Interpretazioni del Risorgimento

www.treccani.it

[...]

2. La storiografia del Risorgimento

Sul piano storiografico il R. è stato a lungo oggetto di polemiche accese. I primi contrasti interpretativi esplosero all’indomani stesso dell’unificazione politica dell’Italia: le esaltazioni apologetiche e agiografiche dei vincitori, monarchici, moderati, liberali da una parte, le requisitorie e le recriminazioni dei vinti, mazziniani e repubblicani, borbonici e clericali dall’altra, hanno radici nelle stesse lotte e passioni risorgimentali. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, alle rappresentazioni spesso convenzionali dell’epopea risorgimentale si contrappose un proficuo lavoro di ricerca filologica e archivistica, di pubblicazione di documenti e di ricostruzione biografica.

Alcuni studiosi, sensibili all’orientamento idealistico prevalente nella cultura italiana dell’epoca, richiamandosi esplicitamente al mito di rigenerazione umana proclamato dai profeti risorgimentali (V. Alfieri, U. Foscolo, G. Mazzini, V. Cuoco, V. Gioberti ecc.), finirono con il ridurre l’intero periodo a questa unica matrice culturale. In opposizione a questa unilaterale interpretazione del R., sotto la spinta inoltre di una ripresa delle forze democratiche nella lotta politica e con l’affermazione del pensiero socialista, verso la fine dell’Ottocento scesero in campo gli storici della cosiddetta scuola economico-giuridica.

A complicare e confondere il puro problema storiografico s’insinuarono nel dibattito anche preoccupazioni di carattere nazionalistico: storici e pubblicisti cercarono di rivendicare la piena originalità e autonomia del processo risorgimentale rispetto alle influenze politiche e culturali straniere, soprattutto rispetto alla Rivoluzione francese e al dominio napoleonico, a cui tradizionalmente si facevano risalire gli inizi di quel processo. Contro la dilagante ondata nazionalistica, che poi divenne particolarmente insistente durante il fascismo, lo stesso B. Croce intervenne sostenendo che, sul piano politico, di storia propriamente italiana si poteva parlare soltanto a partire dal 1860, da quando il popolo italiano si era costituito politicamente in un effettivo organismo statale.

Studiosi di ogni tendenza storiografica si dedicarono all’analisi delle epoche anteriori al Settecento, nell’intento di cogliere sul nascere le prime aspirazioni unitarie e liberali: furono condotte ricerche sulle condizioni politiche e diplomatiche dell’Italia e dell’Europa alla fine delle guerre di successione e sulle profonde trasformazioni sociali avvenute durante il dominio spagnolo in Italia. Per effetto di questo allargarsi delle indagini si ripudiò la data del 1815, tradizionalmente assunta come inizio del R., e si tese a riportare sempre più indietro le origini del movimento patriottico, sia sul piano culturale, sia sul piano più propriamente politico. Una tale esaltazione della continuità storica rischiò di dissolvere il concetto stesso di R.: una volta dissociati e singolarmente riportati alla loro origine i motivi confluiti nella sintesi risorgimentale, la sua storia si risolveva senza residui nella più generale storia italiana del 18° e del 19° secolo.

Come tradizionalmente veniva narrata, la storia del R. appariva opera di un’esigua minoranza, e il fenomeno della frattura fra minoranza intellettuale e popolo era stato soltanto sfiorato, ma mai sviluppato nelle sue implicazioni. Sotto l’urgenza delle agitazioni sociali scoppiate alla fine della Prima guerra mondiale, alcuni uomini politici e studiosi furono indotti a rivolgere la loro attenzione a questo problema: si riparlò allora di conquista regia, di grettezza conservatrice e di tradimento degli ideali morali e religiosi affermati da Mazzini e dagli altri protagonisti risorgimentali. Tra i numerosi studi pubblicati in questo filone spiccano le opere di P. Gobetti. Esse dettero impulso a una più meditata valutazione del R., che il clima instaurato dal fascismo non riuscì a soffocare: La Storia del liberalismo europeo di G. De Ruggiero, gli scritti sul R. e in particolare L’opera politica del conte di Cavour di A. Omodeo e la Storia d’Europa nel sec. XIX di B. Croce nacquero anche come risposta polemica alle tesi antiliberali del fascismo. Sul motivo religioso insistevano altri studiosi tra cui F. Ruffini, i quali vedevano nel giansenismo italiano del Settecento una delle componenti essenziali del R., e a partire da questo ricostruirono l’ambiente morale e intellettuale in cui si formarono uomini come Manzoni e Cavour. Ma anche sul terreno religioso si doveva constatare la frattura che divideva il popolo italiano dalle aristocrazie intellettuali.

Nuovo vigore e nuovi spunti problematici alle ricerche sul R. portò nel 1949 la pubblicazione delle riflessioni di A. Gramsci Sul Risorgimento, in cui il processo che condusse all’unificazione è classificato come la prima grande rivoluzione politica dell’età contemporanea, da analizzare nei suoi aspetti economici e sociali a partire dall’apporto delle varie componenti della società italiana. L’analisi di Gramsci rinnovò completamente la storiografia italiana del secondo dopoguerra, stimolando una più acuta sensibilità ai temi delle classi popolari e della questione agraria, e introducendo ottiche e strumenti nuovi nello studio dei movimenti politici e delle sette segrete.

Negli ultimi decenni del 20° sec. accanto a ricerche su vari aspetti del ‘politico’ nel R. italiano (leader, organizzazioni, idee, istituzioni) si fece largo un’inclinazione non ideologica, con studi sulle formazioni sociali (nobiltà, borghesie, ceti popolari), le dinamiche economiche (processi di accumulazione e di trasformazione, soprattutto nel settore agrario) e gli assetti istituzionali (giurisprudenza e strutture statuali degli Stati preunitari) dell’Italia di primo Ottocento.

Tuttavia, sia la prospettiva storiografica tradizionale (interessata agli aspetti politico-ideologici) sia quella più originale (interessata alle questioni economiche, sociali e istituzionali) avevano, per ragioni diverse, messo in second’ordine un aspetto essenziale per la comprensione del processo risorgimentale, ossia la formazione e il radicamento di un senso di appartenenza a una comunità nazionale italiana e, di conseguenza, anche la profondità culturale del processo di edificazione di uno Stato-nazione che da tale senso di appartenenza era derivato.

A colmare questa lacuna si sono dedicati prima studi che hanno indagato i rituali di ‘nazionalizzazione delle masse’ nell’Italia postunitaria, fra cui spiccano, in particolare, quelli di B. Tobia (Una patria per gli italiani, 1991), di U. Levra (Fare gli italiani, 1992) e di I. Porciani (La festa della nazione, 1997).

A essi hanno fatto seguito ricerche più direttamente impegnate nella ricostruzione delle connotazioni fondamentali dell’idea di nazione in epoca risorgimentale (A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, 2000; C. Sorba, Teatri. L’Italia del melodramma nell’età del Risorgimento, 2001; Le immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, a cura di A.M. Banti, R. Bizzochi, 2002; e Storia d’Italia, Annali, 22° vol., Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti, P. Ginsborg, 2007).


Enciclopedia italiana (III Appendice, 1961)

di G. Tal.

RISORGIMENTO (XXIX, p. 434).

Nel decennio 1945 la storiografia risorgimentista fu percorsa dalla polemica ora cauta e sottintesa, ora esplicita e violenta fra due tendenze: una che dava del R. un'interpretazione politico-territoriale, attenta unicamente al "fatto" politico rappresentato dalla formazione dello Stato unitario, ed un'altra, prevalentemente ispirata all'idealismo storicistico, per la quale il R., lungi dall'esaurirsi nell'opera della dinastia sabauda, si configurava come un processo di carattere spirituale nel quale doveva trovare adeguata valutazione anche l'opera di quanti, militando in campi diversi, avevano, ciascuno a suo modo, contribuito alla creazione della nuova realtà italiana.

Nell'interpretazione della prima corrente, l'unificazione politica appariva come la progressiva espansione del regno sardo, la logica attuazione di un preesistente disegno implicito nel retorico concetto di una "missione nazionale" affidata a casa Savoia. Al lume di questa concezione si tentò di stabilire (N. Rodolico) una continuità tra il Carlo Alberto del Trocadero e quello del'48, tra il persecutore dei liberali e l'iniziatore della prima guerra d'indipendenza, o si delineò un Vittorio Emanuele II (F. Cognasso) su di un piano sempre nettamente superiore non solo al "bohémien e spesso cinico Massimo d'Azeglio", ma anche al "ginevrinizzato Camillo di Cavour". A parte l'evidente deformazione agiografica, opere similmente ispirate, pur segnando un sensibile progresso rispetto alle precedenti ricerche (A. Luzio, A. Colombo, E. Passamonti), restavano, sostanzialmente, legate al limitato angolo visuale della storiografia "risorgimentale", vale a dire interpretavano l'azione politica di un sovrano unicamente col metro della posteriore soluzione unitaria. Mirando esclusivamente a dimostrare la perfetta adesione dei personaggi esaminati ai "valori" del R. (principio di nazionalità, libertà costituzionali, indipendenza dallo straniero) si finiva per rinunciare a comprendere il mondo politico e morale del quale essi erano autentica espressione.

All'acrisìa nei confronti della casa regnante, si accompagnava spesso una forma di nazionalismo storiografico che si manifestava in una marcata ostilità verso quanto pareva legato con la rivoluzione francese, parallela ad un'esaltazione verso quanto sembrava proprio dello "spirito" italiano. L'illuminismo nostrano veniva così inteso come un movimento autoctono, ispiratore del riformismo settecentesco nel quale venivano appunto trovate le origini del R. (E. Rota). Non era più la tesi di C. Calcaterra circa la funzione "negativa" svolta dalla rivoluzione francese nei confronti del movimento nazionale italiano, ma era pur sempre un'interpretazione del sec. 18° in chiave esclusivamente risorgimentale.

La corrente storiografica che si oppose con energia al sabaudismo e al nazionalismo prevalenti fu capeggiata da A. Omodeo. Nel ricordare (1944) le polemiche condotte nel quindicennio precedente "contro una serie di alterazioni tendenziose della storia del R.", egli citò i suoi saggi su Carlo Alberto e su Gioberti come i più significativi e caratterizzanti. Nei primi aveva cercato di distruggere la "leggenda" creata attorno al re sabaudo, il cui atteggiamento gli apparve incontestabilmente reazionario fino al 1848: le riforme degli anni precedenti, infatti, dimostravano unicamente la persistenza d'ideali - come quello della "monarchia amministrativa" - tipici dell'età napoleonica e della restaurazione, ma del tutto estranei allo spirito del Risorgimento. Solo la disperata decisione di riprendere la guerra nel'49 e la fine "shakespeariana" avevano operato la "catarsi" del re.

L'interpretazione nazionalistica del Gioberti, iniziata da G. Gentile, fu l'oggetto del secondo gruppo di saggi. Al neoguelfismo l'Omodeo negò il valore formativo che era stato proprio del liberalismo cavouriano e del mazzinianesimo e lo giudicò soltanto un "espediente pratico" una "sapientissima macchina di guerra" di cui l'abate aveva saputo servirsi con grande abilità e spregiudicatezza.

Tali polemiche carloalbertine e giobertiane, apparse in Leonardo, la Critica, la Nuova Italia (e raccolte, rispettivamente, in volume nel 1940 e nel 1941) adempirono a una fondamentale funzione moralizzatrice degli studî nel conformistico clima politico-culturale del ventennio fascista, ma, staccate da quel particolare momento storico possono apparire talvolta eccessive (alla rigida interpretazione pragmatistica del Gioberti, ad esempio, E. Passerin d'Entrèves ne ha contrapposto una più sensibile ai motivi autenticamente religiosi, presenti, accanto a quelli politici, nell'animo dell'abate torinese). L'opera che, invece, incise più profondamente e durevolmente sulla storiografia risorgimentista fu la magistrale ricerca sul Cavour, che cessò di apparire il retorico e demiurgico "tessitore", creatore delle più intricate situazioni internazionali, preparatore da anni ed anni di distanza di avvenimenti decisivi che poi la storia era chiamata puntualmente a realizzare, e fu inteso come la forza costruttiva della coscienza nazionale e liberale italiana. Anche se non riuscì a realizzare completamente la saldatura con la storia economica e con la storia della cultura del periodo, quell'opera, superando l'angustia delle varie agiografiche ricostruzioni in senso monarchico o repubblicano, interpretava per la prima volta in modo organico il nesso dialettico Mazzini-Cavour e la loro "involontaria" collaborazione.

Non accettò questa tesi uno storico che pure era stato assai vicino all'Omodeo nella battaglia politica e culturale antifascista, L. Salvatorelli. Questi, nell'accentuare, in contrasto con l'andazzo dei tempi, il momento etico su quello politico, sottolineò l'importanza dell'opera formatrice di Mazzini anche rispetto a quella svolta dal Cavour (nel quale, del resto, fin dal 1935, aveva distinto una "faccia" conservatrice e una liberale). La rivalutazione del "vinto" Mazzini e la perenne validità dei suoi ideali doveva suonare come monito per quanti facevano professione di un facile realismo politico e storiografico.Gli studî nel secondo dopoguerraLa dissoluzione interna del fascismo e della monarchia, la disastrosa fine della guerra, il ripristino del regime parlamentare hanno costituito uno stimolo assai efficace per un riesame critico del Risorgimento. Dal crollo dello stato italiano si è risaliti alla sua costituzione: ancora una volta la ricerca storiografica nasceva dalla necessità di chiarire alcuni problemi contemporanei, espressi dal mondo in cui si viveva e si lottava. Questa esigenza di carattere pratico da un lato evitava il limite rappresentato dalla pura erudizione fine a se stessa, ma dall'altro rischiava di trasformare la ricerca stessa in una querelle, di "travestire il passato con le vesti del presente", dandoci pamphlets fortemente politicizzati anziché opere storicamente distaccate.

In questo secondo dopoguerra si sono avuti, pertanto, diversi tentativi di nuove interpretazioni del Risorgimento, di ispirazione marxista, cattolica o radicale, miranti tutti, in sostanza, a sottolineare gli elementi negativi di quel processo storico, cioè le sue insufficienze liberali o la scarsa sensibilità per i problemi sociali e religiosi.

La corrente marxista ha ripreso una tesi formulata da A. Gramsci fin dal 1927 (e pubblicata su una rivista parigina nel 1930), ma conosciuta largamente in Italia solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale, mediante la pubblicazione di una vasta ricerca di E. Sereni (Il capitalismo nelle campagne,1860-1900, del 1947) e delle Opere di Antonio Gramsci (soprattutto Il Risorgimento, del 1949). Secondo tale tesi, il limite fondamentale del processo unitario nazionale sarebbe consistito nella mancanza di una rivoluzione agraria. I moderati avrebbero combattuto "più per impedire che il popolo intervenisse nella lotta e la facesse diventare sociale (nel senso di una riforma agraria) che non contro i nemici dell'Unità"; era mancato un partito "giacobino", che fosse tale "non per la forma esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economico-sociale", con il risultato che né moderati né democratici erano riusciti a rendere "nazionale" e "popolare" il R. per l'avversione dei primi e l'incapacità dei secondi a immettere nel movimento le masse contadine italiane. Queste masse erano mobilitabili; esistevano, cioè, le condizioni obbiettive per una rivoluzione agraria. E invece i democratici, che solo legandosi strettamente alle classi rurali avrebbero potuto differenziarsi dai moderati e costituire una concreta alternativa politica, avevano trascurato questa possibilità e s'erano lasciati guidare, in sostanza, dagli avversarî.

Lo stesso Gramsci, in una pagina in cui l'esigenza di carattere storicistico superò la polemica politica contingente aveva intravista la spiegazione del fenomeno. La causa della mancata formazione di un movimento giacobino era da ricercarsi nella debolezza della borghesia italiana e nel generale clima conservatore dell'Europa dopo il 1815. Il parallelo con la Francia, poi, andava fatto con estrema cautela: "La Francia da molti secoli era una nazione egemonica; la sua autonomia era molto ampia. Per l'Italia niente di simile: essa non aveva nessuna autonomia internazionale. In tali speciali condizioni si capisce che la diplomazia fosse completamente superiore alla politica creativa: fosse la sola politica creativa".

L'originalità dell'interpretazione gramsciana non ci sembra stia né nel carattere classista attribuito al R., perché (come L. Bulferetti ha ampiamente documentato) simili tentativi risalgono all'ultimo ventennio dell'Ottocento, e neppur nell'invito ad occuparsi delle classi subalterne (la storiografia romantica affrontò largamente il problema degli umili e del loro peso nelle vicende degli stati), ma nell'aver inteso le deficienze del R., nel quadro dell'intera civiltà italiana, caratterizzata fin dal Medioevo dal contrasto città-campagna risoltosi sempre a favore della prima. Non aveva, del resto, il Cattaneo, in un noto saggio, apparso nel 1858 sulle colonne del Crepuscolo, fatto della città "il principio ideale delle istorie italiane", il solo che rendesse possibile un'esposizione "evidente e continua" di trenta secoli di storia? La soluzione risorgimentale che aveva ignorato le esigenze del mondo contadino s'inseriva, in tal modo, in tutta una plurisecolare tradizione "cittadina". Il giudizio di Gramsci sul Risorgimento perciò, lungi dal costituire una semplice rivendicazione dell'importanza della "campagna" (sulla scia di quel che il Correnti fin dal 1852 aveva scritto a proposito della "cittadinerìa" considerata la peggiore "maledizione" italiana) o una forma di "revisionismo" risorgimentale che si esaurisse nella contrapposizione di quanto sarebbe potuto accadere di fronte alla concreta realtà storica, voleva essere una nuova concezione della storia d'Italia condotta tutta secondo un'angolazione critica costante e conseguente, la cui base teorica era l'allargamento dell'unità crociana storia-filosofia nella più vasta unità storia-filosofia-politica.

Il pericolo di questo stretto legame che assegna alla ricerca storiografica il compito, sia pure indiretto e mediato, di "suscitare forze politiche attuali" fu messo subito in rilievo dai maggiori rappresentanti della cultura idealistica da B. Croce a C. Antoni e a F. Chabod che ribadirono la "distinzione" tra l'attività conoscitiva e l'attività pratica, come unico mezzo per evitare l'"anacronismo" di giudizî che spostavano arbitrariamente nel passato, sotto la spinta di contingenti situazioni politiche, problemi posteriori di generazioni. R. Romeo ha ritenuto necessario, più recentemente, andare oltre la "mera discussione di principio" cercando d'intendere il pensiero del Gramsci "nell'ambito della sua particolare metodologia: salvo poi a tentare di tradurre i risultati di questa analisi in una interpretazione valida anche per correnti culturali di diversa ispirazione". Egli ha negato sia la possibilità di una rivoluzione agraria - anche se le condizioni dei quindici milioni di contadini erano di grande miseria e serpeggiava in quella massa un diffuso malcontento che si manifestava in sporadici moti di rivolta - sia il carattere progressivo di quella rivoluzione, se si fosse verificata.

Posizione non meno polemica hanno assunto in questo secondo dopoguerra nei confronti del R., e della sua interpretazione da parte della storiografia liberale, alcuni giovani studiosi di formazione cattolica ai quali la classe dirigente risorgimentale, costituita da una ristretta e aristocratica élite, è parsa insensibile verso le autentiche esigenze religiose delle masse e verso il grave problema sociale. Pari inadeguatezza aveva mostrato successivamente la storiografia risorgimentista che aveva rivolto la propria attenzione, nell'ambito del mondo cattolico, esclusivamente ai cattolici-liberali, cioè a quei gruppi transigenti pronti a giungere a un'intesa con lo stato unitario. Ma questi gruppi rappresentavano soltanto una piccola parte del cattolicesimo italiano. E la stragrande maggioranza di esso, e le masse "povere e incolte"? A queste si è rivolta la nuova indagine e al movimento intransigente (F. Fonzi) la cui opposizione verso le nuove istituzioni, né aprioristica, né esclusivamente legata a un legittimismo retrivo, avrebbe presentato notevoli aperture sociali destinate ad essere riprese e approfondite successivamente dal movimento cattolico. L'insufficienza religiosa e sociale dello stato unitario risaliva, secondo tale interpretazione, all'individualismo economico e politico dei liberali i quali, quasi a compenso dell'indifferentismo professato nel campo religioso, avrebbero diffuso "un culto esclusivo e assoluto" per la nazione e la dottrina dello stato etico, preludio a ogni possibile dittatura. Qualche studioso è andato anche più in là, stabilendo addirittura uno stretto rapporto tra laicismo, nazionalismo e razzismo. "Involuzione e degenerazione inevitabile (quella da civiltà a razza), conseguenza necessaria del laicismo su cui la civiltà medesima ha voluto costruirsi a qualunque costo, privandosi di quei concetti filosofici e religiosi di trascendenza, di rivelazione, di soprannaturale ecc., i soli che possono salvare i valori spirituali e rendere veramente universale una civiltà" (M.F. Sciacca).

A parte il legame laicismo-nazionalismo, in realtà tutt'altro che necessario (basta pensare all'atteggiamento di B. Croce e della più responsabile cultura liberale di fronte alle tendenze nazionalistiche), l'interesse che presenta la nuova corrente d'ispirazione cattolica non sta tanto nella sottolineata scarsa rappresentatività dello stato liberale e nella distinzione-opposizione tra paese legale e paese reale - motivi, questi, sparsi largamente in tutta la pubblicistica ottocentesca - ma piuttosto nel legame stabilito tra motivi religiosi e motivi sociali che dà un particolare carattere alla "protesta" cattolica. Il R. viene a configurarsi in tal modo come una rivoluzione meramente politica, che aveva espresso uno stato il cui rapporto con la società civile era rimasto formale e giuridico senza mai diventare intrinseco ed organico.

Andrebbe, invero, a questo proposito, approfondita la ricerca sulla funzione storica dello stato laico e liberale che costituì la condizione necessaria perché il movimento cattolico si affermasse come forza politica autonoma e perché le stesse rivendicazioni sociali sfuggissero a suggestioni corporative o paternalistiche.

Comune ci sembra ad ambedue le correnti, marxista e cattolica, l'intento di spostare l'indagine storiografica dalle élites alle masse, che si traduce nell'aspirazione ad acquistare consapevolezza sul piano culturale della loro passata e presente lotta politica. Da questo bisogno sono nate le numerose ricerche sul movimento operaio e contadino, sul movimento cattolico, sull'Opera dei Congressi, che hanno indubbiamente contribuito a diradare vaste zone d'ombra. Il problema, però, non si esaurisce in termini quantitativi: non si tratta di allargare la conoscenza storica, ma di concezioni filosofiche, che esprimono ciascuna una diversa interpretazione del passato, cioè una propria storiografia.

Ancora una revisione del nostro R., ma in senso democratico-radicale, è stata compiuta prevalentemente da storici anglo-sassoni, e da qualche settore culturale italiano si è guardato ad essa con aperta simpatia. Il problema centrale di quegli studiosi non era, in realtà, il R., ma il fascismo, le cui origini venivano cercate sempre più indietro nel tempo, quasi che il percorrere a ritroso la storia d'Italia costituisse una garanzia della validità della ricerca. I "vizî" della costituzione politica del nostro paese sono stati così rintracciati assai indietro nel tempo, oltre Giolitti, oltre Crispi, oltre il trasformismo per giungere addirittura a Cavour, la cui pratica di governo avrebbe dato un tono di disinvolta spregiudicatezza alla vita politica piemontese prima e italiana poi. L'alleanza con Rattazzi del 1852 - il "connubio" - avrebbe stabilito "la consuetudine di basare il potere su alleanze mutevoli, all'interno di un'amorfa maggioranza parlamentare, piuttosto che su di un singolo partito con un programma ben definito e coerente" (D. Mack Smith). I successori di Cavour avrebbero proseguito per la stessa strada, e la lotta politica avrebbe presentato perciò in Italia non "grandi contrapposizioni di principî" e una netta distinzione tra due partiti contrapposti, ma ondeggiamenti opportunistici e una continua equivoca collaborazione tra forze intrinsecamente diverse.

È stato già osservato, a questo proposito, che "la rappresentazione della vita italiana prima del fascismo unicamente come una sequela di guai, e come lo sviluppo fatale di una malattia in cui si preparava la catastrofe, sarebbe una geremiade efficace nelle prediche, utile forse nella politica militante, ma non certamente un discorso storico" (N. Valeri). Ma c'è anche un'obbiezione di principio che deve essere mossa a ricerche del genere, riguardante la liceità o meno, sul piano metodologico, di condurre un'indagine puramente strumentale su di un determinato periodo storico (il Risorgimento) per cercarvi le origini di un fenomeno successivo (il fascismo). Non si tratta, ovviamente, di negare quei "legami nascosti ma pressoché infrangibili che stringono le idee di un secolo a quelle del secolo che l'ha preceduto" (A. de Tocqueville), ma di ricordare l'importanza del richiamo di L. von Ranke intorno al valore "autonomo" di ogni epoca. La ricerca storica si basa infatti proprio sulla capacità di cogliere quel che caratterizza un certo periodo e lo distingue dagli altri, vale a dire la sua individualità, condizione indispensabile per ricavare un nesso che non sia meramente causalistico fra periodi contigui.

Ma anche volendo porre l'accento sulla continuità, il problema va posto su un piano assai più ampio e argomentato in maniera adeguata, come ha fatto Lewis Namier, secondo il quale la vera essenza del principio di nazionalità è la volontà di dominio e di sopraffazione che si può manifestare liberamente nel posteriore nazionalismo, una volta caduta la quarantottesca "doratura idealistica".

La contrapposizione stabilita in tal modo tra nazionalità e libertà non può però essere accettata, almeno per quanto concerne l'Italia, dove l'idea di nazionalità è decisamente volontaristica, poggia cioè non già su caratteri etnici, geografici e territoriali, ma piuttosto su una cultura, un'educazione una tradizione comuni ed è collegata intimamente all'idea di libertà (F. Chabod).

Distinguere, comunque, l'Italia del R. e del postrisorgimento dal fascismo non vuol dire contrapporre un periodo idilliaco a un periodo "negativo", rendendo implicitamente inspiegabile il passaggio dall'uno all'altro (secondo l'accusa frequentemente mossa alla Storia d'Italia dal 1871 al 1915 del Croce). La dimostrazione di come sia possibile intendere il nesso tra le due epoche rimanendo sul piano storico, pur tenendo nel debito conto l'esperienza della ventennale dittatura, l'ha fornita lo Chabod con la Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, certamente crociana come ispirazione - il giudizio sull'Italia risorgimentale non differisce sostanzialmente da quello del Croce - ma con un accento pessimistico del tutto originale, recentemente sottolineato da G. Sasso. Scrivendo tra il 1940 e il 1951 quelle pagine, mentre il destino dell'Europa andava fatalmente compiendosi, Chabod dovette sentire particolarmente vicino il dramma del continente europeo dopo il 1870, allorché la Machtpolitik bismarckiana sembrò dominare incontrastata nei rapporti fra le potenze, e gli ideali coltivati nel mezzo secolo precedente apparvero oggetto di irrisione e di compatimento. Nell'Europa di Bismarck e nell'Italia postunitaria, Chabod colse lo svuotarsi progressivo del mondo risorgimentale e dei suoi ideali quarantotteschi, l'involuzione del principio di nazionalità, fautore di libertà, nel nazionalismo oppressore dei popoli. Al posto del convenzionale quadro della belle époque, Chabod delineava in tal modo una società che celava in sé i germi che l'avrebbero distrutta, assai distante, comunque, dalla vecchia Europa ottocentesca ispiratrice delle burckhardtiane riflessioni sul piccolo stato ch'egli aveva a lungo meditato.


da http://noicrediamo.acmos.net/

(tratto da A.De Bernardi-S.Guarracino, I saperi della storia, Bruno Mondadori 2006, pp.608-9)
 
In questa lunga vicenda di dibattiti e interpretazioni si possono distinguere quattro fasi: la prima riguarda l'iniziale riflessione critica sul Risorgimento che si apri all'interno stesso dei movimenti che stavano contribuendo alla sua riuscita all'indomani del biennio rivoluzionario 1848- 49; la seconda coincide con i primi decenni postunitari e fu incentrata essenzialmente sul tentativo di dare  un'immagine mitica  del processo di formazione dello stato unitario; la  terza consiste nell'ampia e complessa discussione che si aprì sul Risorgimento in epoca fascista, soprattutto dopo la pubblicazione nel 1928 del saggio del filosofo Benedetto Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1914; la quarta è quella che prese avvio con la pubblicazione nell'immediato secondo dopoguerra dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci.

Analizziamo separatamente ciascuna di queste fasi.
 
La riflessione critica all'interno dei movimenti artefici del Risorgimento.

Come si è detto, la prima fase coincise cronologicamente con gli eventi stessi che portarono all'unificazione nazionale, e il dibattito storiografico si intrecciò con quello politico, anzi ne fu una parte integrante fino a giungere quasi a sovrapporsi. Già dopo il fallimento della rivoluzione del 1848-49 si aprì un ampio dibattito tra i democratici (Carlo Cattaneo, Mazzini, Pisacane, Ferrari, Montanelli) e tra i liberali moderati (La Farina, Cesare Balbo, Farini) nel quale si delinearono alcune questioni che caratterizzarono in maniera permanente il dibattito storiografico fino ai giorni nostri: la funzione che il Piemonte venne assumendo nel processo risorgimentale; il ruolo della casa Savoia nel determinare gli esiti della battaglia nazionalistica; l'influenza della rivoluzione francese e più in generale della Francia nelle vicende italiane; gli esiti storici che la mancata o la scarsa partecipazione dei ceti popolari ebbe sui caratteri del moto risorgimentale e sulla futura connotazione dello stato unitario.
 
Le ricostruzioni ideologiche del processo unitario.

Dopo questa fase ricca di contrasti e di chiaroscuri, il dibattito si mosse in direzione opposta. Nei decenni immediatamente postunitari infatti gli storici, tra cui spiccano Nìcomede Bianchi con la sua monumentale Storia documentata della diplomazia europea in Italia dall'anno 1814 all'anno 1861, scritta fra il 1865 e il 1872, e Carlo Tivaroni, con la sua Storia critica del Risorgimento italiano, pubblicata a partire dal 1888, tentarono di ricostruire un'immagine mitica e profondamente ideologica del Risorgimento. Come ha scritto lo storico contemporaneo Giorgio Candeloro: "Si venne formando, pur attraverso persistenti polemiche tra monarchici e repubblicani, l'immagine di un Risorgimento perfettamente concluso con la formazione del regno d'Italia e sì diffuse quindi la tendenza a considerare la contrastante attività delle correnti politiche risorgimentali come cospirante, quasi per disegno provvidenziale, ad una soluzione da accettarsi ormai da tutti senza discussioni nei suoi due aspetti fondamentali: l'unità e la monarchia sabauda».

Esempio, forse meno noto, ma non meno significativo di questa tendenza fu la ricostruzione storica che del Risorgimento ci consegnò Alessandro Manzoni in alcune sue note sparse del 1873, che in parte confluirono nel trattatello Dell’indipendenza italiana. «Certo – scriveva Manzoni - a nessuna mente umana era dato di predire la successione dei mezzi con cui l'Italia sarebbe arrivata alla sua mirabile formazione e che, tra questi mezzi, uno dei più potenti, anzi il solo efficiente e determinante, avesse a essere la concordia, allora tanto lontana, degli Italiani, nell'intendere e nel volere, delle specie immaginate, di una tale formazione, la sola desiderabile. E fu però questa concordia che, iniziata dai primi fatti [...] d'un re e di un popolo d'una parte d'Italia, e portata sempre più avanti da una continuità non interrotta di fatti consentanei ai primi, pervenne in dieci anni, a quell'alta maggioranza che, nelle cose del genere è la sola sperabile e, come l'esito ha mostrato, poté ciò che volle.»

Questa storiografia,  tutta  rivolta,  per  dirla con  Gramsci,  a  ricostruire una  ideale  e spesso  ideologica «biografia della nazione», cominciò a mostrare notevoli crepe già sul finire dell'Ottocento; una serie di saggi, prevalentemente di storici appartenenti alla cosiddetta scuola economico-giuridica - tra cui spicca Antonio Anzillotti -, allargarono l'orizzonte delle ricerche agli aspetti economici che sottesero il Risorgimento e ai diversi gruppi sociali di cui fu espressione.
 
L'interpretazione del fascismo e quella dei liberali

La terza fase del dibattito si intreccia strettamente con la crisi dello stato liberale e con l'avvento del fascismo. Si sviluppò una riconsiderazione storica delle vicende risorgimentali orientata su due direttrici di fondo: quella degli storici fascisti come Gioacchino Volpe che, riprendendo la valutazione positiva del Risorgimento come "conquista regia della casa Savoia, spostavano l'accento sulla costruzione della compagine statale unitaria e individuavano nel fascismo l'esito culminante di tutte le vicende risorgimentali; quella degli storici liberali fortemente ispirati da Croce, che si mossero in direzione di una complessa opera di rivalutazione della linea d'intervento del movimento liberale. In questa corrente di pensiero si inserisce il libro di Adolfo Omodeo su L'opera politica del Conte di Cavour, uscito nel 1940, in cui veniva ricostruita l'elaborazione dello statista piemontese riuscendo a mettere in luce il ruolo da lui svolto nella formazione del regime parlamentare nello stato italiano.

Questo lavoro si configurava soprattutto come risposta alle tesi sostenute diversi anni addietro da un giovane intellettuale torinese, Piero Gobetti, militante antifascista, morto esule a Parigi appena venticinquenne anche per le conseguenze di una barbara aggressione di alcuni squadristi torinesi. Gobetti, nello sforzo di individuare le ragioni della crisi dello stato liberale, operò una profonda revisione delle analisi storiografiche del Risorgimento, definendo il processo di creazione dello stato unitario una "rivoluzione fallita". Per "rivoluzione fallita" Gobetti intendeva il fatto che la direzione liberale e moderata del movimento risorgimentale non era riuscita a coinvolgere le grandi masse popolari, formando sulla loro partecipazione le basi sociali della nuova compagine sorta dalla lotta per l'indipendenza.

Omodeo sostenne invece che la rivoluzione non era affatto fallita, anzi aveva sortito gli esiti migliori, perché era stata il trionfo di quel liberalismo moderato incarnato dalla figura dì Cavour, che aveva contribuito maggiormente alla realizzazione del Risorgimento.
 
Gramsci e la rivoluzione fallita.

La nuova fase di dibattito si aprì dopo la Seconda guerra mondiale. Fu soprattutto per merito di Antonio Granisci e delle felici elaborazioni contenute nei famosi Quaderni, compilati durante la lunga carcerazione impostagli dai tribunali fascisti, che la riflessione critica sul Risorgimento fece un notevole salto di qualità, esplorando nuovi territori e confrontandosi con nuove e più ampie problematiche. Analizzando la vittoria dei moderati, Gramsci la spiegava con il fatto che essi erano un gruppo di intellettuali socialmente e culturalmente omogeneo con le classi e i ceti, la grande e la media borghesia, sia urbana sia rurale, che di fatto alimentarono ed egemonizzarono il processo unitario. I democratici al contrario non erano l'espressione politica di classi omogenee; per esserlo avrebbero dovuto trasformare il loro programma in senso sociale, come indicavano Pisacane e Ferrari, diventando il partito dei lavoratori poveri e delle masse contadine diseredate, prevalentemente meridionali. Essi non operarono questa conversione del programma e rimasero stritolati politicamente tra l'egemonia moderata della borghesia e l'immobilismo popolare. Il Risorgimento era quindi una "rivoluzione fallita" perché non aveva saputo raccogliere, attraverso una decisa riforma agraria, l'adesione delle masse contadine, che rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione, allargando così le basi dello stato e garantendo il superamento dell'arretratezza economica di tanta parte del paese.

Gramsci intende anche come “rivoluzione passiva” quella in cui i liberali moderati hanno avuto strategicamente la meglio sui repubblicani democratici mantenendo l’ordine feudale esistente causando la permanente spaccatura tra Stato e società civile. Il fascismo è la diretta conseguenza di questa situazione, cioè un tentativo della borghesia debole di ridefinire un sistema politico che stava crollando.

Questa chiave interpretativa fu ripresa da parecchi studiosi e divenne il punto di riferimento teorico di numerose ricerche tra cui spiccano quelle di Emilio Sereni, di Giuseppe Berti, di Franco Della Peruta e di Giorgio Candeloro. Queste posizioni critiche, che configurano una vera e propria scuola storiografica di ispirazione marxista, suscitarono notevole opposizione, soprattutto sul problema della questione agraria nel Risorgimento.

Lo storico Rosario Romeo, per esempio, in due interventi comparsi sulla rivista "Nord-Sud" nel 1956 e nel 1958 sostenne che la posizione degli storici gramsciani era errata, quando attribuivano alla mancata riforma agraria l'arretratezza della società e dello stato italiano, perché l'accumulazione di capitali che si verificò dopo l'Unità (la cosiddetta accumulazione primitiva) e che consentì il decollo industriale di fine Ottocento non si sarebbe potuta determinare se una redistribuzione delle terre avesse impedito una rivoluzione agricola di segno capitalistico, soprattutto nelle campagne settentrionali.

In opposizione alle interpretazioni marxiste, gli storici liberali (Romeo, Luzzatto) sottolineano gli ostacoli al progresso politico ed economico dell’Italia: la dipendenza dalle potenze straniere, la discordia interna, l’arretratezza dei governi reazionari.

Le ricerche di Romeo, fortemente influenzate dai nuovi approcci della storia economica e della teoria dello sviluppo, aprirono una nuova prospettiva di studio indirizzata all'analisi della storia dell'industrializzazione italiana, che avrebbe costituito negli anni seguenti il vero centro degli interessi della storiografia italiana.

Luzzatto critica l’interpretazione del Risorgimento come espressione borghese, dal momento che questa classe sociale non esisteva a causa dell’assenza di uno sviluppo economico pre-1960. Le interpretazioni marxiste e liberali condividono l’esigenza di spiegare il significato della vittoria moderata del Sessanta alla luce degli insuccessi successivi dell’Italia Liberale: idea di una deviazione rispetto a modelli democratico-borghesi.
 
La storiografia revisionista.

L’unificazione nazionale viene considerata una soluzione parziale a problemi specifici, non un momento di rottura con il passato: rimessa in discussione di nessi causali prima consolidati.  Per i revisionisti, l’idea di deviazione italiana è stata inventata dagli storici influenzati da modelli di spiegazione deterministici dello sviluppo politico ed economico. Si tende, così, a sottolineare gli aspetti positivi dei regimi pre-unitari e a inserire la crisi dei governi della restaurazione e l’unificazione in un contesto più ampio: l’unità è esito di processi diversi, a volte contraddittori, identificabili con l’affermazione degli stati moderni, con la formazione di una cultura nazionale basata su lingua e economia capitalista. La storiografia revisionista non analizza l’azione politica, dimentica gli elementi di conflitto e di crisi dell’Italia 800.

La dimensione culturale

Nuova corrente di ricerca che ha orientato la propria attenzione sulla creazione, nell’ambito della cultura romantica, di un’idea di Italia. Il tentativo di Banti (La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell'Italia unita 2006) è quello di rimettere in discussione l’immagine dell’identità Italiana frammentata, indebolita dai conflitti interni: esisteva “una sorta di narrazione coerente della nazione italiana, un discorso ricco di rimandi e di coerenze, una sorta di pensiero unico della nazione” che attingeva ad un comune repertorio di temi, metafore e simboli.

Il Risorgimento viene considerato un movimento di massa, attivamente partecipato dai cittadini (nelle sue guerre, nella lotta politica, nelle feste e commemorazioni), che ha creato un movimento culturale più ampio, di portata europea. L’approccio secondo cui si mette al centro la cultura permette di mettere in rilievo il processo di “italianizzazione” già precedente l’Unità: pur mantenendo una dimensione locale, l’attività culturale iniziò a proporre temi, linguaggi, rituali “Italiani” (cfr: il campo musicale, pittorico e soprattutto teatrale; lo sviluppo della lingua italiana; la nascita di associazioni economiche e scientifiche nazionali).

L'interpretazione gramsciana del Risorgimento

www.filosofico.net

A cura di Diego Fusaro

La maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia. (Quaderni del carcere, 10, II)

Gramsci ha meditato a lungo sul processo storico che, nel secolo XIX, ha prodotto la travagliata costituzione dello stato italiano unitario. A suo avviso, tale processo è stato diretto fondamentalmente da forze moderate, e il cosiddetto Partito d' azione (cioè il complesso di gruppi e di correnti che si richiamavano in parte a Mazzini e a Garibaldi) si è rivelato incapace di svolgere un'opera adeguatamente incisiva e trasformatrice nel contesto politico del tempo.

Quella risorgimentale è stata, per usare una celebre espressione gramsciana, una "rivoluzione mancata" - e la causa e la natura di tale "mancanza" sono state essenzialmente di carattere sociale. In effetti il limite storico del Partito d' azione va individuato nel fatto che è rimasto sempre un partito borghese di élite, non disposto o non capace di ricercare l' appoggio dei ceti non borghesi. Quali ceti?

E' qui che Gramsci mostra la sua relativa eterodossia rispetto alle tesi canoniche del marxismo. Egli sa bene che nell' Italia dell' Ottocento non c' era un proletariato industriale e tanto meno una classe operaia organizzata - ossia il solo soggetto sociale in grado, secondo i princìpi marxisti, di promuovere una trasformazione radicale della società. L' autore dei Quaderni del carcere ritiene però che il risorgimento avrebbe potuto e dovuto ugualmente assumere un carattere rivoluzionario, acquisendo il consenso dei contadini. Proprio questi ultimi costituivano, infatti, quella massa popolare la cui partecipazione all'azione risorgimentale le avrebbe dato un sostanziale contenuto sociale e un adeguato impulso rinnovatore.

Gramsci precisa che il movimento democratico avrebbe realizzato tale disegno e tale strategia se fosse stato capace di farsi partito "giacobino": se avesse saputo far propri gli interessi e le esigenze della classe contadina attraverso una riforma agraria volta a spezzare il latifondo e a creare un ceto di contadini piccoli proprietari. Proprio questo obiettivo era stato tenuto presente dai giacobini francesi, i quali avevano in tal modo evitato l' isolamento delle città e convertito le campagne alla rivoluzione. Solo così essi erano riusciti a superare la situazione di minoranza elitaria in cui si erano trovati inizialmente, e a sconfiggere le forze della reazione aristocratica.

Tutto ciò non significa per Gramsci che il risorgimento sia stato un processo storico completamente negativo. In effetti esso ha favorito non solo l' unificazione della penisola ma anche la crescita della borghesia, gettando con ciò alcune premesse per lo sviluppo di una fase capitalistica in Italia. D' altra parte tale sviluppo si è realizzato in misura insoddisfacente; inoltre il nuovo stato si è costituito su una base sia economico sociale che politica assai ristretta.

In effetti, per un verso il neonato capitalismo (concentrato nelle sole regioni settentrionali), non ha potuto usufruire di un adeguato mercato per i suoi prodotti, a causa dell'arretratezza economica della società italiana, soprattutto meridionale. Per un altro verso le masse indigenti (in primo luogo i ceti contadini) abbandonate sostanzialmente a loro stesse, non sono riuscite a divenire parte attiva della nuova compagine statuale. Quanto ai raggruppamenti politici anche più aperti e democratici, si sono rivelati incapaci di approfondire i loro legami con le forze sociali potenzialmente disponibili a un' azione di reale emancipazione.

Se tutto ciò è vero, si tratta per Gramsci di elaborare le condizioni di una profonda trasformazione della realtà italiana emersa dal processo risorgimentale: una trasformazione il cui obiettivo finale deve essere quella rivoluzione sociale - anzi socialista - che il risorgimento non ha saputo compiere. A giudizio di Gramsci, tale rivoluzione potrà essere fatta solo attraverso un' alleanza tra proletariato settentrionale e contadini meridionali: sono essi, infatti, i soggetti sociali concretamente interessati alla realizzazione di un progetto politico così impegnativo e radicale.