Pierre Milza, Serge Berstein
Il Fascismo
Storia Universale
RCS, Milano 2004
CAPITOLO SETTIMO
IL SOCIALISMO ITALIANO DAL 1918 AL 1926
La storia del movimento socialista italiano l'indomani del primo
conflitto mondiale è la storia di un'occasione mancata. Infatti esso
appariva, allora, come l'erede più serio, più ricco di avvenire di
uno Stato liberale in agonia. Nitri, che dirigeva allora l'Italia,
e ne conosceva bene i problemi, lo ammetteva in questi termini:
«Dall'armistizio del novembre 1918 all'occupazione delle fabbriche
del settembre 1920 il partito socialista fu, grosso modo, la sola
forza organizzata del Paese mentre la confusione regnava nelle
altre». Ma il PSI apparve incapace di cogliere l'eredità che gli
sembrava destinata, a causa della sua dottrina e delle sue
divisioni interne. Alla fine del 1920, se la lasciò sfuggire prima
di scomparire vittima delle proprie debolezze, sotto i colpi del
fascismo.
1. Il miraggio del massimalismo
L'influenza del partito socialista italiano nel 1918 non si deve
misurare né sulla base del numero degli iscritti - 40.000 alla
vigilia del conflitto - né dei suoi rappresentanti in Parlamento
(una cinquantina di deputati dopo le elezioni dei 1913). Essa
derivava dal fatto che il PSI dalla sua fondazione nel 1892
rappresentava l'espressione politica delle masse italiane. Il ruolo
che esse sembravano destinate a interpretare l'indomani di un
conflitto nel corso del quale non si erano risparmiate le promesse
lo destinava a un ruolo politico di primo piano. Vi era preparato?
La risposta è diversa a seconda che si studi il radicamento del
partito o il suo contenuto teorico.
Il radicamento era notevole dovunque la CGL, il sindacato
socialista che nel 1914 contava 400.000 membri, era anch'essa
saldamente organizzata. Così nell'Italia settentrionale, non solo
nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova, ma anche nelle zone
rurali dove le Camere del lavoro distribuivano l'occupazione e
organizzavano il movimento cooperativo. Grazie a questo sostegno del
sindacalismo operaio, il PSI deteneva molti importanti comuni come
Milano, Bologna, Genova, Ravenna, Reggio Emilia ecc., e un numero
ancora più elevato di amministrazioni comunali di zone agricole (223
su 280 nella sola Emilia). I socialisti poterono così esercitare sul
piano municipale un'attività sociale notevole. Possiamo citare il
caso di Reggio Emilia, dove dominava l'influenza di Camillo
Prampolini direttore della «Giustizia» e profeta di un «socialismo
evangelico». Il comune organizzò in questa città, nei 41 mesi del
conflitto, e con grande vantaggio della popolazione, i servizi
farmaceutici, la produzione del pane, la distribuzione del latte e
della carne. Gestiva o controllava molti magazzini di generi
alimentari, un ristorante, un molino. Nell'insieme, in provincia le
cooperative agricole gestivano 2000 ettari di terreno; agivano 86
cooperative di consumo che raccoglievano 16.000 aderenti e che nel
1920 registrarono un giro d'affari di 53 milioni di lire. Altrove le
cooperative socialiste gestivano spesso i lavori pubblici e
ottenevano concessioni di appalti dello Stato. Giolitti non esitava
a favorire queste concrete realizzazioni del socialismo.
Ma lo stesso successo di queste realizzazioni non restò senza
influenza sul comportamento ideologico del socialismo italiano. La
maggior parte dei dirigenti venuti dalla borghesia si accontentava
di un socialismo integrato nello Stato «borghese». Si richiamava a
un riformismo prudente e pensava che la trasformazione progressiva
della società avrebbe permesso di evitare una rivoluzione che li
spaventava. Ma questo socialriformismo non si adattava alle masse
dell'Italia meridionale e centrale dove il gradualismo socialista
si scontrava con la resistenza dell'aristocrazia fondiaria o di
gruppi di borghesia urbana solidamente radicati nel potere. Nelle
regioni meno privilegiate si svilupperà allora, come reazione alla
linea ufficiale del partito, una tendenza anarchizzante
rappresentata da uomini come Arturo Labriola, Paolo Orano e
Mussolini. Vicini ai riformisti, ma preoccupati di mantenere
l'unità del partito, gli uomini della direzione assunsero un
orientamento centrista. Erano essenzialmente i redattori della
rivista «Critica sociale» Claudio Treves e Filippo Turati. Li
potremmo definire dei «kautskiani» che ritenevano che per
mobilitare le masse il programma del partito doveva restare
esplicitamente rivoluzionario mentre nella pratica il
comportamento dei dirigenti del PSI poteva essere riformista. Dalla
sua fondazione, il partito socialista navigava quindi fra due
scogli, di volta in volta scartando a destra o a sinistra per
conservare la propria linea centrista. Ma il congresso tenuto nel
1912 vide prevalere le tendenze di sinistra, che da allora
detennero la segreteria generale del partito con l'intransigente
Costantino Lazzari, avversario di Turati da lunga data, e la
direzione dell'«Avanti!» dove Mussolini sostituì Treves prima di
cedere a sua volta il posto a Giacinto Menotti Serrati.
Come dovunque, anche nel PSI l'impatto della guerra fu profondo.
Ostili fino all'ultimo momento all'intervento nel conflitto, i
socialisti italiani non si legarono, come i partiti di altri Paesi
belligeranti, all' Union sacrée. Tuttavia, formato da un'ormai lunga
tradizione legalistica, il PSI non si spinse, come volevano prima
della guerra i socialisti rivoluzionari, fino al sabotaggio della
mobilitazione per abbattere il regime capitalistico. «Né aderire né
sabotare» fu la parola d'ordine lanciata da Lazzari. Il PSI però non
restò inattivo. Fu l'italiano O. Morgari che, prendendo contatto
nel 1915 con le minoranze neutrali, organizzò nel settembre la
conferenza di Zimmerwald che condannava formalmente l’Union sacrée.
L'anno seguente, il PSI mandò 8 delegati a Kienthal, dove i
rappresentanti italiani si collocarono più dalla parte della «destra
di Zimmerwald» favorevole alla ricostruzione della II Internazionale
che da quella della proposta fatta da Lenin di costituire una nuova
organizzazione, che avrebbe approfittato del contesto fornito dalla
guerra per scatenare in tutti i Paesi movimenti rivoluzionari. Una
posizione arretrata rispetto a quella del dirigente bolscevico, ma
molto coraggiosa se raffrontata al clima da Union sacrée che
regnava in Italia.
I dirigenti del socialismo italiano pensavano che la II
Internazionale ricostruita avrebbe potuto giocare nel conflitto un
ruolo di mediazione e imporre ai belligeranti una «pace senza
annessioni né indennità». Il loro atteggiamento non si smentì
nemmeno dopo Caporetto, quando da tutti gli ambienti vennero
pressioni ai socialisti perché entrassero nella «Sacra unione»
patriottica. Lazzari e Serrati vennero imprigionati per
disfattismo, mentre molti militanti non esitarono a disertare. Non
si assistette, su questo punto, a una totale unanimità, anzi membri
influenti del partito come Treves, Turati e il segretario della CGL
R. Rigola assunsero posizioni interpretabili come appoggio alla
«Sacra unione», preludio alle scissioni del dopoguerra. Ma si può
dire che a livello della direzione del PSI l'opposizione alla guerra
non abbia cessato di rafforzarsi e di diventare intransigente.
Questa intransigenza mai smentita ebbe, dopo la stipulazione della
pace, una duplice conseguenza. Da un lato il partito socialista
appariva, agli occhi dei lavoratori italiani, come la sola forza
politica che non avesse avallato una guerra di cui essi si sentivano
le vittime principali. Di qui l'enorme progresso registrato dal
movimento nei mesi che seguirono l'armistizio quando gli iscritti
alla CGL passarono a 1.150.000 e quelli al PSI a 70.000. D'altra
parte - ed è la conseguenza meno positiva per il futuro del
socialismo in Italia - l'opposizione alla guerra coinvolgeva allo
stesso grado nella stessa riprovazione i governanti borghesi che
l'avevano voluta, i generali che l'avevano diretta e gli ufficiali
che l'avevano fatta. L'indomani del conflitto, i socialisti
organizzarono una «caccia all'ufficiale» che indistintamente colpì
ufficiali di carriera e di riserva, di origine piccolo-borghese.
Questa classe non perdonerà ai socialisti il loro atteggiamento,
rendendo impossibile un'alleanza fra le forze proletarie e gli
elementi piccolo-borghesi, alleanza che Lenin giudicava
indispensabile al successo di una rivoluzione. L'adozione da parte
del PSI di una linea ideologica rigida non era, del resto,
favorevole a un riavvicinamento.
Il programma messo a punto nel marzo 1917 dalla direzione del PSI e
dalla CGL non andava al di là di un ardito riformismo in campo
economico e politico. A parte qualche articolo - proclamazione
della repubblica e abolizione del Senato - le riforme da esso
rivendicate - suffragio universale, libertà di sciopero, di
riunione e propaganda, sistema completo di assicurazioni sociali,
minimo vitale, espropriazione delle terre mai coltivate e, per
realizzare tutto ciò, convocazione di un'Assemblea costituente -
facevano parte dei programmi proposti dalla maggior parte delle
altre formazioni politiche all'indomani dell'armistizio. Si poteva
supporre che i socialisti sarebbero stati disposti a entrare nel
governo che si fosse impegnato a realizzare il loro programma dei
1917. Ma così non fu. Tale programma riformista, che aveva peraltro
largamente ispirato quelli delle altre formazioni, era stato nel
frattempo abbandonato dalla direzione del PSI, per due ragioni.
Prima di tutto c'era stata Caporetto, seguita dall'aggravamento
delle condizioni delle classi diseredate, che aveva provocato una
radicalizzazione del movimento. Soprattutto, c'era stato l'impatto
della Rivoluzione d'Ottobre. Essa aveva suscitato un entusiasmo
straordinario e rafforzato l'ala sinistra del partito nelle sue
convinzioni. La prospettiva era ormai di dirigere, in nome di un
socialismo «massimalista» alla russa, la rivoluzione proletaria
contro uno Stato borghese sconvolto dalla guerra e in preda a una
crisi economica, morale e politica che doveva preludere alla sua
imminente caduta. La volontà di imitare il bolscevismo si esprimeva
persino nell'adozione, da parte della tendenza di sinistra, del
termine massimalista che più che riferirsi alla posizione
ideologica rivoluzionaria dei suoi fautori rappresentava una libera
traduzione del termine russo «bolscevico». I massimalisti, i cui
principali dirigenti erano Serrati e due uomini nuovi emersi nel
corso della guerra, Bombacci e Bordiga, giudicavano del tutto
superato e inutile il programma del 1917. Non si trattava più di
ottenere delle riforme marginali ma di stabilire, con l'azione
rivoluzionaria dei consigli operai, la dittatura del proletariato.
Nei mesi immediatamente successivi alla guerra, i massimalisti
conquistarono il PSI. Al congresso di Roma del settembre 1918
ottennero una maggioranza schiacciante e si misero immediatamente a
redigere un programma. Pubblicato in dicembre, esso fece l'effetto
di una doccia fredda su tutti coloro che speravano di collaborare
col PSI in un quadro costituzionale e anche sui moderati del partito
e della CGL. Esso proclamava che obiettivo del movimento era
l'istituzione di una repubblica socialista e della dittatura del
proletariato con i seguenti fini: socializzazione dei mezzi di
produzione e di scambio, distribuzione dei prodotti esclusivamente
per il tramite della collettività, abolizione del servizio militare
obbligatorio e disarmo generale, gestione dei servizi pubblici dai
loro utenti ecc.
Respinte dal gruppo parlamentare e dalla CGL, le parole d'ordine
massimaliste che annunciavano prossima la rivoluzione furono
accolte dalla base del partito e dalla classe operaia in generale
con immenso entusiasmo in un periodo in cui l'agitazione e gli
scioperi, causati dall'aumento del costo della vita, producevano un
clima realmente rivoluzionario. La costituzione, nel luglio 1919, di
«soviet» nella zona di Firenze, la gestione di molti aspetti della
pubblica amministrazione da parte delle Camere del lavoro,
l'occupazione di terre permisero a Lazzari di profetizzare che gli
eventi andavano precipitando lo Stato borghese verso un esito
fatale.
Ben presto, in questo clima messianico in cui la rivoluzione
sembrava per l'indomani, nessuno osava, fra i dirigenti del partito,
affermare di non essere massimalista, nemmeno il moderato Turati.
Alla vigilia delle elezioni del novembre 1919, il XVI congresso del
partito svoltosi a Bologna fu messo di fronte a due mozioni. La
prima era firmata da Turati e Lazzari e si dichiarava
massimalista-unitaria, benché fosse in realtà nettamente
gradualista. L'altra era la mozione massimalista di Serrati, che
chiedeva l'abbandono del programma del 1892 e la preparazione della
rivoluzione tramite l'istituzione di consigli operai e di soldati.
La mozione di Serrati prevalse con 48.000 mandati contro 14.800
andati a quella di Turati. Il congresso ratificò anche per
acclamazione la decisione di aderire alla III Internazionale. Il
massimalismo era diventato la dottrina ufficiale del PSI.
2. Il fallimento della linea di sinistra
Il trionfo della mozione massimalista a Bologna non doveva
suscitare illusioni. Era il prodotto dello slancio messianico del
dopoguerra, ma Serrati non si era preoccupato di definire una
tattica rivoluzionaria coerente, e, soprattutto, adatta alla realtà
italiana. Serrati aspettava la rivoluzione dalla decomposizione pura
e semplice dello Stato borghese. La rivoluzione era per lui un
processo naturale, quasi indipendente dall'azione dei socialisti ai
quali spettava solo di porsi nella direzione della storia per
raccoglierne i frutti. Bastava allora far opera di propaganda per
accelerare un processo giudicato inevitabile e preparare la
costituzione di consigli di lavoratori che avrebbero dovuto
raccogliere il potere quando lo Stato liberale fosse crollato.
In tali condizioni l'agitazione e gli scioperi organizzati dai
socialisti non avevano l'obiettivo della conquista insurrezionale
del potere ma l'aggravamento della crisi del capitalismo. Di qui, i
bollettini di vittoria che accompagnavano anche scioperi che non
ottenevano risultati, come quello, per esempio, del 20-21 luglio,
uno sciopero generale internazionale di 24 ore contro l'intervento
in Russia che terrorizzò la borghesia italiana ma non conseguì
niente di tangibile. A questo proposito si può citare la frase del
celebre Missiroli: «Si temeva il drago dell'Apocalisse dalle sette
teste e dalle dieci corna e si trovò Bombacci1!» È evidente che un
tale atteggiamento doveva sfociare, a lungo andare, in una
smobilitazione completa della classe operaia.
Bisogna aggiungere che la situazione italiana in generale e quella
del socialismo in particolare rendevano almeno irrealistiche le
prospettive di Serrati. Prima di tutto perché i quadri attivi del
socialismo erano abituati a una tattica riformistica e legalitaria e
non a un'azione distruttrice delle strutture dello Stato. Deputati,
sindaci, dirigenti di cooperative e leghe contadine, militanti
sindacali che facevano la forza del socialismo italiano non erano
quel corpo di rivoluzionari di professione che Lenin aveva formato
in Russia. Ma trascurandoli ed emarginandoli, Serrati si separava
dalla realtà italiana. D'altra parte, e Lenin lo ricordava in una
lettera a Serrati il 29 ottobre 1919, la presa del potere era
possibile solo nella prospettiva di un'alleanza con la piccola
borghesia. Ma l'atteggiamento dei massimalisti nei confronti degli
ex combattenti impediva un tale avvicinamento. Molti osservatori
giudicavano che il «millenarismo» di Serrati era privo di precisi
contenuti e che si trattava solo di vociferazioni pericolose.
Anche in seno ai gruppi che speravano in una rivoluzione che
instaurasse la dittatura del proletariato, tale atteggiamento aveva
suscitato riserve e provocato opposizioni. La più vivace era di
origine napoletana e si manifestò al congresso di Torino. Era
diretta dall'ingegnere napoletano Amadeo Bordiga. Per lui la
partecipazione alle elezioni, l'ingresso nel processo democratico
costituivano pericolosi errori ed egli auspicava una tattica di
astensionismo e di preparazione dell'insurrezione che Lenin condannò
nel pamphlet Estremismo malattia infantile del comunismo. Accanto a
questo primo gruppo che si esprimeva nel giornale «Il soviet» e che
al congresso di Bologna raccolse solo 3.417 voti, era sorta
un'altra corrente di opposizione interna a Torino. Essa si raccolse
intorno alla rivista «L'Ordine Nuovo» e i suoi dirigenti erano
Antonio Gramsci, guida spirituale del gruppo, Angelo Tasca e Palmiro
Togliatti. La loro idea fondamentale era che la rivoluzione doveva
partire da una presa di coscienza organizzata della base che si
poteva formare nei consigli di fabbrica destinati a realizzare il
processo rivoluzionario affermando il proprio controllo
sull'impresa, cellula di base della produzione capitalistica. Era
una posizione più realistica di quella di Serrati, ma venata di
tendenze anarchizzanti. Comunque sotto la direzione di Serrati, fra
l'ottobre 1919 e l'autunno 1920, il massimalismo tentò la sua
esperienza e subì un duro fallimento.
Vittorioso alle elezioni del novembre 1919, col 32% dei voti e 156
deputati, il partito socialista rifiutò, nonostante il parere di
Turati, di entrare in un ministero che gli avrebbe permesso di
realizzare il programma del 1917. È giusto riconoscere però che la
classe operaia non avrebbe apprezzato una partecipazione al potere
dei socialisti dopo le promesse che questi avevano fatto prima e
dopo il congresso di Bologna e tenendo conto del clima
rivoluzionario che allora regnava in Italia.
Il 1920 vide culminare l'agitazione popolare in una serie di azioni
che lasciarono lo Stato disarmato (occupazione delle fabbriche,
ondata di scioperi, insurrezione di Ancona ecc.). Tutti questi
movimenti avevano il carattere di scioperi selvaggi partiti
spontaneamente dalla base pur riflettendo una volontà politica
rivoluzionaria. Di fronte a questa azione che sembrava rispondere
alle loro aspirazioni, che cosa facevano i massimalisti? In nessun
momento il partito socialista pensò a inquadrare o a sfruttare il
movimento delle occupazioni di terre; lo abbandonò invece alle
iniziative dei dirigenti locali, sindacalisti o cattolici. Di
fronte all'agitazione operaia la direzione del PSI si dimostrò
altrettanto irresponsabile non dando nessuna direttiva e
abbandonando il movimento alle sue tendenze anarchiche, talvolta
frenandolo quando esso tendeva all'insurrezione. L'indomani delle
giornate di Ancona, la direzione del PSI dichiarò: «Lavoratori! la
rivoluzione proletaria non può essere opera di un gruppo di
individui né compiersi in un'ora. È il risultato di una preparazione
formidabile compiuta attraverso sforzi sovrumani e una disciplina
di ferro».
Quale fu questa preparazione formidabile, quali furono gli sforzi
sovrumani indicati dalla direzione massimalista? Risiedettero prima
di tutto in un'azione di propaganda e di scatenamento contro le
strutture dello Stato, con un susseguirsi ininterrotto di scioperi
e anche con manifestazioni come quella che si svolse a Montecitorio
il 10 dicembre 1919, quando i deputati del PSI accolsero il re al
grido di «W la repubblica socialista!» e lasciarono la sala delle
sedute prima del discorso della Corona. Il che valse loro di essere
cacciati e malmenati nelle strade di Roma da studenti e ufficiali
monarchici, senza altri risultati concreti. Si trattava poi di
creare i consigli operai indispensabili al successo di una
rivoluzione di tipo bolscevico. Anche in questo caso, la direzione
massimalista moltiplicò gli ordini del giorno offensivi lasciando
però che fosse la CGL riformista ad organizzare i consigli di
fabbrica. Quando, alla fine dell'estate 1920, si sviluppò il
potente movimento dell'occupazione delle fabbriche partito
dall'Alfa Romeo di Milano per diffondersi in tutto il Nord
industriale, mentre la FIOM consapevole delle possibilità di
vittoria pretese l'instaurazione del controllo operaio sulle
imprese, lo stato maggiore massimalista si sottrasse bruscamente al
compito. Proprio quando, basandosi sui consigli operai, avrebbe
potuto mettere alla prova la «preparazione formidabile» indicata ad
Ancona, si tirò indietro. Il Consiglio nazionale del PSI declinò
l'invito della CGL a mettersi alla testa del movimento dichiarando
che poiché l'occupazione delle fabbriche aveva carattere sindacale,
spettava alla grande centrale sindacale operaia assumerne la
direzione. Essa lo fece ma, come ci si poteva aspettare, tenuto
conto delle posizioni di D'Aragona, in senso riformista e
legalitario, iniziando trattative col governo e ordinando
l'evacuazione delle fabbriche in cambio di promesse di un vago
progetto di legge sul controllo operaio.
Il fallimento dell'occupazione delle fabbriche rappresentò per i
massimalisti un fiasco completo da cui non si sollevarono più, ma
produsse insieme una crisi profonda dell'insieme del movimento
socialista italiano.
Mentre i riformisti e i massimalisti si accusavano a vicenda di
essere responsabili della sconfitta proletaria che a Mosca Lenin
sulla «Pravda» attribuiva allo spirito socialdemocratico che
sopravviveva nel PSI, il piccolo gruppo dell'«Ordine nuovo»
pubblicò in ottobre un testo che rappresentava una sconfessione
totale della direzione massimalista del partito. Analizzando il
ruolo che questa aveva avuto nella occupazione delle fabbriche, ne
derivava che la logica del suo atteggiamento imponeva la creazione
di un partito comunista. Era il periodo in cui i dirigenti del
partito bolscevico, optando per una strategia a tempi brevi,
avevano deciso di imporre ai partiti aderenti alla III
Internazionale le famose «21 condizioni». Esse giocheranno in Italia
come in Francia un ruolo di rivelatore delle opposizioni nate nel
passato e che la crisi dell'estate 1920 aveva bruscamente
riattivato. Nel gennaio 1921 al congresso di Livorno svoltosi solo
qualche giorno dopo il corrispondente francese di Tours, si
confrontarono tre tendenze principali.
I comunisti intorno a Gramsci, Misiano, Terracini, Bordi-ga e
Bombacci erano decisi ad arrivare anche alla scissione nel caso che
il congresso non accettasse le condizioni imposte da Lenin e
l'espulsione dei riformisti. Vi si opponeva una mozione detta
concentrazionista in cui si riconoscevano i socialdemocratici
Turati, Treves, Prampolini, Modigliani. Essa accettava l'adesione
alla III Internazionale, ma respingeva le 21 condizioni, pur
affermando la necessità di conquistare il potere. Infine una mozione
unitaria raccoglieva i massimalisti e affermava che bisognava
accettare le condizioni leniniste, ma chiedeva che esse fossero
interpretate tenendo conto della realtà italiana, evitando, ad
esempio, l'espulsione dei moderati per salvare l'unità del partito
in un momento difficile. Questa mozione presentata da Serrati
riportò 98.000 voti contro i 58.000 della mozione comunista e i
15.000 di quella concentrazionista. Battuti, i comunisti si
ritirarono per costituire il partito comunista (PCd'I).
Questa scissione, anche più drammatica nelle sue conseguenze di
quella che infranse l'unità del movimento operaio francese perché
si svolgeva nel pieno dell'attacco fascista, non bastò comunque a
eliminare gli equivoci. In seno al PSI restavano riformisti come
Turati e leninisti come Serrati in disaccordo coi comunisti su
semplici questioni tattiche. Allo stesso modo nel PCd'I coabitavano
leninisti ortodossi come Gramsci e Togliatti, «ultrasinistri» come
Bordiga e puri demagoghi come Bombacci. Comunque al congresso di
Livorno seguì un rapido declino del movimento marxista in Italia.
Nel corso dell'estate 1921 esso si ridusse della metà: restavano
60.000 socialisti e 30.000 comunisti mentre gli aderenti al vecchio
partito erano 200.000. Si riuscì però a limitare il disastro e
infatti alle elezioni della primavera del 1921 i socialisti
mantennero 122 seggi e i comunisti fecero eleggere 16 deputati.
La scissione di Livorno costituì soprattutto la sanzione del
fallimento dei massimalisti. Ispirandosi al modello bolscevico il
massimalismo si era però accontentato di formule sonanti e teoriche
senza fare un vero sforzo di adattamento alla realtà italiana.
Rifiutando la via legale sulla quale volevano trascinarlo i
riformisti, si era rivelato però incapace di realizzare le
concezioni rivoluzionarie della frazione comunista limitandosi ad
eccitare a parole il dinamismo rivoluzionario delle masse senza
riuscire a farlo sfociare in risultati concreti. Spaventò così la
borghesia che andò a gettarsi nelle braccia del fascismo e
scoraggiò la classe operaia portandola di sconfitta in sconfitta. Si
può sottoscrivere il giudizio di Luigi Salvatorelli, severo per i
dirigenti socialisti italiani: «il nullismo massimalista non faceva
praticamente niente altro che produrre il fascismo».
3. La battaglia antifascista
Fino all'autunno 1920 il partito socialista, impegnato nell'attesa
della rivoluzione annunciata dai massimalisti, non fece attenzione
alle prime manifestazioni del fascismo. Bisognò aspettare le
spedizioni di Bologna (novembre 1920) e di Ferrara (dicembre 1920) e
l'ingresso dei fascisti nelle liste del Blocco nazionale per le
elezioni amministrative di quell'anno per vedere i dirigenti del
PSI preoccuparsi del pericolo che per il movimento operaio
costituiva l'azione dei fasci. Contrariamente alla leggenda poi
propagata da Mussolini, il fascismo non si sviluppò abbattendo un
socialismo minaccioso e pericoloso per lo Stato borghese, ma
precipitando il declino di un socialismo in piena crisi. E fu
infatti nel periodo che va dal fallimento dell'occupazione delle
fabbriche alla scissione di Livorno che si colloca il sorgere dello
squadrismo.
I socialisti furono le principali vittime di una situazione che
mirava a «liberare la classe operaia dalla tirannia dei marxisti».
Ma restarono tuttavia inattivi e incapaci di formare un fronte
comune antifascista. La formazione, nel luglio 1921, degli «arditi
del popolo» fu favorita dai soli comunisti2. I riformisti la
sconfessarono e invece aspiravano a un governo a partecipazione
socialista che la direzione massimalista al contrario respingeva.
Tale divisione del movimento operaio di fronte all'ondata delle
violenze fasciste lo condusse a una serie di capitolazioni e di
sconfitte. Nell'agosto 1921 ci fu l'illusorio Patto di pacificazione
al quale i comunisti rifiutarono di partecipare e che i fascisti
rinnegarono dopo poche settimane, senza averlo mai davvero
rispettato. Nel giugno 1922 il gruppo parlamentare del PSI votò un
ordine del giorno del deputato Zirardini, favorevole al sostegno di
«qualsiasi ministero che garantirà la restaurazione della legge e
della libertà», ma fu immediatamente sconfessato da Serrati e dal
Consiglio nazionale del partito. Era l'inizio di una nuova
scissione. Una sessantina di deputati avevano già deciso di non
tener conto delle decisioni della direzione del PSI e di dichiararsi
«autonomi» fino al prossimo congresso, che si doveva svolgere in
ottobre a Roma. Turati, che aveva visto le sue speranze di
partecipazione sconfitte due mesi prima dal fallimento dello
«sciopero legalitario», era deciso alla rottura, né Serrati era
disposto alla conciliazione. La mozione da lui proposta, e che
chiedeva l'esclusione del blocco dei riformisti, ottenne 32.000 voti
contro i 29.000 di quella dei riformisti le cui tesi avevano in un
anno guadagnato terreno. Turati decise immediatamente di fondare un
nuovo partito, il partito socialista unitario che raccolse la metà
dei 60.000 iscritti al PSI e 65 deputati su 122, fra i quali erano i
migliori oratori e i dirigenti più esperti. Due giorni dopo, la CGL
ruppe il patto di unità d'azione coi socialisti. Tre settimane
prima dell'arrivo al potere di Mussolini, il movimento socialista
era dunque in piena disgregazione.
Eppure, ridotto dalle successive scissioni, messo al bando dalla
nazione da un governo che si proponeva la sua distruzione come il
principale dei suoi obiettivi, il partito socialista avrebbe
dimostrato nelle avversità un coraggio che non aveva avuto nel
periodo del suo splendore e avrebbe costituito, in condizioni
difficilissime, la principale forza di opposizione al fascismo, che
salverà l'onore della democrazia italiana.
Già alla presentazione, a Montecitorio, del gabinetto Mussolini, i
due gruppi socialisti manifestarono una vivissima opposizione. Ma
gli unitari si dimostrarono i più efficaci: sia perché disponevano
degli oratori più brillanti sia perché la loro tattica mirava alla
formazione di un fronte unito degli oppositori al fascismo. Durante
il discorso del bivacco, per esempio, Modigliani e Matteotti
interruppero Mussolini al grido di «W il Parlamento! », mentre i
massimalisti si unirono ai comunisti gridando «Abbasso il
Parlamento», frase che, pur conforme alla loro ideologia, non era
però opportuna in quel momento. Rispondendo alle dichiarazioni di
Mussolini, fu Turati a fare il discorso più importante,
concludendo, in mezzo alle interruzioni e alle ingiurie, con un
vibrante elogio della libertà. Comunque la violenza fascista, legale
e illegale, si abbatté indistintamente contro unitari e
massimalisti, confusi nello stesso odio. Il terrore si esercitò
altrettanto contro i comunisti i cui dirigenti vennero aggrediti e
i cui giornali vennero saccheggiati. Essi cominciarono a rendersi
conto della vera natura del fascismo che non rappresentava - come
pensavano i massimalisti - lo stadio finale della crisi del
capitalismo ma, al contrario, un sistema per salvarlo
sacrificandogli il liberalismo politico. Quindi alle elezioni del
1924 i comunisti proposero alle due formazioni socialiste di
costituire contro il fascismo un fronte unico proletario. I
massimalisti sarebbero stati d'accordo se gli unitari avessero
accettato. Ma Matteotti rifiutò dichiarando: «Noi vogliamo
combattere per la libertà, non per la dittatura». I partiti operai
andarono perciò alla battaglia elettorale in ordine sparso mentre
la legge elettorale favoriva le grandi concentrazioni politiche e
gli squadristi assunsero l'offensiva contro i loro candidati. Questa
divisione dei «fratelli nemici» del socialismo spiega la modestia
dei risultati ottenuti: 14,6% dei voti invece del 32% del 1919 e del
25% del 1921. Ma largamente battuti sul terreno delle elezioni, i
socialisti continuarono ad opporsi con forza al regime.
All'apertura della nuova Camera, dai loro banchi venne l'attacco
più vigoroso con il discorso di Matteotti. E quando questi ebbe
pagato con la vita la sua audacia, fu Turati che assunse
l'iniziativa di utilizzare contro il regime l'indignazione suscitata
dall'attentato inaugurando la tattica dell'Aventino. Una volta di
più, però, le divergenze impedirono a questa tattica di portare dei
frutti.
4. Messa a morte del socialismo italiano
Quando nel gennaio 1925 iniziò l'offensiva fascista condotta da
Federzoni, i socialisti erano evidentemente in primo piano fra le
vittime della repressione. Si iniziò allora nella semiclandestinità
un'opposizione socialista fatta, più che dai dirigenti, dai
militanti più giovani venuti recentemente al socialismo o
simpatizzanti. Fu il caso di Firenze dove intorno al giornale «Non
mollare!» si realizzò la convergenza di un gruppo che comprendeva
giovani antifascisti attratti dal socialismo democratico: Ernesto
Rossi, i fratelli Rosselli, Dino Vannucci, l'ex riformista
Salvemini. Intorno ai fratelli Rosselli e a Pietro Nenni si
raccolse un gruppo che pubblicava la rivista «Quarto Stato», e che
tentò uno sforzo di rinnovamento teorico ugualmente lontano dal
riformismo parlamentare e dal massimalismo estremistico, fondato
sulla conoscenza della realtà sociale. Le «leggi fa-scistissime»
avrebbero posto fine a questi raggruppamenti, ma questa riflessione
del socialismo italiano sulle cause del suo fallimento proseguirà
all'estero. D'altra parte già il II congresso del PCd'I non aveva
potuto svolgersi in Italia.
Restava il fallimento. I socialisti italiani non poterono opporsi
alla marcia del fascismo verso il potere, non avendo saputo nemmeno
superare le loro divergenze per costituire un fronte comune contro
il fascismo legale. Passata l'occasione dell'Aventino, al movimento
socialista, messo fuori legge, non restava che rifugiarsi nella
clandestinità e nell'esilio.
NOTE
1 Membro della segreteria del PSI. Un personaggio
chiacchierone dotato di
qualità demagogiche, buffonesco e qualche
volta ridicolo che diventerà comu
nista, poi comunista dissidente e
infine filofascista.
2 Non sempre e non univocamente. La direzione
bordighista del partito, ob
bedendo a una concezione organica del
partito stesso, diffidente verso i movi
menti spontanei, li
sconfessò. In essi militarono però simpatizzanti
comunisti,
socialisti e anarchici di base. [N.d.T.]