Che la storia non sia una scienza come le altre, quasi tutti ne sono
persuasi, senza contare coloro i quali ritengono che non sia affatto
una scienza. Parlare di storia non è facile, ma queste
difficoltà del linguaggio conducono nel centro stesso delle
ambiguità della storia.
In questo articolo ci si sforzerà al tempo stesso di
ricondurre la riflessione sulla storia nella durata, di situare la
scienza storica stessa nelle periodizzazioni della storia, e di non
ridurla alla visione europea, occidentale, anche se, per ignoranza
di chi scrive e per lo stato – significativo – della documentazione,
bisognerà parlare soprattutto della scienza storica europea.
La parola ‘storia’ (in tutte le lingue romanze e in inglese) deriva
dal greco antico ἱστορίη, nel dialetto ionico [Keuck 1934]. Questa
forma deriva dalla radice indeuropea *wid-, *weid ‘vedere’. Donde il
sanscrito vettas ‘testimone’ e il greco ἴστωρ ‘testimone’ nel senso
di ‘colui che vede’. Questa concezione della vista come fonte
essenziale di conoscenza porta all’idea che ἴστωρ ‘colui che vede’
è anche colui che sa: ἱστωρεῖν, in greco antico, significa
‘cercare di sapere’, ‘informarsi’. Iστορίη significa dunque
‘indagine’. È il senso della parola in Erodoto all’inizio
delle sue Storie, che sono delle «ricerche», delle
«indagini» [cfr. Benveniste 1969, trad. it. p. 414;
Hartog 1980]. Vedere, donde sapere, è un primo problema.
Ma, nelle lingue romanze (e nelle altre) ‘storia’ esprime due, se
non tre, concetti differenti. Significa: 1) l’indagine sulle
«azioni compiute dagli uomini» (Erodoto) che si è
sforzata di costituirsi in scienza, la scienza storica; 2) l’oggetto
dell’indagine, quello che gli uomini hanno compiuto. Come dice Paul
Veyne, «la storia è sia un susseguirsi di avvenimenti,
sia il racconto di questo susseguirsi di avvenimenti» [1968,
p. 423]. Ma storia può avere un terzo significato,
precisamente quello di «racconto». Una storia è
un racconto che può essere vero o falso, con una base di
«realtà storica», o puramente immaginario, e
questo può essere un racconto «storico» oppure
una favola. L’inglese sfugge quest’ultima confusione in quanto
distingue history da story, ‘storia’ da ‘racconto’. Le altre lingue
europee si sforzano piú o meno di evitare queste
ambiguità. L’italiano manifesta la tendenza a designare se
non la scienza storica quanto meno i prodotti di questa scienza con
la parola ‘storiografia’, il tedesco tenta di stabilire la
differenza tra questa attività «scientifica»,
Geschichtsschreibung, e la scienza storica propriamente detta,
Geschichtswissenschaft.
Questo gioco di specchi e di equivoci
è proseguito nel corso dei secoli. Il secolo XIX, secolo
della storia, inventa sia delle dottrine, che privilegiano la storia
nel sapere, parlando, come si vedrà, sia di ‘istorismo’, sia
di ‘storicismo’, e una funzione, direi piú volentieri una
categoria del reale, la ‘storicità’ (la parola appare nel
1872 in francese). Charles Morazé la definisce cosí:
«Bisogna… cercare al di là della geopolitica, del
commercio, delle arti e della scienza stessa ciò che
giustifica l’oscura certezza degli uomini che essi non sono che uno,
trasportati come sono dall’enorme flusso di progresso che li
specifica opponendoli. Si sente che questa solidarietà
è legata all’esistenza implicita, che ciascuno prova in
sé, di una certa funzione comune a tutti. Noi chiameremo
storicità questa funzione» [1967, p. 59].
Questo concetto di storicità si è staccato dalle sue
origini «storiche», legate allo storicismo del XIX
secolo, per svolgere una funzione di primo piano nel rinnovamento
epistemologico della seconda metà del XX secolo. La
storicità permette per esempio di rifiutare sul piano teorico
la nozione di «società senza storia», rifiutata
d’altra parte dallo studio empirico delle società osservate
dall’etnologia [Lefort 1952]. Essa pertanto obbliga a inserire la
storia stessa in una prospettiva storica: «C’è una
storicità della storia. Essa implica il movimento che lega
una pratica interpretativa a una prassi sociale» [Certeau
1970, p. 484].
Un filosofo come Paul Ricœur vede nella soppressione
della storicità attraverso la storia della filosofia il
paradosso del fondamento epistemologico della storia. In effetti,
secondo Ricœur, il discorso filosofia fa scoppiare la storia in due
modelli di intelligibilità, un modello
événementiel e un modello strutturale, cosa che fa
scomparire la storicità: «Il sistema è la fine
della storia in quanto essa si annulla nella logica; anche la
singolarità è la fine della storia in quanto tutta la
storia si nega in essa. Si arriva a questo risultato, assolutamente
paradossale, che è sempre alla frontiera della storia, della
fine della storia, che si comprendono i tratti generali della
storicità» [1961, pp. 224-25].
Infine, Paul Veyne trae una doppia morale dal fondamento del
concetto di storicità. La storicità permette
l’inclusione nel campo della scienza storica di nuovi oggetti della
storia: il non-événementiel; si tratta di avvenimenti
non ancora accolti come tali: storia rurale, delle mentalità,
della follia o della ricerca della sicurezza attraverso le
età. Si chiamerà dunque
non-événementielle la storicità della quale non
avremo coscienza come tale [1971, trad. it. pp. 35 sgg.]. D’altra
parte la storicità esclude l’idealizzazione della storia,
l’esistenza della Storia, con una S maiuscola: «Tutto è
storico, dunque la storia non esiste».
Ma bisogna pur vivere e pensare con questo doppio o triplo
significato di ‘storia’. Lottare, certamente, contro le confusioni
troppo grossolane e troppo mistificanti tra i differenti
significati, non confondere scienza storica e filosofia della
storia. Condivido con la maggior parte degli storici di mestiere la
diffidenza nei confronti di questa filosofia della storia,
«tenace e insidiosa» [Lefebvre 1945-46, trad. it. p.
12], che ha la tendenza, nelle sue diverse forme, a ricondurre la
spiegazione storica alla scoperta, o all’applicazione di una causa
unica e prima, a sostituire precisamente lo studio con delle
tecniche scientifiche dell’evoluzione delle società, con
questa stessa evoluzione concepita in astrazioni fondate
sull’apriorismo o su una conoscenza molto sommaria dei lavori
scientifici.
È per me argomento di grande stupore la risonanza avuta – piú che altro fuori degli ambienti degli storici, è vero – dal pamphlet di Karl Popper The Poverty of Historicism [1960]. Non un solo storico di mestiere vi è citato. Non bisogna pertanto fare di questa diffidenza nei confronti della filosofia della storia la giustificazione di un rifiuto di questo genere di riflessione. La stessa ambiguità del vocabolario rivela che la frontiera tra le due discipline, i due orientamenti di ricerca, non è – in ogni ipotesi – strettamente tracciata né tracciabile. Lo storico non deve concluderne tuttavia di dover allontanarsi da una riflessione teorica necessaria al lavoro storico. È facile scorgere che gli storici piú inclini a non rifarsi che ai fatti non soltanto ignorano che un fatto storico risulta da un montaggio e che lo stabilirlo esige un lavoro sia tecnico sia teorico, ma anche e soprattutto sono accecati da una inconsapevole filosofia della storia, spesso sommaria e incoerente.
Certamente, lo ripeto,
l’ignoranza dei lavori storici della maggior parte dei filosofi
della storia – corrispondente del disprezzo degli storici per la
filosofia – non ha facilitato il dialogo. Ma, per esempio,
l’esistenza di una rivista di alta qualità come
«History and Theory. Studies in the Philosophy of
History», edita dal 1960 dalla Wesleyan University a
Middletown (Connecticut, Usa), prova la possibilità e
l’interesse di una riflessione comune dei filosofi e degli storici e
della formazione di specialisti informati nel campo della
riflessione teorica sulla storia.
La brillante dimostrazione di Paul Veyne relativa alla filosofia
della storia va forse un po’ oltre la realtà. Egli ritiene
[1971] che non si tratti che di un genere morto o «che
sopravvive soltanto presso epigoni di tono alquanto
popolareggiante» e che «era un genere falso». In
effetti, «a meno di essere una filosofia rivelata, una
filosofia della storia sarà un doppione della spiegazione
concreta dei fatti, e rinvierà alle leggi e ai meccanismi che
reggono questa spiegazione. Sono vitali soltanto i due casi limite:
da una parte il provvidenzialismo della Civitas Dei, e dall’altra
l’epistemologia storica. Tutto il resto è spurio»
(trad. it. p. 50, nota 8).
Senza spingersi fino ad affermare, con Raymond Aron, che
«l’assenza e il bisogno di una filosofia della storia sono
elementi ugualmente caratteristici del nostro tempo» [1961a,
p. 38], si può dire che è legittimo che ai margini
della scienza storica si sviluppi una filosofia della storia come
delle altre branche del sapere. È augurabile che essa non
ignori la storia degli storici, ma costoro devono ammettere che essa
possa avere con l’oggetto della storia altri rapporti di conoscenza
che non i loro.
È la dualità della storia come storia-realtà e
storia-studio di questa realtà che spesso spiega, almeno mi
sembra, le ambiguità di alcune dichiarazioni di Claude
Lévi-Strauss sulla storia. Cosí in una discussione con
Maurice Godelier, il quale, avendo rilevato che l’omaggio reso, in
Du miel aux cendres, alla storia come contingenza, irriducibile, si
rivoltava contro la storia e che equivaleva a «dare alla
scienza della storia uno statuto… impossibile, riducendola in uno
stallo», Lévi-Strauss replicava: «Non so cosa voi
chiamiate una scienza della storia. Mi accontenterei di dire la
storia tout court; e la storia tout court è qualcosa di cui
noi non possiamo fare a meno, precisamente perché questa
storia ci mette constantemente di fronte a fenomeni
irriducibili» [Lévi-Strauss, Augé e Godelier
1975, pp. 182-83]. Tutta l’ambiguità della parola ‘storia’
è in questa dichiarazione.
S’affronterà dunque la storia mutuando a un filosofo l’idea
di base: «La storia non è storia se non nella misura in
cui essa non ha avuto accesso né al discorso assoluto,
né alla singolarità assoluta, nella misura in cui il
senso ne resta confuso, mescolato… la storia è essenzialmente
equivoca, nel senso che essa è virtualmente
événementielle e virtualmente strutturale. La storia
è veramente il regno dell’inesatto. Questa scoperta non
è inutile; giustifica lo storico. Lo giustifica di tutte le
sue incertezze. Il metodo non può essere che un metodo
inesatto… La storia vuole essere obiettiva e non può esserlo.
Vuol far rivivere e non può che ricostruire. Vuole rendere le
cose contemporanee, ma al tempo stesso le occorre restituire la
distanza e la profondità della lontananza storica. Alla fine,
questa riflessione tende a giustificare tutte le aporie del mestiere
dello storico, quelle che Marc Bloch aveva segnalato nella sua
apologia della storia e del mestiere di storico. Queste
difficoltà non riguardano vizi di metodo, sono equivoci ben
fondati» [Ricœur 1961, p. 226].
Discorso sotto certi aspetti un po’ troppo pessimista, ma che sembra
vero.
Verranno qui presentati, quindi, dapprima i paradossi e le
ambiguità della storia, ma per meglio definirla come una
scienza, scienza originale, ma fondamentale.
Si tratterà poi della storia nei suoi aspetti essenziali,
spesso mescolati, ma che bisogna distinguere: la cultura storica, la
filosofia della storia, il mestiere di storico.
Lo si farà in una prospettiva storica, in senso cronologico.
La critica che sarebbe stata fatta nella prima parte, di una
concezione lineare e teleologica della storia, allontanerà il
sospetto che chi scrive identifichi la cronologia con il progresso
qualitativo, anche se sottolinea gli effetti cumulativi della
conoscenza e ciò che Meyerson ha chiamato «la crescita
della coscienza storica» [1956, p. 354].
Non si cercherà di essere esaurienti. Ciò che importa
è mostrare, in prima prospettiva, con qualche esempio, il
tipo di rapporto che le società storiche hanno intrattenuto
con il loro passato, il posto della storia nel loro presente.
Nell’ottica della filosofia della storia si vorrebbe mostrare,
rifacendosi al caso di alcuni grandi spiriti e di alcune correnti
importanti di pensiero, come, al di là e al di fuori della
pratica disciplinare della storia, la storia sia stata, in certi
ambienti e in certe epoche, concettualizzata, ideologizzata.
L’orizzonte professionale della storia darà, paradossalmente,
spazio maggiore alla nozione di evoluzione e perfezionamento.
Infatti, collocandosi nella prospettiva della tecnologia e della
scienza, vi incontrerà l’inevitabile idea del progresso
tecnico.
Un’ultima parte consacrata alla situazione attuale della storia
ritroverà alcuni dei temi fondamentali di questo articolo e
alcuni aspetti nuovi.
La scienza storica ha conosciuto da mezzo secolo uno slancio
prodigioso: rinnovamento, arricchimento delle tecniche e dei metodi,
degli orizzonti e dei domini. Ma, intrattenendo con le
società globali relazioni piú intense che mai, la
storia professionale, scientifica, vive una crisi profonda. Il
sapere della storia è tanto piú scosso quanto
piú il suo potere è aumentato.
1. Paradossi e ambiguità della storia.
1.1. La storia è scienza del passato o «non vi è
che storia contemporanea»?
Marc Bloch non amava la definizione «La storia è la
scienza del passato», e trovava «assurda l’idea stessa
che il passato, in quanto tale, possa essere oggetto di
scienza» [1941-42, trad. it. pp. 38-39]. Egli proponeva di
definire la storia come «la scienza degli uomini nel
tempo» [ibid., p. 42]. Intendeva con ciò sottolineare
tre caratteri della storia. Il primo è il suo carattere
umano. Sebbene la ricerca storica oggi inglobi volentieri alcuni
campi della storia della natura [cfr. Le Roy Ladurie 1967], si
ammette generalmente in effetti che la storia è storia umana,
e Paul Veyne ha sottolineato che una «differenza enorme»
separa la storia umana dalla storia naturale: «L’uomo
delibera, la natura no; la storia umana diventerebbe un nonsenso se
si trascurasse il fatto che gli uomini hanno degli scopi, dei fini,
delle intenzioni» [1968, p. 424].
Tale concezione della storia umana invita del resto molti storici a
pensare che la parte centrale, essenziale della storia sia la storia
sociale. Charles-Edmond Perrin ha scritto di Marc Bloch: «Alla
storia, egli assegna come oggetto lo studio dell’uomo in quanto
integrato in un gruppo sociale» [in Labrousse 1967, p. 3]; e
Lucien Febvre aggiungeva: «Non l’uomo, ancora una volta, non
l’uomo, mai l’uomo. Le società umane, i gruppi
organizzati» [ibid.]. Marc Bloch pensava poi alle relazioni
che intrattengono, nella storia, passato e presente. Riteneva in
effetti che la storia debba non soltanto permettere di
«comprendere il presente mediante il passato» –
atteggiamento tradizionale – ma anche di «comprendere il
passato mediante il presente» [1941-42, trad. it. pp. 50, 54].
Affermando risolutamente il carattere scientifico, astratto, del
lavoro storico, Marc Bloch negava che questo lavoro fosse
strettamente tributario della cronologia: l’errore grave, in
effetti, consisterebbe nel credere che l’ordine adottato dagli
storici nelle loro indagini debba necessariamente modellarsi su
quello degli avvenimenti. Salvo poi a restituire alla storia il suo
movimento vero, essi avranno vantaggio a incominciare col leggerla,
come diceva Maitland, «a ritroso». Donde l’interesse per
«un metodo prudentemente regressivo» [ibid., p. 55].
«Prudentemente», cioè che non trasporta
ingenuamente il presente nel passato e che non percorre a ritroso un
tragitto lineare che sarebbe tanto illusorio quanto nel senso
contrario. Vi sono delle rotture, delle discontinuità che non
si possono saltare, sia in un senso sia nell’altro.
L’idea che la storia sia dominata dal presente riposa in gran parte
su una frase celebre di Benedetto Croce, il quale dichiara che
«ogni storia» è «storia
contemporanea». Croce intende dire con ciò che
«remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti
che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre
riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei
fatti propagano le loro vibrazioni» [1938, p. 5]. Infatti,
Croce pensa che dal momento che gli avvenimenti storici possono
costantemente essere ripensati, essi non sono «nel
tempo»; la storia è la «conoscenza dell’eterno
presente» [Gardiner 1952]. Cosí questa forma estrema di
idealismo è la negazione della storia. Come ha ben visto
Carr, Croce ha ispirato la tesi di Collingwood, esposta in The Idea
of History [1932], raccolta postuma di articoli nella quale lo
storico britannico afferma – mescolando i due significati di storia,
l’indagine dello storico e la serie degli avvenimenti passati sui
quali indaga – che la «storia non tratta né del
“passato in quanto tale” né delle “concezioni dello storico
in quanto tali” ma di “entrambi i termini visti nei loro rapporti
reciproci”» [Carr 1961, trad. it. p. 26]. Concezione al tempo
stesso feconda e pericolosa. Feconda perché è vero che
lo storico parte dal suo presente per porre delle domande al
passato.
Pericolosa perché, se il passato ha nonostante tutto un’esistenza rispetto al presente, è vano credere a un passato indipendente da quello che lo storico costituisce (si veda il supplemento 16 di «History and Theory», The Constitution of the Historical Past, 1977). Questa considerazione condanna tutte le concezioni di un passato «ontologico», come è espresso, per esempio, dalla definizione della storia di Emile Callot: «Una narrazione intelligibile di un passato definitivamente trascorso» [1962, p. 32]. Il passato è una costruzione e una reinterpretazione costante e ha un avvenire che fa parte integrante e significativa della storia. Ciò è vero in un duplice senso. Anzitutto perché il progresso dei metodi e delle tecniche permette di pensare che una parte importante dei documenti del passato sia ancora da scoprire. Parte materiale: l’archeologia scopre incessantemente dei monumenti nascosti del passato, gli archivi del passato continuano senza tregua ad arricchirsi. Ma anche nuove letture di documenti, frutto di un presente che nascerà nel futuro, devono assicurare una sopravvivenza – o meglio, una vita – al passato che non è «definitivamente trascorso».
Al rapporto essenziale
presente-passato bisogna dunque aggiungere l’orizzonte del futuro.
Qui ancora i significati sono molteplici. Le teologie della storia
l’hanno subordinata a uno scopo definito come il suo fine, il suo
completamento e la sua rivelazione. È vero della storia
cristiana, segnata dall’escatologia; lo è anche per il
materialismo storico – nella sua versione ideologica – che basa su
una scienza del passato un desiderio di avvenire che non dipende
soltanto dalla fusione di un’analisi scientifica della storia
passata e di una prassi rivoluzionaria chiarita da questa analisi.
Uno dei compiti della scienza storica è quello d’introdurre,
in modo non ideologico e rispettando l’imprevedibilità
dell’avvenire, l’orizzonte del futuro nella sua riflessione [Erdmann
1964; Schulin 1973]. Si pensi semplicemente a questa constatazione
banale ma gravida di conseguenze. Un elemento essenziale degli
storici dei periodi antichi è che essi sanno quello che
è accaduto dopo.
Gli storici del tempo presente lo ignorano. La storia propriamente
contemporanea differisce cosí (sono anche altre le ragioni di
questa differenza) dalla storia delle epoche precedenti.
Questa dipendenza della storia dal passato rispetto al presente deve
indurre lo storico ad alcune precauzioni. Essa è inevitabile
e legittima nella misura in cui il passato non cessa di vivere e di
farsi presente. Ma questa lunga durata del passato non deve impedire
allo storico di prendere le sue distanze dal passato, distanze
reverenziali, necessarie per rispettarlo e per evitare
l’anacronismo.
Io penso in definitiva che la storia sia la scienza del passato, a
condizione di sapere che questo passato diventa oggetto della storia
attraverso una ricostituzione incessantemente rimessa in causa. Non
si può, per esempio, parlare di crociate come lo si sarebbe
fatto prima del colonialismo del XIX secolo, ma occorre domandarsi
se e in quali prospettive il termine ‘colonialismo’ si applichi
all’insediarsi dei crociati del medioevo in Palestina [Prawer
1969-70].
Questa interazione tra passato e presente è ciò che
è stato chiamato la funzione sociale del passato o della
storia.
Cosí Lucien Febvre [1949]: la storia «raccoglie
sistematicamente, classificando e raggruppando i fatti passati, in
funzione dei suoi bisogni presenti. Solo in funzione della vita essa
interroga la morte… Organizzare il passato in funzione del presente:
tale si potrebbe definire la funzione sociale della storia»
(trad. it. pp. 185-86). Ed Eric Hobsbawm si è interrogato
sulla «funzione sociale del passato» [1972].
Si farà ora qualche esempio di come ciascuna epoca si
fabbrica mentalmente la sua rappresentazione del passato storico.
Da Georges Duby [1973] viene risuscitata, ricreata la battaglia di
Bouvines (27 luglio 1214), vittoria decisiva del re di Francia
Filippo Augusto sull’imperatore Ottone IV e i suoi alleati.
Orchestrata dagli storiografi francesi e divenuta leggendaria, la
battaglia dopo il XIII secolo cade nell’oblio; poi conosce delle
risurrezioni, nel XVII secolo perché si esaltano i ricordi
della monarchia francese, sotto la Monarchia di luglio perché
gli storici liberali e borghesi (Guizot, Augustin Thierry) vi
scorgono l’alleanza benefica tra regalità e popolo, tra il
1871 e il 1914 come «prima vittoria dei Francesi sui
Tedeschi»! Dopo il 1945 Bouvines cade nel disprezzo
dell’histoire-bataille.
Nicole Loraux e Pierre Vidal-Naquet hanno mostrato come in Francia
dal 1750 al 1850, da Montesquieu fino a Victor Duruy si costruisca
una immagine «borghese» dell’Atene antica, le cui
principali caratteristiche sarebbero state «rispetto della
proprietà, rispetto della vita privata, fioritura del
commercio, del lavoro, dell’industria», e dove si ritrovano
anche le esitazioni della borghesia del XIX secolo:
«Repubblica o Impero? Impero autoritario? Impero liberale?
Atene assume simultaneamente tutte queste figure» [Loraux e
Vidal-Naquet 1979, pp. 207-8, 222]. Tuttavia, Zvi Yavetz,
domandandosi perché Roma era stata il modello storico della
Germania all’inizio del XIX secolo, rispondeva: «Perché
il conflitto tra signori e contadini prussiani, arbitrato dopo Jena
(1806) dall’intervento riformista dello Stato sotto l’impulso degli
statisti prussiani, forniva un modello che si credeva ritrovare
nella storia della Roma antica: Niebuhr, autore della Römische
Geschichte, apparsa nel 1811-12, era uno stretto collaboratore del
ministro prussiano Stein» [1976, pp. 289-90].
Philippe Joutard [1977] ha seguito a passo a passo la memoria del
sollevamento popolare dei camisardi ugonotti nelle Cevenne
all’inizio del XVIII secolo. Nella storiografia scritta una svolta
avviene verso il 1840. Fino ad allora gli storici, sia cattolici sia
protestanti, non avevano che disprezzo per questa rivolta di
contadini. Ma con l’Histoire des pasteurs du désert di
Napoléon Peyrat (1843), Les Prophètes protestants di
Ami Bost (1842) e poi con l’Histoire de France di Michelet
(1833-67), si sviluppa una leggenda dorata dei camisardi, alla quale
si oppone una leggenda nera cattolica. Questa opposizione si
alimenta esplicitamente sulle passioni politiche della seconda
metà del XIX secolo, facendo scontrare sostenitori del
movimento e sostenitori dell’ordine, i quali fanno dei camisardi gli
antenati di tutte le rivolte del XIX secolo, dei pionieri della
«eterna armata del disordine», «i primi precursori
dei demolitori della Bastiglia», i precursori dei comunardi e
dei «socialisti attuali, loro discendenti diretti», con
i quali «avrebbero reclamato il diritto al saccheggio,
all’omicidio, all’incendio, in nome della libertà di
sciopero». Tuttavia, in un altro tipo di memoria, trasmessa
attraverso la tradizione orale, che secerne «un’altra
storia», Philippe Joutard ha trovato una leggenda positiva e
vivente dei camisardi, ma anch’essa agente in rapporto con il
presente, che fa dei rivoltosi del 1702 «i laici e i
repubblicani» della fine del regno di Luigi XIV. Poi il
risveglio regionalista li trasforma in ribelli occitani e la
Resistenza in maquisards.
È anche in funzione di posizioni e di idee contemporanee che
è nata in Italia dopo la prima guerra mondiale una polemica
sul medioevo (Falco, Severino). Recentemente ancora il medievalista
Ovidio Capitani ha evocato la distanza e la prossimità del
medioevo in una raccolta di saggi dal titolo significativo, Medioevo
passato prossimo: «L’attualità del medioevo è
questa: sapere di non poter fare a meno di cercare dio là
dove non c’è… Il Medioevo è “attuale” proprio
perché è passato: ma passato come elemento che si
è attaccato alla nostra storia in maniera definitiva, per
sempre, e ci obbliga a tenere conto, perché racchiude un
formidabile complesso di risposte che comunque l’uomo ha dato e non
può dimenticare, anche se ne ha verificato l’inadeguatezza.
L’unica sarebbe abolire la storia…» [1979, p. 276].
Cosí la storiografia appare come un seguito di nuove letture
del passato, piena di perdite e di risurrezioni, di vuoti di memoria
e di revisioni. Questi aggiornamenti possono cosí influire
sul vocabolario dello storico e, con anacronismi concettuali e
verbali, falsare gravemente la qualità del suo lavoro. E
cosí che in esempi concernenti la storia inglese ed europea
tra il 1450 e il 1650, e a proposito di termini come ‘partito’,
‘classe’, ecc., Hexter ha reclamato una grande e rigorosa revisione
del vocabolario storico.
Collingwood ha visto in questo rapporto tra il passato e il presente
l’oggetto privilegiato della riflessione dello storico sul suo
lavoro: «Il passato è un aspetto o una funzione del
presente; è cosí che deve sempre apparire allo storico
che riflette intelligentemente sul proprio lavoro o, in altri
termini, guarda a una filosofia della storia» [cfr. Debbins
1965, p. 139].
Questo rapporto tra il presente e il passato nel discorso sulla
storia è in ogni caso un aspetto essenziale del problema
tradizionale della obiettività storica.
1.2. Sapere e potere: obiettività e manipolazione del
passato.
Secondo Heidegger, la storia sarebbe non soltanto proiezione, da
parte dell’uomo del presente, nel passato, ma proiezione della parte
piú immaginaria del suo presente, la proiezione nel passato
dell’avvenire che si è scelto, una storia romanzata, una
storia-desiderio a ritroso. Paul Veyne ha ragione di condannare
questo punto di vista e di dire che Heidegger «non fa che
elevare a filosofia antintellettualista la storiografia nazionalista
del secolo scorso». Ma non è forse ottimista quando
aggiunge: «Cosí facendo, come la civetta di Minerva,
egli si è risvegliato un po’ troppo tardi» [1968, p.
424]?
Anzitutto perché vi sono due storie almeno, e su questo
ritornerò: quella della memoria collettiva e quella degli
storici. La prima appare come essenzialmente mitica, deformata,
anacronica. Ma essa è il vissuto di questo rapporto mai
concluso tra il presente e il passato. È augurabile che
l’informazione storica prodigata dagli storici di mestiere,
volgarizzata dalla scuola e – almeno cosí dovrebbe essere –
dai mass media, corregga questa storia tradizionale falsata. La
storia deve rischiarare la memoria e aiutarla a rettificare i suoi
errori. Ma lo storico stesso è indenne da una malattia se non
del passato, quanto meno del presente e forse da una immagine
inconscia di un futuro sognato?
Una prima distinzione deve essere fatta tra obiettività e
imparzialità: «L’imparzialità è
deliberata, l’obiettività inconsapevole. Lo storico non ha il
diritto di perseguire una dimostrazione a dispetto delle
testimonianze, di difendere una causa, qualunque essa sia. Egli deve
stabilire e rendere manifesta la verità o ciò che
crede essere la verità. Ma gli è impossibile essere
obiettivo, fare astrazione dalle sue concezioni dell’uomo,
specialmente quando si tratta di misurare l’importanza dei fatti e
le loro relazioni causali» [Génicot 1980, p. 112].
Bisogna spingersi piú lontano. Se bastasse questa distinzione
il problema dell’obiettività non sarebbe, secondo
l’espressione di Carr, «a famous crux» che ha fatto
versare molto inchiostro. [Si vedano specialmente Junker e Reisinger
1974; Leff 1969, pp. 120-29; Passmore 1958; Blake 1959].
Si segnaleranno anzitutto le incidenze dell’ambiente sociale sulle
idee e i metodi dello storico. Wolfgang J. Mommsen ha rilevato tre
elementi di questa pressione sociale: «1) L’immagine che di
sé (self-image) ha il gruppo sociale del quale lo storico
è l’interprete o al quale appartiene o è infeudato. 2)
La sua concezione delle cause del mutamento sociale. 3) Le
prospettive di mutamenti sociali a venire che lo storico giudica
probabili o possibili e che orientano la sua interpretazione
storica» [1978, p. 23].
Ma se non si può evitare ogni «presentismo» –
ogni influenza deformante del presente sulla lettura del passato –
se ne possono limitare le conseguenze nefaste per
l’obiettività. Anzitutto, e ritornerò su questo punto
capitale, perché esiste un corpo di specialisti abilitati a
esaminare e giudicare la produzione dei loro colleghi.
«Tucidide non è un collega», ha detto
giudiziosamente Nicole Loraux [1980], mostrando che la sua Guerra
del Peloponneso, benché si presenti a noi come un documento,
che dà ogni garanzia di serietà al discorso storico,
non è un documento nel senso moderno del termine, ma un
testo, un testo antico, che è anzitutto un discorso
appartenente anche all’ambito della retorica. Ma mostrerò
piú avanti – come ben sa Nicole Loraux – che ogni documento
è un monumento o un testo, e non è mai
«puro», cioè puramente obiettivo. Resta il fatto
che da quando vi è storia vi è accesso a un mondo di
professionisti, esposizione alla critica degli altri storici. Quando
un pittore dice del quadro di un altro pittore «È fatto
male», uno scrittore dell’opera di un altro scrittore
«È scritta male», nessuno s’inganna; ciò
vuol dire soltanto «Non mi piace». Ma quando uno storico
critica l’opera di un «collega» può certo
ingannarsi e una parte del suo giudizio può dipendere dal suo
gusto personale, ma la critica sarà fondata, almeno in parte,
su criteri «scientifici». Dall’alba della storia
è sul metro della verità che si giudica lo storico. A
torto o a ragione Erodoto passa a lungo per «bugiardo»
[Momigliano 1958; cfr. anche Hartog 1980] e Polibio nel libro XII
delle sue Storie, nel quale espone le proprie idee sulla storia,
attacca soprattutto un «confratello», Timeo.
Come ha detto Wolfgang J. Mommsen, le opere storiche, i giudizi
storici sono «intersoggettivamente comprensibili» e
«intersoggettivamente verificabili». Questa
intersoggettività è costituita dal giudizio degli
altri, e anzitutto da quello degli altri storici. Mommsen rileva tre
modi di verifica: 1) sono state utilizzate fonti pertinenti e
l’ultimo stadio della ricerca è stato preso in
considerazione? 2) fino a che punto questi giudizi storici si sono
avvicinati a una integrazione ottimale di tutti i dati storici
possibili? 3) i modelli espliciti o soggiacenti di spiegazione sono
rigorosi, coerenti e non contraddittori? [1978, p. 33]. Si
potrebbero trovare anche altri criteri, ma la possibilità di
un largo accordo degli specialisti sul valore di una gran parte di
ogni opera storica è la prova prima della sua
«scientificità» e la prima pietra di paragone
dell’obiettività storica.
Se tuttavia si vuole applicare alla storia la massima del grande
giornalista liberale Scott, «i fatti sono sacri, i giudizi
sono liberi» [citato in Carr 1961, trad. it. p. 14], bisogna
fare due rilievi. Il primo è che il campo dell’opinione
è in storia meno vasto di quanto il profano creda, se si
resta nel campo della storia scientifica (si parlerà
piú avanti della storia dei dilettanti, degli
«appassionati»); il secondo è che, in cambio, i
fatti sono molto meno sacri di quanto non si creda, dato che se
fatti ben stabiliti (per esempio la morte di Giovanna d’Arco sul
rogo a Rouen nel 1431, della quale dubitano solo i mistificatori e
gli ignoranti incalliti) non possono essere negati, in storia il
fatto non è la base essenziale dell’obiettività, sia
perché i fatti storici sono fabbricati e non dati, sia
perché in storia l’obiettività non significa pura
sottomissione ai fatti.
Sulla costruzione del fatto storico si troveranno delle messe a
punto in tutti i trattati di metodologia storica [per esempio Salmon
1969, ed. 1976, pp. 46-48; Carr 1961, trad. it. pp. 11-35; Topolski
1973, parte V]. Si citerà solo Lucien Febvre nella sua
celebre prolusione al Collège de France [1933]: «Non
dato, ma creato dallo storico – e quante volte? Inventato e
fabbricato per mezzo di ipotesi e di congetture, per mezzo di un
lavoro delicato e appassionante… Elaborare un fatto significa
costruirlo. Se si vuole, fornire la risposta a un problema. E, se
non c’è il problema, ciò significa che non c’è
niente» (trad. it. pp. 73-74). Non vi è fatto o fatto
storico che all’interno di una storia-problema.
Che l’obiettività non sia la pura sottomissione ai fatti,
ecco altre due testimonianze. Anzitutto Max Weber [1904]: «Un
caos di “giudizi esistenziali” sopra infinite osservazioni
particolari sarebbe il solo esito a cui potrebbe recare il tentativo
di una conoscenza della realtà che fosse seriamente “priva di
presupposti”» (trad. it. p. 92). Carr [1961] parla con humour
del «feticismo dei fatti» degli storici positivisti del
XIX secolo: «Ranke aveva una pia fiducia nel fatto che la
divina provvidenza si sarebbe presa cura del senso della storia se
egli si fosse preso cura dei fatti… La concezione della storia
propria del liberalismo ottocentesco mostra strette affinità
con la dottrina economica del laissezfaire… Era l’età
dell’innocenza, e gli storici vagavano per il giardino dell’Eden…
ignudi e senza vergogna dinanzi al dio della storia. Dopo di allora,
abbiamo conosciuto il Peccato e abbiamo vissuto l’esperienza della
Caduta: e gli storici che, al giorno d’oggi, fingono di fare a meno
di una filosofia della storia [considerata qui nel senso di una
riflessione critica sulla pratica storica], cercano semplicemente di
ricreare, con l’artificiosa ingenuità dei membri di una
colonia nudista, il giardino dell’Eden in un parco di
periferia» (trad. it. pp. 24-25).
Se l’imparzialità non richiede da parte dello storico che
onestà, l’obiettività vuole di piú. Se la
memoria è un luogo del potere, se autorizza manipolazioni
consapevoli o inconsapevoli, se obbedisce a interessi individuali o
collettivi, la storia, come tutte le scienze, ha per norma la
verità. Gli abusi della storia sono il fatto dello storico
solo quando diventa egli stesso un partigiano, un politico o un
valletto del potere politico [Schieder 1978; Faber 1978]. Quando
Paul Valéry dichiara che «la storia è il
prodotto piú pericoloso che la chimica dell’intelletto abbia
elaborato… La storia giustifica ciò che si vuole. Essa non
insegna rigorosamente nulla, perché contiene tutto e offre
esempi di tutto» [1931, pp. 63-64], questo spirito, per altri
versi cosí acuto, confonde la storia umana e la storia
scientifica e mostra la sua ignoranza del lavoro storico.
Anche se mostra un po’ di ottimismo, Paul Veyne ha ragione quando
scrive: «Significa non comprendere nulla della conoscenza
storica e della scienza in generale non vedere che in essa è
sottesa una norma di veracità… Assimilare la storia
scientifica ai ricordi nazionali dai quali è uscita significa
confondere l’essenza di una cosa con la sua origine; significa non
distinguere la chimica dall’alchimia, l’astronomia dall’astrologia…
Fin dal primo giorno… la storia degli storici si definisce contro la
funzione sociale dei ricordi storici e si pone come appartenente a
un ideale di verità e a un interesse di pura
curiosità» [1968, p. 424].
Scopo ambizioso, l’obiettività storica si costruisce a poco a
poco, attraverso le revisioni incessanti del lavoro storico, le
laboriose rettifiche successive, l’accumulazione delle verità
parziali. Sono stati forse due filosofi a esprimere meglio questa
lenta marcia verso l’obiettività.
Paul Ricœur: «Noi ci aspettiamo dalla storia una certa
obiettività, l’obiettività che le conviene; il modo in
cui la storia nasce e rinasce ce lo attesta: essa procede sempre
dalla rettifica della sistemazione ufficiale e pragmatica del loro
passato operata dalle società tradizionali. Questa rettifica
non ha uno spirito diverso da quello che la scienza fisica
rappresenta nei confronti della prima sistemazione delle apparenze
nella percezione e nelle cosmologie che le restano tributarie»
[1955, pp. 24-25].
E Adam Schaff [1970]: «La conoscenza si configura… come un
processo, infinito che, perfezionando il sapere sotto aspetti
diversi e raccogliendo verità parziali, non produce una
semplice somma di conoscenze, mutamenti solo quantitativi del
sapere, ma anche, e necessariamente, modificazioni qualitative della
nostra visione della storia» (trad. it. p. 254).
1.3. Il singolare e l’universale: generalizzazioni e
regolarità della storia.
La piú flagrante contraddizione della storia è senza
dubbio costituita dal fatto che il suo oggetto è singolare,
un avvenimento, un seguito di avvenimenti, dei personaggi che non si
producono che una sola volta, mentre il suo scopo, come quello di
tutte le scienze, è di cogliere l’universale, il generale, il
regolare.
Già Aristotele aveva respinto la storia dal novero delle
scienze proprio perché si occupa del particolare, che non
è oggetto di scienza. Ciascun fatto storico non è
accaduto che una volta e non accadrà che una volta. Questa
singolarità costituisce anche per molti – produttori e
consumatori di storia – la sua principale attrazione: «Amare
ciò che mai si vedrà due volte».
La spiegazione storica deve trattare oggetti «unici»
[Gardiner 1952, II, 3]. Le conseguenze di questo riconoscimento
della singolarità del fatto storico possono essere ridotte a
tre; esse hanno avuto un ruolo considerevole nella storia della
storia.
La prima è costituita dalla priorità dell’avvenimento.
Se si pensa in effetti che il lavoro storico consiste nello
stabilire degli avvenimenti, basta applicare ai documenti un metodo
che dai medesimi faccia scaturire gli avvenimenti. Cosí
Dibble [1963] ha distinto quattro tipi d’inferenza che portano dai
documenti agli avvenimenti, in funzione della natura dei documenti,
i quali possono essere: testimonianze individuali (testimony), fonti
collettive (social bookkeeping), indicatori diretti (direct
indicators), correlati (correlates). Questo eccellente metodo non ha
che il torto di fissarsi un obiettivo contestabile. Vi è
anzitutto una confusione tra avvenimento e fatto storico, e si sa
oggi che lo scopo della storia non consiste nello stabilire quei
dati falsamente «reali» che sono stati battezzati
avvenimenti o fatti storici.
La seconda conseguenza della limitazione della storia alla
singolarità sta nel privilegiare il ruolo degli individui e,
piú particolarmente, dei grandi uomini. Edward H. Carr ha
mostrato come questa tendenza risalga, nella tradizione occidentale,
ai Greci, che hanno attribuito le loro piú antiche epopee e
le loro prime leggi a individui ipotetici (Omero, Licurgo e Solone),
e si sia rinnovata nel Rinascimento con la moda di Plutarco; egli
ritrova poi ciò che chiama scherzosamente «la teoria
del “cattivo re Giovanni” [senza Terra]» (the bad King John
theory of history) nell’opera di Isaiah Berlin Historical
Inevitability (1954) [Carr 1961, trad. it. p. 52]. Questa
concezione, che è praticamente scomparsa dalla storia
scientifica, resta sfortunatamente diffusa a opera dei
volgarizzatori e dei media, a cominciare dagli editori. Non confondo
la spiegazione volgare della storia come fatta dagli individui con
il genere biografico, che – nonostante i suoi errori e le sue
mediocrità – è uno dei generi maggiori della storia e
ha prodotto dei capolavori storiografici come il Kaiser Friedrich
der Zweite di Ernst Kantorowicz (1927-31). Carr ha ragione di
rammentare ciò che Hegel diceva dei grandi uomini:
«Gl’individui cosmico-storici sono… quelli che hanno voluto e
realizzato non un oggetto della loro fantasia od opinione, ma una
realtà giusta e necessaria: quelli che sanno, avendone avuto
la rivelazione nel loro intimo, quel che è ormai il portato
del tempo e della necessità» [Hegel 1805-31, trad. it.
p. 88].
A dire il vero, come ha ben detto Michel de Certeau [1975], la
specialità della storia è sí il particolare, ma
il particolare, come ha mostrato Elton [1967], è differente
dall’individuale e specifica sia l’attenzione che la ricerca
storica, non in quanto esso sia oggetto pensato ma perché, al
contrario, è il limite del pensabile.
La terza conseguenza abusiva tratta dal ruolo del particolare nella
storia è stata di ridurla a una narrazione, a un racconto.
Augustin Thierry, come ricorda Roland Barthes, è stato uno
dei sostenitori – in apparenza tra i piú ingenui – di questa
credenza nelle virtú del racconto storico: «È
stato detto che lo scopo dello storico era quello di raccontare, non
di provare; non so, ma sono certo che in storia il miglior genere di
prova, il piú capace di colpire e di convincere gli spiriti,
il genere che permette la minore diffidenza e lascia i minori dubbi,
è la narrazione completa» [1840, ed. 1851, II, p. 227].
Ma che cosa vuol dire completa? Si tralasci il fatto che un racconto
– storico o non – è una costruzione che, sotto un’apparenza
onesta e obiettiva, procede da tutta una serie di scelte non
esplicite. Ogni concezione della storia che la identifichi con il
racconto mi pare oggi inaccettabile. Certo, la successività
che costituisce la stoffa del materiale della storia obbliga ad
accordare al racconto un posto che pare soprattutto di ordine
pedagogico. È semplicemente la necessità in storia di
esporre il come, prima di ricercare il perché, che pone il
racconto alla base della logica del lavoro storico. Il racconto non
è dunque che una fase preliminare, anche se ha richiesto allo
storico un lungo lavoro preparatorio. Ma questo riconoscimento di
un’indispensabile retorica della storia non deve condurre alla
negazione del carattere scientifico della storia stessa.
In un libro affascinante, Hayden White [1973] ha considerato l’opera
dei principali storici del secolo XIX come una pura forma retorica,
un discorso narrativo in prosa. Per giungere a spiegare, o piuttosto
per raggiungere un «effetto di spiegazione», gli storici
hanno la scelta fra tre strategie: spiegazione mediante argomento
formale, per intreccio (emplotment) e per implicazione ideologica.
All’interno di queste vi sono quattro modi di articolazione
possibili per raggiungere l’effetto esplicativo: per gli argomenti
vi è il formalismo, l’organicismo, il meccanicismo e il
contestualismo; per gli intrecci, il romanzo, la commedia, la
tragedia e la satira; per l’implicazione ideologica, l’anarchismo,
il conservatorismo, il radicalismo e il liberalismo. La combinazione
specifica dei modi di articolazione ha per risultato lo
«stile» storiografico dei singoli autori. Questo stile
è ottenuto con un atto essenzialmente poetico, per il quale
Hayden White utilizza le categorie aristoteliche della metafora,
della metonimia, della sineddoche e dell’ironia. Egli applica questa
griglia a quattro storici: Michelet, Ranke, Tocqueville e
Burckhardt, e a quattro filosofi della storia: Hegel, Marx,
Nietzsche e Croce.
Il risultato di questa indagine è anzitutto la constatazione
che le opere dei principali filosofi della storia del XIX secolo
differiscono da quelle dei loro corrispondenti nel campo della
«storia propriamente detta» solo per l’enfasi, non per
il contenuto. Risponderò subito a questa constatazione che
Hayden White non ha fatto altro che scoprire la relativa
unità di stile di un’epoca e ritrovare ciò che Taine
aveva rilevato in una prospettiva ancora piú vasta per il
XVII secolo: «Tra un pergolato di Versailles, un ragionamento
filosofico di Malebranche, un precetto di versificazione di Boileau,
una legge di Colbert sulle ipoteche, una sentenza di Bossuet sul
regno di Dio, la distanza sembra infinita, i fatti sono cosí
dissimili che al primo sguardo li si giudica isolati e separati. Ma
i fatti comunicano tra loro attraverso la definizione dei gruppi nei
quali sono compresi» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 72].
Vi è poi la caratterizzazione degli otto autori scelti nel
modo seguente: Michelet è il realismo storico come romanzo,
Ranke il realismo storico come commedia, Tocqueville il realismo
storico come tragedia, Burckhardt il realismo storico come satira,
Hegel la poetica della storia e la via al di là dell’ironia,
Marx la difesa filosofica della storia secondo il modo metonimico,
Nietzsche la difesa poetica della storia secondo il modo metaforico
e Croce la difesa filosofica della storia secondo il modo ironico.
Quanto alle sette conclusioni generali sulla coscienza storica del
XIX secolo, alle quali perviene Hayden White, esse possono
riassumersi in tre idee: 1) non vi è alcuna differenza
fondamentale tra storia e filosofia della storia; 2) la scelta delle
strategie di spiegazione storica è di ordine morale o
estetica piú che epistemologica; 3) la rivendicazione di una
scientificità della storia non è che il travestimento
di una preferenza per questa o quella modalità di
concettualizzazione storica.
Infine, la conclusione piú generale – anche al di là
della concezione della storia nel XIX secolo – è che l’opera
dello storico è una forma di attività intellettuale al
tempo stesso poetica, scientifica e filosofica.
Sarebbe troppo facile ironizzare – soprattutto a partire dallo
scheletrico sunto che ho dato di un libro pieno di suggestive
analisi di dettaglio – su questa concezione della
«metastoria», sui suoi a priori e i suoi semplicismi.
Vi scorgo due possibilità interessanti di riflessione. La
prima è che egli ha contribuito a chiarire la crisi dello
storicismo alla fine del XIX secolo, della quale si parlerà
piú avanti. La seconda è che egli permette di porre –
su un esempio storico – il problema dei rapporti tra la storia come
scienza, come arte e come filosofia.
Mi sembra che questi rapporti si definiscano anzitutto storicamente
e che là dove Hayden White vede una specie di natura
intrinseca, vi sia la situazione storica di una disciplina e che si
possa dire sommariamente che la storia, intimamente mescolata fino
alla fine del XIX secolo all’arte e alla filosofia, si sforzi e
riesca parzialmente a essere sempre piú specifica, tecnica,
scientifica e meno letteraria e filosofica.
Bisogna comunque rilevare che alcuni dei piú grandi storici
di oggi rivendicano ancora per la storia il carattere di arte.
Cosí Georges Duby: «Ritengo che la storia sia anzitutto
un’arte, un’arte essenzialmente letteraria. La storia esiste solo
con il discorso. Perché sia buona, bisogna che sia buono il
discorso» [Duby e Lardreau 1980, p. 50]. Ma d’altronde egli
afferma anche: «La storia, se deve essere, non può
essere libera: può benissimo essere un modo del discorso
politico, ma non deve essere una propaganda; può ben essere
un genere letterario, ma non deve essere della letteratura»
[ibid., pp. 15-16]. È dunque chiaro che l’opera storica non
è un’opera d’arte come le altre, che il discorso storico ha
la sua specificità.
La questione è stata ben posta da Roland Barthes: «La
narrazione degli avvenimenti passati, sottoposta comunemente nella
nostra cultura, a partire dai Greci, alla sanzione della “scienza”
storica, collocata sotto la cauzione imperiosa del “reale”,
giustificata da principî di esposizione “razionale”,
differisce veramente per qualche tratto specifico, per una
pertinenza indubitabile, dalla narrazione immaginaria quale si
può trovare nell’epopea, nel romanzo, nel dramma?»
[1967, p. 65]. Alla questione Emile Benveniste [1959] aveva risposto
insistendo sull’intenzione dello storico: «L’enunciazione
storica degli avvenimenti è indipendente dalla loro
verità “oggettiva”. Conta soltanto l’intenzione “storica”
dello scrittore» (trad. it. p. 298, nota 5).
La risposta di Roland Barthes, in termini di linguistica, è
che «nella storia “oggettiva”, il “reale” non è mai che
un significato informulato, protetto dietro l’onnipotenza apparente
del referente. Questa situazione definisce ciò che si
potrebbe chiamare l’effetto di reale… il discorso storico non segue
da vicino il reale, non fa che significarlo, senza cessare di
ripetere è accaduto, senza che questa asserzione possa mai
essere altro che il significato inverso di tutta la narrazione
storica» [1967, p. 74]. Barthes termina il suo intervento
spiegando il decadere della storia-racconto, oggi, con la ricerca di
una maggiore scientificità: «Cosí si comprende
che la cancellazione (se non la scomparsa) della narrazione nella
scienza storica attuale, che cerca di parlare delle strutture
piú che delle cronologie, implica ben piú di un
semplice cambiamento di scuole, una vera trasformazione ideologica:
la narrazione storica muore perché il segno della storia
è ormai meno il reale che l’intelligibile» [ibid., p.
75].
Su un’altra ambiguità del termine ‘storia’, che nella maggior
parte delle lingue designa la scienza storica e un racconto
immaginario, la storia e una storia (l’inglese, s’è detto,
distingue story e history [cfr. Gallie 1963, pp. 150-72]), Paul
Veyne ha fondato una visione originale della storia.
Per lui la storia è sí un racconto, una narrazione, ma
è «racconto di avvenimenti veri» [1971, trad. it.
p. 23]. Essa s’interessa a una forma particolare di
singolarità, di individualità che è lo
specifico: «La storia s’interessa ad avvenimenti
individualizzati di cui nessuno è inutile ripetizione di un
qualsiasi altro, è però vero anche che non è la
loro individualità in quanto tale che la interessa. Essa
cerca di comprenderli, vale a dire di ritrovarvi una sorta di
generalità, o piú precisamente, di
specificità» [ibid., p. 102]; e ancora: «La
storia è la descrizione di ciò che è specifico
– vale a dire comprensibile – negli avvenimenti umani» [ibid.,
p. 106]. La storia rassomiglia dunque a un romanzo. Essa è
fatta di intrecci. Si vede ciò che questa nozione ha
d’interessante nella misura in cui essa preserva la
singolarità senza farla cadere nel disordine, rifiuta il
determinismo ma implica una certa logica, valorizza il ruolo dello
storico che «costruisce» il suo studio storico come un
romanziere la sua «storia».
Agli occhi di chi scrive tale nozione ha il torto di far credere che
lo storico abbia la stessa libertà del romanziere e che la
storia non sia affatto una scienza, ma – per quante precauzioni
prenda Veyne – un genere letterario; essa appare come una scienza
che ha – il che è banale ma bisogna pur dirlo – sia i
caratteri di tutte le scienze, sia dei caratteri specifici.
Una prima precisazione. Di fronte ai sostenitori della storia
positivista che hanno creduto di poter bandire ogni immaginazione, e
anche ogni «idea», dal lavoro storico, numerosi storici
e teorici della storia hanno rivendicato e rivendicano ancora il
diritto all’immaginazione.
William Dray ha anche definito la «rappresentazione
immaginativa» (imaginative re-enactment) del passato come una
forma di spiegazione razionale. La «simpatia» che
permette di sentire e di far sentire un fenomeno storico non
sarà dunque che un procedimento di esposizione [Dray 1957;
cfr. Beer 1963]. Gordon Leff ha opposto la ricostruzione
immaginativa dello storico al procedimento dello specialista delle
scienze della natura: «Lo storico, a differenza di chi opera
nel campo delle scienze naturali, deve crearsi il proprio quadro per
valutare gli avvenimenti di cui si occupa; egli deve fare una
ricostruzione immaginativa di ciò che, per sua natura, non
era reale, ma era piuttosto contenuto in avvenimenti individuali.
Deve astrarre il complesso di atteggiamenti, valori, intenzioni e
convenzioni che fa parte delle nostre azioni per coglierne il
significato» [1969, pp. 117-18].
Questo apprezzamento dell’immaginazione dello storico sembra
insufficiente. Vi sono due specie d’immaginazione delle quali lo
storico può fare sfoggio. Quella che consiste nell’animare
ciò che è morto nei documenti e che fa parte del
lavoro storico, poiché questo mostra e spiega le azioni degli
uomini. È augurabile che s’incontri questa capacità
d’immaginazione che rende concreto il passato, proprio come Georges
Duby augurava talento letterario allo storico. Esso è ancor
piú desiderabile poiché è necessario che lo
storico dia prova di questa forma d’immaginazione che è
l’immaginazione scientifica e che si manifesta, al contrario, con il
potere di astrazione. Nulla qui distingue o deve distinguere lo
storico dagli altri uomini di scienza. Egli deve lavorare sui suoi
documenti con la stessa immaginazione dei matematici nei loro
calcoli o del fisico e del chimico nelle loro esperienze. È
una questione di stato d’animo e non si può che seguire
Huizinga [1936] quando dichiara che la storia non è soltanto
un ramo del sapere ma anche «una forma intellettuale per
comprendere il mondo».
Per contro va deplorato che uno studioso come Raymond Aron, nella
sua passione empiristica, abbia affermato che i concetti dello
storico sono vaghi perché «nella misura in cui ci si
avvicina al concreto si elimina la generalità» [1938a,
p. 206]. I concetti dello storico sono, in effetti, non vaghi, ma
spesso metaforici, perché devono precisamente rinviare sia al
concreto, sia all’astratto, essendo la storia – come le altre
scienze umane o sociali – una scienza non tanto del complesso, come
si ama dire, quanto dello specifico, come sostiene Veyne.
La storia, come ogni scienza, deve dunque generalizzare e spiegare.
Essa lo fa in modo originale. Secondo Gordon Leff, al pari di molti
altri, il metodo di spiegazione in storia è essenzialmente
deduttivo. «Non vi sarebbe storia, né discorso
concettuale, senza generalizzazione… La comprensione storica non
differisce per i processi mentali che sono inerenti a ogni
ragionamento umano, ma per il suo statuto, che è quello di un
sapere deduttivo piuttosto che dimostrabile» [1969, pp.
79-80]. Il significato in storia si pone sia con la messa in
intelligibilità di un insieme di dati separati all’inizio,
sia con una logica interna di ciascun elemento: «Il
significato in storia è essenzialmente contestuale»
[ibid., p. 57].
Infine, le spiegazioni in storia sono piú delle valutazioni
che delle dimostrazioni, ma esse comprendono l’opinione dello
storico in modo razionale, inerente al processo intellettuale di
spiegazione: «Alcune forme di analisi causale sono chiaramente
indispensabili a ogni tentativo di correlare degli avvenimenti;
cosí come bisogna distinguere tra il caso e la
necessità, lo storico deve decidere se ciascuna situazione
è regolata da fattori a lungo termine o a breve termine. Ma,
come le sue categorie, questi fattori sono concettuali. Essi non
corrispondono a entità empiricamente confermate o infirmate.
Per queste ragioni le spiegazioni dello storico sono piuttosto delle
valutazioni» [ibid., pp. 97-98].
I teorici della storia si sono sforzati nel corso dei secoli
d’introdurre grandi principî suscettibili di fornire delle
chiavi generali dell’evoluzione storica. Le due principali nozioni
avanzate sono state da una parte quella di un senso della storia,
dall’altra quella di leggi della storia.
La nozione di un senso della storia si può scomporre in tre
tipi di spiegazione: la credenza in grandi movimenti ciclici, l’idea
di un fine della storia consistente nella perfezione di questo
mondo, la teoria di un fine della storia collocato al di fuori della
storia stessa [Beglar 1975]. Si può ritenere che le
concezioni azteche o, in una certa misura, quelle di Arnold Toynbee,
rientrino nella prima opinione, il marxismo nella seconda e il
cristianesimo nella terza.
Nel cristianesimo viene a stabilirsi una grande frattura tra coloro
che, con Agostino e l’ortodossia cattolica, fondandosi sull’idea
delle due città – la città terrestre e la città
celeste, esposta nel De civitate Dei – sottolineano l’ambivalenza
del tempo della storia, presente tanto nel caos apparente della
storia umana (Roma non è eterna e non è la fine della
storia), quanto nel flusso escatologico della storia divina, e
coloro che, con i millenaristi come Gioacchino da Fiore, cercano di
conciliare la seconda e la terza concezione del senso della storia.
La storia terminerebbe una prima volta con l’avvento di una terza
età, regno dei santi sulla terra, prima di concludersi con la
risurrezione della carne e il giudizio universale. È del XIII
secolo l’opinione di Gioacchino da Fiore e dei suoi discepoli. Non
si esce qui soltanto dalla teoria storica, ma anche dalla filosofia
della storia, per entrare nella teologia della storia. Nel XX secolo
il rinnovamento religioso ha generato in alcuni pensatori un
recupero della teologia della storia. Il russo Berdjaev [1923] ha
profetizzato che le contraddizioni della storia contemporanea
farebbero posto a una nuova creazione congiunta dell’uomo e di Dio.
Il protestantesimo del XX secolo ha visto affrontarsi diverse
correnti escatologiche: per esempio, quella dell’«escatologia
conseguente» di Schweizer, quella dell’«escatologia
demitizzata» di Baltmann, quella dell’«escatologia
realizzata» di Dodd, quella dell’«escatologia
anticipata» di Cullmann. Riprendendo l’analisi di Agostino, lo
storico cattolico Henri–Irénée Marrou [1968] ha
sviluppato l’idea dell’ambiguità del tempo della storia:
«È sufficiente spingere un po’ piú addentro
l’analisi per far apparire l’ambivalenza radicale del tempo della
storia… Questo tempo vissuto si rivela di natura molto piú
complessa, ambivalente, ambigua di quanto non ne conveniva
l’ottimismo dei moderni che… non volevano vedervi altro che un
“fattore di progresso”, facendo del divenire un vero idolo… Tutto
ciò che accade all’essere attraverso il divenire, è
necessariamente votato alla degradazione, φθορά, e alla morte»
(trad. it. p. 45).
Sulla concezione ciclica e sull’idea di decadenza, piú
avanti, verrà esposto un campione di questa concezione, la
filosofia della storia di Spengler.
Sull’idea di un fine della storia, consistente nella perfezione di
questo mondo, la legge piú coerente che sia stata avanzata
è quella di progresso. Per la nascita, il trionfo e la
critica della nozione di progresso qui ci si limiterà a
qualche annotazione sul progresso tecnologico [cfr. Gallie 1963, pp.
191-93].
Gordon Childe, dopo aver affermato che il lavoro dello storico
consiste nel trovare un ordine nel processo della storia umana
[1953, p. 5], e aver sostenuto che in storia non vi sono leggi ma
una «sorta di ordine», ha preso come esempio di questo
ordine la tecnologia. Esiste, a suo parere, un progresso tecnologico
«dalla preistoria all’età del carbone», che
consiste in una sequenza ordinata di avvenimenti storici. Ma Childe
rammenta che in ciascuna fase il progresso tecnico è un
«prodotto sociale» e se si cerca di analizzarlo da
questo punto di vista ci si accorge che ciò che sembrava
lineare è irregolare (erratic) e che, per spiegare
«queste irregolarità e queste fluttuazioni»,
bisogna volgersi verso le istituzioni sociali, economiche,
politiche, giuridiche, teologiche, magiche, i costumi e le credenze
– che hanno agito come stimoli o come freni – in breve, verso tutta
la storia nella sua complessità. Ma è legittimo
isolare il campo della tecnologia e ritenere che il resto della
storia agisca su di esso solo dall’esterno? La tecnologia non
è una componente di un piú vasto insieme le cui parti
non esistono se non per la scomposizione piú o meno
arbitraria dello storico?
Questo problema è stato recentemente posto in modo rilevante
da Bertrand Gille [1978, pp. VIII sgg.]. Egli propone la nozione di
sistema tecnico, insieme coerente di strutture compatibili le une
con le altre. Questi sistemi tecnico-storici rivelano un
«ordine tecnico». Questo «modo di approccio del
fenomeno tecnico» obbliga a un dialogo con gli specialisti
degli altri sistemi: l’economista, il linguista, il sociologo, il
politico, il giurista, il filosofo…
Da questa concezione scaturisce la necessità di una
periodizzazione, dal momento che i sistemi tecnici si susseguono gli
uni agli altri e la cosa piú importante è di
comprendere, se non spiegare totalmente, i passaggi da un sistema
tecnico a un altro. Cosí si pone il problema del progresso
tecnico, nel quale d’altra parte Gille distingue tra il
«progresso della tecnica» e il «progresso
tecnico», che si contraddistingue per l’ingresso delle
invenzioni nella vita industriale o corrente. Gille sottolinea
inoltre che «la dinamica dei sistemi», cosí
concepita, dà un nuovo valore a quelle che si chiamano, con
espressione nello stesso tempo vaga e ambigua, le «rivoluzioni
industriali».
Si trova cosí posto il problema che verrà considerato
piú generalmente come il problema della rivoluzione in
storia. Esso si è posto alla storiografia sia nel campo
culturale (rivoluzione della stampa [cfr. McLuhan 1962; Eisenstein
1966], rivoluzioni scientifiche [cfr. Kuhn 1957]) sia nella
storiografia [Fussner 1962; cfr. Nadel 1963], sia nel campo politico
(rivoluzioni inglese del 1640, francese del 1789, russa del 1917).
Questi avvenimenti e la nozione stessa di rivoluzione hanno
costituito ancora recentemente oggetto di animate controversie.
Sembra che la tendenza attuale sia, da una parte, di porre il
problema in correlazione con la problematica della lunga durata
[cfr. Vovelle 1978] e, dall’altra, di vedere nelle controversie
intorno a «la» rivoluzione o «le»
rivoluzioni un campo privilegiato dei partiti presi ideologici e le
scelte politiche del presente. «È uno dei terreni
piú “sensibili” di tutta la storiografia» [Chartier
1978, p. 497].
Per quanto mi riguarda, ritengo che non vi siano in storia delle
leggi paragonabili a quelle che sono state scoperte nel campo delle
scienze della natura – opinione largamente diffusa oggi con il
rifiuto dello storicismo e del marxismo volgare e la diffidenza nei
confronti delle filosofie della storia. Molto dipende comunque dal
significato che si attribuisce alle parole. Si riconosce, per
esempio, oggi che Marx non ha formulato delle leggi generali della
storia, ma che egli ha soltanto concettualizzato il processo storico
unificando teoria (critica) e pratica (rivoluzionaria) [Lichtheim
1973]. Runciman ha giustamente detto che la storia, come la
sociologia e l’antropologia, è «una consumatrice, non
una produttrice di leggi» [1970, p. 10].
Ma di fronte alle affermazioni, spesso piú provocatorie che
convinte, della irrazionalità della storia, è
convinzione di chi scrive che il lavoro storico abbia come scopo di
mettere della intelligibilità nel processo storico e che
questa intelligibilità conduca al riconoscimento di
regolarità nell’evoluzione storica.
È ciò che riconoscono i marxisti aperti, anche se
hanno la tendenza a fare slittare il termine di ‘regolarità’
verso quello di ‘legge’ [cfr. Topolski 1973, trad. it. pp. 319-49].
Queste regolarità sono da riconoscere anzitutto all’interno
di ciascuna serie studiata dallo storico, che la rende intelligibile
scoprendovi una logica, un sistema, termine preferibile a intreccio,
in quanto insiste piú sul carattere oggettivo che soggettivo
dell’operazione storica. Esse devono poi essere riconosciute tra
delle serie; da qui l’importanza del metodo comparativo in storia.
Un proverbio dice: «Comparazione non è ragione»,
ma il carattere scientifico della storia risiede sia nella
valorizzazione delle differenze sia in quella delle somiglianze,
mentre le scienze della natura cercano di eliminare le differenze.
Il caso ha, naturalmente, un posto nel processo della storia e non
ne turba le regolarità, poiché precisamente il caso
è un elemento costitutivo del processo storico e della sua
intelligibilità.
Montesquieu ha dichiarato che «se una causa particolare, come
l’esito accidentale di una battaglia, ha condotto uno Stato alla
rovina… esisteva una causa di carattere generale che provocò
la caduta di quello Stato per colpa di un’unica battaglia»
[citato in Carr 1961, trad. it. p. 108]; e Marx ha scritto in una
lettera: «La storia universale avrebbe un carattere davvero
mistico se essa escludesse il caso. Naturalmente anche il caso
diventa a sua volta parte del generale processo di sviluppo ed
è compensato da altre forme di causalità. Ma
l’accelerazione e il ritardo dipendono da questi “accidenti”, che
includono il carattere “casuale” degli individui che sono alla testa
di un movimento nella sua fase iniziale» [ibid., pp. 108-9].
Si è tentato recentemente di valutare scientificamente la
parte del caso in taluni episodi storici. Cosí Jorge Basadre
[1973] ha studiato la serie delle probabilità
nell’emancipazione del Perú. Egli ha utilizzato i lavori di
Vendryès [1952] e di Bousquet [1967]. Quest’ultimo sostiene
che lo sforzo per matematizzare il caso esclude tanto il
provvidenzialismo che la credenza in un determinismo universale. A
suo parere, il caso non ha parte né nel progresso scientifico
né nell’evoluzione economica, e si manifesta come tendenza a
un equilibrio che elimina non il caso stesso, ma le sue conseguenze.
Le forme piú «efficaci» di caso nella storia
sarebbero il caso meteorologico, l’assassinio, la nascita di geni.
Avendo cosí abbozzato la questione delle regolarità e
della razionalità in storia, restano da considerare i
problemi dell’unità e della diversità, della
continuità e della discontinuità. Poiché questi
problemi sono al centro stesso della crisi attuale della storia,
essi verranno ripresi alla fine di questo articolo.
Ci si limiterà a dire che se lo scopo della vera storia
è sempre stato quello di essere una storia globale o totale –
integrale, perfetta, dicevano i grandi storici della fine del secolo
XVI –, via via che essa si costituisce in un corpo di disciplina
scientifica e scolastica, deve incanalarsi in categorie che,
pragmaticamente, la frazionano. Queste categorie dipendono
dall’evoluzione storica stessa: la prima parte del XX secolo ha
visto nascere la storia economica e sociale, la seconda la storia
delle mentalità. Alcuni, come Perelman [1969, p. 13],
privilegiano le categorie periodologiche, altri le categorie
schematiche. Ciascuna di esse ha la sua utilità, la sua
necessità. Esse sono degli strumenti di lavoro e di
esposizione. Non hanno alcuna realtà oggettiva, sostanziale.
Cosí l’aspirazione degli storici alla totalità storica
può e deve prendere forme diverse, che evolvono anch’esse con
il tempo. Il quadro può essere costituito da una
realtà geografica o da un concetto: cosí Fernand
Braudel, prima con il Mediterraneo ai tempi di Filippo II, poi con
la civiltà materiale e il capitalismo. Jacques Le Goff e
Pierre Toubert [1975] hanno cercato, nel quadro della storia
medievale, di mostrare come l’intento di una storia totale sembri
oggi accessibile, in modo pertinente, attraverso oggetti
globalizzanti costruiti dallo storico; per esempio,
l’incastellamento, la povertà, la marginalità, l’idea
di lavoro, ecc. Chi scrive non crede che il metodo degli approcci
multipli – se non si alimenta a un’ideologia eclettica superata –
sia dannoso al lavoro dello storico. Esso è talvolta
piú o meno imposto dallo stato della documentazione, dato che
ciascun tipo di fonte esige un trattamento differente all’interno di
una problematica d’insieme. Studiando la nascita del purgatorio, dal
III al XIV secolo in Occidente, il presente autore si è
indirizzato tanto a testi teologici quanto a racconti di visioni,
sia a exempla, sia a usi liturgici, sia a pratiche di devozione; e
avrebbe fatto ricorso all’iconografia se proprio il purgatorio non
fosse stato a lungo assente da essa. Sono stati analizzati talvolta
pensieri individuali, talvolta mentalità collettive, talvolta
il livello dei potenti, talaltra quello delle masse. Ma si è
sempre avuto presente alla mente che, senza determinismo né
fatalità, con lentezze, perdite, svolte, la credenza nel
purgatorio si era incarnata in seno a un sistema e che questo aveva
senso solo in relazione al suo funzionamento in una società
globale [cfr. Le Goff 1981].
Uno studio monografico limitato nello spazio e nel tempo può
essere un eccellente lavoro storico se pone un problema e si presta
alla comparazione, se è condotto come un case study. Sembra
condannata soltanto la monografia chiusa in se stessa, senza
orizzonti, che è stata la figlia prediletta della storia
positivista e non è affatto morta.
Per quanto concerne la continuità e la discontinuità,
si è già parlato del concetto di rivoluzione. Giova
insistere sul fatto che lo storico deve rispettare il tempo che,
sotto diverse forme, è la stoffa della storia e che alle
durate del vissuto deve far corrispondere i suoi quadri di
spiegazione cronologica. Datare resta e resterà uno dei
compiti e dei doveri fondamentali dello storico, ma la datazione
deve accompagnarsi a un’altra manipolazione necessaria della durata,
per renderla storicamente pensabile: la periodizzazione.
Gordon Leff l’ha ricordato con forza: «La periodizzazione
è indispensabile a ogni forma di comprensione storica»
[1969, p. 130], aggiungendo in modo assai pertinente: «La
periodizzazione, come la storia stessa, è un processo
empirico delineato dallo storico» [ibid., p. 150]. Si
può aggiungere che non vi è storia immobile e che la
storia non è nemmeno il cambiamento puro, ma che è lo
studio dei cambiamenti significativi. La periodizzazione è lo
strumento principale d’intelligibilità dei cambiamenti
significativi.
2. La mentalità storica: gli uomini e il passato.
È già stato fornito qualche esempio del modo nel quale
gli uomini costruiscono e ricostruiscono il loro passato. Piú
generalmente, interessa ora il posto del passato nelle
società. Viene accolta qui l’espressione ‘cultura storica’,
impiegata da Bernard Guenée [1980]. Sotto questo termine
Guenée raccoglie piú cose: da una parte, il bagaglio
professionale degli storici, la loro biblioteca di opere storiche;
dall’altra, il pubblico e l’uditorio degli storici. Va aggiunto il
rapporto che, nella sua psicologia collettiva, una società
intrattiene con il suo passato. La concezione di chi scrive non
è molto lontana da ciò che gli Anglosassoni chiamano
historical mindedness. Sono noti i rischi di questa riflessione:
considerare come unità una realtà complessa e
strutturata, se non in classi quanto meno in categorie sociali
distinte per i loro interessi e la loro cultura, supporre uno
«spirito del tempo» (Zeitgeist), cioè un
inconscio collettivo; si tratta di pericolose astrazioni. Tuttavia,
le inchieste e i questionari utilizzati nelle società
«sviluppate» di oggi mostrano che è possibile
accostarsi al modo di sentire dell’opinione pubblica di un paese
verso il suo passato e altri fenomeni e problemi [cfr. Lecuir 1981].
Poiché queste inchieste sono impossibili per il passato, ci
si sforzerà qui di caratterizzare – senza dissimulare la
parte che di arbitrario e semplificatorio vi è in questa
domanda – l’atteggiamento dominante in un certo numero di
società storiche di fronte al loro passato e alla storia. Si
prenderanno come interpreti di questa opinione collettiva
soprattutto gli storici, sforzandosi di distinguere tra ciò
che in loro deriva da idee personali e ciò che viene dalla
mentalità comune. Chi scrive sa bene di confondere ancora
passato e storia nella memoria collettiva e deve dunque aggiungere
qualche spiegazione supplementare che preciserà le sue idee
sulla storia.
La storia della storia dovrebbe preoccuparsi non soltanto della
produzione storica professionale, ma di tutto un insieme di fenomeni
che costituiscono la cultura, o meglio la mentalità storica
di un’epoca. Uno studio dei manuali scolastici di storia ne è
un aspetto privilegiato, ma questi manuali non esistono praticamente
che dal XIX secolo. Lo studio della letteratura e dell’arte
può essere illuminante a questo proposito. Il posto di
Carlomagno nelle chansons de geste, la nascita del romanzo nel XII
secolo e il fatto che questa nascita si sia prodotta nella forma del
romanzo storico (argomento antico: cfr. il n. 238 della
«Nouvelle Revue Française», Le roman historique,
1972), l’importanza delle opere storiche nel teatro di Shakespeare
[Driver 1960] testimoniano del gusto di talune società
storiche per il loro passato. Nel quadro di una recente esposizione
di un grande pittore del XV secolo, Jean Fouquet, Nicole Reynaud ha
mostrato [1981] come, accanto all’interesse per la storia antica,
segno del Rinascimento (miniature delle Antiquités
judaïques, della Histoire ancienne, del Tite-Live), Fouquet
manifesti un pronunziato gusto per la storia moderna (Heures
d’Etienne Chevalier, Tapisserie di Tormisuy, Grandes Chroniques de
France, ecc.). Bisognerebbe aggiungervi lo studio dei nomi, delle
guide di pellegrini e dei turisti, delle incisioni, della
letteratura divulgativa, dei monumenti, ecc. Marc Ferro [1977] ha
mostrato come il cinema abbia aggiunto una nuova fonte capitale per
la storia, il film, precisando d’altronde giustamente che il cinema
è «agente e fonte della storia». Ciò
è vero per l’insieme dei media, il che basta a spiegare come
il rapporto degli uomini con la storia abbia compiuto con i moderni
media (stampa di massa, cinema, radio, televisione) un balzo
considerevole. È questo allargamento della nozione di storia
(nel senso di storiografia) che Santo Mazzarino ha accolto nel suo
grande studio Il pensiero storico classico [1966]. Mazzarino ricerca
di preferenza la mentalità storica negli elementi etnici,
religiosi, irrazionali, nei miti, nelle fantasie poetiche, nelle
storie cosmogoniche, ecc. Ne risulta anche una nuova concezione
dello storico, che Arnaldo Momigliano ha ben definito: «Lo
storico non è per Mazzarino essenzialmente un professionale
ricercatore della verità sul passato, ma piuttosto un
rabdomantico, “profetico” interprete del passato condizionato dalle
sue opinioni politiche, dalla fede religiosa, da caratteristiche
etniche e infine, ma non esclusivamente, dalla situazione sociale.
Ogni rievocazione poetica o mitica o utopica o altrimenti fantastica
del passato rientra nella storiografia» [1967, ed. 1969 p.
61].
Anche in questo caso bisogna distinguere. L’oggetto della storia
della storia è certamente questo senso diffuso del passato,
che riconosce nelle produzioni dell’immaginario una delle principali
espressioni della realtà storica, e particolarmente il loro
modo di reagire di fronte al loro passato. Ma questa storia
indiretta non è la storia degli storici, la sola che abbia
vocazione scientifica. Lo stesso dicasi della memoria. Cosí
come il passato non è la storia, ma il suo oggetto, la
memoria non è la storia, ma, insieme, uno dei suoi oggetti e
un livello elementare di elaborazione storica. La rivista
«Dialectiques» ha pubblicato (1980) un numero speciale
dedicato ai rapporti fra la memoria e la storia: Sous l’histoire, la
mémoire. Lo storico inglese Ralph Samuel, uno dei principali
iniziatori degli «History Workshop», dei quali si
parlerà in seguito, vi espone considerazioni ambigue sotto un
titolo non meno ambiguo: Déprofessionnaliser l’histoire
[1980]. Se con questo vuol dire che il ricorso alla storia orale,
alle autobiografie, alla storia soggettiva allarga la base del
lavoro scientifico, modifica l’immagine del passato, dà la
parola ai dimenticati della storia, allora ha perfettamente ragione
e sottolinea uno dei grandi progressi della produzione storica
contemporanea. Se invece vuol mettere sullo stesso piano
«produzione autobiografica» e «produzione
professionale», quando aggiunge che «la pratica
professionale non costituisce né un monopolio né una
garanzia» [ibid., p. 16], allora il pericolo mi pare
rilevante. Quello che è vero – e su questo si tornerà
– è che le fonti tradizionali dello storico non sono spesso
piú «obiettive» – in ogni caso non piú
«storiche» – di quanto lo storico creda. La critica
delle fonti tradizionali è insufficiente, ma il lavoro dello
storico deve esercitarsi sulle une e sulle altre. Una scienza
storica autogestita non solo sarebbe un disastro, ma è anche
priva di senso. Questo perché la storia, anche se vi perviene
solo approssimativamente, è una scienza e dipende da un
sapere che si acquista professionalmente. Certo, la storia non ha
raggiunto il grado di tecnicità delle scienze della natura o
della vita. E non mi auguro che lo raggiunga, affinché possa
restare piú facilmente comprensibile e anche controllabile
dal maggior numero di persone. La storia – sola tra tutte le
scienze? – ha già la fortuna (o la sfortuna) di poter essere
fatta dignitosamente dagli amatori. In effetti, essa ha bisogno di
volgarizzatori, e gli storici di mestiere non sempre si degnano di
accedere a questa funzione comunque essenziale e degna, della quale
si sentono incapaci; ma l’era dei nuovi media moltiplica il bisogno
e le occasioni di mediatori semiprofessionali. Non è il caso
di aggiungere che piace a chi scrive leggere romanzi storici, quando
sono ben fatti e scritti, riconoscendo agli autori la libertà
di fantasia che loro appartiene. Salvo naturalmente, se si chiede il
parere dello storico, segnalare le libertà che si sono presi
con la storia. E perché non un settore letterario di
storia-finzione nel quale, rispettando i dati di base della storia –
costumi, istituzioni, mentalità – fosse possibile ricrearla
giocando sul caso e sull’événementiel? Vi sarebbe il
duplice piacere della sorpresa e del rispetto di ciò che vi
è di piú importante in storia. Per questo mi è
piaciuto il romanzo di Jean d’Ormesson La gloire de l’empire, che
riscrive con talento e sapere la storia bizantina. Non un intrigo
che scivoli negli interstizi della storia – come Ivanhoe, The Last
Days of Pompei, Quo vadis?, Les trois mousquetaires, ecc. –, ma
l’invenzione di un nuovo corso degli avvenimenti politici a partire
dalle strutture fondamentali della società.
Ma devono tutti diventare storici? Non si vuole il potere per gli
storici al di fuori del loro territorio, cioè il lavoro
storico e le sue ripercussioni sulla società globale, in
particolare l’insegnamento. Ciò che dev’essere superato
è l’imperialismo della storia nei campi delle scienze e della
politica. Agli inizi del secolo XIX la storia non contava quasi
nulla. Lo storicismo, nelle sue diverse forme, ha voluto farne
tutto. La storia non deve reggere le altre scienze, e ancor meno la
società. Ma, come il fisico, il matematico, il biologo – e,
in altro modo, gli specialisti di scienze umane e sociali – lo
storico deve essere ascoltato per la sua parte, cioè una
branca fondamentale del sapere.
Come i rapporti tra memoria e storia, cosí anche le relazioni
tra passato e presente non devono condurre alla confusione o allo
scetticismo. Si sa ora che il passato dipende parzialmente dal
presente. Ogni storia è contemporanea nella misura in cui il
passato è colto nel presente e risponde dunque agli interessi
di questo. Ciò non è soltanto inevitabile, ma anche
legittimo. Poiché la storia è durata, il passato
è al tempo stesso passato e presente. Spetta allo storico
fare uno studio «obiettivo» del passato nella sua
duplice forma. Certo, impegnato com’è egli stesso nella
storia, non potrà giungere a una vera
«obiettività», ma nessun altro tipo di storia
è possibile. Lo storico compirà ancora dei progressi
nella comprensione della storia, sforzandosi di mettere in causa se
stesso, proprio come un osservatore scientifico tiene conto delle
modificazioni che eventualmente apporta all’oggetto in osservazione.
È ben noto, per esempio, che i progressi della democrazia
inducono a ricercare sempre piú il posto degli
«umili» nella storia, a porsi al livello della vita
quotidiana, e questo s’impone, secondo modalità diverse, a
tutti gli storici. È anche noto che l’evoluzione del mondo
porta a porre l’analisi delle società in termini di potere, e
questa problematica è cosí entrata nella storia. Si sa
pure che la storia si fa piú o meno nello stesso modo nei tre
grandi gruppi di paesi che esistono oggi nel mondo: il mondo
occidentale, il mondo comunista, il Terzo Mondo. I rapporti tra le
produzioni storiche di questi tre insiemi dipendono certamente dai
rapporti di forza e dalle strategie politiche internazionali, ma si
sviluppa anche, in una prospettiva scientifica comune, un dialogo
tra specialisti, tra uomini di mestiere. Questo quadro professionale
non è puramente scientifico o piuttosto, come per tutti gli
uomini di scienza, richiede un codice morale, ciò che Georges
Duby chiama un’etica [Duby e Lardreau 1980, pp. 15-16] e chi scrive,
piú «obiettivamente», una deontologia. Su questo
punto non è necessario insistere, pur considerandolo
essenziale: basti constatare che, nonostante qualche deviazione,
questa deontologia esiste e bene o male funziona.
La cultura (o la mentalità) storica non dipende soltanto dai
rapporti memoria-storia, presente-passato. La storia è
scienza del tempo. Essa è strettamente legata alle differenti
concezioni del tempo che esistono in una società e sono
elemento essenziale dell’apparato mentale dei suoi storici. Si
ritornerà sulla concezione di un contrasto
nell’antichità, e nel pensiero stesso degli storici, tra una
nozione circolare e una nozione lineare del tempo. È stato
giustamente ricordato agli storici che la loro propensione a non
considerare che un tempo «cronologico» dovrebbe far
posto a maggiori inquietudini, se tenessero conto degli
interrogativi filosofici sul tempo. L’ammissione che Agostino ne fa
è rappresentativa: «Cos’è dunque il tempo? Se
nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga,
non lo so» [Confessioni, XI, 14, 17; cfr. Starr 1966].
Elizabeth Eisenstein [1966], riflettendo sul celebre libro di
Marshall McLuhan The Gutenberg Galaxy [1962], insiste sulla
dipendenza delle concezioni del tempo dal rapporto con i mezzi
tecnici di registrazione e trasmissione dei fatti storici. Essa vede
nella stampa la nascita di un tempo nuovo, quello dei libri, che
segnerebbe la rottura nelle relazioni tra Clio e Chronos. Questa
concezione riposa sull’opposizione tra orale e scritto. Storici ed
etnologi hanno rivolto l’attenzione all’importanza del passaggio
dallo scritto all’orale. Anche Jack Goody [1977] ha mostrato come le
culture dipendano dai loro mezzi di traduzione, essendo l’avvento
della literacy legato a una mutazione profonda di una
società. Egli ha d’altronde rettificato qualche luogo comune
sul «progresso» che segue il passaggio dall’orale allo
scritto. Lo scritto sarebbe apportatore di una maggiore
libertà, mentre l’orale condurrebbe a un sapere meccanico,
mnemonico, intangibile. Ora, lo studio della tradizione in un
ambiente orale mostra che gli specialisti di questa tradizione
possono introdurre innovazioni, mentre la scrittura può al
contrario presentarsi con un carattere «magico» che la
rende piú o meno intoccabile. Non bisogna dunque opporre una
storia orale, intesa come storia della fedeltà e
dell’immobilismo, a una storia scritta identificata con la
malleabilità e il perfettibile. Studiando il passaggio dal
ricordo memorizzato al documento scritto nell’Inghilterra medievale,
Clanchy [1979] ha anche messo in evidenza che l’essenziale non
è tanto il ricorso allo scritto quanto il cambiamento della
natura e della funzione dello scritto, il trasformarsi dello scritto
da tecnica sacra in pratica utilitaria, la conversione di una
produzione scritta di élite e memorizzata in una produzione
scritta di massa, fenomeno generalizzatosi in Occidente solo nel XIX
secolo, ma le cui origini risalgono ai secoli XII-XIII.
A proposito della coppia orale-scritto, anch’essa fondamentale per
la storia, si faranno due considerazioni. È chiaro che il
passaggio dall’orale allo scritto è importante tanto per la
memoria quanto per la storia. Ma non bisogna dimenticare 1) che
oralità e scrittura coesistono in generale nelle
società e che questa coesistenza è assai importante
per la storia; 2) che la storia, se ha conosciuto con la scrittura
una tappa decisiva, non è nata con essa, poiché non vi
è società senza storia.
Quanto alle «società senza storia», si faranno
due esempi. Da una parte quello di una società
«storica» che taluni considerano refrattaria al tempo e
non suscettibile di essere analizzata e compresa in termini storici:
l’India. Dall’altra, quello delle società dette
«preistoriche» o «primitive».
La tesi astorica sull’India è stata sostenuta nel modo
piú brillante da Louis Dumont [1962]. Egli ricorda che Hegel
e Marx hanno considerato la storia dell’India come un caso a
sé, l’hanno messa praticamente fuori della storia. Hegel
giudicava le caste indú il fondamento di una
«differenziazione indistruttibile»; Marx riteneva che,
diversamente dallo sviluppo occidentale, l’India fosse
caratterizzata da un «ristagno», ristagno di una
economia naturale – in opposizione all’economia mercantile – alla
quale si sovrimponeva un «dispotismo» (trad. it. p. 49).
L’analisi di Dumont porta a conclusioni molto vicine a quelle di
Marx, ma mediante considerazioni differenti e piú precise.
Dopo aver facilmente respinto l’opinione dei marxisti volgari che
vogliono ricondurre il caso dell’India all’immagine semplicistica di
un’evoluzione millenaria, Dumont mostra che «lo sviluppo
indiano, straordinariamente precoce, si arresta presto e non fa
esplodere il suo proprio quadro, la forma di integrazione non
è quella che, a torto o a ragione, noi identifichiamo con la
nostra storia» (ibid., p. 64). Louis Dumont scorge la causa di
questo blocco in due fenomeni del lontano passato dell’India, la
secolarizzazione precoce della funzione regale e l’affermazione –
altrettanto precoce – dell’individuo. Cosí «la sfera
politico-economica, privata dei valori per la secolarizzazione
iniziale della funzione regale, è rimasta subordinata alla
religione» [ibid.]. In tal modo l’India si è arrestata
a una struttura immobile di caste nella quale l’uomo gerarchico
[cfr. Dumont 1966] si differenzia radicalmente dall’uomo delle
società occidentali, che potrebbe chiamarsi per contrasto
uomo storico. Infine, Dumont considera «la trasformazione
contemporanea» dell’India, rilevando che non può essere
decifrata alla luce di concetti validi per l’Occidente, e
sottolineando in particolare il fatto che l’India è riuscita
a liberarsi dalla dominazione straniera «con il minimo di
modernizzazione» [1962, trad. it. p. 75]. Chi scrive non ha la
competenza necessaria per discutere le idee di Dumont;
s’accontenterà di segnalare che la sua tesi non nega
l’esistenza di una storia indiana, ma ne rivendica la
specificità. Di essa viene qui accolta, piú che il
rifiuto, divenuto oggi banale, di una concezione unilineare della
storia, la messa in evidenza di lunghe fasi temporali senza
evoluzione significativa in talune società e la resistenza di
certi tipi di società al mutamento.
Lo stesso sembra possa dirsi per le società preistoriche e
«primitive». Per quel che riguarda le prime, un grande
specialista come André Leroi-Gourhan [1974] ha sottolineato
che le incertezze relative alla loro storia derivano in particolare
dall’insufficienza delle ricerche: «È evidente che se
negli ultimi cinquant’anni si fosse praticata l’analisi esaustiva
anche solo di una cinquantina di località ben scelte, oggi
disporremmo dei materiali di una storia sostanziale per un certo
numero delle tappe dell’evoluzione culturale
dell’umanità» (trad. it. p. 71). Henri Moniot [1974]
notava: «C’era l’Europa, ed era tutta la storia. A monte e a
distanza, alcune “grandi civiltà”, che i loro testi, le loro
rovine, talvolta i loro legami di parentela, di scambio o
d’eredità con l’antichità classica, nostra madre, o
l’ampiezza delle masse umane che avevano opposto ai poteri e allo
sguardo europeo, facevano ammettere ai confini dell’impero di Clio.
Il resto: tribú senza storia, secondo il giudizio unanime
dell’uomo della strada, dei manuali e dell’università».
E aggiungeva: «Le cose sono cambiate. Negli ultimi dieci o
quindici anni, ad esempio, l’Africa nera entra in forze nel campo
degli storici» (trad. it. p. 73). Henri Moniot spiega e
definisce questa storia africana che resta da fare. La
decolonizzazione la permette perché i nuovi rapporti
d’inuguaglianza fra ex colonizzatori e colonizzati «non
annientano piú la storia» e le società prima
dominate si applicano a un «tentativo di riprendere possesso
di sé» che «porta a riconoscere le
eredità» [ibid., p. 75]. Storia che beneficia dei nuovi
metodi delle scienze umane (storia, etnologia, sociologia) e che ha
il vantaggio di essere «una scienza sul terreno», che
utilizza ogni sorta di documenti e specialmente il documento orale.
Un’ultima opposizione si presenta nel campo della cultura storica
che mi sforzo di mettere in luce, quella tra mito e storia. È
utile distinguere qui due casi. Si possono studiare nelle
società storiche la nascita di nuove curiosità
storiche, le cui origini ricorrono spesso al mito. Cosí
nell’Occidente medievale quando i lignaggi nobili, le nazioni o le
comunità urbane si preoccupano di darsi una storia, è
spesso cominciando da antenati mitici che inaugurano le genealogie,
da eroi fondatori leggendari: i Franchi pretendono di discendere dai
Troiani, la famiglia dei Lusignano dalla fata Melusina, i monaci di
Saint-Denis attribuiscono la fondazione della loro abbazia a Dionigi
l’Areopagita, l’ateniese convertito da san Paolo. Si vede molto bene
in questi casi in quali condizioni storiche questi miti sono nati e
fanno dunque parte della storia.
Il problema è piú difficile quando si tratta delle
origini delle società umane o delle società dette
«primitive». La maggior parte di queste società
ha spiegato la propria origine con miti e si è generalmente
ritenuto che una fase decisiva dell’evoluzione di queste
società consistesse nel passaggio dal mito alla storia.
Daniel Fabre [1978] ha mostrato come il mito, in apparenza
«refrattario all’analisi storica», sia recuperabile
dalla storia perché «si è costituito da qualche
parte in un periodo storico preciso». Oppure, come ha detto
Lévi-Strauss, il mito recupera e ristruttura le sopravvivenze
desuete di «sistemi sociali antichi», o la lunga vita
culturale dei miti permette attraverso la letteratura di farne una
«selvaggina per lo storico», come, per esempio,
attraverso il teatro tragico della Grecia antica, Vernant e
Vidal-Naquet [1972] hanno fatto per i miti ellenici. Come ha detto
Marcel Detienne: «Alla storia événementielle
dell’antiquario e del cenciaiolo, che attraversano la mitologia con
un gancio alla mano, felici di scovare qua e là un lembo di
arcaismo o il ricordo fossilizzato di qualche avvenimento “reale”,
l’analisi strutturale dei miti – delineando talune forme invarianti
attraverso contenuti differenti – oppone una storia globale che si
iscrive nella lunga durata, attinge al di sotto delle espressioni
coscienti e reperisce sotto l’apparente movenza delle cose le grandi
correnti inerti che la attraversano in silenzio…» [1974, p.
74].
Cosí il mito, nelle prospettive della nuova problematica
storica, non è solamente oggetto di storia, ma allunga verso
le origini il tempo della storia, arricchisce i metodi dello storico
e alimenta un nuovo livello di storia, la storia lenta.
Sono stati giustamente sottolineati i rapporti che esistono tra
l’espressione del tempo nei sistemi linguistici e la concezione, al
di là del tempo della storia, che avevano (o che hanno) i
popoli che utilizzano tali logiche. Uno studio esemplare di tale
problema è quello di Emile Benveniste intitolato Les
relations de temps dans le verbe français [1959]. Uno studio
preciso dell’espressione grammaticale del tempo nei documenti
utilizzato dallo storico e nel racconto storico stesso reca preziose
informazioni all’analisi storica. André Miquel [1977] ne ha
offerto un notevole esempio nel suo studio di un racconto delle
Mille e una notte, dove ha potuto ritrovare come griglia sottostante
il racconto la nostalgia delle origini dell’Islam arabo.
Resta il fatto che l’evoluzione delle concezioni del tempo è
di grande importanza per la storia. Il cristianesimo ha segnato una
svolta nella storia e nel modo di scrivere la storia, perché
ha combinato almeno tre tempi: il tempo circolare della liturgia,
legata alle stagioni e che recuperava il calendario pagano, il tempo
cronologico lineare, omogeneo e neutro, calcolato col computo, e il
tempo lineare teleologico, o tempo escatologico. L’illuminismo e
l’evoluzionismo hanno costruito l’idea di un progresso irreversibile
che ha avuto la piú grande influenza sulla scienza storica
del XIX secolo, lo storicismo in particolare. I lavori dei
sociologi, dei filosofi, degli artisti, dei critici letterari hanno
avuto nel XX secolo un impatto considerevole su nuove concezioni del
tempo che la scienza storica ha accolto. Cosí l’idea della
molteplicità dei tempi sociali, elaborata da Maurice
Halbwachs [1925; 1950], è stata il punto di partenza della
riflessione di Fernand Braudel [1958] espressa nell’articolo
fondamentale sulla «lunga durata», che propone allo
storico di distinguere fra tre velocità storiche, quelle del
«tempo individuale», del «tempo sociale» e
del «tempo geografico». Tempo rapido e agitato
dell’événementiel e del politico, tempo intermedio dei
cicli economici ritmanti l’evoluzione delle società, tempo
molto lento, «quasi immobile», delle strutture. O ancora
il senso della durata espresso in un’opera letteraria come quella di
Marcel Proust e che certi filosofi e critici propongono alla
riflessione degli storici [Jauss 1955; Kracauer 1966]. Quest’ultimo
orientamento sottende una delle tendenze attuali della storia,
quella che si preoccupa di una storia del vissuto.
Come ha detto Georges Lefebvre [1945-46], «per noi che siamo
occidentali, la storia, come quasi tutto il nostro pensiero,
è stata creata dai Greci» (trad. it. p. 32).
Tuttavia, per limitarsi ai documenti scritti, le piú antiche
tracce della preoccupazione di lasciare alla posterità
testimonianze del passato si scaglionano dall’inizio del IV
all’inizio del i millennio a.C. e concernono, da una parte, il Medio
Oriente (Iran, Mesopotamia, Asia Minore) e dall’altra la Cina. Nel
Medio Oriente la preoccupazione di perpetuare avvenimenti datati
sembra soprattutto legata alle strutture politiche: all’esistenza di
uno Stato e piú particolarmente di uno Stato monarchico.
Iscrizioni che descrivono le campagne militari e le vittorie dei
sovrani, lista regale sumerica (circa il 2ooo a.C.), annali dei re
assiri, gesta dei re dell’Iran antico che si ritrovano nelle
leggende regali della tradizione medo-persiana antica [cfr.
Christensen 1936], archivi reali di Mari (XIX secolo a.C.), di
Ugarit a Rās Šamra, di attuša a Boazköy (XV-XIII secolo a.C.).
Cosí il tema della gloria regale e del modello regale hanno
svolto spesso una funzione decisiva alle origini delle storie dei
differenti popoli e civiltà. Pierre Gilbert [1979] ha
sostenuto che, nella Bibbia, la storia appare insieme con la
dignità regale, lasciando d’altronde intravedere, intorno ai
personaggi di Samuele, Saul e David, una corrente promonarchica e
una antimonarchica [cfr. Hölscher 1942]. Quando i cristiani
creeranno una storia cristiana, insisteranno sull’immagine di un
re-modello, l’imperatore Teodosio il Giovane, il cui τόπος
s’imporrà nel medioevo, per esempio ai personaggi di Edoardo
il Confessore e di san Luigi [Chesnut 1978, pp. 223-41].
Piú generalmente, è alla struttura dello Stato e
all’immagine dello Stato che sarà spesso unita l’idea della
storia, alla quale si opporrà, positivamente o negativamente,
l’idea di una società senza Stato e senza storia. Non si
ritrova forse una manifestazione di questa storia legata allo Stato
nel romanzo autobiografico di Carlo Levi Cristo si è fermato
a Eboli? L’intellettuale antifascista piemontese, nel suo esilio nel
Mezzogiorno, si scopre un odio per Roma comune con i contadini
abbandonati dallo Stato e scivola in una condizione di astoricismo,
di memoria immobile: «Chiuso in una stanza, e in un mondo
chiuso, – ricorda fin dalle prime pagine, – mi è grato
riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e
negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a
quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive,
nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su
un suolo arido, nella presenza della morte».
Delle mentalità storiche non occidentali si dirà
quindi assai poco; non vorrei ridurle a stereotipi e lasciar credere
che, come nel caso della indiana (e tra l’altro, come si è
visto, bisogna intendersi sull’idea di una civiltà indiana
«fuori della storia»), esse si sarebbero rinchiuse in
una tradizione sclerotizzata, poco penetrabile allo spirito storico.
Si consideri il caso ebraico. È chiaro che, per ragioni
storiche, nessun popolo ha sentito maggiormente la storia come
destino, ha vissuto la storia come dramma dell’identità
collettiva. Tuttavia, il senso della storia ha conosciuto in passato
presso gli ebrei importanti vicissitudini e la creazione dello stato
d’Israele ha condotto gli ebrei a una rivalutazione della loro
storia [cfr. Ferro 1981]. Per limitarsi al passato, ecco quanto
afferma Butterfield: «Nessuna nazione, nemmeno l’Inghilterra
con la Magna Charta, è stata tanto ossessionata dalla storia,
e non è strano che gli antichi ebrei abbiano mostrato potenti
doti narrative e siano stati i primi a produrre una specie di storia
nazionale, i primi a tracciare la storia dell’umanità dai
tempi della creazione. Essi hanno raggiunto un’alta qualità
nella costruzione del puro racconto, specialmente nel racconto di
avvenimenti relativamente recenti, come nel caso della morte di
David e della successione al suo trono. Dopo l’Esodo essi si sono
concentrati piú sulla Legge che sulla storia, volgendo la
loro attenzione verso la speculazione sul futuro, e in particolare
sulla fine dell’ordine terreno. In un certo senso hanno perduto il
contatto con la terra. Ma solo lentamente hanno smarrito il loro
talento per la narrazione storica, come si vede dal primo libro dei
Maccabei, prima dell’era cristiana, e dagli scritti di Flavio
Giuseppe del I secolo d. C.» [1973, p. 466]. Ma se questa fuga
nel diritto e l’escatologia non sono state inutili, è
comunque necessario introdurre delle sfumature. Ecco, per esempio,
ciò che dice Robert R. Geis dell’immagine della storia nel
Talmūd: «Il III secolo segna una svolta nell’insegnamento
della storia. Ne sono causa, da una parte, il miglioramento della
situazione degli ebrei grazie alla concessione del diritto di
cittadinanza romana nel 212 e la pacificazione che ne seguí,
dall’altra l’influsso sempre piú marcato delle scuole
babilonesi, attraverso il quale la rappresentazione del fine ultimo
della storia si allontana notevolmente da un atteggiamento di
interesse verso le cose terrene. Ma come la credenza biblica
nell’aldiqua è rimasta riconoscibile nonostante tutti gli
sviluppi posteriori, cosí è rimasta l’immagine della
storia dei primi maestri, i tannāīm. La rinunzia alla storia non
sarà affatto definitiva. Ciò che rabbī Meir (130-160)
dice nella sua interpretazione di Roma non è mai stato
abbandonato: “Verrà giorno in cui la supremazia sarà
resa al suo possessore (Koh. r. i) per il compimento del regno di
Dio su questa terra”» [1955, p. 124].
Come l’India, come il popolo ebraico e – lo si vedrà
piú avanti – come l’Islam, anche la Cina sembra avere avuto
una sorta di senso precoce della storia, in seguito piuttosto
rapidamente bloccato. Ma Jacques Gernet ha contestato che i fenomeni
culturali che hanno fatto credere in una cultura storica molto
antica possano considerarsi senso della storia. Dalla prima
metà del i millennio a.C. appaiono raccolte di documenti
classificati secondo l’ordine cronologico come gli Annali di Lou e
il Chou King. A partire da Ssu–ma Ch’ien, soprannominato
«l’Erodoto cinese», si sviluppano storie dinastiche
secondo il medesimo schema: si tratta di raccolte di atti solenni
riuniti in ordine cronologico: «La storia cinese è un
mosaico di documenti» [Gernet 1959, p. 32]. Si ha dunque
l’impressione che molto presto i Cinesi abbiano compiuto due gesti
costitutivi del procedimento storico: raccogliere gli archivi,
datare i documenti. Tuttavia, se si esaminano la natura e la
funzione di questi testi e le attribuzioni dei personaggi che ne
sono i produttori o i custodi, un’altra immagine appare. La storia
in Cina è strettamente legata alla scrittura: «Non vi
è storia, nel senso cinese del termine, che di ciò che
è scritto» [ibid.]. Ma questi scritti non hanno una
funzione di memoria, ma una funzione rituale, sacra, magica. Sono
dei mezzi di comunicazione con le potenze divine. Sono stesi
«affinché gli dèi li osservino» e
diventino cosí efficaci, in un eterno presente. Il documento
non è fatto per servire da prova, ma per diventare un oggetto
magico, un talismano. Non è prodotto per essere dedicato agli
uomini, ma agli dèi. La data non ha altro scopo che quello di
indicare il carattere fasto o nefasto del tempo della produzione del
documento: «Essa non segna un momento, ma un aspetto del
tempo» [ibid., p. 40]. Gli annali non sono documenti storici,
ma scritti rituali, «lungi dall’implicare la nozione di un
divenire umano, essi notano corrispondenze che sono valide per
sempre» [ibid.]. Il Grande Scriba che li conserva non è
un archivista, ma un sacerdote del tempo simbolico, che ha cura
anche del calendario. All’epoca degli Han lo storico di corte
è un mago, un astronomo, che stabilisce con precisione il
calendario.
Tuttavia, l’utilizzazione da parte degli storici attuali di questi
falsi archivi non è soltanto un’astuzia della storia, che
mostra come il passato sia creazione costante della storia. I
documenti cinesi rivelano un senso e una funzione differente della
storia secondo le civiltà, e l’evoluzione della storiografia
cinese, sotto i Sung per esempio, e il suo rinnovamento con il regno
di Ch’ien Lung – del quale è testimonianza l’opera assai
originale di Chang Hsüeh-ch’eng – mostra che la cultura storica
cinese non è stata immobile [cfr. Gardner 1938; Hölscher
1942].
L’Islam favorí dapprima un tipo di storia fortemente legato
alla religione, e piú particolarmente all’epoca del suo
fondatore, Maometto, e al Corano. La storia araba ha come culla
Medina e come motivazione la raccolta dei ricordi delle origini
destinati a diventare «un deposito sacro e intangibile».
Con la conquista, la storia assume un duplice carattere: quello di
una storia del califfato, di natura annalistica, e di una storia
universale, della quale il grande esempio è la storia di
a-abarī e di al-Masūdī, scritta in arabo e di ispirazione sciita
[Miquel 1968, trad. it. p. 177]. Tuttavia, nella grande raccolta
delle opere delle vecchie culture (indiana, iraniana, greca) a
Baghdād, al tempo degli Abbasidi, gli storici greci sono
dimenticati. Nei territori degli Zeugiti e degli Ayyubiti (Siria,
Palestina, Egitto), nel secolo XII la storia domina la produzione
letteraria, specialmente con la biografia. La storia è
fiorente anche alla corte mongola, presso i Mamelucchi, sotto la
dominazione turca. Della personalità di Ibn Khaldūn si
parlerà a parte (cfr. qui p. 70). Se Ibn Khaldūn domina con
il suo genio gli storici e i geografi musulmani del basso medioevo,
la sua filosofia della storia è fondamentalmente quella dei
suoi contemporanei, segnata dalla nostalgia per l’unità
dell’Islam, dall’ossessione del declino. Tuttavia, la storia non
occupò mai nel mondo musulmano il posto privilegiato che si
conquistò invece in Europa e nell’Occidente. Essa rimase
«cosí fortemente accentrata sul fenomeno della
rivelazione coranica, della sua avventura nel corso dei secoli e
degli innumerevoli problemi che essa pose, da sembrare oggi non
aprirsi che con difficoltà, se non con reticenza, a un tipo
di studi e di metodi storici ispirati all’Occidente» [Miquel
1967, p. 461]. Se per gli ebrei la storia ebbe il ruolo di fattore
essenziale d’identità collettiva – ruolo svolto dalla
religione nell’Islam – per gli Arabi e i musulmani la storia
è stata soprattutto «nostalgia del passato»,
l’arte e la scienza del rimpianto [cfr. Rosenthal 1952 e i testi che
presenta]. Resta il fatto che se l’Islam ha avuto un altro senso
della storia rispetto all’Occidente, non ha conosciuto gli stessi
sviluppi metodologici in storia, e il caso di Ibn Khaldūn è
particolare [cfr. Spuler 1955].
Il sapere occidentale considera dunque la storia nata con i Greci.
Essa è legata a due motivazioni principali. L’una è di
ordine etnico. Si tratta di distinguere i Greci dai barbari. Alla
concezione della storia è unita l’idea di civiltà.
Erodoto prende in considerazione i Libici, gli Egiziani e
soprattutto gli Sciti e i Persi, e getta su di loro uno sguardo da
etnografo. Per esempio, gli Sciti sono dei nomadi – e il nomadismo
è difficile da pensare. Al centro di questa geostoria vi
è la nozione di frontiera: civiltà da questa parte,
barbarie dall’altra. Gli Sciti che hanno attraversato la frontiera e
hanno voluto ellenizzarsi – civilizzarsi – sono stati uccisi dai
loro perché i due mondi non possono mescolarsi. Gli Sciti non
sono che uno specchio nel quale i Greci si vedono alla rovescia
[Hartog 1980].
L’altro stimolo della storia greca è la politica legata alle
strutture sociali. Finley rileva che non vi è storia in
Grecia prima del V secolo a.C. Non annali comparabili a quelli dei
re di Assiria, non interesse da parte di poeti e filosofi, non
archivi. È l’epoca dei miti, fuori del tempo, trasmessi
oralmente. Nel V secolo la memoria nasce dall’interesse delle
famiglie nobili (e regali) e dei sacerdoti dei templi come quelli di
Delfo, Eleusi e Delo.
Dal canto suo, Santo Mazzarino ritiene che il pensiero storico sia
nato ad Atene negli ambienti dell’orfismo, nel quadro di una
reazione democratica contro la vecchia aristocrazia, in particolare
la famiglia degli Alcmeonidi, e che «la storiografia nasca
entro una setta religiosa, ad Atene, anziché tra i liberi
pensatori della Ionia» [Momigliano 1967, ed. 1969 p. 63].
«L’orfismo aveva… esaltato, attraverso la figura di Phlyos, il
ghénos per eccellenza avverso agli Alcmeonidi: il
ghénos da cui poi nacque Temistocle, l’uomo della flotta
ateniese… La rivoluzione ateniese contro la parte conservatrice
della vecchia aristocrazia terriera partí certamente,
già verso il 630 a.C., dalle nuove esigenze del mondo
commerciale, e marinaro, che faceva capo alla città… La
“profezia sul passato” era l’arma principale della lotta
politica» [Mazzarino 1966, I, pp. 32-33].
La storia, arma politica. Questa motivazione, infine, assorbe la
cultura storica greca poiché l’opposizione ai barbari non
è che un altro modo di esaltare la città; elogio della
città che suggerisce d’altronde ai Greci l’idea d’un certo
progresso tecnico: «L’orfismo, che aveva dato il primo impulso
al pensiero storico, aveva “scoperto”, anche, l’idea stessa di
progresso tecnico, nella maniera in cui essa fu concepibile per i
Greci. Dei Nani dell’Ida, scopritori della metallurgia o “arte
(téchne) di Efesto”, aveva parlato già la poesia epica
di spiriti piú o meno orfici (la Foronide)» [ibid., p.
240].
Cosí, quando scomparve l’idea di città, scomparve
anche la coscienza della storicità. I sofisti, conservando
l’idea del progresso tecnico, respinsero ogni nozione di progresso
morale, ridussero il divenire storico alla violenza individuale, lo
sbriciolarono in un agglomerato di «aneddoti scabrosi».
È l’affermazione di una antistoria che non considera
piú il divenire come una storia, come una successione
intelligibile di avvenimenti, ma come un insieme di atti
contingenti, opera di individui o di gruppi isolati [Châtelet
1962, trad. it. pp. 5-61].
La mentalità storica romana non si presenta molto differente
da quella greca, che d’altronde l’ha formata. Polibio, il greco che
iniziò i Romani al pensiero storico, vede nello spirito
romano la dilatazione dello spirito della città, e di fronte
ai barbari gli storici romani esalteranno la civiltà
incarnata da Roma, la stessa che Sallustio esalta di fronte a
Giugurta, l’africano che ha preso da Roma solo i mezzi per
combatterla, la stessa che Livio illustra di fronte ai popoli
selvaggi d’Italia e ai Cartaginesi, questi stranieri che hanno
cercato di ridurre i Romani in schiavitú, come i Persiani
avevano fatto con i Greci, che Cesare incarna contro i Galli, che
Tacito sembra abbandonare nel suo risentimento antimperiale per
ammirare i buoni selvaggi bretoni e germani, che egli vede in
definitiva con i tratti degli antichi, virtuosi, romani di prima
della decadenza. La mentalità storica romana è in
effetti – come sarà piú tardi l’islamica – dominata
dal rimpianto delle origini, il mito della virtú degli
antichi, la nostalgia dei costumi ancestrali, del mos maiorum.
L’identificazione della storia con la civiltà greco-romana
non è temperata che dalla credenza nel decadimento, della
quale Polibio ha fatto una teoria fondata sulla somiglianza tra le
società umane e gl’individui. Le istituzioni si sviluppano,
declinano e muoiono come gl’individui, perché anch’esse
sottoposte alle «leggi della natura»; cosí anche
la grandezza romana perirà. Di questa teoria si
ricorderà Montesquieu. La lezione della storia per gli
antichi si riassume in definitiva in una negazione della storia.
Ciò che essa lascia di positivo sono gli esempi degli
antenati, eroi e grandi uomini. Bisogna combattere la decadenza
riproducendo individualmente le grandi gesta degli antenati,
ripetendo i modelli eterni del passato. La storia, fonte di exempla,
non è lontana dalla retorica, dalle tecniche di persuasione.
Essa ricorre dunque volentieri alle arringhe, ai discorsi. Ammiano
Marcellino, alla fine del IV secolo, riassume nel suo stile barocco
e con il suo gusto per lo stravagante e il tragico, i tratti
essenziali della mentalità storica antica. Questo siriano
idealizza il passato, evoca la storia romana attraverso exempla
letterari e ha come unico orizzonte – benché abbia viaggiato
in gran parte dell’impero, a eccezione della Bretagna, della Spagna
e dell’Africa del Nord a ovest dell’Egitto – Roma aeterna [cfr.
Momigliano 1974].
Il cristianesimo è stato visto come una rottura, una
rivoluzione nella mentalità storica. Dando alla storia tre
punti fissi – la creazione, inizio assoluto della storia,
l’incarnazione, inizio della storia cristiana e della storia della
salvezza, il giudizio universale, fine della storia – il
cristianesimo avrebbe sostituito alle concezioni antiche di un tempo
circolare la nozione di un tempo lineare, avrebbe orientato la
storia e dato a essa un senso. Sensibile alle date, esso cerca di
datare la creazione, i principali punti di riferimento dell’Antico
Testamento, data il piú precisamente possibile la nascita e
la morte di Gesú. Religione storica, ancorata alla storia, il
cristianesimo avrebbe impresso alla storia in Occidente un impulso
decisivo. Guy Lardreau e Georges Duby hanno anche recentemente
insistito sul legame tra cristianesimo e sviluppo della storia in
Occidente. Guy Lardreau ha ricordato le parole di Marc Bloch:
«Il cristianesimo è una religione di storici», e
aggiunto: «Sono convinto, semplicemente, che noi facciamo
della storia perché siamo cristiani». Al che Georges
Duby risponde: «Avete ragione, vi è una maniera
cristiana di pensare, che è la storia. La scienza storica non
è forse cosa occidentale? Che cos’è la storia in Cina,
nelle Indie, nell’Africa nera? L’Islam ha avuto mirabili geografi,
ma gli storici?» [Duby e Lardreau 1980, pp. 138-39]. Il
cristianesimo ha sicuramente favorito una certa propensione a
ragionare in termini storici, caratteristici delle abitudini di
pensiero occidentali, ma lo stretto rapporto tra il cristianesimo e
la storia sembra debba essere sfumato. Anzitutto, studi recenti
hanno mostrato che non bisogna ridurre la mentalità storica
antica – e soprattutto greca – all’idea di un tempo circolare
[Momigliano 1966b; Vidal-Naquet 1960]. Dal canto suo, il
cristianesimo non può essere ridotto alla concezione di un
tempo lineare: un tipo di tempo circolare, il tempo liturgico,
svolge un ruolo di primo piano. La sua supremazia ha a lungo ridotto
il cristianesimo a datare soltanto giorni e mesi, senza menzionare
l’anno, in modo da integrare l’avvenimento nel calendario liturgico.
D’altra parte, il tempo teleologico, escatologico, non conduce
necessariamente a una valorizzazione della storia. Si può
ritenere che la salvezza avvenga tanto fuori della storia, con il
rifiuto della storia, quanto attraverso la storia e per la storia.
Le due tendenze sono esistite e esistono ancora nel cristianesimo.
Se l’Occidente ha accordato un’attenzione speciale alla storia, ha
particolarmente sviluppato la mentalità storica e attribuito
un posto importante alla scienza storica, è in ragione
dell’evoluzione sociale e politica. Assai presto taluni gruppi
sociali e politici e gli ideologi dei sistemi politici hanno avuto
interesse a pensarsi storicamente e a imporre quadri di pensiero
storico. Come si è visto, questo interesse è apparso
dapprima nel Medio Oriente e in Egitto, presso gli ebrei, poi presso
i Greci. È soltanto perché è stato a lungo
l’ideologia dominante in Occidente che il cristianesimo gli ha
fornito talune forme di pensiero storiche. Quanto alle altre
civiltà, se sembrano dare un posto minore allo spirito
storico è, da una parte, perché viene riservato il
nome di storia a concezioni occidentali e non vengono riconosciuti
come tali altri modi di pensare la storia e, dall’altra,
perché le condizioni sociali e politiche che hanno favorito
lo sviluppo della storia in Occidente non si sono sempre prodotte
altrove.
Resta il fatto che il cristianesimo ha dato importanti elementi alla
mentalità storica, anche al di fuori della concezione
agostiniana della storia (cfr. oltre, pp. 68-69), che ha avuto
grande influenza nel medioevo e piú tardi. Anche storici
cristiani orientali hanno avuto un’influenza importante sulla
mentalità storica, non soltanto in Oriente, ma anche,
indirettamente, in Occidente. È il caso di Eusebio di
Cesarea, di Socrate lo Scolastico, di Evagrio, di Sozomeno, di
Teodoreto di Ciro. Essi credevano nel libero arbitrio (Eusebio e
Socrate erano anche origenisti) e pensavano dunque che il cieco
destino, il fatum, non aveva una funzione nella storia, a differenza
di quanto credevano gli storici greco-romani. Per loro il mondo era
governato dal λόγος o ragione divina (altrimenti definita
Provvidenza), che delineava la struttura di tutta la natura e di
tutta la storia: «Si poteva dunque analizzare la storia e
considerare la logica interna alla concatenazione dei suoi
avvenimenti» [Chesnut 1978, p. 244]. Nutrito di cultura
antica, questo umanismo storico cristiano aveva accolto la nozione
di Fortuna per spiegare gli «accidenti» della storia. Il
carattere fortuito della vita umana si ritrovava in storia e dava
origine, in particolare, all’idea della ruota della fortuna,
cosí popolare nel medioevo, e che introduceva un altro
elemento circolare nella concezione della storia. I cristiani
conservarono cosí due idee essenziali del pensiero storico
pagano, ma trasformandole profondamente: l’idea dell’imperatore, ma
sul modello di Teodosio il Giovane, fu l’immagine di un imperatore
per metà guerriero, per metà monaco; l’idea di Roma,
ma respingendo sia l’idea del declino di Roma sia quella della Roma
eterna. Il tema di Roma divenne nel medioevo sia il concetto di un
sacro impero romano al tempo stesso cristiano e universale [cfr.
Falco 1942], sia l’utopia di una Europa degli Ultimi Giorni, i sogni
chiliastici di un imperatore della fine dei tempi.
Al pensiero storico cristiano l’Occidente deve ancora due idee che
ebbero fortuna nel medioevo: il quadro, mutuato agli ebrei, da una
cronaca universale [cfr. Brincken 1957; Krüger 1976]; l’idea di
tipi privilegiati di storia: biblica (cfr. Historia scholastica di
Pietro Mangiadore, c. 1170) ed ecclesiastica.
Si parlerà ora di qualche tipo di mentalità e di
pratica storiche legato a taluni interessi sociali e politici in
diversi periodi della storia occidentale.
Alle due grandi strutture sociali e politiche del medioevo, la
feudalità e la città, sono legati due fenomeni di
mentalità storica: le genealogie e la storiografia urbana. A
questo bisogna aggiungere – nella prospettiva di una storia
nazionale monarchica – le cronache regali, tra le quali le
piú importanti furono, dopo la fine del XII secolo, le
Grandes Chroniques de France, «alle quali i Francesi
credettero come alla Bibbia» [Guenée 1980, p. 339].
L’interesse che hanno le grandi famiglie di una società a
stabilire le loro genealogie quando le strutture sociali e politiche
hanno raggiunto un certo stadio, è cosa nota. Già le
prime righe della Bibbia svolgono la litania delle genealogie dei
patriarchi. Nelle società dette «primitive» le
genealogie sono spesso la prima forma di storia, il prodotto del
momento in cui la memoria mostra la tendenza a organizzarsi in serie
cronologiche. Georges Duby ha mostrato come nel secolo XI – e
soprattutto nel XII – i signori, grandi e piccoli, abbiano
patrocinato in Occidente, soprattutto in Francia, una abbondante
letteratura genealogica «per innalzare la reputazione del loro
lignaggio, piú precisamente per appoggiare la loro strategia
matrimoniale e poter cosí contrarre piú lusinghiere
alleanze» [ibid., p. 64; cfr. anche Duby 1967]. A maggior
ragione le dinastie regnanti fecero stabilire genealogie immaginarie
o manipolate per affermare il loro prestigio e la loro
autorità. Cosí i Capetingi riuscirono nel XII secolo a
ricollegarsi ai Carolingi [Guenée 1978]. Cosí
l’interesse dei principi e dei nobili produsse una memoria
organizzata intorno alla discendenza delle grandi famiglie [cfr.
Génicot 1975]. La parentela diacronica diventa un principio
di organizzazione della storia. Caso particolare: quello del papato,
il quale, quando si afferma la monarchia pontificia, sente il
bisogno di avere una sua storia, che non può evidentemente
essere dinastica, ma che vuole distinguersi dalla storia della
Chiesa [Paravicini-Bagliani 1976].
Dal canto loro, le città, quando si sono costituite in
organismi politici coscienti della loro forza e del loro prestigio,
hanno voluto anch’esse elevare questo prestigio esaltando la loro
antichità, la gloria delle loro origini e dei loro fondatori,
le gesta dei loro antichi figli, i momenti eccezionali nei quali
erano state favorite dalla protezione di Dio, della Vergine, dei
loro santi patroni. Alcune di queste storie acquistarono un
carattere ufficiale, autentico. Cosí, il 3 aprile 1262 la
cronaca del notaio Rolandino, letta pubblicamente nel chiostro di
Sant’Urbano di Padova davanti ai maestri e agli studenti
dell’università, assunse il carattere di storia vera della
città e della comunità urbana [Arnaldi 1963, pp.
85-107]. Firenze dà lustro alla sua fondazione attribuendola
a Giulio Cesare [Rubinstein 1942; Del Monte 1950]. Genova possedeva
una sua storia autentica fin dal XII secolo [Balbi 1974]. È
naturale che la Lombardia, regione di importanti città, abbia
conosciuto una fiorente storiografia urbana [Martini 1970]. È
naturale che nessuna città del medioevo abbia avuto maggior
interesse di Venezia per la sua storia. Ma l’autostoriografia
veneziana medievale ha conosciuto molte vicissitudini rivelatrici.
Dapprima, si registra un netto contrasto tra la storiografia antica,
che riflette piú le divisioni e le lotte interne della
città che l’unità e la serenità finalmente
conquistate: «La storiografia… rifletterà una
realtà in movimento, le lotte e le conquiste parziali che la
segnano, una o piú forze che in essa agiscono; e non con la
serenità soddisfatta di chi contempla un processo
compiuto» [Cracco 1970, pp. 45-46]. D’altra parte, gli annali
del doge Andrea Dandolo alla metà del secolo XIV acquistarono
una tale fama da far dimenticare la storiografia veneziana anteriore
[Fasoli 1970, pp. 11-12]. È l’inizio della «pubblica
storiografia» o «storiografia comandata», che
culmina ai primi del XVI secolo con i diari di Marin Sanudo il
Giovane.
Il Rinascimento è una grande epoca per la mentalità
storica. Essa è segnata dall’idea di una storia nuova,
globale, la storia perfetta, e da importanti progressi di metodo, di
critica storica. Dai suoi rapporti ambigui con l’antichità
(al tempo stesso modello paralizzante e pretesto ispirante), la
storia dell’umanesimo e del Rinascimento assume un duplice e
contraddittorio atteggiamento verso la storia.
Da una parte, il senso delle differenze e del passato, della
relatività delle civiltà, ma anche la ricerca
dell’uomo, di un umanismo e di un’etica nelle quali la storia,
paradossalmente, si fa magistra vitae, negando se stessa, fornendo
esempi e lezioni atemporalmente valide [cfr. Landfester 1972].
Nessuno meglio di Montaigne [1580-92] ha saputo esprimere questo
punto ambiguo per la storia: «Gli storici sono quelli che mi
vanno piú a genio: sono piacevoli e facili;… l’uomo in
generale, che io cerco di conoscere, vi appare piú vivo e
piú completo che in ogni altro luogo, la varietà e
verità delle sue tendenze interiori all’ingrosso e al minuto,
la diversità dei modi della sua complessione e degli
accidenti che lo minacciano» (trad. it. p. 537). Non stupisce
quindi che Montaigne dichiari che in fatto di storia il «suo
uomo» è Plutarco, oggi considerato un moralista
piú che uno storico.
D’altra parte, la storia stringe alleanza, in questo periodo, con il
diritto e questa tendenza culmina con l’opera del protestante
François Baudoin, allievo del grande giurista Dumoulin, De
institutione historiae universae et eius cum jurisprudentia
conjunctione (1561). Lo scopo di quest’alleanza è l’unione
del reale con l’ideale, del costume con la moralità. Baudoin
si accompagnerà ai teorici che sognano una storia
«integrale», ma la visione della storia resta
«utilitaria» [Kelley 1970]. È utile ricordare qui
le ripercussioni, nel XVI e all’inizio del XVII secolo, di uno dei
piú importanti fenomeni di questo periodo: la scoperta e la
colonizzazione del Nuovo Mondo. Si menzioneranno due soli esempi,
l’uno attinto ai colonizzati, l’altro ai colonizzatori. In un libro
pionieristico, La vision des vaincus, Nathan Wachtel ha studiato
[1971] la reazione della memoria india alla conquista spagnola del
Perú. Wachtel ricorda anzitutto che la conquista non colpisce
una società senza storia: «Non si può pensare a
cattivi geni nella storia: ogni avvenimento si produce in un campo
già costituito, fatto di istituzioni, di costumi, di
significati e di tracce multiple che resistono e insieme forniscono
l’appiglio all’azione umana» (trad. it. pp. 330-31). Il
risultato della conquista sembra essere, da parte degli Indi, la
perdita dell’identità. La morte degli dèi e dell’Inca,
la distruzione degli idoli costituiscono per gli Indi «un
trauma collettivo», nozione assai importante in storia, che a
parere di chi scrive deve prendere posto tra le forme principali di
discontinuità storica: i grandi avvenimenti – rivoluzioni,
conquiste, sconfitte – sono risentiti come «traumi
collettivi». A questa destrutturazione i vinti reagiscono
inventando una «prassi di ristrutturazione», la cui
principale espressione è all’occorrenza «la Danza della
Conquista»: si tratta di una «ristrutturazione danzata,
di tipo immaginifico, perché le altre forme di prassi
falliscono» [ibid., pp. 327-28]. Wachtel fa qui un’importante
riflessione sulla razionalità storica: «Quando parliamo
di una logica o di una razionalità della storia, ciò
non significa che pretendiamo definire leggi matematiche,
necessarie, valide per tutte le società come se la storia
obbedisse a un determinismo naturale; ma la combinazione dei fattori
che costituiscono il non-cronachistico dell’avvenimento, disegna un
paesaggio originale, diverso, sostenuto da un insieme di meccanismi
e di regolarità, insomma una coerenza – di cui spesso i
contemporanei non sono consci – la cui restituzione si rivela
indispensabile per la comprensione dell’avvenimento» [ibid.,
p. 329]. Questa concezione permette allora a Wachtel di definire la
coscienza storica dei vincitori e dei vinti: «La storia sembra
allora razionale soltanto ai vincitori, mentre i vinti la vivono
come irrazionalità e come alienazione» [ibid., p. 331].
Ma un’ultima astuzia della storia appare; al posto di una vera
storia, i vinti si costituiscono una tradizione come «mezzo di
rifiuto». Una storia lenta dei vinti è cosí una
forma di opposizione, di resistenza, alla storia rapida dei
vincitori, e, paradossalmente, «nella misura in cui i resti
dell’antica civilizzazione inca hanno attraversato i secoli per
giungere fino ai nostri giorni, si può dire che anche questo
tipo di rivolta, questa impossibile prassi ha, in un certo senso,
trionfato» [ibid., p. 336]. Doppia lezione per lo storico: da
una parte, la tradizione è certamente storia; spesso, anche
se sceglie relitti di un passato lontano, è una costruzione
storica relativamente recente, reazione a un traumatismo politico e
culturale e piú spesso a tutti e due insieme; dall’altra,
questa storia lenta, che si ritrova nella cultura
«popolare», è in effetti una sorta di antistoria
nella misura in cui si oppone alla storia ostentata e animata dai
dominatori.
Bernadette Bucher, attraverso lo studio dell’iconografia della
collezione «Les Grands Voyages», pubblicata e illustrata
dalla famiglia De Bry tra il 1590 e il 1634, ha definito i rapporti
che gli Occidentali hanno stabilito fra la storia e il simbolismo
rituale in base al quale essi hanno rappresentato e interpretato la
società india che avevano scoperto. Essi hanno trasformato le
loro idee e i loro valori di Europei e di protestanti nelle
strutture simboliche delle immagini degli Indi. È cosí
che le differenze culturali tra Indi ed Europei – specialmente nelle
abitudini culinarie – sono apparse a un certo momento ai De Bry
«come il segno che l’indio è respinto da Dio»
[Bucher 1977, pp. 227-28]. La conclusione è che «le
strutture simboliche sono opera di una combinatoria nella quale
l’adattamento all’ambiente, agli avvenimenti, e dunque l’iniziativa
umana, entrano costantemente in gioco per mezzo di una dialettica
tra struttura e avvenimento» [ibid., pp. 229-30]. In tal modo
gli Europei del Rinascimento ritrovano il modo di procedere di
Erodoto e si fanno porgere dagli Indi uno specchio nel quale
riflettono se stessi. Cosí, gli incontri di culture fanno
nascere risposte storiografiche diverse allo stesso avvenimento.
Resta il fatto che – nonostante i suoi sforzi verso una storia
nuova, indipendente, erudita – la storia del Rinascimento è
strettamente dipendente dagli interessi sociali e politici
dominanti, all’occorrenza dallo Stato. Dal XII al XIV secolo il
protagonista della produzione storiografica era stato, nell’ambiente
signorile e monarchico, il protetto dei grandi (un Goffredo di
Monmouth o un Guglielmo di Malmesbury dedicano le loro opere a
Roberto di Gloucester, i monaci di Saint-Denis lavorano alla gloria
dei re di Francia, protettori della loro abbazia, Froissart scrive
per Filippa di Hainaut, regina d’Inghilterra, ecc.), oppure,
nell’ambiente urbano, il notaio cronista [Arnaldi 1966].
Ormai, in ambiente urbano, lo storico è un membro dell’alta
borghesia al potere, come Leonardo Bruni, cancelliere di Firenze dal
1427 al 1444, o un alto funzionario dello Stato; i due piú
grandi esempi, a questo proposito, sono, sempre a Firenze,
Machiavelli, segretario della Cancelleria fiorentina (benché
abbia scritto le sue grandi opere dopo il 1512, anno nel quale fu
cacciato dalla Cancelleria per il ritorno dei Medici) e
Guicciardini, ambasciatore della repubblica fiorentina, poi al
servizio, successivamente, di papa Leone X e del duca di Toscana
Alessandro.
Fu comunque in Francia che si poté meglio seguire il
tentativo, a opera della monarchia, di addomesticare la storia,
specialmente nel secolo XVII durante il quale i difensori
dell’ortodossia cattolica e i partigiani dell’assolutismo regio
condannarono come «libertinismo» la critica storica
degli storici del XVI secolo e del regno di Enrico IV [Huppert
1970]. Questo tentativo si espresse con lo stipendiare gli
storiografi ufficiali, dal XVI secolo alla rivoluzione.
Anche se la parola viene impiegata per la prima volta per Alain
Chartier alla corte di Carlo, si trattava però allora
«di una distinzione piuttosto che di una carica
precisa». Il primo vero storiografo reale è Pierre de
Paschal nel 1554. Ormai lo storiografo è un apologista. Egli
non occupa d’altronde che un posto modesto, anche se Charles Sorel
ha tentato di delineare, nel 1646, nell’Avertissement à
l’Histoire du roy Louis XIII di Charles Bernard, la carica di
storiografo di Francia in modo da attribuirle importanza e
prestigio. Egli ne valorizza l’abilità e la funzione: provare
i diritti del re e del regno, lodare le buone azioni, dare esempi
alla posterità, tutto questo per la gloria del re e del
regno. Tuttavia, la carica resterà relativamente oscura, e il
tentativo di Boileau e di Racine nel 1677 fallirà. I
philosophes criticheranno vivamente l’istituzione, e il programma di
riforma della funzione esposto da Jacob-Nicolas Moreau, in una
lettera del 22 agosto 1774 al primo presidente della Corte dei Conti
di Provenza, J.-B. d’Albertas, arriverà troppo tardi. La
rivoluzione sopprimerà la carica di storiografo [Fossier
1977].
Lo spirito dei lumi, un po’ come quello del Rinascimento,
avrà nei confronti della storia un atteggiamento ambiguo.
Certamente, la storia filosofica – soprattutto con Voltaire
(principalmente nell’Essai sur les mœurs et l’esprit des nations,
concepito nel 1740 e la cui edizione definitiva è del 1769)
apporta allo sviluppo della storia «un allargamento
considerevole della curiosità e soprattutto i progressi dello
spirito critico» [Ehrard e Palmade 1964, p. 37]. Ma «il
razionalismo dei filosofi ostacola lo sviluppo del senso storico.
È meglio razionalizzare l’irrazionale, come tenta di fare
Montesquieu, o coprirlo di sarcasmi alla maniera di Voltaire? Nei
due casi la storia viene passata al setaccio di una ragione
atemporale» [ibid., p. 36]. La storia è un’arma contro
il «fanatismo» e le epoche nelle quali esso ha regnato,
specialmente il medioevo, non sono degne che di disprezzo e oblio:
«Non bisogna conoscere la storia di quei tempi che per
disprezzarla» [Voltaire 1756, cap. xciv]. Alla vigilia della
rivoluzione francese l’Histoire philosophique et politique des
établissements et du commerce des Européens dans les
deux Indes (1770) dell’abate Raynal ebbe un grande successo:
«Per Raynal come per tutto il partito “filosofico”, la storia
è il campo chiuso dove si affrontano la ragione e i
pregiudizi» [Ehrard e Palmade 1964, p. 36].
Paradossalmente la rivoluzione francese non ha stimolato nel suo
tempo la riflessione storica. Georges Lefebvre [1945-46, trad. it.
pp. 150-52] ha visto molte ragioni per questa indifferenza: i
rivoluzionari non s’interessavano alla storia, la facevano; essi
volevano distruggere un passato detestato e non pensavano a
dedicargli del tempo che poteva essere meglio impiegato in compiti
creativi. Cosí come la gioventú era attratta dal
presente e dall’avvenire, «il pubblico che durante l’Ancien
régime si era interessato alla storia si era disperso o era
scomparso o era economicamente rovinato» [ibid., p. 151].
Tuttavia, Jean Ehrard e Guy Palmade hanno ricordato a giusto titolo
l’opera della rivoluzione a favore della storia, nel campo delle
istituzioni, dell’apparato documentario e dell’insegnamento. Su
questo punto si ritornerà piú avanti. Cosí se
Napoleone ha tentato di mettere la storia al suo servizio, ha
continuato e sviluppato, in questo campo come in molti altri, quello
che aveva fatto la rivoluzione. L’opera principale di questa nel
campo della mentalità storica fu di avere costituito una
rottura e dato a molti in Francia e in Europa la sensazione che essa
non aveva solamente segnato l’inizio di una nuova era, ma che la
storia cominciava con lei, quanto meno la storia di Francia:
«Noi non abbiamo, propriamente parlando, una storia di Francia
che a partire dalla rivoluzione», scrive, nel germinale
dell’anno X, il giornale «La Décade
philosophique». E Michelet scriverà: «Di fronte
all’Europa, sappiatelo, la Francia non avrà mai che un nome,
inespiabile, e che è il suo vero nome eterno: la
rivoluzione» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 62].
Cosí si stabilisce, positivo per gli uni e negativo per gli
altri (controrivoluzionari e reazionari), un grande traumatismo
storico: il mito della rivoluzione francese.
Verranno ricordati piú avanti il clima ideologico e
l’atmosfera di sensibilità romantica nella quale è
nata e si è sviluppata quella ipertrofia del senso storico
che è stata lo storicismo. Si menzioneranno qui semplicemente
due correnti, due idee che contribuirono in primo piano a promuovere
la passione della storia durante il secolo XIX: l’ispirazione
borghese alla quale sono allora legate le nozioni di classe e di
democrazia, il sentimento nazionale. Il grande storico della
borghesia è Guizot. Nel movimento comunale del XII secolo
egli vede già la vittoria dei borghesi e la nascita della
borghesia: «La formazione di una grande classe sociale, della
borghesia, era il risultato necessario dell’affrancamento locale dei
borghesi» [1829, trad. it. p. 269]. Donde l’origine della
lotta delle classi, motore della storia: «Il terzo grande
risultato dell’affrancamento dei Comuni fu la lotta delle classi:
lotta che riempie la storia moderna. L’Europa moderna nacque dalla
lotta delle diverse classi della società» [ibid., p.
270]. Guizot e Augustin Thierry (soprattutto il Thierry dell’Essai
sur l’histoire de la formation et des progrès du Tiers Etat,
1850) hanno avuto un lettore attento, Karl Marx [1852]: «Molto
tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo
storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro
anatomia economica» (trad. it. p. 537). La democrazia uscita
dalle vittorie borghesi ha un osservatore acuto nella persona del
conte di Tocqueville: «Ho per le istituzioni democratiche una
predilezione razionale, si dirà, ma sono aristocratico per
istinto, vale a dire disprezzo e temo la folla. Amo con passione la
libertà, la legalità, il rispetto dei diritti, ma non
la democrazia» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 61]. Egli
studia i progressi della democrazia nella Francia dell’ancien
régime, durante il quale essa procede per scoppiare poi nella
rivoluzione (che, di conseguenza, non è piú un
cataclisma, una novità sconvolgente, ma la conclusione di una
lunga storia), e nell’America dell’inizio del XIX secolo, con un
misto di spinte in avanti e retrocessioni. Tuttavia, Tocqueville ha
delle formule che quasi superano quelle di Guizot: «Si
è anzitutto della propria classe prima di essere della
propria opinione», oppure «Mi si possono opporre
indubbiamente gli individui; io parlo di classi; esse soltanto
devono occupare la storia» [citato ibid.].
L’altra corrente è il sentimento nazionale, che dilaga per
l’Europa del XIX secolo e contribuisce potentemente a diffondervi il
senso storico. È Michelet che scrive: «Francesi di ogni
condizione, di ogni classe e di ogni partito, tenete bene a mente
una cosa, non avete su questa terra che un amico sicuro, la
Francia» [citato ibid., p. 62]. Chabod rammenta che se l’idea
di nazione risale al medioevo, la novità sta nella religione
della patria, che data dalla rivoluzione francese: «La nazione
diventa la patria: e la patria diviene la nuova divinità del
mondo moderno. Nuova divinità: e come tale sacra. È,
questa, la gran novità che scaturisce dall’età della
Rivoluzione francese e dell’Impero. Lo dice, per primo, Rouget de
Lisle nella penultima strofa della Marsigliese: “Amour, sacré
de la patrie | conduis, soutiens nos bras vengeurs”. E lo ripete,
quindici anni piú tardi, il nostro Foscolo, proprio nella
chiusa dei Sepolcri: “Ove fia santo e lagrimato il sangue | per la
patria versato”» [1943-47, pp. 61-62]. E aggiunge che questo
sentimento è stato soprattutto vivo nelle nazioni, nei popoli
che non avevano ancora potuto realizzare la loro unità
nazionale: «Com’è ovvio, l’idea di nazione sarà
particolarmente cara ai popoli non ancora politicamente uniti…
quindi, sarà soprattutto in Italia e in Germania che l’idea
nazionale troverà assertori entusiasti e continui; e, dietro
a loro, negli altri popoli divisi e dispersi, in primis i
polacchi» [ibid., pp. 65-66]. Di fatto, la Francia non
è meno toccata da questa influenza del nazionalismo sulla
storia. È il sentimento nazionale che ispira una grande opera
classica, L’Histoire de France, pubblicata sotto la direzione di
Ernest Lavisse fra il 1900 e il 1912, alla vigilia della prima
guerra mondiale. Ecco il programma che Lavisse assegnava
all’insegnamento della storia: «All’insegnamento storico
incombe il glorioso dovere di fare amare e di comprendere la patria…
i nostri antenati galli e le foreste dei druidi, Carlo Martello a
Poitiers, Rolando a Roncisvalle, Goffredo di Buglione a Gerusalemme,
Giovanna d’Arco, tutti i nostri eroi del passato anche se circonfusi
dalla leggenda… Se lo scolaro non porta con sé il vivo
ricordo delle nostre glorie nazionali, se non sa che i nostri
antenati hanno combattuto su mille campi di battaglia per nobili
cause, se non ha appreso quel che di sangue e di sforzi è
costato per fare l’unità della nostra patria e far scaturire
poi dal caos delle nostre istituzioni invecchiate le leggi sacre che
ci hanno fatti liberi, se egli non diventa un cittadino penetrato
dai suoi doveri e un soldato che ama la sua bandiera, il maestro
avrà perduto il suo tempo» [citato in Nora 1962, pp.
102-3]. Non s’è ancora messo in evidenza che fino al XIX
secolo manca un elemento essenziale della formazione di una
mentalità storica. La storia non è oggetto
d’insegnamento. Aristotele, s’è detto, l’aveva scartata dal
novero delle scienze. Nelle università medievali non era tra
le discipline insegnate [cfr. Grundmann 1965]. I gesuiti e gli
oratoriani le fecero un po’ di spazio nei collegi [cfr. Dainville
1954]. Ma fu la rivoluzione francese a dare l’impulso e furono i
progressi dell’insegnamento scolastico – primario, secondario e
superiore – nel XIX secolo ad assicurare la diffusione nelle masse
di una cultura storica. Ormai uno dei migliori osservatori per lo
studio della mentalità storica sono i manuali scolastici di
storia.
3. Filosofi della storia.
Chi scrive ha già detto di condividere con la maggior parte
degli storici una diffidenza nata dalla convinzione del danno
prodotto dalla mescolanza dei generi e dei misfatti di tutte le
ideologie suscettibili di far indietreggiare la riflessione storica
sul difficile cammino della scientificità; e direbbe
volentieri con Fustel de Coulanges: «Vi è una filosofia
e vi è una storia, ma non vi è una filosofia della
storia» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 72]; e con Lucien
Febvre [1949]: «Filosofeggiare… significa, in bocca a uno
storico,… il delitto capitale» (trad. it. p. 181). Ma direbbe
anche, con quest’ultimo, «Due spiriti, beninteso: la filosofia
e la storia. Due spiriti irriducibili. Ma non si tratta,
precisamente, di “ridurre” l’uno all’altro. Si tratta di fare in
modo che, restando l’uno e l’altro sulle loro posizioni, essi non
ignorino il vicino al punto da essergli, se non ostile, quanto meno
estraneo» [1938, ed. 1953, p. 282].
Si dirà di piú. Nella misura in cui l’ambiguità
– rivelata dal vocabolario – tra la storia come svolgimento del
tempo degli uomini e delle società e la storia come scienza
di questo svolgimento resta fondamentale, nella misura in cui la
filosofia della storia è stata spesso volontà di
colmare – in modo probabilmente inadeguato – l’increscioso
disinteresse degli storici «positivisti» – che si
volevano puri eruditi – per i problemi teorici e il loro rifiuto di
prendere coscienza dei pregiudizi «filosofici»
sottostanti il loro lavoro, che si pretendeva puramente scientifico,
«gli storici che rifiutano di giudicare non riescono ad
astenersi dal giudizio. Essi non riescono che a nascondere a se
stessi i principî che fondano i loro giudizi» [Keith
Hancockeité, citato in Barraclough 1955, p. 157]. Lo studio
dei filosofi della storia non soltanto fa parte di una riflessione
sulla storia, ma s’impone a ogni studio della storiografia.
Tuttavia, piú ancora che nelle altre parti del presente
articolo, non si cercherà qui di essere completi; ci si
porrà risolutamente nel discontinuo delle dottrine,
poiché sono i modelli intellettuali e non l’evoluzione del
pensiero che qui interessano, anche se l’inserimento degli esempi
scelti nel loro ambiente storico richiederà molta attenzione.
Gli esempi verranno scelti fra pensieri individuali (Tucidide,
Agostino, Bossuet, Vico, Hegel, Marx, Croce, Gramsci), fra scuole
(l’agostinismo, il materialismo storico) o correnti (lo storicismo,
il marxismo, il positivismo). Si prenderanno due esempi di teorici
che sono stati nel medesimo tempo degli storici e dei filosofi della
storia, senza avere raggiunto un livello molto alto né
nell’una né nell’altra di queste discipline, ma che hanno
suscitato nel XX secolo reazioni rivelatrici: Spengler e Toynbee. Da
una parte sono i casi di un grande spirito non occidentale, Ibn
Khaldūn, e di un grande intellettuale contemporaneo, che è al
tempo stesso un grande storico e un grande filosofo e che ha avuto
un ruolo di primo piano nel rinnovamento della storia: Michel
Foucault. Sembra che Carr abbia grosso modo ragione quando scrive
[1961]: «Le civiltà classiche [della Grecia e di Roma]
erano fondamentalmente astoriche… il padre della storia, Erodoto,
ebbe un’esigua discendenza. In complesso, gli autori classici si
preoccupavano poco sia del futuro che del passato. Tucidide credeva
che nell’età che precedeva gli eventi da lui descritti non
fosse accaduto niente d’importante, e che niente d’importante,
probabilmente, si sarebbe verificato nell’età
successiva» (trad. it. pp. 117-18). Sarebbe forse augurabile
discutere piú da vicino il riassunto della storia greca
(l’«archeologia») e i principali avvenimenti dopo le
guerre persiane (la «pentecontaitria») che precedono la
Storia della guerra del Peloponneso.
Tucidide ha scritto una storia della guerra del Peloponneso
dall’inizio, nel 431, fin verso il 411. «Egli si vuole
positivista» [Romilly 1973, p. 82], esponendo «i fatti
nell’ordine senza commenti». La sua filosofia è dunque
implicita. «La guerra del Peloponneso è essa stessa
stilizzata e per cosí dire idealizzata» [Aron 1961a, p.
164]. Il grande motore della storia è la natura umana.
Romilly ha ben messo in evidenza le frasi con le quali Tucidide
indica che la sua opera sarà «una acquisizione per
sempre»: valida «finché la natura umana
resterà la stessa» essa rischiara non solo gli
avvenimenti greci del V secolo ma anche «quelli che, in
avvenire in virtú del carattere umano che è il loro,
saranno simili o analoghi» [1973, p. 82]. Cosí la
storia sarebbe come immobile, eterna, o piuttosto essa ha delle
possibilità di costituire il ricominciamento eterno di uno
stesso modello di cambiamento. Questo modello di cambiamento
è la guerra: «Dopo Tucidide non vi furono piú
dubbi che le guerre rappresentavano il piú evidente fattore
di mutamento» [Momigliano 1972, ed. 1975 p. 18]. La guerra
è una «categoria della storia» [Châtelet
1962, trad. it. pp. 125 sgg.]. Essa è suscitata dalle
reazioni di paura e di gelosia degli altri Greci di fronte
all’imperialismo ateniese. Gli avvenimenti sono i prodotti di una
razionalità che lo storico deve rendere intelligibile:
«Tucidide, mentre estende progressivamente
l’intelligibilità dell’azione voluta da un attore
all’avvenimento, che non è stato voluto tale da nessuno,
innalza l’avvenimento, sia esso stato conforme o no alle intenzioni
degli attori, al di sopra della particolarità storica
chiarendolo con l’impiego di termini astratti, sociologici o
psicologici» [ibid.]. Tucidide, come quasi tutti gli storici
dell’antichità, considera che la storia, nella sua scrittura,
è strettamente legata alla retorica. Egli attribuisce dunque
una importanza particolare ai discorsi (orazione funebre dei soldati
ateniesi da parte di Pericle, dialogo degli Ateniesi e dei Melii) e
il ruolo che egli assegna – con un pessimismo di fondo – tanto alla
morale individuale quanto alla politica ha fatto di lui un
precursore di Machiavelli, uno degli esponenti principali della
filosofia occidentale della storia. Ranke gli ha dedicato il suo
primo lavoro storico, la sua «tesi».
Anche se si esagera il contrasto tra una storia pagana, che
ruoterebbe intorno a una concezione circolare della storia, e una
storia cristiana, che la ordinerebbe invece verso uno scopo in una
corsa lineare, la tendenza dominante del pensiero giudaico-cristiano
operò un mutamento radicale nel pensiero – e nella scrittura
– della storia. «Furono gli ebrei, e dopo di loro i cristiani,
che introdussero un elemento del tutto nuovo postulando un fine
verso cui si dirigerebbe l’intero processo storico: nasceva,
cosí, la concezione teleologica della storia. In tal modo la
storia acquistava un significato e un fine, ma finiva col perdere il
suo carattere mondano. Attingere il fine della storia avrebbe
significato automaticamente mettere un termine alla storia stessa:
la storiografia si trasformò in una teodicea» [Carr
1961, trad. it. p. 118]. Colui che, piú degli storici
cristiani antichi e come suo malgrado, fu il grande teorico della
storia cristiana fu Agostino. Egli fu indotto a trattare di storia
dai compiti del suo apostolato e dagli avvenimenti. Fu dapprima
spinto a rifiutare la filosofia neoplatonica di Porfirio, «il
piú illustre dei filosofi pagani», che aveva affermato
che la «“via universale di salvezza”, quale era stata
rivendicata dai cristiani, era fino a quel momento “ignota alla
scienza storica”» [Brown 1967, trad. it. pp. 78, 318]. Volle
in seguito riprendere le accuse lanciate dai pagani, dopo il sacco
di Roma a opera di Alarico e dei Goti nel 410, contro i cristiani
che, a loro parere, avevano minato le tradizioni e le forze del
mondo romano, incarnazione della civiltà. Agostino respinse
l’idea che l’ideale dell’umanità consistesse nell’opporsi al
cambiamento. La salvezza degli uomini non era legata alla
perennità della romanità. Vi erano due schemi storici
operanti nella storia umana. I prototipi erano Caino e Abele. Il
primo era all’origine di una storia umana, di una città del
male – Babilonia – che serviva il diavolo e i suoi demoni; al
secondo risale l’origine dell’«antica Città di Dio…
sempre anelante al cielo – il cui nome è anche Gerusalemme o
Sion». Nella storia umana le due città sono
inestricabilmente unite, gli uomini vi sono stranieri, dei
«pellegrini» [ibid., cap. XXVII], fino alla fine dei
tempi, quando Dio separerà le due città. La storia
umana è stata dapprima una catena senza significato, lo
«spazio di tempo nel quale il neonato estromette il
moribondo» [Agostino, De civitate Dei, XV, I, I], fino a che
l’Incarnazione venne a darle un senso: «I secoli della storia
passata sarebbero rotolati l’uno dopo l’altro come vasi vuoti, se
Cristo non fosse venuto a riempirli» [In Joannis Evangelium
Tractatus, IX, 6]. La storia della città terrestre è
simile alla evoluzione di un organismo unico, di un corpo
individuale. Esso passa per le sei età della vita e con
l’Incarnazione è entrato nella vecchiaia, il mondo invecchia
(mundus senescit), ma l’umanità ha trovato il senso
dell’immenso concerto che lo trasporta fino a che si rivelerà
«la bellezza del ciclo compiuto del tempo»; la
«diligenza storica» non mostra che la medesima
successione di avvenimenti, mentre qualche momento privilegiato
lascia intravedere in questa «profetica verità»
la possibilità della salvezza. Questo è l’affresco che
alla fine traccia il De civitate Dei [XXII; cfr. Brown 1967, trad.
it. pp. 318 sgg.], mescolando la gioiosa speranza nella salvezza e
il senso tragico della vita [Marrou 1950].
Le ambiguità del pensiero storico agostiniano hanno dato
luogo in seguito, e particolarmente nel medioevo, a tutta una serie
di deformazioni e semplificazioni: «È possibile seguire
di secolo in secolo le metamorfosi che il piú delle volte non
sono che caricature dello schema agostiniano del De civitate
Dei» [Marrou 1961, p. 20]. La prima caricatura fu opera di un
prete spagnolo, Paolo Orosio, la cui opera Adversus paganos,
ispirata dall’insegnamento diretto di Agostino a Ippona, ebbe grande
influenza nel medioevo. Nacquero cosí la confusione tra la
nozione mistica di Chiesa, prefigurazione della città divina,
e l’istituzione ecclesiastica che pretendeva sottomettersi la
società terrena, la pseudospiegazione della storia opera di
una Provvidenza imprevedibile ma sempre bene orientata, la
persuasione nella decadenza progressiva dell’umanità
d’altronde infallibilmente trascinata verso un fine voluto da Dio,
il dovere di convertire a ogni costo i non cristiani per farli
entrare nella storia della salvezza riservata ai soli cristiani.
Mentre nel medioevo la storia occidentale, all’ombra di questa
teoria «agostiniana», perseguiva lentamente e umilmente
i compiti del mestiere di storico, l’Islam, dal canto suo, produceva
tardivamente un’opera geniale nel campo della filosofia della
storia, la Muqaddima di Ibn Khaldūn. Ma, a differenza del De
civitate Dei, la Muqaddima, pur senza avere alcuna influenza
immediata, prefigurava taluni degli elementi dello stato d’animo
della storia scientifica moderna.
Tutti gli specialisti sono concordi nel considerare Ibn Khaldūn come
«uno spirito critico eccezionale per il suo tempo»
[Monteil 1967-68, p. XXV], «un genio», cioè uno
di quegli esseri dall’intuizione senza uguali [ibid., p. XXXV],
«in anticipo sul suo tempo per le idee e i metodi»
[ibid., p. XXXII]; Arnold Toynbee vede nella sua opera al-Muqaddima
«senza alcun dubbio la piú grande opera del suo genere
che sia mai stata finora creata, in ogni tempo e in ogni
luogo» [citato ibid., p. XXXV].
Pur senza essere in grado di analizzarla nel suo tempo, la si
ricorda qui, perché da un lato costituisce ormai parte
integrante di un settore dell’insieme della produzione storica
dell’umanità, dall’altro perché capace oggi
d’influenzare direttamente la riflessione storica del mondo
musulmano e del Terzo Mondo. Ecco l’opinione di un intellettuale
algerino, il medico Ahmed Taleb, imprigionato dai Francesi durante
la guerra d’Algeria e che lesse Ibn Khaldūn in carcere: «Sono
stato colpito specialmente dalla finezza e dalla penetrazione delle
sue riflessioni sullo Stato e il suo ruolo, sulla Storia e la sua
definizione. Egli ha aperto prospettive inconsuete alla psicologia…
cosí come alla sociologia politica, mettendo l’accento, per
esempio, sull’opposizione tra uomini di città e di campagna o
sul ruolo dello spirito di corpo nella costituzione degli imperi e
del lusso nella loro decadenza» [1959, p. 98]. Il geografo
francese Yves Lacoste, dal canto suo, vede nella Muqaddima «un
contributo fondamentale alla storia del sottosviluppo. Essa segna la
nascita della storia in quanto scienza e ci riporta a una tappa
essenziale del passato di quello che si chiama oggi il Terzo
Mondo» [1966, p. 17].
Ibn Khaldūn, nato a Tunisi nel 1332 e morto al Cairo nel 1406,
scrisse nel 1377 la Muqaddima nel ritiro algerino presso Biscra,
prima di trascorrere gli ultimi anni della sua vita al Cairo come
qāī ‘giudice’ dal 1382 al 1406. La sua opera è una
introduzione (Muqaddima) alla storia universale. A questo riguardo,
egli si colloca nel solco di una grande tradizione musulmana e
rivendica apertamente questa ascendenza. Per un lettore occidentale
moderno l’inizio della Muqaddima evoca ciò che si scriveva in
Occidente durante il Rinascimento, da uno a due secoli piú
tardi, e ciò che avevano scritto taluni storici
dell’antichità: «La storia è una nobile scienza.
Essa presenta molti aspetti utili. Essa si propone di raggiungere un
nobile scopo. Essa ci fa conoscere le condizioni proprie delle
nazioni antiche, quali si traducono nel loro carattere nazionale.
Essa ci trasmette la biografia dei profeti, la cronaca dei re, le
loro dinastie e la loro politica. In tal modo, chi lo voglia
può ottenere felici risultati imitando i modelli storici in
materia religiosa o profana. Per scrivere opere storiche bisogna
disporre di numerose fonti e di conoscenze assai varie. È
necessario anche uno spirito ponderato e della acutezza: per
condurre il ricercatore alla verità e preservarlo
dall’errore» [Ibn Khaldūn, al-Muqaddima, Introduzione].
Ibn Khaldūn presenta la sua opera come «un commento sulla
civiltà» (umrāh). Ciò che prende in
considerazione è il cambiamento e la sua spiegazione. Egli si
distingue dagli storici che si accontentano di parlare di
avvenimenti e di dinastie senza spiegarli. Egli «dà le
cause degli avvenimenti» e pensa dunque di cogliere «la
filosofia (hikma) della storia». Si è visto in Ibn
Khaldūn il primo sociologo. Sembra piuttosto un amalgama di
antropologo storico e filosofo della storia. Egli prende le distanze
nei confronti della tradizione: «La ricerca storica unisce
strettamente l’errore alla leggerezza. La fede cieca nella
tradizione (taqlīd) è congenita…» Grazie al suo libro
«non ci sarà piú bisogno di credere ciecamente
nella tradizione» [ibid., Avvertenza]. Ciò che è
particolarmente rilevante nelle sue spiegazioni è il
riferimento alla società e alla civiltà che sono per
lui le strutture e i campi essenziali, benché non trascuri
né la tecnica né l’economia. Ecco, per esempio, il
tipo di testimonianza che costituiscono per lo storico i monumenti
edificati da una dinastia: «Tutti questi lavori degli antichi
non sono stati possibili che con la tecnica e il lavoro concertato
di una manodopera numerosa… Non bisogna dar fede alla credenza
popolare, secondo la quale gli antichi erano piú grandi e
forti di noi… L’errore dei narratori dipende qui dal fatto che essi
ammirano le vaste proporzioni dei monumenti antichi, senza
comprendere le differenti condizioni di organizzazione sociale
(itgimā) e di cooperazione. Essi non vedono che tutto era questione
di organizzazione sociale e di tecnica (hindām). Di conseguenza,
immaginano a torto che i monumenti antichi siano dovuti alla forza e
alla energia di esseri di taglia superiore» [ibid., I, III,
16]. Come è naturale a un musulmano in funzione di ciò
che vede e sa del passato dell’islam, egli accorda grande importanza
all’opposizione nomadi/sedentari, beduini/cittadini. Uomo del
Maghrib urbanizzato, egli s’interessa particolarmente alla
civiltà urbana, ma considera anche il fenomeno dinastico e
monarchico, e constata che non si tratta di un prodotto
dell’urbanizzazione: «La dinastia precede la
città», ma le è strettamente legata: «La
monarchia chiama la città» [ibid., II, IV, 1-2].
Dove egli appare piuttosto come un filosofo della storia è
con la teoria (che annunzia Montesquieu, ma che è nella sua
epoca già tradizionale presso gli storici e i geografi
musulmani) dell’influenza dei climi, non priva di razzismo (nei
confronti dei negri), e soprattutto con la teoria del declino. Ogni
organizzazione sociale e politica non dura che per un certo periodo
di tempo e va verso il declino, piú o meno rapidamente: per
esempio, il prestigio di un lignaggio non dura che quattro
generazioni. Questo meccanismo è assai chiaro nel caso delle
monarchie: per natura la monarchia vuole la gloria, il lusso e la
pace, ma divenuta gloriosa, lussuosa e pacifica, essa volge al
declino. Ibn Khaldūn non separa in questo processo gli aspetti
morali da quelli sociali: «Una dinastia non dura,
generalmente, piú di tre generazioni: la prima generazione
conserva le virtú beduine, la rudezza e la selvatichezza del
deserto… essa conserva dunque il suo spirito di clan. I suoi membri
sono decisi e temuti e le genti gli obbediscono… Sotto l’influenza
della monarchia e del benessere, la seconda generazione passa dalla
vita beduina alla vita sedentaria, dalla privazione al lusso e
all’abbondanza, dalla gloria comune e condivisa alla gloria di uno
solo… il vigore dello spirito tribale è incrinato, la gente
si abitua al servilismo e all’obbedienza… la terza generazione ha
completamente dimenticato l’epoca della rude vita beduina… Ha
perduto ogni gusto per la gloria e i legami del sangue,
poiché è governata con la forza… I suoi membri
dipendono dalla dinastia che li protegge, come donne e bambini. Lo
spirito di clan scompare completamente… Il sovrano deve dunque fare
appello alla sua clientela, al suo seguito. Ma Dio permette un
giorno che la monarchia venga distrutta» [ibid., I, III, 12].
Ciò che questa teoria sottende è l’assimilazione di
una forma sociopolitica a una persona umana, un modello
organicistico, biologico della storia. Nondimeno, la Muqaddima resta
una delle grandi opere del sapere storico. Come ha detto Jacques
Berque, si tratta di «un pensiero maghribino, islamico e
mondiale… la gioia amara dell’intelligibile ha segnato, per
quest’uomo in disgrazia, la storia che si svolgeva in quel momento
stesso, e che egli ha avuto per primo il merito di situare entro
cosí vaste prospettive» [1970, p. 327].
Ma si torni ora all’Occidente. L’antichità greco-romana non
aveva avuto il vero senso della storia. Essa non aveva avanzato come
schemi esplicativi generali che la natura umana (vale a dire
l’immutabilità), il destino e la fortuna (vale a dire
l’irrazionalità), lo sviluppo organico (vale a dire il
biologismo). Essa aveva posto il genere storico nel campo dell’arte
letteraria e gli aveva assegnato come funzioni il divertimento e
l’utilità morale. Ma essa aveva prefigurato una concezione e
una pratica «scientifica» della storia sulla
testimonianza (Erodoto), l’intelligibilità (Tucidide), la
ricerca della cause (Polibio), la ricerca e il rispetto della
verità (tutti e infine Cicerone). Il cristianesimo aveva dato
alla storia un senso, ma l’aveva sottomessa alla teologia. Il XVIII
e soprattutto il XIX secolo dovevano assicurare il trionfo della
storia in sé, dandone un senso secolarizzato con l’idea di
progresso, fondendone le funzioni di sapere e di saggezza per mezzo
di concezioni (e di pratiche) scientifiche che l’assimilavano tanto
alla realtà, non piú soltanto alla verità
(storicismo), quanto alla prassi (marxismo).
Ma l’intermezzo che separa la teologia della storia medievale dallo
storicismo trionfante del XIX secolo non è per nulla privo
d’interesse dal punto di vista della filosofia della storia.
Secondo George Nadel [1964], l’età d’oro della filosofia
della storia sarebbe stata il periodo che va approssimativamente dal
1550 al 1750. Il suo punto di partenza sarebbe stata l’affermazione
di Polibio: «L’insegnamento che si ricava dalla storia
è la piú efficace istruzione e la migliore
preparazione alla vita politica» [Storie, I, I].
Occorre introdurre qui una nota. Si può a questo proposito
scorgere l’influenza di Machiavelli e Guicciardini, ma a condizione
di rilevare la posizione marginale di ciascuno di questi pensatori
quanto al rapporto tra storia e politica [Gilbert 1965]. Per
Machiavelli l’idea essenziale è quella della
specificità della politica e, in un certo modo, la politica,
che deve essere ricerca della stabilità della società,
deve opporsi alla storia che è un flusso perpetuo, sottoposto
ai capricci della Fortuna, come in effetti sostenevano Polibio e gli
storici dell’antichità. Per Machiavelli gli uomini dovevano
rendersi conto della «impossibilità di fondare un
ordine sociale permanente, che rispecchi la volontà di Dio o
in cui la giustizia sia distribuita in modo da rispondere a tutte le
esigenze umane». Di conseguenza, «Machiavelli si attenne
fermamente all’idea che la politica aveva le proprie leggi e quindi
era o avrebbe dovuto essere una scienza; il suo scopo era di tenere
in vita la società nel perpetuo fluire della storia».
La conseguenza di questa concezione era «il riconoscimento
della necessità della coesione politica e la tesi
dell’autonomia della politica sviluppatasi in seguito nel concetto
di stato» [Gilbert 1965, trad. it. p. 171].
Guicciardini, al contrario, vuole e realizza l’autonomia della
storia a partire dalla medesima constatazione del cambiamento (del
quale si è detto scherzosamente che era la sola legge
discernibile della storia). Specialista dello studio del
cambiamento, «lo storico acquistava cosí la propria
funzione peculiare, e la storia assumeva un’esistenza autonoma nel
mondo della conoscenza; il significato della storia non andava
cercato altrove che nella storia stessa. Lo storico diventava
registratore e interprete insieme. La Storia d’Italia di
Guicciardini è l’ultima grande opera storica condotta secondo
lo schema classico, ma è anche la prima grande opera della
storiografia moderna» [ibid., p. 255].
Per tornare a Nadel, la sua idea è che la concezione
dominante della storia, dal Rinascimento all’illuminismo, sia stata
la concezione della storia esemplare, didattica nei suoi propositi,
induttiva nel metodo e fondata sui luoghi comuni degli stoici,
retori e storici romani. La storia era ridiventata un insegnamento
per i governanti come al tempo di Polibio. Questa concezione della
storia magistra vitae ispira sia studi particolari, sia dei trattati
sulla storia, delle artes historicae (una collezione di questi
trattati, l’Artis Historicae Penus in due volumi fu pubblicata a
Basilea nel 1579), tra i quali i piú importanti furono, nel
XVI secolo, il Methodus ad facilem historiarum cognitionem di Jean
Bodin (1566), nel XVII secolo l’Ars historica (1623) di Voss, per il
quale la storia era la conoscenza delle particolarità che
è utile rammentare «ad bene beateque vivendum»,
nel XVIII secolo la Méthode pour étudier l’histoire di
Lenglet du Fresnoy, la cui prima edizione, seguita da molte altre,
è del 1713.
La storia dei filosofi dei lumi, che si sforzarono di rendere la
storia razionale, aperta alle idee d’incivilimento e di progresso,
non ha sostituito la concezione della storia esemplare, e la storia
è cosí sfuggita alla grande rivoluzione scientifica
dei secoli XVII e XVIII. La storia esemplare è sopravvissuta
finché non è stata rimpiazzata dallo storicismo.
Questa nuova concezione dominante della storia è nata in
Germania, piú particolarmente a Göttingen. Alla fine del
secolo XVIII e agli inizi del XIX, degli universitari che non
dovevano preoccuparsi di un pubblico per il quale la storia era da
considerare una scienza etica, la trasformarono in una faccenda per
professionisti, specialisti. «La lotta tra lo storico
antiquario e lo storico filosofo, il saggio pedante e il gentleman
ben educato terminò con la vittoria dell’erudito sul
filosofo» [Nadel 1964, p. 315]. Già nel 1815 Savigny
aveva affermato che la storia non è piú soltanto una
raccolta di esempi, ma la sola via alla conoscenza vera della nostra
condizione particolare. La dichiarazione piú netta, che
è divenuta celebre, è quella di Ranke: «Si
è attribuito alla storia la funzione di giudicare il passato
e di istruire il presente per rendere il futuro utile; il mio
tentativo non tende a cosí gigantesche funzioni, tende
soltanto a mostrare come le cose sono realmente andate» [1824,
ed. 1957, p. 4].
Prima di esaminare le nuove concezioni della storia erudita tedesca
del secolo XIX, cioè lo storicismo, occorre rettificare
l’interessante idea di Nadel su due punti. Il primo è che le
idee dei principali storici della fine del secolo XVI non si
riducono all’idea della storia esemplare, ma che la teoria della
storia perfetta o integrale va assai al di là. Il secondo –
al quale Nadel allude – è che la teoria provvidenzialista
cristiana della storia prosegue nel secolo XVII e trova la sua
piú rilevante espressione nel Discours sur l’histoire
universelle (1681).
Un certo numero di storici francesi nella seconda metà del
secolo XVI espressero una visione molto ambiziosa della storia: la
storia integrale compiuta o perfetta. S’incontra questa concezione
in Bodin, in Nicolas Vigner, autore di un Sommaire de l’histoire des
français (1579), di una Bibliothèque historiale
(1588), in Louis le Roy (De la vicissitude ou variété
des choses en l’univers…, 1575) e soprattutto in Lancelot-Voisin de
La Popelinière con un volume di tre trattati: L’Histoire de
l’histoire, L’idée de l’histoire accomplie, Le Dessein de
l’Histoire nouvelle des français (1599). Bodin è
soprattutto conosciuto per la sua idea dell’influenza del clima
sulla storia, che annunzia Montesquieu e la sociologia storica. Ma
il suo Methodus (1566) non è che un’introduzione al suo
grande trattato La République (1576). È un filosofo
della storia e della politica e non uno storico. La sua concezione
della storia resta fondata sull’idea umanista di utilità.
Tutti questi sapienti hanno in comune tre idee che La
Popelinière esprimerà nel modo migliore. La prima
è che la storia non è pura narrazione, opera
letteraria. Essa deve ricercare le cause. La seconda, la piú
nuova e la piú importante, è che oggetto della storia
sono le civiltà e la civiltà. Questa comincia prima
ancora della scrittura. «Nella sua forma piú primitiva,
– sostiene La Popelinière, – la storia va cercata ovunque,
nelle canzoni e nelle danze, nei simboli e in altri procedimenti
mnemonici» [citato in Huppert 1970, p. 137]. È la
storia dei tempi in cui gli uomini erano «rurali e non
civilizzati» [ibid.]. La terza idea è che la storia
dev’essere universale, nel senso piú completo: «La
storia degna di questo nome deve essere generale» [ibid., p.
139]. Myriam Yardeni [1964] ha giustamente sottolineato che questa
storia era un fatto nuovo e che La Popelinière ne ha
precisamente sottolineato la novità. Ma egli era ostacolato
dalla sua concezione cristiana pessimista.
L’agostinismo storico che pesa ancora su La Popelinière ha
dato il suo ultimo capolavoro con il Discours sur l’histoire
universelle di Bossuet (1681). Bossuet, che doveva scrivere un
compendio della storia di Francia per il suo allievo, il Delfino,
figlio di Luigi XIV, incomincia anche il suo Discours per il suo
discepolo: la prima parte, una specie di panorama della storia fino
a Carlomagno, è un vero discorso, la seconda,
«dimostrazione… della verità della religione cattolica
nei suoi rapporti con la storia, è un sermone»
[Lefebvre 1945-46, trad. it. p. 93]. La terza parte, esame del
destino degli imperi, è piú interessante. Infatti,
sotto l’affermazione generale del dominio imprevedibile della
Provvidenza sulla storia, appare una razionalità della Storia
dovuta al fatto che gli avvenimenti particolari entrano in sistemi
generali, globalmente determinati, Dio intervenendo (e raramente)
solo attraverso l’intermediario di cause seconde. Non soltanto, ma
Bossuet, benché abbia letto i lavori degli eruditi, è
molto spesso a metà tra l’apologetica e la polemica;
tuttavia, l’idea di una verità che si sviluppi nel tempo gli
è estranea. «Per lui il cambiamento è sempre il
segno dell’errore. Ciò che manca di piú a questo
storico, prigioniero di una certa teologia, è il senso del
tempo e dell’evoluzione» [Ehrard e Palmade 1964, p. 33].
Resta da ricordare una filosofia della storia originale, isolata nel
suo tempo ma che ha conosciuto una sorprendente posterità,
quella di Giambattista Vico, professore all’università di
Napoli, la cui opera principale, La Scienza nuova (o piú
esattamente Principî di scienza nuova d’intorno alla commune
natura delle nazioni) ha conosciuto parecchie edizioni dal 1725 al
1740. Cattolico, Vico è antirazionalista. Egli
«introduceva una sorta speciale di dualismo fra la storia
sacra e la storia profana. Poneva tutta la moralità e la
razionalità dalla parte della storia sacra e vedeva nella
storia profana lo sviluppo di istinti irrazionali, di una
immaginazione truculenta, di una violenta ingiustizia»
[Momigliano 1966c, p. 156]. Le passioni umane conducono le nazioni e
i popoli alla decadenza. Una specie di lotta di classe tra gli
«eroi» conservatori e i «bestioni» plebei e
sostenitori del cambiamento termina in generale con la vittoria dei
bestioni, la decadenza dopo l’apogeo e il passaggio a un altro
popolo che, a sua volta, cresce e declina: «È l’uomo
che ha fatto questo mondo storico».
Questa filosofia della storia ha ispirato ammiratori molto diversi.
Michelet ha tradotto in francese la Scienza nuova nel 1836 e
nell’introduzione ha affermato: «Il motto della Scienza Nuova
è questo: l’umanità è l’opera di se
stessa». Croce ha in parte formato il suo pensiero storico
sulla lettura e il commento di Vico (La filosofia di Giambattista
Vico, 1911). Vi è un’interpretazione marxista di Vico, del
quale Marx raccomandava la lettura a Lassalle nel 1861, che si
è sviluppata attraverso Georges Sorel (Etudes sur Vico, in
«Le devenir social», 1896), Antonio Labriola, Paul
Lafargue, la citazione di Trockij nella prima pagina della Storia
della rivoluzione russa (Istorija russkoj revoljucii, 1931-33) e che
ha ispirato l’Introduzione a G. B. Vico (1961) di Nicola Badaloni.
Ernst Bloch ha scritto: «È con Vico che riappare per la
prima volta, dopo il De civitate Dei di Agostino, una filosofia
della storia, senza storia della salvezza, ma sostenuta
dall’affermazione applicantesi alla storia tutta intera che non vi
sarebbe comunità umana senza il legame della religione»
[1972, p. 154].
Lo storicismo è stato definito da Nadel nel modo seguente:
«Il suo fondamento è il riconoscimento che gli
avvenimenti storici devono essere studiati non, come si faceva in
precedenza, come dati per una scienza della morale o della politica,
ma come fenomeni storici. Nella pratica, ciò si è
manifestato con l’affermarsi della storia come disciplina
universitaria indipendente, di nome e di fatto. In campo teorico,
ciò si espresse con due proposizioni: 1) ciò che
è accaduto deve essere spiegato in funzione del momento in
cui è accaduto; 2) esiste per spiegarlo una scienza dotata di
specifici procedimenti logici, la scienza della storia. Nessuna di
queste due proposizioni era nuova; nuova era invece l’insistenza con
la quale le si sottolineava e che condusse a esagerare ambedue in
modo dottrinale: dalla prima si trasse l’idea che fare la storia di
qualcosa significasse darne una spiegazione sufficiente, e chi
attribuiva un ordine logico all’ordine cronologico degli avvenimenti
considerò la scienza storica capace di predire il
futuro» [1964, p. 291].
Lo storicismo è da ricollocare nell’insieme delle correnti
filosofiche del secolo XIX, come ha fatto Maurice Mandelbaum [1971].
Egli constata che vi sono due fonti distinte e forse opposte. Una
è la rivolta romantica contro l’illuminismo, mentre l’altra
era, sotto certi aspetti, la continuazione della tradizione
dell’illuminismo. La prima tendenza apparve alla fine del XVIII
secolo, soprattutto in Germania, ed essa considerò lo
sviluppo storico sul modello della crescita degli esseri viventi. Da
questa tendenza uscí Hegel, che si spinse molto piú
lontano. La seconda, che si sforzò di stabilire una scienza
della società fondata su leggi dello sviluppo sociale, ebbe
come maestri Saint-Simon e Comte; il marxismo appartiene a questa
tendenza. Di fatto, nel XIX secolo, lo storicismo segnò tutte
le scuole di pensiero e ciò che lo fece alla fine trionfare
fu la teoria di Darwin su The Origin of Species (1859),
l’evoluzionismo. Il concetto centrale è quello di sviluppo,
spesso precisato da quello di progresso. Ma lo storicismo si
arenò sul problema dell’esistenza in storia di leggi che
avessero un senso e su quello di un modello unico di sviluppo
storico.
Con Georg Iggers si ricorderanno, sommariamente, i fondamenti
teorici dello storicismo tedesco in Wilhelm von Humboldt e Leopold
von Ranke, l’apice dell’ottimismo storicistico con la scuola
prussiana e la crisi dello storicismo con la filosofia critica della
storia di Dilthey e di Max Weber, con il relativismo storico di
Troeltsch e Meinecke.
Wilhelm von Humboldt, filosofo del linguaggio, diplomatico,
fondatore dell’università di Berlino nel 1810, scrisse
numerose opere storiche e riassunse il suo pensiero nel trattato Il
dovere dello storico [1821]. Humboldt, spesso vicino al
romanticismo, influenzato (positivamente e negativamente insieme)
dalla rivoluzione francese, fu il creatore della dottrina delle idee
storiche; egli insistette sull’importanza dell’individuo in storia,
sul posto centrale della politica in storia, chiave di volta della
filosofia della storia che ispirò la scienza storica tedesca
da Ranke a Meinecke [cfr. Iggers 1971, pp. 84-85]. Le idee non sono
idee metafisiche, platoniche, esse sono storicamente incarnate in un
individuo, in un popolo (spirito del popolo, Volksgeist), in
un’epoca (spirito del tempo, Zeitgeist), ma restano vaghe.
Benché non sia «né un nichilista né un
relativista», egli ha una concezione fondamentalmente
«irrazionale» della storia.
Il piú grande e il piú importante degli storici e
teorici tedeschi della storia del secolo XIX è Leopold von
Ranke. La sua opera di storico concerne soprattutto la storia
europea dei secoli XVI-XVII e la storia prussiana dei secoli
XVIII-XIX. Egli scrisse alla fine della sua vita una Storia
universale (Weltgeschichte), che rimase però incompiuta.
Ranke è stato piú un metodologo che un filosofo della
storia. È stato «il piú grande maestro del
metodo critico-filologico» [Fueter 1911, trad. it. p. 606].
Lottando contro l’anacronismo, egli ha denunziato il falso
romanzesco storico del romanticismo, per esempio dei romanzi di
Walter Scott, e affermato che il grande compito dello storico
consisteva nel dire «quel che propriamente è
stato». Ranke ha impoverito il pensiero storico accordando
un’importanza eccessiva alla storia politica e diplomatica. Ma si
è deformato il suo pensiero in due sensi, positivista e
idealista. Gli storici francesi [Langlois e Seignobos 1898] e
soprattutto americani [Adams 1884] hanno visto in lui il
«padre della storia», di una storia che si limitava alla
«stretta osservanza dei fatti, [al]l’assenza di moralizzazione
e di ornamento, [al]la pura verità storica» [ibid., pp.
104 sgg.; cfr. Iggers 1971, pp. 86 sgg.].
Ora, Ranke si è certamente posto, nella scia di Humboldt,
come un sostenitore (prudente) della dottrina delle idee storiche e
ha attribuito grande importanza alla psicologia storica, come ha
mostrato nella sua Storia dei papi romani [1834-36]. Ma
benché si siano spesso utilizzate un certo numero di frasi
nelle quali egli dice che «ciascun popolo è immediato
con Dio», egli è stato un «avversario delle
teorie storiche nazionali» [Fueter 1911, trad. it. p. 607].
L’ottimismo storicista raggiunse l’apogeo con la scuola prussiana,
le cui figure piú rilevanti furono Johann Gustav Droysen, che
espresse le sue teorie nel Sommario di istorica (Grundriss der
Historik, 1858) e Heinrich von Sybel. Droysen pensa che non vi sia
conflitto tra la morale e la storia o la politica. Se un governo non
poggia sulla forza pura e semplice ma anche su un’etica, esso
raggiunge lo stadio supremo della realizzazione etico-storica, lo
Stato. Lo Stato prussiano è stato nel XIX secolo il modello
di questo risultato, realizzato nell’antichità anche da
Alessandro. In seno allo Stato non esiste piú conflitto tra
la libertà individuale e il bene comune.
Sybel insistette ancora di piú sulla missione dello Stato e
sulla realtà di un progresso generale dell’umanità. Vi
aggiunse una preminenza della ragion di Stato, dovendo la forza
avere la meglio in caso di conflitto con il diritto.
Questo smilzo sommario dovrebbe essere arricchito da uno studio
degli stretti legami tra queste concezioni della storia e la storia
tedesca e europea del XIX secolo e da uno studio degli altri campi
della scienza nei quali lo storicismo tedesco si è
trionfalmente installato, per esempio la scuola storica del diritto,
la scuola storica dell’economia, la linguistica storica, ecc.
[Iggers 1973].
Alla fine del secolo si assistette al riflusso dello storicismo in
Germania, mentre aveva la meglio altrove, ma con deformazioni
positiviste (Francia, Stati Uniti) o idealiste (Italia: Croce).
Iggers si è giustamente espresso dicendo che la critica allo
storicismo fu fatta prima del 1914-18 soprattutto come critica
dell’idealismo e, dopo, soprattutto come critica dell’idea di
progresso. Vanno distinte, in particolare, la critica dei filosofi e
la critica degli storici.
Per quanto riguarda la prima, rinvio al grande libro di Raymond Aron
La philosophie critique de l’histoire [1938b] e ai bei saggi Lo
storicismo tedesco contemporaneo di Pietro Rossi [1956] e Lo
storicismo di Carlo Antoni [1957].
Verranno ricordate ora le due principali figure della critica
filosofica: Dilthey e Max Weber. Dilthey ha cominciato col criticare
i concetti fondamentali dello storicismo di Humboldt e di Ranke:
anima popolare (Volksseele), spirito del popolo (Volksgeist),
nazione, organismo sociale, che sono per lui concetti
«mistici», inutili alla storia [Iggers 1971, p. 180].
Poi ha pensato che il sapere era possibile nelle scienze dello
spirito – ivi compresa la storia – perché la vita «si
obiettiva» in istituzioni quali la famiglia, la società
civile, lo Stato, il diritto, l’arte, la religione e la filosofia
[ibid., p. 182]. Alla fine della sua vita (1903), egli pensava di
scorgere il fine della sua ricerca per stabilire «una critica
della ragione storica». Egli credeva che «la visione
storica del mondo (geschichtliche Weltanschauung) fosse la
liberazione dello spirito umano, che essa affrancava dalle ultime
catene che le scienze della natura e la filosofia non avevano
spezzato» [ibid., p. 188]. Tutta la critica dello storicismo,
alla fine del secolo XIX e agl’inizi del XX, è ambigua. Essa
cerca, come si è visto con Dilthey, piú di superare lo
storicismo che di rinnegarlo.
Max Weber, oltre che filosofo, è stato un grande storico e
sociologo. Raymond Aron ha sintetizzato la teoria weberiana della
storia nei termini seguenti: «Tutte le polemiche di Weber
hanno come scopo di dimostrare indirettamente la sua teoria,
escludendo le concezioni che potrebbero minacciarla. La storia
è una scienza positiva; questa proposizione è messa in
dubbio da: a) i metafisici, consapevoli o inconsapevoli, dichiarati
o pudichi, che utilizzano un concetto trascendentale
(libertà) nella logica della storia; b) gli esteti e/o i
positivisti, che partono dal pregiudizio secondo il quale non si
dà scienza e concetto che del generale, essendo l’individuo
suscettibile di essere soltanto intuitivamente. La storia è
sempre parziale, perché il reale è infinito,
perché l’ispirazione della ricerca storica cambia con la
storia stessa. Mettono in pericolo queste proporzioni: a) i
“naturalisti”, che proclamano che la legge è il fine unico
della scienza o che pensano di esaurire il contenuto della
realtà per mezzo di un sistema di relazioni astratte; b) gli
storici ingenui che, inconsapevoli dei loro valori, si immaginano di
scoprire nel mondo storico stesso la selezione dell’importante e
dell’accidentale; c) tutti i metafisici, che credono di aver colto
in maniera positiva l’essenza dei fenomeni, le forze profonde, le
leggi del tutto, che governerebbero il divenire al di sopra della
testa degli uomini che pensano e credono di agire» [1938b, p.
256]. Si vede come Max Weber combattesse lo storicismo sia dal lato
idealistico sia da quello positivistico, i due versanti del pensiero
storico tedesco del XIX secolo.
Questo capitolo sullo storicismo e sulla sua critica si chiude con i
due ultimi grandi storici tedeschi del XIX secolo: Ernst Troeltsch e
Friedrich Meinecke, che verso la fine della loro attività
hanno pubblicato due opere sullo storicismo: Il trionfo dello
storicismo [1924] e Le origini dello storicismo [1936].
Prima di tutto essi sono i primi a chiamare Historismus ‘storicismo’
il movimento storiografico tedesco del XIX secolo, la cui figura
centrale fu Ranke. Ne seguí tra l’altro una interminabile
polemica sul modo di tradurre il vocabolo in francese – ed
eventualmente di definirlo – con i termini historisme o historicisme
[Iggers 1973]. In italiano si è usato soltanto il termine
‘storicismo’. Le due opere sono infatti una critica dello storicismo
e nello stesso tempo un monumento alla sua gloria. Troeltsch, che
come Ranke pensava che non vi è una storia ma delle storie,
aveva voluto superare il dualismo fondamentale dello storicismo: il
conflitto tra natura e spirito, azione sotto l’impulso della forza
(ϰράτος) e azione secondo la giustificazione morale (῎Εθος),
coscienza storicistica e bisogno di valori assoluti. Meinecke
accetta questo dualismo [cfr. Chabod 1927]. Egli definisce lo
storicismo «il piú alto grado raggiunto nella
comprensione delle cose umane». Indubbiamente, egli si
arresta, come ha ben visto Carlo Antoni, prima della dissoluzione
della ragione e della fede nel pensiero, principio di unità
della natura umana, proprio a causa dell’umanesimo che Ranke aveva
mantenuto. Ma Delio Cantimori [1945] ha dato ragione a Croce, che
vedeva nello storicismo definito da Meinecke una sorta di tradimento
«irrazionale» dello «storicismo vero».
«“Storicismo”, nell’uso scientifico della parola, è
l’affermazione che la vita e la realtà è storia e
nient’altro che storia. Correlativa a quest’affermazione è la
negazione della teoria che considera la realtà divisa in
soprastoria e storia, in un mondo d’idee o di valori, e in un basso
mondo che li riflette, o li ha riflessi finora, in modo fuggevole e
imperfetto, e al quale converrà una buona volta imporli
facendo succedere alla storia imperfetta, o alla storia senz’altro,
una realtà razionale e perfetta… Il Meinecke, invece, fa
consistere lo storicismo nell’ammissione di quel che d’irrazionale
è nella vita umana, nell’attenersi all’individuale senza per
altro trascurare il tipico e il generale che vi si lega, e nel
proiettare questa visione dell’individuale sullo sfondo della fede
religiosa o del religioso mistero… Ma lo storicismo vero, in tanto
critica e vince il razionalismo astratto dell’illuminismo, in quanto
è piú profondamente razionalista di esso…»
[Croce 1938, pp. 51-53]. Alla vigilia del nazismo, le opere di
Troeltsch e di Meinecke rappresentarono le tombe glorificatrici
dello storicismo. Ma si faccia un passo indietro per ritornare a
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che è stato il primo filosofo
a mettere la storia al centro della sua riflessione. Sotto
l’influenza della rivoluzione francese, egli fu il primo a vedere
«l’essenza della realtà nel divenire storico e nello
sviluppo dell’autocoscienza» [Carr 1961, trad. it. p. 145].
Affermando che «tutto ciò che è razionale
è reale e tutto ciò che è reale è
razionale», egli ritiene che la storia sia governata dalla
ragione. «L’unico pensiero che essa [la filosofia] porta con
sé è il semplice pensiero della ragione: che la
ragione governi il mondo, e che quindi anche la storia universale
debba essersi svolta razionalmente» [Hegel 1830-31, trad. it.,
I, p. 7]. La storia stessa è presa in un sistema che è
quello dello Spirito. La storia non è identica alla logica.
Hélène Védrine ha portato l’attenzione su un
passo della Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
[1830]: «Ma lo spirito pensante della storia universale, –
poiché insieme ha cancellato quelle limitatezze degli spiriti
dei popoli particolari e il suo proprio carattere terreno, –
conquista la sua universalità concreta e si eleva al sapere
dello spirito assoluto, come della verità eternamente reale,
nella quale la ragione conoscitrice è libera per sé, e
la necessità, la natura e la storia sono solo gli strumenti
della rivelazione e dell’onore dello spirito» (trad. it. pp.
525-26). La Védrine nota giustamente che quest’opera attesta
sí l’idealismo di Hegel, ma soprattutto che in essa si
manifesta «il paradosso di tutte le filosofie della storia:
per cogliere il senso dello sviluppo, bisogna trovare il punto
focale nel quale si sopprimono gli avvenimenti nella loro
singolarità ed essi diventano significativi secondo una
griglia che permette di interpretarli. Nella sua totalizzazione, il
sistema produce un concetto del suo oggetto in modo che l’oggetto
diventa razionale e sfugge con ciò all’imprevisto e a una
temporalità nella quale il caso potrebbe avere un
ruolo» [1975, p. 21]. Quanto al processo storico, Hegel
precisa che «nella storia del mondo non si può trattare
che di popoli i quali costituiscano uno stato» [1830-31, trad.
it., I, p. 107] e nella Filosofia del diritto [1821] egli presenta
lo Stato moderno dopo la rivoluzione francese formato da tre classi:
la classe sostanziale o contadina, la classe industriale, la classe
universale (= burocrazia), che sembra rappresentare la perfezione
nella storia. Certo, Hegel non ha arrestato la storia a questo
punto; egli pensa piuttosto che la preistoria si è conclusa e
che la storia, che non è piú il cambiamento dialettico
ma il funzionamento razionale dello Spirito, abbia avuto inizio.
Senza dubbio Ranke ha vivamente criticato Hegel [Simon 1928] e il
suo modello di un processo unico di sviluppo lineare, ma si
può sostenere, che «dal punto di vista della conoscenza
come da quello del valore, Hegel rappresenti uno storicismo
completo, sistematicamente applicato» [Mandelbaum 1971, p.
60].
Non si può collocare il materialismo storico nel campo dello
storicismo che dando a quest’ultimo un significato molto vasto (si
veda piú avanti la critica di Althusser a questa concezione).
Per Marx [cfr. Vilar 1978; Lichtheim 1973], la «concezione
materialistica della storia» (espressione che non ha mai
usato) ha un duplice carattere: 1) come principio generale la
ricerca storica sotto una forma di concettualizzazione semplicemente
abbozzata; 2) come teoria del processo storico reale una
applicazione: lo studio della società borghese che conduce a
un abbozzo storico dello sviluppo del capitalismo in Europa
occidentale. I principali testi di Marx concernenti la storia sono
nell’Ideologia tedesca [Marx e Engels 1845-46] che fa
«cogliere il materialismo storico nella sua genesi e nelle sue
sfumature» [Vilar 1978], e anche – ma diffidando delle
citazioni senza contesto e dei commenti deformanti o limitanti –
nella «prefazione» del 1859 a Per la critica
dell’economia politica [1859], e infine nel Capitale. La tesi
fondamentale è che il modo di produzione della vita materiale
condiziona il processo sociale, politico e intellettuale in
generale. Non è la coscienza degli uomini che determina la
loro esistenza, ma al contrario il loro essere sociale che determina
la loro coscienza.
Contro Hegel, Marx ha respinto ogni filosofia della storia
assimilata a una metodologia. Nel Manifesto [Marx e Engels 1848] ha
fondato la storia di ogni società esistente come storia della
lotta di classe.
Su un certo numero di punti particolarmente contestabili e
pericolosi del materialismo storico, Marx – senza essere
responsabile delle interpretazioni abusive e delle conseguenze
illegittime che altri ne hanno voluto trarre durante la sua vita e
dopo la sua morte – ha tuttavia o accettato formulazioni oltranziste
e semplificanti, o lasciato nel vago o nell’ambiguità dei
concetti importanti. Egli non ha formulato leggi generali della
storia, ha soltanto concettualizzato il processo storico, ma
talvolta ha egli stesso impiegato il termine pericoloso di ‘legge’ o
accettato che il suo pensiero fosse formulato in tali termini. Per
esempio, egli accetta l’impiego del termine ‘leggi’ a proposito
delle concezioni espresse nel primo volume del Capitale [1867],
fatto nel resoconto di un professore della università di
Kiev, Sieber [Mandelbaum 1971, pp. 72-73]. Egli lascia che Engels
esponga nell’Anti-Dühring [1878] una concezione grossolana del
modo di produzione e della lotta di classe. Come è stato
notato, la sua documentazione storica (e quella di Engels) era
insufficiente ed egli non ha scritto delle vere e proprie opere
storiche ma dei pamphlet. Ha lasciato nel vago il piú
pericoloso dei suoi concetti, la distinzione tra struttura e
sovrastruttura, benché non abbia mai espresso una concezione
grossolanamente economica della struttura, né designato come
sovrastruttura altro che la costruzione politica (lo Stato, in
completa opposizione con la maggior parte degli storici tedeschi del
suo tempo, e parecchi esponenti di quello che si chiamerà lo
storicismo) e l’ideologia, termine per lui peggiorativo. Non ha
nemmeno precisato come la teoria critica e la pratica rivoluzionaria
dovessero unificarsi nello storico: nella vita, nell’opera. Egli ha
fornito basi teoriche ma non pratiche al problema dei rapporti tra
storia e politica. Benché abbia parlato della storia
dell’Asia, egli non ha praticamente ragionato che sulla storia
europea e ha ignorato il concetto di civiltà. A proposito del
suo rifiuto di leggi meccaniche in storia si può citare una
lettera del 1877 nella quale dichiara: «Degli eventi
sorprendentemente analoghi, che tuttavia si verificano in contesti
storici diversi, hanno effetti completamente diversi. Studiando
separatamente ognuno di questi processi evolutivi e confrontandoli,
troviamo facilmente la chiave per comprendere il fenomeno in
questione; ma in nessun caso è possibile arrivare a tale
comprensione servendosi come di un passe-partout di certe teorie
storico-filosofiche che hanno la gran virtú di porsi al di
sopra della storia» [citato in Carr 1961, trad. it. p. 71].
Egli ha criticato la concezione événementielle della
storia: «Si vede come la passata concezione della storia fosse
un nonsenso che trascurava i rapporti reali e si limitava ai grandi
avvenimenti politici e storici altisonanti» [citato in Vilar
1978, p. 372]. Come dice Pierre Vilar, «egli ha scritto pochi
“libri di storia”, egli ha sempre scritto libri di storico, il
“concetto di storia” è nella sua pratica» [ibid., p.
374].
Si sa che Benedetto Croce è stato attratto in gioventú
dal marxismo e Gramsci [1932-35, p. 1240] ha ritenuto che Croce sia
stato in seguito ossessionato dal materialismo storico. Per Croce
come per il materialismo storico, «l’identità di storia
e di filosofia è immanente nel materialismo storico»
[ibid., p. 1241]. Ma Croce si rifiuterebbe di andare fino al fondo
di questa identità, vale a dire di concepirla «come
previsione storica di una fase avvenire» [ibid.]. Croce
rifiuterebbe soprattutto d’identificare storia e politica,
cioè ideologia e filosofia [ibid., p. 1242]. Croce
dimenticherebbe che «realtà in movimento e concetto
della realtà, se logicamente possono essere distinti,
storicamente devono essere concepiti come unità
inseparabile» [ibid., p. 1241]. Croce sarebbe cosí
caduto nel sociologismo «idealistico» e il suo
storicismo non sarebbe che una forma di riformismo, non il
«vero» storicismo, sarebbe una ideologia nel senso
deteriore. Sembra a chi scrive che Gramsci abbia abbastanza ragione
opponendo la filosofia della storia di Croce a quella del
materialismo storico. Se vi scorge delle radici comuni è
perché egli stesso è ritornato (come Croce) a Hegel
dietro Marx, perché ha interpretato il materialismo storico
come uno storicismo, il che non è – in ogni caso – il
pensiero di Marx, ed è forse lui stesso, Gramsci, che non
riesce a liberarsi interamente dall’influenza di Croce, che definiva
nel 1917 «il piú grande pensatore dell’Europa in questo
momento».
Sull’idealismo storico di Croce non vi sono dubbi. In Teoria e
storia della storiografia egli definisce cosí la concezione
idealistica: «Non si tratta già d’instaurare, accanto
od oltre l’astratta storiografia individualistica e prammatica,
un’astratta storia dello spirito, dell’astratto universale; ma
d’intendere che individuo e idea, separatamente presi, sono due
astrazioni equivalenti e inadatte l’una e l’altra a fornire il
soggetto alla storia, e che la vera storia è storia
dell’individuo in quanto universale e dell’universale in quanto
individuo. Non si tratta di abolire Pericle a vantaggio della
Politica, o Platone a vantaggio della Filosofia, o Sofocle a
vantaggio della Tragedia; ma di pensare e rappresentare la Politica,
la Filosofia e la Tragedia come Pericle, Platone e Sofocle, e questi
come ciascuna di quelle in uno dei loro particolari momenti.
Perché, se fuori della relazione con lo spirito l’individuo
è ombra di un sogno, ombra di sogno è anche lo spirito
fuori delle sue individuazioni; e raggiungere nella concezione
storica l’universalità è ottenere insieme
l’individualità, e renderle entrambe salde della saldezza che
l’una conferisce all’altra. Se l’esistenza di Pericle, di Sofocle e
di Platone fosse indifferente, non sarebbe per ciò stesso
pronunziata indifferente anche l’esistenza dell’Idea?» [1915,
ed. 1976 pp. 97-98]. E nella Storia come pensiero e come azione,
dopo aver criticato il razionalismo positivista del was eigentlich
gewesen ‘quel che propriamente è stato’ di Ranke, egli giunge
ad affermare che «nessun’altra unità sussiste fuori di
quella del pensiero stesso che distingue e unifica» [1938, p.
312]. Come commenta Chabod, «non v’è unità in
re, ma solo nel pensiero critico» [1952, ed. 1972, p. 228].
Arnaldo Momigliano ha sottolineato la scarsa influenza di Croce sui
filosofi: «Nessuno può prevedere se la filosofia di
Croce sarà un punto di partenza per i futuri filosofi.
Attualmente egli ha in Italia pochi discepoli, e forse nessuno
all’estero. Anche Collingwood, già prima della sua prematura
morte, aveva cessato di essere suo discepolo» [1966a, ed.
1969, p. 110].
Delio Cantimori ha notato che gli storici di professione non hanno
considerato come storia la maggior parte dell’opera di Croce,
compresi gli scritti che recavano il titolo Storia… Fu il caso di
Federico Chabod, che Croce peraltro aveva invitato a dirigere
l’Istituto per gli studi storici da lui fondato a Napoli: «Le
scartava, perché gli sembrava che in esse ci fosse troppo del
filosofo, del politico dottrinario, dell’uomo che non sa spogliarsi
della propria ideologia e passione di parte» [1966, ed. 1978,
p. 402]. Chi scrive confessa di condividere l’opinione di Chabod,
benché occorra sottolineare che Croce, diversamente da molti
filosofi della storia che erano dei «puri» filosofi, era
anche un vero storico.
Per contro, crede che Cantimori abbia ragione di sottolineare il
grande progresso nel pensiero storico che si deve in gran parte a
Croce: la distinzione tra storia e storiografia: «Nel corso
delle sue varie e molteplici esperienze storiografiche, e delle sue
riflessioni sul lavoro storiografico, il Croce ha ritrovato e
trasmesso chiaramente, con la formula della distinzione fra res
gestae e historia rerum gestarum, agli studi di storia e di
questioni storiche, il risultato della grande, fondamentale, e in
sostanza irreversibile esperienza critica della filologia moderna,
che è scienza del conosciuto e non dell’ignoto. Ciò
non vuol dire, per il Croce, che non si debbono fare ricerche
archivistiche o di materiale inedito; anzi, che si debbono fare, e
che solo nello studio del documento o di una serie di documenti,
compiuto direttamente, si può avere la valutazione
dell’importanza e del significato di quel materiale» [ibid.,
p. 406]. Dopo aver esposto dettagliatamente l’insieme dei
procedimenti professionali dello storico, Cantimori conclude, a
proposito di Croce: «Non rinunciare alla critica (historia
rerum) per l’illusione di poter cogliere la sostanza o essenza delle
cose come sono andate e di poterle far conoscere una volta per
sempre (res gestae); perché solo tale distinzione critica
permette di mantenersi su un punto di vista dal quale si possa
seguire il movimento e l’andare delle società e degli
individui, degli uomini e delle cose – e di conoscere nel vivo e nel
concreto e non nell’astratto e generico» [ibid.].
A questa distinzione fondamentale si aggiunge il fatto che Croce ha
anche insistito sull’importanza della storia della storiografia:
«Con l’attenzione per la storia della storiografia, il Croce
ha indicato la necessità e la possibilità di questo
secondo approfondimento critico per gli storici, come scala e
graduazione per giungere, attraverso il riconoscimento delle
interpretazioni, del loro ambiente generale culturale e sociale, a
una esposizione e a un giudizio bene informati e autonomi, liberi
cioè da ripetizioni e ossequi a metafisiche e metodologie
derivanti non dalla tecnica e dalla esperienza ma da principî
filosofici e scolastici» [ibid., p. 407].
Antonio Gramsci è considerato come interprete di un marxismo
aperto, ed è certamente vero che nei suoi scritti come nella
sua azione politica si ritrovano posizioni estremamente duttili. Ma
chi scrive non pensa che le sue concezioni della storia segnino un
progresso del materialismo storico. Vi si scorge piuttosto, da una
parte, un certo ritorno al hegelismo, dall’altra uno scivolamento
verso il marxismo volgare. Certamente, egli riconosce che la storia
non funziona come una scienza e che non si può applicarle una
concezione meccanica della causalità. Ma la sua famosa teoria
del blocco storico pare molto pericolosa per la scienza storica.
L’affermazione che la struttura e la sovrastruttura costituiscono un
blocco storico – in altre parole che «l’insieme complesso
contraddittorio e discorde delle soprastrutture è il riflesso
dell’insieme dei rapporti sociali di produzione» [1931-32, p.
1051] – è stata generalmente interpretata come un
ammorbidimento della dottrina dei rapporti tra struttura e
sovrastruttura che Marx aveva lasciato relativamente nel vago e che
pareva la parte piú falsa, piú debole e pericolosa
dello stesso materialismo storico, anche se Marx non ha ridotto la
struttura a economia. Quello che Gramsci sembra abbandonare è
l’idea peggiorativa di ideologia, ma se egli lascia l’ideologia
nella sovrastruttura, la valorizzazione della stessa ideologia non
fa che minacciare ancor piú l’indipendenza (non l’autonomia,
che evidentemente non esiste) del settore intellettuale. Ora Gramsci
consolida doppiamente l’assoggettamento del lavoro intellettuale. Da
una parte, a fianco degli intellettuali tradizionali e degli
intellettuali organici, Gramsci non riconosce come validi che
intellettuali che identificano scienza e prassi, andando al di
là dei legami che Marx aveva tracciato. Inoltre, colloca la
scienza nella sovrastruttura. All’origine di questi scivolamenti
è possibile ritrovare la concezione gramsciana del
materialismo storico come «storicismo assoluto».
Louis Althusser ha violentemente protestato contro l’interpretazione
«storicistica» del marxismo, che egli collega con
l’interpretazione «umanistica». Egli ne scorge la
nascita nella «reazione di sopravvivenza contro il
meccanicismo e l’economicismo della II Internazionale, nel periodo
che precedette e soprattutto negli anni che seguirono la Rivoluzione
del 1917» [in Althusser e Balibar 1965, trad. it. p. 127].
Questa concezione storicistica e umanistica (secondo Althusser,
questi due caratteri si sono trovati uniti dalla contingenza storica
ma non lo sono necessariamente da un punto di vista teorico)
è stata anzitutto quella della sinistra tedesca, di Rosa
Luxemburg e Franz Mehring, poi, dopo la rivoluzione del 1917, quella
di Lukács e soprattutto di Gramsci, prima di essere in certo
modo ripresa dal Sartre della Critique de la raison dialectique.
È nella tradizione marxista italiana, nella quale Gramsci
è l’erede di Antonio Labriola e di Croce (Althusser tende a
minimizzare l’opposizione Gramsci-Croce), che Althusser trova le
espressioni piú marcate del marxismo come «storicismo
assoluto». Egli cita il celebre passo della nota di Gramsci su
Croce: «Si è dimenticato in una espressione molto
comune [materialismo storico] che occorreva posare l’accento sul
secondo termine “storico” e non sul primo di origine metafisica. La
filosofia della praxis è lo “storicismo” assoluto, la
mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, un
umanesimo assoluto della storia. In questa linea è da scavare
il filone della nuova concezione del mondo» [Gramsci 1932-33,
p. 1437].
Certamente, Althusser tiene conto della polemica in questo testo, e
non scaglia interdetti contro Gramsci, la cui sincerità e
onestà rivoluzionaria gli sembrano al di sopra di ogni
sospetto; egli vuole semplicemente togliere ogni valore teorico a
testi di circostanza. Per lui identificare «la genesi
speculativa del concetto» con «la genesi del concreto
reale stesso», cioè con il processo della storia
«empirica», è un errore. Gramsci ha avuto il
torto di formulare «una concezione autenticamente “storicista”
di Marx: una concezione “storicista” della teoria del rapporto tra
la teoria di Marx e la storia reale» [in Althusser e Balibar
1965, trad. it. p. 137]. Althusser ritiene che si debba distinguere
il materialismo storico che può essere considerato come una
teoria della storia e il materialismo dialettico, filosofia che
sfugge alla storicità. Althusser ha senza dubbio ragione, in
quanto esegeta di Marx, nel fare questa distinzione, ma quando egli
rimprovera alla concezione storicistica del marxismo di dimenticare
la novità assoluta, la «rottura» che il marxismo
costituirebbe in quanto scienza – «questa volta un’ideologia
che si fonda su una scienza: cosa che non era mai avvenuta»
[ibid., p. 138] –, non si comprende piú molto bene se parla
del materialismo dialettico o del materialismo storico o di entrambi
[ibid., pp. 126-51]. Sembra che separando parzialmente il marxismo
dalla storia, Althusser lo faccia oscillare dalla parte della
metafisica, della credenza e non della scienza. Non è che con
un va e vieni costante dalla prassi alla scienza, nel quale si
alimentino l’un l’altra pur restando accuratamente distinte, che la
storia scientifica potrà liberarsi della storia vissuta,
condizione indispensabile perché la disciplina storica acceda
a uno statuto scientifico.
Ove la critica di Althusser contro Gramsci non pare particolarmente
pertinente è quando – considerando «le stupefacenti
pagine di Gramsci sulla scienza» [ibid., p. 138] («anche
la scienza è una superstruttura, una ideologia»
[Gramsci 1932-33, p. 1457]) – rammenta che Marx rifiuta
un’applicazione ampia del concetto di struttura, che è valido
soltanto per la sovrastruttura giuridico-politica e la
sovrastruttura ideologica (le «forme di coscienza
sociale» corrispondenti), e che in particolare Marx «non
vi include mai… la conoscenza scientifica» [in Althusser e
Balibar 1965, trad. it. p. 140]. In tal modo, ciò che di
positivo potrebbe avere l’interpretazione gramsciana del
materialismo storico come storicismo – nonostante i pericoli di
feticizzazione di diverso genere che ciò implica – viene
annientato dalla sua concezione della scienza come sovrastruttura.
La storia – i due significati della parola confusi – diventa essa
stessa «organica», espressione e strumento del gruppo
dirigente. La filosofia della storia è spinta al culmine:
storia e filosofia sono confuse, formano anch’esse un altro tipo di
«blocco storico»: «La filosofia di un’epoca
storica non è dunque altro che la “storia” di quella stessa
epoca, non è altro che la massa di variazioni che il gruppo
dirigente è riuscito a determinare nella realtà
precedente: storia e filosofia sono inscindibili in questo senso,
formano “blocco”» [Gramsci 1932-35, p. 1255].
Sembra che l’interpretazione «storica» e non
«storicista» della dialettica marxiana e marxista di
Galvano Della Volpe sia piú vicina ai rapporti che Marx
poneva tra storia e teoria del processo storico: «Le
contraddizioni (o diciamo pure i contrari) che interessa unicamente
a Marx di risolvere o superare nella loro unità sono reali,
cioè appunto contraddizioni storiche, o meglio storicamente
determinate o specifiche» [1969, p. 317].
Passerò rapidamente su due concezioni della storia, qui
menzionate unicamente per la risonanza che hanno avuto in un passato
recente, in particolare tra il grosso pubblico.
Oswald Spengler ha reagito contro l’ideologia del progresso e nel
Tramonto dell’Occidente [1918-22] presenta una teoria biologica
della storia, costituita da civiltà che sono «dei vivi
del sangue supremo», mentre gli individui non esistono che
nella misura in cui partecipano di questi «viventi». Vi
sono due fasi nella vita delle società: la fase di cultura
che corrisponde al loro slancio e al loro apogeo, la fase di
civiltà che corrisponde alla loro decadenza e scomparsa.
Spengler ritrova cosí la concezione ciclica della storia.
Arnold Toynbee è invece uno storico. In A Study of History
[1934-39] egli parte da Spengler sperando di riuscire dove questi
non è riuscito. Egli distingue delle civiltà, ventuno
di numero, che hanno raggiunto nel corso della storia uno stadio
completo di fioritura e delle culture che non sono pervenute che a
un certo livello di sviluppo. Tutte queste civiltà passano
per quattro fasi: una corta genesi durante la quale la
civiltà nascente riceve (in generale dall’esterno) una
«sfida», alla quale dà una
«risposta»; un lungo periodo di crescita, poi un arresto
segnato da un accidente; e infine una fase di disaggregazione che
può essere molto lunga [cfr. Crubellier 1961, pp. 8 sgg.].
Questo schema è «progressista»,
«aperto» al livello dell’umanità. Di fatto,
accanto a questa storia, frutto di una successione di cicli, esiste
un’altra storia, «provvidenziale»: l’umanità
è globalmente in marcia verso una trasfigurazione che rivela
la «teologia dello storico». Cosí procedono l’una
accanto all’altra una teoria spengleriana e una concezione
agostiniana. Oltre all’aspetto «metafisico» di questa
concezione, si è giustamente criticato il taglio arbitrario e
confuso delle civiltà e delle culture, la conoscenza
imperfetta che Toynbee ha di molte di esse, l’illegittimità
della comparazione tra queste, ecc. Raymond Aron ha comunque
sottolineato il merito principale di questa impresa: il desiderio di
sfuggire a una storia eurocentrica, occidentalista. «Spengler
ha voluto rifiutare l’ottimismo razionalista dell’Occidente, a
partire da una filosofia biologica e da una concezione nietzscheana
dell’eroismo; Toynbee ha voluto rifiutare la superbia provinciale
degli Occidentali» [1961b, p. 46].
Michel Foucault occupa nella storia della storia un posto
eccezionale per tre ragioni.
Anzitutto, perché è uno dei piú grandi storici
nuovi. Storico della follia, della clinica, del mondo carcerario,
della sessualità, egli ha introdotto alcuni dei nuovi
oggetti, tra i piú «provocatori» della storia, e
ha mostrato una delle grandi svolte della storia occidentale tra la
fine del medioevo e il XIX secolo: la grande segregazione dei
devianti.
In secondo luogo, perché ha compiuto la diagnosi piú
perspicace di questo rinnovamento della storia. Egli vede questo
rinnovamento sotto quattro forme:
1) «Il processo al documento»: «La storia, nella
sua forma tradizionale, si dedicava a “memorizzare” i monumenti del
passato, a trasformarli in documenti e a far parlare quelle tracce
che, in se stesse, non sono affatto verbali, o dicono tacitamente
cose diverse da quelle che dicono esplicitamente; oggi invece, la
storia è quella che trasforma i documenti in monumenti, e
che, laddove si decifravano delle tracce lasciate dagli uomini e si
scopriva in negativo ciò che erano stati, presenta una massa
di elementi che bisogna poi isolare, raggruppare, rendere
pertinenti, mettere in relazione, costituire in insiemi»
[1969, trad. it. pp. 12-14].
2) «Nelle discipline storiche la nozione di
discontinuità acquista un ruolo di maggior rilievo»
[ibid., p. 15].
3) Il tema e la possibilità di una storia globale cominciano
a perdere consistenza, e si assiste al delinearsi del disegno, molto
differente, di quella che si potrebbe chiamare una storia generale,
determinando «quale forma di rapporto possa essere
legittimamente descritta tra… serie differenti» [ibid., p.
17].
4) Nuovi metodi. La storia nuova incontra un certo numero di
problemi metodologici, parecchi dei quali, senza alcun dubbio, le
preesistevano largamente, ma che nel loro insieme ora la
caratterizzano. Tra essi si può citare: la costituzione di
corpus coerenti e omogenei di documenti (corpi aperti o chiusi,
finiti o indefiniti), la fissazione di un principio di scelta (a
seconda che si voglia trattare esaurientemente la massa
documentaria, praticare una campionatura secondo metodi di prelievo
statistico, o che si tenti di determinare preliminarmente gli
elementi piú rappresentativi); la definizione del livello di
analisi e degli elementi che gli sono pertinenti (nel materiale
studiato, si possono rilevare le indicazioni numeriche); i
riferimenti – espliciti o no – a avvenimenti, istituzioni, pratiche;
le parole impiegate, con le loro regole d’uso e i campi semantici
che delineano o ancora la struttura formale delle proposizioni e i
tipi di connessione che le uniscono; la specificazione di un metodo
di analisi (trattamento quantitativo dei dati, decomposizione
secondo un certo numero di tratti assegnabili dei quali si studiano
le correlazioni, decifrazione interpretativa, analisi delle
frequenze e delle distribuzioni); la delimitazione degli insiemi e
dei sottoinsiemi che articolano il materiale studiato (regioni,
periodi, processi unitari); la determinazione delle relazioni che
permettono di caratterizzare un insieme (può trattarsi di
relazioni numeriche o logiche; di relazioni funzionali, causali,
analogiche; può trattarsi di relazioni tra significante e
significato) [ibid., pp. 19-20].
Infine, Foucault propone una filosofia originale della storia
fortemente legata alla pratica e alla metodologia della disciplina
storica. Si lascia a Paul Veyne il compito di caratterizzarla:
«Per Foucault, l’interesse della storia non è
nell’elaborazione di invarianti, siano essi filosofici o si
organizzino in scienze umane; ma nell’utilizzazione degli
invarianti, quali essi siano, per dissolvere i razionalismi
continuamente rinascenti. La storia è una genealogia
nietzscheana. Per questo la storia secondo Foucault passa per essere
filosofia (cosa che non è vera né falsa); in ogni caso
essa è ben lontana dalla vocazione empirista tradizionalmente
attribuita alla storia. “Che nessuno entri qui se non è o non
diventa filosofo”. Storia scritta in parole astratte piú che
in una semantica d’epoca, ancora carica di colore locale; storia che
sembra trovare dovunque analogie parziali, abbozzare tipologie,
poiché una storia scritta in una rete di parole astratte
presenta minore diversità pittoresca che una narrazione
aneddotica» [1978, p. 378]. «La storia-genealogia alla
Foucault occupa dunque interamente il programma della storia
tradizionale; essa non tralascia la società, l’economia,
ecc., ma struttura questa materia diversamente: non i secoli, i poli
o le civiltà, ma le pratiche; gli intrighi che essa racconta
sono la storia delle pratiche, nella quale gli uomini hanno visto
delle verità e loro lotte intorno a queste verità.
Questa storia nuovo modello, questa “archeologia”, come la chiama il
suo inventore, “si dispiega nella dimensione di una storia
generale”; essa non si specializza nella pratica, il discorso, la
parte nascosta dell’iceberg, o piuttosto la parte nascosta del
discorso e della pratica non è separabile dalla parte
affiorante» [ibid., pp. 384-85]. «Ogni storia è
archeologica per natura e non per scelta: spiegare e esplicitare la
storia consiste nello scorgerla anzitutto interamente, nel
rapportare i pretesi oggetti naturali alle pratiche datate e rare
che li obiettivizzano e nello spiegare queste pratiche, non partendo
da un motore unico, ma da tutte le pratiche vicine alle quali esse
si ancorano» [ibid., p. 385].
4. La storia come scienza: il mestiere di storico.
La miglior prova che la storia è e dev’essere una scienza
è costituita dal fatto che essa ha bisogno di tecniche, di
metodi, e che s’insegna. Lucien Febvre, piú restrittivamente,
ha detto: «Qualifico la storia come studio condotto
scientificamente e non come scienza» [1941, trad. it. p. 141].
I teorici piú ortodossi della storia positivista, Langlois e
Seignobos, hanno espresso in una formula stringente, che costituisce
la professione di fede fondamentale dello storico, ciò che
è alla base della scienza storica: «Senza documenti,
non vi è storia» [1898, ed. 1902, p. 2].
Ma le difficoltà cominciano qui. Se il documento è
piú agevole da definire e da reperire che il fatto storico,
il quale non è mai dato come tale ma costruito, esso non pone
comunque allo storico dei problemi rilevanti.
Anzitutto, esso non diventa documento che dopo una ricerca e una
scelta. La ricerca è in generale il fatto non dello storico
stesso, ma di ausiliari che costituiscono le riserve di documenti
alle quali lo storico attingerà la propria documentazione:
archivi, scavi archeologici, musei, biblioteche, ecc. Le perdite, le
scelte delle raccolte di documenti, la qualità della
documentazione sono condizioni obiettive, ma costrittive, del
mestiere di storico. Piú delicati sono i problemi che si
presentano allo storico stesso a partire da questa documentazione.
Si tratta in primo luogo di decidere ciò che egli
considererà come documento e ciò che invece
respingerà. Per molto tempo gli storici hanno pensato che i
veri documenti storici fossero quelli che rischiaravano quella parte
della storia degli uomini che era degna di essere conservata,
riferita e studiata: la storia dei grandi avvenimenti (vita dei
grandi uomini, eventi militari e diplomatici, battaglie e trattati),
la storia politica e istituzionale. D’altronde, l’idea che la
nascita della storia fosse legata a quella della scrittura portava a
privilegiare il documento scritto. Nessuno piú di Fustel de
Coulanges ha privilegiato il testo come documento di storia. Nel
primo capitolo della Monarchie franque egli scriveva: «Leggi,
carte, formule, cronache e storie, bisogna avere letto tutte queste
categorie di documenti senza averne omesso neppure una… [Lo storico]
non ha altra ambizione che quella di vedere bene i fatti e di
comprenderli con esattezza. Non è nella sua immaginazione o
nella logica che egli li cerca; li cerca e li coglie con
l’osservazione minuziosa dei testi, come il chimico trova i suoi in
esperimenti minuziosamente condotti. La sua unica abilità
consiste nel trarre dai documenti tutto quello che contengono e nel
non aggiungervi nulla che non vi sia contenuto. Il migliore degli
storici è quello che si attiene di piú ai fatti, che
li interpreta con la maggiore correttezza, che non scrive e non
pensa che secondo tali fatti» [1888, pp. 29, 30, 33].
Tuttavia, in una lezione all’università di Strasburgo, lo
stesso Fustel aveva dichiarato: «Là dove alla storia
mancano i monumenti scritti occorre che essa chieda alle lingue
morte i loro segreti, e che nelle loro forme e nelle loro stesse
parole indovini il pensiero degli uomini che le hanno parlate. La
storia deve scrutare le favole, i miti, i sogni della fantasia,
tutte queste vecchie falsità, al di sotto delle quali deve
scoprire qualcosa di reale, le credenze umane. Là dove
è passato l’uomo, dove ha lasciato qualche impronta della sua
vita e della sua intelligenza, là sta la storia» [1862,
p. 245; cfr. anche Herrick 1954].
Tutto il rinnovamento della storia oggi in corso si è fatto
contro le idee espresse da Fustel nel 1888. Si tralascia qui la
pericolosa ingenuità che portava alla passività di
fronte ai documenti. Essi non rispondono che alle domande dello
storico, e questi deve affrontarli non certo con pregiudizi e
risentimenti, ma con ipotesi di lavoro. Grazie a Dio, Fustel, che
era un grande storico, non ha lavorato secondo il metodo esposto nel
1888. Non si ritornerà sulla necessità
dell’immaginazione storica.
Quello che si vuol affermare qui è il carattere multiforme
della documentazione storica. Replicando, nel 1949, a Fustel de
Coulanges, Lucien Febvre diceva: «La storia si fa, senza
dubbio, con documenti scritti. Quando ce n’è. Ma si
può fare, si deve fare senza documenti scritti, se non ne
esistono. Per mezzo di tutto quello che l’ingegnosità dello
storico gli consente di utilizzare per fabbricare il suo miele, in
mancanza dei fiori normalmente usati. Quindi, con parole. Con segni.
Con paesaggi e con mattoni. Con forme di campi e con erbe cattive.
Con eclissi lunari e con collari da tiro. Con le ricerche su pietre,
eseguite da geologi, e con analisi di spade metalliche, compiute da
chimici. In una parola, con tutto quello che, essendo proprio
dell’uomo, dipende dall’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo,
significa la presenza, l’attività, i gusti e i modi d’essere
dell’uomo» [1949, trad. it. p. 177]. Anche Marc Bloch
[1941-42] aveva dichiarato: «La diversità delle
testimonianze storiche è quasi infinita. Tutto ciò che
l’uomo dice o scrive, tutto ciò che costruisce e che tocca,
può e deve fornire informazioni su di lui» (trad. it.
p. 71).
Si riparlerà della grande estensione della documentazione
storica odierna, in particolare con la moltiplicazione della
documentazione audiovisiva, il ricorso al documento figurato o
propriamente iconografico, ecc. Ma è utile insistere su due
aspetti particolari di questa estensione della ricerca documentaria.
Il primo concerne l’archeologia. Il problema non consiste nel sapere
se essa sia una scienza ausiliaria della storia o una scienza a
sé. Bisogna solo notare come il suo sviluppo abbia rinnovato
la storia. Quando essa fece i primi passi, nel XVIII secolo, permise
immediatamente alla storia di estendersi sul vasto territorio della
preistoria e della protostoria e rinnovò la storia antica.
Strettamente unita alla storia dell’arte e delle tecniche, essa
costituisce un elemento fondamentale dell’allargamento della cultura
storica che si esprime nell’Encyclopédie. «È in
Francia che degli “antiquari” dedicano per la prima volta al
documento archeologico, oggetto d’arte, utensile o resto di
costruzione, un interesse tanto vivo quanto obiettivo e
disinteressato», dice Duval [1961, p. 255], che mette in
rilievo il ruolo di Peiresc, consigliere al parlamento di Aix. Ma
sono gli Inglesi che fondano la prima società scientifica
nella quale l’archeologia occupa un posto essenziale, la Society of
Antiquaries di Londra (1707). È in Italia che cominciano i
primi scavi, che annunziano la scoperta archeologica del passato, a
Ercolano (1738) e a Pompei (1748). Sono un tedesco e un francese che
pubblicano le due opere piú importanti del XVIII secolo, per
quanto concerne l’introduzione del documento archeologico in storia:
Winckelmann, con la Storia dell’arte antica (Geschichte der Kunst
des Altertums, 1764), e il conte di Caylus con il Recueil
d’antiquités égyptiennes, étrusques, grecques,
romaines, et gauloises (1752-67). In Francia, il Musée des
monuments français, del quale Alexandre Lenoir fu il primo
conservatore nel 1769, risvegliò il gusto per l’archeologia e
contribuí a rovesciare la visione negativa del medioevo. Si
noti che l’archeologia è stata uno dei settori della scienza
storica che piú si sono rinnovati negli ultimi decenni:
evoluzione dell’interesse dall’oggetto e dal monumento al luogo
globale, urbano o rurale, poi al paesaggio, archeologia rurale e
industriale, metodi quantitativi, ecc. [cfr. Schnapp 1980; Finley
1971]. L’archeologia si è anche evoluta verso la costituzione
di una storia della cultura materiale, che è anzitutto
«storia dei grandi numeri e della maggioranza degli
uomini» [Pesez 1978, trad. it. p. 205] e che ha già
dato luogo a un capolavoro della storiografia contemporanea:
Civilisation matérielle et capitalisme di Fernand Braudel
[1967].
Si noti anche che la riflessione storica oggi si applica
altresí all’assenza di documenti, ai silenzi della storia.
Michel de Certeau ha sottilmente analizzato gli «scarti»
dello storico verso le «zone silenziose», delle quali
dà come esempio «la stregoneria, la follia, la festa,
la letteratura popolare, il mondo dimenticato del contadino,
l’Occitania, ecc.» [1974, p. 27]. Ma egli parla dei silenzi
della storiografia tradizionale, mentre ritengo si debba andare
piú lontano: interrogare la documentazione storica sulle sue
lacune e interrogarsi sugli oblii, i vuoti, gli spazi bianchi della
storia. Bisogna fare l’inventario degli archivi del silenzio, e fare
la storia a partire dai documenti e dalle assenze di documenti.
La storia è divenuta scientifica facendo la critica dei
documenti che si definiscono «fonti». Paul Veyne [1971]
ha detto alla perfezione che la storia doveva essere «una
lotta contro l’ottica imposta dalle fonti» e che «i veri
problemi dell’epistemologia storica sono problemi di critica»,
mentre il centro di tutta la riflessione sulla conoscenza deve
essere il seguente: «La conoscenza storica è ciò
che le fonti fanno di essa» (trad. it. pp. 383-84). Veyne
unisce d’altronde a questa constatazione la considerazione che
«è impossibile improvvisarsi storici… È infatti
necessario sapere quali quesiti porsi, e anche quali problematiche
sono superate: non si scrive la storia politica, sociale o religiosa
con le opinioni rispettabili, realistiche o avanzate che siano, che
possediamo su questi argomenti a titolo privato» [ibid., p.
384].
Gli storici, soprattutto dal XVII al XIX secolo, hanno messo a punto
una critica dei documenti che è oggi acquisita, che resta
necessaria, ma si rivela insufficiente [cfr. Salmon 1969, ed. 1976,
pp. 85-140]. Tradizionalmente si distingue una critica esterna, o
critica di autenticità, da una critica interna, o critica di
credibilità.
La critica esterna tende essenzialmente a ritrovare l’originale e a
determinare se il documento che si esamina è autentico o
falso. È un procedimento fondamentale, che richiede tuttavia
due osservazioni complementari.
La prima è che anche un documento «falso»
è un documento storico e può costituire una
testimonianza preziosa dell’epoca in cui è stato fabbricato e
del periodo durante il quale è stato considerato autentico e
utilizzato.
La seconda è che un documento, specialmente un testo, ha
potuto, nel corso del tempo, subire manipolazioni in apparenza
scientifiche che hanno fatto dimenticare l’originale. Per esempio,
è stato brillantemente dimostrato che la lettera di Epicuro a
Erodoto conservata nelle Vite dei filosofi illustri di Diogene
Laerzio è stata rimaneggiata da una tradizione secolare che
ha ricoperto la lettera del testo di postille e correzioni che,
volontariamente o no, hanno finito per soffocarla e deformarla con
«una lettura incomprensiva, indifferente o partigiana»
[Bollack e altri 1971].
La critica interna deve interpretare il significato del documento,
valutare la competenza e la sincerità del suo autore,
misurarne l’esattezza, e controllarlo con altre testimonianze. Ma
anche qui, soprattutto qui, questo programma è insufficiente.
Che si tratti di documenti consapevoli o inconsapevoli (tracce
lasciate dagli uomini al di là di ogni volontà di
tramandare una testimonianza alla posterità), le condizioni
di produzione del documento devono essere minuziosamente studiate.
In effetti, le strutture del potere di una società
comprendono il potere delle categorie sociali e dei gruppi dominanti
di lasciare, volontariamente o involontariamente, testimonianze
suscettibili di orientare la storiografia in questo o quel senso. Il
potere sulla memoria futura, il potere di perpetuazione deve essere
riconosciuto e svuotato dallo storico. Nessun documento è
innocente. Esso deve essere giudicato. Ogni documento è un
monumento che bisogna saper destrutturare, smontare. Lo storico non
deve soltanto sapere discernere un falso, valutare la
credibilità di un documento, egli deve demistificarlo. I
documenti non diventano delle fonti storiche se non dopo aver subito
un trattamento destinato a trasformare la loro funzione da menzogna
in confessione di verità [Immerwahr 1960].
Jean Bazin, analizzando la produzione di un «racconto
storico» – il racconto dell’avvento di un celebre re di
Segú (Mali), all’inizio del secolo XIX, fatto da un letterato
musulmano appassionato di storia a Segú nel 1970 – avverte
che «poiché esso si dà non come invenzione, un
racconto storico è sempre una trappola: si può
facilmente credere che il suo oggetto gli attribuisca un senso, che
non dica null’altro che ciò che racconta», mentre, in
realtà, «la lezione della storia ne nasconde un’altra,
di politica o di etica, che resta per cosí dire da
fare» [Bazin 1979, p. 446]. Bisogna dunque, con l’aiuto di una
«sociologia della produzione narrativa», studiare le
«condizioni della storicizzazione». Da una parte,
bisogna conoscere lo statuto dei dicitori di storia (e questo
rilievo vale per i diversi tipi di produttori di documenti e per gli
storici stessi nei diversi tipi di società), dall’altra
riconoscere i segni della potenza poiché «questo genere
di racconto apparterrebbe piú a una metafisica della
potenza». Sul primo punto Jean Bazin rileva che «fra il
sovrano e i suoi dipendenti, gli specialisti del racconto occupano
una sorta di terza posizione di illusoria neutralità: essi
sono, da una parte e dall’altra, a ogni momento, invitati a
fabbricare l’immagine che i dipendenti hanno del sovrano cosí
come quella che il sovrano ha dei dipendenti» [ibid., p. 456].
Bazin avvicina la sua analisi a quella effettuata da Louis Marin
appoggiandosi al Projet de l’histoire de Louis XIV con il quale
Pellisson-Fontanier tentò di ottenere la carica di
storiografo ufficiale. «Il re ha bisogno dello storico,
poiché il potere politico non può trovare il suo
compimento, il suo assoluto se non con un certo uso della forza, che
è il punto di applicazione della forza del potere
narrativo» [Marin 1979, p. 26; cfr. Marin 1978].
La messa a punto di metodi che fanno della storia un mestiere e una
scienza è stata lunga e prosegue. Essa ha conosciuto, in
Occidente, delle battute di arresto, delle lentezze e delle
accelerazioni, a volte degli indietreggiamenti; non è
avanzata in tutte le sue parti con lo stesso passo, non ha sempre
dato lo stesso contenuto alle parole con le quali cercava di
definire i suoi obiettivi, anche in apparenza il piú
«obiettivo», quello della verità. Si seguiranno
le grandi linee del suo sviluppo dal duplice punto di vista delle
concezioni e dei metodi, da una parte, degli strumenti di lavoro
dall’altra. I momenti essenziali sembrano essere il periodo
greco-romano dal V al I secolo prima dell’era cristiana, che inventa
il «discorso storico», il concetto di testimonianza, la
logica della storia e fonda la storia sulla verità; il IV
secolo, durante il quale il cristianesimo elimina l’idea del caso
cieco, dà un senso alla storia, diffonde un computo del tempo
e una periodizzazione della storia; il Rinascimento, che comincia
col tracciare una critica dei documenti fondata sulla filologia e
finisce con la concezione della storia perfetta; il secolo XVII, che
con i bollandisti e i benedettini di Saint-Maur pone le basi
dell’erudizione moderna; il XVIII secolo, che crea le prime
istituzioni consacrate alla storia e allarga il campo delle
curiosità storiche; il XIX secolo, che mette a punto i metodi
dell’erudizione, costituisce le basi della documentazione storica ed
estende la storia dovunque; la seconda parte del secolo XX, a
partire dagli anni Trenta, conosce insieme una crisi e una moda
della storia, un rinnovamento e un ingrandimento considerevole del
territorio dello storico, una rivoluzione documentaria. L’ultima
parte di questo articolo sarà dedicata a questa fase recente
della scienza storica. Non bisogna d’altronde credere che le lunghe
fasi di tempo nelle quali la scienza storica non ha fatto balzi
qualitativi non abbiano conosciuto progressi del mestiere dello
storico, come Bernard Guenée ha brillantemente dimostrato per
il medioevo [1980; 1977].
Con Erodoto ciò che entra nel racconto storico non è
l’importanza della testimonianza. Per lui la testimonianza per
eccellenza è quella personale, quella nella quale lo storico
può dire: io ho visto, io ho sentito. Questo è
particolarmente vero per la parte della sua indagine consacrata ai
barbari, dei quali nei suoi viaggi egli ha percorso i paesi [cfr.
Hartog 1980]. È vero anche per il racconto delle guerre
persiane, avvenimenti della generazione che lo ha preceduto e della
quale egli raccoglie direttamente, o per sentito dire, la
testimonianza. Questa priorità accordata alla testimonianza
orale e alla testimonianza vissuta resterà nella storia,
sarà piú o meno attenuata quando la critica dei
documenti scritti e appartenenti a un passato lontano si
porrà in primo piano, ma conoscerà importanti riprese.
Cosí nel XIII secolo, membri dei nuovi ordini mendicanti,
domenicani e francescani, privilegiano, nel loro desiderio di
aderire alla nuova società, la testimonianza orale personale,
il contemporaneo o il molto vicino, preferendo per esempio inserire
nel loro sermone degli exempla i cui argomenti sono tratti dalla
loro esperienza (audivi) piuttosto che dalla loro scienza libresca
(legimus). Le Memorie, tuttavia, sono a poco a poco diventate
piú degli elementi ai margini della storia che non la storia
stessa, dato che la compiacenza degli autori nei confronti di se
stessi, la ricerca di effetti letterari, il gusto per la pura
narrazione le separano dalla storia e ne fanno un materiale –
relativamente sospetto – della storia. «Raggruppare storici e
memorialisti è concepibile in una prospettiva puramente
letteraria», hanno sottolineato Jean Ehrard e Guy Palmade
[1964, p. 7], che hanno scartato il genere memorialistico dal loro
eccellente studio. La testimonianza tende a rientrare nel campo
storico e in ogni caso pone allo storico dei problemi con lo
sviluppo dei media. L’evoluzione del giornalismo, la nascita della
«storia immediata», il «ritorno
dall’avvenimento» [cfr. Lacouture 1978; Nora 1974].
Arnaldo Momigliano [1972, ed. 1975 pp. 13-15] ha sottolineato che i
«grandi» storici dell’antichità greco-romana
hanno trattato esclusivamente o preferibilmente del passato
prossimo. Dopo Erodoto, Tucidide scrive la storia della guerra del
Peloponneso, avvenimento contemporaneo; Senofonte ha trattato delle
egemonie di Sparta e di Tebe, delle quali è stato testimone;
Polibio ha dedicato la parte essenziale delle sue Storie al periodo
che va dalla seconda guerra punica alla sua epoca. Sallustio e Livio
hanno fatto lo stesso, Tacito ha preso in esame il secolo precedente
il suo e Ammiano Marcellino si è interessato soprattutto
della seconda metà del IV secolo. A partire dal V secolo
a.C., gli storici antichi furono in grado di raccogliere una buona
documentazione sul passato, ma ciò non ha impedito a essi
d’interessarsi soprattutto agli avvenimenti contemporanei o recenti.
La priorità accordata alle testimonianze vissute o
direttamente raccolte non ha impedito agli storici antichi di fare
la critica di queste testimonianze. Cosí Tucidide:
«Riguardo… ai fatti verificatisi durante la guerra, non ho
creduto opportuno descriverli per informazioni desunte dal primo
venuto, né a mio talento; ma ho ritenuto di dover scrivere i
fatti ai quali io stesso fui presente e quelli riferiti dagli altri,
esaminandoli, però, con esattezza a uno a uno, per quanto era
possibile. Era ben difficile la ricerca della verità
perché quelli che erano stati presenti ai singoli fatti non
li riferivano allo stesso modo, ma secondo che uno aveva buona o
cattiva memoria, e secondo la simpatia per questa o quella parte. E
forse la mia storia riuscirà, a udirla, meno dilettevole
perché non vi sono elementi favolosi; ma sarà per me
sufficiente che sia giudicata utile da quanti vorranno indagare la
chiara e sicura realtà di ciò che in passato è
avvenuto e che un giorno potrà pure avvenire, secondo l’umana
vicenda, in maniera uguale o molto simile. Appunto come un acquisto
per l’eternità è stata essa composta, non già
da udirsi per il trionfo nella gara d’un giorno» [La guerra
del Peloponneso, I, 22].
Con Polibio lo scopo dello storico è qualcosa di piú
di una logica della storia. È la ricerca delle cause. Attento
al metodo, Polibio dedica tutto il libro XII delle sue Storie a
definire il lavoro dello storico attraverso la critica a Timeo di
Tauromenio. Egli aveva in precedenza definito il suo obiettivo.
Anziché una storia monografica, scrivere una storia generale,
sintetica e comparata: «Nessuno degli scrittori contemporanei
si è assunto il compito di scrivere una storia universale…
È soltanto dallo studio accurato della connessione e del
confronto reciproco di tutti i fatti, delle loro analogie e
differenze che si può giungere a ricavare dalla storia non
solo l’utile, ma anche il diletto» [I, 4]. E soprattutto
l’affermazione essenziale: «Gli storici e i lettori debbono
badare non tanto all’esposizione dei fatti, quanto alle circostanze
precedenti, concomitanti e susseguenti ai fatti stessi;
perché se si tolgono dallo studio della storia le cause, i
mezzi e gli scopi che determinarono gli eventi e quale esito felice
o infelice ebbero, ciò che resta nella storia è
spettacolo declamatorio, non opera istruttiva, e se produce un
momentaneo godimento, non giova affatto per il futuro… Le parti
indispensabili della storia sono quelle che considerano le
conseguenze, le circostanze concomitanti e specialmente le cause
degli avvenimenti» [ibid., III, 31 e 32]. Detto questo, non
bisogna dimenticare che Polibio colloca al primo posto nella
causalità storica la nozione di fortuna; il principale
criterio da lui usato per valutare una testimonianza o un destino
è di ordine morale; inoltre i discorsi occupano grande spazio
nella sua opera [cfr. Pédech 1964].
Gli storici antichi hanno soprattutto fondato la storia sulla
verità. «È proprio della storia anzitutto
raccontare la storia secondo verità», assicura Polibio.
E Cicerone formula le definizioni che resteranno valide durante il
medioevo e il Rinascimento. Questa soprattutto: «Nam quis
nescit primam esse historiae legem, ne quid falsi dicere audeat?
Deinde ne quid veri non audeat?» ‘Chi non sa che la prima
legge della storia sta nel non osare dir nulla di falso? E quindi
osare dire tutto ciò che è vero?’ [De oratore, II, 15,
62]. E nella celebre apostrofe nella quale reclama per l’oratore il
privilegio di essere il miglior interprete della storia, quello che
le assicura l’immortalità, e nella quale lancia la famosa
definizione della storia come «maestra di vita», si
dimentica che, in questo testo che in generale non viene citato per
intero, Cicerone chiama la storia «luce di
verità» («Historia vero testis temporum, lux
veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, qua
voce alia nisi oratoris immortalitati commendatur?» [ibid., 9,
36]).
Benché Momigliano abbia giustamente insistito sul gusto degli
storici antichi per la nuova storia, non bisognerebbe esagerare
dicendo, come Collingwood [1932], che «il loro metodo li
legava a una corda la cui lunghezza era quella della memoria
vivente: l’unica fonte… era un testimone oculare con cui potessero
conversare faccia a faccia» (trad. it. p. 58). Tacito, per
esempio, fa l’elogio dei moderni – il che va contro la tradizione
romana – ma mostra la sua conoscenza e la sua padronanza cronologica
del passato; di un passato che, a dire il vero, egli appiattisce e
avvicina al presente: «Quando sento dire “di antichi”,
immagino degli uomini nati e vissuti molto tempo addietro; e mi
passano dinanzi agli occhi Ulisse e Nestore, l’età dei quali
precede la nostra di circa mille e trecento anni. Voi invece citate
Demostene e Iperide, che, a quanto consta, hanno goduto fama ai
tempi di Filippo e di Alessandro, ad entrambi i quali, però,
sono sopravvissuti. Dal che appare chiaro che fra la nostra
età e quella di Demostene intercorrono non molto piú
di trecento anni. Ora, se tu consideri questo intervallo in rapporto
con la fragilità delle nostre singole persone, ti
sembrerà forse lungo: ma in confronto alla durata vera dei
secoli e alla considerazione di questo tempo infinito, è
molto breve e quanto mai vicino. Se infatti, come scrive Cicerone
nell’Ortensio, il vero grande anno è quello in cui si
riproduce assolutamente identica una determinata posizione del cielo
e delle stelle, e se tale anno abbraccia dodicimila novecento
cinquantaquattro di quelli che noi chiamiamo anni, il vostro
Demostene, che mi presentate come vecchio e antico, ha incominciato
a esistere non solo nel medesimo anno, ma addirittura nel medesimo
mese» [Dialogus de oratoribus, 16, 5-7].
Piú che la finalità data alla storia, ciò che,
dal punto di vista dell’attrezzatura e del metodo dello storico,
pare importante con la storiografia cristiana è il suo
impatto sulla cronologia. Certamente quest’ultima ha subito la prima
elaborazione a opera degli storici antichi – quelli in generale che
non sono posti fra i grandi – che gli storici cristiani hanno
utilizzato. Diodoro Siculo ha stabilito una concordanza degli anni
consolari e delle olimpiadi. Trogo Pompeo, conosciuto attraverso un
riassunto di Giustino, ha presentato il tema dei quattro imperi
successivi. Ma i primi storici cristiani hanno avuto un’influenza
decisiva sul lavoro storico e sull’inquadramento cronologico della
storia.
Eusebio di Cesarea, autore all’inizio del IV secolo di una Cronaca,
poi di una Storia ecclesiastica, è stato «il primo
storico antico a manifestare la stessa attenzione di uno storico
moderno per la citazione fedele del materiale copiato e la
identificazione corretta delle sue fonti» [Chesnut 1978, p.
245]. Questa utilizzazione critica dei documenti ha consentito a
Eusebio e ai suoi successori di risalire con sicurezza al di
là della memoria dei testimoni viventi. Piú
generalmente Eusebio, la cui opera è «un tentativo
paziente, scrupoloso e soprattutto profondamente umano per sistemare
i rapporti del cristianesimo col secolo» [Sirinelli 1961, p.
495], non ha cercato di privilegiare una cronologia propriamente
cristiana, e la storia ebraico-cristiana che egli fa cominciare con
Mosè non è per lui che una fra le altre [ibid., pp.
59-61]; il «suo progetto un po’ ambiguo di una storia
sincronica si situa tra una visione ecumenica e un semplice
perfezionamento dell’erudizione» [ibid., p. 63].
Gli storici cristiani ripresero dall’Antico Testamento (sogno di
Daniele [Daniele, 7]) e da Giustino il tema della successione dei
quattro imperi: babilonese, persiano, macedone e romano. Eusebio, la
cui cronaca fu ripresa e messa a punto da san Gerolamo e
sant’Agostino, espose una periodizzazione della storia secondo la
storia sacra, che distingueva sei età (fino a Noè,
fino ad Abramo, fino a Davide, fino alla cattività
babilonese, fino al Cristo, dopo il Cristo) e che Isidoro di
Siviglia nel Chronicon (inizio del VII secolo) e Beda nell’Opera de
temporibus (inizio dell’VIII secolo) cercarono di calcolare. I
problemi di datazione, di cronologia, sono essenziali per lo
storico. Anche qui gli storici e le società antiche avevano
posto delle basi. Gli elenchi regali di Babilonia e d’Egitto avevano
fornito i primi quadri cronologici, il computo per anni di regno
aveva avuto inizio verso il 2000 a.C. a Babilonia. Nel 776 comincia
il computo per olimpiadi, nel 754 la lista degli efori di Sparta,
nel 686-685 quella degli arconti eponimi di Atene, nel 508 il
computo consolare a Roma. Nel 45 a.C. Cesare aveva istituito a Roma
il calendario giuliano. Il computo ecclesiastico cristiano si
riferisce soprattutto alla datazione della festa della Pasqua. Le
esitazioni durarono a lungo, come per la fissazione dell’inizio
della cronologia e dell’inizio dell’anno. Gli atti del concilio di
Nicea sono datati sia con i nomi dei consoli sia secondo gli anni
dell’età dei Seleucidi (312-311 a.C.). I cristiani latini
adottarono dapprima generalmente l’età di Diocleziano o dei
martiri (284); ma nel VI secolo il monaco romano Dionigi il Piccolo
propose di adottare l’era ab incarnatione, di fissare cioè
come inizio della cronologia la nascita del Cristo. L’uso non fu
definitivamente introdotto che nel secolo XI. Ma tutte le ricerche
sul computo ecclesiastico, la cui espressione piú rilevante
fu il trattato De temporum ratione di Beda (725), nonostante le
esitazioni e gli scacchi, costituirono una tappa importante sul
cammino del dominio del tempo [Cordoliani 1961; Guenée 1980,
pp. 147-65].
Bernard Guenée ha mostrato come l’Occidente medievale abbia
avuto degli storici accaniti nel ricostruire il loro passato e in
possesso di una lucida erudizione. Questi storici, che fino al
secolo XIII sono stati soprattutto dei monaci, hanno anzitutto
beneficiato di un accrescimento della documentazione. Si è
visto che gli archivi sono un fenomeno molto antico, ma il medioevo
ha accumulato carte, nei monasteri, nelle chiese,
nell’amministrazione reale, e moltiplicato le biblioteche. Furono
costituiti gli inserti, il sistema delle citazioni, che precisavano
libro e capitolo, fu generalizzato, specialmente sotto l’influenza
del monaco Graziano, autore di una compilazione del diritto
canonico, il Decretum, a Bologna (c. 1140), e del teologo Pier
Lombardo, vescovo di Parigi, morto nel 1160. Si può
considerare la fine del secolo XI e la maggior parte del secolo XII
come «il tempo di una erudizione trionfante». La
scolastica e le università, indifferenti e anche ostili nei
confronti della storia, che non vi fu insegnata [Borst 1969],
segnarono un certo regresso della cultura storica. Tuttavia,
«un vasto pubblico laico continuò ad amare la
storia» e alla fine del medioevo questi dilettanti – cavalieri
o mercanti – si moltiplicarono e il gusto per la storia nazionale
passò in primo piano, mentre si affermavano gli stati e le
nazioni. Comunque, il posto della storia nel sapere restava modesto;
fino al XIV secolo essa fu considerata come una scienza ausiliaria
della morale, del diritto e soprattutto della teologia [cfr. Lammers
1965], benché Ugo di San Vittore, nella prima metà del
XII secolo, abbia detto in un testo rilevante (De tribus maximis
circumstanciis gestorum) che essa era fundamentum omnis doctrinae
‘il fondamento di ogni scienza’; ma il medioevo non rappresenta uno
iato nell’evoluzione della scienza storica; al contrario esso ha
conosciuto «la continuità dello sforzo storico»
[Guenée 1980, p. 367].
Gli storici del Rinascimento hanno reso alla scienza storica alcuni
eminenti servigi: essi hanno avviato la critica dei documenti con
l’aiuto della filologia, hanno cominciato a «laicizzare»
la storia e a eliminare da essa i miti e le leggende, hanno posto le
basi delle scienze ausiliarie della storia e stretto l’alleanza
della storia con l’erudizione.
L’inizio della critica scientifica dei testi viene fatto risalire a
Lorenzo Valla, che nella sua De falso credita et ementita
Constantini donatione declaratio (1440), scritta su richiesta del re
aragonese di Napoli in lotta con la Santa Sede, prova che il testo
è un falso poiché la lingua usata non può
risalire al IV secolo, ma è datata quattro o cinque secoli
dopo: cosí le pretese del papa sugli Stati della Chiesa,
fondate su questa presunta donazione di Costantino a papa Silvestro,
si fondavano su un falso carolingio. «Cosí nacque la
storia, come filologia, ossia come coscienza critica di sé e
degli altri» [Garin 1951, p. 115]. Valla applicò la
critica dei testi agli storici dell’antichità, Livio,
Erodoto, Tucidide, Sallustio, e anche al Nuovo Testamento, nelle sue
Adnotationes, per le quali Erasmo scrisse la prefazione
dell’edizione parigina del 1505. Ma le sue Historiae Ferdinandi
regis Aragoniae, padre del suo protettore, portata a termine nel
1445 e pubblicata a Parigi nel 1521, non è che una serie di
aneddoti riguardanti essenzialmente la vita privata del sovrano
[cfr. Gaeta 1955]. Come il Biondo è fra gli storici umanisti
il primo erudito, cosí il Valla è il primo critico.
Dopo i lavori di Bernard Guenée forse non è possibile
mantenere un’affermazione cosí radicale. Il Biondo, nei suoi
manuali sulla Roma antica (Roma instaurata, 1446, stampata nel 1471;
Roma triumphans, 1459, stampata nel 1472 c.) e nelle sue Romanorum
decades, che sono una storia del medioevo dal 412 al 1440, è
stato un grande raccoglitore di fonti, ma nelle sue opere non vi
è né critica delle fonti né senso della storia:
i documenti sono pubblicati gli uni accanto agli altri; tutt’al
piú, nelle Decades, l’ordine è cronologico; ma Biondo,
segretario del papa, fu il primo a inserire l’archeologia nella
documentazione storica.
Nel XV secolo gli storici umanisti inaugurano una scienza storica
profana scevra di favole e d’invenzioni soprannaturali. Il grande
nome qui è Leonardo Bruni, cancelliere di Firenze, le cui
Historiae fiorentini populi (fino al 1404) ignorano le leggende
sulla fondazione della città e non parlano mai
dell’intervento della provvidenza. «Con lui si iniziò
il cammino per una spiegazione naturale della storia» [Fueter
1911, trad. it. p. 22]. Hans Baron [1932] ha potuto parlare della
Profanisierung della storia.
Il rifiuto dei miti pseudostorici ha dato luogo a una lunga polemica
a proposito delle pretese origini troiane dei Franchi. Di volta in
volta, Etienne Pasquier nelle Recherches de la France (il primo
libro è del 1560; dieci libri nell’edizione postuma del
1621), François Hotman nella sua Franco-Gallia (1573), Claude
Fauchet nelle Antiquités gauloises et françoises
jusqu’à Clovis (1599) e Lancelot-Voisin de La
Popelinière nel Dessein de l’Histoire nouvelle des
François (1599) mettono in dubbio l’origine troiana, mentre
Hotman sostiene in modo convincente l’origine germanica dei Franchi.
Bisogna sottolineare in questi progressi del metodo storico il ruolo
della Riforma. Suscitando polemiche sulla storia del cristianesimo e
liberi dalla tradizione ecclesiastica autoritaria, i riformati hanno
contribuito a far evolvere la scienza storica.
Infine, gli storici del XVI secolo, soprattutto quelli francesi
della seconda metà, hanno ripreso la fiaccola dell’erudizione
dagli umanisti italiani del Quattrocento. Guillaume Budé reca
un importante contributo alla numismatica con il suo trattato sulle
monete romane: De asse et partibus eius (1514). Giuseppe Giusto
Scaligero è partito dalla cronologia nel De emendatione
temporum (1583). Il protestante Isaac Casaubon, «la fenice
degli eruditi», replica agli «Annales
ecclesiastici» del cattolicissimo cardinale Cesare Baronio
(1588-1607) con le sue Exercitationes (1612); anche il fiammingo
Giusto Lipsio arricchisce l’erudizione storica, soprattutto nei
campi filologico e numismatico. Si moltiplicano i dizionari, come il
Thesaurus linguae latinae di Robert Estienne (1531) e il Thesaurus
grecae linguae di suo figlio Henri (1572). Il fiammingo Jan Gruter
pubblica il primo Corpus inscriptionum antiquarum del quale
Scaligero compila l’indice. Non bisogna infine dimenticare che il
XVI secolo dà alla periodizzazione storica la nozione di
secolo.
Mentre gli umanisti – imitando l’antichità – avevano
mantenuto, nonostante i progressi dell’erudizione, la storia nel
campo della letteratura, alcuni dei grandi storici del XVI e
degl’inizi del XVII secolo si distinguono esplicitamente dagli
uomini di lettere. Molti sono dei giuristi (Bodin, Vignier, Hotman,
ecc.) e questi savants gens de robe annunziano la storia dei
philosophes del XVIII secolo [Huppert 1970]. Donald Kelley ha
mostrato [1964] che la storia delle origini e della natura del
feudalesimo non data da Montesquieu, ma da dibattiti tra eruditi del
XVI secolo.
La storia nuova che volevano promuovere i grandi umanisti della fine
del XVI e dell’inizio del XVII secolo fu aspramente combattuta nella
prima parte del XVII secolo e compresa tra le manifestazioni del
libertinismo. Il risultato fu la separazione crescente fra
erudizione e storia (nel senso di storiografia), rilevata da Paul
Hazard [1935] e George Huppert [1970]. L’erudizione fece dei
progressi decisivi durante il secolo di Luigi XIV, mentre la storia
conosceva una eclissi profonda.
«Gli studiosi del XVII secolo sembrano disinteressarsi delle
grandi questioni, dei grandi problemi della storia generale.
Compilano glossari, come quel grande leguleio che fu Du Cange
(1610-1688). Scrivono vite di santi, come Mabillon. Pubblicano fonti
per la storia medievale, come Baluze (1630-1718), studiano le monete
come Vaillant (1632-1706). In breve, tendono verso ricerche da
antiquari piú che da storici» [ibid., p. 178].
Due imprese ebbero una importanza particolare. Esse si collocano nel
quadro di una ricerca collettiva: «La grande innovazione
consiste nel fatto che, negli anni di regno di Luigi XIV,
l’erudizione è stata condotta collettivamente»
[Lefebvre 1945-46, trad. it. p. 97]. È in effetti una delle
condizioni richieste dall’erudizione.
La prima è l’opera di gesuiti, il cui iniziatore fu
Héribert Roswey (Rosweyde), morto a Anversa nel 1629, che
aveva stabilito una sorta di repertorio di vite di santi,
manoscritti conservati nelle biblioteche belghe. Partendo dalle sue
carte, Jean Bolland fece approvare dai suoi superiori il piano di
una pubblicazione di vite di santi e di documenti agiografici,
presentati secondo l’ordine del calendario. Cosí si
formò un gruppo di gesuiti specializzati nell’agiografia, ai
quali si darà il nome di bollandisti e che pubblicarono nel
1643 i due primi volumi del mese di gennaio degli «Acta
Sanctorum». I bollandisti sono ancora oggi in piena
attività in un campo che non ha cessato di essere al primo
posto dell’erudizione e della ricerca storica. Nel 1675 un
bollandista, Daniel van Papenbroeck (Papebroch) pubblicò in
cresta al tomo II di aprile degli «Acta Sanctorum» una
dissertazione «sul discernimento del vero e del falso nelle
vecchie pergamene». Papenbroeck non fu particolarmente abile
nell’applicazione del suo metodo. Spetterà a un benedettino
francese, dom Mabillon, diventare il vero fondatore della
diplomatica.
Jean Mabillon apparteneva all’altra équipe che dava
all’erudizione le sue patenti di nobiltà, quella dei
benedettini della congregazione riformata di Saint-Maur, che fecero
allora di Saint-Germain-des-Prés, a Parigi, «la
cittadella dell’erudizione francese».
Il loro programma di lavoro era stato redatto nel 1648 da Luc
d’Achéry. Il loro campo abbracciava i padri della Chiesa
greci e latini, la storia della Chiesa, la storia dell’ordine
benedettino. Nel 1681, Mabillon, per confutare Papenbroeck,
pubblicò il De re diplomatica, che pose le regole della
diplomatica (studio dei «diplomi») e i criteri che
permettono di discernere l’autenticità degli atti pubblici o
privati. Marc Bloch, non senza esagerazioni, vede nel «1681,
l’anno della pubblicazione del De re diplomatica, una grande data
nella storia dello spirito umano» [1941-42, trad. it. p. 83].
L’opera insegna soprattutto che la concordanza di due fonti
indipendenti stabilisce la verità e, ispirandosi a Descartes,
applica il principio «di fare dovunque scomposizioni
cosí intere e revisioni cosí generali» da essere
«certi di non omettere nulla» [Tessier 1961, p. 641]. Si
riportano due aneddoti che mostrano fino a che punto, passando dal
XVII al XVIII secolo, il divorzio fra la storia e l’erudizione fosse
divenuto profondo. Padre Daniel, storiografo ufficiale di Luigi XIV,
che Fueter [1911] definisce però «un coscienzioso
lavoratore» (trad. it. p. 187), apprestandosi a scrivere la
sua Histoire de la milice française (1721), fu condotto alla
biblioteca reale dove gli furono mostrate milleduecento opere che
potevano essergli utili. Ne consultò un certo numero per
circa un’ora e alla fine dichiarò che «tutti quei libri
erano delle scartoffie inutili, delle quali non aveva bisogno per
scrivere la sua storia». L’abate di Vertot aveva terminato
un’opera sull’assedio di Rodi da parte dei Turchi; gli vennero
portati dei nuovi documenti. Li respinse dicendo: «Il mio
assedio è fatto» [Ehrard e Palmade 1964, p. 28].
Questo lavoro di erudizione proseguí e si estese nel XVIII
secolo. Il lavoro storico si assopí, si risvegliò
soprattutto in occasione del dibattito sulle origini – germaniche o
romane – della società e delle istituzioni francesi. Alcuni
storici si rimisero alla ricerca delle cause, ma unendo l’attenta
erudizione a questa riflessione intellettuale. Tale alleanza
giustifica – nonostante alcune ingiustizie per il XVI secolo –
l’opinione di Collingwood: «“Nel senso stretto in cui Gibbon e
Mommsen sono degli storici, non esiste storico prima del XVIII
secolo”, cioè nonesistono autori di uno “studio sia critico
sia costruttivo, il cui campo è tutto il passato umano preso
nella sua integralità e il cui metodo è di ricostruire
il passato partendo da documenti scritti e non scritti, analizzati e
interpretati in uno spirito critico”» [citato in Palmade 1968,
p. 432].
Dal canto suo, Henri Marrou ha sottolineato che «ciò
che costituisce il merito di Gibbon [celebre autore inglese della
History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 1776-88]
è precisamente l’aver realizzato la sintesi tra l’apporto
dell’erudizione classica quale si era a poco a poco formulata presso
i primi umanisti fino ai benedettini di Saint-Maur e ai loro emuli,
e il senso dei grandi problemi umani, considerati dall’alto e
ampiamente, come poteva averlo sviluppato in lui la
familiarità con i filosofi» [1961, p. 27].
Con il razionalismo filosofico – che non ebbe, lo si è visto,
che delle conseguenze feconde per la storia –, con il definitivo
rifiuto della Provvidenza e con la ricerca di cause naturali, gli
orizzonti della storia si allargano a tutti gli aspetti della
società e a tutte le civiltà. Fénelon, in un
Projet d’un traité sur l’histoire (1714), pretende dallo
storico lo studio «dei costumi e dello stato di ogni corpo
della natura» e di mostrarne la verità,
l’originalità – ciò che i pittori chiamano il costume
– e insieme i cambiamenti: «Ogni nazione ha i suoi costumi,
molto diversi da quelli dei popoli vicini, ogni popolo cambia spesso
per i propri costumi» [citato in Palmade 1968, p. 432].
Voltaire, nelle sue Nouvelles considérations sur l’histoire
(1744), aveva preteso una «storia economica, demografica,
storia delle tecniche e dei costumi e non solo storia politica
militare, diplomatica. Storia degli uomini, e non solo storia dei re
e dei grandi. Storia delle strutture e non solo degli avvenimenti.
Storia in movimento, storia delle evoluzioni e delle trasformazioni,
e non storia statica, storia-quadro. Storia esplicativa, e non
puramente storia narrativa, descrittiva – o dogmatica. Storia
globale infine…» [Le Goff 1978, trad. it. p. 24].
Al servizio di questo programma – o di programmi meno ambiziosi – lo
storico mette ormai un’accurata erudizione, che iniziative sempre
piú numerose e fatto nuovo, le istituzioni, cercano di
soddisfare. In questo secolo di accademie di sociétés
savantes, la storia o ciò che la riguarda non è
dimenticato.
Sul piano delle istituzioni la scelta di un esempio può
cadere sull’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di
Francia. La «piccola accademia» fondata da Colbert nel
1663 non comprendeva allora che quattro membri e la sua missione era
puramente utilitaria: redigere i motti delle medaglie e le
iscrizioni dei monumenti che perpetueranno la gloria del Re Sole.
Nel 1701 i suoi effettivi furono portati a quaranta e diventò
autonoma. Venne ribattezzata con il suo nome attuale nel 1716, e a
partire dal 1717 pubblicò regolarmente delle memorie dedicate
alla storia, all’archeologia e alla linguistica, e intraprese
l’edizione del Recueil des ordonnances des rois de France.
Sul piano degli strumenti di lavoro, si possono citare, da una
parte, l’Art de vérifier les dates, della quale i maurini
pubblicano la prima edizione nel 1750, dall’altra la costituzione,
intorno al 1717-20, degli Archivi reali a Torino, i cui regolamenti
sono la migliore espressione dell’archivistica del tempo, e la
stampa del catalogo della biblioteca reale di Parigi (1739-53).
Quale rappresentante dell’attività erudita al servizio della
storia può citarsi Lodovico Antonio Muratori, nato nel 1672,
bibliotecario dell’Ambrosiana a Milano nel 1694, bibliotecario e
archivista del duca d’Este a Modena nel 1700, morto nel 1750. Dal
1744 al 1749 egli pubblicò gli Annali d’Italia, preceduti
(1738-42) dalle Antiquitates italicae Medii Aevi. Egli fu,
segnatamente, in relazione con Leibniz [cfr. Campori 1892].
Muratori ha preso come modello Mabillon, ma, in quanto laico, egli
libera, alla maniera degli umanisti del Rinascimento, la storia dai
miracoli e dai presagi. Egli spinge piú lontano del maurino
la critica delle fonti, ma anch’egli non è un vero storico.
Non vi è elaborazione storica della documentazione e la
storia si riduce a storia politica. Ciò che concerne le
istituzioni, i costumi e le mentalità è rigettato
nelle Antiquitates. «I suoi Annali… sono da chiamarsi
piuttosto studi per la storia italiana ordinati cronologicamente,
che non un’opera storica» [Fueter 1911, trad. it. p. 411].
Dal punto di vista che qui preme, il secolo XIX è decisivo
perché mette definitivamente a punto il metodo critico dei
documenti, che interessano lo storico fin dal Rinascimento, diffonde
questo metodo e i suoi risultati con l’insegnamento e la
pubblicazione e unisce storia ed erudizione.
Sull’attrezzatura erudita della storia si prenda l’esempio della
Francia. La rivoluzione, poi l’impero, costituiscono le Archives
Nationales, che, poste sotto l’autorità del ministro degli
Interni nel 1800, passano sotto quella del ministro dell’Istruzione
pubblica nel 1883. La Restaurazione creò l’Ecole des Chartes
nel 1821, per formare un corpo di archivisti specializzati che
dovevano essere piú degli storici che degli amministratori e
ai quali fu riservata, a partire dal 1850, la direzione degli
archivi dipartimentali. La ricerca archeologica sui principali
luoghi dell’antichità fu favorita dalla fondazione delle
Ecoles di Atene (1846) e di Roma (1874), l’insieme dell’erudizione
storica dalla fondazione della Ecole Pratique des Hautes Etudes
(1868). Nel 1804 era nata a Parigi l’Académie Celtique, per
studiare il passato nazionale francese. Essa si trasformò nel
1814 in Société des Antiquaires de France. Nel 1834 lo
storico Guizot, divenuto ministro, istituí un Comité
des Travaux Historiques, incaricato di pubblicare una
«Collection de Documents inédits sur l’histoire de
France». Nel 1835, la Société Française
d’Archéologie fondata nel 1833 tiene il suo primo congresso.
La Société de l’Histoire de France nasce nel 1835.
Ormai «un’armatura» esiste per la storia: cattedre di
facoltà, centri universitari, sociétés
savantes, collezioni di documenti, biblioteche, riviste. Dopo i
monaci del medioevo, gli umanisti e i giuristi del Rinascimento, i
philosophes del XVIII secolo, i professori borghesi introducevano la
storia nel cuore dell’Europa e nel suo prolungamento, gli Stati
Uniti d’America, dove era stata fondata nel 1800 la Library of
Congress a Washington.
Il movimento era europeo e fortemente colorato di spirito nazionale,
se non di nazionalismo. Un segno evidente vien dato dalla creazione
in poco tempo di una rivista storica (nazionale) nella maggior parte
dei paesi europei. In Danimarca, «Historisk Tidsskrift»
(1840); in Italia, «Archivio Storico Italiano» (1842),
al quale farà seguito la «Rivista Storica
Italiana» (1884); in Germania, «Historische
Zeitschrift» (1859); in Ungheria,
«Századok» (1867); in Norvegia, «Historisk
Tidsskrift» (1870); in Francia, «Revue Historique»
(1876), che era stata preceduta fin dal 1839 dalla
«Bibliothèque de l’Ecole des Chartes»; in Svezia,
«Historisk Tidsskrift» (1881); in Inghilterra,
«English Historical Review «(1886); nei Paesi Bassi,
«Tijdschrift voor Geschiedenis» (1886); in Polonia,
«Kwartalnik Historyczny» (1887); e negli Stati Uniti,
«The American Historical Review» (1895).
Ma il grande centro, il faro, il modello della storia erudita, nel
XIX secolo fu la Prussia. Non soltanto l’erudizione vi ha creato
delle istituzioni e delle collezioni prestigiose quali i
«Monumenta Germaniae historica» (a partire dal 1826), ma
la produzione storica vi uní meglio che altrove il pensiero
storico, l’erudizione e l’insegnamento nella forma del seminario e
vi assicurò la continuità dello sforzo di erudizione e
ricerca storica. Emergono alcuni grandi nomi: il tedesco-danese
Niebuhr per la sua Storia romana (Römische Geschichte,
1811-32); l’erudito Waitz, allievo di Ranke, autore di una Storia
della costituzione tedesca (Deutsche Verfassungs-geschichte,
1844-78) e direttore dal 1875 dei «Monumenta Germaniae
historica»; Mommsen, che dominò la storia antica, dove
utilizzò l’epigrafia per la storia politica e giuridica
(Römische Geschichte, a partire dal 1849); Droysen, fondatore
della scuola prussiana, specialista di storia greca e autore di un
manuale di storiografia: Sommario di istorica (Grundriss der
Historik, scritto nel 1858, pubblicato nel 1868); la cosiddetta
scuola «nazional-liberale» con Sybel, fondatore della
«Historische Zeitschrift», Haüsser, autore di una
Storia di Germania (Deutsche Geschichte, 1854-57) nel XIX secolo,
Treitschke, ecc. Il piú grande nome della grande scuola
storica tedesca del XIX secolo è Ranke, del quale si è
visto il ruolo ideologico nello storicismo. Lo si ricorda qui come
fondatore, nel 1840, del primo seminario di storia nel quale maestri
e allievi si dedicavano insieme alla critica dei testi.
L’erudizione tedesca aveva esercitato una forte seduzione sugli
storici europei del XIX secolo, compresi quelli francesi, che non
erano lontani dal pensare che la guerra del 1870-71 era stata vinta
dai maestri prussiani e dagli eruditi tedeschi. Un Monod, un
Jullian, un Seignobos, per esempio, andarono a completare la loro
formazione nei seminari d’Oltre Reno. Marc Bloch doveva anch’egli
confrontarsi con l’erudizione tedesca a Lipsia. Un allievo di Ranke,
Godefroid Kurth, fondò all’università di Liegi un
seminario dove il grande storico belga Henri Pirenne, che nel XX
secolo doveva contribuire a fondare la storia economica, fece il suo
apprendistato.
Tuttavia, uscendo dalla Germania, i pericoli dell’erudizione tedesca
apparvero alla fine del secolo XIX. Camille Jullian nel 1896
constatava: «La storia in Germania si sbriciola e si
sfalda», talvolta essa «si perde a poco a poco in una
sorta di scolastica filologica: i grandi nomi spariscono l’uno dopo
l’altro; v’è di che aver paura di veder sopraggiungere gli
epigoni di Alessandro o i nipoti di Carlomagno…» [citato in
Ehrard e Palmade 1964, p. 77]. Lo storicismo erudito tedesco
degenerava in Germania, e altrove in Europa, in due tendenze
opposte: una filosofia della storia idealista, un ideale erudito
positivista che fuggiva le idee e bandiva dalla storia la ricerca
delle cause.
Spetterà a due universitari francesi dare a questa storia
positivista il suo statuto: l’Introduction aux études
historiques [1898] di Langlois e Seignobos, che, definendosi
«breviario dei metodi nuovi», riprendeva insieme gli
elementi positivi di una erudizione progressista e necessaria e i
germi di una sterilizzazione dello spirito e dei metodi della
storia.
Resta da fare il bilancio positivo di questa storia erudita del XIX
secolo, come ha fatto Marc Bloch nella sua Apologie pour l’histoire:
«Il coscienzioso sforzo del secolo XIX» ha consentito
che «le tecniche della critica» cessino di essere il
monopolio «di un pugno di eruditi, di esegeti e di
curiosi» e «lo storico è stato ricondotto al
banco di lavoro». Bisogna far trionfare «i piú
elementari precetti di una morale dell’intelligenza» e
«le forze della ragione» che operano nelle «nostre
umili note, [nei] nostri piccoli minuziosi rimandi, che oggi tanti
begli spiriti disprezzano, senza comprenderli» [1941-42, trad.
it. pp. 85-88; cfr. anche Ehrard e Palmade 1964, p. 78].
Cosí, fermamente stabilita sulle sue ancelle, le scienze
ausiliarie (archeologia, numismatica, sigillografia, filologia,
epigrafia, papirologia, diplomatica, onomastica, genealogia,
araldica), la storia si è installata sul trono
dell’erudizione.
5. La storia oggi.
Della storia oggi si traccerà qui, da una parte, il
rinnovamento in quanto pratica scientifica, mentre dall’altra se ne
ricorderà il ruolo nella società.
Il primo punto verrà trattato in modo relativamente breve,
rinviando a un altro studio [Le Goff 1978] nel quale chi scrive ha
presentato la genesi e i principali aspetti del rinnovamento della
scienza storica nell’ultimo mezzo secolo.
Questa tendenza pare soprattutto francese, ma si è
manifestata anche altrove, specialmente in Gran Bretagna e in
Italia, in particolare intorno alle riviste «Past and
Present» (dopo il 1952) e «Quaderni storici» (dopo
il 1966).
Una delle sue piú antiche manifestazioni è stata lo
sviluppo della storia economica e sociale; bisogna quindi menzionare
qui il ruolo della scienza storica tedesca intorno alla rivista
«Vierteljahrsschrift für Sozial- und
Wirtschaftsgeschichte», fondata nel 1903, e quello del grande
storico belga Henri Pirenne, teorico dell’origine economica delle
città nell’Europa medievale. Nella misura in cui la
sociologia e l’antropologia hanno svolto un grande ruolo nel
mutamento della storia nel secolo XX, l’influenza di un grande
spirito come Max Weber e quella dei sociologi e degli antropologi
anglosassoni sono ben note.
Il successo della «storia orale» è stato grande e
precoce tra i popoli anglosassoni. La moda della storia quantitativa
è stata notevole un po’ dovunque, salvo forse nei paesi
mediterranei.
Ruggiero Romano, che ha dato un’immagine, che colpisce per
l’intelligenza e le posizioni prese, della Storiografia italiana
oggi [1978], ha indicato un gruppo di paesi nei quali la
partecipazione della storia e degli storici alla vita sociale e
politica – non soltanto alla vita culturale – è viva:
l’Italia, la Francia, la Spagna, i paesi sudamericani, la Polonia,
mentre il fenomeno non esiste nei paesi anglosassoni, russi e
germanici. Esempio pionieristico di una storia nazionale, che
integra in sé le acquisizioni e le aperture dei nuovi
orientamenti storiografici, è costituito dalla Storia
d’Italia dell’editore torinese Einaudi (1972-76).
Oggi il lavoro storico e la riflessione sulla storia si sviluppano
in un clima di critica e di disincanto nei confronti dell’ideologia
del progresso, e piú recentemente, in Occidente, di ripudio
del marxismo, in ogni caso del marxismo volgare. Tutta una
produzione senza valore scientifico che aveva potuto illudere sotto
la pressione della moda e di un certo terrorismo
politico-intellettuale, ha perduto ogni credito. Va segnalato che,
inversamente e nelle stesse condizioni, fiorisce una pseudostoria
antimarxista che sembra avere assunto come bandiera il tema consunto
dell’irrazionale.
Poiché il marxismo, se si eccettua Max Weber, è stato
il solo pensiero coerente della storia nel secolo XX, è
importante vedere ciò che si è prodotto alla luce
della disaffezione per la teoria marxista e del rinnovamento, da
tempo avviato, delle pratiche storiche in Occidente, non contro il
marxismo, ma al di fuori di esso, anche se si pensa con Michel
Foucault che certi problemi capitali per lo storico non possano
ancora essere posti che a partire dal marxismo. In Occidente, un
certo numero di storici di valore si sono sforzati di mostrare che
non soltanto il marxismo poteva giungere a una buona convivenza con
«la nuova storia», ma che era vicino a questa storia per
la sua considerazione per le strutture, la sua concezione di una
storia totale, il suo interesse per il campo delle tecniche e delle
attività materiali.
Pierre Vilar [1973] e Guy Bois [1978] si sono augurati che il
rinnovamento passi «attraverso un certo ritorno alle
fonti» (trad. it. p. 256). Talune opere collettive come
Aujourd’hui l’histoire [Hincker e Casanova 1974] e Ethnologie et
histoire [Ethnologie 1975], pubblicate a Parigi dalle Editions
Sociales, manifestano un desiderio di apertura. Un’interessante
serie di testi pubblicati qualche anno fa da un certo numero di
storici marxisti italiani [Cecchi 1974] ha mostrato la
vitalità e l’evoluzione di questa ricerca. Un’opera come Le
féodalisme, un horizon théorique di Alain Guerreau
[1980] manifesta, nonostante i suoi eccessi, l’esistenza di un
pensiero marxista forte e nuovo.
Si conosce male in Occidente la produzione storica dei paesi
dell’Est. A eccezione della Polonia e dell’Ungheria, ciò che
se ne sa non è per nulla incoraggiante. Vi sono forse lavori
e correnti interessanti nella Germania dell’Est.
Sono stati già indicati in alcuni storici del passato gli
antenati della nuova storia, per il loro gusto per la ricerca delle
cause, la loro curiosità nei confronti delle civiltà,
il loro interesse per il materiale, il quotidiano, la psicologia. Da
La Popelinière, alla fine del XVI secolo, a Michelet,
passando per Fénelon, Montesquieu, Voltaire, Chateaubriand e
Guizot, si tratta di una impressionante linea ereditaria nella
diversità. Bisogna aggiungere l’olandese Huizinga (morto nel
1945), il cui capolavoro, Autunno del Medio Evo [1919] fece entrare
la sensibilità e la psicologia collettive nella storia.
Si considera la fondazione, nel 1929, della rivista
«Annales» («Annales d’histoire économique
et sociale» nel 1929, «Annales. Economies,
Sociétés, Civilisations» dal 1945), a opera di
Marc Bloch e Lucien Febvre, come l’atto di nascita della nuova
storia [cfr. Revel e Chartier 1978; Allegra e Torre 1977; Cedronio e
altri 1977]. Le idee della rivista ispirarono, nel 1947, la
fondazione, a opera di Lucien Febvre (morto nel 1956) (Marc Bloch,
resistente, era stato fucilato dai Tedeschi nel 1944), di un
istituto di ricerca e d’insegnamento della ricerca nel campo delle
scienze umane e sociali, la sesta sezione (delle scienze economiche
e sociali) della Ecole Pratique des Hautes Etudes, prevista da
Victor Duruy al momento della fondazione della scuola nel 1868, ma
che non aveva potuto concretizzarsi. Divenuta nel 1975 Ecole des
Hautes Etudes en Sciences Sociales, questo istituto nel quale la
storia aveva un posto eminente accanto alla geografia, all’economia,
alla sociologia, all’antropologia, alla psicologia, alla linguistica
e alla semiologia, assicurò la diffusione in Francia e
all’estero delle idee che erano state alle origini delle
«Annales».
Si possono riassumere queste idee nella critica del fatto storico,
della storia événementielle, in particolare politica;
nella ricerca di una collaborazione con le altre scienze sociali
(l’economista François Simiand – che aveva pubblicato nel
1903 nelle «Revue de Synthèse Historique»
[pioniera della nuova storia sotto l’impulso di Henri Berr] un
articolo, Méthode historique et science sociale, nel quale
denunziava gli «idoli» «politici»,
«individuali» e «cronologici», articolo che
ispirò il programma delle «Annales» –, il
sociologo Emile Durkheim, il sociologo e antropologo Marcel Mauss
furono gli ispiratori dello «spirito» delle
«Annales»); nella sostituzione della storia-problema
alla storia-racconto; nella attenzione per il presente della storia.
Fernand Braudel, autore di una «tesi» rivoluzionaria su
La Méditerranée et le monde
méditerranéen à l’epoque de Philippe II [1966],
nella quale la storia era scomposta in tre piani digradanti, il
«tempo geografico», il «tempo sociale» e il
«tempo individuale» – e l’événementiel
respinto nella terza parte – ha pubblicato nelle
«Annales» l’articolo sulla «lunga durata»
[1958], che doveva ispirare in seguito una parte importante della
ricerca storica.
Un po’ dovunque negli anni Settanta, colloqui, opere, piú
spesso collettive, fecero il punto sui nuovi orientamenti della
storia. Un lavoro d’insieme [Le Goff e Nora 1974] presentò
sotto il titolo Faire de l’histoire i «nuovi problemi»,
i «nuovi approcci» e i «nuovi obiettivi»
della storia. Tra i primi, il quantitativo in storia, la storia
concettualizzante, la storia prima della scrittura, la storia dei
popoli senza storia, l’acculturazione, la storia ideologica, la
storia marxista, la nuova storia événementielle. I
secondi concernevano l’archeologia, l’economia, la demografia,
l’antropologia religiosa, i nuovi metodi di storia della
letteratura, dell’arte, delle scienze, della politica. La scelta dei
nuovi oggetti si era fissata sul clima, l’inconscio, il mito, le
mentalità, la lingua, il libro, i giovani, il corpo, la
cucina, l’opinione pubblica, il film, la festa.
Quattro anni dopo La nouvelle histoire [Le Goff, Chartier e Revel
1978], rivolgendosi a un pubblico piú vasto ancora, attestava
i progressi della volgarizzazione della nuova storia e i rapidi
spostamenti d’interesse all’interno del suo ambito, insieme con la
focalizzazione intorno a qualche tema: antropologia storica, cultura
materiale, immaginario, storia immediata, lunga durata, marginali,
mentalità, strutture.
Il dialogo della storia con le altre scienze proseguiva, si
approfondiva, si concentrava e allargava al tempo stesso.
Si concentrava. Accanto alla persistenza dei rapporti fra storia e
economia [attestata, per esempio, da Lhomme 1967], storia e
sociologia (una testimonianza tra le altre è quella del
sociologo Alain Touraine, che dichiara [1977, p. 274]: «Io non
separo il lavoro della sociologia dalla storia di una
società»), una relazione privilegiata si è
stretta fra la storia e l’antropologia, auspicata, da parte degli
antropologi, da Evans-Pritchard [1961], considerata con maggiore
circospezione da Lewis [1968], che insiste sugl’interessi differenti
delle due scienze (la storia volta al passato, l’antropologia al
presente, la prima verso i documenti, la seconda verso l’indagine
diretta, la prima verso la spiegazione degli avvenimenti, la seconda
verso i caratteri generali delle istituzioni sociali). Ma uno
storico come Carr scrive [1961]: «Piú la storia
diventerà sociologica e la sociologia storica, tanto meglio
sarà per entrambe» (trad. it. p. 73). E un antropologo
come Marc Augé afferma: «L’oggetto dell’antropologia
non è quello di ricostruire società scomparse, ma di
mettere in evidenza delle logiche sociali e delle logiche
storiche» [1979, p. 170].
In questo incontro fra storia e antropologia lo storico ha
privilegiato taluni campi e problemi. Quello per esempio dell’uomo
selvaggio e dell’uomo quotidiano [Furet 1971b; Le Goff 1971a] o in
uno dei rapporti fra cultura dotta e cultura popolare [cfr. Ginzburg
1976, p. XI: «In passato si potevano accusare gli storici di
voler conoscere soltanto le “gesta dei re”. Oggi, certo, non
è piú cosí»]. O ancora la storia orale,
nella cui abbondante letteratura si potrebbero scegliere il numero
speciale dei «Quaderni storici» (1977) dedicato alla
Oral History: fra antropologia e storia, che pone bene i problemi
per le differenti classi sociali e le diverse civiltà; il
libretto di Jean-Claude Bouvier e d’un’équipe d’antropologi,
storici e linguisti Tradition orale et identité culturelle.
Problèmes et méthodes (1980), perché valorizza
bene i rapporti tra oralità e discorso sul passato, definisce
gli etnotesti e un metodo per raccoglierli e utilizzarli; e infine
la relazione di Dominique Aron-Schnapper e Danièle Hanet
Histoire orale ou archives orales? (1980) sulla costituzione di
archivi orali per la storia della sicurezza sociale, che pone bene
il problema dei rapporti tra un nuovo tipo di documentazione e un
nuovo tipo di storia.
Da queste esperienze, da questi contatti, da queste conquiste, un
certo numero di storici – fra i quali anche chi scrive – auspicano
che si costituisca una nuova disciplina storica strettamente legata
all’antropologia: l’antropologia storica.
Nel supplemento del 1980 l’Encyclopaedia Universalis dedica un lungo
articolo all’antropologia storica [Burguière 1980]. L’autore
vi mostra che questa nuova etichetta, nata dall’incontro tra
l’etnologia e la storia, è di fatto piú una riscoperta
che un fenomeno radicalmente nuovo. Essa si pone nella tradizione di
una concezione della storia il cui padre è senza dubbio
Erodoto e che, nella tradizione francese, si esprime nel XVI secolo
con Pasquier, La Popelinière o Bodin, nel XVIII secolo nelle
opere storiche piú importanti dell’illuminismo, e che domina
la storiografia romantica. Essa è «piú
analitica, dedita a rintracciare l’itinerario e i progressi della
civiltà, si interessa ai destini collettivi piú che
agli individui, alla evoluzione delle società piú che
alle istituzioni, agli usi piú che agli avvenimenti»,
di fronte a un’altra concezione, «piú narrativa,
piú vicina ai luoghi del potere politico», quella che
va dai grandi cronisti medievali agli eruditi del XVII secolo e alla
storia événementielle e positivista che trionfa alla
fine del secolo XIX. È un allargamento del campo della storia
nello spirito dei fondatori delle «Annales», «alla
intersezione dei tre assi principali che Marc Bloch e Lucien Febvre
distinguevano per gli storici: la storia economica e sociale, la
storia delle mentalità, le ricerche interdisciplinari».
Il suo modello sono Les rois thaumaturges di Marc Bloch [1924]. Uno
dei suoi risultati è l’opera di Fernand Braudel Civilisation
matérielle et capitalisme, nella quale lo storico
«descrive la maniera con la quale i grandi equilibri
economici, i circuiti di scambi creavano e modificavano la trama
della vita biologica e sociale, la maniera con la quale, per
esempio, il gusto si abituava a un prodotto alimentare nuovo»
[Burguière 1980, p. 159]. André Burguière
prende come esempio di un campo che l’antropologia storica cerca di
conquistare, quello di una storia del corpo, sulla quale lo storico
tedesco Norbert Elias, in un libro d’anteguerra [1939] la cui
risonanza data dagli anni Settanta, ha offerto un’ipotesi che spiega
l’evoluzione delle relazioni verso il corpo nella civiltà
europea: «L’occultamento e la messa a distanza del corpo
traducevano al livello dell’individuo la tendenza al rimodellamento
del corpo sociale imposta dagli Stati burocratici; rientravano nel
medesimo processo la separazione delle classi di età, la
messa in disparte dei devianti, la segregazione dei poveri e dei
folli, cosí come il declino delle solidarietà
locali» [Burguière 1980, p. 159]. I quattro esempi che
sceglie Burguière per illustrare l’antropologia storica sono:
1) la storia dell’alimentazione, che «si occupa di ritrovare,
studiare e, all’occorrenza, quantificare, tutto ciò che si
riferisce a questa funzione biologica essenziale al mantenimento
della vita: la nutrizione»; 2) la storia della
sessualità e della famiglia, che ha fatto entrare la
demografia storica in un’era nuova con l’utilizzazione di fonti
massicce (i registri parrocchiali) e una problematica che tiene
conto delle mentalità, per esempio gli atteggiamenti nei
confronti della contraccezione; 3) la storia dell’infanzia, che ha
mostrato come gli atteggiamenti nei confronti del bambino non si
riducessero a un ipotetico amore dei genitori, ma dipendessero da
condizioni culturali complesse: non vi è, per esempio,
specificità del bambino nel medioevo; 4) la storia della
morte, che si è rivelata come il campo piú fecondo
della storia delle mentalità.
In tal modo, il dialogo tra la storia e le scienze sociali tende a
privilegiare i rapporti tra storia e antropologia, benché, a
parere di chi scrive, per esempio, l’antropologia storica includa
anche la sociologia. Tuttavia, la storia tende a uscire dal suo
territorio in modo ancor piú audace, dirigendosi verso le
scienze della natura [cfr. Le Roy Ladurie 1967] come verso le
scienze della vita, specialmente la biologia.
Vi è anzitutto il desiderio degli scienziati di fare la
storia della loro scienza, ma non una storia qualsiasi. Ecco cosa
scrive un grande biologo, il premio Nobel François Jacob
[1970]: «Per un biologo, vi sono due modi di considerare la
storia della scienza. Si può guardare, anzitutto, alla
successione delle idee e alla loro genealogia; si cerca, allora, il
filo conduttore che ha guidato il pensiero fino alle teorie odierne.
Questo tipo di storia si fa, per cosí dire, a ritroso,
estrapolando il presente in direzione del passato. Passo per passo,
si esamina l’ipotesi che ha preceduto quella oggi dominante, poi
quella che, a sua volta, l’ha preceduta, e cosí via. In
questo modo, le idee acquistano una loro indipendenza… Si assiste,
allora, a una specie di evoluzione delle idee, soggetta talvolta a
una sorta di selezione naturale fondata su un criterio di
interpretazione teorica (e quindi di riutilizzazione pratica),
talaltra alla sola teleologia della ragione… Ma vi è un altro
modo di considerare la storia della biologia, che consiste nel
ricercare come gli oggetti di questa scienza siano diventati
accessibili all’analisi, e come si siano aperti – in tal modo –
sempre nuovi campi di indagine. Si tratta, allora, di precisare la
natura di questi oggetti, l’atteggiamento di coloro che li studiano,
il loro modo di osservarli, gli ostacoli che la tradizione culturale
oppone al ricercatore… Non vi è piú una filiazione
pressoché lineare di idee che nascono l’una dall’altra; vi
è un campo d’indagine che il pensiero cerca di esplorare e
nel quale tenta di instaurare un ordine, di costituire un insieme di
relazioni astratte che si accordino non soltanto con l’osservazione
e la tecnica, ma anche con la pratica, i valori e le interpretazioni
dominanti» (trad. it. pp. 19-20).
È dunque chiaro cosa è qui in questione. È il
rifiuto di una storia idealista, dove le idee si generano con una
sorta di partenogenesi, di una storia guidata dalla concezione di un
progresso lineare, di una storia che interpreta il passato con i
valori del presente. Al contrario, François Jacob propone la
storia di una scienza che tenga conto delle condizioni (materiali,
sociali, mentali) della sua produzione e che individui in tutta la
loro complessità le tappe del sapere.
Ma bisogna spingersi piú lontano. Ruggiero Romano, basandosi
sui lavori suggestivi e dai fondamenti indiscutibili di Jacques
Ruffié [1976] e su quelli piú contestabili di Wilson
[1975], afferma: «Laddove la storia aveva cercato d’imporsi
alla biologia servendosene (bassamente e male) per storia
demografica, oggi la biologia vuole e può insegnare qualcosa
alla storia» [1978, p. 8].
Nitschke ha richiamato l’attenzione sull’interesse che avrebbe una
collaborazione tra storici e specialisti dell’etologia:
«Molteplici incitamenti alla ricerca storica vengono da un
confronto con l’etologia dei biologi. Bisogna auspicare che questo
incontro tra le due discipline nella prospettiva di una etologia
storica diventi fruttuoso per entrambe» [1974, p. 97].
Ogni profondo mutamento della metodologia storica si accompagna a
una trasformazione importante della documentazione. In questo
settore, la nostra epoca conosce una vera e propria rivoluzione
documentaria: è l’irruzione del quantitativo e il ricorso
all’informatica. Chiamato dall’interesse della nuova storia per i
grandi numeri, postulato dall’utilizzazione di documenti che
permettano di raggiungere le masse, come i registri parrocchiali in
Francia, base della nuova demografia [cfr. ad esempio Goubert 1960],
reso necessario dallo sviluppo della storia seriale, il calcolatore
è cosí entrato nell’attrezzatura dello storico. Il
quantitativo era apparso nella storia con la storia economica, in
particolare con la storia dei prezzi, della quale Ernest Labrousse
[1933], sotto l’influenza di François Simiand, fu uno dei
grandi pionieri, ha invaso la storia demografica, la storia
culturale. Dopo un periodo di entusiasmo ingenuo, sono stati
individuati i servizi indispensabili resi dal calcolatore in taluni
tipi di ricerca storica e i suoi limiti [cfr. Furet 1971a; Shorter
1971; Arnold 1974]. Anche nella storia economica, uno dei principali
sostenitori della storia quantitativa, Marczewski, ha scritto:
«La storia quantitativa non è che uno dei metodi della
ricerca storica nel campo della storia economica. Essa non esclude
affatto il ricorso alla storia qualitativa. Questa le apporta un
complemento indispensabile» [1965, p. 48]. Un modello di
ricerca storica innovatrice, fondato sull’utilizzazione intelligente
del calcolatore, è l’opera di Herlihy e Klapisch-Zuber Les
Toscans et leurs familles [1978].
Lo sguardo dello storico sulla storia della sua disciplina ha
sviluppato recentemente un nuovo settore, particolarmente ricco,
della storiografia: la storia della storia.
Sulla storia della storia il filosofo e storico polacco Krzysztof
Pomian ha gettato uno sguardo particolarmente acuto. Egli ha
ricordato in quali condizioni storiche questa storia nacque alla
fine del secolo XIX sulla critica del regno della Storia: «Dei
filosofi, dei sociologi e anche degli storici si misero a dimostrare
che l’obiettività, i fatti dati una volta per tutte, le leggi
dello sviluppo, il progresso, tutte nozioni che erano state
considerate fino a quel momento come evidenti e che fondavano le
pretese scientifiche della storia, non erano che illusioni… Gli
storici… furono indicati, nella migliore delle ipotesi, come degli
ingenui, accecati dalle illusioni che essi stessi avevano prodotte,
nella peggiore come dei ciarlatani» [1975, p. 936].
La storia della storiografia prese come insegna le parole di Croce:
ogni storia è una storia contemporanea e lo storico, da
sapiente che pensava di essere, diventa un fabbricante di miti, un
politico inconsapevole. Ma, aggiunge Pomian, questa messa in
questione non tocca soltanto la storia, ma «tutta la scienza e
in particolare il suo nucleo, la fisica» [ibid.]. La storia
delle scienze si sviluppò con lo stesso spirito critico della
storia della storiografia. Per Pomian questo tipo di storia è
oggi sorpassato perché dimentica l’aspetto cognitivo della
storia, e della scienza in particolare, e dovrebbe diventare una
scienza dell’insieme delle pratiche dello storico e, piú
ancora, una storia della conoscenza: «La storia della
storiografia ha fatto il suo tempo. Ciò di cui oggi noi
abbiamo bisogno è una storia della storia che dovrebbe porre
al centro delle sue ricerche le interazioni tra la conoscenza, le
ideologie, le esigenze della scrittura, in breve tra gli aspetti
diversi e talvolta discordanti del lavoro dello storico. E che,
cosí facendo, dovrebbe permettere di gettare un ponte tra la
storia delle scienze e quella della filosofia, della letteratura,
forse dell’arte. O meglio: tra una storia della conoscenza e quella
dei differenti usi che se ne fanno» [ibid., p. 952].
Dell’allargamento del campo della storia reca testimonianza la
creazione di nuove riviste, in un quadro tematico, mentre il grande
movimento della nascita di riviste storiche nel XIX secolo si era
soprattutto operato in un quadro nazionale.
Giova ricordare tra le nuove riviste: 1) quelle che s’interessano
alla storia quantitativa, per esempio «Computers and the
Humanities», pubblicata dal 1966 dal Queen’s College della
City University di New York; 2) quelle che riguardano la storia
orale e l’etnostoria, tra cui «Oral History. The Journal of
the British Oral History Society» (1973),
«Ethnohistory», edita dall’università
dell’Arizona dal 1954, i ricordati «History Workshop»
britannici; 3) quelle che si dedicano alla comparazione e alla
interdisciplinarità: i «Comparative Studies in Society
and History» americani, dal 1959; l’«Information sur les
Sciences Sociales», bilingue (francese e inglese), pubblicata
dalla Maison des Sciences de l’Homme (Parigi) dal 1966; 4) quelle
che si occupano della teoria e della storia della storia, la
piú importante delle quali è la ricordata
«History and Theory», fondata nel 1960.
Vi è un allargamento dell’orizzonte storico che deve portare
a un vero e proprio sconvolgimento della scienza storica. È
la necessità di mettere fine all’etnocentrismo, la
necessità di diseuropeizzare la storia.
Queste manifestazioni di etnocentrismo storico sono state censite da
Roy Preiswerk e Dominique Perrot [1975]. Essi hanno rilevato dieci
forme della colonizzazione della storia operata dagli Occidentali:
1) l’ambiguità della nozione di civiltà. Ve n’è
una o parecchie?; 2) l’evoluzionismo sociale, cioè la
concezione di un’evoluzione unica e lineare della storia sul modello
occidentale. A questo proposito, la dichiarazione di un antropologo
del XIX secolo è tipica: «Il progresso si è
rivelato sostanzialmente dello stesso tipo… in tribú e
nazioni abitanti continenti diversi, magari separati da oceani… Se
estese, queste affermazioni finiscono, in prospettiva, con
l’affermare l’unità delle origini umane. Studiando la
condizione delle tribú e delle nazioni che hanno legato la
propria esistenza a singoli e diversi periodi etnici, ciò che
si affronta in sostanza è la storia antica e la condizione
dei nostri stessi remoti progenitori» [Morgan 1877, trad. it.
p. 13]; 3) l’alfabetismo come criterio di differenziazione tra il
superiore e l’inferiore; 4) l’idea che i contatti con l’Occidente
sono il fondamento della storicità delle altre culture; 5)
l’affermazione del ruolo causale dei valori in storia, confermato
dalla superiorità del sistema di valori occidentale:
l’unità, la legge e l’ordine, il monoteismo, la democrazia,
il sedentarismo, l’industrializzazione; 6) la legittimazione
unilaterale dell’azione occidentale (schiavitú, propagazione
del cristianesimo, necessità di intervento, ecc.); 7) il
trasferimento interculturale di concetti occidentali (feudalesimo,
democrazia, rivoluzione, classe, Stato, ecc.); 8) l’uso di
stereotipi quali i barbari, il fanatismo musulmano, ecc.; 9) la
selezione autocentrata dei dati e degli avvenimenti
«importanti» della storia, imponendo all’insieme della
storia del mondo la periodizzazione elaborata per l’Occidente; 10)
la scelta delle illustrazioni, i riferimenti alla razza, al sangue,
al colore.
Sempre attraverso lo studio dei manuali scolastici, Marc Ferro si
è spinto piú lontano nella messa in questione della
concezione tradizionale di «storia universale».
Analizzando Comment on raconte l’histoire aux enfants à
travers le monde entier sugli esempi dell’Africa del Sud,
dell’Africa nera, delle Antille (Trinidad), delle Indie, dell’Islam,
dell’Europa occidentale (Spagna, Germania nazista, Francia),
dell’Urss, dell’Armenia, della Polonia, della Cina, del Giappone,
degli Stati Uniti – e con uno sguardo alla storia
«interdetta» (Messicani-Americani, Aborigeni
d’Australia) –, Marc Ferro dichiara: «È ormai tempo di
confrontare oggi tutte queste rappresentazioni poiché, con
l’allargamento del mondo, con la sua unificazione economica ma con
la sua disintegrazione politica, il passato delle società
è piú che mai una delle poste in gioco nei confronti
tra Stati, tra nazioni, tra culture e gruppi etnici… La rivolta
sorda di coloro la cui storia è “interdetta”» [1981, p.
7]. È nella sua novità imperfetta un libro capitale
che spiace di non aver potuto utilizzare dall’inizio della
preparazione e della redazione di questo articolo.
Ciò che sarà una storia veramente universale, non
è dato sapere. Forse sarà qualcosa di radicalmente
diverso da quello che viene chiamato storia. Essa deve anzitutto
fare l’inventario delle differenze, dei conflitti. Ridurla a una
storia edulcorata, dolciastramente ecumenica, per far piacere a
tutti, non è la via giusta. Di qui il semi-fallimento dei
cinque volumi della Histoire du développement scientifique et
culturel de l’humanité, pubblicati dall’Unesco nel 1969 e
pieni di buone intenzioni.
A partire dalla seconda guerra mondiale, la storia si è
trovata di fronte a nuove sfide. Se ne considereranno tre.
La prima è che essa deve piú che mai rispondere alla
domanda dei popoli, delle nazioni, degli Stati, che la vogliono,
piú che maestra di vita, piú che specchio della loro
idiosincrasia, elemento essenziale dell’identità individuale
e collettiva che essi cercano con angoscia: vecchi paesi
colonizzatori che hanno perso il loro impero e si ritrovano nel loro
piccolo spazio europeo (Gran Bretagna, Francia, Portogallo); vecchie
nazioni che si risvegliano dall’incubo nazista o fascista (Germania,
Italia); paesi dell’Europa dell’Est nei quali la storia non è
d’accordo con quello che la dominazione sovietica vorrebbe far loro
credere; Unione Sovietica presa tra la storia breve della sua
unificazione e la storia lunga delle sue nazionalità; Stati
Uniti che avevano creduto conquistarsi una storia nel mondo intero e
si ritrovano esitanti tra l’imperialismo e i diritti dell’uomo;
paesi oppressi che lottano per la loro storia come per la loro vita
(America latina); paesi nuovi che cercano a tentoni il modo di
costruirsi la loro storia [cfr., per l’Africa nera, Assorodobraj
1967].
Bisogna, è possibile scegliere tra una storia - sapere
obiettivo e una storia militante? Bisogna adottare gli schemi
scientifici forgiati dall’Occidente o inventarsi una metodologia
storica insieme con una storia?
L’Occidente, da parte sua, si è chiesto durante le sue
piú dure prove (seconda guerra mondiale, decolonizzazione,
scossa del maggio 1968) se non fosse piú saggio rinunziare
alla storia. Non faceva essa parte dei valori che avevano condotto
all’alienazione e all’infelicità?
Ai nostalgici di una vita senza passato, Jean Chesneaux ha risposto
ricordando la necessità di dominare una storia, ma ha
proposto di farne «una storia per la rivoluzione».
È uno dei risultati possibili della teoria marxista di una
unificazione del sapere e della prassi. Se, come crede chi scrive,
la storia – con la sua specificità e i suoi pericoli –
è una scienza, essa deve sfuggire a una identificazione di
storia e politica, vecchio sogno della storiografia che deve aiutare
il lavoro storico a dominare il suo condizionamento da parte della
società. Senza di ciò la storia sarà il
peggiore strumento di ogni potere.
Piú sottile fu il rifiuto intellettuale che sembrò
incarnare lo strutturalismo. Va detto anzitutto che il pericolo
sembra essere soprattutto venuto – e non è interamente
scomparso – da un certo sociologismo. Gordon Leff ha giustamente
osservato: «Gli attacchi di Karl Popper contro quello che egli
chiamava a torto lo storicismo nelle scienze sociali sembrano avere
intimidito una generazione; coniugandosi con l’influenza di Talcott
Parsons, essi hanno abbandonato la teoria sociale, sicuramente
almeno in America, a una condizione astorica, a un livello tale che
essa sembra spesso non avere piú rapporto con la terra degli
uomini» [1969, p. 2].
Philip Abrams, a dieci anni di distanza, sembra aver ben definito i
rapporti tra la sociologia e la storia [1971; 1972; 1980]
accogliendo l’idea di Runciman, per il quale non esiste una seria
distinzione tra storia, sociologia e antropologia, ma alla
condizione di non ridurle a punti di vista limitanti: né a
una sorta di psicologia, né a una comunanza di tecniche; le
scienze sociali – come le altre – non devono subordinare i problemi
alle tecniche.
Pare invece che solo una deformazione dello strutturalismo possa
farne un astoricismo. Non è questa la sede per studiare
dettagliatamente i rapporti di Claude Lévi-Strauss. Si sa che
sono complessi. Bisogna rileggere i grandi testi dell’Anthropologie
structurale [1958, trad. it. pp. 13-28], della Pensée Sauvage
[1962], di Du miel aux cendres [1966]. È chiaro che spesso
Lévi-Strauss ha pensato tenendo presente sia la disciplina
storica sia la storia vissuta: «Possiamo piangere sul fatto
che vi sia storia» [Backès-Clément 1974, p.
141]; ma chi scrive considera come l’espressione piú
pertinente del suo pensiero sull’argomento queste righe
dell’Anthropologie structurale [1958]: «In un cammino dove
compiono, nello stesso senso, lo stesso percorso, solo il loro
orientamento è diverso: l’etnologo procede in avanti cercando
di raggiungere, attraverso una zona cosciente che non ignora mai, un
ambito sempre piú vasto di quell’inconscio verso cui si
dirige; mentre lo storico procede, per cosí dire, come i
gamberi, tenendo fissi gli occhi sulle attività concrete e
particolari, da cui si allontana solo per considerarle in una
prospettiva piú ricca e piú completa. Vero Giano
bifronte, giacché permette di dominare con lo sguardo la
totalità del percorso, è, in ogni caso, solo l’insieme
solidale delle due discipline» (trad. it. p. 37).
C’è in ogni caso uno strutturalismo estremamente adatto agli
storici: lo strutturalismo generico e dinamico dell’epistemologo e
psicologo svizzero Jean Piaget, secondo il quale le strutture sono
intrinsecamente evolutive.
Se la storia può vincere queste sfide, nondimeno essa si
trova oggi ad affrontare seri problemi. Se ne ricorderanno due, uno
generale, l’altro particolare.
Il grande problema è quello della storia globale, generale,
la tendenza secolare a una storia che non sia soltanto universale,
sintetica – vecchia impresa, che va dal cristianesimo antico allo
storicismo tedesco del XIX secolo e alle innumerevoli storie
universali della volgarizzazione storica del XX secolo – ma
integrale o perfetta, come diceva La Popelinière, o globale,
totale, come sostenevano le «Annales» di Lucien Febvre e
Marc Bloch.
Vi è oggi una «panistorizzazione» che Paul Veyne
considera come la seconda grande mutazione del pensiero storico
dall’antichità. Dopo una prima mutazione che,
nell’antichità greca, ha portato la storia dal mito
collettivo alla ricerca di una conoscenza disinteressata della pura
verità, una seconda mutazione, nell’epoca attuale, si opera
perché gli storici «hanno a poco a poco preso coscienza
del fatto che tutto era degno di storia: nessuna tribú, per
quanto minuscola sia, nessun gesto umano, per quanto insignificante
in apparenza, è indegno della curiosità storica»
[1968, p. 424].
Ma questa storia bulimica è capace di pensare e di
strutturare questa totalità? Alcuni pensano che il tempo
della storia in briciole sia arrivato. «Viviamo la
disintegrazione della storia», ha scritto Pierre Nora,
fondando nel 1971 la collezione «Bibliothèque des
Histoires». Sarebbero da fare delle storie, non una storia.
Quello che chi scrive pensa della legittimità e dei limiti
degli «approcci multipli in storia» e dell’interesse di
prendere come temi di ricerca e di riflessioni storiche, mancando le
globalità degli oggetti globalizzanti, è stato esposto
sopra [cfr. Le Goff e Toubert 1975].
Il problema particolare è quello della necessità,
sentita da molti – produttori o consumatori della storia –, di un
ritorno alla storia politica. Chi scrive crede a questa
necessità, a condizione che questa nuova storia politica sia
arricchita dalla nuova problematica della storia, che sia
un’antropologia storica [Le Goff 1971b].
Alain Dufour, prendendo a modello i lavori di Federico Chabod sullo
Stato milanese al tempo di Carlo V, ha auspicato «una storia
politica piú moderna», il cui programma sarebbe:
«Comprendere la nascita degli Stati moderni – o dello Stato
moderno – nel secolo XVI e XVII, distogliendo la nostra attenzione
dal principe per dirigerlo verso il personale politico, verso la
nascente classe dei funzionari, con la sua etica di nuovo genere,
verso le aristocrazie politiche in generale, le cui aspirazioni,
piú o meno implicite, si sono rivelate in quella politica
alla quale hanno dato tradizionalmente il nome di quel principe che
ne è stato il porta-bandiera» [1966, trad. it. p. 12].
Affrontando il problema di una nuova storia politica, si pone quello
del posto da attribuire all’avvenimento nella storia, nel duplice
senso del termine. Pierre Nora ha mostrato come i media
contemporanei abbiano creato un nuovo avvenimento in storia: si
tratta del «ritorno dell’avvenimento».
Ma questo nuovo avvenimento non sfugge alla costruzione dalla quale
risulta ogni documento storico. I problemi che ne derivano sono oggi
ancor piú gravi.
In uno studio rilevante, Eliseo Verón ha analizzato il modo
con il quale i media «costruiscono oggi l’avvenimento».
A proposito dell’incidente alla centrale nucleare americana di Three
Mile Island (marzo-aprile 1979), Verón mostra come, in questo
caso, che è caratteristico degli avvenimenti tecnologici
sempre piú numerosi e importanti, «è difficile
costruire un avvenimento di attualità con pompe, valvole,
turbine e soprattutto radiazioni che non si vedono». Di qui
l’obbligo per i media di una trascrizione: «È il
discorso didattico, specialmente alla televisione, che si è
incaricato di trascrivere il linguaggio dei tecnologi in quello
dell’informazione». Ma il discorso dell’informazione fatto dai
nuovi media racchiude pericoli sempre piú grandi per la
costituzione della memoria che è una delle basi della storia.
«Se la stampa è il luogo di una molteplicità di
modi di costruzione, la radio segue l’avvenimento e definisce il
suono, mentre la televisione fornisce le immagini che resteranno
nella memoria e assicureranno l’omogeneizzazione dell’immaginario
sociale». Si ritrova quello che è sempre stato in
storia «l’avvenimento», tanto dal punto di vista della
storia vissuta e memorizzata, quanto da quello della storia
scientifica fondata su documenti (tra i quali l’avvenimento come
documento occupa, lo ripeto, un posto essenziale). È il
prodotto di una costruzione che coinvolge il destino storico delle
società e la validità della verità storica,
fondamento del lavoro storico: «Nella misura in cui le nostre
decisioni e le nostre lotte quotidiane sono sostanzialmente
determinate dal discorso dell’informazione, è chiaro che la
posta in gioco è nientemeno che l’avvenire delle nostre
società» [1981, p. 170].
In questo quadro di sfide e interrogativi, si è manifestata
recentemente una crisi nel mondo degli storici, della quale si
può considerare espressione esemplare un dibattito tra due
storici anglosassoni, Lawrence Stone ed Eric Hobsbawm, pubblicata in
«Past and Present».
Nel saggio The Revival of Narrative Lawrence Stone constata un
ritorno al racconto in storia, fondato sul fallimento del modello
determinista di spiegazione storica, sulla delusione prodotta dalla
pochezza dei risultati della storia quantitativa, sulle disillusioni
nate dall’analisi strutturale, sul carattere tradizionale,
cioè «reazionario», della nozione di
«mentalità». Nella sua conclusione, che è
il vertice di ambiguità di una analisi ambigua, Stone sembra
ridurre i «nuovi storici» a operatori degli slittamenti
e delle dislocazioni della storia, di una storia che sarebbe
ritornata, da quella di tipo determinista, a storia tradizionale:
«La storia narrativa e la biografia individuale sembrano da
segni evidenti risuscitare alla vita» [1979, p. 23].
Eric Hobsbawm gli ha risposto che i metodi, gli orientamenti e i
prodotti della storia «nuova» non costituivano per nulla
una rinunzia ai «grandi» temi, né un abbandono
della ricerca delle cause per un ripiegamento sul «principio
d’indeterminazione», ma che si trattava della
«continuazione delle iniziative storiche precedenti con altri
mezzi» [1980, p. 8].
Eric Hobsbawm ha giustamente sottolineato che la nuova storia ha
anzitutto degli obiettivi di allargamento e approfondimento della
storia scientifica. Essa ha indubbiamente incontrato problemi,
limiti, forse degli stalli. Nondimeno continua a estendere i campi e
i metodi della storia e, quel che piú conta, Stone non ha
saputo vedere quello che può essere veramente nuovo,
«rivoluzionario», negli odierni orientamenti della
storia: la critica del documento, il nuovo modo di considerare il
tempo, i nuovi rapporti tra il «materiale» e lo
«spirituale», le analisi del fenomeno del potere in
tutte le sue forme, non solo in quella strettamente politica.
Mostrando di considerare i nuovi orientamenti della storia come
delle mode in via di esaurimento e abbandonate anche dai loro
sostenitori, Stone non soltanto è rimasto alla superficie del
fenomeno, ma ha finito per schierarsi in modo ambiguo con coloro che
vorrebbero ricondurre la storia al vibrionismo o al positivismo
limitato di un tempo. Che costoro rialzino la testa nell’ambiente
degli storici e intorno a esso, ecco il vero problema della crisi.
Si tratta di un problema di società, di un problema storico
nel senso «oggettivo» del termine.
Come conclusione di questo articolo, una professione di fede e la
constatazione di un paradosso.
La rivendicazione degli storici – nonostante la diversità
delle loro concezioni e delle loro pratiche – è insieme
modesta e immensa. Essi chiedono che ogni fenomeno
dell’attività umana sia studiato e messo in pratica tenendo
conto delle condizioni storiche nelle quali esiste o è
esistito. Per «condizioni storiche» s’intende il dar
forma cognitiva alla storia concreta, una conoscenza sulla coerenza
scientifica per la quale vi sia un sufficiente consenso
nell’ambiente professionale degli storici (anche se tra questi
esistono disaccordi sulle conseguenze da trarne). Non si tratta in
alcun modo di spiegare il fenomeno in questione mediante queste
condizioni storiche, d’invocare una causalità storica pura, e
in ciò deve consistere la modestia del procedimento storico.
Ma questo procedimento ha anche la pretesa di ricusare la
validità di ogni spiegazione e di ogni pratica che non
tenesse conto di tali condizioni storiche. Bisogna dunque respingere
ogni forma imperialista di storicismo – che essa si presenti (o che
sembri) come idealista, positivista o materialista – ma rivendicare
con forza la necessità della presenza del sapere storico in
ogni attività scientifica o in ogni prassi. Nel campo della
scienza, dell’azione sociale, della politica, della religione o
dell’arte – per considerare alcuni terreni essenziali – questa
presenza del sapere storico è indispensabile. In forme
diverse, certamente. Ciascuna scienza ha il suo orizzonte di
verità che la storia deve rispettare; la spontaneità e
la libertà dell’azione sociale o politica non devono essere
ostacolate dalla storia, che non è nemmeno incompatibile con
l’esigenza di eternità e di trascendenza del religioso,
né con le pulsioni della creazione artistica. Ma, scienza del
tempo, la storia è una componente indispensabile di ogni
attività nel tempo. Piuttosto che esserlo inconsapevolmente,
nella forma di una memoria manipolata e deformata, non è
forse meglio che lo sia come un sapere fallibile, imperfetto,
discutibile, mai completamente innocente, ma che la sua norma di
verità e le sue condizioni professionali di elaborazione e di
esercizio permettono di chiamare scientifico?
Sembra trattarsi, in ogni caso, di una esigenza per l’umanità
d’oggi, secondo i diversi tipi di società, di cultura, di
rapporto con il passato, di orientamento verso l’avvenire che essa
conosce. Forse non sarà la stessa cosa in un avvenire
piú o meno lontano. Non perché non si sentirà
piú il bisogno di avere una scienza del tempo, un sapere vero
sul tempo, ma perché questo sapere potrà prendere
forme diverse da quelle alle quali oggi conviene il nome di storia.
Il sapere storico è esso stesso nella storia, cioè
nella imprevedibilità. Non per questo è meno reale e
vero.
Girolamo Arnaldi, riprendendo un’idea esposta da Croce nella Storia
come pensiero e come azione (1938), ha affermato la sua fiducia
nella «storiografia come mezzo di liberazione dal
passato», per il fatto che «la storiografia… apre la via
a una vera e propria “liberazione dalla storia”» [1974, p.
553]. Senza essere cosí ottimista, chi scrive crede che
spetti allo storico trasformare la storia (res gestae) da fardello –
come diceva Hegel – in una historia rerum gestarum che faccia della
conoscenza del passato uno strumento di liberazione. Non si vuol
rivendicare qui, per il sapere storico, un ruolo imperialista. Se si
ritiene indispensabile il ricorso alla storia nell’insieme delle
pratiche della conoscenza umana e della coscienza delle
società, si crede anche che questo sapere non debba essere
una religione e una dimissione. Bisogna respingere «il culto
integralista della storia» [Bourdieu 1979, p. 124]. Nelle
parole del grande storico polacco Witold Kula «lo storico deve
– paradossalmente – lottare contro la feticizzazione della storia…
La deificazione delle forze storiche, che conduce a un sentimento
generalizzato di impotenza e di indifferenza, diventa un vero
pericolo sociale; lo storico deve reagire, mostrando che nulla
è mai integralmente iscritto in anticipo nella realtà
e che l’uomo può modificare le condizioni che gli sono
fatte» [1961, p. 173].
Il paradosso viene dal contrasto tra il successo della storia nella
società e la crisi del mondo degli storici.
Il successo si spiega con il bisogno delle società di nutrire
la loro ricerca d’identità, di alimentarsi a un immaginario
reale; e le sollecitazioni dei media hanno fatto entrare la
produzione storica nel movimento della società di consumo.
Sarebbe importante d’altronde studiare le condizioni e le
conseguenze di quella che Arthur Marwick ha definito
«l’industria della storia» [1970, pp. 240-43].
La crisi del mondo degli storici nasce sia dai limiti e dalle
incertezze della nuova storia, sia dal disincanto degli uomini di
fronte alle asperità della storia vissuta. Ogni sforzo per
razionalizzare la storia, per far sí che offra migliori punti
di presa sul suo svolgimento urta nella derisione e nella
tragicità degli avvenimenti, delle situazioni e delle
evoluzioni apparenti. Questa crisi interna ed esterna è,
beninteso, sfruttata dai nostalgici di una storia e di una
società che si contentano di poco, di qualche derisoria e
illusoria certezza. Bisogna ripetere con Lucien Febvre [1947]:
«La storia storicizzante chiede poco. Molto poco. Troppo poco,
per i miei gusti e anche per quelli di altri» (trad. it. p.
167). È la natura stessa della scienza storica di essere
strettamente unita alla storia vissuta, della quale fa parte. Ma si
può, si deve – lo storico per primo – operare, lottare
affinché la storia, nei due sensi del termine, sia altra.