Pierre Milza, Serge Berstein
Il Fascismo
Storia Universale
RCS, Milano 2004
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
LA SOCIETÀ FASCISTA E LA SUA CULTURA
Nel discorso fascista - fin dalle origini tumultuose dell'immediato
primo dopoguerra - si riscontra una vera ossessione, continuamente
e rumorosamente ostentata, di riplasmare il corpo sociale e di
trasformarlo radicalmente, non solo nei rapporti fra le classi ma
nell'uomo stesso come prodotto di una storia e di una cultura di
cui il fascismo respinge l'eredità. Un programma, se vogliamo,
rivoluzionario, nella misura in cui il fascismo condanna e
combatte, almeno verbalmente, ciò che lo ha preceduto: l'ideologia,
il modello politico e l'egemonia culturale della borghesia liberale
come si sono imposti nell'Italia giolittiana, nell'«Italietta» di
cui i nazionalisti e futuristi, all'alba del secolo, denunciavano
il languore decadente.
A che fine? Secondo la fraseologia mussoliniana, quello di edificare
una società senza classi fondata sulla cooperazione dei diversi
gruppi sociali fusi in un progetto comune, un «uomo nuovo» che
rompesse i suoi legami col «mondo borghese» per rifarsi alle virtù
virili dell'antica Roma. Apparentemente era una condanna del
capitalismo, principale portatore del dominio borghese, dei
privilegi di classe e di tutto ciò che nel campo del pensiero,
dell'arte, della religione aveva potuto costituire da collante della
classe dirigente italiana nel periodo che va dagli inizi del
Risorgimento alla guerra.
La realtà è ben diversa. Quanto al capitalismo, vediamo che, se il
«primo fascismo» ne denunciò vivacemente le colpe, il «secondo
fascismo», quello che dopo la grande paura dell'estate 1920 parte
all'assalto del potere, e soprattutto il «terzo fascismo», promotore
dello Stato totalitario, sono astrattamente legati ad esso. D'altra
parte non c'è dubbio che ben lungi dall'essere distrutto dal
fascismo, secondo le promesse del primo programma dei fasci, il
capitalismo italiano aveva trovato in esso un difensore che lo
aveva salvato dalla rivoluzione e dal fallimento e poi lo aveva
rafforzato nelle sue strutture e nei suoi strumenti d'azione.
Globalmente questo aveva comportato un consolidamento del potere
economico e dei privilegi della vecchia classe dirigente la cui
contropartita era stata l'abdicazione -vissuta come del tutto
provvisoria - dal potere politico. Bisogna infine rilevare la
grandissima difficoltà incontrata dal fascismo nell'imporre i suoi
modelli «innovatori» nel campo culturale che restò fino agli
ultimissimi anni del «ventennio» dominato dai modi di pensare e di
sentire delle élites professionali.
C'è dunque una contraddizione fondamentale fra i fini dichiarati dal
fascismo e la realtà della sua azione in tutti i campi inerenti la
ristrutturazione della società italiana. In tali condizioni come
riuscirono i padroni dell'Italia nuova a nascondere questa evidenza
per attenuarne gli effetti? Da una parte, conferendo all'insieme del
corpo sociale un'apparenza di coesione e di uniformità, il che
implicava da parte loro una volontà di ristrutturarlo almeno
formalmente, di imporre ai gruppi che lo componevano obiettivi
comuni. Poi facendo in modo che ognuno di questi gruppi potesse
trovare nello Stato corporativo e totalitario un minimo di vantaggio
materiale o morale, cercando di realizzare quella integrazione delle
masse che lo Stato liberale borghese non era riuscita a raggiungere.
1. Le classi dirigenti e il fascismo
Benché la classe dirigente mussoliniana si sia compiaciuta per più
di vent'anni di esaltare gli aspetti «rivoluzionari» del regime, non
si può sostenere che il fascismo abbia modificato in maniera
rilevante la società italiana. Certamente, la classe dirigente, che
aveva sostenuto e finanziato il fascismo a partire dal 1920 e che
due anni più tardi lo aveva portato legalmente al potere avendo
visto in esso l'occasione per insediare un regime eccezionale
temporaneo, capace di operare una «controrivoluzione preventiva» e
di consolidare il suo potere economico smantellando le
organizzazioni operaie, aveva perso alcune sue prerogative
politiche. Sarebbe semplicistico e ingiustificato, come abbiamo
visto, considerare il fascismo una pura e semplice espressione
politica del «grande capitale», interpretazione che negli anni '20,
a parte qualche sfumatura, venne adottata ufficialmente
dall'Internazionale comunista. In realtà, lo Stato fascista,
risultato di un'alleanza fra la borghesia capitalistica e le classi
medie, si fondava su un compromesso, il che gli permise di mantenere
un certo margine di autonomia rispetto alle categorie sociali che
costituivano il «blocco al potere». Questa analisi venne intrapresa
con molta chiaroveggenza dal tedesco August Thalheimer e dal teorico
marxista italiano Antonio Gramsci che partirono dall'esempio del
bonapartismo, pur sottolineando le differenze fra tale forma di
Stato d'eccezione e il fascismo. In particolare, per Gramsci le
classi economiche dominanti non esercitavano all'interno del blocco
al potere un'egemonia assoluta, come potrebbe esprimersi attraverso
una dittatura militare pura e semplice. Ciò significa che per
conservare il proprio potere socio-economico esse sacrificano
almeno parzialmente - e, lo ripetiamo, provvisoriamente - il loro
dominio politico cedendolo a un «salvatore» che proviene
direttamente dalla piccola borghesia - come avvenne anche in
Germania - e che basando su di essa il proprio prestigio deve
necessariamente farla partecipare alla direzione dello Stato.
Di fatto, questa ripartizione del potere si traduce in un apparente
imbrigliamento delle classi dirigenti. Lo stato maggiore e gli alti
gradi dell'esercito si vennero a trovare rigidamente sottoposti al
regime anche se in questo campo Mussolini non volle alienarsi le
simpatie della corte procedendo, come avrebbe poi fatto Hitler, a
epurazioni rapide e di massa. Gli alti funzionari, i quadri della
diplomazia, i notabili locali, membri dell'aristocrazia o dell'alta
borghesia dovettero in molti casi, a partire dagli anni '30, cedere
il posto a «uomini nuovi», squadristi della prima ora giudicati più
sicuri e rispondenti agli ideali del regime.
Mussolini non si privò d'altra parte del piacere di costringere
quella borghesia che aveva sempre detestato e che aveva consegnato
il proprio potere nelle sue mani a piegarsi davanti a lui. Gli
esempi non mancano. Uno dei più significativi è quello degli
accademici, senatori, personalità del mondo delle lettere e delle
scienze, insomma tutti quei numerosi notabili che si erano adeguati
al fascismo e che il Duce costrinse a montare la guardia, come
semplici funzionari, alla porta del Palazzo delle esposizioni in
via Nazionale, dove si teneva, nel 1932, la mostra della
rivoluzione fascista. Per non citare che un caso, si vide
l'illustre scienziato Marconi, premio Nobel per la fisica e
presidente dell'Accademia reale d'Italia, senatore insignito di
titolo nobiliare, fare la sentinella insieme a fascisti di rango. Il
che farà dire al vecchio quadrumviro De Bono, nel suo Diario (1934):
«Non capirò mai certi metodi e costumi fascisti! Una guardia
composta da senatori, deputati e generali alla mostra della
rivoluzione!». Ma il fascismo subissava di onori i rappresentanti
della classe dirigente. Soprattutto, offrì agli agrari, agli
industriali e agli uomini d'affari, in cambio della loro docilità e
adesione al regime, un incontestabile rafforzamento del loro dominio
economico, accelerando le tendenze monopolistiche del capitalismo
italiano e svuotando, attraverso il pretesto del corporativismo, le
rivendicazioni della classe operaia. Fece persino un «recupero»
della vecchia aristocrazia, una categoria sociale che era stata in
larga misura emarginata dal regime liberale e che ricomparve ai
posti di comando non solo nei piccoli centri di provincia, dove
spesso occupò la carica di podestà1 ma anche nei consigli di
amministrazione delle banche e delle imprese del settore
semi-pubblico.
Notiamo così che dietro la facciata marziale del regime e a dispetto
delle ampollosità di un discorso che si vuole anticonformista e
antiborghese si nasconde una realtà di «restaurazione compiuta e
cristallizzata» (G. Procacci) dell'ordine borghese. Fra l'altro lo
dimostrano il fallimento della riforma della scuola introdotta dal
filosofo ufficiale del regime G. Gentile che si tradusse in un
rafforzamento del carattere elitario e delle discipline
tradizionali della scuola italiana, e i segni evidenti della
ritrovata prosperità della borghesia: il boom della speculazione
immobiliare, il turismo di lusso, i viaggi all'estero. Tutto ciò
almeno fino alla crisi che colpì duramente, anche se in modo molto
ineguale secondo gli ambienti e il reddito, la società italiana.
2. Un governo delle classi medie?
Padrone del potere, legato agli ambienti economici, finanziari e
agli agrari, il fascismo non può però rinnegare del tutto le sue
origini piccolo-borghesi. Se non altro perché gli uomini che
controllano gli apparati di Stato in maggioranza sono membri della
piccola borghesia. Lo voglia o no, Mussolini deve tenere conto di
questa situazione e soddisfare, in un modo o nell'altro, gli
interessi delle classi medie.
Tale situazione rappresenta una contraddizione perché in larga
misura il fascismo favorì l'evoluzione monopolistica del
capitalismo italiano. Incontestabilmente durante il ventennio
dell'era fascista, la piccola borghesia fu, in senso economico, una
delle principali vittime del regime. In generale, la politica che
esso condusse colpì gravemente il piccolo commercio e la piccola
impresa. Bisogna però sottolineare due fatti.
Prima di tutto, come ha dimostrato acutamente Nicos Poulantzas2,
l'affermazione del capitalismo «monopolistico» (un termine non del
tutto esatto, ma che ha il vantaggio di essere comodo e largamente
usato) in una data formazione sociale in generale si accompagna a
una controtendenza al mantenimento di un debole settore di piccoli
produttori e di piccoli commercianti. «Gli alti costi di
produzione» scrive Poulantzas, «gli elevati prezzi di costo della
piccola produzione e gli alti prezzi di vendita del piccolo
commercio rendono plausibili gli alti prezzi cartellizzati fissati
dai grandi monopoli e dalle catene dei grandi magazzini. I grandi
monopoli mascherano così, nel confronto con la piccola produzione e
il piccolo commercio, i super-profitti che realizzano.» Queste
osservazioni concorrono a spiegare come il fascismo abbia potuto
imporre agli ambienti industriali e finanziari una serie di
compromessi a favore della piccola borghesia e che perciò, per
tutto il periodo, sia stato mantenuto in vita un settore
artigianale relativamente consistente (nel 1936 esso rappresentava
ancora più del 25% della popolazione attiva del settore
industriale). Si tratta però solo di un correttivo alla tendenza
generale alla parziale espropriazione della piccola borghesia e
alla contrazione del suo potere d'acquisto.
Di qui - ed è il secondo fenomeno caratteristico - la necessità di
fornire alle classi medie economicamente lese compensazioni di ogni
tipo. La politica di grandezza e prestigio condotta dal regime
certamente fece parte di questa prospettiva. Ma c'è di più. Il
fascismo offrì alla piccola borghesia possibilità di promozione
reali, attraverso la mediazione del partito e delle organizzazioni
che ne dipendevano, a cominciare dalla milizia. Sia a livello
locale sia a livello nazionale le classi medie soprattutto urbane
fornirono i quadri del PNF e degli organi ad esso collegati. La
piccola borghesia trovò in tale situazione vari vantaggi: di
prestigio, certamente, perché i responsabili delle organizzazioni
fasciste giocavano sul piano locale il ruolo di «nuovi notabili» che
soddisfo il loro desiderio di potenza e permise loro di compensare
la modesta situazione economica. Ma anche vantaggi materiali che
venivano dai posti di responsabilità, anche minori, nel partito, che
permettevano di ottenere fruttuose rendite di posizione (gli spacci
di sale e tabacchi, per esempio, che erano monopolio dello Stato),
o di fare carriera nella pubblica amministrazione, dato che i posti
di funzionario erano sempre più di frequente occupati da fascisti di
provata fede. Con questi mezzi si realizzò, prevalentemente, il
rinnovamento della classe dirigente. Grazie all'epurazione dei
quadri amministrativi, che iniziò già nel 1922, ma assunse
carattere più ampio fra il 1926 e il 1928 nel periodo della svolta
totalitaria del regime, molti dirigenti locali dello squadrismo
ottennero posti importanti nella funzione pubblica. Con l'aiuto
della corruzione, si costituì progressivamente una nuova borghesia
nata dal fascismo che non tarderà a fondersi con la vecchia classe
dirigente.
Non bisogna però trarre da queste osservazioni la conclusione che
il fascismo per tutto il ventennio abbia funzionato come una specie
di noria sociale capace di assicurare un continuo rinnovamento dei
quadri della nazione. Al contrario. Una volta installata ai posti di
comando, la nuova élite intendeva restarvi e trarne il massimo
profitto. Questo è vero soprattutto per le alte sfere dirigenti del
regime e lo dimostra la estrema stabilità della composizione del
Gran Consiglio o del personale ministeriale. A livello più modesto,
si assiste a un fenomeno analogo, ma con un certo ritardo. Fino al
1936-1937 si opera un ampio rimescolamento nei livelli intermedi
del partito e delle organizzazioni parallele e ne beneficiano
soprattutto i giovani. La parola d'ordine «largo ai giovani» e
l'inno del fascismo, Giovinezza, erano elementi importanti
dell'attrezzatura ideologica del regime e della sua immagine, sia in
Italia sia all'estero. Ma dopo la guerra d'Etiopia le cose
cominciarono a cambiare e alla vigilia della guerra una certa
rigidità si era impadronita dell'apparato del partito e dello Stato,
il che in una certa misura può spiegare l'impazienza e la «fronda»
caratteristiche di una parte della gioventù fascista.
Si realizzò dunque - e questa fu una caratteristica saliente del
regime fascista - una vera e propria spartizione del potere fra
l'alta borghesia, classe dominante che rafforzò il proprio
predominio economico e che in larga misura ispirò le opzioni
fondamentali del regime, e la classe media, classe «di Stato»
secondo Poulantzas3, che ne assunse la gestione, mentre il Duce
costituiva la chiave di volta del sistema. Così si perpetuò, dopo
la presa del potere, l'alleanza di due categorie sociali i cui
interessi economici erano in conflitto.
Ciò non significa che le tensioni fossero del tutto scomparse.
L'emergere, negli anni immediatamente precedenti la guerra, di una
nuova «sinistra» fascista e il consenso da essa suscitato in
ambiente studentesco (cfr. Lungo viaggio attraverso il fascismo),
la sua opposizione all'«imborghesimento» del regime e del partito
rappresentano certamente una risorgenza del «primo fascismo» in una
fase in cui si manifestano ormai chiaramente gli effetti della
concentrazione monopolistica, la corruzione delle alte sfere del
potere e la prepotenza dei «parvenus dai gusti volgari e dalla
cultura approssimativa» (G. Procacci), che gli gravitano intorno.
Vecchi ras dello squadrismo elevati alla dignità di gerarchi,
trafficanti d'alto bordo che operavano nell'ombra del partito e
della burocrazia di Stato, membri del «clan Petacci» ecc. In questo
contesto di conflitti si inserisce anche il duplice complotto del
luglio 1943, quello della corte, interprete della classe dirigente
tradizionale che era diventata ostile a un regime che rischiava di
trascinarla nella sua caduta, e quello dei gerarchi del Gran
Consiglio, che rappresentavano la nuova borghesia sorta dal
fascismo ribelle ormai a un sistema che a partire dal 1938 si era
radicalizzato affermando sempre di più la priorità della politica
sull'economia, cioè sugli interessi del mondo degli affari.
3. Operai e contadini
Il totalitarismo fascista nutriva una volontà dichiarata di
integrare le masse. In ciò si differenziava da altre forme di Stato
d'eccezione insediate dalla borghesia, come la dittatura militare
classica o i regimi autoritari e reazionari che si diffondono in
Europa nel periodo fra le due guerre. Questa volontà presupponeva
in primo luogo l'irreggimenta-zione delle masse e il loro
inquadramento: a questo pensava il sistema corporativo che in
questo compito trovava la sua funzione essenziale. Bisognava poi
concedere alle classi popolari certi vantaggi che, senza
pregiudicare i superiori interessi del capitalismo, permettessero
di far aderire al regime almeno una parte dei lavoratori.
Agli operai dell'industria il fascismo dedicò certamente uno
speciale riguardo. Mussolini, che aveva mantenuto, dal suo passato
politico, una reale simpatia per il proletariato, ma che prima di
tutto pensava a mascherare laverà natura di classe del suo regime,
coglieva ogni occasione per adulare i lavoratori dell'industria.
Rivolgendosi ad essi, nel corso di visite a fabbriche o discorsi, a
Milano o a Torino, diceva «camerati operai...» Anche i lavoratori
italiani emigrati all'estero, perle stesse ragioni, erano oggetto di
considerazione da parte del Duce e dei dignitari del regime. Quando
Balbo arrivò a New York nel 1933, dopo la famosa crociera aerea
sull'Atlantico, esclamò, in mezzo alle acclamazioni dei compatrioti:
«È a voi, operai italiani, che vanno l'orgoglio e l'amore del Duce.
Siate fieri di essere italiani... soprattutto voi, operai dalle
braccia infaticabili e dal cuore semplice... Mussolini ha chiuso per
voi l'epoca delle umiliazioni. Essere italiano è un titolo
d'onore». Quelle parole suscitarono una certa eco in una
popolazione che aveva subito ed ancora subiva molte umiliazioni (il
caso Sacco e Vanzetti e l'ondata di italofobia che l'aveva
accompagnato erano ancora presenti a tutte le memorie).
A tali soddisfazioni di prestigio, si aggiungevano anche concessioni
più tangibili. In primo luogo, come abbiamo visto, la realizzazione
di importanti istituzioni sociali, finanziate per la maggior parte
con i versamenti obbligatori degli operai ai sindacati fascisti.
Almeno fino alla crisi, si ebbe un sicuro miglioramento del mercato
del lavoro. A partire dal 1925, il numero delle domande di lavoro
non soddisfatte cade a 125.000 e si stabilizza a questo livello per
qualche anno. I salari reali mediamente si mantengono, tenuto conto
del costo della vita, allo stesso livello per tutto il periodo fino
alla guerra. Assumendo come base l'indice 100 del 1913 si ha questa
evoluzione: 127 nel 1921, 123 nel 1922, 113,6 nel 1924, 121 nel
1928, 125 nel 1934; successivamente si ha una brusca caduta dovuta
all'economia di guerra.
Nell'insieme, possiamo dire che la situazione della classe operaia
migliorò leggermente; ma non bisogna perdere di vista altre forme di
sfruttamento meno visibili perché non figurano nelle statistiche
ufficiali, a cominciare dalla accelerazione dei ritmi di lavoro.
D'altra parte, il limitato aumento del potere d'acquisto degli
operai d'industria rappresenta ben poca cosa se paragonato ai
grandi profitti realizzati dal padronato. Il corporativismo non
tentò assolutamente di attenuare la fondamentale ineguaglianza
nella ripartizione dei profitti capitalistici. Ben lungi
dall'essere strumento di mediazione fra il capitale e il lavoro,
permise alla grande industria e ai gruppi finanziari di usare
l'arbitrato e il potere di coercizione dello Stato per rafforzare
le loro posizioni e imporre la propria legge ai salariati.
I contadini, soprattutto i contadini poveri, e l'esercito dei
salariati agricoli, rappresentano i grandi vinti del regime
fascista. Ripercorrendo a sua volta una politica che era stata
propria anche dello Stato liberale, fin dalla formazione del regno
d'Italia, il fascismo fece subire alle campagne il peso della
industrializzazione, schiacciando i piccoli coltivatori sotto il
peso di una fiscalità eccessiva e favorendo sistematicamente gli
agrari che beneficiavano dei sussidi dello Stato, di rilevanti
agevolazioni fiscali e di una politica doganale conforme ai loro
interessi. Ricordiamo però alcune misure parziali come la legge
Serpieri che, nel 1934, dispose la divisione di alcuni latifondi,
il risanamento delle Paludi Pontine e la successiva distribuzione
di 60.000 ettari a 3.000 affittuari che appartenevano al «ceto
medio» agrario. Gli operai agricoli furono nettamente sacrificati; i
loro salari subirono un abbassamento del 50% circa durante il
periodo fascista. La società italiana alla vigilia della guerra
solo con una estrema forzatura potrebbe essere definita una società
«rivoluzionata» dal fascismo. La «rivoluzione fascista» non superò
il livello delle intenzioni e delle dichiarazioni. Rafforzando i
poteri economici del grande capitale a spese delle frazioni non
monopolistiche della borghesia, concedendo alla classe operaia solo
qualche esile vantaggio e facendo subire agli strati più poveri
delle campagne il peso del decollo industriale, il fascismo
riprese, amplificandola, la politica dei governi liberali
d'anteguerra. La sua abilità consistette nell'aver saputo fare della
povertà un'etica e del rifiuto del benessere «borghese» una delle
esigenze fondamentali del proprio sistema di pensiero. «Il
fascismo» scriveva Mussolini nella Dottrina del fascismo «respinge
il concetto di "felicità" economica che si realizzerebbe, secondo
un processo socialista e in modo quasi automatico, in un momento
dato dell'evoluzione economica assicurando a tutti il massimo del
benessere. Il fascismo nega il concetto materialistico di
"felicità" come possibile e lo lascia agli economisti della prima
metà del XVIII secolo; cioè nega l'equazione benessere = felicità
che rende gli uomini preoccupati di una sola cosa: essere sazi e
ingrassati e quindi ridotti alla pura e semplice vita vegetativa.»
Un discorso che equivaleva a una presa in giro se si pensa al clima
di corruzione, all'avidità di denaro e di facili piaceri che
regnava in certi ambienti vicini al potere, ma che poteva avere una
certa influenza sull'atteggiamento delle masse nei confronti del
fascismo.
Non c'è dubbio che, al suo apogeo, il regime godette di un vero
consenso popolare di cui Mussolini fu inizialmente il principale
beneficiario. Ma dobbiamo interrogarci sulla sua intensità e sul
suo radicamento. Bisogna anche chiedersi che risultato ebbe, alla
vigilia della guerra, il tentativo di mobilitazione permanente e di
irreggimentazione della società italiana. Quindi, occorre valutare i
limiti del fatto totalitario nell'Italia mussoliniana.
Limiti che ci sembrano del tutto esigui. Certamente, al fascismo
mancò il tempo per imprimere durevolmente i suoi segni sugli
spiriti. Ma cominciando assai più tardi, Hitler ottenne dei
risultati infinitamente più considerevoli perché impose
immediatamente al suo totalitarismo un carattere radicale che il
fascismo italiano imitò solo alla vigilia della guerra e non applicò
nemmeno allora con lo stesso rigore. D'altra parte, il fascismo si
scontrò con una forte resistenza, o con un'immensa forza d'inerzia
da parte della società italiana. Lo scetticismo, l'ironia, il buon
senso e l'anarchismo latenti dell'anima latina mal si adattavano
agli eccessi del regime. Certamente, in apparenza gli italiani
aderirono al fascismo, magari «per ragioni di famiglia», ma si
trattava di un'adesione formale che non implicava, a parte alcune
eccezioni, un'identificazione profonda. Le deboli radici del regime
si riveleranno, d'altra parte, alle prime serie difficoltà della
guerra, in seno alla direzione stessa del partito.
4. Il fascismo degli intellettuali
L'ambiguità della struttura sociale del fascismo, una volta
consolidato il suo regime, si riprodusse inevitabilmente
nell'inesauribile dibattito che contrappose, in campo culturale,
rivoluzione e stabilizzazione, radicalismo fascista e ordine
borghese. L'ideologo ufficiale del regime, il filosofo siciliano
Giovanni Gentile, non era certo estraneo a questa contraddizione.
Amico e discepolo di Croce, il maestro ideale della borghesia
liberale, faceva parte come quest'ultimo della grande corrente
idealista che, dalla fine del XIX secolo, combatteva con lo stesso
vigore il positivismo e l'estetismo «decadente». Inizialmente
l'idea che Gentile si faceva del fascismo non aveva niente di
rivoluzionario. Esso rappresentava, come prolungamento del
Risorgimento, la resurrezione di una tradizione spirituale che a suo
parere aveva continuato a decadere in Italia da quando la destra
storica era stata allontanata dal potere nel 1876. Dopo questa data
l'autorità dello Stato si era pressappoco estinta e con essa la
libertà del cittadino: una interpretazione che anche Croce avrebbe
potuto condividere. Scrive Gentile:
«... lo Stato e l'individuo sono identici e l'arte di governare è
l'arte di conciliare e unire così bene i due termini che un massimo
di libertà si armonizzi con un massimo di ordine pubblico, non solo
in senso esteriore ma anche e soprattutto nella sovranità devoluta
alla legge e ai suoi organi necessari. Infatti il massimo di libertà
coincide sempre col massimo di forza dello Stato».
Questa concezione spiritualistica della nazione e dello Stato
secondo la quale esso riflette una realtà creata da ogni individuo
per se stesso, si contrapponeva molto più alle tesi vitalistiche
della nazione concepita come fatto naturale ed etnografico e a
quelle nazionalistiche dello Stato aristocratico che a quelle di
Croce. «La nazione» scriveva ancora Gentile nel 1919 «esiste solo
nella misura in cui è creata. E ciò che noi facciamo col lavoro e
con lo sforzo, senza mai pensare che sia già data e interpretandola
come una creazione continua.» Sono parole che il filosofo
abruzzese, apostolo di una religione dell'attività e della
creatività umane, avrebbe potuto fare sue come avrebbe potuto
approvare - e infatti lo fece - la riforma della scuola introdotta
da Gentile quando questi divenne ministro della Pubblica Istruzione
del primo governo Mussolini. Essa infatti riprendeva le grandi linee
del progetto che Croce non aveva avuto il tempo di completare
quando aveva occupato la stessa carica nel governo Giolitti. Come
abbiamo già detto, tale riforma della scuola battezzata da Mussolini
come «la più fascista delle riforme» rafforzava le discipline
tradizionali e le tendenze selettive ed «elitarie» della scuola
italiana, era fondamentalmente conservatrice e si proponeva di
preparare una società gerarchizzata e spiritualista, ben lontana
dalle parole d'ordine contestatrici del primo fascismo.
Tuttavia Gentile non si limiterà a questo. Ben presto subì
l'influenza - o più esattamente la concorrenza - di altri teorici
del regime, meno illustri e meno coperti di onori dal Duce, ma
certamente più rappresentativi di ciò che stava per diventare il
fascismo: una contro-rivoluzione conservatrice. Erano Luigi
Federzoni e Alfredo Rocco, nazionalisti che erano passati a
Mussolini e che da questi erano stati collocati in posti chiave del
ministero degli Interni e della Giustizia. Gentile rivaleggiò con
loro in ardore vitali-stico e ciò lo condurrà a giustificare tutti
gli eccessi dello squadrismo e a scrivere pagine grottesche sulla
«sobrietà dello stile fascista».
Nell'aprile 1925 egli prese la testa del movimento degli
intellettuali favorevoli al regime, stendendo, dopo un convegno
culturale tenuto a Bologna, un Manifesto degli intellettuali del
fascismo rivolto «agli intellettuali di tutte le nazioni» e
destinato a giustificare, agli occhi dell'opinione pubblica
internazionale, le misure eccezionali adottate da Mussolini in
seguito alle conseguenze del caso Matteotti. Fra i firmatari
troviamo i nomi di Luigi Barzini, Francesco Coppola, Prampolini,
Soffici, Orano, Corradini, Ugo Spirito, Marinetti, Carli,
Pirandello. Questo documento dà il segnale della rottura con gli
intellettuali liberali. Qualche giorno dopo, il 10 maggio 1925, sul
«Mondo» viene pubblicata una «risposta degli scrittori, professori
e pubblicisti italiani al Manifesto degli intellettuali fascisti»
redatta da Benedetto Croce in persona e firmata da uomini come
Giovanni Amendola, Luigi Albertini, Gaetano Salvemini, Luigi
Salvatorelli, A.C. Jemolo, Gaetano Mosca, Luigi Einaudi, Arturo
Labriola, per citare solo i più illustri. Questo contro-manifesto,
più morale che politico, si indignava soprattutto di vedere
letterati e dotti tradire la loro missione che consisteva
nell'«elevare tutti gli uomini e tutti i partiti al più alto livello
spirituale» e invitava gli intellettuali a comportarsi da arbitri
morali, a difendere la libertà di espressione, a condannare tutte le
violenze e a restare al loro posto, cioè dietro al loro tavolo da
lavoro e non nell'arena della lotta politica».
La risposta di Croce era fondamentalmente conservatrice e più
preoccupata dello statuto dell'intellettuale nella società che di
questioni di fondo e di teoria, ma traduceva una rottura profonda
nell'atteggiamento della classe dirigente verso il fascismo e un
divorzio senza appello fra le due figure più eminenti
dell'idealismo italiano, Croce e Gentile. Al primo, ormai passato
all'antifascismo legale (interverrà soprattutto in Senato per
combattere la politica del regime) toccheranno la censura sulla
posta, le persecuzioni amministrative, la sorveglianza degli amici,
il saccheggio della casa di Napoli da parte degli squadristi, nel
1926. Al secondo l'ostentata ammirazione del Duce, la carica di
redattore capo dell' Enciclopedia Italiana Treccani nella quale
apparve nel 1932, a firma Mussolini, la famosa voce Fascismo
largamente ispirata dal filosofo, l'onore di sedere al Gran
Consiglio fra i gerarchi del regime. Fino al momento in cui,
irritato dalla relativa indipendenza di quello che fu sicuramente
il più intelligente dei «pensatori» del regime - e che aveva chiesto
al Duce di permettere una maggiore libertà di stampa - Mussolini lo
farà cadere in una condizione di semi-disgrazia da cui uscirà solo
nel 1944, ma per essere abbattuto dai partigiani.
Se Gentile rappresenta nel fascismo un elemento moderatore ancora
molto vicino all'ideologia borghese tradizionale, ben diversi erano
altri intellettuali che gravitavano intorno al potere o
pretendevano di ispirarne le scelte politiche, soprattutto i
fascisti «anticipatori» che facevano riferimento alle varie
correnti del nazionalismo e del futurismo. Ma anche per loro le cose
non erano semplici, perché il radicalismo verbale copriva scelte e
comportamenti radicalmente diversi.
Di tutti i ras dell'intellighentija fascista Marinetti fu forse
quello che meno si allontanò dalle opzioni anarchizzanti del primo
fascio di combattimento. Ciò non impedì al padre del Futurismo,
cofondatore, insieme a Mussolini, del fascio milanese nel marzo
1919 e per breve tempo in rottura con questi (che lo definì
«stravagante buffone» nel 1920), di entrare nella nuova Accademia
d'Italia fin dalla sua fondazione nel 1929 e di portare, come i
suoi confratelli, il costume antico e il cappello piumato degli
alti dignitari della cultura ufficiale, né di apportare il suo
sostegno all'opera di «bonifica culturale» intrapresa dal partito
alla vigilia della guerra. Ma la parola e il gesto restavano fedeli
alla tradizione del Manifesto del 1909. Marinetti, che un tempo
aveva chiesto che il papato fosse nuovamente bandito ad Avignone,
tollerò a fatica il riawicinamento con la Santa Sede e in generale
l'imborghesimento del regime, il suo allineamento di fatto su
posizioni conservatrici. Ma Mussolini continuò a sopportarne le
esuberanze perché apprezzava la fedeltà di Marinetti e anche perché
il comportamento dello scrittore futurista si accorciava assai bene
con quello che Starace ed egli stesso si aspettavano dagli italiani,
si trattasse della richiesta di partire volontario per l'Etiopia
nel 1936 (a sessant'anni!) o della polemica contro la pastasciutta
accusata di essere nociva agli abitanti della penisola perché ne
sviluppava «quello scetticismo tipicamente ironico e sentimentale
che troppo spesso ha spento il loro entusiasmo» (La cucina
futurista, 1932). Fedele fino alla fine al suo personaggio, forse
più per disillusione che per vera convinzione, Marinetti nel 1942
prenderà la strada del fronte russo. In precedenza aveva comunque
preso nettamente le distanze dalla svolta filonazista del regime
pubblicando nel dicembre 1938, nella sua rivista «Artecrazia», un
articolo di protesta, vietato dalla censura, contro le misure
antisemite. «Io mi chiedo» scriveva lo scrittore «con crescente
perplessità se non siete voi, non gli ebrei, che avete cominciato a
cacciare quei rari, rarissimi fascisti autentici della prima ora
che, ignorati, morendo di fame, si oppongono alla marcia trionfale
degli innumerevoli opportunisti e profittatori dell'ultimo
momento.»
Fra gli intellettuali italiani che erano arrivati al fascismo per
ammirazione del suo nichilismo purificatore e antiborghese figurano
due nomi importanti: quello del futurista Ar-dengo Soffici e quello
di Curzio Malaparte. Il primo restò fino alla fine - come Marinetti
ma spingendo ai limiti estremi la logica futurista - fedele allo
spirito del primo fascismo, accettando in odio all'establishment
fascista, anche l'allineamento con la Germania hitleriana, la
politica razzista del regime e infine il sinistro ritorno alle
origini dello squadrismo della repubblica di Salò. Atteggiamento
disperato e sfiduciato che fa pensare a quello di un Drieu de la
Rochelle con cui Soffici condivise singolarmente, nei suoi ultimi
scritti, una specie di fascinazione nei confronti di Stalin. «Se
l'Asse non dovesse vincere la guerra» scrisse nel giugno 1944
«molti veri fascisti, se sfuggiranno alla repressione, passeranno
al comunismo facendo blocco con esso. Avremmo così superato il
fossato che separa le due rivoluzioni.»
L'itinerario politico di Malaparte comincia là dove si conclude
quello di Soffici. Nel 1921 infatti, anno in cui tornò dalla
Polonia dove prestava servizio presso la Legazione militare
italiana, parve esitare fra le due vie, quella del fascismo attivo,
che sceglierà l'anno seguente, e quella dell'internazionalismo e
del bolscevismo. Scelse alla fine la prima perché la sua sete di
eroismo, il suo nichilismo rivoluzionario, la sua volontà di vivere
un destino nietzschiano, secondo l'esempio del D'Annunzio
dell'impresa fiumana, lo portarono naturalmente ad accostarsi allo
squadrismo. Fin d'allora, però, la rivoluzione proclamata da
Malaparte non aveva molto a che spartire né con quella auspicata dai
socialisti né con quella dei sindacalisti rivoluzionari o dei
«fascisti di sinistra». Questo figlio di un tintore tedesco che a
sedici anni si era arruolato per andare a combattere in Francia coi
volontari garibaldini e che poi era stato promosso ufficiale degli
alpini, era antiborghese ma anche antiproletario. Dopo Caporetto,
scriverà: «Ero sicuro dell'imminenza di una rivoluzione nazionale
in Italia, scatenata dai veri guerrieri, cioè dai fanti: in altri
termini, una rivoluzione di contadini... Una rivoluzione
antiproletaria, antiborghese... una riconciliazione fra lo spirito
rurale e l'eroismo del sangue nobile, un ritorno antipolitico alla
Vandea, un nuovo spirito naturale e terrestre della
Controriforma...».
Rivoluzione contro l'ordine borghese dunque - «La nostra
rivoluzione» scriverà Malaparte «è prima contro Benedetto Croce che
contro Buozzi e Modigliani» - ma con un fine ben preciso, quello di
restaurare l'antico ordine, l'ordine «naturale» sconvolto dal
capitalismo e dall'industrialismo. Tale era il programma che
l'autore della Tecnica del colpo di Stato assegnava al fascismo. «La
rivoluzione fascista» egli afferma «è un processo di revisione
totale dei valori civili, culturali, politici e spirituali, una
critica obiettiva e radicale della forma attuale della vita civile,
di tutto ciò che è moderno... Lo scopo finale della rivoluzione
fascista è la restaurazione della nostra civiltà naturale e storica,
degradata dal montare trionfante della barbarie della vita moderna.»
Questo pensiero eminentemente reazionario che trovò la sua
espressione letteraria nell'Italia barbara di Malaparte (1926) e
nelle sue cantate dell'Arcitaliano (1928) trovò consonanze con
quello di altri due scrittori fascisti: Ardengo Soffici e Giovanni
Papini, l'ex redattore capo nazionalista della «Voce», diventato
fervente cattolico, poi convertito al fascismo agli inizi degli
anni '30 dopo la sua elezione all'Accademia d'Italia. I tre
collaborarono attivamente alla rivista che Mino Maccari cominciò a
pubblicare nel 1924 e il cui titolo, «Il Selvaggio», esprime il
rifiuto della società industriale e di tutti i modernismi ideologici
e culturali. Il «selvaggismo», definito da Maccari come la
resistenza della tradizione, «questa grande amica e protettrice dei
popoli», ai misfatti della modernità, un «pasticcio manipolato dai
banchieri ebrei, dai pederasti, dai profittatori di guerra, dai
tenutari di bordelli», per la rivista era un ramo della cultura
fascista, quello che si collegava alla tradizione popolare,
provinciale e fondamentalmente controrivoluzionaria dell'
«antirisorgimento». Questa vena di ispirazione piccolo-borghese che
traduceva in campo culturale talune aspirazioni del fascismo rurale
si opponeva all'altra grande tendenza, quella del modernismo
fascista che si incarnava nel movimento del «novecentismo»,
rappresentato soprattutto da Bontempelli e da molti pittori fra cui
De Chirico, Sironi, Morandi e Carrà, che era stato futurista.
Fra il ritorno all'ordine tradizionale propugnato dai «selvaggi» e
l'aspirazione a un ordine nuovo annunciato dal «novecentismo», lo
Stato fascista si spostò progressivamente a favore del secondo
contro il primo, come aveva scelto di sostenere le tendenze
industrialiste e monopolistiche dell'economia italiana a spese degli
interessi della piccola borghesia. Forse per questo Malaparte,
deluso dall'evoluzione del regime, cominciò a staccarsene e a
rivolgere nuovamente il suo interesse al comunismo. «Credo» scrive
agli inizi degli anni '30 «che il fenomeno della rivoluzione russa
che si sviluppò parallelamente alla rivoluzione italiana nel suo
odio e nella sua lotta contro lo spirito moderno... sia il
completamento della rivoluzione italiana. Esse si aiutano l'un
l'altra nella comune distruzione della modernità, e l'una non è né
concepibile, né possibile, né giusta contro l'altra.»
Un'interpretazione per lo meno sorprendente del bolscevismo, che
però doveva condurre il giornalista della «Stampa» a rompere una
prima volta col fascismo e ad esiliarsi in Francia dove pubblicò
uno dopo l'altro, nel 1932, Tecnica del colpo di Stato e
Intelligenza di Lenin, entrambi vietati in Italia e in Germania.
Ritornato in Italia, Malaparte fu condannato a 5 anni di confino a
Lipari per «attività antifascista all'estero», ma, diventato il
protetto di Ciano, scontò solo una parte della pena. Nel 1937 lo
troviamo alla testa di una rivista letteraria, «Prospettive», dove
manifesta nei riguardi del regime i sentimenti più conformisti.
L'adesione al fascismo dei nazionalisti ebbe luogo fin dai primi
anni del regime quando apparve evidente che il «fascismo era
diventato lo Stato e che lo Stato era diventato nazionalista». Va
ricordato che l'adesione di molti intellettuali di punta del
movimento nazionalista di anteguerra non fu né così entusiastica né
così completa e rapida come quella di Federzoni, Rocco ecc., cioè
dei «politici». Li imitò solo Corradini che dopo la
radicalizzazione del regime nel gennaio 1925 e la designazione di
Rocco a ministro della Giustizia pubblicò in «Gerarchia» un
articolo che salutava nel fascismo «la rivoluzione che si compiva
all'interno nell'ordine stabilito e il cui programma consisteva nel
superare il liberalismo fuori moda, la democrazia e il socialismo
per diventare un regime nel quale lo Stato prevale sui partiti».
Secondo Prezzolini, le ragioni per sostenere la dittatura
mussoliniana erano fondate più che sulla parentela ideologica col
fascismo, sul fatto che esso aveva vinto e aveva saputo imporre la
sua legge ai suoi avversari, che erano anche gli avversari dei
nazionalisti. Nel dicembre 1922 scriveva: «Il fascismo esiste, ha
vinto; per noi storici ciò significa che ci sono delle ragioni
valide per la sua vittoria».
Papini si mantenne a lungo freddo nei confronti del fascismo,
assorbito com'era dalla sua conversione al cristianesimo militante,
ma si dimostrò poi fra i più ardenti nel difendere il regime, non
appena ebbe compreso che la fraseologia socializzatrice dei primi
tempi era stata solo uno strumento usato da Mussolini per promuovere
lo Stato aristocratico a cui egli aspirava. «Il fascismo» scriveva
nel 1941 in Italia mia «si è strappato quelle vesti che gli stavano
male, ha bruciato le maschere che dissimulavano il suo vero volto,
ha restaurato i principi sui quali erano fondate le nostre antiche
repubbliche aristocratiche e i nostri possessi: l'autorità dello
Stato e l'unità del comando.»
Ben diverso il caso di G. D'Annunzio. Incapace di dimenticare che
per parecchi mesi aveva esercitato i poteri di sovrano assoluto a
Fiume, mortificato per essere stato relegato da Mussolini a un
ruolo politico di secondo piano, il «comandante» aderì al regime
solo a «mezza bocca» e si chiuse per molti anni (morì nel 1938) in
un altero mutismo, da cui uscì solo per condannare gli assassini di
Matteotti o per approvare le imprese africane del Duce. Il resto
del tempo, la statua del comandante si animò solo per i gesti
rituali di un quotidiano disincanto: la scrittura di un'opera che
aveva già dato il meglio, o il peggio, di se stessa; l'incontro con
i visitatori che venivano a intrattenersi con il maestro nella sua
barocca residenza del Vittoriale sul lago di Garda, un dono regale
del regime, in cui D'Annunzio attendeva gli ospiti alla prua di una
nave da guerra definitivamente arenata sul prato del parco e li
faceva salutare da salve di cannoni; qualche viaggio. Nel 1924,
quando Fiume venne annessa all'Italia, D'Annunzio fu nominato dal
re, su richiesta di Mussolini, principe di Montenevoso.
Molti intellettuali, infine, aderirono al fascismo per
opportunismo. Così fu, a quanto pare, per Pirandello nonostante
che l'autore di Vestire gli ignudi abbia cercato in seguito di
motivare ideologicamente o esteticamente il suo impegno. Fino alla
vigilia della marcia su Roma il drammaturgo siciliano si era ben
poco interessato di politica, tranne un accenno di simpatia per le
tendenze più anarchiche del movimento dei fasci siciliani agli inizi
degli anni '90 e per gli interventisti del «maggio radioso» (tranne
che per D'Annunzio che invece detestava). Ciò non entrava affatto in
contraddizione colla simpatia per il fascismo. Ma fra questo e
affermare, come fece nell'«idea nazionale» in occasione del primo
anniversario della marcia su Roma: «Ho sempre avuto la massima
ammirazione per Mussolini e credo di essere una delle poche persone
capaci di comprendere la bellezza della sua continua creazione di
realtà» e cercare delle corrispondenze fra le proprie creazioni e
quelle del Duce, c'è comunque un passo che Pirandello non esitò a
varcare. In compenso, potè godere dell'amichevole considerazione
del capo del fascismo, lusingato quanto lui stesso del premio Nobel
di cui il commediografo fu insignito nel 1934 e del successo
internazionale del suo teatro, meglio accolto all'estero che nella
stessa Italia.
5. Il conformismo culturale
«Il solo grande artista del regime» si può leggere in un editoriale
di «Critica fascista» «è per ora il suo fondatore, Mussolini. Tutti
i discorsi che ha pronunciato, tutti gli articoli e i saggi
politici che ha scritto bastano a fare di lui uno dei nostri più
grandi prosatori contemporanei. A nostro avviso, la recente
circolare ai prefetti costituisce, dal punto di vista artistico, il
più notevole brano di prosa di questi ultimi anni, il capolavoro
della letteratura fascista.»
Oltre a una buona dose di spirito cortigianesco, questo articolo
pubblicato su una rivista destinata agli ambienti intellettuali
rivela che, meno di cinque anni dopo la presa del potere, il
riferimento al Duce era diventato almeno formalmente uno dei
criteri fondamentali della cultura fascista. Tale culto della
personalità applicato a lettere e arti non poteva che favorire un
assoluto conformismo. Il Duce faceva e disfaceva la fama e le mode
a suo capriccio e in base ai suoi gusti che erano tutt'altro che
eccellenti, e al suo desiderio di promuovere uno «stile» che fosse
insieme conforme all'ideologia ufficiale del regime e alla volontà
di potenza del suo capo.
Altra condizione del conformismo fascista fu l'inquadramento degli
intellettuali e degli artisti e il loro inserimento in strutture
controllate dal potere. Mussolini aveva un bel dichiarare, nel 1923:
«Ben lungi da me l'idea di incoraggiare tutto ciò che potrebbe
sembrare un'arte di Stato. L'arte appartiene alla sfera
individuale. Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di
assicurare le condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli da un
punto di vista artistico e nazionale» («Il popolo d'Italia», 27
marzo 1923). Non perse però tempo nell'impresa di creare gli
strumenti del dominio dello Stato in campo culturale. Nel 1925 venne
fondato un Istituto nazionale fascista della cultura la cui
direzione venne affidata a Gentile e che si diede l'obiettivo di
un'intima «fascistizzazione della cultura». Questo organismo
pubblicò riviste e creò biblioteche specializzate nello studio del
fascismo. L'anno successivo, artisti e intellettuali vennero
organizzati, coi rappresentanti delle professioni libere, in una
delle 13 confederazioni fissate dalla legge Rocco e integrate nel
sistema corporativo. Furono assegnate medaglie per premiare le
realizzazioni artistiche, culturali e sportive che concorressero
alla maggior gloria del fascismo. Il regime istituì anche un
Consiglio nazionale per la ricerca che fu presieduto successivamente
da Marconi e dal maresciallo Badoglio e che divenne ben presto la
preda degli ambienti vicini al partito e al potere. Infine, nel 1929
fu completato il progetto che era stato elaborato tre anni prima in
vista della costituzione di un'Accademia d'Italia destinata al
coordinamento delle attività scientifiche e artistiche del Paese e
alla «tutela della cultura nazionale». Varie circostanze, e in
particolare il rifiuto da parte di Benedetto Croce di partecipare
all'iniziativa, ne avevano ritardato il varo. La nuova istituzione
aprì le sue porte alle 60 personalità del mondo letterario,
artistico e scientifico che Mussolini stesso aveva scelto fra gli
intellettuali favorevoli al regime. Fra i primi inseriti,
Pirandello, Panzini, Marinetti. Il segretario fu Gioacchino Volpe,
il migliore storico fascista, e i presidenti furono, nell'ordine,
Tittoni, Marconi, D'Annunzio e Federzoni.
Ancora più delle accademie «classiche», l'areopago di intellettuali
devoti al fascismo e da esso largamente remunerati, in denaro, in
onori e vantaggi di ogni sorte, l'Accademia d'Italia con la sua
azione - distribuzione di premi, titoli e decorazioni, epurazione
della lingua, che Mussolini e Starace ritenevano contaminata dal
virus dei vocaboli stranieri, partecipazione alle parate del regime
ecc., rafforzò il conformismo dell'ìntellighentija fascista e la
sclerosi della cultura ufficiale. Essa si manifestò soprattutto nel
campo delle arti plastiche, con i quadri di circostanza di un Mario
Sironi, un Primo Conti, un Ugo Scaramucci, pittori delle gesta
squadriste e di una storia nazionale ricomposta per la maggior
gloria del regime, con le composizioni «naturiste» dedicate alla
giovinezza e allo sport che trionfavano al «premio Cremona»
promosso da Farinacci o con le sculture moderniste di un Lucio
Fontana, di un Dazzi, di un Crescini, con la loro tematica
classicheggiante, la loro ossessione fallica e la loro propensione
a rappresentare, sempre e dovunque, la figura idealmente atletica
del Duce.
Il campo dove meglio si espresse lo spirito del regime fu però
l'architettura. Anche in esso coesistevano due tendenze, il cui
denominatore comune era il ricorso alla matrice storica. La prima
era una tendenza «passatista», romantica, volta alla riproduzione
del modello medievale. Corrispondeva per molti versi al
«selvaggismo» letterario e trovò il suo campo di applicazione
nell'urbanistica provinciale, con la costruzione, agli inizi del
regime, di edifìci di dimensioni modeste, come le casse di risparmio
in stile romantico du-gentesco che ricordava lo stile delle
repubbliche patrizie del XIII secolo. La seconda, che prevarrà nella
misura in cui si accentuavano i caratteri totalitari del regime, si
volle invece ultramodernista e novecentista, funzionale e
razionalista. I suoi principi vennero enunciati da Margherita
Sarfatti, nel 1929 in una serie di articoli pubblicati sul «Popolo
d'Italia» e sul «Mezzogiorno di Napoli»: «semplicità, concisione,
chiarezza di pensiero», «precisione nella linea, sacrifìcio delle
fioriture inutili», «geometria architettonica». Come vediamo, si
trattava di un ritorno all'ordine classico.
Poche opere sapranno realizzare la fusione di modernismo e
razionalità classica alla quale aspiravano i teorici della nuova
architettura. Le sole che meritano di essere ricordate sono la
stazione ferroviaria di Firenze di Michelucci, certi edifici di
pubblica utilità realizzati in materiali moderni (soprattutto il
cemento armato) da architetti come Nervi e Ponti e soprattutto la
casa del fascio di Como, opera di Giuseppe Terragni. Per il resto,
il fascismo non seppe trovare altra fonte di ispirazione che quella
di una romanità imperiale rilanciata dalla «febbre» archeologica
degli anni '30, con l'evidente intenzione di celebrare la grandezza
dell'Italia nuova e la maestà del suo capo. Di qui, le penose
variazioni neoclassiche dello stile «littorio» nel quale si
distingueranno Augusto Giovannoni e soprattutto l'abile ma
cortigianesco Marcello Piacentini, direttore delle demolizioni del
centro storico di Roma e dell'EUR, l'Esposizione Universale di Roma
che si sarebbe dovuta tenere nella capitale italiana nel 1942 e che
diede luogo al più grandioso progetto urbanistico del regime.
Progetto abortito, se non nella concezione d'insieme da cui, dopo
tutto, gli urbanisti postfascisti seppero trarre risultati non
disprezzabili, almeno nella realizzazione, ridotta a un
inquadramento militaresco e disumano di monumenti rigidi e pomposi.
Gli architetti che lavorarono a partire dal 1937, sotto il
controllo dell'onnipresente Piacentini, alla costruzione della città
satellite - Pagano, Pic-cinato, Rossi e Vietti - non mancavano né di
idee né di talento, ma non poterono disporre, per portare a termine
l'opera, della minima libertà di manovra e nemmeno della
possibilità di usare materiali moderni, acciaio e cemento armato,
riservati alla preparazione della guerra.
6. Fascismo-spettacolo e cultura dì massa
Padrone dei grandi media d'informazione e di cultura, il fascismo
assegnò loro una duplice funzione. Si trattava insieme di «educare»
le masse mostrando loro un'immagine idealizzata del regime e
cercando di sviluppare in esse le virtù positive dell'«uomo
fascista» e di «distrarle» dalla loro sorte quotidiana (panem et
circences) per distoglierle da eventuali azioni rivendicative.
La radio illustra assai bene questa duplice preoccupazione.
Trasformata in monopolio di Stato da una legge del 1927, divenne
veicolo di una sottocultura essenzialmente ricreativa, in cui la
scenetta e la canzone popolare avevano largo spazio, ma anche di una
propaganda globale e orchestrata intorno a parole d'ordine di
circostanza: «battaglia del grano», campagna a favore della
natalità, lotta contro gli «sprechi», giustificazione della
politica coloniale e della politica estera del fascismo ecc. Va
sottolineato che quest'opera di «bonifica» delle mentalità
attraverso le onde radiofoniche venne affidata essenzialmente a
specialisti del giornalismo parlato. I «tenori» del partito vi si
azzardavano raramente e il Duce meno degli altri. Durante il suo
primo discorso radiodiffuso nel 1924 (con un procedimento messo a
punto da Marconi), difficoltà tecniche resero le sue parole quasi
incomprensibili e si dovette interrompere la trasmissione per timore
del ridicolo. In seguito i grandi discorsi pronunciati in piazza
Venezia vennero regolarmente trasmessi e diffusi con altoparlanti
in tutte le città della penisola, ma Mussolini solo due o tre volte
si arrischiò a pronunciare allocuzioni specificamente destinate alla
radio. Aveva infatti compreso ben presto che lo stile della
conversazione familiare senza il contatto diretto con la folla
-genere nel quale eccelleva Roosevelt - non rientrava nelle sue
capacità.
In compenso, il fascismo e il suo capo seppero sfruttare al massimo
l'inclinazione delle masse latine allo spettacolo e alla parola. In
un paese in cui la lirica era regina, molti italiani apprezzarono
nel Duce un talento di tenore e di attore. Mussolini eccelleva nei
lunghi periodi scanditi con voce potente dall'alto del balcone di
Palazzo Venezia, nei dialoghi con la folla ereditati dal rituale
dannunziano, nelle formule emozionanti, nel gesto teatrale che oggi
fa ridere, mache va collocato nel suo contesto. Importante era anche
la messa in scena sempre più sofisticata che circondava le riunioni
di massa e le parate paramilitari, le dodici orchestre collocate
intorno a piazza Venezia, le grancasse e le trombe che annunciavano
l'arrivo del dittatore, i canti fascisti intonati dalle camicie
nere, gli interminabili cortei delle organizzazioni del partito
attraverso la via sacra del regime, la via dei Fori Imperiali.
Certamente, il successo di queste manifestazioni era garantito
anche dalla presenza di una claque. Quando il Duce si spostava,
treni di «comparse» stipendiate lo seguivano nel suo viaggio. A
ogni tappa si mescolavano ai curiosi e davano il tono, se era
necessario, alle reazioni del pubblico. Ma era sempre necessario?
All'apogeo del regime, nel 1935-1936, il consenso e la passione
della «festa» bastavano a scatenare l'entusiasmo. A questa data,
il fascismo era ancora uno spettacolo di successo.
Lo sport, un altro quasi-monopolio dello Stato, assumeva una
funzione di tipo analogo, quella di raccogliere in grandi cerimonie
rituali masse ardenti di passione nazionalistica e di ammirazione
per effimeri idoli. Il regime vi trovò un notevole vantaggio a più
di un titolo. Lo sport-spettacolo, prolungato dalla lettura dei
giornali e dall'ascolto di trasmissioni radiofoniche specializzate,
costituiva un'ottima occasione per distogliere le masse dalle loro
preoccupazioni quotidiane. Esso permetteva di nutrire a basso
prezzo le pulsioni nazionalistiche e di esercitare con sistemi
adatti la propaganda: canti, musica militare, discorsi che
precedevano i grandi incontri sportivi, ritratti del Duce e parole
d'ordine del regime affissi in tutti gli stadi della penisola,
evoluzioni ginniche della gioventù fascista prima degli incontri
ecc. Bisogna aggiungere l'effetto di trascinamento di cui
beneficiava lo sport di massa, secondo i programmi dei dirigenti
che riponevano molte speranze nel culto dei muscoli e delle virtù
virili.
Forte del sostegno delle autorità e dell'infatuazione del pubblico,
lo sport italiano, che beneficiava anche dello sforzo intrapreso dal
fascismo per sviluppare gli impianti sportivi, ebbe uno sviluppo
spettacolare e registrò buoni risultati, soprattutto nel calcio,
nel ciclismo, nello sci, negli sport motorizzati (automobilismo,
motociclismo, aviazione). Nel 1933, il falegname Primo Camera
divenne per qualche tempo l'idolo di tutta l'Italia conquistando a
New York il titolo di campione dei pesi massimi. Ma anche in questo
campo la propaganda fascista non eviterà di sfiorare il grottesco
impedendo ai giornali di pubblicare foto del pugile al tappeto. Nel
1939, la Federazione del tennis darà ai giocatori la consegna di
indossare la divisa fascista negli incontri internazionali e di
rispondere alla stretta di mano degli avversari con il saluto
romano.
7. «La cinematografia è l'arma più forte»
Questo slogan esprime bene l'importanza che il regime attribuiva al
cinema, come strumento di propaganda e di condizionamento degli
spiriti. Mussolini stesso si mostrava vivamente interessato a tutti
gli aspetti della settima arte, e non solo ai documentari
d'attualità, ai cinegiornali Luce che sorvegliava con attenzione -
come faceva con le fotografìe pubblicate sui giornali - perché
l'immagine che vi si dava di lui fosse conforme al modello
desiderato4. Così afferma nelle sue memorie il suo cameriere Quinto
Navarra: «Il cinema era l'arte di cui Mussolini si occupava più
volentieri... A villa Torlonia c'erano due sale di proiezione: una
nella dimora del Duce e una nei locali che ospitavano gli uffici
dell'Istituto del cinema internazionale educativo. In quest'ultima
sala Mussolini aveva l'abitudine di vedere molti film che poi
venivano proiettati nelle sale pubbliche... «Attraverso queste
proiezioni e frequenti contatti con Freddi, Forzano e altri registi,
l'interesse di Mussolini per il cinema continuò ad aumentare. Egli
si interessava molto alla vita di Cinecittà, riceveva attori,
voleva avere informazioni sulle attività del Centro sperimentale di
cinematografia di cui volle inaugurare i nuovi locali...
«Tale costante interesse per il cinema culminò nell'idea di lanciare
come stella la sorella di Claretta Petacci. Come è noto, le trovò
anche un nome d'arte: Miriam di San Servolo5».
Due volte la settimana il Duce andava a visionare dei prodotti
cinematografici, in massima parte italiani. Il martedì sera era
dedicato ai documentari e ai cinegiornali dell'Istituto Luce e il
venerdì alla proiezione di film che egli stesso chiedeva o che Luigi
Freddi, direttore generale della cinematografia italiana dal 1934
al 1939, l'aveva invitato a vedere per tenerlo al corrente
dell'evoluzione del cinema italiano o per ottenerne un ultimo visto
prima di passarlo alle sale di proiezione.
Il giudizio sovrano e senza appello di Mussolini costituiva solo
l'ultimo gradino di un sistema complesso di censura che era stato
organizzato fin dagli esordi del regime, con un decreto legge del 23
settembre 1923, completato da vari successivi testi miranti a
rafforzare il processo di controllo e a limitare il reclutamento
dei censori ai funzionari dei ministeri interessati (Interni,
Corporazioni, Educazione nazionale, Colonie, Cultura Popolare) e ai
rappresentanti di organizzazioni strettamente legate al regime (PNF
e GUF soprattutto). Lo scopo era di ottenere una stretta
sorveglianza esercitata per mezzo di commissioni che dipendevano
fino al 1934 dal ministero degli Interni e, a partire da questa
data, dal ministero della Cultura Popolare. Esse ebbero però poche
occasioni di esercitare la loro azione repressiva sui film finiti -
al massimo si trattava di qualche taglio o qualche modifica ai
dialoghi - perché il controllo essenziale si esercitava al livello
della sceneggiatura e forse ancor di più a quello dell'autocensura.
I cineasti italiani si astenevano, se non altro per ragioni
finanziarie, dal girare film che potessero scostarsi per qualche
aspetto dalle direttive generali del regime. È molto significativo
che dal 1923,data della istituzione del sistema censorio fascista,
al 1939, un solo film italiano sia stato vietato6. Si trattava di un
film la cui intenzione era, paradossalmente, di esaltare le virtù
redentrici del fascismo: Ragazzo, di Ivo Perilli, raccontava la
storia edificante del figlio di un operaio, orfano, recuperato
dalle organizzazioni fasciste dopo aver per qualche tempo inclinato
alla piccola delinquenza. L'argomento non recava alcun attentato
alla gloria del regime (il segretario della federazione del PNF di
Roma aveva partecipato alla sceneggiatura), al contrario; ma
Perilli, per realizzare il suo film, aveva dovuto girare scene
«realistiche» nei quartieri popolari di Roma dove ancora infierivano
miseria, disoccupazione, delinquenza. Di qui l'esitazione della
Commissione di censura ad accordare il visto nel 1933 e il ricorso
all'arbitrato supremo del Duce. La sua reazione fu immediata.
«Queste cose nell'anno decimo dell'era fascista non esistono più!»
esclamò, e Ragazzo fu vietato.
La censura rappresentava solo l'aspetto negativo, e non
necessariamente il più importante, dell'azione esercitata dallo
Stato fascista sulla cinematografìa italiana. Un'azione che assunse
volti diversi e che, pur controllando strettamente i contenuti, non
mutò niente del carattere privato dell'industria cinematografica.
Pochi esempi, anzi, chiariscono meglio di quello del cinema i
rapporti fra fascismo e grande industria. Il campo in cui più si
esercitò l'intervento dello Stato fascista sulle produzioni della
cinematografia italiana, fu, naturalmente, quello dell'attualità.
Dal 1925, l'Unione cinematografica educativa (LUCE), società
anonima fondata l'anno precedente allo scopo di produrre
cortometraggi, documentari e film di attualità, fu nazionalizzata.
L'anno successivo un decreto stabili per i direttori di sale
cinematografiche l'obbligo di «includere nel programma degli
spettacoli la proiezione di film aventi per fine l'educazione
civica, la propaganda nazionale e la cultura», e nel 1929 un altro
testo legislativo trasformò l'Istituto nazionale LUCE in un vero e
proprio servizio audiovisivoche avrebbe dovuto «coordinare le
diverse attività di carattere pubblico concernenti la
cinematografia educativa e di propaganda». Oltre al monopolio delle
«attualità», diventate uno dei principali vettori della propaganda
fascista, l'istituto LUCE produsse un gran numero di cortometraggi
documentari destinati a esaltare le imprese del regime e anche
parecchi lungometraggi come Camicia Nera di G. Forzano (1933) che
portava sullo schermo l'epopea «leggermente romanzata» (dicevano i
titoli di testa) di una famiglia contadina che aveva goduto delle
assegnazioni delle bonifiche delle Paludi Pontine.
Il cinema d'invenzione si allineò solo più tardi col fascismo. Solo
nel settembre 1934 fu creata, all'interno del nuovo
sottosegretariato alla Stampa e Propaganda, una direzione generale
per la cinematografia, affidata a Luigi Freddi, un vecchio
futurista diventato redattore del «Popolo d'Italia», poi direttore
dei settori di propaganda del partito. Sotto il suo impulso, e in
misura minore sotto quello del suo successore Eitel Monaco, si
sviluppò un settore statale che non comprendeva certamente l'intera
cinematografia italiana, ma permise al governo fascista di
intervenire ed esercitare su di essa una notevole influenza.
Prima tappa della assunzione di controllo del cinema da parte dello
Stato fu la fondazione, nell'aprile 1935, del Centro sperimentale di
cinematografia, istituto didattico indirizzato alla formazione,
nell'arco di due anni, di professionisti del cinema: registi,
attori, tecnici, direttori di produzione. Sotto la direzione di
Luigi Chiarini, tale organismo, dopo un esordio difficile, sarebbe
diventato il luogo di un'intensa attività teorica e tecnica
(pubblicò una rivista, «Bianco e nero», e una collana di opere sul
cinema) e avrebbe giocato un ruolo molto importante nella genesi del
cinema italiano del dopoguerra. L'azione del potere vi si esercitò,
d'altra parte, con discrezione.
Press'a poco nello stesso periodo (novembre 1935) e nel contesto
generale di crisi che sfociò nella costituzione del-VIRI, venne
istituito, come una delle molte filiali di tale organismo, l'Ente
nazionale per le industrie cinematografiche (ENIC) il cui capitale
venne in parte fornito dalle azioni di società private (soprattutto
la SAP di Stefano Pittaluga) rilevate dall'Istituto LUCE. Affidato
al marchese Paulucci di Calboli, l'Ente raccolse gli interessi e le
attività delle società passate sotto il suo controllo gestendo un
centinaio di sale alla fine del suo periodo di attività (su un
totale di 4.000, ma va osservato che si trattava soprattutto di sale
di prima visione delle grandi città), distribuendo circa il 20% dei
film italiani e controllando, a partire dal 1938, tutti gli
acquisti di film stranieri, producendo dei lungometraggi fra i quali
due dei «monumenti» dei cinema fascista, Condottieri, di Luis
Trenker e Scipione l'Africano di Carmine Gallone.
Terza tappa del processo che portò lo Stato fascista a inserirsi
profondamente nelle strutture della cinematografia italiana, fu la
costruzione finanziata dai poteri pubblici (4 milioni di lire) degli
studi di Cinecittà, la Hollywood italiana, dopo l'incendio, nel
settembre 1935, degli stabilimenti cinematografici della società
presieduta dall'ingegner Ron-coroni. Fino alla fine del 1938
Cinecittà, che era stata inaugurata dal Duce in persona il 28
aprile 1937, era rimasta proprietà di Roncoroni, ma dopo la sua
morte fu ereditata dallo Stato italiano che ne affidò la direzione
a Freddi. Infine, ultimo elemento, lo stesso Freddi, che aveva
lasciato nel marzo 1939 la Direzione Generale della cinematografìa,
fondò nel 1941 la Cines, Società di produzione parastatale con un
capitale di 9 milioni sottoscritto dall'ENIC e da Cinecittà. In due
anni, la Cines produrrà una trentina di film, opere di propaganda
politica come Gente dell'aria di Pratelli e Harlem di Carmine
Gallone, film costosi ispirati ad opere letterarie, come La
Locandiera di Chiarini e infine, e soprattutto, film d'evasione
destinati a un pubblico medio ma realizzati «con una dignità e un
livello artistico ed etico inusuali» (Freddi). Nel 1942, essa
divenne la prima società italiana di produzione, ma copriva solo il
14% del mercato; era quindi ben lontana dall'esercitare un vero e
proprio monopolio sulla produzione nazionale. Circostanza conforme
allo spirito del regime, dirigista nelle intenzioni e nella
pratica, ma anche rispettoso del carattere privato della proprietà
dei mezzi di produzione e di scambio.
Anche i sistemi di sostegno alla produzione cinematografica
rivelano assai chiaramente quali sono le intenzioni profonde del
regime fascista. In questo settore, come in molti altri, l'azione
governativa si impegnò nell'organizzare il salvataggio delle
imprese capitalistiche socializzando solo le perdite attraverso il
gioco delle sovvenzioni. Trattandosi del cinema, lo sforzo da fare
era tanto più grande perché, anche prima dello scatenamento della
crisi, la produzione italiana rappresentava solo un'infima parte
(3% nel 1920) dei film diffusi sul territorio nazionale, mentre il
resto era quasi del tutto costituito da produzioni americane. Le
misure che vennero prese a partire dal 1931 permisero di migliorare
sensibilmente la situazione. Esse mirarono in un primo tempo a
sostenere finanziariamente film già girati, sulla base degli
incassi, il che equivaleva a sostenere le opere che ne avevano meno
bisogno e a rafforzare la generale tendenza al conformismo. Il
sistema venne quindi abbandonato nel 1933 e sostituito da premi alla
qualità, di entità assai modesta ma il cui carattere selettivo
spinse i produttori a una maggiore docilità nei confronti del
potere. A partire dal 1935 si istituì un sistema di anticipi sugli
incassi che poteva arrivare a un terzo dei costi di produzione.
Data l'esiguità del numero dei film che potevano beneficiarne (11
su 32 nel 1936, 8 su 45 nel 1938) solo le opere conformi agli
obiettivi politici del regime avevano una qualche speranza di essere
scelte, il che accentuò ulteriormente la presa ideologica del
fascismo nei riguardi dell'industria cinematografica.
All'epoca della guerra d'Etiopia e del passaggio all'economia di
guerra il cinema italiano sembrava avviarsi a una fascistizzazione
progressiva, a una statizzazione più o meno completa. Non fu così.
Sotto la pressione della potente Federazione nazionale fascista
degli industriali dello spettacolo, il ministro della Cultura
Popolare Dino Alfieri si oppose ai progetti ultradirigistici di
Luigi Freddi e orientò il dibattito in un senso che sfocerà nella
legge del 16 giugno 1928. Essa mise fine al sistema degli anticipi
selettivi e istituì un dispositivo di premi automatici calcolati
sugli incassi. In altri termini, consacrò il trionfo degli
industriali del cinema sul piccolo clan dei tecnocrati partigiani di
una cinematografia di Stato.
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Poteva essere diversamente quando Mussolini stesso ammetteva che
non si poteva andar oltre sulla strada della messa sotto tutela del
cinema italiano? Imporre una produzione cinematografica
esclusivamente politica e didattica significava correre il rischio
che il pubblico evitasse i film italiani a vantaggio di quelli
stranieri, soprattutto americani, da sette a dieci volte più
numerosi. In attesa di eliminare la concorrenza straniera -
obiettivo che verrà raggiunto nel 1939 - era più abile politica
quella di lasciare le briglie sul collo ai privati chiedendo come
contropartita l'assicurazione di una produzione asettica che
fornisse agli spettatori italiani un'immagine rassicurante e
idealizzata del loro Paese.
Il contenuto ideologico del cinema rifletteva assai fedelmente la
natura dei rapporti fra gli industriali del cinema e il potere. In
una produzione nazionale che aumentava continuamente guadagnando
terreno a partire dal 1937 (passò da 31 film nel 1937 a 83 nel 1940
e a 119 nel 1942), la parte spettante al cinema strettamente
politico non superò il 4% (in totale una trentina di film in tutto
il periodo fascista). Se si pensa che fino al 1938-1939 la
produzione italiana rappresentava a sua volta una minima parte del
consumo cinematografico globale, si misura l'esiguità del canale
attraverso il quale fra il pubblico della settima arte arrivava il
messaggio ideologico del fascismo. Alcuni film classificati in
questa categoria si ispiravano più all'ideologia nazionalistica e
colonialistica «classica» che agli ideali specifici del regime:
alcuni esempi possono essere Lo squadrone bianco di Genina (1936) o
L'uomo della legione di Romolo Marcellini (1940). Tali ideali, se si
eccettuano i grandi affreschi storici destinati ad esaltare la
grandezza del passato nazionale - Scipione l'Africano e Giuseppe
Verdi di Gallone (rispettivamente del 1937 e del 1938), La corona
di ferro di Bla-setti (1941) - appaiono solo in una dozzina o una
quindicina di film fra i quali vanno citati Condottieri del
filonazista Luis Trenker (1937), L'assedio dell'Alcazare Bengasi di
Genina e Gente dell'aria di Esodo Pratelli (1943).
Bisogna concludere che il messaggio ideologico diffuso dal cinema
d'intreccio era per il 95% un messaggio «apolitico»? Certamente no.
Il regime, che aveva anche molte altre armi a disposizione,
compresi i cinegiornali e le pellicole di propaganda dell'istituto
LUCE, si dimostrava pienamente soddisfatto di una produzione che
rispondeva largamente alle aspirazioni del suo pubblico
piccolo-borghese. Certo circolava poco eroismo nel cinema italiano
dell'epoca fascista. Pochi riferimenti all'«uomo nuovo» sognato da
Starace se non in qualche produzione fuori serie, dispendiosissima
e non sempre molto redditizia. Ma c'era anche ben poca critica
diretta o dissimulata del regime. Quando ciò accadeva, come nel
caso di Ragazzo di Perilli, la cosa era quasi sempre fortuita e in
questo caso gli organismi di sorveglianza badavano a passare le
opere al loro vaglio e a far procedere ai tagli necessari. Fatti di
questo tipo erano rarissimi. Troppi interessi finanziari erano in
gioco perché l'autocensura non bastasse a cancellare preventivamente
tutto ciò che poteva dispiacere ai funzionari del Minculpop e al
censore supremo di Villa Torlonia.
Il risultato fu un cinema lenificante e conformistico,
rappresentativo delle idee e dei comportamenti sociali di una
piccola borghesia che era rimasta molto legata ai valori
tradizionali. La famiglia, il lavoro, il rispetto della gerarchia
sociale (con una punta di fronda contro l'alta società borghese e
aristocratica), una morale sessuale rigorosa, il rifiuto del
disordine sotto tutte le forme ne costituivano gli ingredienti
principali. Il tutto si muoveva in un universo irreale, senza
problemi, da cui erano bandite tutte le «tare» delle società
«decadenti» (delinquenza, suicidio, prostituzione, omosessualità
ecc.) e dove regnavano l'ottimismo e l'armonia interclassista. Era
un cinema più vicino a quello di certe commedie americane made in
Hollywood (si parla di «telefoni bianchi» per indicare i loro
omologhi italiani degli anni '30) che a quello nazista.
Poche opere si sottraevano, in queste condizioni, al conformismo
generale, anche quelle che si elevavano al disopra della triste
mediocrità delle produzioni «commerciali», i cui registi erano
Mario Camerini (// signor Max, Centomila dollari, L'amerò sempre),
Alessandro Blasetti ( Quattro passi fra le nuvole, Retroscena),
Luigi Chiarini ( Via delle Cinque lune, La bella addormentata) o
Mario Bonnard ( Campo de' fiori). Però, mentre il cinema italiano si
era sottratto fin dall'inizio all'inquadramento ideologico, si
assistette nel corso degli anni che precedettero la caduta del
regime, al risveglio di uno spirito contestativo che superava
ampiamente il campo cinematografico. Ancora timido alla fine degli
anni '30, esso si rafforzò nel corso della guerra, talvolta
scegliendo la via prudente dell'estetismo puro - Mario Soldati,
Alberto Lattuada, Renato Castellani sono rappresentativi di questa
corrente che col suo formalismo aggressivo esprimeva la propria
opposizione passiva al regime - prima di arrivare a una rimessa in
discussione più radicale. Tale rottura con il conformismo dei
«telefoni bianchi», dei film musicali e delle commedie
«sorridenti», preparata dal piccolo gruppo dei registi che
gravitavano intorno alla rivista «Cinema» (Zavattini, Antonioni,
Rossellini, Visconti, Pietrangeli) sfociò nel 1943 in opere che
appartengono già a un orientamento neorealistico: Ossessione di
Visconti, Quattro passi fra le nuvole di Blasetti, I bambini ci
guardano, di Vittorio De Sica.
L'esempio del cinema illustra tutti i limiti del totalitarismo
fascista. Limiti socio-economici, con la vittoria, nel 1938, degli
industriali dei film sui burocrati e gli ideologi. Limiti
culturali, contrassegnati dal fallimento del cinema «politico» nei
confronti di un cinema ricreativo che poco si differenzia dal
modello hollywoodiano. Limiti politici, infine, per i quali i
migliori registi degli anni '40 metteranno il loro talento al
servizio di una resistenza «passiva» che però concorse alla
corrosione del regime. Come vi concorsero nel campo letterario il
Moravia degli Indifferenti, pittore senza indulgenze di una
borghesia cinica e disincantata, il Cesare Pavese di Paesi tuoi e
il Vittorini di Conversazioni in Sicilia.
NOTE
1 Come è stato messo in evidenza da E. Ragionieri,
Il partito fascista (appunti
per una ricerca), in La Toscana nel
regime fascista, Firenze 1971, per il caso della To
scana.
2 Fascisme et dictature, Maspero, Paris 1970; du
Seuil, Paris 1974.
3 M. Poulantzas, op. cit.
4 Sui rapporti fra il cinema e il fascismo
nell'Italia mussoliniana si possono
consultare i lavori di Jean Gili
la cui tesi di Stato tratta questo argomento. Cfr. in
particolare:
Le cinema fasciste italien (1922-1945), in «Dossiere du cinema
Cinéa-
stes 3», Casterman, Paris-Tournai 1973; Aspects de
l'idéologie dominante dans le cine
ma italien de l'epoque fasciste,
in Recherches sur l'Italie contemporaine, Ecole francaise
de Rome,
MEFRM 90, 1978, I, pp. 291-312. L'intervention de l'Etat dans le
cinema
italien de l'epoque fasciste, memoria dell'École francaise de
Rome, 1978 dattilo
scritto inedito.
5 Q. Navarra, Memorie del cameriere di Mussolini,
Milano 1946.
6 Molti film stranieri vennero invece vietati
dalla censura: fra questi, Scarface
di Howard Hawks (1932) al quale
era stato rimproverato di rappresentare sullo
schermo gangster di
origine italiana.