo era stato tenuto presente dai giacobini francesi, i quali avevano in tal modo evitato l' isolamento delle città e convertito le campagne alla rivoluzione. Solo così essi erano riusciti a superare la situazione di minoranza elitaria in cui si erano trovati inizialmente, e a sconfiggere le forze della reazione aristocratica.

Tutto ciò non significa per Gramsci che il risorgimento sia stato un processo storico completamente negativo. In effetti esso ha favorito non solo l' unificazione della penisola ma anche la crescita della borghesia, gettando con ciò alcune premesse per lo sviluppo di una fase capitalistica in Italia. D' altra parte tale sviluppo si è realizzato in misura insoddisfacente; inoltre il nuovo stato si è costituito su una base sia economico sociale che politica assai ristretta.

In effetti, per un verso il neonato capitalismo (concentrato nelle sole regioni settentrionali), non ha potuto usufruire di un adeguato mercato per i suoi prodotti, a causa dell'arretratezza economica della società italiana, soprattutto meridionale. Per un altro verso le masse indigenti (in primo luogo i ceti contadini) abbandonate sostanzialmente a loro stesse, non sono riuscite a divenire parte attiva della nuova compagine statuale. Quanto ai raggruppamenti politici anche più aperti e democratici, si sono rivelati incapaci di approfondire i loro legami con le forze sociali potenzialmente disponibili a un' azione di reale emancipazione.

Se tutto ciò è vero, si tratta per Gramsci di elaborare le condizioni di una profonda trasformazione della realtà italiana emersa dal processo risorgimentale: una trasformazione il cui obiettivo finale deve essere quella rivoluzione sociale - anzi socialista - che il risorgimento non ha saputo compiere. A giudizio di Gramsci, tale rivoluzione potrà essere fatta solo attraverso un' alleanza tra proletariato settentrionale e contadini meridionali: sono essi, infatti, i soggetti sociali concretamente interessati alla realizzazione di un progetto politico così impegnativo e radicale.

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Gli studi dagli anni Settanta agli anni Novanta

di Alberto Mario Banti

Dalla metà degli anni Settanta del 20° sec. il R. ha continuato a essere oggetto di numerosissime ricerche che hanno mantenuto viva una solida tradizione di studi risalente ormai alla fine del 19° sec.; tuttavia in questa fase si sono aperti nuovi 'cantieri' analitici, che hanno tracciato percorsi di ricerca assai innovativi rispetto alle tradizioni storiografiche affermatesi in precedenza.

Se si osserva lo stato degli studi nel periodo che va dai primi anni Settanta sino alla metà degli anni Novanta, si può constatare che accanto a ricerche molto ben consolidate su vari aspetti del 'politico' nel R. italiano (leader, organizzazioni, idee, istituzioni) si erano fatti largo studi che avevano preso le distanze dai contenuti più specificamente ideologici dell'esperienza risorgimentale, andando a esaminare le formazioni sociali (nobiltà, borghesie, ceti popolari), le dinamiche economiche (processi di accumulazione e di trasformazione, soprattutto nel settore agrario) e gli assetti istituzionali (giurisprudenza e strutture statuali degli Stati preunitari) dell'Italia di primo Ottocento. In questa inclinazione non ideologica della ricerca, variamente definita come "revisionista" (Riall 1994) o "arisorgimentale" (Meriggi 1996), si poteva scorgere il desiderio di confrontarsi con la più aggiornata agenda storiografica europea, che all'epoca si era concentrata sulle modalità del passaggio da una società nobiliar-cetuale a una moderna società borghese.

Tuttavia, sia la prospettiva storiografica tradizionale (interessata agli aspetti politico-ideologici) sia quella più originale (interessata alle questioni economiche, sociali e istituzionali) avevano, per ragioni diverse, messo in second'ordine un aspetto essenziale per la comprensione del processo risorgimentale, ossia la formazione e il radicamento di un senso di appartenenza a una comunità nazionale italiana e, di conseguenza, anche la profondità culturale del processo di edificazione di uno Stato-nazione che da tale senso di appartenenza era derivato.

La prima corrente storiografica aveva trascurato questo insieme di questioni perché, in qualche modo, lo aveva considerato una sorta di a priori etico delle varie formazioni politiche di ispirazione nazional-patriottica che avevano condotto all'unificazione italiana, dandolo dunque, in qualche modo, per scontato; la seconda corrente - implicitamente o, molto più di rado, esplicitamente - aveva seguito l'idea secondo la quale una ricostruzione dei processi socioeconomici o istituzionali avrebbe alla fine reso più chiara e comprensibile l'intera parabola risorgimentale.

Di conseguenza, sebbene ricchi di risultati, gli studi che si sono richiamati a quelle prospettive hanno trascurato di esaminare il processo di formazione di un'identità nazionale e il suo grado di radicamento prima e dopo la formazione del Regno d'Italia.

Altri orientamenti

A colmare questa lacuna si sono dedicati prima studi che - sul modello dei lavori di G.L. Mosse per la Germania - hanno indagato i rituali di 'nazionalizzazione delle masse' nell'Italia postunitaria, fra cui spiccano, in particolare, quelli di B. Tobia (Una patria per gli italiani, 1991), di U. Levra (Fare gli italiani, 1992) e di I. Porciani (La festa della nazione, 1997). A essi hanno fatto poi seguito ricerche che più direttamente si sono impegnate nella ricostruzione delle connotazioni fondamentali dell'idea di nazione in epoca risorgimentale (A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, 2000; C. Sorba, Teatri. L'Italia del melodramma nell'età del Risorgimento, 2001; Le immagini della nazione nell'Italia del Risorgimento, a cura di A.M. Banti, R. Bizzochi, 2002; e Storia d'Italia, Annali, 22° vol., Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti, P. Ginsborg, 2007).

Concentrate in larga misura sull'esame delle modalità di costruzione e di diffusione dei miti e delle narrazioni che hanno reso persuasiva tale idea - all'epoca sostanzialmente ignota alla maggior parte degli abitanti della penisola -, queste nuove indagini si sono soffermate principalmente sulla forza comunicativa delle opere letterarie, delle opere teatrali, dei melodrammi o delle opere grafiche (quadri o ppure stampe) di ispirazione nazional-patriottica.

Secondo questi lavori, alcune componenti ideali hanno avuto uno speciale rilievo nel definire il concetto di nazione. Fondamentale è stato, in primo luogo, il riferimento alla nazione come comunità di discendenza, cioè come una comunità dotata al tempo stesso di una sua genealogia parentale (che invitava a considerare l'Italia come 'madre', gli altri membri della nazione come 'fratelli' e i leader politici o militari come 'padri della patria'), e, anche, di una sua specifica storicità (che secondo alcuni intellettuali del Risorgimento risaliva al Medioevo, per altri all'epoca romana, per altri ancora a epoche preromane). Questa duplice elaborazione ha prodotto sviluppi concettuali significativi: considerare la nazione come una comunità composta di fratelli e sorelle, figli di una stessa madre, parte di una stessa rete di relazioni parentali, ha significato, intanto, porre un'enfasi speciale sul concetto di 'famiglia' come nucleo originario della comunità parentale stessa. È proprio a partire da questa constatazione che gli studiosi della cultura risorgimentale hanno cominciato a indagare i rapporti tra le concrete esperienze familiari e le rappresentazioni della più grande famiglia che è la nazione: si tratta di ricerche che hanno messo in relazione gli studi di storia della famiglia con l'indagine sui processi di educazione alla politica di persone che hanno preso parte - a vario titolo - all'esperienza del R. (esempi di questo orientamento sono in M. Bertolotti, Le complicazioni della vita, 1998; I. Porciani, Famiglia e nazione nel lungo Ottocento, in Passato e presente, 2002, 57; S. Cavicchioli, Famiglia, memoria, mito. Ferrero della Marmora (1748-1918), 2004; M.L. Lepscky Mueller, La famiglia di Daniele Manin, 2005).

L'idea della nazione come 'comunità di discendenza' è stata elaborata anche attraverso una sua forte storicizzazione; è, infatti, da questo tipo di concezione che è nato il culto nazionale dei grandi uomini (per es., Dante, Petrarca, Machiavelli, Parini ecc.), che all'epoca si considerava appartenessero 'naturalmente' al susseguirsi delle generazioni che connotavano la 'stirpe' italica; al suo fianco si pone anche il culto dei grandi eventi passati (la battaglia di Legnano, i Vespri siciliani, la disfida di Barletta, la difesa di Firenze, la rivolta di Genova ecc.), poiché si riteneva che quegli episodi non fossero altro che prefigurazioni della 'lotta finale' che le generazioni presenti dovevano compiere, ispirandosi alle battaglie combattute dagli avi.

Importante è apparsa anche la fortissima sacralizzazione del politico che è stata imposta dal linguaggio nazionale (occorre sempre ricordare che all'inizio dell'Ottocento risorgimento non ha altro significato che quello religioso di 'resurrezione'); non si tratta qui soltanto di constatare che alcuni importanti leader risorgimentali (per es., G. Mazzini, V. Gioberti o N. Tommaseo) facevano insistito ed esplicito riferimento alle dimensioni metafisiche del politico o contavano sull'appoggio delle istituzioni ecclesiastiche per il compimento della 'missione' nazionale; piuttosto, è rilevante considerare la profonda sacralizzazione del politico imposta dal discorso nazional-patriottico stesso: ne sono testimonianza, fra l'altro, le rielaborazioni santificanti della figura di G. Garibaldi, il rilievo che hanno il culto mortuario degli eroi e dei leader, l'insistenza con la quale si valorizza costantemente l'etica del sacrificio eroico (temi esplorati da L. Riall, Hero, saint or revolutionary? Nineteenth-century politics and the cult of Garibaldi, in Modern Italy, 1998, 2; D. Mengozzi, La morte e l'immortale, 2000; S. Luzzatto, La mummia della Repubblica, 2001; e A.M. Banti, L'onore della nazione, 2005).

Un aspetto estremamente importante, e collegato da vicino con le risonanze sacralizzanti del discorso nazionale, è la questione della partecipazione dei sacerdoti alla diffusione del discorso nazionale; se è apparso chiaro, dalle ricerche compiute, che molti parroci si avvicinarono, con grandissimo entusiasmo, alla militanza risorgimentale nel periodo che va dall'elezione al soglio pontificio di Pioix sino alle fasi iniziali della prima guerra di indipendenza, è apparso tuttavia egualmente chiaro che anche negli anni seguenti il rapporto tra mondo cattolico e discorso nazional-patriottico non si interruppe del tutto, sia perché continuarono a esservi nuclei significativi di parroci-patrioti sia perché anche le gerarchie ecclesiastiche più ortodosse e rispettose delle mosse politiche e diplomatiche compiute da Pio ix dal 1848 in avanti non cessarono di subire la fascinazione del discorso nazionale, per quanto si tenessero lontane dall'approvare le modalità di costruzione dello Stato unitario (valutazioni equilibrate e innovative nei saggi di E. Francia e di D. Menozzi, in Storia d'Italia, Annali, 22° vol., Il Risorgimento,2007).

Non meno rilevante, infine, è sembrato l'appello alla difesa dell''onore' nazionale, un valore che rinvia a una nuova definizione dei profili di mascolinità e di femminilità. È qui che la più recente storiografia del R. ha incontrato - assai fruttuosamente - gli studi di genere. Le indagini si sono concentrate, dunque, sull'esame delle modalità attraverso le quali gli intellettuali risorgimentali cercarono di smontare uno stereotipo che si era depositato sulla penisola sin dal16°-17° sec., lo stereotipo secondo il quale gli italiani non sapevano combattere, erano codardi, oppure inclini solo agli intrighi, affrettando per questi loro caratteri negativi la 'decadenza' della loro patria. A questo stereotipo se ne collegava un altro, come il primo elaborato e diffuso soprattutto da stranieri che visitavano la penisola, secondo il quale le donne italiane erano facili a lasciarsi corrompere, e inclini, specialmente quelle appartenenti a strati sociali alti, a comportamenti moralmente e sessualmente riprovevoli.

La ricerca ha mostrato che a questi stereotipi si opposero moltissimi intellettuali e leader politici risorgimentali, con determinazione e insistenza, e con tutti i mezzi a loro disposizione (libri, pamphlet, discorsi, prediche): l'obiettivo era far passare un messaggio tonificante ed esaltante, attraverso il quale si voleva convincere l'opinione pubblica patriottica che gli italiani erano virilmente eroici e pronti al sacrificio e le italiane virginalmente caste e desiderose di ricoprire con dedizione i ruoli di mogli e di madri (si veda soprattutto S. Patriarca, Indolence and regeneration: Tropes and tensions of Risorgimento patriotism, in The American historical review, 2005, 2).

Se questa è la dimensione retorica, interessante è andare a vedere in che misura questo tipo di modelli comportamentali siano stati concretamente vissuti. Numerosi sono stati, dunque, gli studi che hanno ricostruito la vita di donne che sono state vicine al movimento nazional-patriottico; si è così potuto osservare che se ha dominato il modello normativo della madre pronta a sacrificare sé stessa e i propri figli ai bisogni patriottici, un modello al quale un buon numero di donne ha cercato di conformare le propria vita, non sono mancate anche traiettorie assai più creative e anticonformiste, tanto nel modo di vivere la militanza patriottica quanto nel modo di vivere i sentimenti, gli affetti e la vita familiare (una sintesi delle ricerche è nel saggio di S. Soldani, in Storia d'Italia, Annali, 22° vol., Il Risorgimento, 2007).))ci sopraLe commemorazioni per i 150 anni dalle rivoluzioni del 1948-49. - Un banco di prova significativo per verificare premesse e implicazioni di questi nuovi orientamenti è stato offerto dalle commemorazioni per i 150 anni dalle rivoluzioni del 1848-49, che hanno stimolato nuove ricerche e occasioni di incontro e di discussione. Se la pratica delle celebrazioni accademiche in occasione di anniversari di frequente è avara di studi interessanti e degni di nota, in questo caso si deve fare un'eccezione: pur all'interno di un panorama non straordinariamente ricco di iniziative e pubblicazioni, ve ne sono state alcune che hanno gettato nuova luce sul grado e sul significato della partecipazione alle vicende politiche del 1848-49.

Esemplari le due raccolte di saggi che riproducono i testi di due convegni organizzati dall'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti nel 1998 e nel 1999 (La rivoluzione liberale e le nazioni divise, 2000; e 1848-1849. Costituenti e costituzioni, 2002, entrambi a cura di P.L. Ballini), l'una su aspetti diversi del nazionalismo quarantottesco, l'altra su costituenti e costituzioni del biennio rivoluzionario; in entrambi i casi, gli studi sulle vicende risorgimentali sono stati posti all'interno di un contesto comparativo: un'operazione assai ricca di suggestioni, che è stata compiuta anche in un numero monografico dedicato nel1999 dalla rivista Passato e presente al Quarantotto europeo (1848. Scene da una rivoluzione europea, a cura di H.-G. Haupt e S. Soldani). Una medesima prospettiva ha orientato anche altre ricerche sulle pratiche e le retoriche della rappresentanza nelle esperienze parlamentari del biennio (per es., G.L. Fruci,L'abito della festa dei candidati, in Quaderni storici, 2004, 3; Il fuoco sacro della Concordia e della Fratellanza, in Elezioni e personalizzazione della politica, a cura di F. Venturino, 2005). Alcuni sviluppi della ricerca sul caso toscano, infine, si segnalano perché collocano le vicende rivoluzionarie all'interno di una prospettiva analitica di medio periodo, come è quella tipicamente risorgimentale, che si apre con la Restaurazione e giunge fino all'Unità (in particolare, Th. Kroll,Die Revolte des Patriziats. Der toskanische Adelsliberalismus im Risorgimento,1999, trad. it. La rivolta del patriziato. Il liberalismo della nobiltà nella Toscana del Risorgimento, 2005).

Infine, se c'è un elemento che vale la pena di estrarre da lavori così compositi, e di così vario orientamento, è l'intensità della partecipazione che diversi gruppi sociali italiani manifestarono nei confronti del movimento nazional-patriottico: può darsi che talora questa partecipazione fosse strumentale e forzata (come nel caso del patriziato toscano, secondo Kroll); ma certo in molte altre circostanze fu invece sentita e animata da una solida determinazione militante, come accadde ai molti che parteciparono alle iniziative del volontariato militare risorgimentale o ai diversi appuntamenti elettorali che punteggiarono in vari momenti, l'esperienza del R. (una questione trattata dall'Introduzione e da diversi saggi di Storia d'Italia, Annali, 22° vol., Il Risorgimento, 2007).