Jacques Le Goff

Storia

Traduzione di Giorgio Rovida
Einaudi



Che la storia non sia una scienza come le altre, quasi tutti ne sono persuasi, senza contare coloro i quali ritengono che non sia affatto una scienza. Parlare di storia non è facile, ma queste difficoltà del linguaggio conducono nel centro stesso delle ambiguità della storia.

In questo articolo ci si sforzerà al tempo stesso di ricondurre la riflessione sulla storia nella durata, di situare la scienza storica stessa nelle periodizzazioni della storia, e di non ridurla alla visione europea, occidentale, anche se, per ignoranza di chi scrive e per lo stato – significativo – della documentazione, bisognerà parlare soprattutto della scienza storica europea.

La parola ‘storia’ (in tutte le lingue romanze e in inglese) deriva dal greco antico ἱστορίη, nel dialetto ionico [Keuck 1934]. Questa forma deriva dalla radice indeuropea *wid-, *weid ‘vedere’. Donde il sanscrito vettas ‘testimone’ e il greco ἴστωρ ‘testimone’ nel senso di ‘colui che vede’. Questa concezione della vista come fonte essenziale di conoscenza porta all’idea che ἴστωρ ‘colui che vede’ è anche colui che sa: ἱστωρεῖν, in greco antico, significa ‘cercare di sapere’, ‘informarsi’. Iστορίη significa dunque ‘indagine’. È il senso della parola in Erodoto all’inizio delle sue Storie, che sono delle «ricerche», delle «indagini» [cfr. Benveniste 1969, trad. it. p. 414; Hartog 1980]. Vedere, donde sapere, è un primo problema.

Ma, nelle lingue romanze (e nelle altre) ‘storia’ esprime due, se non tre, concetti differenti. Significa: 1) l’indagine sulle «azioni compiute dagli uomini» (Erodoto) che si è sforzata di costituirsi in scienza, la scienza storica; 2) l’oggetto dell’indagine, quello che gli uomini hanno compiuto. Come dice Paul Veyne, «la storia è sia un susseguirsi di avvenimenti, sia il racconto di questo susseguirsi di avvenimenti» [1968, p. 423]. Ma storia può avere un terzo significato, precisamente quello di «racconto». Una storia è un racconto che può essere vero o falso, con una base di «realtà storica», o puramente immaginario, e questo può essere un racconto «storico» oppure una favola. L’inglese sfugge quest’ultima confusione in quanto distingue history da story, ‘storia’ da ‘racconto’. Le altre lingue europee si sforzano piú o meno di evitare queste ambiguità. L’italiano manifesta la tendenza a designare se non la scienza storica quanto meno i prodotti di questa scienza con la parola ‘storiografia’, il tedesco tenta di stabilire la differenza tra questa attività «scientifica», Geschichtsschreibung, e la scienza storica propriamente detta, Geschichtswissenschaft.

Questo gioco di specchi e di equivoci è proseguito nel corso dei secoli. Il secolo XIX, secolo della storia, inventa sia delle dottrine, che privilegiano la storia nel sapere, parlando, come si vedrà, sia di ‘istorismo’, sia di ‘storicismo’, e una funzione, direi piú volentieri una categoria del reale, la ‘storicità’ (la parola appare nel 1872 in francese). Charles Morazé la definisce cosí: «Bisogna… cercare al di là della geopolitica, del commercio, delle arti e della scienza stessa ciò che giustifica l’oscura certezza degli uomini che essi non sono che uno, trasportati come sono dall’enorme flusso di progresso che li specifica opponendoli. Si sente che questa solidarietà è legata all’esistenza implicita, che ciascuno prova in sé, di una certa funzione comune a tutti. Noi chiameremo storicità questa funzione» [1967, p. 59].

Questo concetto di storicità si è staccato dalle sue origini «storiche», legate allo storicismo del XIX secolo, per svolgere una funzione di primo piano nel rinnovamento epistemologico della seconda metà del XX secolo. La storicità permette per esempio di rifiutare sul piano teorico la nozione di «società senza storia», rifiutata d’altra parte dallo studio empirico delle società osservate dall’etnologia [Lefort 1952]. Essa pertanto obbliga a inserire la storia stessa in una prospettiva storica: «C’è una storicità della storia. Essa implica il movimento che lega una pratica interpretativa a una prassi sociale» [Certeau 1970, p. 484].

Un filosofo come Paul Ricœur vede nella soppressione della storicità attraverso la storia della filosofia il paradosso del fondamento epistemologico della storia. In effetti, secondo Ricœur, il discorso filosofia fa scoppiare la storia in due modelli di intelligibilità, un modello événementiel e un modello strutturale, cosa che fa scomparire la storicità: «Il sistema è la fine della storia in quanto essa si annulla nella logica; anche la singolarità è la fine della storia in quanto tutta la storia si nega in essa. Si arriva a questo risultato, assolutamente paradossale, che è sempre alla frontiera della storia, della fine della storia, che si comprendono i tratti generali della storicità» [1961, pp. 224-25].

Infine, Paul Veyne trae una doppia morale dal fondamento del concetto di storicità. La storicità permette l’inclusione nel campo della scienza storica di nuovi oggetti della storia: il non-événementiel; si tratta di avvenimenti non ancora accolti come tali: storia rurale, delle mentalità, della follia o della ricerca della sicurezza attraverso le età. Si chiamerà dunque non-événementielle la storicità della quale non avremo coscienza come tale [1971, trad. it. pp. 35 sgg.]. D’altra parte la storicità esclude l’idealizzazione della storia, l’esistenza della Storia, con una S maiuscola: «Tutto è storico, dunque la storia non esiste».

Ma bisogna pur vivere e pensare con questo doppio o triplo significato di ‘storia’. Lottare, certamente, contro le confusioni troppo grossolane e troppo mistificanti tra i differenti significati, non confondere scienza storica e filosofia della storia. Condivido con la maggior parte degli storici di mestiere la diffidenza nei confronti di questa filosofia della storia, «tenace e insidiosa» [Lefebvre 1945-46, trad. it. p. 12], che ha la tendenza, nelle sue diverse forme, a ricondurre la spiegazione storica alla scoperta, o all’applicazione di una causa unica e prima, a sostituire precisamente lo studio con delle tecniche scientifiche dell’evoluzione delle società, con questa stessa evoluzione concepita in astrazioni fondate sull’apriorismo o su una conoscenza molto sommaria dei lavori scientifici.

È per me argomento di grande stupore la risonanza avuta – piú che altro fuori degli ambienti degli storici, è vero – dal pamphlet di Karl Popper The Poverty of Historicism [1960]. Non un solo storico di mestiere vi è citato. Non bisogna pertanto fare di questa diffidenza nei confronti della filosofia della storia la giustificazione di un rifiuto di questo genere di riflessione. La stessa ambiguità del vocabolario rivela che la frontiera tra le due discipline, i due orientamenti di ricerca, non è – in ogni ipotesi – strettamente tracciata né tracciabile. Lo storico non deve concluderne tuttavia di dover allontanarsi da una riflessione teorica necessaria al lavoro storico. È facile scorgere che gli storici piú inclini a non rifarsi che ai fatti non soltanto ignorano che un fatto storico risulta da un montaggio e che lo stabilirlo esige un lavoro sia tecnico sia teorico, ma anche e soprattutto sono accecati da una inconsapevole filosofia della storia, spesso sommaria e incoerente.

Certamente, lo ripeto, l’ignoranza dei lavori storici della maggior parte dei filosofi della storia – corrispondente del disprezzo degli storici per la filosofia – non ha facilitato il dialogo. Ma, per esempio, l’esistenza di una rivista di alta qualità come «History and Theory. Studies in the Philosophy of History», edita dal 1960 dalla Wesleyan University a Middletown (Connecticut, Usa), prova la possibilità e l’interesse di una riflessione comune dei filosofi e degli storici e della formazione di specialisti informati nel campo della riflessione teorica sulla storia.

La brillante dimostrazione di Paul Veyne relativa alla filosofia della storia va forse un po’ oltre la realtà. Egli ritiene [1971] che non si tratti che di un genere morto o «che sopravvive soltanto presso epigoni di tono alquanto popolareggiante» e che «era un genere falso». In effetti, «a meno di essere una filosofia rivelata, una filosofia della storia sarà un doppione della spiegazione concreta dei fatti, e rinvierà alle leggi e ai meccanismi che reggono questa spiegazione. Sono vitali soltanto i due casi limite: da una parte il provvidenzialismo della Civitas Dei, e dall’altra l’epistemologia storica. Tutto il resto è spurio» (trad. it. p. 50, nota 8).

Senza spingersi fino ad affermare, con Raymond Aron, che «l’assenza e il bisogno di una filosofia della storia sono elementi ugualmente caratteristici del nostro tempo» [1961a, p. 38], si può dire che è legittimo che ai margini della scienza storica si sviluppi una filosofia della storia come delle altre branche del sapere. È augurabile che essa non ignori la storia degli storici, ma costoro devono ammettere che essa possa avere con l’oggetto della storia altri rapporti di conoscenza che non i loro.

È la dualità della storia come storia-realtà e storia-studio di questa realtà che spesso spiega, almeno mi sembra, le ambiguità di alcune dichiarazioni di Claude Lévi-Strauss sulla storia. Cosí in una discussione con Maurice Godelier, il quale, avendo rilevato che l’omaggio reso, in Du miel aux cendres, alla storia come contingenza, irriducibile, si rivoltava contro la storia e che equivaleva a «dare alla scienza della storia uno statuto… impossibile, riducendola in uno stallo», Lévi-Strauss replicava: «Non so cosa voi chiamiate una scienza della storia. Mi accontenterei di dire la storia tout court; e la storia tout court è qualcosa di cui noi non possiamo fare a meno, precisamente perché questa storia ci mette constantemente di fronte a fenomeni irriducibili» [Lévi-Strauss, Augé e Godelier 1975, pp. 182-83]. Tutta l’ambiguità della parola ‘storia’ è in questa dichiarazione.

S’affronterà dunque la storia mutuando a un filosofo l’idea di base: «La storia non è storia se non nella misura in cui essa non ha avuto accesso né al discorso assoluto, né alla singolarità assoluta, nella misura in cui il senso ne resta confuso, mescolato… la storia è essenzialmente equivoca, nel senso che essa è virtualmente événementielle e virtualmente strutturale. La storia è veramente il regno dell’inesatto. Questa scoperta non è inutile; giustifica lo storico. Lo giustifica di tutte le sue incertezze. Il metodo non può essere che un metodo inesatto… La storia vuole essere obiettiva e non può esserlo. Vuol far rivivere e non può che ricostruire. Vuole rendere le cose contemporanee, ma al tempo stesso le occorre restituire la distanza e la profondità della lontananza storica. Alla fine, questa riflessione tende a giustificare tutte le aporie del mestiere dello storico, quelle che Marc Bloch aveva segnalato nella sua apologia della storia e del mestiere di storico. Queste difficoltà non riguardano vizi di metodo, sono equivoci ben fondati» [Ricœur 1961, p. 226].

Discorso sotto certi aspetti un po’ troppo pessimista, ma che sembra vero.

Verranno qui presentati, quindi, dapprima i paradossi e le ambiguità della storia, ma per meglio definirla come una scienza, scienza originale, ma fondamentale.

Si tratterà poi della storia nei suoi aspetti essenziali, spesso mescolati, ma che bisogna distinguere: la cultura storica, la filosofia della storia, il mestiere di storico.

Lo si farà in una prospettiva storica, in senso cronologico. La critica che sarebbe stata fatta nella prima parte, di una concezione lineare e teleologica della storia, allontanerà il sospetto che chi scrive identifichi la cronologia con il progresso qualitativo, anche se sottolinea gli effetti cumulativi della conoscenza e ciò che Meyerson ha chiamato «la crescita della coscienza storica» [1956, p. 354].

Non si cercherà di essere esaurienti. Ciò che importa è mostrare, in prima prospettiva, con qualche esempio, il tipo di rapporto che le società storiche hanno intrattenuto con il loro passato, il posto della storia nel loro presente. Nell’ottica della filosofia della storia si vorrebbe mostrare, rifacendosi al caso di alcuni grandi spiriti e di alcune correnti importanti di pensiero, come, al di là e al di fuori della pratica disciplinare della storia, la storia sia stata, in certi ambienti e in certe epoche, concettualizzata, ideologizzata.

L’orizzonte professionale della storia darà, paradossalmente, spazio maggiore alla nozione di evoluzione e perfezionamento. Infatti, collocandosi nella prospettiva della tecnologia e della scienza, vi incontrerà l’inevitabile idea del progresso tecnico.

Un’ultima parte consacrata alla situazione attuale della storia ritroverà alcuni dei temi fondamentali di questo articolo e alcuni aspetti nuovi.

La scienza storica ha conosciuto da mezzo secolo uno slancio prodigioso: rinnovamento, arricchimento delle tecniche e dei metodi, degli orizzonti e dei domini. Ma, intrattenendo con le società globali relazioni piú intense che mai, la storia professionale, scientifica, vive una crisi profonda. Il sapere della storia è tanto piú scosso quanto piú il suo potere è aumentato.

1. Paradossi e ambiguità della storia.

1.1. La storia è scienza del passato o «non vi è che storia contemporanea»?

Marc Bloch non amava la definizione «La storia è la scienza del passato», e trovava «assurda l’idea stessa che il passato, in quanto tale, possa essere oggetto di scienza» [1941-42, trad. it. pp. 38-39]. Egli proponeva di definire la storia come «la scienza degli uomini nel tempo» [ibid., p. 42]. Intendeva con ciò sottolineare tre caratteri della storia. Il primo è il suo carattere umano. Sebbene la ricerca storica oggi inglobi volentieri alcuni campi della storia della natura [cfr. Le Roy Ladurie 1967], si ammette generalmente in effetti che la storia è storia umana, e Paul Veyne ha sottolineato che una «differenza enorme» separa la storia umana dalla storia naturale: «L’uomo delibera, la natura no; la storia umana diventerebbe un nonsenso se si trascurasse il fatto che gli uomini hanno degli scopi, dei fini, delle intenzioni» [1968, p. 424].

Tale concezione della storia umana invita del resto molti storici a pensare che la parte centrale, essenziale della storia sia la storia sociale. Charles-Edmond Perrin ha scritto di Marc Bloch: «Alla storia, egli assegna come oggetto lo studio dell’uomo in quanto integrato in un gruppo sociale» [in Labrousse 1967, p. 3]; e Lucien Febvre aggiungeva: «Non l’uomo, ancora una volta, non l’uomo, mai l’uomo. Le società umane, i gruppi organizzati» [ibid.]. Marc Bloch pensava poi alle relazioni che intrattengono, nella storia, passato e presente. Riteneva in effetti che la storia debba non soltanto permettere di «comprendere il presente mediante il passato» – atteggiamento tradizionale – ma anche di «comprendere il passato mediante il presente» [1941-42, trad. it. pp. 50, 54]. Affermando risolutamente il carattere scientifico, astratto, del lavoro storico, Marc Bloch negava che questo lavoro fosse strettamente tributario della cronologia: l’errore grave, in effetti, consisterebbe nel credere che l’ordine adottato dagli storici nelle loro indagini debba necessariamente modellarsi su quello degli avvenimenti. Salvo poi a restituire alla storia il suo movimento vero, essi avranno vantaggio a incominciare col leggerla, come diceva Maitland, «a ritroso». Donde l’interesse per «un metodo prudentemente regressivo» [ibid., p. 55]. «Prudentemente», cioè che non trasporta ingenuamente il presente nel passato e che non percorre a ritroso un tragitto lineare che sarebbe tanto illusorio quanto nel senso contrario. Vi sono delle rotture, delle discontinuità che non si possono saltare, sia in un senso sia nell’altro.

L’idea che la storia sia dominata dal presente riposa in gran parte su una frase celebre di Benedetto Croce, il quale dichiara che «ogni storia» è «storia contemporanea». Croce intende dire con ciò che «remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni» [1938, p. 5]. Infatti, Croce pensa che dal momento che gli avvenimenti storici possono costantemente essere ripensati, essi non sono «nel tempo»; la storia è la «conoscenza dell’eterno presente» [Gardiner 1952]. Cosí questa forma estrema di idealismo è la negazione della storia. Come ha ben visto Carr, Croce ha ispirato la tesi di Collingwood, esposta in The Idea of History [1932], raccolta postuma di articoli nella quale lo storico britannico afferma – mescolando i due significati di storia, l’indagine dello storico e la serie degli avvenimenti passati sui quali indaga – che la «storia non tratta né del “passato in quanto tale” né delle “concezioni dello storico in quanto tali” ma di “entrambi i termini visti nei loro rapporti reciproci”» [Carr 1961, trad. it. p. 26]. Concezione al tempo stesso feconda e pericolosa. Feconda perché è vero che lo storico parte dal suo presente per porre delle domande al passato.

Pericolosa perché, se il passato ha nonostante tutto un’esistenza rispetto al presente, è vano credere a un passato indipendente da quello che lo storico costituisce (si veda il supplemento 16 di «History and Theory», The Constitution of the Historical Past, 1977). Questa considerazione condanna tutte le concezioni di un passato «ontologico», come è espresso, per esempio, dalla definizione della storia di Emile Callot: «Una narrazione intelligibile di un passato definitivamente trascorso» [1962, p. 32]. Il passato è una costruzione e una reinterpretazione costante e ha un avvenire che fa parte integrante e significativa della storia. Ciò è vero in un duplice senso. Anzitutto perché il progresso dei metodi e delle tecniche permette di pensare che una parte importante dei documenti del passato sia ancora da scoprire. Parte materiale: l’archeologia scopre incessantemente dei monumenti nascosti del passato, gli archivi del passato continuano senza tregua ad arricchirsi. Ma anche nuove letture di documenti, frutto di un presente che nascerà nel futuro, devono assicurare una sopravvivenza – o meglio, una vita – al passato che non è «definitivamente trascorso».

Al rapporto essenziale presente-passato bisogna dunque aggiungere l’orizzonte del futuro. Qui ancora i significati sono molteplici. Le teologie della storia l’hanno subordinata a uno scopo definito come il suo fine, il suo completamento e la sua rivelazione. È vero della storia cristiana, segnata dall’escatologia; lo è anche per il materialismo storico – nella sua versione ideologica – che basa su una scienza del passato un desiderio di avvenire che non dipende soltanto dalla fusione di un’analisi scientifica della storia passata e di una prassi rivoluzionaria chiarita da questa analisi. Uno dei compiti della scienza storica è quello d’introdurre, in modo non ideologico e rispettando l’imprevedibilità dell’avvenire, l’orizzonte del futuro nella sua riflessione [Erdmann 1964; Schulin 1973]. Si pensi semplicemente a questa constatazione banale ma gravida di conseguenze. Un elemento essenziale degli storici dei periodi antichi è che essi sanno quello che è accaduto dopo.

Gli storici del tempo presente lo ignorano. La storia propriamente contemporanea differisce cosí (sono anche altre le ragioni di questa differenza) dalla storia delle epoche precedenti.

Questa dipendenza della storia dal passato rispetto al presente deve indurre lo storico ad alcune precauzioni. Essa è inevitabile e legittima nella misura in cui il passato non cessa di vivere e di farsi presente. Ma questa lunga durata del passato non deve impedire allo storico di prendere le sue distanze dal passato, distanze reverenziali, necessarie per rispettarlo e per evitare l’anacronismo.

Io penso in definitiva che la storia sia la scienza del passato, a condizione di sapere che questo passato diventa oggetto della storia attraverso una ricostituzione incessantemente rimessa in causa. Non si può, per esempio, parlare di crociate come lo si sarebbe fatto prima del colonialismo del XIX secolo, ma occorre domandarsi se e in quali prospettive il termine ‘colonialismo’ si applichi all’insediarsi dei crociati del medioevo in Palestina [Prawer 1969-70].

Questa interazione tra passato e presente è ciò che è stato chiamato la funzione sociale del passato o della storia.

Cosí Lucien Febvre [1949]: la storia «raccoglie sistematicamente, classificando e raggruppando i fatti passati, in funzione dei suoi bisogni presenti. Solo in funzione della vita essa interroga la morte… Organizzare il passato in funzione del presente: tale si potrebbe definire la funzione sociale della storia» (trad. it. pp. 185-86). Ed Eric Hobsbawm si è interrogato sulla «funzione sociale del passato» [1972].

Si farà ora qualche esempio di come ciascuna epoca si fabbrica mentalmente la sua rappresentazione del passato storico.

Da Georges Duby [1973] viene risuscitata, ricreata la battaglia di Bouvines (27 luglio 1214), vittoria decisiva del re di Francia Filippo Augusto sull’imperatore Ottone IV e i suoi alleati. Orchestrata dagli storiografi francesi e divenuta leggendaria, la battaglia dopo il XIII secolo cade nell’oblio; poi conosce delle risurrezioni, nel XVII secolo perché si esaltano i ricordi della monarchia francese, sotto la Monarchia di luglio perché gli storici liberali e borghesi (Guizot, Augustin Thierry) vi scorgono l’alleanza benefica tra regalità e popolo, tra il 1871 e il 1914 come «prima vittoria dei Francesi sui Tedeschi»! Dopo il 1945 Bouvines cade nel disprezzo dell’histoire-bataille.

Nicole Loraux e Pierre Vidal-Naquet hanno mostrato come in Francia dal 1750 al 1850, da Montesquieu fino a Victor Duruy si costruisca una immagine «borghese» dell’Atene antica, le cui principali caratteristiche sarebbero state «rispetto della proprietà, rispetto della vita privata, fioritura del commercio, del lavoro, dell’industria», e dove si ritrovano anche le esitazioni della borghesia del XIX secolo: «Repubblica o Impero? Impero autoritario? Impero liberale? Atene assume simultaneamente tutte queste figure» [Loraux e Vidal-Naquet 1979, pp. 207-8, 222]. Tuttavia, Zvi Yavetz, domandandosi perché Roma era stata il modello storico della Germania all’inizio del XIX secolo, rispondeva: «Perché il conflitto tra signori e contadini prussiani, arbitrato dopo Jena (1806) dall’intervento riformista dello Stato sotto l’impulso degli statisti prussiani, forniva un modello che si credeva ritrovare nella storia della Roma antica: Niebuhr, autore della Römische Geschichte, apparsa nel 1811-12, era uno stretto collaboratore del ministro prussiano Stein» [1976, pp. 289-90].

Philippe Joutard [1977] ha seguito a passo a passo la memoria del sollevamento popolare dei camisardi ugonotti nelle Cevenne all’inizio del XVIII secolo. Nella storiografia scritta una svolta avviene verso il 1840. Fino ad allora gli storici, sia cattolici sia protestanti, non avevano che disprezzo per questa rivolta di contadini. Ma con l’Histoire des pasteurs du désert di Napoléon Peyrat (1843), Les Prophètes protestants di Ami Bost (1842) e poi con l’Histoire de France di Michelet (1833-67), si sviluppa una leggenda dorata dei camisardi, alla quale si oppone una leggenda nera cattolica. Questa opposizione si alimenta esplicitamente sulle passioni politiche della seconda metà del XIX secolo, facendo scontrare sostenitori del movimento e sostenitori dell’ordine, i quali fanno dei camisardi gli antenati di tutte le rivolte del XIX secolo, dei pionieri della «eterna armata del disordine», «i primi precursori dei demolitori della Bastiglia», i precursori dei comunardi e dei «socialisti attuali, loro discendenti diretti», con i quali «avrebbero reclamato il diritto al saccheggio, all’omicidio, all’incendio, in nome della libertà di sciopero». Tuttavia, in un altro tipo di memoria, trasmessa attraverso la tradizione orale, che secerne «un’altra storia», Philippe Joutard ha trovato una leggenda positiva e vivente dei camisardi, ma anch’essa agente in rapporto con il presente, che fa dei rivoltosi del 1702 «i laici e i repubblicani» della fine del regno di Luigi XIV. Poi il risveglio regionalista li trasforma in ribelli occitani e la Resistenza in maquisards.

È anche in funzione di posizioni e di idee contemporanee che è nata in Italia dopo la prima guerra mondiale una polemica sul medioevo (Falco, Severino). Recentemente ancora il medievalista Ovidio Capitani ha evocato la distanza e la prossimità del medioevo in una raccolta di saggi dal titolo significativo, Medioevo passato prossimo: «L’attualità del medioevo è questa: sapere di non poter fare a meno di cercare dio là dove non c’è… Il Medioevo è “attuale” proprio perché è passato: ma passato come elemento che si è attaccato alla nostra storia in maniera definitiva, per sempre, e ci obbliga a tenere conto, perché racchiude un formidabile complesso di risposte che comunque l’uomo ha dato e non può dimenticare, anche se ne ha verificato l’inadeguatezza. L’unica sarebbe abolire la storia…» [1979, p. 276].

Cosí la storiografia appare come un seguito di nuove letture del passato, piena di perdite e di risurrezioni, di vuoti di memoria e di revisioni. Questi aggiornamenti possono cosí influire sul vocabolario dello storico e, con anacronismi concettuali e verbali, falsare gravemente la qualità del suo lavoro. E cosí che in esempi concernenti la storia inglese ed europea tra il 1450 e il 1650, e a proposito di termini come ‘partito’, ‘classe’, ecc., Hexter ha reclamato una grande e rigorosa revisione del vocabolario storico.

Collingwood ha visto in questo rapporto tra il passato e il presente l’oggetto privilegiato della riflessione dello storico sul suo lavoro: «Il passato è un aspetto o una funzione del presente; è cosí che deve sempre apparire allo storico che riflette intelligentemente sul proprio lavoro o, in altri termini, guarda a una filosofia della storia» [cfr. Debbins 1965, p. 139].

Questo rapporto tra il presente e il passato nel discorso sulla storia è in ogni caso un aspetto essenziale del problema tradizionale della obiettività storica.

1.2. Sapere e potere: obiettività e manipolazione del passato.

Secondo Heidegger, la storia sarebbe non soltanto proiezione, da parte dell’uomo del presente, nel passato, ma proiezione della parte piú immaginaria del suo presente, la proiezione nel passato dell’avvenire che si è scelto, una storia romanzata, una storia-desiderio a ritroso. Paul Veyne ha ragione di condannare questo punto di vista e di dire che Heidegger «non fa che elevare a filosofia antintellettualista la storiografia nazionalista del secolo scorso». Ma non è forse ottimista quando aggiunge: «Cosí facendo, come la civetta di Minerva, egli si è risvegliato un po’ troppo tardi» [1968, p. 424]?

Anzitutto perché vi sono due storie almeno, e su questo ritornerò: quella della memoria collettiva e quella degli storici. La prima appare come essenzialmente mitica, deformata, anacronica. Ma essa è il vissuto di questo rapporto mai concluso tra il presente e il passato. È augurabile che l’informazione storica prodigata dagli storici di mestiere, volgarizzata dalla scuola e – almeno cosí dovrebbe essere – dai mass media, corregga questa storia tradizionale falsata. La storia deve rischiarare la memoria e aiutarla a rettificare i suoi errori. Ma lo storico stesso è indenne da una malattia se non del passato, quanto meno del presente e forse da una immagine inconscia di un futuro sognato?

Una prima distinzione deve essere fatta tra obiettività e imparzialità: «L’imparzialità è deliberata, l’obiettività inconsapevole. Lo storico non ha il diritto di perseguire una dimostrazione a dispetto delle testimonianze, di difendere una causa, qualunque essa sia. Egli deve stabilire e rendere manifesta la verità o ciò che crede essere la verità. Ma gli è impossibile essere obiettivo, fare astrazione dalle sue concezioni dell’uomo, specialmente quando si tratta di misurare l’importanza dei fatti e le loro relazioni causali» [Génicot 1980, p. 112].

Bisogna spingersi piú lontano. Se bastasse questa distinzione il problema dell’obiettività non sarebbe, secondo l’espressione di Carr, «a famous crux» che ha fatto versare molto inchiostro. [Si vedano specialmente Junker e Reisinger 1974; Leff 1969, pp. 120-29; Passmore 1958; Blake 1959].

Si segnaleranno anzitutto le incidenze dell’ambiente sociale sulle idee e i metodi dello storico. Wolfgang J. Mommsen ha rilevato tre elementi di questa pressione sociale: «1) L’immagine che di sé (self-image) ha il gruppo sociale del quale lo storico è l’interprete o al quale appartiene o è infeudato. 2) La sua concezione delle cause del mutamento sociale. 3) Le prospettive di mutamenti sociali a venire che lo storico giudica probabili o possibili e che orientano la sua interpretazione storica» [1978, p. 23].

Ma se non si può evitare ogni «presentismo» – ogni influenza deformante del presente sulla lettura del passato – se ne possono limitare le conseguenze nefaste per l’obiettività. Anzitutto, e ritornerò su questo punto capitale, perché esiste un corpo di specialisti abilitati a esaminare e giudicare la produzione dei loro colleghi. «Tucidide non è un collega», ha detto giudiziosamente Nicole Loraux [1980], mostrando che la sua Guerra del Peloponneso, benché si presenti a noi come un documento, che dà ogni garanzia di serietà al discorso storico, non è un documento nel senso moderno del termine, ma un testo, un testo antico, che è anzitutto un discorso appartenente anche all’ambito della retorica. Ma mostrerò piú avanti – come ben sa Nicole Loraux – che ogni documento è un monumento o un testo, e non è mai «puro», cioè puramente obiettivo. Resta il fatto che da quando vi è storia vi è accesso a un mondo di professionisti, esposizione alla critica degli altri storici. Quando un pittore dice del quadro di un altro pittore «È fatto male», uno scrittore dell’opera di un altro scrittore «È scritta male», nessuno s’inganna; ciò vuol dire soltanto «Non mi piace». Ma quando uno storico critica l’opera di un «collega» può certo ingannarsi e una parte del suo giudizio può dipendere dal suo gusto personale, ma la critica sarà fondata, almeno in parte, su criteri «scientifici». Dall’alba della storia è sul metro della verità che si giudica lo storico. A torto o a ragione Erodoto passa a lungo per «bugiardo» [Momigliano 1958; cfr. anche Hartog 1980] e Polibio nel libro XII delle sue Storie, nel quale espone le proprie idee sulla storia, attacca soprattutto un «confratello», Timeo.

Come ha detto Wolfgang J. Mommsen, le opere storiche, i giudizi storici sono «intersoggettivamente comprensibili» e «intersoggettivamente verificabili». Questa intersoggettività è costituita dal giudizio degli altri, e anzitutto da quello degli altri storici. Mommsen rileva tre modi di verifica: 1) sono state utilizzate fonti pertinenti e l’ultimo stadio della ricerca è stato preso in considerazione? 2) fino a che punto questi giudizi storici si sono avvicinati a una integrazione ottimale di tutti i dati storici possibili? 3) i modelli espliciti o soggiacenti di spiegazione sono rigorosi, coerenti e non contraddittori? [1978, p. 33]. Si potrebbero trovare anche altri criteri, ma la possibilità di un largo accordo degli specialisti sul valore di una gran parte di ogni opera storica è la prova prima della sua «scientificità» e la prima pietra di paragone dell’obiettività storica.

Se tuttavia si vuole applicare alla storia la massima del grande giornalista liberale Scott, «i fatti sono sacri, i giudizi sono liberi» [citato in Carr 1961, trad. it. p. 14], bisogna fare due rilievi. Il primo è che il campo dell’opinione è in storia meno vasto di quanto il profano creda, se si resta nel campo della storia scientifica (si parlerà piú avanti della storia dei dilettanti, degli «appassionati»); il secondo è che, in cambio, i fatti sono molto meno sacri di quanto non si creda, dato che se fatti ben stabiliti (per esempio la morte di Giovanna d’Arco sul rogo a Rouen nel 1431, della quale dubitano solo i mistificatori e gli ignoranti incalliti) non possono essere negati, in storia il fatto non è la base essenziale dell’obiettività, sia perché i fatti storici sono fabbricati e non dati, sia perché in storia l’obiettività non significa pura sottomissione ai fatti.

Sulla costruzione del fatto storico si troveranno delle messe a punto in tutti i trattati di metodologia storica [per esempio Salmon 1969, ed. 1976, pp. 46-48; Carr 1961, trad. it. pp. 11-35; Topolski 1973, parte V]. Si citerà solo Lucien Febvre nella sua celebre prolusione al Collège de France [1933]: «Non dato, ma creato dallo storico – e quante volte? Inventato e fabbricato per mezzo di ipotesi e di congetture, per mezzo di un lavoro delicato e appassionante… Elaborare un fatto significa costruirlo. Se si vuole, fornire la risposta a un problema. E, se non c’è il problema, ciò significa che non c’è niente» (trad. it. pp. 73-74). Non vi è fatto o fatto storico che all’interno di una storia-problema.

Che l’obiettività non sia la pura sottomissione ai fatti, ecco altre due testimonianze. Anzitutto Max Weber [1904]: «Un caos di “giudizi esistenziali” sopra infinite osservazioni particolari sarebbe il solo esito a cui potrebbe recare il tentativo di una conoscenza della realtà che fosse seriamente “priva di presupposti”» (trad. it. p. 92). Carr [1961] parla con humour del «feticismo dei fatti» degli storici positivisti del XIX secolo: «Ranke aveva una pia fiducia nel fatto che la divina provvidenza si sarebbe presa cura del senso della storia se egli si fosse preso cura dei fatti… La concezione della storia propria del liberalismo ottocentesco mostra strette affinità con la dottrina economica del laissezfaire… Era l’età dell’innocenza, e gli storici vagavano per il giardino dell’Eden… ignudi e senza vergogna dinanzi al dio della storia. Dopo di allora, abbiamo conosciuto il Peccato e abbiamo vissuto l’esperienza della Caduta: e gli storici che, al giorno d’oggi, fingono di fare a meno di una filosofia della storia [considerata qui nel senso di una riflessione critica sulla pratica storica], cercano semplicemente di ricreare, con l’artificiosa ingenuità dei membri di una colonia nudista, il giardino dell’Eden in un parco di periferia» (trad. it. pp. 24-25).

Se l’imparzialità non richiede da parte dello storico che onestà, l’obiettività vuole di piú. Se la memoria è un luogo del potere, se autorizza manipolazioni consapevoli o inconsapevoli, se obbedisce a interessi individuali o collettivi, la storia, come tutte le scienze, ha per norma la verità. Gli abusi della storia sono il fatto dello storico solo quando diventa egli stesso un partigiano, un politico o un valletto del potere politico [Schieder 1978; Faber 1978]. Quando Paul Valéry dichiara che «la storia è il prodotto piú pericoloso che la chimica dell’intelletto abbia elaborato… La storia giustifica ciò che si vuole. Essa non insegna rigorosamente nulla, perché contiene tutto e offre esempi di tutto» [1931, pp. 63-64], questo spirito, per altri versi cosí acuto, confonde la storia umana e la storia scientifica e mostra la sua ignoranza del lavoro storico.

Anche se mostra un po’ di ottimismo, Paul Veyne ha ragione quando scrive: «Significa non comprendere nulla della conoscenza storica e della scienza in generale non vedere che in essa è sottesa una norma di veracità… Assimilare la storia scientifica ai ricordi nazionali dai quali è uscita significa confondere l’essenza di una cosa con la sua origine; significa non distinguere la chimica dall’alchimia, l’astronomia dall’astrologia… Fin dal primo giorno… la storia degli storici si definisce contro la funzione sociale dei ricordi storici e si pone come appartenente a un ideale di verità e a un interesse di pura curiosità» [1968, p. 424].

Scopo ambizioso, l’obiettività storica si costruisce a poco a poco, attraverso le revisioni incessanti del lavoro storico, le laboriose rettifiche successive, l’accumulazione delle verità parziali. Sono stati forse due filosofi a esprimere meglio questa lenta marcia verso l’obiettività.

Paul Ricœur: «Noi ci aspettiamo dalla storia una certa obiettività, l’obiettività che le conviene; il modo in cui la storia nasce e rinasce ce lo attesta: essa procede sempre dalla rettifica della sistemazione ufficiale e pragmatica del loro passato operata dalle società tradizionali. Questa rettifica non ha uno spirito diverso da quello che la scienza fisica rappresenta nei confronti della prima sistemazione delle apparenze nella percezione e nelle cosmologie che le restano tributarie» [1955, pp. 24-25].

E Adam Schaff [1970]: «La conoscenza si configura… come un processo, infinito che, perfezionando il sapere sotto aspetti diversi e raccogliendo verità parziali, non produce una semplice somma di conoscenze, mutamenti solo quantitativi del sapere, ma anche, e necessariamente, modificazioni qualitative della nostra visione della storia» (trad. it. p. 254).

1.3. Il singolare e l’universale: generalizzazioni e regolarità della storia.

La piú flagrante contraddizione della storia è senza dubbio costituita dal fatto che il suo oggetto è singolare, un avvenimento, un seguito di avvenimenti, dei personaggi che non si producono che una sola volta, mentre il suo scopo, come quello di tutte le scienze, è di cogliere l’universale, il generale, il regolare.

Già Aristotele aveva respinto la storia dal novero delle scienze proprio perché si occupa del particolare, che non è oggetto di scienza. Ciascun fatto storico non è accaduto che una volta e non accadrà che una volta. Questa singolarità costituisce anche per molti – produttori e consumatori di storia – la sua principale attrazione: «Amare ciò che mai si vedrà due volte».

La spiegazione storica deve trattare oggetti «unici» [Gardiner 1952, II, 3]. Le conseguenze di questo riconoscimento della singolarità del fatto storico possono essere ridotte a tre; esse hanno avuto un ruolo considerevole nella storia della storia.

La prima è costituita dalla priorità dell’avvenimento. Se si pensa in effetti che il lavoro storico consiste nello stabilire degli avvenimenti, basta applicare ai documenti un metodo che dai medesimi faccia scaturire gli avvenimenti. Cosí Dibble [1963] ha distinto quattro tipi d’inferenza che portano dai documenti agli avvenimenti, in funzione della natura dei documenti, i quali possono essere: testimonianze individuali (testimony), fonti collettive (social bookkeeping), indicatori diretti (direct indicators), correlati (correlates). Questo eccellente metodo non ha che il torto di fissarsi un obiettivo contestabile. Vi è anzitutto una confusione tra avvenimento e fatto storico, e si sa oggi che lo scopo della storia non consiste nello stabilire quei dati falsamente «reali» che sono stati battezzati avvenimenti o fatti storici.

La seconda conseguenza della limitazione della storia alla singolarità sta nel privilegiare il ruolo degli individui e, piú particolarmente, dei grandi uomini. Edward H. Carr ha mostrato come questa tendenza risalga, nella tradizione occidentale, ai Greci, che hanno attribuito le loro piú antiche epopee e le loro prime leggi a individui ipotetici (Omero, Licurgo e Solone), e si sia rinnovata nel Rinascimento con la moda di Plutarco; egli ritrova poi ciò che chiama scherzosamente «la teoria del “cattivo re Giovanni” [senza Terra]» (the bad King John theory of history) nell’opera di Isaiah Berlin Historical Inevitability (1954) [Carr 1961, trad. it. p. 52]. Questa concezione, che è praticamente scomparsa dalla storia scientifica, resta sfortunatamente diffusa a opera dei volgarizzatori e dei media, a cominciare dagli editori. Non confondo la spiegazione volgare della storia come fatta dagli individui con il genere biografico, che – nonostante i suoi errori e le sue mediocrità – è uno dei generi maggiori della storia e ha prodotto dei capolavori storiografici come il Kaiser Friedrich der Zweite di Ernst Kantorowicz (1927-31). Carr ha ragione di rammentare ciò che Hegel diceva dei grandi uomini: «Gl’individui cosmico-storici sono… quelli che hanno voluto e realizzato non un oggetto della loro fantasia od opinione, ma una realtà giusta e necessaria: quelli che sanno, avendone avuto la rivelazione nel loro intimo, quel che è ormai il portato del tempo e della necessità» [Hegel 1805-31, trad. it. p. 88].

A dire il vero, come ha ben detto Michel de Certeau [1975], la specialità della storia è sí il particolare, ma il particolare, come ha mostrato Elton [1967], è differente dall’individuale e specifica sia l’attenzione che la ricerca storica, non in quanto esso sia oggetto pensato ma perché, al contrario, è il limite del pensabile.

La terza conseguenza abusiva tratta dal ruolo del particolare nella storia è stata di ridurla a una narrazione, a un racconto. Augustin Thierry, come ricorda Roland Barthes, è stato uno dei sostenitori – in apparenza tra i piú ingenui – di questa credenza nelle virtú del racconto storico: «È stato detto che lo scopo dello storico era quello di raccontare, non di provare; non so, ma sono certo che in storia il miglior genere di prova, il piú capace di colpire e di convincere gli spiriti, il genere che permette la minore diffidenza e lascia i minori dubbi, è la narrazione completa» [1840, ed. 1851, II, p. 227]. Ma che cosa vuol dire completa? Si tralasci il fatto che un racconto – storico o non – è una costruzione che, sotto un’apparenza onesta e obiettiva, procede da tutta una serie di scelte non esplicite. Ogni concezione della storia che la identifichi con il racconto mi pare oggi inaccettabile. Certo, la successività che costituisce la stoffa del materiale della storia obbliga ad accordare al racconto un posto che pare soprattutto di ordine pedagogico. È semplicemente la necessità in storia di esporre il come, prima di ricercare il perché, che pone il racconto alla base della logica del lavoro storico. Il racconto non è dunque che una fase preliminare, anche se ha richiesto allo storico un lungo lavoro preparatorio. Ma questo riconoscimento di un’indispensabile retorica della storia non deve condurre alla negazione del carattere scientifico della storia stessa.

In un libro affascinante, Hayden White [1973] ha considerato l’opera dei principali storici del secolo XIX come una pura forma retorica, un discorso narrativo in prosa. Per giungere a spiegare, o piuttosto per raggiungere un «effetto di spiegazione», gli storici hanno la scelta fra tre strategie: spiegazione mediante argomento formale, per intreccio (emplotment) e per implicazione ideologica. All’interno di queste vi sono quattro modi di articolazione possibili per raggiungere l’effetto esplicativo: per gli argomenti vi è il formalismo, l’organicismo, il meccanicismo e il contestualismo; per gli intrecci, il romanzo, la commedia, la tragedia e la satira; per l’implicazione ideologica, l’anarchismo, il conservatorismo, il radicalismo e il liberalismo. La combinazione specifica dei modi di articolazione ha per risultato lo «stile» storiografico dei singoli autori. Questo stile è ottenuto con un atto essenzialmente poetico, per il quale Hayden White utilizza le categorie aristoteliche della metafora, della metonimia, della sineddoche e dell’ironia. Egli applica questa griglia a quattro storici: Michelet, Ranke, Tocqueville e Burckhardt, e a quattro filosofi della storia: Hegel, Marx, Nietzsche e Croce.

Il risultato di questa indagine è anzitutto la constatazione che le opere dei principali filosofi della storia del XIX secolo differiscono da quelle dei loro corrispondenti nel campo della «storia propriamente detta» solo per l’enfasi, non per il contenuto. Risponderò subito a questa constatazione che Hayden White non ha fatto altro che scoprire la relativa unità di stile di un’epoca e ritrovare ciò che Taine aveva rilevato in una prospettiva ancora piú vasta per il XVII secolo: «Tra un pergolato di Versailles, un ragionamento filosofico di Malebranche, un precetto di versificazione di Boileau, una legge di Colbert sulle ipoteche, una sentenza di Bossuet sul regno di Dio, la distanza sembra infinita, i fatti sono cosí dissimili che al primo sguardo li si giudica isolati e separati. Ma i fatti comunicano tra loro attraverso la definizione dei gruppi nei quali sono compresi» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 72].

Vi è poi la caratterizzazione degli otto autori scelti nel modo seguente: Michelet è il realismo storico come romanzo, Ranke il realismo storico come commedia, Tocqueville il realismo storico come tragedia, Burckhardt il realismo storico come satira, Hegel la poetica della storia e la via al di là dell’ironia, Marx la difesa filosofica della storia secondo il modo metonimico, Nietzsche la difesa poetica della storia secondo il modo metaforico e Croce la difesa filosofica della storia secondo il modo ironico.

Quanto alle sette conclusioni generali sulla coscienza storica del XIX secolo, alle quali perviene Hayden White, esse possono riassumersi in tre idee: 1) non vi è alcuna differenza fondamentale tra storia e filosofia della storia; 2) la scelta delle strategie di spiegazione storica è di ordine morale o estetica piú che epistemologica; 3) la rivendicazione di una scientificità della storia non è che il travestimento di una preferenza per questa o quella modalità di concettualizzazione storica.

Infine, la conclusione piú generale – anche al di là della concezione della storia nel XIX secolo – è che l’opera dello storico è una forma di attività intellettuale al tempo stesso poetica, scientifica e filosofica.

Sarebbe troppo facile ironizzare – soprattutto a partire dallo scheletrico sunto che ho dato di un libro pieno di suggestive analisi di dettaglio – su questa concezione della «metastoria», sui suoi a priori e i suoi semplicismi.

Vi scorgo due possibilità interessanti di riflessione. La prima è che egli ha contribuito a chiarire la crisi dello storicismo alla fine del XIX secolo, della quale si parlerà piú avanti. La seconda è che egli permette di porre – su un esempio storico – il problema dei rapporti tra la storia come scienza, come arte e come filosofia.

Mi sembra che questi rapporti si definiscano anzitutto storicamente e che là dove Hayden White vede una specie di natura intrinseca, vi sia la situazione storica di una disciplina e che si possa dire sommariamente che la storia, intimamente mescolata fino alla fine del XIX secolo all’arte e alla filosofia, si sforzi e riesca parzialmente a essere sempre piú specifica, tecnica, scientifica e meno letteraria e filosofica.

Bisogna comunque rilevare che alcuni dei piú grandi storici di oggi rivendicano ancora per la storia il carattere di arte. Cosí Georges Duby: «Ritengo che la storia sia anzitutto un’arte, un’arte essenzialmente letteraria. La storia esiste solo con il discorso. Perché sia buona, bisogna che sia buono il discorso» [Duby e Lardreau 1980, p. 50]. Ma d’altronde egli afferma anche: «La storia, se deve essere, non può essere libera: può benissimo essere un modo del discorso politico, ma non deve essere una propaganda; può ben essere un genere letterario, ma non deve essere della letteratura» [ibid., pp. 15-16]. È dunque chiaro che l’opera storica non è un’opera d’arte come le altre, che il discorso storico ha la sua specificità.

La questione è stata ben posta da Roland Barthes: «La narrazione degli avvenimenti passati, sottoposta comunemente nella nostra cultura, a partire dai Greci, alla sanzione della “scienza” storica, collocata sotto la cauzione imperiosa del “reale”, giustificata da principî di esposizione “razionale”, differisce veramente per qualche tratto specifico, per una pertinenza indubitabile, dalla narrazione immaginaria quale si può trovare nell’epopea, nel romanzo, nel dramma?» [1967, p. 65]. Alla questione Emile Benveniste [1959] aveva risposto insistendo sull’intenzione dello storico: «L’enunciazione storica degli avvenimenti è indipendente dalla loro verità “oggettiva”. Conta soltanto l’intenzione “storica” dello scrittore» (trad. it. p. 298, nota 5).

La risposta di Roland Barthes, in termini di linguistica, è che «nella storia “oggettiva”, il “reale” non è mai che un significato informulato, protetto dietro l’onnipotenza apparente del referente. Questa situazione definisce ciò che si potrebbe chiamare l’effetto di reale… il discorso storico non segue da vicino il reale, non fa che significarlo, senza cessare di ripetere è accaduto, senza che questa asserzione possa mai essere altro che il significato inverso di tutta la narrazione storica» [1967, p. 74]. Barthes termina il suo intervento spiegando il decadere della storia-racconto, oggi, con la ricerca di una maggiore scientificità: «Cosí si comprende che la cancellazione (se non la scomparsa) della narrazione nella scienza storica attuale, che cerca di parlare delle strutture piú che delle cronologie, implica ben piú di un semplice cambiamento di scuole, una vera trasformazione ideologica: la narrazione storica muore perché il segno della storia è ormai meno il reale che l’intelligibile» [ibid., p. 75].

Su un’altra ambiguità del termine ‘storia’, che nella maggior parte delle lingue designa la scienza storica e un racconto immaginario, la storia e una storia (l’inglese, s’è detto, distingue story e history [cfr. Gallie 1963, pp. 150-72]), Paul Veyne ha fondato una visione originale della storia.

Per lui la storia è sí un racconto, una narrazione, ma è «racconto di avvenimenti veri» [1971, trad. it. p. 23]. Essa s’interessa a una forma particolare di singolarità, di individualità che è lo specifico: «La storia s’interessa ad avvenimenti individualizzati di cui nessuno è inutile ripetizione di un qualsiasi altro, è però vero anche che non è la loro individualità in quanto tale che la interessa. Essa cerca di comprenderli, vale a dire di ritrovarvi una sorta di generalità, o piú precisamente, di specificità» [ibid., p. 102]; e ancora: «La storia è la descrizione di ciò che è specifico – vale a dire comprensibile – negli avvenimenti umani» [ibid., p. 106]. La storia rassomiglia dunque a un romanzo. Essa è fatta di intrecci. Si vede ciò che questa nozione ha d’interessante nella misura in cui essa preserva la singolarità senza farla cadere nel disordine, rifiuta il determinismo ma implica una certa logica, valorizza il ruolo dello storico che «costruisce» il suo studio storico come un romanziere la sua «storia».

Agli occhi di chi scrive tale nozione ha il torto di far credere che lo storico abbia la stessa libertà del romanziere e che la storia non sia affatto una scienza, ma – per quante precauzioni prenda Veyne – un genere letterario; essa appare come una scienza che ha – il che è banale ma bisogna pur dirlo – sia i caratteri di tutte le scienze, sia dei caratteri specifici.

Una prima precisazione. Di fronte ai sostenitori della storia positivista che hanno creduto di poter bandire ogni immaginazione, e anche ogni «idea», dal lavoro storico, numerosi storici e teorici della storia hanno rivendicato e rivendicano ancora il diritto all’immaginazione.

William Dray ha anche definito la «rappresentazione immaginativa» (imaginative re-enactment) del passato come una forma di spiegazione razionale. La «simpatia» che permette di sentire e di far sentire un fenomeno storico non sarà dunque che un procedimento di esposizione [Dray 1957; cfr. Beer 1963]. Gordon Leff ha opposto la ricostruzione immaginativa dello storico al procedimento dello specialista delle scienze della natura: «Lo storico, a differenza di chi opera nel campo delle scienze naturali, deve crearsi il proprio quadro per valutare gli avvenimenti di cui si occupa; egli deve fare una ricostruzione immaginativa di ciò che, per sua natura, non era reale, ma era piuttosto contenuto in avvenimenti individuali. Deve astrarre il complesso di atteggiamenti, valori, intenzioni e convenzioni che fa parte delle nostre azioni per coglierne il significato» [1969, pp. 117-18].

Questo apprezzamento dell’immaginazione dello storico sembra insufficiente. Vi sono due specie d’immaginazione delle quali lo storico può fare sfoggio. Quella che consiste nell’animare ciò che è morto nei documenti e che fa parte del lavoro storico, poiché questo mostra e spiega le azioni degli uomini. È augurabile che s’incontri questa capacità d’immaginazione che rende concreto il passato, proprio come Georges Duby augurava talento letterario allo storico. Esso è ancor piú desiderabile poiché è necessario che lo storico dia prova di questa forma d’immaginazione che è l’immaginazione scientifica e che si manifesta, al contrario, con il potere di astrazione. Nulla qui distingue o deve distinguere lo storico dagli altri uomini di scienza. Egli deve lavorare sui suoi documenti con la stessa immaginazione dei matematici nei loro calcoli o del fisico e del chimico nelle loro esperienze. È una questione di stato d’animo e non si può che seguire Huizinga [1936] quando dichiara che la storia non è soltanto un ramo del sapere ma anche «una forma intellettuale per comprendere il mondo».

Per contro va deplorato che uno studioso come Raymond Aron, nella sua passione empiristica, abbia affermato che i concetti dello storico sono vaghi perché «nella misura in cui ci si avvicina al concreto si elimina la generalità» [1938a, p. 206]. I concetti dello storico sono, in effetti, non vaghi, ma spesso metaforici, perché devono precisamente rinviare sia al concreto, sia all’astratto, essendo la storia – come le altre scienze umane o sociali – una scienza non tanto del complesso, come si ama dire, quanto dello specifico, come sostiene Veyne.

La storia, come ogni scienza, deve dunque generalizzare e spiegare. Essa lo fa in modo originale. Secondo Gordon Leff, al pari di molti altri, il metodo di spiegazione in storia è essenzialmente deduttivo. «Non vi sarebbe storia, né discorso concettuale, senza generalizzazione… La comprensione storica non differisce per i processi mentali che sono inerenti a ogni ragionamento umano, ma per il suo statuto, che è quello di un sapere deduttivo piuttosto che dimostrabile» [1969, pp. 79-80]. Il significato in storia si pone sia con la messa in intelligibilità di un insieme di dati separati all’inizio, sia con una logica interna di ciascun elemento: «Il significato in storia è essenzialmente contestuale» [ibid., p. 57].

Infine, le spiegazioni in storia sono piú delle valutazioni che delle dimostrazioni, ma esse comprendono l’opinione dello storico in modo razionale, inerente al processo intellettuale di spiegazione: «Alcune forme di analisi causale sono chiaramente indispensabili a ogni tentativo di correlare degli avvenimenti; cosí come bisogna distinguere tra il caso e la necessità, lo storico deve decidere se ciascuna situazione è regolata da fattori a lungo termine o a breve termine. Ma, come le sue categorie, questi fattori sono concettuali. Essi non corrispondono a entità empiricamente confermate o infirmate. Per queste ragioni le spiegazioni dello storico sono piuttosto delle valutazioni» [ibid., pp. 97-98].

I teorici della storia si sono sforzati nel corso dei secoli d’introdurre grandi principî suscettibili di fornire delle chiavi generali dell’evoluzione storica. Le due principali nozioni avanzate sono state da una parte quella di un senso della storia, dall’altra quella di leggi della storia.

La nozione di un senso della storia si può scomporre in tre tipi di spiegazione: la credenza in grandi movimenti ciclici, l’idea di un fine della storia consistente nella perfezione di questo mondo, la teoria di un fine della storia collocato al di fuori della storia stessa [Beglar 1975]. Si può ritenere che le concezioni azteche o, in una certa misura, quelle di Arnold Toynbee, rientrino nella prima opinione, il marxismo nella seconda e il cristianesimo nella terza.

Nel cristianesimo viene a stabilirsi una grande frattura tra coloro che, con Agostino e l’ortodossia cattolica, fondandosi sull’idea delle due città – la città terrestre e la città celeste, esposta nel De civitate Dei – sottolineano l’ambivalenza del tempo della storia, presente tanto nel caos apparente della storia umana (Roma non è eterna e non è la fine della storia), quanto nel flusso escatologico della storia divina, e coloro che, con i millenaristi come Gioacchino da Fiore, cercano di conciliare la seconda e la terza concezione del senso della storia. La storia terminerebbe una prima volta con l’avvento di una terza età, regno dei santi sulla terra, prima di concludersi con la risurrezione della carne e il giudizio universale. È del XIII secolo l’opinione di Gioacchino da Fiore e dei suoi discepoli. Non si esce qui soltanto dalla teoria storica, ma anche dalla filosofia della storia, per entrare nella teologia della storia. Nel XX secolo il rinnovamento religioso ha generato in alcuni pensatori un recupero della teologia della storia. Il russo Berdjaev [1923] ha profetizzato che le contraddizioni della storia contemporanea farebbero posto a una nuova creazione congiunta dell’uomo e di Dio. Il protestantesimo del XX secolo ha visto affrontarsi diverse correnti escatologiche: per esempio, quella dell’«escatologia conseguente» di Schweizer, quella dell’«escatologia demitizzata» di Baltmann, quella dell’«escatologia realizzata» di Dodd, quella dell’«escatologia anticipata» di Cullmann. Riprendendo l’analisi di Agostino, lo storico cattolico Henri–Irénée Marrou [1968] ha sviluppato l’idea dell’ambiguità del tempo della storia: «È sufficiente spingere un po’ piú addentro l’analisi per far apparire l’ambivalenza radicale del tempo della storia… Questo tempo vissuto si rivela di natura molto piú complessa, ambivalente, ambigua di quanto non ne conveniva l’ottimismo dei moderni che… non volevano vedervi altro che un “fattore di progresso”, facendo del divenire un vero idolo… Tutto ciò che accade all’essere attraverso il divenire, è necessariamente votato alla degradazione, φθορά, e alla morte» (trad. it. p. 45).

Sulla concezione ciclica e sull’idea di decadenza, piú avanti, verrà esposto un campione di questa concezione, la filosofia della storia di Spengler.

Sull’idea di un fine della storia, consistente nella perfezione di questo mondo, la legge piú coerente che sia stata avanzata è quella di progresso. Per la nascita, il trionfo e la critica della nozione di progresso qui ci si limiterà a qualche annotazione sul progresso tecnologico [cfr. Gallie 1963, pp. 191-93].

Gordon Childe, dopo aver affermato che il lavoro dello storico consiste nel trovare un ordine nel processo della storia umana [1953, p. 5], e aver sostenuto che in storia non vi sono leggi ma una «sorta di ordine», ha preso come esempio di questo ordine la tecnologia. Esiste, a suo parere, un progresso tecnologico «dalla preistoria all’età del carbone», che consiste in una sequenza ordinata di avvenimenti storici. Ma Childe rammenta che in ciascuna fase il progresso tecnico è un «prodotto sociale» e se si cerca di analizzarlo da questo punto di vista ci si accorge che ciò che sembrava lineare è irregolare (erratic) e che, per spiegare «queste irregolarità e queste fluttuazioni», bisogna volgersi verso le istituzioni sociali, economiche, politiche, giuridiche, teologiche, magiche, i costumi e le credenze – che hanno agito come stimoli o come freni – in breve, verso tutta la storia nella sua complessità. Ma è legittimo isolare il campo della tecnologia e ritenere che il resto della storia agisca su di esso solo dall’esterno? La tecnologia non è una componente di un piú vasto insieme le cui parti non esistono se non per la scomposizione piú o meno arbitraria dello storico?

Questo problema è stato recentemente posto in modo rilevante da Bertrand Gille [1978, pp. VIII sgg.]. Egli propone la nozione di sistema tecnico, insieme coerente di strutture compatibili le une con le altre. Questi sistemi tecnico-storici rivelano un «ordine tecnico». Questo «modo di approccio del fenomeno tecnico» obbliga a un dialogo con gli specialisti degli altri sistemi: l’economista, il linguista, il sociologo, il politico, il giurista, il filosofo…

Da questa concezione scaturisce la necessità di una periodizzazione, dal momento che i sistemi tecnici si susseguono gli uni agli altri e la cosa piú importante è di comprendere, se non spiegare totalmente, i passaggi da un sistema tecnico a un altro. Cosí si pone il problema del progresso tecnico, nel quale d’altra parte Gille distingue tra il «progresso della tecnica» e il «progresso tecnico», che si contraddistingue per l’ingresso delle invenzioni nella vita industriale o corrente. Gille sottolinea inoltre che «la dinamica dei sistemi», cosí concepita, dà un nuovo valore a quelle che si chiamano, con espressione nello stesso tempo vaga e ambigua, le «rivoluzioni industriali».

Si trova cosí posto il problema che verrà considerato piú generalmente come il problema della rivoluzione in storia. Esso si è posto alla storiografia sia nel campo culturale (rivoluzione della stampa [cfr. McLuhan 1962; Eisenstein 1966], rivoluzioni scientifiche [cfr. Kuhn 1957]) sia nella storiografia [Fussner 1962; cfr. Nadel 1963], sia nel campo politico (rivoluzioni inglese del 1640, francese del 1789, russa del 1917).

Questi avvenimenti e la nozione stessa di rivoluzione hanno costituito ancora recentemente oggetto di animate controversie. Sembra che la tendenza attuale sia, da una parte, di porre il problema in correlazione con la problematica della lunga durata [cfr. Vovelle 1978] e, dall’altra, di vedere nelle controversie intorno a «la» rivoluzione o «le» rivoluzioni un campo privilegiato dei partiti presi ideologici e le scelte politiche del presente. «È uno dei terreni piú “sensibili” di tutta la storiografia» [Chartier 1978, p. 497].

Per quanto mi riguarda, ritengo che non vi siano in storia delle leggi paragonabili a quelle che sono state scoperte nel campo delle scienze della natura – opinione largamente diffusa oggi con il rifiuto dello storicismo e del marxismo volgare e la diffidenza nei confronti delle filosofie della storia. Molto dipende comunque dal significato che si attribuisce alle parole. Si riconosce, per esempio, oggi che Marx non ha formulato delle leggi generali della storia, ma che egli ha soltanto concettualizzato il processo storico unificando teoria (critica) e pratica (rivoluzionaria) [Lichtheim 1973]. Runciman ha giustamente detto che la storia, come la sociologia e l’antropologia, è «una consumatrice, non una produttrice di leggi» [1970, p. 10].

Ma di fronte alle affermazioni, spesso piú provocatorie che convinte, della irrazionalità della storia, è convinzione di chi scrive che il lavoro storico abbia come scopo di mettere della intelligibilità nel processo storico e che questa intelligibilità conduca al riconoscimento di regolarità nell’evoluzione storica.

È ciò che riconoscono i marxisti aperti, anche se hanno la tendenza a fare slittare il termine di ‘regolarità’ verso quello di ‘legge’ [cfr. Topolski 1973, trad. it. pp. 319-49].

Queste regolarità sono da riconoscere anzitutto all’interno di ciascuna serie studiata dallo storico, che la rende intelligibile scoprendovi una logica, un sistema, termine preferibile a intreccio, in quanto insiste piú sul carattere oggettivo che soggettivo dell’operazione storica. Esse devono poi essere riconosciute tra delle serie; da qui l’importanza del metodo comparativo in storia. Un proverbio dice: «Comparazione non è ragione», ma il carattere scientifico della storia risiede sia nella valorizzazione delle differenze sia in quella delle somiglianze, mentre le scienze della natura cercano di eliminare le differenze.

Il caso ha, naturalmente, un posto nel processo della storia e non ne turba le regolarità, poiché precisamente il caso è un elemento costitutivo del processo storico e della sua intelligibilità.

Montesquieu ha dichiarato che «se una causa particolare, come l’esito accidentale di una battaglia, ha condotto uno Stato alla rovina… esisteva una causa di carattere generale che provocò la caduta di quello Stato per colpa di un’unica battaglia» [citato in Carr 1961, trad. it. p. 108]; e Marx ha scritto in una lettera: «La storia universale avrebbe un carattere davvero mistico se essa escludesse il caso. Naturalmente anche il caso diventa a sua volta parte del generale processo di sviluppo ed è compensato da altre forme di causalità. Ma l’accelerazione e il ritardo dipendono da questi “accidenti”, che includono il carattere “casuale” degli individui che sono alla testa di un movimento nella sua fase iniziale» [ibid., pp. 108-9].

Si è tentato recentemente di valutare scientificamente la parte del caso in taluni episodi storici. Cosí Jorge Basadre [1973] ha studiato la serie delle probabilità nell’emancipazione del Perú. Egli ha utilizzato i lavori di Vendryès [1952] e di Bousquet [1967]. Quest’ultimo sostiene che lo sforzo per matematizzare il caso esclude tanto il provvidenzialismo che la credenza in un determinismo universale. A suo parere, il caso non ha parte né nel progresso scientifico né nell’evoluzione economica, e si manifesta come tendenza a un equilibrio che elimina non il caso stesso, ma le sue conseguenze. Le forme piú «efficaci» di caso nella storia sarebbero il caso meteorologico, l’assassinio, la nascita di geni.

Avendo cosí abbozzato la questione delle regolarità e della razionalità in storia, restano da considerare i problemi dell’unità e della diversità, della continuità e della discontinuità. Poiché questi problemi sono al centro stesso della crisi attuale della storia, essi verranno ripresi alla fine di questo articolo.

Ci si limiterà a dire che se lo scopo della vera storia è sempre stato quello di essere una storia globale o totale – integrale, perfetta, dicevano i grandi storici della fine del secolo XVI –, via via che essa si costituisce in un corpo di disciplina scientifica e scolastica, deve incanalarsi in categorie che, pragmaticamente, la frazionano. Queste categorie dipendono dall’evoluzione storica stessa: la prima parte del XX secolo ha visto nascere la storia economica e sociale, la seconda la storia delle mentalità. Alcuni, come Perelman [1969, p. 13], privilegiano le categorie periodologiche, altri le categorie schematiche. Ciascuna di esse ha la sua utilità, la sua necessità. Esse sono degli strumenti di lavoro e di esposizione. Non hanno alcuna realtà oggettiva, sostanziale. Cosí l’aspirazione degli storici alla totalità storica può e deve prendere forme diverse, che evolvono anch’esse con il tempo. Il quadro può essere costituito da una realtà geografica o da un concetto: cosí Fernand Braudel, prima con il Mediterraneo ai tempi di Filippo II, poi con la civiltà materiale e il capitalismo. Jacques Le Goff e Pierre Toubert [1975] hanno cercato, nel quadro della storia medievale, di mostrare come l’intento di una storia totale sembri oggi accessibile, in modo pertinente, attraverso oggetti globalizzanti costruiti dallo storico; per esempio, l’incastellamento, la povertà, la marginalità, l’idea di lavoro, ecc. Chi scrive non crede che il metodo degli approcci multipli – se non si alimenta a un’ideologia eclettica superata – sia dannoso al lavoro dello storico. Esso è talvolta piú o meno imposto dallo stato della documentazione, dato che ciascun tipo di fonte esige un trattamento differente all’interno di una problematica d’insieme. Studiando la nascita del purgatorio, dal III al XIV secolo in Occidente, il presente autore si è indirizzato tanto a testi teologici quanto a racconti di visioni, sia a exempla, sia a usi liturgici, sia a pratiche di devozione; e avrebbe fatto ricorso all’iconografia se proprio il purgatorio non fosse stato a lungo assente da essa. Sono stati analizzati talvolta pensieri individuali, talvolta mentalità collettive, talvolta il livello dei potenti, talaltra quello delle masse. Ma si è sempre avuto presente alla mente che, senza determinismo né fatalità, con lentezze, perdite, svolte, la credenza nel purgatorio si era incarnata in seno a un sistema e che questo aveva senso solo in relazione al suo funzionamento in una società globale [cfr. Le Goff 1981].

Uno studio monografico limitato nello spazio e nel tempo può essere un eccellente lavoro storico se pone un problema e si presta alla comparazione, se è condotto come un case study. Sembra condannata soltanto la monografia chiusa in se stessa, senza orizzonti, che è stata la figlia prediletta della storia positivista e non è affatto morta.

Per quanto concerne la continuità e la discontinuità, si è già parlato del concetto di rivoluzione. Giova insistere sul fatto che lo storico deve rispettare il tempo che, sotto diverse forme, è la stoffa della storia e che alle durate del vissuto deve far corrispondere i suoi quadri di spiegazione cronologica. Datare resta e resterà uno dei compiti e dei doveri fondamentali dello storico, ma la datazione deve accompagnarsi a un’altra manipolazione necessaria della durata, per renderla storicamente pensabile: la periodizzazione.

Gordon Leff l’ha ricordato con forza: «La periodizzazione è indispensabile a ogni forma di comprensione storica» [1969, p. 130], aggiungendo in modo assai pertinente: «La periodizzazione, come la storia stessa, è un processo empirico delineato dallo storico» [ibid., p. 150]. Si può aggiungere che non vi è storia immobile e che la storia non è nemmeno il cambiamento puro, ma che è lo studio dei cambiamenti significativi. La periodizzazione è lo strumento principale d’intelligibilità dei cambiamenti significativi.

2. La mentalità storica: gli uomini e il passato.

È già stato fornito qualche esempio del modo nel quale gli uomini costruiscono e ricostruiscono il loro passato. Piú generalmente, interessa ora il posto del passato nelle società. Viene accolta qui l’espressione ‘cultura storica’, impiegata da Bernard Guenée [1980]. Sotto questo termine Guenée raccoglie piú cose: da una parte, il bagaglio professionale degli storici, la loro biblioteca di opere storiche; dall’altra, il pubblico e l’uditorio degli storici. Va aggiunto il rapporto che, nella sua psicologia collettiva, una società intrattiene con il suo passato. La concezione di chi scrive non è molto lontana da ciò che gli Anglosassoni chiamano historical mindedness. Sono noti i rischi di questa riflessione: considerare come unità una realtà complessa e strutturata, se non in classi quanto meno in categorie sociali distinte per i loro interessi e la loro cultura, supporre uno «spirito del tempo» (Zeitgeist), cioè un inconscio collettivo; si tratta di pericolose astrazioni. Tuttavia, le inchieste e i questionari utilizzati nelle società «sviluppate» di oggi mostrano che è possibile accostarsi al modo di sentire dell’opinione pubblica di un paese verso il suo passato e altri fenomeni e problemi [cfr. Lecuir 1981]. Poiché queste inchieste sono impossibili per il passato, ci si sforzerà qui di caratterizzare – senza dissimulare la parte che di arbitrario e semplificatorio vi è in questa domanda – l’atteggiamento dominante in un certo numero di società storiche di fronte al loro passato e alla storia. Si prenderanno come interpreti di questa opinione collettiva soprattutto gli storici, sforzandosi di distinguere tra ciò che in loro deriva da idee personali e ciò che viene dalla mentalità comune. Chi scrive sa bene di confondere ancora passato e storia nella memoria collettiva e deve dunque aggiungere qualche spiegazione supplementare che preciserà le sue idee sulla storia.

La storia della storia dovrebbe preoccuparsi non soltanto della produzione storica professionale, ma di tutto un insieme di fenomeni che costituiscono la cultura, o meglio la mentalità storica di un’epoca. Uno studio dei manuali scolastici di storia ne è un aspetto privilegiato, ma questi manuali non esistono praticamente che dal XIX secolo. Lo studio della letteratura e dell’arte può essere illuminante a questo proposito. Il posto di Carlomagno nelle chansons de geste, la nascita del romanzo nel XII secolo e il fatto che questa nascita si sia prodotta nella forma del romanzo storico (argomento antico: cfr. il n. 238 della «Nouvelle Revue Française», Le roman historique, 1972), l’importanza delle opere storiche nel teatro di Shakespeare [Driver 1960] testimoniano del gusto di talune società storiche per il loro passato. Nel quadro di una recente esposizione di un grande pittore del XV secolo, Jean Fouquet, Nicole Reynaud ha mostrato [1981] come, accanto all’interesse per la storia antica, segno del Rinascimento (miniature delle Antiquités judaïques, della Histoire ancienne, del Tite-Live), Fouquet manifesti un pronunziato gusto per la storia moderna (Heures d’Etienne Chevalier, Tapisserie di Tormisuy, Grandes Chroniques de France, ecc.). Bisognerebbe aggiungervi lo studio dei nomi, delle guide di pellegrini e dei turisti, delle incisioni, della letteratura divulgativa, dei monumenti, ecc. Marc Ferro [1977] ha mostrato come il cinema abbia aggiunto una nuova fonte capitale per la storia, il film, precisando d’altronde giustamente che il cinema è «agente e fonte della storia». Ciò è vero per l’insieme dei media, il che basta a spiegare come il rapporto degli uomini con la storia abbia compiuto con i moderni media (stampa di massa, cinema, radio, televisione) un balzo considerevole. È questo allargamento della nozione di storia (nel senso di storiografia) che Santo Mazzarino ha accolto nel suo grande studio Il pensiero storico classico [1966]. Mazzarino ricerca di preferenza la mentalità storica negli elementi etnici, religiosi, irrazionali, nei miti, nelle fantasie poetiche, nelle storie cosmogoniche, ecc. Ne risulta anche una nuova concezione dello storico, che Arnaldo Momigliano ha ben definito: «Lo storico non è per Mazzarino essenzialmente un professionale ricercatore della verità sul passato, ma piuttosto un rabdomantico, “profetico” interprete del passato condizionato dalle sue opinioni politiche, dalla fede religiosa, da caratteristiche etniche e infine, ma non esclusivamente, dalla situazione sociale. Ogni rievocazione poetica o mitica o utopica o altrimenti fantastica del passato rientra nella storiografia» [1967, ed. 1969 p. 61].

Anche in questo caso bisogna distinguere. L’oggetto della storia della storia è certamente questo senso diffuso del passato, che riconosce nelle produzioni dell’immaginario una delle principali espressioni della realtà storica, e particolarmente il loro modo di reagire di fronte al loro passato. Ma questa storia indiretta non è la storia degli storici, la sola che abbia vocazione scientifica. Lo stesso dicasi della memoria. Cosí come il passato non è la storia, ma il suo oggetto, la memoria non è la storia, ma, insieme, uno dei suoi oggetti e un livello elementare di elaborazione storica. La rivista «Dialectiques» ha pubblicato (1980) un numero speciale dedicato ai rapporti fra la memoria e la storia: Sous l’histoire, la mémoire. Lo storico inglese Ralph Samuel, uno dei principali iniziatori degli «History Workshop», dei quali si parlerà in seguito, vi espone considerazioni ambigue sotto un titolo non meno ambiguo: Déprofessionnaliser l’histoire [1980]. Se con questo vuol dire che il ricorso alla storia orale, alle autobiografie, alla storia soggettiva allarga la base del lavoro scientifico, modifica l’immagine del passato, dà la parola ai dimenticati della storia, allora ha perfettamente ragione e sottolinea uno dei grandi progressi della produzione storica contemporanea. Se invece vuol mettere sullo stesso piano «produzione autobiografica» e «produzione professionale», quando aggiunge che «la pratica professionale non costituisce né un monopolio né una garanzia» [ibid., p. 16], allora il pericolo mi pare rilevante. Quello che è vero – e su questo si tornerà – è che le fonti tradizionali dello storico non sono spesso piú «obiettive» – in ogni caso non piú «storiche» – di quanto lo storico creda. La critica delle fonti tradizionali è insufficiente, ma il lavoro dello storico deve esercitarsi sulle une e sulle altre. Una scienza storica autogestita non solo sarebbe un disastro, ma è anche priva di senso. Questo perché la storia, anche se vi perviene solo approssimativamente, è una scienza e dipende da un sapere che si acquista professionalmente. Certo, la storia non ha raggiunto il grado di tecnicità delle scienze della natura o della vita. E non mi auguro che lo raggiunga, affinché possa restare piú facilmente comprensibile e anche controllabile dal maggior numero di persone. La storia – sola tra tutte le scienze? – ha già la fortuna (o la sfortuna) di poter essere fatta dignitosamente dagli amatori. In effetti, essa ha bisogno di volgarizzatori, e gli storici di mestiere non sempre si degnano di accedere a questa funzione comunque essenziale e degna, della quale si sentono incapaci; ma l’era dei nuovi media moltiplica il bisogno e le occasioni di mediatori semiprofessionali. Non è il caso di aggiungere che piace a chi scrive leggere romanzi storici, quando sono ben fatti e scritti, riconoscendo agli autori la libertà di fantasia che loro appartiene. Salvo naturalmente, se si chiede il parere dello storico, segnalare le libertà che si sono presi con la storia. E perché non un settore letterario di storia-finzione nel quale, rispettando i dati di base della storia – costumi, istituzioni, mentalità – fosse possibile ricrearla giocando sul caso e sull’événementiel? Vi sarebbe il duplice piacere della sorpresa e del rispetto di ciò che vi è di piú importante in storia. Per questo mi è piaciuto il romanzo di Jean d’Ormesson La gloire de l’empire, che riscrive con talento e sapere la storia bizantina. Non un intrigo che scivoli negli interstizi della storia – come Ivanhoe, The Last Days of Pompei, Quo vadis?, Les trois mousquetaires, ecc. –, ma l’invenzione di un nuovo corso degli avvenimenti politici a partire dalle strutture fondamentali della società.

Ma devono tutti diventare storici? Non si vuole il potere per gli storici al di fuori del loro territorio, cioè il lavoro storico e le sue ripercussioni sulla società globale, in particolare l’insegnamento. Ciò che dev’essere superato è l’imperialismo della storia nei campi delle scienze e della politica. Agli inizi del secolo XIX la storia non contava quasi nulla. Lo storicismo, nelle sue diverse forme, ha voluto farne tutto. La storia non deve reggere le altre scienze, e ancor meno la società. Ma, come il fisico, il matematico, il biologo – e, in altro modo, gli specialisti di scienze umane e sociali – lo storico deve essere ascoltato per la sua parte, cioè una branca fondamentale del sapere.

Come i rapporti tra memoria e storia, cosí anche le relazioni tra passato e presente non devono condurre alla confusione o allo scetticismo. Si sa ora che il passato dipende parzialmente dal presente. Ogni storia è contemporanea nella misura in cui il passato è colto nel presente e risponde dunque agli interessi di questo. Ciò non è soltanto inevitabile, ma anche legittimo. Poiché la storia è durata, il passato è al tempo stesso passato e presente. Spetta allo storico fare uno studio «obiettivo» del passato nella sua duplice forma. Certo, impegnato com’è egli stesso nella storia, non potrà giungere a una vera «obiettività», ma nessun altro tipo di storia è possibile. Lo storico compirà ancora dei progressi nella comprensione della storia, sforzandosi di mettere in causa se stesso, proprio come un osservatore scientifico tiene conto delle modificazioni che eventualmente apporta all’oggetto in osservazione. È ben noto, per esempio, che i progressi della democrazia inducono a ricercare sempre piú il posto degli «umili» nella storia, a porsi al livello della vita quotidiana, e questo s’impone, secondo modalità diverse, a tutti gli storici. È anche noto che l’evoluzione del mondo porta a porre l’analisi delle società in termini di potere, e questa problematica è cosí entrata nella storia. Si sa pure che la storia si fa piú o meno nello stesso modo nei tre grandi gruppi di paesi che esistono oggi nel mondo: il mondo occidentale, il mondo comunista, il Terzo Mondo. I rapporti tra le produzioni storiche di questi tre insiemi dipendono certamente dai rapporti di forza e dalle strategie politiche internazionali, ma si sviluppa anche, in una prospettiva scientifica comune, un dialogo tra specialisti, tra uomini di mestiere. Questo quadro professionale non è puramente scientifico o piuttosto, come per tutti gli uomini di scienza, richiede un codice morale, ciò che Georges Duby chiama un’etica [Duby e Lardreau 1980, pp. 15-16] e chi scrive, piú «obiettivamente», una deontologia. Su questo punto non è necessario insistere, pur considerandolo essenziale: basti constatare che, nonostante qualche deviazione, questa deontologia esiste e bene o male funziona.

La cultura (o la mentalità) storica non dipende soltanto dai rapporti memoria-storia, presente-passato. La storia è scienza del tempo. Essa è strettamente legata alle differenti concezioni del tempo che esistono in una società e sono elemento essenziale dell’apparato mentale dei suoi storici. Si ritornerà sulla concezione di un contrasto nell’antichità, e nel pensiero stesso degli storici, tra una nozione circolare e una nozione lineare del tempo. È stato giustamente ricordato agli storici che la loro propensione a non considerare che un tempo «cronologico» dovrebbe far posto a maggiori inquietudini, se tenessero conto degli interrogativi filosofici sul tempo. L’ammissione che Agostino ne fa è rappresentativa: «Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so» [Confessioni, XI, 14, 17; cfr. Starr 1966]. Elizabeth Eisenstein [1966], riflettendo sul celebre libro di Marshall McLuhan The Gutenberg Galaxy [1962], insiste sulla dipendenza delle concezioni del tempo dal rapporto con i mezzi tecnici di registrazione e trasmissione dei fatti storici. Essa vede nella stampa la nascita di un tempo nuovo, quello dei libri, che segnerebbe la rottura nelle relazioni tra Clio e Chronos. Questa concezione riposa sull’opposizione tra orale e scritto. Storici ed etnologi hanno rivolto l’attenzione all’importanza del passaggio dallo scritto all’orale. Anche Jack Goody [1977] ha mostrato come le culture dipendano dai loro mezzi di traduzione, essendo l’avvento della literacy legato a una mutazione profonda di una società. Egli ha d’altronde rettificato qualche luogo comune sul «progresso» che segue il passaggio dall’orale allo scritto. Lo scritto sarebbe apportatore di una maggiore libertà, mentre l’orale condurrebbe a un sapere meccanico, mnemonico, intangibile. Ora, lo studio della tradizione in un ambiente orale mostra che gli specialisti di questa tradizione possono introdurre innovazioni, mentre la scrittura può al contrario presentarsi con un carattere «magico» che la rende piú o meno intoccabile. Non bisogna dunque opporre una storia orale, intesa come storia della fedeltà e dell’immobilismo, a una storia scritta identificata con la malleabilità e il perfettibile. Studiando il passaggio dal ricordo memorizzato al documento scritto nell’Inghilterra medievale, Clanchy [1979] ha anche messo in evidenza che l’essenziale non è tanto il ricorso allo scritto quanto il cambiamento della natura e della funzione dello scritto, il trasformarsi dello scritto da tecnica sacra in pratica utilitaria, la conversione di una produzione scritta di élite e memorizzata in una produzione scritta di massa, fenomeno generalizzatosi in Occidente solo nel XIX secolo, ma le cui origini risalgono ai secoli XII-XIII.

A proposito della coppia orale-scritto, anch’essa fondamentale per la storia, si faranno due considerazioni. È chiaro che il passaggio dall’orale allo scritto è importante tanto per la memoria quanto per la storia. Ma non bisogna dimenticare 1) che oralità e scrittura coesistono in generale nelle società e che questa coesistenza è assai importante per la storia; 2) che la storia, se ha conosciuto con la scrittura una tappa decisiva, non è nata con essa, poiché non vi è società senza storia.

Quanto alle «società senza storia», si faranno due esempi. Da una parte quello di una società «storica» che taluni considerano refrattaria al tempo e non suscettibile di essere analizzata e compresa in termini storici: l’India. Dall’altra, quello delle società dette «preistoriche» o «primitive».

La tesi astorica sull’India è stata sostenuta nel modo piú brillante da Louis Dumont [1962]. Egli ricorda che Hegel e Marx hanno considerato la storia dell’India come un caso a sé, l’hanno messa praticamente fuori della storia. Hegel giudicava le caste indú il fondamento di una «differenziazione indistruttibile»; Marx riteneva che, diversamente dallo sviluppo occidentale, l’India fosse caratterizzata da un «ristagno», ristagno di una economia naturale – in opposizione all’economia mercantile – alla quale si sovrimponeva un «dispotismo» (trad. it. p. 49). L’analisi di Dumont porta a conclusioni molto vicine a quelle di Marx, ma mediante considerazioni differenti e piú precise. Dopo aver facilmente respinto l’opinione dei marxisti volgari che vogliono ricondurre il caso dell’India all’immagine semplicistica di un’evoluzione millenaria, Dumont mostra che «lo sviluppo indiano, straordinariamente precoce, si arresta presto e non fa esplodere il suo proprio quadro, la forma di integrazione non è quella che, a torto o a ragione, noi identifichiamo con la nostra storia» (ibid., p. 64). Louis Dumont scorge la causa di questo blocco in due fenomeni del lontano passato dell’India, la secolarizzazione precoce della funzione regale e l’affermazione – altrettanto precoce – dell’individuo. Cosí «la sfera politico-economica, privata dei valori per la secolarizzazione iniziale della funzione regale, è rimasta subordinata alla religione» [ibid.]. In tal modo l’India si è arrestata a una struttura immobile di caste nella quale l’uomo gerarchico [cfr. Dumont 1966] si differenzia radicalmente dall’uomo delle società occidentali, che potrebbe chiamarsi per contrasto uomo storico. Infine, Dumont considera «la trasformazione contemporanea» dell’India, rilevando che non può essere decifrata alla luce di concetti validi per l’Occidente, e sottolineando in particolare il fatto che l’India è riuscita a liberarsi dalla dominazione straniera «con il minimo di modernizzazione» [1962, trad. it. p. 75]. Chi scrive non ha la competenza necessaria per discutere le idee di Dumont; s’accontenterà di segnalare che la sua tesi non nega l’esistenza di una storia indiana, ma ne rivendica la specificità. Di essa viene qui accolta, piú che il rifiuto, divenuto oggi banale, di una concezione unilineare della storia, la messa in evidenza di lunghe fasi temporali senza evoluzione significativa in talune società e la resistenza di certi tipi di società al mutamento.

Lo stesso sembra possa dirsi per le società preistoriche e «primitive». Per quel che riguarda le prime, un grande specialista come André Leroi-Gourhan [1974] ha sottolineato che le incertezze relative alla loro storia derivano in particolare dall’insufficienza delle ricerche: «È evidente che se negli ultimi cinquant’anni si fosse praticata l’analisi esaustiva anche solo di una cinquantina di località ben scelte, oggi disporremmo dei materiali di una storia sostanziale per un certo numero delle tappe dell’evoluzione culturale dell’umanità» (trad. it. p. 71). Henri Moniot [1974] notava: «C’era l’Europa, ed era tutta la storia. A monte e a distanza, alcune “grandi civiltà”, che i loro testi, le loro rovine, talvolta i loro legami di parentela, di scambio o d’eredità con l’antichità classica, nostra madre, o l’ampiezza delle masse umane che avevano opposto ai poteri e allo sguardo europeo, facevano ammettere ai confini dell’impero di Clio. Il resto: tribú senza storia, secondo il giudizio unanime dell’uomo della strada, dei manuali e dell’università». E aggiungeva: «Le cose sono cambiate. Negli ultimi dieci o quindici anni, ad esempio, l’Africa nera entra in forze nel campo degli storici» (trad. it. p. 73). Henri Moniot spiega e definisce questa storia africana che resta da fare. La decolonizzazione la permette perché i nuovi rapporti d’inuguaglianza fra ex colonizzatori e colonizzati «non annientano piú la storia» e le società prima dominate si applicano a un «tentativo di riprendere possesso di sé» che «porta a riconoscere le eredità» [ibid., p. 75]. Storia che beneficia dei nuovi metodi delle scienze umane (storia, etnologia, sociologia) e che ha il vantaggio di essere «una scienza sul terreno», che utilizza ogni sorta di documenti e specialmente il documento orale.

Un’ultima opposizione si presenta nel campo della cultura storica che mi sforzo di mettere in luce, quella tra mito e storia. È utile distinguere qui due casi. Si possono studiare nelle società storiche la nascita di nuove curiosità storiche, le cui origini ricorrono spesso al mito. Cosí nell’Occidente medievale quando i lignaggi nobili, le nazioni o le comunità urbane si preoccupano di darsi una storia, è spesso cominciando da antenati mitici che inaugurano le genealogie, da eroi fondatori leggendari: i Franchi pretendono di discendere dai Troiani, la famiglia dei Lusignano dalla fata Melusina, i monaci di Saint-Denis attribuiscono la fondazione della loro abbazia a Dionigi l’Areopagita, l’ateniese convertito da san Paolo. Si vede molto bene in questi casi in quali condizioni storiche questi miti sono nati e fanno dunque parte della storia.

Il problema è piú difficile quando si tratta delle origini delle società umane o delle società dette «primitive». La maggior parte di queste società ha spiegato la propria origine con miti e si è generalmente ritenuto che una fase decisiva dell’evoluzione di queste società consistesse nel passaggio dal mito alla storia.

Daniel Fabre [1978] ha mostrato come il mito, in apparenza «refrattario all’analisi storica», sia recuperabile dalla storia perché «si è costituito da qualche parte in un periodo storico preciso». Oppure, come ha detto Lévi-Strauss, il mito recupera e ristruttura le sopravvivenze desuete di «sistemi sociali antichi», o la lunga vita culturale dei miti permette attraverso la letteratura di farne una «selvaggina per lo storico», come, per esempio, attraverso il teatro tragico della Grecia antica, Vernant e Vidal-Naquet [1972] hanno fatto per i miti ellenici. Come ha detto Marcel Detienne: «Alla storia événementielle dell’antiquario e del cenciaiolo, che attraversano la mitologia con un gancio alla mano, felici di scovare qua e là un lembo di arcaismo o il ricordo fossilizzato di qualche avvenimento “reale”, l’analisi strutturale dei miti – delineando talune forme invarianti attraverso contenuti differenti – oppone una storia globale che si iscrive nella lunga durata, attinge al di sotto delle espressioni coscienti e reperisce sotto l’apparente movenza delle cose le grandi correnti inerti che la attraversano in silenzio…» [1974, p. 74].

Cosí il mito, nelle prospettive della nuova problematica storica, non è solamente oggetto di storia, ma allunga verso le origini il tempo della storia, arricchisce i metodi dello storico e alimenta un nuovo livello di storia, la storia lenta.

Sono stati giustamente sottolineati i rapporti che esistono tra l’espressione del tempo nei sistemi linguistici e la concezione, al di là del tempo della storia, che avevano (o che hanno) i popoli che utilizzano tali logiche. Uno studio esemplare di tale problema è quello di Emile Benveniste intitolato Les relations de temps dans le verbe français [1959]. Uno studio preciso dell’espressione grammaticale del tempo nei documenti utilizzato dallo storico e nel racconto storico stesso reca preziose informazioni all’analisi storica. André Miquel [1977] ne ha offerto un notevole esempio nel suo studio di un racconto delle Mille e una notte, dove ha potuto ritrovare come griglia sottostante il racconto la nostalgia delle origini dell’Islam arabo.

Resta il fatto che l’evoluzione delle concezioni del tempo è di grande importanza per la storia. Il cristianesimo ha segnato una svolta nella storia e nel modo di scrivere la storia, perché ha combinato almeno tre tempi: il tempo circolare della liturgia, legata alle stagioni e che recuperava il calendario pagano, il tempo cronologico lineare, omogeneo e neutro, calcolato col computo, e il tempo lineare teleologico, o tempo escatologico. L’illuminismo e l’evoluzionismo hanno costruito l’idea di un progresso irreversibile che ha avuto la piú grande influenza sulla scienza storica del XIX secolo, lo storicismo in particolare. I lavori dei sociologi, dei filosofi, degli artisti, dei critici letterari hanno avuto nel XX secolo un impatto considerevole su nuove concezioni del tempo che la scienza storica ha accolto. Cosí l’idea della molteplicità dei tempi sociali, elaborata da Maurice Halbwachs [1925; 1950], è stata il punto di partenza della riflessione di Fernand Braudel [1958] espressa nell’articolo fondamentale sulla «lunga durata», che propone allo storico di distinguere fra tre velocità storiche, quelle del «tempo individuale», del «tempo sociale» e del «tempo geografico». Tempo rapido e agitato dell’événementiel e del politico, tempo intermedio dei cicli economici ritmanti l’evoluzione delle società, tempo molto lento, «quasi immobile», delle strutture. O ancora il senso della durata espresso in un’opera letteraria come quella di Marcel Proust e che certi filosofi e critici propongono alla riflessione degli storici [Jauss 1955; Kracauer 1966]. Quest’ultimo orientamento sottende una delle tendenze attuali della storia, quella che si preoccupa di una storia del vissuto.

Come ha detto Georges Lefebvre [1945-46], «per noi che siamo occidentali, la storia, come quasi tutto il nostro pensiero, è stata creata dai Greci» (trad. it. p. 32).

Tuttavia, per limitarsi ai documenti scritti, le piú antiche tracce della preoccupazione di lasciare alla posterità testimonianze del passato si scaglionano dall’inizio del IV all’inizio del i millennio a.C. e concernono, da una parte, il Medio Oriente (Iran, Mesopotamia, Asia Minore) e dall’altra la Cina. Nel Medio Oriente la preoccupazione di perpetuare avvenimenti datati sembra soprattutto legata alle strutture politiche: all’esistenza di uno Stato e piú particolarmente di uno Stato monarchico. Iscrizioni che descrivono le campagne militari e le vittorie dei sovrani, lista regale sumerica (circa il 2ooo a.C.), annali dei re assiri, gesta dei re dell’Iran antico che si ritrovano nelle leggende regali della tradizione medo-persiana antica [cfr. Christensen 1936], archivi reali di Mari (XIX secolo a.C.), di Ugarit a Rās Šamra, di attuša a Boazköy (XV-XIII secolo a.C.). Cosí il tema della gloria regale e del modello regale hanno svolto spesso una funzione decisiva alle origini delle storie dei differenti popoli e civiltà. Pierre Gilbert [1979] ha sostenuto che, nella Bibbia, la storia appare insieme con la dignità regale, lasciando d’altronde intravedere, intorno ai personaggi di Samuele, Saul e David, una corrente promonarchica e una antimonarchica [cfr. Hölscher 1942]. Quando i cristiani creeranno una storia cristiana, insisteranno sull’immagine di un re-modello, l’imperatore Teodosio il Giovane, il cui τόπος s’imporrà nel medioevo, per esempio ai personaggi di Edoardo il Confessore e di san Luigi [Chesnut 1978, pp. 223-41].

Piú generalmente, è alla struttura dello Stato e all’immagine dello Stato che sarà spesso unita l’idea della storia, alla quale si opporrà, positivamente o negativamente, l’idea di una società senza Stato e senza storia. Non si ritrova forse una manifestazione di questa storia legata allo Stato nel romanzo autobiografico di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli? L’intellettuale antifascista piemontese, nel suo esilio nel Mezzogiorno, si scopre un odio per Roma comune con i contadini abbandonati dallo Stato e scivola in una condizione di astoricismo, di memoria immobile: «Chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, – ricorda fin dalle prime pagine, – mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte».

Delle mentalità storiche non occidentali si dirà quindi assai poco; non vorrei ridurle a stereotipi e lasciar credere che, come nel caso della indiana (e tra l’altro, come si è visto, bisogna intendersi sull’idea di una civiltà indiana «fuori della storia»), esse si sarebbero rinchiuse in una tradizione sclerotizzata, poco penetrabile allo spirito storico.

Si consideri il caso ebraico. È chiaro che, per ragioni storiche, nessun popolo ha sentito maggiormente la storia come destino, ha vissuto la storia come dramma dell’identità collettiva. Tuttavia, il senso della storia ha conosciuto in passato presso gli ebrei importanti vicissitudini e la creazione dello stato d’Israele ha condotto gli ebrei a una rivalutazione della loro storia [cfr. Ferro 1981]. Per limitarsi al passato, ecco quanto afferma Butterfield: «Nessuna nazione, nemmeno l’Inghilterra con la Magna Charta, è stata tanto ossessionata dalla storia, e non è strano che gli antichi ebrei abbiano mostrato potenti doti narrative e siano stati i primi a produrre una specie di storia nazionale, i primi a tracciare la storia dell’umanità dai tempi della creazione. Essi hanno raggiunto un’alta qualità nella costruzione del puro racconto, specialmente nel racconto di avvenimenti relativamente recenti, come nel caso della morte di David e della successione al suo trono. Dopo l’Esodo essi si sono concentrati piú sulla Legge che sulla storia, volgendo la loro attenzione verso la speculazione sul futuro, e in particolare sulla fine dell’ordine terreno. In un certo senso hanno perduto il contatto con la terra. Ma solo lentamente hanno smarrito il loro talento per la narrazione storica, come si vede dal primo libro dei Maccabei, prima dell’era cristiana, e dagli scritti di Flavio Giuseppe del I secolo d. C.» [1973, p. 466]. Ma se questa fuga nel diritto e l’escatologia non sono state inutili, è comunque necessario introdurre delle sfumature. Ecco, per esempio, ciò che dice Robert R. Geis dell’immagine della storia nel Talmūd: «Il III secolo segna una svolta nell’insegnamento della storia. Ne sono causa, da una parte, il miglioramento della situazione degli ebrei grazie alla concessione del diritto di cittadinanza romana nel 212 e la pacificazione che ne seguí, dall’altra l’influsso sempre piú marcato delle scuole babilonesi, attraverso il quale la rappresentazione del fine ultimo della storia si allontana notevolmente da un atteggiamento di interesse verso le cose terrene. Ma come la credenza biblica nell’aldiqua è rimasta riconoscibile nonostante tutti gli sviluppi posteriori, cosí è rimasta l’immagine della storia dei primi maestri, i tannāīm. La rinunzia alla storia non sarà affatto definitiva. Ciò che rabbī Meir (130-160) dice nella sua interpretazione di Roma non è mai stato abbandonato: “Verrà giorno in cui la supremazia sarà resa al suo possessore (Koh. r. i) per il compimento del regno di Dio su questa terra”» [1955, p. 124].

Come l’India, come il popolo ebraico e – lo si vedrà piú avanti – come l’Islam, anche la Cina sembra avere avuto una sorta di senso precoce della storia, in seguito piuttosto rapidamente bloccato. Ma Jacques Gernet ha contestato che i fenomeni culturali che hanno fatto credere in una cultura storica molto antica possano considerarsi senso della storia. Dalla prima metà del i millennio a.C. appaiono raccolte di documenti classificati secondo l’ordine cronologico come gli Annali di Lou e il Chou King. A partire da Ssu–ma Ch’ien, soprannominato «l’Erodoto cinese», si sviluppano storie dinastiche secondo il medesimo schema: si tratta di raccolte di atti solenni riuniti in ordine cronologico: «La storia cinese è un mosaico di documenti» [Gernet 1959, p. 32]. Si ha dunque l’impressione che molto presto i Cinesi abbiano compiuto due gesti costitutivi del procedimento storico: raccogliere gli archivi, datare i documenti. Tuttavia, se si esaminano la natura e la funzione di questi testi e le attribuzioni dei personaggi che ne sono i produttori o i custodi, un’altra immagine appare. La storia in Cina è strettamente legata alla scrittura: «Non vi è storia, nel senso cinese del termine, che di ciò che è scritto» [ibid.]. Ma questi scritti non hanno una funzione di memoria, ma una funzione rituale, sacra, magica. Sono dei mezzi di comunicazione con le potenze divine. Sono stesi «affinché gli dèi li osservino» e diventino cosí efficaci, in un eterno presente. Il documento non è fatto per servire da prova, ma per diventare un oggetto magico, un talismano. Non è prodotto per essere dedicato agli uomini, ma agli dèi. La data non ha altro scopo che quello di indicare il carattere fasto o nefasto del tempo della produzione del documento: «Essa non segna un momento, ma un aspetto del tempo» [ibid., p. 40]. Gli annali non sono documenti storici, ma scritti rituali, «lungi dall’implicare la nozione di un divenire umano, essi notano corrispondenze che sono valide per sempre» [ibid.]. Il Grande Scriba che li conserva non è un archivista, ma un sacerdote del tempo simbolico, che ha cura anche del calendario. All’epoca degli Han lo storico di corte è un mago, un astronomo, che stabilisce con precisione il calendario.

Tuttavia, l’utilizzazione da parte degli storici attuali di questi falsi archivi non è soltanto un’astuzia della storia, che mostra come il passato sia creazione costante della storia. I documenti cinesi rivelano un senso e una funzione differente della storia secondo le civiltà, e l’evoluzione della storiografia cinese, sotto i Sung per esempio, e il suo rinnovamento con il regno di Ch’ien Lung – del quale è testimonianza l’opera assai originale di Chang Hsüeh-ch’eng – mostra che la cultura storica cinese non è stata immobile [cfr. Gardner 1938; Hölscher 1942].

L’Islam favorí dapprima un tipo di storia fortemente legato alla religione, e piú particolarmente all’epoca del suo fondatore, Maometto, e al Corano. La storia araba ha come culla Medina e come motivazione la raccolta dei ricordi delle origini destinati a diventare «un deposito sacro e intangibile». Con la conquista, la storia assume un duplice carattere: quello di una storia del califfato, di natura annalistica, e di una storia universale, della quale il grande esempio è la storia di a-abarī e di al-Masūdī, scritta in arabo e di ispirazione sciita [Miquel 1968, trad. it. p. 177]. Tuttavia, nella grande raccolta delle opere delle vecchie culture (indiana, iraniana, greca) a Baghdād, al tempo degli Abbasidi, gli storici greci sono dimenticati. Nei territori degli Zeugiti e degli Ayyubiti (Siria, Palestina, Egitto), nel secolo XII la storia domina la produzione letteraria, specialmente con la biografia. La storia è fiorente anche alla corte mongola, presso i Mamelucchi, sotto la dominazione turca. Della personalità di Ibn Khaldūn si parlerà a parte (cfr. qui p. 70). Se Ibn Khaldūn domina con il suo genio gli storici e i geografi musulmani del basso medioevo, la sua filosofia della storia è fondamentalmente quella dei suoi contemporanei, segnata dalla nostalgia per l’unità dell’Islam, dall’ossessione del declino. Tuttavia, la storia non occupò mai nel mondo musulmano il posto privilegiato che si conquistò invece in Europa e nell’Occidente. Essa rimase «cosí fortemente accentrata sul fenomeno della rivelazione coranica, della sua avventura nel corso dei secoli e degli innumerevoli problemi che essa pose, da sembrare oggi non aprirsi che con difficoltà, se non con reticenza, a un tipo di studi e di metodi storici ispirati all’Occidente» [Miquel 1967, p. 461]. Se per gli ebrei la storia ebbe il ruolo di fattore essenziale d’identità collettiva – ruolo svolto dalla religione nell’Islam – per gli Arabi e i musulmani la storia è stata soprattutto «nostalgia del passato», l’arte e la scienza del rimpianto [cfr. Rosenthal 1952 e i testi che presenta]. Resta il fatto che se l’Islam ha avuto un altro senso della storia rispetto all’Occidente, non ha conosciuto gli stessi sviluppi metodologici in storia, e il caso di Ibn Khaldūn è particolare [cfr. Spuler 1955].

Il sapere occidentale considera dunque la storia nata con i Greci. Essa è legata a due motivazioni principali. L’una è di ordine etnico. Si tratta di distinguere i Greci dai barbari. Alla concezione della storia è unita l’idea di civiltà. Erodoto prende in considerazione i Libici, gli Egiziani e soprattutto gli Sciti e i Persi, e getta su di loro uno sguardo da etnografo. Per esempio, gli Sciti sono dei nomadi – e il nomadismo è difficile da pensare. Al centro di questa geostoria vi è la nozione di frontiera: civiltà da questa parte, barbarie dall’altra. Gli Sciti che hanno attraversato la frontiera e hanno voluto ellenizzarsi – civilizzarsi – sono stati uccisi dai loro perché i due mondi non possono mescolarsi. Gli Sciti non sono che uno specchio nel quale i Greci si vedono alla rovescia [Hartog 1980].

L’altro stimolo della storia greca è la politica legata alle strutture sociali. Finley rileva che non vi è storia in Grecia prima del V secolo a.C. Non annali comparabili a quelli dei re di Assiria, non interesse da parte di poeti e filosofi, non archivi. È l’epoca dei miti, fuori del tempo, trasmessi oralmente. Nel V secolo la memoria nasce dall’interesse delle famiglie nobili (e regali) e dei sacerdoti dei templi come quelli di Delfo, Eleusi e Delo.

Dal canto suo, Santo Mazzarino ritiene che il pensiero storico sia nato ad Atene negli ambienti dell’orfismo, nel quadro di una reazione democratica contro la vecchia aristocrazia, in particolare la famiglia degli Alcmeonidi, e che «la storiografia nasca entro una setta religiosa, ad Atene, anziché tra i liberi pensatori della Ionia» [Momigliano 1967, ed. 1969 p. 63]. «L’orfismo aveva… esaltato, attraverso la figura di Phlyos, il ghénos per eccellenza avverso agli Alcmeonidi: il ghénos da cui poi nacque Temistocle, l’uomo della flotta ateniese… La rivoluzione ateniese contro la parte conservatrice della vecchia aristocrazia terriera partí certamente, già verso il 630 a.C., dalle nuove esigenze del mondo commerciale, e marinaro, che faceva capo alla città… La “profezia sul passato” era l’arma principale della lotta politica» [Mazzarino 1966, I, pp. 32-33].

La storia, arma politica. Questa motivazione, infine, assorbe la cultura storica greca poiché l’opposizione ai barbari non è che un altro modo di esaltare la città; elogio della città che suggerisce d’altronde ai Greci l’idea d’un certo progresso tecnico: «L’orfismo, che aveva dato il primo impulso al pensiero storico, aveva “scoperto”, anche, l’idea stessa di progresso tecnico, nella maniera in cui essa fu concepibile per i Greci. Dei Nani dell’Ida, scopritori della metallurgia o “arte (téchne) di Efesto”, aveva parlato già la poesia epica di spiriti piú o meno orfici (la Foronide)» [ibid., p. 240].

Cosí, quando scomparve l’idea di città, scomparve anche la coscienza della storicità. I sofisti, conservando l’idea del progresso tecnico, respinsero ogni nozione di progresso morale, ridussero il divenire storico alla violenza individuale, lo sbriciolarono in un agglomerato di «aneddoti scabrosi». È l’affermazione di una antistoria che non considera piú il divenire come una storia, come una successione intelligibile di avvenimenti, ma come un insieme di atti contingenti, opera di individui o di gruppi isolati [Châtelet 1962, trad. it. pp. 5-61].

La mentalità storica romana non si presenta molto differente da quella greca, che d’altronde l’ha formata. Polibio, il greco che iniziò i Romani al pensiero storico, vede nello spirito romano la dilatazione dello spirito della città, e di fronte ai barbari gli storici romani esalteranno la civiltà incarnata da Roma, la stessa che Sallustio esalta di fronte a Giugurta, l’africano che ha preso da Roma solo i mezzi per combatterla, la stessa che Livio illustra di fronte ai popoli selvaggi d’Italia e ai Cartaginesi, questi stranieri che hanno cercato di ridurre i Romani in schiavitú, come i Persiani avevano fatto con i Greci, che Cesare incarna contro i Galli, che Tacito sembra abbandonare nel suo risentimento antimperiale per ammirare i buoni selvaggi bretoni e germani, che egli vede in definitiva con i tratti degli antichi, virtuosi, romani di prima della decadenza. La mentalità storica romana è in effetti – come sarà piú tardi l’islamica – dominata dal rimpianto delle origini, il mito della virtú degli antichi, la nostalgia dei costumi ancestrali, del mos maiorum. L’identificazione della storia con la civiltà greco-romana non è temperata che dalla credenza nel decadimento, della quale Polibio ha fatto una teoria fondata sulla somiglianza tra le società umane e gl’individui. Le istituzioni si sviluppano, declinano e muoiono come gl’individui, perché anch’esse sottoposte alle «leggi della natura»; cosí anche la grandezza romana perirà. Di questa teoria si ricorderà Montesquieu. La lezione della storia per gli antichi si riassume in definitiva in una negazione della storia. Ciò che essa lascia di positivo sono gli esempi degli antenati, eroi e grandi uomini. Bisogna combattere la decadenza riproducendo individualmente le grandi gesta degli antenati, ripetendo i modelli eterni del passato. La storia, fonte di exempla, non è lontana dalla retorica, dalle tecniche di persuasione. Essa ricorre dunque volentieri alle arringhe, ai discorsi. Ammiano Marcellino, alla fine del IV secolo, riassume nel suo stile barocco e con il suo gusto per lo stravagante e il tragico, i tratti essenziali della mentalità storica antica. Questo siriano idealizza il passato, evoca la storia romana attraverso exempla letterari e ha come unico orizzonte – benché abbia viaggiato in gran parte dell’impero, a eccezione della Bretagna, della Spagna e dell’Africa del Nord a ovest dell’Egitto – Roma aeterna [cfr. Momigliano 1974].

Il cristianesimo è stato visto come una rottura, una rivoluzione nella mentalità storica. Dando alla storia tre punti fissi – la creazione, inizio assoluto della storia, l’incarnazione, inizio della storia cristiana e della storia della salvezza, il giudizio universale, fine della storia – il cristianesimo avrebbe sostituito alle concezioni antiche di un tempo circolare la nozione di un tempo lineare, avrebbe orientato la storia e dato a essa un senso. Sensibile alle date, esso cerca di datare la creazione, i principali punti di riferimento dell’Antico Testamento, data il piú precisamente possibile la nascita e la morte di Gesú. Religione storica, ancorata alla storia, il cristianesimo avrebbe impresso alla storia in Occidente un impulso decisivo. Guy Lardreau e Georges Duby hanno anche recentemente insistito sul legame tra cristianesimo e sviluppo della storia in Occidente. Guy Lardreau ha ricordato le parole di Marc Bloch: «Il cristianesimo è una religione di storici», e aggiunto: «Sono convinto, semplicemente, che noi facciamo della storia perché siamo cristiani». Al che Georges Duby risponde: «Avete ragione, vi è una maniera cristiana di pensare, che è la storia. La scienza storica non è forse cosa occidentale? Che cos’è la storia in Cina, nelle Indie, nell’Africa nera? L’Islam ha avuto mirabili geografi, ma gli storici?» [Duby e Lardreau 1980, pp. 138-39]. Il cristianesimo ha sicuramente favorito una certa propensione a ragionare in termini storici, caratteristici delle abitudini di pensiero occidentali, ma lo stretto rapporto tra il cristianesimo e la storia sembra debba essere sfumato. Anzitutto, studi recenti hanno mostrato che non bisogna ridurre la mentalità storica antica – e soprattutto greca – all’idea di un tempo circolare [Momigliano 1966b; Vidal-Naquet 1960]. Dal canto suo, il cristianesimo non può essere ridotto alla concezione di un tempo lineare: un tipo di tempo circolare, il tempo liturgico, svolge un ruolo di primo piano. La sua supremazia ha a lungo ridotto il cristianesimo a datare soltanto giorni e mesi, senza menzionare l’anno, in modo da integrare l’avvenimento nel calendario liturgico. D’altra parte, il tempo teleologico, escatologico, non conduce necessariamente a una valorizzazione della storia. Si può ritenere che la salvezza avvenga tanto fuori della storia, con il rifiuto della storia, quanto attraverso la storia e per la storia. Le due tendenze sono esistite e esistono ancora nel cristianesimo. Se l’Occidente ha accordato un’attenzione speciale alla storia, ha particolarmente sviluppato la mentalità storica e attribuito un posto importante alla scienza storica, è in ragione dell’evoluzione sociale e politica. Assai presto taluni gruppi sociali e politici e gli ideologi dei sistemi politici hanno avuto interesse a pensarsi storicamente e a imporre quadri di pensiero storico. Come si è visto, questo interesse è apparso dapprima nel Medio Oriente e in Egitto, presso gli ebrei, poi presso i Greci. È soltanto perché è stato a lungo l’ideologia dominante in Occidente che il cristianesimo gli ha fornito talune forme di pensiero storiche. Quanto alle altre civiltà, se sembrano dare un posto minore allo spirito storico è, da una parte, perché viene riservato il nome di storia a concezioni occidentali e non vengono riconosciuti come tali altri modi di pensare la storia e, dall’altra, perché le condizioni sociali e politiche che hanno favorito lo sviluppo della storia in Occidente non si sono sempre prodotte altrove.

Resta il fatto che il cristianesimo ha dato importanti elementi alla mentalità storica, anche al di fuori della concezione agostiniana della storia (cfr. oltre, pp. 68-69), che ha avuto grande influenza nel medioevo e piú tardi. Anche storici cristiani orientali hanno avuto un’influenza importante sulla mentalità storica, non soltanto in Oriente, ma anche, indirettamente, in Occidente. È il caso di Eusebio di Cesarea, di Socrate lo Scolastico, di Evagrio, di Sozomeno, di Teodoreto di Ciro. Essi credevano nel libero arbitrio (Eusebio e Socrate erano anche origenisti) e pensavano dunque che il cieco destino, il fatum, non aveva una funzione nella storia, a differenza di quanto credevano gli storici greco-romani. Per loro il mondo era governato dal λόγος o ragione divina (altrimenti definita Provvidenza), che delineava la struttura di tutta la natura e di tutta la storia: «Si poteva dunque analizzare la storia e considerare la logica interna alla concatenazione dei suoi avvenimenti» [Chesnut 1978, p. 244]. Nutrito di cultura antica, questo umanismo storico cristiano aveva accolto la nozione di Fortuna per spiegare gli «accidenti» della storia. Il carattere fortuito della vita umana si ritrovava in storia e dava origine, in particolare, all’idea della ruota della fortuna, cosí popolare nel medioevo, e che introduceva un altro elemento circolare nella concezione della storia. I cristiani conservarono cosí due idee essenziali del pensiero storico pagano, ma trasformandole profondamente: l’idea dell’imperatore, ma sul modello di Teodosio il Giovane, fu l’immagine di un imperatore per metà guerriero, per metà monaco; l’idea di Roma, ma respingendo sia l’idea del declino di Roma sia quella della Roma eterna. Il tema di Roma divenne nel medioevo sia il concetto di un sacro impero romano al tempo stesso cristiano e universale [cfr. Falco 1942], sia l’utopia di una Europa degli Ultimi Giorni, i sogni chiliastici di un imperatore della fine dei tempi.

Al pensiero storico cristiano l’Occidente deve ancora due idee che ebbero fortuna nel medioevo: il quadro, mutuato agli ebrei, da una cronaca universale [cfr. Brincken 1957; Krüger 1976]; l’idea di tipi privilegiati di storia: biblica (cfr. Historia scholastica di Pietro Mangiadore, c. 1170) ed ecclesiastica.

Si parlerà ora di qualche tipo di mentalità e di pratica storiche legato a taluni interessi sociali e politici in diversi periodi della storia occidentale.

Alle due grandi strutture sociali e politiche del medioevo, la feudalità e la città, sono legati due fenomeni di mentalità storica: le genealogie e la storiografia urbana. A questo bisogna aggiungere – nella prospettiva di una storia nazionale monarchica – le cronache regali, tra le quali le piú importanti furono, dopo la fine del XII secolo, le Grandes Chroniques de France, «alle quali i Francesi credettero come alla Bibbia» [Guenée 1980, p. 339].

L’interesse che hanno le grandi famiglie di una società a stabilire le loro genealogie quando le strutture sociali e politiche hanno raggiunto un certo stadio, è cosa nota. Già le prime righe della Bibbia svolgono la litania delle genealogie dei patriarchi. Nelle società dette «primitive» le genealogie sono spesso la prima forma di storia, il prodotto del momento in cui la memoria mostra la tendenza a organizzarsi in serie cronologiche. Georges Duby ha mostrato come nel secolo XI – e soprattutto nel XII – i signori, grandi e piccoli, abbiano patrocinato in Occidente, soprattutto in Francia, una abbondante letteratura genealogica «per innalzare la reputazione del loro lignaggio, piú precisamente per appoggiare la loro strategia matrimoniale e poter cosí contrarre piú lusinghiere alleanze» [ibid., p. 64; cfr. anche Duby 1967]. A maggior ragione le dinastie regnanti fecero stabilire genealogie immaginarie o manipolate per affermare il loro prestigio e la loro autorità. Cosí i Capetingi riuscirono nel XII secolo a ricollegarsi ai Carolingi [Guenée 1978]. Cosí l’interesse dei principi e dei nobili produsse una memoria organizzata intorno alla discendenza delle grandi famiglie [cfr. Génicot 1975]. La parentela diacronica diventa un principio di organizzazione della storia. Caso particolare: quello del papato, il quale, quando si afferma la monarchia pontificia, sente il bisogno di avere una sua storia, che non può evidentemente essere dinastica, ma che vuole distinguersi dalla storia della Chiesa [Paravicini-Bagliani 1976].

Dal canto loro, le città, quando si sono costituite in organismi politici coscienti della loro forza e del loro prestigio, hanno voluto anch’esse elevare questo prestigio esaltando la loro antichità, la gloria delle loro origini e dei loro fondatori, le gesta dei loro antichi figli, i momenti eccezionali nei quali erano state favorite dalla protezione di Dio, della Vergine, dei loro santi patroni. Alcune di queste storie acquistarono un carattere ufficiale, autentico. Cosí, il 3 aprile 1262 la cronaca del notaio Rolandino, letta pubblicamente nel chiostro di Sant’Urbano di Padova davanti ai maestri e agli studenti dell’università, assunse il carattere di storia vera della città e della comunità urbana [Arnaldi 1963, pp. 85-107]. Firenze dà lustro alla sua fondazione attribuendola a Giulio Cesare [Rubinstein 1942; Del Monte 1950]. Genova possedeva una sua storia autentica fin dal XII secolo [Balbi 1974]. È naturale che la Lombardia, regione di importanti città, abbia conosciuto una fiorente storiografia urbana [Martini 1970]. È naturale che nessuna città del medioevo abbia avuto maggior interesse di Venezia per la sua storia. Ma l’autostoriografia veneziana medievale ha conosciuto molte vicissitudini rivelatrici. Dapprima, si registra un netto contrasto tra la storiografia antica, che riflette piú le divisioni e le lotte interne della città che l’unità e la serenità finalmente conquistate: «La storiografia… rifletterà una realtà in movimento, le lotte e le conquiste parziali che la segnano, una o piú forze che in essa agiscono; e non con la serenità soddisfatta di chi contempla un processo compiuto» [Cracco 1970, pp. 45-46]. D’altra parte, gli annali del doge Andrea Dandolo alla metà del secolo XIV acquistarono una tale fama da far dimenticare la storiografia veneziana anteriore [Fasoli 1970, pp. 11-12]. È l’inizio della «pubblica storiografia» o «storiografia comandata», che culmina ai primi del XVI secolo con i diari di Marin Sanudo il Giovane.

Il Rinascimento è una grande epoca per la mentalità storica. Essa è segnata dall’idea di una storia nuova, globale, la storia perfetta, e da importanti progressi di metodo, di critica storica. Dai suoi rapporti ambigui con l’antichità (al tempo stesso modello paralizzante e pretesto ispirante), la storia dell’umanesimo e del Rinascimento assume un duplice e contraddittorio atteggiamento verso la storia.

Da una parte, il senso delle differenze e del passato, della relatività delle civiltà, ma anche la ricerca dell’uomo, di un umanismo e di un’etica nelle quali la storia, paradossalmente, si fa magistra vitae, negando se stessa, fornendo esempi e lezioni atemporalmente valide [cfr. Landfester 1972]. Nessuno meglio di Montaigne [1580-92] ha saputo esprimere questo punto ambiguo per la storia: «Gli storici sono quelli che mi vanno piú a genio: sono piacevoli e facili;… l’uomo in generale, che io cerco di conoscere, vi appare piú vivo e piú completo che in ogni altro luogo, la varietà e verità delle sue tendenze interiori all’ingrosso e al minuto, la diversità dei modi della sua complessione e degli accidenti che lo minacciano» (trad. it. p. 537). Non stupisce quindi che Montaigne dichiari che in fatto di storia il «suo uomo» è Plutarco, oggi considerato un moralista piú che uno storico.

D’altra parte, la storia stringe alleanza, in questo periodo, con il diritto e questa tendenza culmina con l’opera del protestante François Baudoin, allievo del grande giurista Dumoulin, De institutione historiae universae et eius cum jurisprudentia conjunctione (1561). Lo scopo di quest’alleanza è l’unione del reale con l’ideale, del costume con la moralità. Baudoin si accompagnerà ai teorici che sognano una storia «integrale», ma la visione della storia resta «utilitaria» [Kelley 1970]. È utile ricordare qui le ripercussioni, nel XVI e all’inizio del XVII secolo, di uno dei piú importanti fenomeni di questo periodo: la scoperta e la colonizzazione del Nuovo Mondo. Si menzioneranno due soli esempi, l’uno attinto ai colonizzati, l’altro ai colonizzatori. In un libro pionieristico, La vision des vaincus, Nathan Wachtel ha studiato [1971] la reazione della memoria india alla conquista spagnola del Perú. Wachtel ricorda anzitutto che la conquista non colpisce una società senza storia: «Non si può pensare a cattivi geni nella storia: ogni avvenimento si produce in un campo già costituito, fatto di istituzioni, di costumi, di significati e di tracce multiple che resistono e insieme forniscono l’appiglio all’azione umana» (trad. it. pp. 330-31). Il risultato della conquista sembra essere, da parte degli Indi, la perdita dell’identità. La morte degli dèi e dell’Inca, la distruzione degli idoli costituiscono per gli Indi «un trauma collettivo», nozione assai importante in storia, che a parere di chi scrive deve prendere posto tra le forme principali di discontinuità storica: i grandi avvenimenti – rivoluzioni, conquiste, sconfitte – sono risentiti come «traumi collettivi». A questa destrutturazione i vinti reagiscono inventando una «prassi di ristrutturazione», la cui principale espressione è all’occorrenza «la Danza della Conquista»: si tratta di una «ristrutturazione danzata, di tipo immaginifico, perché le altre forme di prassi falliscono» [ibid., pp. 327-28]. Wachtel fa qui un’importante riflessione sulla razionalità storica: «Quando parliamo di una logica o di una razionalità della storia, ciò non significa che pretendiamo definire leggi matematiche, necessarie, valide per tutte le società come se la storia obbedisse a un determinismo naturale; ma la combinazione dei fattori che costituiscono il non-cronachistico dell’avvenimento, disegna un paesaggio originale, diverso, sostenuto da un insieme di meccanismi e di regolarità, insomma una coerenza – di cui spesso i contemporanei non sono consci – la cui restituzione si rivela indispensabile per la comprensione dell’avvenimento» [ibid., p. 329]. Questa concezione permette allora a Wachtel di definire la coscienza storica dei vincitori e dei vinti: «La storia sembra allora razionale soltanto ai vincitori, mentre i vinti la vivono come irrazionalità e come alienazione» [ibid., p. 331]. Ma un’ultima astuzia della storia appare; al posto di una vera storia, i vinti si costituiscono una tradizione come «mezzo di rifiuto». Una storia lenta dei vinti è cosí una forma di opposizione, di resistenza, alla storia rapida dei vincitori, e, paradossalmente, «nella misura in cui i resti dell’antica civilizzazione inca hanno attraversato i secoli per giungere fino ai nostri giorni, si può dire che anche questo tipo di rivolta, questa impossibile prassi ha, in un certo senso, trionfato» [ibid., p. 336]. Doppia lezione per lo storico: da una parte, la tradizione è certamente storia; spesso, anche se sceglie relitti di un passato lontano, è una costruzione storica relativamente recente, reazione a un traumatismo politico e culturale e piú spesso a tutti e due insieme; dall’altra, questa storia lenta, che si ritrova nella cultura «popolare», è in effetti una sorta di antistoria nella misura in cui si oppone alla storia ostentata e animata dai dominatori.

Bernadette Bucher, attraverso lo studio dell’iconografia della collezione «Les Grands Voyages», pubblicata e illustrata dalla famiglia De Bry tra il 1590 e il 1634, ha definito i rapporti che gli Occidentali hanno stabilito fra la storia e il simbolismo rituale in base al quale essi hanno rappresentato e interpretato la società india che avevano scoperto. Essi hanno trasformato le loro idee e i loro valori di Europei e di protestanti nelle strutture simboliche delle immagini degli Indi. È cosí che le differenze culturali tra Indi ed Europei – specialmente nelle abitudini culinarie – sono apparse a un certo momento ai De Bry «come il segno che l’indio è respinto da Dio» [Bucher 1977, pp. 227-28]. La conclusione è che «le strutture simboliche sono opera di una combinatoria nella quale l’adattamento all’ambiente, agli avvenimenti, e dunque l’iniziativa umana, entrano costantemente in gioco per mezzo di una dialettica tra struttura e avvenimento» [ibid., pp. 229-30]. In tal modo gli Europei del Rinascimento ritrovano il modo di procedere di Erodoto e si fanno porgere dagli Indi uno specchio nel quale riflettono se stessi. Cosí, gli incontri di culture fanno nascere risposte storiografiche diverse allo stesso avvenimento.

Resta il fatto che – nonostante i suoi sforzi verso una storia nuova, indipendente, erudita – la storia del Rinascimento è strettamente dipendente dagli interessi sociali e politici dominanti, all’occorrenza dallo Stato. Dal XII al XIV secolo il protagonista della produzione storiografica era stato, nell’ambiente signorile e monarchico, il protetto dei grandi (un Goffredo di Monmouth o un Guglielmo di Malmesbury dedicano le loro opere a Roberto di Gloucester, i monaci di Saint-Denis lavorano alla gloria dei re di Francia, protettori della loro abbazia, Froissart scrive per Filippa di Hainaut, regina d’Inghilterra, ecc.), oppure, nell’ambiente urbano, il notaio cronista [Arnaldi 1966].

Ormai, in ambiente urbano, lo storico è un membro dell’alta borghesia al potere, come Leonardo Bruni, cancelliere di Firenze dal 1427 al 1444, o un alto funzionario dello Stato; i due piú grandi esempi, a questo proposito, sono, sempre a Firenze, Machiavelli, segretario della Cancelleria fiorentina (benché abbia scritto le sue grandi opere dopo il 1512, anno nel quale fu cacciato dalla Cancelleria per il ritorno dei Medici) e Guicciardini, ambasciatore della repubblica fiorentina, poi al servizio, successivamente, di papa Leone X e del duca di Toscana Alessandro.

Fu comunque in Francia che si poté meglio seguire il tentativo, a opera della monarchia, di addomesticare la storia, specialmente nel secolo XVII durante il quale i difensori dell’ortodossia cattolica e i partigiani dell’assolutismo regio condannarono come «libertinismo» la critica storica degli storici del XVI secolo e del regno di Enrico IV [Huppert 1970]. Questo tentativo si espresse con lo stipendiare gli storiografi ufficiali, dal XVI secolo alla rivoluzione.

Anche se la parola viene impiegata per la prima volta per Alain Chartier alla corte di Carlo, si trattava però allora «di una distinzione piuttosto che di una carica precisa». Il primo vero storiografo reale è Pierre de Paschal nel 1554. Ormai lo storiografo è un apologista. Egli non occupa d’altronde che un posto modesto, anche se Charles Sorel ha tentato di delineare, nel 1646, nell’Avertissement à l’Histoire du roy Louis XIII di Charles Bernard, la carica di storiografo di Francia in modo da attribuirle importanza e prestigio. Egli ne valorizza l’abilità e la funzione: provare i diritti del re e del regno, lodare le buone azioni, dare esempi alla posterità, tutto questo per la gloria del re e del regno. Tuttavia, la carica resterà relativamente oscura, e il tentativo di Boileau e di Racine nel 1677 fallirà. I philosophes criticheranno vivamente l’istituzione, e il programma di riforma della funzione esposto da Jacob-Nicolas Moreau, in una lettera del 22 agosto 1774 al primo presidente della Corte dei Conti di Provenza, J.-B. d’Albertas, arriverà troppo tardi. La rivoluzione sopprimerà la carica di storiografo [Fossier 1977].

Lo spirito dei lumi, un po’ come quello del Rinascimento, avrà nei confronti della storia un atteggiamento ambiguo. Certamente, la storia filosofica – soprattutto con Voltaire (principalmente nell’Essai sur les mœurs et l’esprit des nations, concepito nel 1740 e la cui edizione definitiva è del 1769) apporta allo sviluppo della storia «un allargamento considerevole della curiosità e soprattutto i progressi dello spirito critico» [Ehrard e Palmade 1964, p. 37]. Ma «il razionalismo dei filosofi ostacola lo sviluppo del senso storico. È meglio razionalizzare l’irrazionale, come tenta di fare Montesquieu, o coprirlo di sarcasmi alla maniera di Voltaire? Nei due casi la storia viene passata al setaccio di una ragione atemporale» [ibid., p. 36]. La storia è un’arma contro il «fanatismo» e le epoche nelle quali esso ha regnato, specialmente il medioevo, non sono degne che di disprezzo e oblio: «Non bisogna conoscere la storia di quei tempi che per disprezzarla» [Voltaire 1756, cap. xciv]. Alla vigilia della rivoluzione francese l’Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes (1770) dell’abate Raynal ebbe un grande successo: «Per Raynal come per tutto il partito “filosofico”, la storia è il campo chiuso dove si affrontano la ragione e i pregiudizi» [Ehrard e Palmade 1964, p. 36].

Paradossalmente la rivoluzione francese non ha stimolato nel suo tempo la riflessione storica. Georges Lefebvre [1945-46, trad. it. pp. 150-52] ha visto molte ragioni per questa indifferenza: i rivoluzionari non s’interessavano alla storia, la facevano; essi volevano distruggere un passato detestato e non pensavano a dedicargli del tempo che poteva essere meglio impiegato in compiti creativi. Cosí come la gioventú era attratta dal presente e dall’avvenire, «il pubblico che durante l’Ancien régime si era interessato alla storia si era disperso o era scomparso o era economicamente rovinato» [ibid., p. 151].

Tuttavia, Jean Ehrard e Guy Palmade hanno ricordato a giusto titolo l’opera della rivoluzione a favore della storia, nel campo delle istituzioni, dell’apparato documentario e dell’insegnamento. Su questo punto si ritornerà piú avanti. Cosí se Napoleone ha tentato di mettere la storia al suo servizio, ha continuato e sviluppato, in questo campo come in molti altri, quello che aveva fatto la rivoluzione. L’opera principale di questa nel campo della mentalità storica fu di avere costituito una rottura e dato a molti in Francia e in Europa la sensazione che essa non aveva solamente segnato l’inizio di una nuova era, ma che la storia cominciava con lei, quanto meno la storia di Francia: «Noi non abbiamo, propriamente parlando, una storia di Francia che a partire dalla rivoluzione», scrive, nel germinale dell’anno X, il giornale «La Décade philosophique». E Michelet scriverà: «Di fronte all’Europa, sappiatelo, la Francia non avrà mai che un nome, inespiabile, e che è il suo vero nome eterno: la rivoluzione» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 62]. Cosí si stabilisce, positivo per gli uni e negativo per gli altri (controrivoluzionari e reazionari), un grande traumatismo storico: il mito della rivoluzione francese.

Verranno ricordati piú avanti il clima ideologico e l’atmosfera di sensibilità romantica nella quale è nata e si è sviluppata quella ipertrofia del senso storico che è stata lo storicismo. Si menzioneranno qui semplicemente due correnti, due idee che contribuirono in primo piano a promuovere la passione della storia durante il secolo XIX: l’ispirazione borghese alla quale sono allora legate le nozioni di classe e di democrazia, il sentimento nazionale. Il grande storico della borghesia è Guizot. Nel movimento comunale del XII secolo egli vede già la vittoria dei borghesi e la nascita della borghesia: «La formazione di una grande classe sociale, della borghesia, era il risultato necessario dell’affrancamento locale dei borghesi» [1829, trad. it. p. 269]. Donde l’origine della lotta delle classi, motore della storia: «Il terzo grande risultato dell’affrancamento dei Comuni fu la lotta delle classi: lotta che riempie la storia moderna. L’Europa moderna nacque dalla lotta delle diverse classi della società» [ibid., p. 270]. Guizot e Augustin Thierry (soprattutto il Thierry dell’Essai sur l’histoire de la formation et des progrès du Tiers Etat, 1850) hanno avuto un lettore attento, Karl Marx [1852]: «Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica» (trad. it. p. 537). La democrazia uscita dalle vittorie borghesi ha un osservatore acuto nella persona del conte di Tocqueville: «Ho per le istituzioni democratiche una predilezione razionale, si dirà, ma sono aristocratico per istinto, vale a dire disprezzo e temo la folla. Amo con passione la libertà, la legalità, il rispetto dei diritti, ma non la democrazia» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 61]. Egli studia i progressi della democrazia nella Francia dell’ancien régime, durante il quale essa procede per scoppiare poi nella rivoluzione (che, di conseguenza, non è piú un cataclisma, una novità sconvolgente, ma la conclusione di una lunga storia), e nell’America dell’inizio del XIX secolo, con un misto di spinte in avanti e retrocessioni. Tuttavia, Tocqueville ha delle formule che quasi superano quelle di Guizot: «Si è anzitutto della propria classe prima di essere della propria opinione», oppure «Mi si possono opporre indubbiamente gli individui; io parlo di classi; esse soltanto devono occupare la storia» [citato ibid.].

L’altra corrente è il sentimento nazionale, che dilaga per l’Europa del XIX secolo e contribuisce potentemente a diffondervi il senso storico. È Michelet che scrive: «Francesi di ogni condizione, di ogni classe e di ogni partito, tenete bene a mente una cosa, non avete su questa terra che un amico sicuro, la Francia» [citato ibid., p. 62]. Chabod rammenta che se l’idea di nazione risale al medioevo, la novità sta nella religione della patria, che data dalla rivoluzione francese: «La nazione diventa la patria: e la patria diviene la nuova divinità del mondo moderno. Nuova divinità: e come tale sacra. È, questa, la gran novità che scaturisce dall’età della Rivoluzione francese e dell’Impero. Lo dice, per primo, Rouget de Lisle nella penultima strofa della Marsigliese: “Amour, sacré de la patrie | conduis, soutiens nos bras vengeurs”. E lo ripete, quindici anni piú tardi, il nostro Foscolo, proprio nella chiusa dei Sepolcri: “Ove fia santo e lagrimato il sangue | per la patria versato”» [1943-47, pp. 61-62]. E aggiunge che questo sentimento è stato soprattutto vivo nelle nazioni, nei popoli che non avevano ancora potuto realizzare la loro unità nazionale: «Com’è ovvio, l’idea di nazione sarà particolarmente cara ai popoli non ancora politicamente uniti… quindi, sarà soprattutto in Italia e in Germania che l’idea nazionale troverà assertori entusiasti e continui; e, dietro a loro, negli altri popoli divisi e dispersi, in primis i polacchi» [ibid., pp. 65-66]. Di fatto, la Francia non è meno toccata da questa influenza del nazionalismo sulla storia. È il sentimento nazionale che ispira una grande opera classica, L’Histoire de France, pubblicata sotto la direzione di Ernest Lavisse fra il 1900 e il 1912, alla vigilia della prima guerra mondiale. Ecco il programma che Lavisse assegnava all’insegnamento della storia: «All’insegnamento storico incombe il glorioso dovere di fare amare e di comprendere la patria… i nostri antenati galli e le foreste dei druidi, Carlo Martello a Poitiers, Rolando a Roncisvalle, Goffredo di Buglione a Gerusalemme, Giovanna d’Arco, tutti i nostri eroi del passato anche se circonfusi dalla leggenda… Se lo scolaro non porta con sé il vivo ricordo delle nostre glorie nazionali, se non sa che i nostri antenati hanno combattuto su mille campi di battaglia per nobili cause, se non ha appreso quel che di sangue e di sforzi è costato per fare l’unità della nostra patria e far scaturire poi dal caos delle nostre istituzioni invecchiate le leggi sacre che ci hanno fatti liberi, se egli non diventa un cittadino penetrato dai suoi doveri e un soldato che ama la sua bandiera, il maestro avrà perduto il suo tempo» [citato in Nora 1962, pp. 102-3]. Non s’è ancora messo in evidenza che fino al XIX secolo manca un elemento essenziale della formazione di una mentalità storica. La storia non è oggetto d’insegnamento. Aristotele, s’è detto, l’aveva scartata dal novero delle scienze. Nelle università medievali non era tra le discipline insegnate [cfr. Grundmann 1965]. I gesuiti e gli oratoriani le fecero un po’ di spazio nei collegi [cfr. Dainville 1954]. Ma fu la rivoluzione francese a dare l’impulso e furono i progressi dell’insegnamento scolastico – primario, secondario e superiore – nel XIX secolo ad assicurare la diffusione nelle masse di una cultura storica. Ormai uno dei migliori osservatori per lo studio della mentalità storica sono i manuali scolastici di storia.

3. Filosofi della storia.

Chi scrive ha già detto di condividere con la maggior parte degli storici una diffidenza nata dalla convinzione del danno prodotto dalla mescolanza dei generi e dei misfatti di tutte le ideologie suscettibili di far indietreggiare la riflessione storica sul difficile cammino della scientificità; e direbbe volentieri con Fustel de Coulanges: «Vi è una filosofia e vi è una storia, ma non vi è una filosofia della storia» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 72]; e con Lucien Febvre [1949]: «Filosofeggiare… significa, in bocca a uno storico,… il delitto capitale» (trad. it. p. 181). Ma direbbe anche, con quest’ultimo, «Due spiriti, beninteso: la filosofia e la storia. Due spiriti irriducibili. Ma non si tratta, precisamente, di “ridurre” l’uno all’altro. Si tratta di fare in modo che, restando l’uno e l’altro sulle loro posizioni, essi non ignorino il vicino al punto da essergli, se non ostile, quanto meno estraneo» [1938, ed. 1953, p. 282].

Si dirà di piú. Nella misura in cui l’ambiguità – rivelata dal vocabolario – tra la storia come svolgimento del tempo degli uomini e delle società e la storia come scienza di questo svolgimento resta fondamentale, nella misura in cui la filosofia della storia è stata spesso volontà di colmare – in modo probabilmente inadeguato – l’increscioso disinteresse degli storici «positivisti» – che si volevano puri eruditi – per i problemi teorici e il loro rifiuto di prendere coscienza dei pregiudizi «filosofici» sottostanti il loro lavoro, che si pretendeva puramente scientifico, «gli storici che rifiutano di giudicare non riescono ad astenersi dal giudizio. Essi non riescono che a nascondere a se stessi i principî che fondano i loro giudizi» [Keith Hancockeité, citato in Barraclough 1955, p. 157]. Lo studio dei filosofi della storia non soltanto fa parte di una riflessione sulla storia, ma s’impone a ogni studio della storiografia. Tuttavia, piú ancora che nelle altre parti del presente articolo, non si cercherà qui di essere completi; ci si porrà risolutamente nel discontinuo delle dottrine, poiché sono i modelli intellettuali e non l’evoluzione del pensiero che qui interessano, anche se l’inserimento degli esempi scelti nel loro ambiente storico richiederà molta attenzione. Gli esempi verranno scelti fra pensieri individuali (Tucidide, Agostino, Bossuet, Vico, Hegel, Marx, Croce, Gramsci), fra scuole (l’agostinismo, il materialismo storico) o correnti (lo storicismo, il marxismo, il positivismo). Si prenderanno due esempi di teorici che sono stati nel medesimo tempo degli storici e dei filosofi della storia, senza avere raggiunto un livello molto alto né nell’una né nell’altra di queste discipline, ma che hanno suscitato nel XX secolo reazioni rivelatrici: Spengler e Toynbee. Da una parte sono i casi di un grande spirito non occidentale, Ibn Khaldūn, e di un grande intellettuale contemporaneo, che è al tempo stesso un grande storico e un grande filosofo e che ha avuto un ruolo di primo piano nel rinnovamento della storia: Michel Foucault. Sembra che Carr abbia grosso modo ragione quando scrive [1961]: «Le civiltà classiche [della Grecia e di Roma] erano fondamentalmente astoriche… il padre della storia, Erodoto, ebbe un’esigua discendenza. In complesso, gli autori classici si preoccupavano poco sia del futuro che del passato. Tucidide credeva che nell’età che precedeva gli eventi da lui descritti non fosse accaduto niente d’importante, e che niente d’importante, probabilmente, si sarebbe verificato nell’età successiva» (trad. it. pp. 117-18). Sarebbe forse augurabile discutere piú da vicino il riassunto della storia greca (l’«archeologia») e i principali avvenimenti dopo le guerre persiane (la «pentecontaitria») che precedono la Storia della guerra del Peloponneso.

Tucidide ha scritto una storia della guerra del Peloponneso dall’inizio, nel 431, fin verso il 411. «Egli si vuole positivista» [Romilly 1973, p. 82], esponendo «i fatti nell’ordine senza commenti». La sua filosofia è dunque implicita. «La guerra del Peloponneso è essa stessa stilizzata e per cosí dire idealizzata» [Aron 1961a, p. 164]. Il grande motore della storia è la natura umana. Romilly ha ben messo in evidenza le frasi con le quali Tucidide indica che la sua opera sarà «una acquisizione per sempre»: valida «finché la natura umana resterà la stessa» essa rischiara non solo gli avvenimenti greci del V secolo ma anche «quelli che, in avvenire in virtú del carattere umano che è il loro, saranno simili o analoghi» [1973, p. 82]. Cosí la storia sarebbe come immobile, eterna, o piuttosto essa ha delle possibilità di costituire il ricominciamento eterno di uno stesso modello di cambiamento. Questo modello di cambiamento è la guerra: «Dopo Tucidide non vi furono piú dubbi che le guerre rappresentavano il piú evidente fattore di mutamento» [Momigliano 1972, ed. 1975 p. 18]. La guerra è una «categoria della storia» [Châtelet 1962, trad. it. pp. 125 sgg.]. Essa è suscitata dalle reazioni di paura e di gelosia degli altri Greci di fronte all’imperialismo ateniese. Gli avvenimenti sono i prodotti di una razionalità che lo storico deve rendere intelligibile: «Tucidide, mentre estende progressivamente l’intelligibilità dell’azione voluta da un attore all’avvenimento, che non è stato voluto tale da nessuno, innalza l’avvenimento, sia esso stato conforme o no alle intenzioni degli attori, al di sopra della particolarità storica chiarendolo con l’impiego di termini astratti, sociologici o psicologici» [ibid.]. Tucidide, come quasi tutti gli storici dell’antichità, considera che la storia, nella sua scrittura, è strettamente legata alla retorica. Egli attribuisce dunque una importanza particolare ai discorsi (orazione funebre dei soldati ateniesi da parte di Pericle, dialogo degli Ateniesi e dei Melii) e il ruolo che egli assegna – con un pessimismo di fondo – tanto alla morale individuale quanto alla politica ha fatto di lui un precursore di Machiavelli, uno degli esponenti principali della filosofia occidentale della storia. Ranke gli ha dedicato il suo primo lavoro storico, la sua «tesi».

Anche se si esagera il contrasto tra una storia pagana, che ruoterebbe intorno a una concezione circolare della storia, e una storia cristiana, che la ordinerebbe invece verso uno scopo in una corsa lineare, la tendenza dominante del pensiero giudaico-cristiano operò un mutamento radicale nel pensiero – e nella scrittura – della storia. «Furono gli ebrei, e dopo di loro i cristiani, che introdussero un elemento del tutto nuovo postulando un fine verso cui si dirigerebbe l’intero processo storico: nasceva, cosí, la concezione teleologica della storia. In tal modo la storia acquistava un significato e un fine, ma finiva col perdere il suo carattere mondano. Attingere il fine della storia avrebbe significato automaticamente mettere un termine alla storia stessa: la storiografia si trasformò in una teodicea» [Carr 1961, trad. it. p. 118]. Colui che, piú degli storici cristiani antichi e come suo malgrado, fu il grande teorico della storia cristiana fu Agostino. Egli fu indotto a trattare di storia dai compiti del suo apostolato e dagli avvenimenti. Fu dapprima spinto a rifiutare la filosofia neoplatonica di Porfirio, «il piú illustre dei filosofi pagani», che aveva affermato che la «“via universale di salvezza”, quale era stata rivendicata dai cristiani, era fino a quel momento “ignota alla scienza storica”» [Brown 1967, trad. it. pp. 78, 318]. Volle in seguito riprendere le accuse lanciate dai pagani, dopo il sacco di Roma a opera di Alarico e dei Goti nel 410, contro i cristiani che, a loro parere, avevano minato le tradizioni e le forze del mondo romano, incarnazione della civiltà. Agostino respinse l’idea che l’ideale dell’umanità consistesse nell’opporsi al cambiamento. La salvezza degli uomini non era legata alla perennità della romanità. Vi erano due schemi storici operanti nella storia umana. I prototipi erano Caino e Abele. Il primo era all’origine di una storia umana, di una città del male – Babilonia – che serviva il diavolo e i suoi demoni; al secondo risale l’origine dell’«antica Città di Dio… sempre anelante al cielo – il cui nome è anche Gerusalemme o Sion». Nella storia umana le due città sono inestricabilmente unite, gli uomini vi sono stranieri, dei «pellegrini» [ibid., cap. XXVII], fino alla fine dei tempi, quando Dio separerà le due città. La storia umana è stata dapprima una catena senza significato, lo «spazio di tempo nel quale il neonato estromette il moribondo» [Agostino, De civitate Dei, XV, I, I], fino a che l’Incarnazione venne a darle un senso: «I secoli della storia passata sarebbero rotolati l’uno dopo l’altro come vasi vuoti, se Cristo non fosse venuto a riempirli» [In Joannis Evangelium Tractatus, IX, 6]. La storia della città terrestre è simile alla evoluzione di un organismo unico, di un corpo individuale. Esso passa per le sei età della vita e con l’Incarnazione è entrato nella vecchiaia, il mondo invecchia (mundus senescit), ma l’umanità ha trovato il senso dell’immenso concerto che lo trasporta fino a che si rivelerà «la bellezza del ciclo compiuto del tempo»; la «diligenza storica» non mostra che la medesima successione di avvenimenti, mentre qualche momento privilegiato lascia intravedere in questa «profetica verità» la possibilità della salvezza. Questo è l’affresco che alla fine traccia il De civitate Dei [XXII; cfr. Brown 1967, trad. it. pp. 318 sgg.], mescolando la gioiosa speranza nella salvezza e il senso tragico della vita [Marrou 1950].

Le ambiguità del pensiero storico agostiniano hanno dato luogo in seguito, e particolarmente nel medioevo, a tutta una serie di deformazioni e semplificazioni: «È possibile seguire di secolo in secolo le metamorfosi che il piú delle volte non sono che caricature dello schema agostiniano del De civitate Dei» [Marrou 1961, p. 20]. La prima caricatura fu opera di un prete spagnolo, Paolo Orosio, la cui opera Adversus paganos, ispirata dall’insegnamento diretto di Agostino a Ippona, ebbe grande influenza nel medioevo. Nacquero cosí la confusione tra la nozione mistica di Chiesa, prefigurazione della città divina, e l’istituzione ecclesiastica che pretendeva sottomettersi la società terrena, la pseudospiegazione della storia opera di una Provvidenza imprevedibile ma sempre bene orientata, la persuasione nella decadenza progressiva dell’umanità d’altronde infallibilmente trascinata verso un fine voluto da Dio, il dovere di convertire a ogni costo i non cristiani per farli entrare nella storia della salvezza riservata ai soli cristiani.

Mentre nel medioevo la storia occidentale, all’ombra di questa teoria «agostiniana», perseguiva lentamente e umilmente i compiti del mestiere di storico, l’Islam, dal canto suo, produceva tardivamente un’opera geniale nel campo della filosofia della storia, la Muqaddima di Ibn Khaldūn. Ma, a differenza del De civitate Dei, la Muqaddima, pur senza avere alcuna influenza immediata, prefigurava taluni degli elementi dello stato d’animo della storia scientifica moderna.

Tutti gli specialisti sono concordi nel considerare Ibn Khaldūn come «uno spirito critico eccezionale per il suo tempo» [Monteil 1967-68, p. XXV], «un genio», cioè uno di quegli esseri dall’intuizione senza uguali [ibid., p. XXXV], «in anticipo sul suo tempo per le idee e i metodi» [ibid., p. XXXII]; Arnold Toynbee vede nella sua opera al-Muqaddima «senza alcun dubbio la piú grande opera del suo genere che sia mai stata finora creata, in ogni tempo e in ogni luogo» [citato ibid., p. XXXV].

Pur senza essere in grado di analizzarla nel suo tempo, la si ricorda qui, perché da un lato costituisce ormai parte integrante di un settore dell’insieme della produzione storica dell’umanità, dall’altro perché capace oggi d’influenzare direttamente la riflessione storica del mondo musulmano e del Terzo Mondo. Ecco l’opinione di un intellettuale algerino, il medico Ahmed Taleb, imprigionato dai Francesi durante la guerra d’Algeria e che lesse Ibn Khaldūn in carcere: «Sono stato colpito specialmente dalla finezza e dalla penetrazione delle sue riflessioni sullo Stato e il suo ruolo, sulla Storia e la sua definizione. Egli ha aperto prospettive inconsuete alla psicologia… cosí come alla sociologia politica, mettendo l’accento, per esempio, sull’opposizione tra uomini di città e di campagna o sul ruolo dello spirito di corpo nella costituzione degli imperi e del lusso nella loro decadenza» [1959, p. 98]. Il geografo francese Yves Lacoste, dal canto suo, vede nella Muqaddima «un contributo fondamentale alla storia del sottosviluppo. Essa segna la nascita della storia in quanto scienza e ci riporta a una tappa essenziale del passato di quello che si chiama oggi il Terzo Mondo» [1966, p. 17].

Ibn Khaldūn, nato a Tunisi nel 1332 e morto al Cairo nel 1406, scrisse nel 1377 la Muqaddima nel ritiro algerino presso Biscra, prima di trascorrere gli ultimi anni della sua vita al Cairo come qāī ‘giudice’ dal 1382 al 1406. La sua opera è una introduzione (Muqaddima) alla storia universale. A questo riguardo, egli si colloca nel solco di una grande tradizione musulmana e rivendica apertamente questa ascendenza. Per un lettore occidentale moderno l’inizio della Muqaddima evoca ciò che si scriveva in Occidente durante il Rinascimento, da uno a due secoli piú tardi, e ciò che avevano scritto taluni storici dell’antichità: «La storia è una nobile scienza. Essa presenta molti aspetti utili. Essa si propone di raggiungere un nobile scopo. Essa ci fa conoscere le condizioni proprie delle nazioni antiche, quali si traducono nel loro carattere nazionale. Essa ci trasmette la biografia dei profeti, la cronaca dei re, le loro dinastie e la loro politica. In tal modo, chi lo voglia può ottenere felici risultati imitando i modelli storici in materia religiosa o profana. Per scrivere opere storiche bisogna disporre di numerose fonti e di conoscenze assai varie. È necessario anche uno spirito ponderato e della acutezza: per condurre il ricercatore alla verità e preservarlo dall’errore» [Ibn Khaldūn, al-Muqaddima, Introduzione].

Ibn Khaldūn presenta la sua opera come «un commento sulla civiltà» (umrāh). Ciò che prende in considerazione è il cambiamento e la sua spiegazione. Egli si distingue dagli storici che si accontentano di parlare di avvenimenti e di dinastie senza spiegarli. Egli «dà le cause degli avvenimenti» e pensa dunque di cogliere «la filosofia (hikma) della storia». Si è visto in Ibn Khaldūn il primo sociologo. Sembra piuttosto un amalgama di antropologo storico e filosofo della storia. Egli prende le distanze nei confronti della tradizione: «La ricerca storica unisce strettamente l’errore alla leggerezza. La fede cieca nella tradizione (taqlīd) è congenita…» Grazie al suo libro «non ci sarà piú bisogno di credere ciecamente nella tradizione» [ibid., Avvertenza]. Ciò che è particolarmente rilevante nelle sue spiegazioni è il riferimento alla società e alla civiltà che sono per lui le strutture e i campi essenziali, benché non trascuri né la tecnica né l’economia. Ecco, per esempio, il tipo di testimonianza che costituiscono per lo storico i monumenti edificati da una dinastia: «Tutti questi lavori degli antichi non sono stati possibili che con la tecnica e il lavoro concertato di una manodopera numerosa… Non bisogna dar fede alla credenza popolare, secondo la quale gli antichi erano piú grandi e forti di noi… L’errore dei narratori dipende qui dal fatto che essi ammirano le vaste proporzioni dei monumenti antichi, senza comprendere le differenti condizioni di organizzazione sociale (itgimā) e di cooperazione. Essi non vedono che tutto era questione di organizzazione sociale e di tecnica (hindām). Di conseguenza, immaginano a torto che i monumenti antichi siano dovuti alla forza e alla energia di esseri di taglia superiore» [ibid., I, III, 16]. Come è naturale a un musulmano in funzione di ciò che vede e sa del passato dell’islam, egli accorda grande importanza all’opposizione nomadi/sedentari, beduini/cittadini. Uomo del Maghrib urbanizzato, egli s’interessa particolarmente alla civiltà urbana, ma considera anche il fenomeno dinastico e monarchico, e constata che non si tratta di un prodotto dell’urbanizzazione: «La dinastia precede la città», ma le è strettamente legata: «La monarchia chiama la città» [ibid., II, IV, 1-2].

Dove egli appare piuttosto come un filosofo della storia è con la teoria (che annunzia Montesquieu, ma che è nella sua epoca già tradizionale presso gli storici e i geografi musulmani) dell’influenza dei climi, non priva di razzismo (nei confronti dei negri), e soprattutto con la teoria del declino. Ogni organizzazione sociale e politica non dura che per un certo periodo di tempo e va verso il declino, piú o meno rapidamente: per esempio, il prestigio di un lignaggio non dura che quattro generazioni. Questo meccanismo è assai chiaro nel caso delle monarchie: per natura la monarchia vuole la gloria, il lusso e la pace, ma divenuta gloriosa, lussuosa e pacifica, essa volge al declino. Ibn Khaldūn non separa in questo processo gli aspetti morali da quelli sociali: «Una dinastia non dura, generalmente, piú di tre generazioni: la prima generazione conserva le virtú beduine, la rudezza e la selvatichezza del deserto… essa conserva dunque il suo spirito di clan. I suoi membri sono decisi e temuti e le genti gli obbediscono… Sotto l’influenza della monarchia e del benessere, la seconda generazione passa dalla vita beduina alla vita sedentaria, dalla privazione al lusso e all’abbondanza, dalla gloria comune e condivisa alla gloria di uno solo… il vigore dello spirito tribale è incrinato, la gente si abitua al servilismo e all’obbedienza… la terza generazione ha completamente dimenticato l’epoca della rude vita beduina… Ha perduto ogni gusto per la gloria e i legami del sangue, poiché è governata con la forza… I suoi membri dipendono dalla dinastia che li protegge, come donne e bambini. Lo spirito di clan scompare completamente… Il sovrano deve dunque fare appello alla sua clientela, al suo seguito. Ma Dio permette un giorno che la monarchia venga distrutta» [ibid., I, III, 12]. Ciò che questa teoria sottende è l’assimilazione di una forma sociopolitica a una persona umana, un modello organicistico, biologico della storia. Nondimeno, la Muqaddima resta una delle grandi opere del sapere storico. Come ha detto Jacques Berque, si tratta di «un pensiero maghribino, islamico e mondiale… la gioia amara dell’intelligibile ha segnato, per quest’uomo in disgrazia, la storia che si svolgeva in quel momento stesso, e che egli ha avuto per primo il merito di situare entro cosí vaste prospettive» [1970, p. 327].

Ma si torni ora all’Occidente. L’antichità greco-romana non aveva avuto il vero senso della storia. Essa non aveva avanzato come schemi esplicativi generali che la natura umana (vale a dire l’immutabilità), il destino e la fortuna (vale a dire l’irrazionalità), lo sviluppo organico (vale a dire il biologismo). Essa aveva posto il genere storico nel campo dell’arte letteraria e gli aveva assegnato come funzioni il divertimento e l’utilità morale. Ma essa aveva prefigurato una concezione e una pratica «scientifica» della storia sulla testimonianza (Erodoto), l’intelligibilità (Tucidide), la ricerca della cause (Polibio), la ricerca e il rispetto della verità (tutti e infine Cicerone). Il cristianesimo aveva dato alla storia un senso, ma l’aveva sottomessa alla teologia. Il XVIII e soprattutto il XIX secolo dovevano assicurare il trionfo della storia in sé, dandone un senso secolarizzato con l’idea di progresso, fondendone le funzioni di sapere e di saggezza per mezzo di concezioni (e di pratiche) scientifiche che l’assimilavano tanto alla realtà, non piú soltanto alla verità (storicismo), quanto alla prassi (marxismo).

Ma l’intermezzo che separa la teologia della storia medievale dallo storicismo trionfante del XIX secolo non è per nulla privo d’interesse dal punto di vista della filosofia della storia.

Secondo George Nadel [1964], l’età d’oro della filosofia della storia sarebbe stata il periodo che va approssimativamente dal 1550 al 1750. Il suo punto di partenza sarebbe stata l’affermazione di Polibio: «L’insegnamento che si ricava dalla storia è la piú efficace istruzione e la migliore preparazione alla vita politica» [Storie, I, I].

Occorre introdurre qui una nota. Si può a questo proposito scorgere l’influenza di Machiavelli e Guicciardini, ma a condizione di rilevare la posizione marginale di ciascuno di questi pensatori quanto al rapporto tra storia e politica [Gilbert 1965]. Per Machiavelli l’idea essenziale è quella della specificità della politica e, in un certo modo, la politica, che deve essere ricerca della stabilità della società, deve opporsi alla storia che è un flusso perpetuo, sottoposto ai capricci della Fortuna, come in effetti sostenevano Polibio e gli storici dell’antichità. Per Machiavelli gli uomini dovevano rendersi conto della «impossibilità di fondare un ordine sociale permanente, che rispecchi la volontà di Dio o in cui la giustizia sia distribuita in modo da rispondere a tutte le esigenze umane». Di conseguenza, «Machiavelli si attenne fermamente all’idea che la politica aveva le proprie leggi e quindi era o avrebbe dovuto essere una scienza; il suo scopo era di tenere in vita la società nel perpetuo fluire della storia». La conseguenza di questa concezione era «il riconoscimento della necessità della coesione politica e la tesi dell’autonomia della politica sviluppatasi in seguito nel concetto di stato» [Gilbert 1965, trad. it. p. 171].

Guicciardini, al contrario, vuole e realizza l’autonomia della storia a partire dalla medesima constatazione del cambiamento (del quale si è detto scherzosamente che era la sola legge discernibile della storia). Specialista dello studio del cambiamento, «lo storico acquistava cosí la propria funzione peculiare, e la storia assumeva un’esistenza autonoma nel mondo della conoscenza; il significato della storia non andava cercato altrove che nella storia stessa. Lo storico diventava registratore e interprete insieme. La Storia d’Italia di Guicciardini è l’ultima grande opera storica condotta secondo lo schema classico, ma è anche la prima grande opera della storiografia moderna» [ibid., p. 255].

Per tornare a Nadel, la sua idea è che la concezione dominante della storia, dal Rinascimento all’illuminismo, sia stata la concezione della storia esemplare, didattica nei suoi propositi, induttiva nel metodo e fondata sui luoghi comuni degli stoici, retori e storici romani. La storia era ridiventata un insegnamento per i governanti come al tempo di Polibio. Questa concezione della storia magistra vitae ispira sia studi particolari, sia dei trattati sulla storia, delle artes historicae (una collezione di questi trattati, l’Artis Historicae Penus in due volumi fu pubblicata a Basilea nel 1579), tra i quali i piú importanti furono, nel XVI secolo, il Methodus ad facilem historiarum cognitionem di Jean Bodin (1566), nel XVII secolo l’Ars historica (1623) di Voss, per il quale la storia era la conoscenza delle particolarità che è utile rammentare «ad bene beateque vivendum», nel XVIII secolo la Méthode pour étudier l’histoire di Lenglet du Fresnoy, la cui prima edizione, seguita da molte altre, è del 1713.

La storia dei filosofi dei lumi, che si sforzarono di rendere la storia razionale, aperta alle idee d’incivilimento e di progresso, non ha sostituito la concezione della storia esemplare, e la storia è cosí sfuggita alla grande rivoluzione scientifica dei secoli XVII e XVIII. La storia esemplare è sopravvissuta finché non è stata rimpiazzata dallo storicismo. Questa nuova concezione dominante della storia è nata in Germania, piú particolarmente a Göttingen. Alla fine del secolo XVIII e agli inizi del XIX, degli universitari che non dovevano preoccuparsi di un pubblico per il quale la storia era da considerare una scienza etica, la trasformarono in una faccenda per professionisti, specialisti. «La lotta tra lo storico antiquario e lo storico filosofo, il saggio pedante e il gentleman ben educato terminò con la vittoria dell’erudito sul filosofo» [Nadel 1964, p. 315]. Già nel 1815 Savigny aveva affermato che la storia non è piú soltanto una raccolta di esempi, ma la sola via alla conoscenza vera della nostra condizione particolare. La dichiarazione piú netta, che è divenuta celebre, è quella di Ranke: «Si è attribuito alla storia la funzione di giudicare il passato e di istruire il presente per rendere il futuro utile; il mio tentativo non tende a cosí gigantesche funzioni, tende soltanto a mostrare come le cose sono realmente andate» [1824, ed. 1957, p. 4].

Prima di esaminare le nuove concezioni della storia erudita tedesca del secolo XIX, cioè lo storicismo, occorre rettificare l’interessante idea di Nadel su due punti. Il primo è che le idee dei principali storici della fine del secolo XVI non si riducono all’idea della storia esemplare, ma che la teoria della storia perfetta o integrale va assai al di là. Il secondo – al quale Nadel allude – è che la teoria provvidenzialista cristiana della storia prosegue nel secolo XVII e trova la sua piú rilevante espressione nel Discours sur l’histoire universelle (1681).

Un certo numero di storici francesi nella seconda metà del secolo XVI espressero una visione molto ambiziosa della storia: la storia integrale compiuta o perfetta. S’incontra questa concezione in Bodin, in Nicolas Vigner, autore di un Sommaire de l’histoire des français (1579), di una Bibliothèque historiale (1588), in Louis le Roy (De la vicissitude ou variété des choses en l’univers…, 1575) e soprattutto in Lancelot-Voisin de La Popelinière con un volume di tre trattati: L’Histoire de l’histoire, L’idée de l’histoire accomplie, Le Dessein de l’Histoire nouvelle des français (1599). Bodin è soprattutto conosciuto per la sua idea dell’influenza del clima sulla storia, che annunzia Montesquieu e la sociologia storica. Ma il suo Methodus (1566) non è che un’introduzione al suo grande trattato La République (1576). È un filosofo della storia e della politica e non uno storico. La sua concezione della storia resta fondata sull’idea umanista di utilità.

Tutti questi sapienti hanno in comune tre idee che La Popelinière esprimerà nel modo migliore. La prima è che la storia non è pura narrazione, opera letteraria. Essa deve ricercare le cause. La seconda, la piú nuova e la piú importante, è che oggetto della storia sono le civiltà e la civiltà. Questa comincia prima ancora della scrittura. «Nella sua forma piú primitiva, – sostiene La Popelinière, – la storia va cercata ovunque, nelle canzoni e nelle danze, nei simboli e in altri procedimenti mnemonici» [citato in Huppert 1970, p. 137]. È la storia dei tempi in cui gli uomini erano «rurali e non civilizzati» [ibid.]. La terza idea è che la storia dev’essere universale, nel senso piú completo: «La storia degna di questo nome deve essere generale» [ibid., p. 139]. Myriam Yardeni [1964] ha giustamente sottolineato che questa storia era un fatto nuovo e che La Popelinière ne ha precisamente sottolineato la novità. Ma egli era ostacolato dalla sua concezione cristiana pessimista.

L’agostinismo storico che pesa ancora su La Popelinière ha dato il suo ultimo capolavoro con il Discours sur l’histoire universelle di Bossuet (1681). Bossuet, che doveva scrivere un compendio della storia di Francia per il suo allievo, il Delfino, figlio di Luigi XIV, incomincia anche il suo Discours per il suo discepolo: la prima parte, una specie di panorama della storia fino a Carlomagno, è un vero discorso, la seconda, «dimostrazione… della verità della religione cattolica nei suoi rapporti con la storia, è un sermone» [Lefebvre 1945-46, trad. it. p. 93]. La terza parte, esame del destino degli imperi, è piú interessante. Infatti, sotto l’affermazione generale del dominio imprevedibile della Provvidenza sulla storia, appare una razionalità della Storia dovuta al fatto che gli avvenimenti particolari entrano in sistemi generali, globalmente determinati, Dio intervenendo (e raramente) solo attraverso l’intermediario di cause seconde. Non soltanto, ma Bossuet, benché abbia letto i lavori degli eruditi, è molto spesso a metà tra l’apologetica e la polemica; tuttavia, l’idea di una verità che si sviluppi nel tempo gli è estranea. «Per lui il cambiamento è sempre il segno dell’errore. Ciò che manca di piú a questo storico, prigioniero di una certa teologia, è il senso del tempo e dell’evoluzione» [Ehrard e Palmade 1964, p. 33].

Resta da ricordare una filosofia della storia originale, isolata nel suo tempo ma che ha conosciuto una sorprendente posterità, quella di Giambattista Vico, professore all’università di Napoli, la cui opera principale, La Scienza nuova (o piú esattamente Principî di scienza nuova d’intorno alla commune natura delle nazioni) ha conosciuto parecchie edizioni dal 1725 al 1740. Cattolico, Vico è antirazionalista. Egli «introduceva una sorta speciale di dualismo fra la storia sacra e la storia profana. Poneva tutta la moralità e la razionalità dalla parte della storia sacra e vedeva nella storia profana lo sviluppo di istinti irrazionali, di una immaginazione truculenta, di una violenta ingiustizia» [Momigliano 1966c, p. 156]. Le passioni umane conducono le nazioni e i popoli alla decadenza. Una specie di lotta di classe tra gli «eroi» conservatori e i «bestioni» plebei e sostenitori del cambiamento termina in generale con la vittoria dei bestioni, la decadenza dopo l’apogeo e il passaggio a un altro popolo che, a sua volta, cresce e declina: «È l’uomo che ha fatto questo mondo storico».

Questa filosofia della storia ha ispirato ammiratori molto diversi. Michelet ha tradotto in francese la Scienza nuova nel 1836 e nell’introduzione ha affermato: «Il motto della Scienza Nuova è questo: l’umanità è l’opera di se stessa». Croce ha in parte formato il suo pensiero storico sulla lettura e il commento di Vico (La filosofia di Giambattista Vico, 1911). Vi è un’interpretazione marxista di Vico, del quale Marx raccomandava la lettura a Lassalle nel 1861, che si è sviluppata attraverso Georges Sorel (Etudes sur Vico, in «Le devenir social», 1896), Antonio Labriola, Paul Lafargue, la citazione di Trockij nella prima pagina della Storia della rivoluzione russa (Istorija russkoj revoljucii, 1931-33) e che ha ispirato l’Introduzione a G. B. Vico (1961) di Nicola Badaloni. Ernst Bloch ha scritto: «È con Vico che riappare per la prima volta, dopo il De civitate Dei di Agostino, una filosofia della storia, senza storia della salvezza, ma sostenuta dall’affermazione applicantesi alla storia tutta intera che non vi sarebbe comunità umana senza il legame della religione» [1972, p. 154].

Lo storicismo è stato definito da Nadel nel modo seguente: «Il suo fondamento è il riconoscimento che gli avvenimenti storici devono essere studiati non, come si faceva in precedenza, come dati per una scienza della morale o della politica, ma come fenomeni storici. Nella pratica, ciò si è manifestato con l’affermarsi della storia come disciplina universitaria indipendente, di nome e di fatto. In campo teorico, ciò si espresse con due proposizioni: 1) ciò che è accaduto deve essere spiegato in funzione del momento in cui è accaduto; 2) esiste per spiegarlo una scienza dotata di specifici procedimenti logici, la scienza della storia. Nessuna di queste due proposizioni era nuova; nuova era invece l’insistenza con la quale le si sottolineava e che condusse a esagerare ambedue in modo dottrinale: dalla prima si trasse l’idea che fare la storia di qualcosa significasse darne una spiegazione sufficiente, e chi attribuiva un ordine logico all’ordine cronologico degli avvenimenti considerò la scienza storica capace di predire il futuro» [1964, p. 291].

Lo storicismo è da ricollocare nell’insieme delle correnti filosofiche del secolo XIX, come ha fatto Maurice Mandelbaum [1971]. Egli constata che vi sono due fonti distinte e forse opposte. Una è la rivolta romantica contro l’illuminismo, mentre l’altra era, sotto certi aspetti, la continuazione della tradizione dell’illuminismo. La prima tendenza apparve alla fine del XVIII secolo, soprattutto in Germania, ed essa considerò lo sviluppo storico sul modello della crescita degli esseri viventi. Da questa tendenza uscí Hegel, che si spinse molto piú lontano. La seconda, che si sforzò di stabilire una scienza della società fondata su leggi dello sviluppo sociale, ebbe come maestri Saint-Simon e Comte; il marxismo appartiene a questa tendenza. Di fatto, nel XIX secolo, lo storicismo segnò tutte le scuole di pensiero e ciò che lo fece alla fine trionfare fu la teoria di Darwin su The Origin of Species (1859), l’evoluzionismo. Il concetto centrale è quello di sviluppo, spesso precisato da quello di progresso. Ma lo storicismo si arenò sul problema dell’esistenza in storia di leggi che avessero un senso e su quello di un modello unico di sviluppo storico.

Con Georg Iggers si ricorderanno, sommariamente, i fondamenti teorici dello storicismo tedesco in Wilhelm von Humboldt e Leopold von Ranke, l’apice dell’ottimismo storicistico con la scuola prussiana e la crisi dello storicismo con la filosofia critica della storia di Dilthey e di Max Weber, con il relativismo storico di Troeltsch e Meinecke.

Wilhelm von Humboldt, filosofo del linguaggio, diplomatico, fondatore dell’università di Berlino nel 1810, scrisse numerose opere storiche e riassunse il suo pensiero nel trattato Il dovere dello storico [1821]. Humboldt, spesso vicino al romanticismo, influenzato (positivamente e negativamente insieme) dalla rivoluzione francese, fu il creatore della dottrina delle idee storiche; egli insistette sull’importanza dell’individuo in storia, sul posto centrale della politica in storia, chiave di volta della filosofia della storia che ispirò la scienza storica tedesca da Ranke a Meinecke [cfr. Iggers 1971, pp. 84-85]. Le idee non sono idee metafisiche, platoniche, esse sono storicamente incarnate in un individuo, in un popolo (spirito del popolo, Volksgeist), in un’epoca (spirito del tempo, Zeitgeist), ma restano vaghe. Benché non sia «né un nichilista né un relativista», egli ha una concezione fondamentalmente «irrazionale» della storia.

Il piú grande e il piú importante degli storici e teorici tedeschi della storia del secolo XIX è Leopold von Ranke. La sua opera di storico concerne soprattutto la storia europea dei secoli XVI-XVII e la storia prussiana dei secoli XVIII-XIX. Egli scrisse alla fine della sua vita una Storia universale (Weltgeschichte), che rimase però incompiuta. Ranke è stato piú un metodologo che un filosofo della storia. È stato «il piú grande maestro del metodo critico-filologico» [Fueter 1911, trad. it. p. 606]. Lottando contro l’anacronismo, egli ha denunziato il falso romanzesco storico del romanticismo, per esempio dei romanzi di Walter Scott, e affermato che il grande compito dello storico consisteva nel dire «quel che propriamente è stato». Ranke ha impoverito il pensiero storico accordando un’importanza eccessiva alla storia politica e diplomatica. Ma si è deformato il suo pensiero in due sensi, positivista e idealista. Gli storici francesi [Langlois e Seignobos 1898] e soprattutto americani [Adams 1884] hanno visto in lui il «padre della storia», di una storia che si limitava alla «stretta osservanza dei fatti, [al]l’assenza di moralizzazione e di ornamento, [al]la pura verità storica» [ibid., pp. 104 sgg.; cfr. Iggers 1971, pp. 86 sgg.].

Ora, Ranke si è certamente posto, nella scia di Humboldt, come un sostenitore (prudente) della dottrina delle idee storiche e ha attribuito grande importanza alla psicologia storica, come ha mostrato nella sua Storia dei papi romani [1834-36]. Ma benché si siano spesso utilizzate un certo numero di frasi nelle quali egli dice che «ciascun popolo è immediato con Dio», egli è stato un «avversario delle teorie storiche nazionali» [Fueter 1911, trad. it. p. 607].

L’ottimismo storicista raggiunse l’apogeo con la scuola prussiana, le cui figure piú rilevanti furono Johann Gustav Droysen, che espresse le sue teorie nel Sommario di istorica (Grundriss der Historik, 1858) e Heinrich von Sybel. Droysen pensa che non vi sia conflitto tra la morale e la storia o la politica. Se un governo non poggia sulla forza pura e semplice ma anche su un’etica, esso raggiunge lo stadio supremo della realizzazione etico-storica, lo Stato. Lo Stato prussiano è stato nel XIX secolo il modello di questo risultato, realizzato nell’antichità anche da Alessandro. In seno allo Stato non esiste piú conflitto tra la libertà individuale e il bene comune.

Sybel insistette ancora di piú sulla missione dello Stato e sulla realtà di un progresso generale dell’umanità. Vi aggiunse una preminenza della ragion di Stato, dovendo la forza avere la meglio in caso di conflitto con il diritto.

Questo smilzo sommario dovrebbe essere arricchito da uno studio degli stretti legami tra queste concezioni della storia e la storia tedesca e europea del XIX secolo e da uno studio degli altri campi della scienza nei quali lo storicismo tedesco si è trionfalmente installato, per esempio la scuola storica del diritto, la scuola storica dell’economia, la linguistica storica, ecc. [Iggers 1973].

Alla fine del secolo si assistette al riflusso dello storicismo in Germania, mentre aveva la meglio altrove, ma con deformazioni positiviste (Francia, Stati Uniti) o idealiste (Italia: Croce).

Iggers si è giustamente espresso dicendo che la critica allo storicismo fu fatta prima del 1914-18 soprattutto come critica dell’idealismo e, dopo, soprattutto come critica dell’idea di progresso. Vanno distinte, in particolare, la critica dei filosofi e la critica degli storici.

Per quanto riguarda la prima, rinvio al grande libro di Raymond Aron La philosophie critique de l’histoire [1938b] e ai bei saggi Lo storicismo tedesco contemporaneo di Pietro Rossi [1956] e Lo storicismo di Carlo Antoni [1957].

Verranno ricordate ora le due principali figure della critica filosofica: Dilthey e Max Weber. Dilthey ha cominciato col criticare i concetti fondamentali dello storicismo di Humboldt e di Ranke: anima popolare (Volksseele), spirito del popolo (Volksgeist), nazione, organismo sociale, che sono per lui concetti «mistici», inutili alla storia [Iggers 1971, p. 180]. Poi ha pensato che il sapere era possibile nelle scienze dello spirito – ivi compresa la storia – perché la vita «si obiettiva» in istituzioni quali la famiglia, la società civile, lo Stato, il diritto, l’arte, la religione e la filosofia [ibid., p. 182]. Alla fine della sua vita (1903), egli pensava di scorgere il fine della sua ricerca per stabilire «una critica della ragione storica». Egli credeva che «la visione storica del mondo (geschichtliche Weltanschauung) fosse la liberazione dello spirito umano, che essa affrancava dalle ultime catene che le scienze della natura e la filosofia non avevano spezzato» [ibid., p. 188]. Tutta la critica dello storicismo, alla fine del secolo XIX e agl’inizi del XX, è ambigua. Essa cerca, come si è visto con Dilthey, piú di superare lo storicismo che di rinnegarlo.

Max Weber, oltre che filosofo, è stato un grande storico e sociologo. Raymond Aron ha sintetizzato la teoria weberiana della storia nei termini seguenti: «Tutte le polemiche di Weber hanno come scopo di dimostrare indirettamente la sua teoria, escludendo le concezioni che potrebbero minacciarla. La storia è una scienza positiva; questa proposizione è messa in dubbio da: a) i metafisici, consapevoli o inconsapevoli, dichiarati o pudichi, che utilizzano un concetto trascendentale (libertà) nella logica della storia; b) gli esteti e/o i positivisti, che partono dal pregiudizio secondo il quale non si dà scienza e concetto che del generale, essendo l’individuo suscettibile di essere soltanto intuitivamente. La storia è sempre parziale, perché il reale è infinito, perché l’ispirazione della ricerca storica cambia con la storia stessa. Mettono in pericolo queste proporzioni: a) i “naturalisti”, che proclamano che la legge è il fine unico della scienza o che pensano di esaurire il contenuto della realtà per mezzo di un sistema di relazioni astratte; b) gli storici ingenui che, inconsapevoli dei loro valori, si immaginano di scoprire nel mondo storico stesso la selezione dell’importante e dell’accidentale; c) tutti i metafisici, che credono di aver colto in maniera positiva l’essenza dei fenomeni, le forze profonde, le leggi del tutto, che governerebbero il divenire al di sopra della testa degli uomini che pensano e credono di agire» [1938b, p. 256]. Si vede come Max Weber combattesse lo storicismo sia dal lato idealistico sia da quello positivistico, i due versanti del pensiero storico tedesco del XIX secolo.

Questo capitolo sullo storicismo e sulla sua critica si chiude con i due ultimi grandi storici tedeschi del XIX secolo: Ernst Troeltsch e Friedrich Meinecke, che verso la fine della loro attività hanno pubblicato due opere sullo storicismo: Il trionfo dello storicismo [1924] e Le origini dello storicismo [1936].

Prima di tutto essi sono i primi a chiamare Historismus ‘storicismo’ il movimento storiografico tedesco del XIX secolo, la cui figura centrale fu Ranke. Ne seguí tra l’altro una interminabile polemica sul modo di tradurre il vocabolo in francese – ed eventualmente di definirlo – con i termini historisme o historicisme [Iggers 1973]. In italiano si è usato soltanto il termine ‘storicismo’. Le due opere sono infatti una critica dello storicismo e nello stesso tempo un monumento alla sua gloria. Troeltsch, che come Ranke pensava che non vi è una storia ma delle storie, aveva voluto superare il dualismo fondamentale dello storicismo: il conflitto tra natura e spirito, azione sotto l’impulso della forza (ϰράτος) e azione secondo la giustificazione morale (῎Εθος), coscienza storicistica e bisogno di valori assoluti. Meinecke accetta questo dualismo [cfr. Chabod 1927]. Egli definisce lo storicismo «il piú alto grado raggiunto nella comprensione delle cose umane». Indubbiamente, egli si arresta, come ha ben visto Carlo Antoni, prima della dissoluzione della ragione e della fede nel pensiero, principio di unità della natura umana, proprio a causa dell’umanesimo che Ranke aveva mantenuto. Ma Delio Cantimori [1945] ha dato ragione a Croce, che vedeva nello storicismo definito da Meinecke una sorta di tradimento «irrazionale» dello «storicismo vero». «“Storicismo”, nell’uso scientifico della parola, è l’affermazione che la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia. Correlativa a quest’affermazione è la negazione della teoria che considera la realtà divisa in soprastoria e storia, in un mondo d’idee o di valori, e in un basso mondo che li riflette, o li ha riflessi finora, in modo fuggevole e imperfetto, e al quale converrà una buona volta imporli facendo succedere alla storia imperfetta, o alla storia senz’altro, una realtà razionale e perfetta… Il Meinecke, invece, fa consistere lo storicismo nell’ammissione di quel che d’irrazionale è nella vita umana, nell’attenersi all’individuale senza per altro trascurare il tipico e il generale che vi si lega, e nel proiettare questa visione dell’individuale sullo sfondo della fede religiosa o del religioso mistero… Ma lo storicismo vero, in tanto critica e vince il razionalismo astratto dell’illuminismo, in quanto è piú profondamente razionalista di esso…» [Croce 1938, pp. 51-53]. Alla vigilia del nazismo, le opere di Troeltsch e di Meinecke rappresentarono le tombe glorificatrici dello storicismo. Ma si faccia un passo indietro per ritornare a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che è stato il primo filosofo a mettere la storia al centro della sua riflessione. Sotto l’influenza della rivoluzione francese, egli fu il primo a vedere «l’essenza della realtà nel divenire storico e nello sviluppo dell’autocoscienza» [Carr 1961, trad. it. p. 145]. Affermando che «tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale», egli ritiene che la storia sia governata dalla ragione. «L’unico pensiero che essa [la filosofia] porta con sé è il semplice pensiero della ragione: che la ragione governi il mondo, e che quindi anche la storia universale debba essersi svolta razionalmente» [Hegel 1830-31, trad. it., I, p. 7]. La storia stessa è presa in un sistema che è quello dello Spirito. La storia non è identica alla logica. Hélène Védrine ha portato l’attenzione su un passo della Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio [1830]: «Ma lo spirito pensante della storia universale, – poiché insieme ha cancellato quelle limitatezze degli spiriti dei popoli particolari e il suo proprio carattere terreno, – conquista la sua universalità concreta e si eleva al sapere dello spirito assoluto, come della verità eternamente reale, nella quale la ragione conoscitrice è libera per sé, e la necessità, la natura e la storia sono solo gli strumenti della rivelazione e dell’onore dello spirito» (trad. it. pp. 525-26). La Védrine nota giustamente che quest’opera attesta sí l’idealismo di Hegel, ma soprattutto che in essa si manifesta «il paradosso di tutte le filosofie della storia: per cogliere il senso dello sviluppo, bisogna trovare il punto focale nel quale si sopprimono gli avvenimenti nella loro singolarità ed essi diventano significativi secondo una griglia che permette di interpretarli. Nella sua totalizzazione, il sistema produce un concetto del suo oggetto in modo che l’oggetto diventa razionale e sfugge con ciò all’imprevisto e a una temporalità nella quale il caso potrebbe avere un ruolo» [1975, p. 21]. Quanto al processo storico, Hegel precisa che «nella storia del mondo non si può trattare che di popoli i quali costituiscano uno stato» [1830-31, trad. it., I, p. 107] e nella Filosofia del diritto [1821] egli presenta lo Stato moderno dopo la rivoluzione francese formato da tre classi: la classe sostanziale o contadina, la classe industriale, la classe universale (= burocrazia), che sembra rappresentare la perfezione nella storia. Certo, Hegel non ha arrestato la storia a questo punto; egli pensa piuttosto che la preistoria si è conclusa e che la storia, che non è piú il cambiamento dialettico ma il funzionamento razionale dello Spirito, abbia avuto inizio.

Senza dubbio Ranke ha vivamente criticato Hegel [Simon 1928] e il suo modello di un processo unico di sviluppo lineare, ma si può sostenere, che «dal punto di vista della conoscenza come da quello del valore, Hegel rappresenti uno storicismo completo, sistematicamente applicato» [Mandelbaum 1971, p. 60].

Non si può collocare il materialismo storico nel campo dello storicismo che dando a quest’ultimo un significato molto vasto (si veda piú avanti la critica di Althusser a questa concezione). Per Marx [cfr. Vilar 1978; Lichtheim 1973], la «concezione materialistica della storia» (espressione che non ha mai usato) ha un duplice carattere: 1) come principio generale la ricerca storica sotto una forma di concettualizzazione semplicemente abbozzata; 2) come teoria del processo storico reale una applicazione: lo studio della società borghese che conduce a un abbozzo storico dello sviluppo del capitalismo in Europa occidentale. I principali testi di Marx concernenti la storia sono nell’Ideologia tedesca [Marx e Engels 1845-46] che fa «cogliere il materialismo storico nella sua genesi e nelle sue sfumature» [Vilar 1978], e anche – ma diffidando delle citazioni senza contesto e dei commenti deformanti o limitanti – nella «prefazione» del 1859 a Per la critica dell’economia politica [1859], e infine nel Capitale. La tesi fondamentale è che il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo sociale, politico e intellettuale in generale. Non è la coscienza degli uomini che determina la loro esistenza, ma al contrario il loro essere sociale che determina la loro coscienza.

Contro Hegel, Marx ha respinto ogni filosofia della storia assimilata a una metodologia. Nel Manifesto [Marx e Engels 1848] ha fondato la storia di ogni società esistente come storia della lotta di classe.

Su un certo numero di punti particolarmente contestabili e pericolosi del materialismo storico, Marx – senza essere responsabile delle interpretazioni abusive e delle conseguenze illegittime che altri ne hanno voluto trarre durante la sua vita e dopo la sua morte – ha tuttavia o accettato formulazioni oltranziste e semplificanti, o lasciato nel vago o nell’ambiguità dei concetti importanti. Egli non ha formulato leggi generali della storia, ha soltanto concettualizzato il processo storico, ma talvolta ha egli stesso impiegato il termine pericoloso di ‘legge’ o accettato che il suo pensiero fosse formulato in tali termini. Per esempio, egli accetta l’impiego del termine ‘leggi’ a proposito delle concezioni espresse nel primo volume del Capitale [1867], fatto nel resoconto di un professore della università di Kiev, Sieber [Mandelbaum 1971, pp. 72-73]. Egli lascia che Engels esponga nell’Anti-Dühring [1878] una concezione grossolana del modo di produzione e della lotta di classe. Come è stato notato, la sua documentazione storica (e quella di Engels) era insufficiente ed egli non ha scritto delle vere e proprie opere storiche ma dei pamphlet. Ha lasciato nel vago il piú pericoloso dei suoi concetti, la distinzione tra struttura e sovrastruttura, benché non abbia mai espresso una concezione grossolanamente economica della struttura, né designato come sovrastruttura altro che la costruzione politica (lo Stato, in completa opposizione con la maggior parte degli storici tedeschi del suo tempo, e parecchi esponenti di quello che si chiamerà lo storicismo) e l’ideologia, termine per lui peggiorativo. Non ha nemmeno precisato come la teoria critica e la pratica rivoluzionaria dovessero unificarsi nello storico: nella vita, nell’opera. Egli ha fornito basi teoriche ma non pratiche al problema dei rapporti tra storia e politica. Benché abbia parlato della storia dell’Asia, egli non ha praticamente ragionato che sulla storia europea e ha ignorato il concetto di civiltà. A proposito del suo rifiuto di leggi meccaniche in storia si può citare una lettera del 1877 nella quale dichiara: «Degli eventi sorprendentemente analoghi, che tuttavia si verificano in contesti storici diversi, hanno effetti completamente diversi. Studiando separatamente ognuno di questi processi evolutivi e confrontandoli, troviamo facilmente la chiave per comprendere il fenomeno in questione; ma in nessun caso è possibile arrivare a tale comprensione servendosi come di un passe-partout di certe teorie storico-filosofiche che hanno la gran virtú di porsi al di sopra della storia» [citato in Carr 1961, trad. it. p. 71]. Egli ha criticato la concezione événementielle della storia: «Si vede come la passata concezione della storia fosse un nonsenso che trascurava i rapporti reali e si limitava ai grandi avvenimenti politici e storici altisonanti» [citato in Vilar 1978, p. 372]. Come dice Pierre Vilar, «egli ha scritto pochi “libri di storia”, egli ha sempre scritto libri di storico, il “concetto di storia” è nella sua pratica» [ibid., p. 374].

Si sa che Benedetto Croce è stato attratto in gioventú dal marxismo e Gramsci [1932-35, p. 1240] ha ritenuto che Croce sia stato in seguito ossessionato dal materialismo storico. Per Croce come per il materialismo storico, «l’identità di storia e di filosofia è immanente nel materialismo storico» [ibid., p. 1241]. Ma Croce si rifiuterebbe di andare fino al fondo di questa identità, vale a dire di concepirla «come previsione storica di una fase avvenire» [ibid.]. Croce rifiuterebbe soprattutto d’identificare storia e politica, cioè ideologia e filosofia [ibid., p. 1242]. Croce dimenticherebbe che «realtà in movimento e concetto della realtà, se logicamente possono essere distinti, storicamente devono essere concepiti come unità inseparabile» [ibid., p. 1241]. Croce sarebbe cosí caduto nel sociologismo «idealistico» e il suo storicismo non sarebbe che una forma di riformismo, non il «vero» storicismo, sarebbe una ideologia nel senso deteriore. Sembra a chi scrive che Gramsci abbia abbastanza ragione opponendo la filosofia della storia di Croce a quella del materialismo storico. Se vi scorge delle radici comuni è perché egli stesso è ritornato (come Croce) a Hegel dietro Marx, perché ha interpretato il materialismo storico come uno storicismo, il che non è – in ogni caso – il pensiero di Marx, ed è forse lui stesso, Gramsci, che non riesce a liberarsi interamente dall’influenza di Croce, che definiva nel 1917 «il piú grande pensatore dell’Europa in questo momento».

Sull’idealismo storico di Croce non vi sono dubbi. In Teoria e storia della storiografia egli definisce cosí la concezione idealistica: «Non si tratta già d’instaurare, accanto od oltre l’astratta storiografia individualistica e prammatica, un’astratta storia dello spirito, dell’astratto universale; ma d’intendere che individuo e idea, separatamente presi, sono due astrazioni equivalenti e inadatte l’una e l’altra a fornire il soggetto alla storia, e che la vera storia è storia dell’individuo in quanto universale e dell’universale in quanto individuo. Non si tratta di abolire Pericle a vantaggio della Politica, o Platone a vantaggio della Filosofia, o Sofocle a vantaggio della Tragedia; ma di pensare e rappresentare la Politica, la Filosofia e la Tragedia come Pericle, Platone e Sofocle, e questi come ciascuna di quelle in uno dei loro particolari momenti. Perché, se fuori della relazione con lo spirito l’individuo è ombra di un sogno, ombra di sogno è anche lo spirito fuori delle sue individuazioni; e raggiungere nella concezione storica l’universalità è ottenere insieme l’individualità, e renderle entrambe salde della saldezza che l’una conferisce all’altra. Se l’esistenza di Pericle, di Sofocle e di Platone fosse indifferente, non sarebbe per ciò stesso pronunziata indifferente anche l’esistenza dell’Idea?» [1915, ed. 1976 pp. 97-98]. E nella Storia come pensiero e come azione, dopo aver criticato il razionalismo positivista del was eigentlich gewesen ‘quel che propriamente è stato’ di Ranke, egli giunge ad affermare che «nessun’altra unità sussiste fuori di quella del pensiero stesso che distingue e unifica» [1938, p. 312]. Come commenta Chabod, «non v’è unità in re, ma solo nel pensiero critico» [1952, ed. 1972, p. 228].

Arnaldo Momigliano ha sottolineato la scarsa influenza di Croce sui filosofi: «Nessuno può prevedere se la filosofia di Croce sarà un punto di partenza per i futuri filosofi. Attualmente egli ha in Italia pochi discepoli, e forse nessuno all’estero. Anche Collingwood, già prima della sua prematura morte, aveva cessato di essere suo discepolo» [1966a, ed. 1969, p. 110].

Delio Cantimori ha notato che gli storici di professione non hanno considerato come storia la maggior parte dell’opera di Croce, compresi gli scritti che recavano il titolo Storia… Fu il caso di Federico Chabod, che Croce peraltro aveva invitato a dirigere l’Istituto per gli studi storici da lui fondato a Napoli: «Le scartava, perché gli sembrava che in esse ci fosse troppo del filosofo, del politico dottrinario, dell’uomo che non sa spogliarsi della propria ideologia e passione di parte» [1966, ed. 1978, p. 402]. Chi scrive confessa di condividere l’opinione di Chabod, benché occorra sottolineare che Croce, diversamente da molti filosofi della storia che erano dei «puri» filosofi, era anche un vero storico.

Per contro, crede che Cantimori abbia ragione di sottolineare il grande progresso nel pensiero storico che si deve in gran parte a Croce: la distinzione tra storia e storiografia: «Nel corso delle sue varie e molteplici esperienze storiografiche, e delle sue riflessioni sul lavoro storiografico, il Croce ha ritrovato e trasmesso chiaramente, con la formula della distinzione fra res gestae e historia rerum gestarum, agli studi di storia e di questioni storiche, il risultato della grande, fondamentale, e in sostanza irreversibile esperienza critica della filologia moderna, che è scienza del conosciuto e non dell’ignoto. Ciò non vuol dire, per il Croce, che non si debbono fare ricerche archivistiche o di materiale inedito; anzi, che si debbono fare, e che solo nello studio del documento o di una serie di documenti, compiuto direttamente, si può avere la valutazione dell’importanza e del significato di quel materiale» [ibid., p. 406]. Dopo aver esposto dettagliatamente l’insieme dei procedimenti professionali dello storico, Cantimori conclude, a proposito di Croce: «Non rinunciare alla critica (historia rerum) per l’illusione di poter cogliere la sostanza o essenza delle cose come sono andate e di poterle far conoscere una volta per sempre (res gestae); perché solo tale distinzione critica permette di mantenersi su un punto di vista dal quale si possa seguire il movimento e l’andare delle società e degli individui, degli uomini e delle cose – e di conoscere nel vivo e nel concreto e non nell’astratto e generico» [ibid.].

A questa distinzione fondamentale si aggiunge il fatto che Croce ha anche insistito sull’importanza della storia della storiografia: «Con l’attenzione per la storia della storiografia, il Croce ha indicato la necessità e la possibilità di questo secondo approfondimento critico per gli storici, come scala e graduazione per giungere, attraverso il riconoscimento delle interpretazioni, del loro ambiente generale culturale e sociale, a una esposizione e a un giudizio bene informati e autonomi, liberi cioè da ripetizioni e ossequi a metafisiche e metodologie derivanti non dalla tecnica e dalla esperienza ma da principî filosofici e scolastici» [ibid., p. 407].

Antonio Gramsci è considerato come interprete di un marxismo aperto, ed è certamente vero che nei suoi scritti come nella sua azione politica si ritrovano posizioni estremamente duttili. Ma chi scrive non pensa che le sue concezioni della storia segnino un progresso del materialismo storico. Vi si scorge piuttosto, da una parte, un certo ritorno al hegelismo, dall’altra uno scivolamento verso il marxismo volgare. Certamente, egli riconosce che la storia non funziona come una scienza e che non si può applicarle una concezione meccanica della causalità. Ma la sua famosa teoria del blocco storico pare molto pericolosa per la scienza storica. L’affermazione che la struttura e la sovrastruttura costituiscono un blocco storico – in altre parole che «l’insieme complesso contraddittorio e discorde delle soprastrutture è il riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione» [1931-32, p. 1051] – è stata generalmente interpretata come un ammorbidimento della dottrina dei rapporti tra struttura e sovrastruttura che Marx aveva lasciato relativamente nel vago e che pareva la parte piú falsa, piú debole e pericolosa dello stesso materialismo storico, anche se Marx non ha ridotto la struttura a economia. Quello che Gramsci sembra abbandonare è l’idea peggiorativa di ideologia, ma se egli lascia l’ideologia nella sovrastruttura, la valorizzazione della stessa ideologia non fa che minacciare ancor piú l’indipendenza (non l’autonomia, che evidentemente non esiste) del settore intellettuale. Ora Gramsci consolida doppiamente l’assoggettamento del lavoro intellettuale. Da una parte, a fianco degli intellettuali tradizionali e degli intellettuali organici, Gramsci non riconosce come validi che intellettuali che identificano scienza e prassi, andando al di là dei legami che Marx aveva tracciato. Inoltre, colloca la scienza nella sovrastruttura. All’origine di questi scivolamenti è possibile ritrovare la concezione gramsciana del materialismo storico come «storicismo assoluto».

Louis Althusser ha violentemente protestato contro l’interpretazione «storicistica» del marxismo, che egli collega con l’interpretazione «umanistica». Egli ne scorge la nascita nella «reazione di sopravvivenza contro il meccanicismo e l’economicismo della II Internazionale, nel periodo che precedette e soprattutto negli anni che seguirono la Rivoluzione del 1917» [in Althusser e Balibar 1965, trad. it. p. 127]. Questa concezione storicistica e umanistica (secondo Althusser, questi due caratteri si sono trovati uniti dalla contingenza storica ma non lo sono necessariamente da un punto di vista teorico) è stata anzitutto quella della sinistra tedesca, di Rosa Luxemburg e Franz Mehring, poi, dopo la rivoluzione del 1917, quella di Lukács e soprattutto di Gramsci, prima di essere in certo modo ripresa dal Sartre della Critique de la raison dialectique. È nella tradizione marxista italiana, nella quale Gramsci è l’erede di Antonio Labriola e di Croce (Althusser tende a minimizzare l’opposizione Gramsci-Croce), che Althusser trova le espressioni piú marcate del marxismo come «storicismo assoluto». Egli cita il celebre passo della nota di Gramsci su Croce: «Si è dimenticato in una espressione molto comune [materialismo storico] che occorreva posare l’accento sul secondo termine “storico” e non sul primo di origine metafisica. La filosofia della praxis è lo “storicismo” assoluto, la mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, un umanesimo assoluto della storia. In questa linea è da scavare il filone della nuova concezione del mondo» [Gramsci 1932-33, p. 1437].

Certamente, Althusser tiene conto della polemica in questo testo, e non scaglia interdetti contro Gramsci, la cui sincerità e onestà rivoluzionaria gli sembrano al di sopra di ogni sospetto; egli vuole semplicemente togliere ogni valore teorico a testi di circostanza. Per lui identificare «la genesi speculativa del concetto» con «la genesi del concreto reale stesso», cioè con il processo della storia «empirica», è un errore. Gramsci ha avuto il torto di formulare «una concezione autenticamente “storicista” di Marx: una concezione “storicista” della teoria del rapporto tra la teoria di Marx e la storia reale» [in Althusser e Balibar 1965, trad. it. p. 137]. Althusser ritiene che si debba distinguere il materialismo storico che può essere considerato come una teoria della storia e il materialismo dialettico, filosofia che sfugge alla storicità. Althusser ha senza dubbio ragione, in quanto esegeta di Marx, nel fare questa distinzione, ma quando egli rimprovera alla concezione storicistica del marxismo di dimenticare la novità assoluta, la «rottura» che il marxismo costituirebbe in quanto scienza – «questa volta un’ideologia che si fonda su una scienza: cosa che non era mai avvenuta» [ibid., p. 138] –, non si comprende piú molto bene se parla del materialismo dialettico o del materialismo storico o di entrambi [ibid., pp. 126-51]. Sembra che separando parzialmente il marxismo dalla storia, Althusser lo faccia oscillare dalla parte della metafisica, della credenza e non della scienza. Non è che con un va e vieni costante dalla prassi alla scienza, nel quale si alimentino l’un l’altra pur restando accuratamente distinte, che la storia scientifica potrà liberarsi della storia vissuta, condizione indispensabile perché la disciplina storica acceda a uno statuto scientifico.

Ove la critica di Althusser contro Gramsci non pare particolarmente pertinente è quando – considerando «le stupefacenti pagine di Gramsci sulla scienza» [ibid., p. 138] («anche la scienza è una superstruttura, una ideologia» [Gramsci 1932-33, p. 1457]) – rammenta che Marx rifiuta un’applicazione ampia del concetto di struttura, che è valido soltanto per la sovrastruttura giuridico-politica e la sovrastruttura ideologica (le «forme di coscienza sociale» corrispondenti), e che in particolare Marx «non vi include mai… la conoscenza scientifica» [in Althusser e Balibar 1965, trad. it. p. 140]. In tal modo, ciò che di positivo potrebbe avere l’interpretazione gramsciana del materialismo storico come storicismo – nonostante i pericoli di feticizzazione di diverso genere che ciò implica – viene annientato dalla sua concezione della scienza come sovrastruttura. La storia – i due significati della parola confusi – diventa essa stessa «organica», espressione e strumento del gruppo dirigente. La filosofia della storia è spinta al culmine: storia e filosofia sono confuse, formano anch’esse un altro tipo di «blocco storico»: «La filosofia di un’epoca storica non è dunque altro che la “storia” di quella stessa epoca, non è altro che la massa di variazioni che il gruppo dirigente è riuscito a determinare nella realtà precedente: storia e filosofia sono inscindibili in questo senso, formano “blocco”» [Gramsci 1932-35, p. 1255].

Sembra che l’interpretazione «storica» e non «storicista» della dialettica marxiana e marxista di Galvano Della Volpe sia piú vicina ai rapporti che Marx poneva tra storia e teoria del processo storico: «Le contraddizioni (o diciamo pure i contrari) che interessa unicamente a Marx di risolvere o superare nella loro unità sono reali, cioè appunto contraddizioni storiche, o meglio storicamente determinate o specifiche» [1969, p. 317].

Passerò rapidamente su due concezioni della storia, qui menzionate unicamente per la risonanza che hanno avuto in un passato recente, in particolare tra il grosso pubblico.

Oswald Spengler ha reagito contro l’ideologia del progresso e nel Tramonto dell’Occidente [1918-22] presenta una teoria biologica della storia, costituita da civiltà che sono «dei vivi del sangue supremo», mentre gli individui non esistono che nella misura in cui partecipano di questi «viventi». Vi sono due fasi nella vita delle società: la fase di cultura che corrisponde al loro slancio e al loro apogeo, la fase di civiltà che corrisponde alla loro decadenza e scomparsa. Spengler ritrova cosí la concezione ciclica della storia.

Arnold Toynbee è invece uno storico. In A Study of History [1934-39] egli parte da Spengler sperando di riuscire dove questi non è riuscito. Egli distingue delle civiltà, ventuno di numero, che hanno raggiunto nel corso della storia uno stadio completo di fioritura e delle culture che non sono pervenute che a un certo livello di sviluppo. Tutte queste civiltà passano per quattro fasi: una corta genesi durante la quale la civiltà nascente riceve (in generale dall’esterno) una «sfida», alla quale dà una «risposta»; un lungo periodo di crescita, poi un arresto segnato da un accidente; e infine una fase di disaggregazione che può essere molto lunga [cfr. Crubellier 1961, pp. 8 sgg.]. Questo schema è «progressista», «aperto» al livello dell’umanità. Di fatto, accanto a questa storia, frutto di una successione di cicli, esiste un’altra storia, «provvidenziale»: l’umanità è globalmente in marcia verso una trasfigurazione che rivela la «teologia dello storico». Cosí procedono l’una accanto all’altra una teoria spengleriana e una concezione agostiniana. Oltre all’aspetto «metafisico» di questa concezione, si è giustamente criticato il taglio arbitrario e confuso delle civiltà e delle culture, la conoscenza imperfetta che Toynbee ha di molte di esse, l’illegittimità della comparazione tra queste, ecc. Raymond Aron ha comunque sottolineato il merito principale di questa impresa: il desiderio di sfuggire a una storia eurocentrica, occidentalista. «Spengler ha voluto rifiutare l’ottimismo razionalista dell’Occidente, a partire da una filosofia biologica e da una concezione nietzscheana dell’eroismo; Toynbee ha voluto rifiutare la superbia provinciale degli Occidentali» [1961b, p. 46].

Michel Foucault occupa nella storia della storia un posto eccezionale per tre ragioni.

Anzitutto, perché è uno dei piú grandi storici nuovi. Storico della follia, della clinica, del mondo carcerario, della sessualità, egli ha introdotto alcuni dei nuovi oggetti, tra i piú «provocatori» della storia, e ha mostrato una delle grandi svolte della storia occidentale tra la fine del medioevo e il XIX secolo: la grande segregazione dei devianti.

In secondo luogo, perché ha compiuto la diagnosi piú perspicace di questo rinnovamento della storia. Egli vede questo rinnovamento sotto quattro forme:

1) «Il processo al documento»: «La storia, nella sua forma tradizionale, si dedicava a “memorizzare” i monumenti del passato, a trasformarli in documenti e a far parlare quelle tracce che, in se stesse, non sono affatto verbali, o dicono tacitamente cose diverse da quelle che dicono esplicitamente; oggi invece, la storia è quella che trasforma i documenti in monumenti, e che, laddove si decifravano delle tracce lasciate dagli uomini e si scopriva in negativo ciò che erano stati, presenta una massa di elementi che bisogna poi isolare, raggruppare, rendere pertinenti, mettere in relazione, costituire in insiemi» [1969, trad. it. pp. 12-14].

2) «Nelle discipline storiche la nozione di discontinuità acquista un ruolo di maggior rilievo» [ibid., p. 15].

3) Il tema e la possibilità di una storia globale cominciano a perdere consistenza, e si assiste al delinearsi del disegno, molto differente, di quella che si potrebbe chiamare una storia generale, determinando «quale forma di rapporto possa essere legittimamente descritta tra… serie differenti» [ibid., p. 17].

4) Nuovi metodi. La storia nuova incontra un certo numero di problemi metodologici, parecchi dei quali, senza alcun dubbio, le preesistevano largamente, ma che nel loro insieme ora la caratterizzano. Tra essi si può citare: la costituzione di corpus coerenti e omogenei di documenti (corpi aperti o chiusi, finiti o indefiniti), la fissazione di un principio di scelta (a seconda che si voglia trattare esaurientemente la massa documentaria, praticare una campionatura secondo metodi di prelievo statistico, o che si tenti di determinare preliminarmente gli elementi piú rappresentativi); la definizione del livello di analisi e degli elementi che gli sono pertinenti (nel materiale studiato, si possono rilevare le indicazioni numeriche); i riferimenti – espliciti o no – a avvenimenti, istituzioni, pratiche; le parole impiegate, con le loro regole d’uso e i campi semantici che delineano o ancora la struttura formale delle proposizioni e i tipi di connessione che le uniscono; la specificazione di un metodo di analisi (trattamento quantitativo dei dati, decomposizione secondo un certo numero di tratti assegnabili dei quali si studiano le correlazioni, decifrazione interpretativa, analisi delle frequenze e delle distribuzioni); la delimitazione degli insiemi e dei sottoinsiemi che articolano il materiale studiato (regioni, periodi, processi unitari); la determinazione delle relazioni che permettono di caratterizzare un insieme (può trattarsi di relazioni numeriche o logiche; di relazioni funzionali, causali, analogiche; può trattarsi di relazioni tra significante e significato) [ibid., pp. 19-20].

Infine, Foucault propone una filosofia originale della storia fortemente legata alla pratica e alla metodologia della disciplina storica. Si lascia a Paul Veyne il compito di caratterizzarla: «Per Foucault, l’interesse della storia non è nell’elaborazione di invarianti, siano essi filosofici o si organizzino in scienze umane; ma nell’utilizzazione degli invarianti, quali essi siano, per dissolvere i razionalismi continuamente rinascenti. La storia è una genealogia nietzscheana. Per questo la storia secondo Foucault passa per essere filosofia (cosa che non è vera né falsa); in ogni caso essa è ben lontana dalla vocazione empirista tradizionalmente attribuita alla storia. “Che nessuno entri qui se non è o non diventa filosofo”. Storia scritta in parole astratte piú che in una semantica d’epoca, ancora carica di colore locale; storia che sembra trovare dovunque analogie parziali, abbozzare tipologie, poiché una storia scritta in una rete di parole astratte presenta minore diversità pittoresca che una narrazione aneddotica» [1978, p. 378]. «La storia-genealogia alla Foucault occupa dunque interamente il programma della storia tradizionale; essa non tralascia la società, l’economia, ecc., ma struttura questa materia diversamente: non i secoli, i poli o le civiltà, ma le pratiche; gli intrighi che essa racconta sono la storia delle pratiche, nella quale gli uomini hanno visto delle verità e loro lotte intorno a queste verità. Questa storia nuovo modello, questa “archeologia”, come la chiama il suo inventore, “si dispiega nella dimensione di una storia generale”; essa non si specializza nella pratica, il discorso, la parte nascosta dell’iceberg, o piuttosto la parte nascosta del discorso e della pratica non è separabile dalla parte affiorante» [ibid., pp. 384-85]. «Ogni storia è archeologica per natura e non per scelta: spiegare e esplicitare la storia consiste nello scorgerla anzitutto interamente, nel rapportare i pretesi oggetti naturali alle pratiche datate e rare che li obiettivizzano e nello spiegare queste pratiche, non partendo da un motore unico, ma da tutte le pratiche vicine alle quali esse si ancorano» [ibid., p. 385].



4. La storia come scienza: il mestiere di storico.

La miglior prova che la storia è e dev’essere una scienza è costituita dal fatto che essa ha bisogno di tecniche, di metodi, e che s’insegna. Lucien Febvre, piú restrittivamente, ha detto: «Qualifico la storia come studio condotto scientificamente e non come scienza» [1941, trad. it. p. 141]. I teorici piú ortodossi della storia positivista, Langlois e Seignobos, hanno espresso in una formula stringente, che costituisce la professione di fede fondamentale dello storico, ciò che è alla base della scienza storica: «Senza documenti, non vi è storia» [1898, ed. 1902, p. 2].

Ma le difficoltà cominciano qui. Se il documento è piú agevole da definire e da reperire che il fatto storico, il quale non è mai dato come tale ma costruito, esso non pone comunque allo storico dei problemi rilevanti.

Anzitutto, esso non diventa documento che dopo una ricerca e una scelta. La ricerca è in generale il fatto non dello storico stesso, ma di ausiliari che costituiscono le riserve di documenti alle quali lo storico attingerà la propria documentazione: archivi, scavi archeologici, musei, biblioteche, ecc. Le perdite, le scelte delle raccolte di documenti, la qualità della documentazione sono condizioni obiettive, ma costrittive, del mestiere di storico. Piú delicati sono i problemi che si presentano allo storico stesso a partire da questa documentazione.

Si tratta in primo luogo di decidere ciò che egli considererà come documento e ciò che invece respingerà. Per molto tempo gli storici hanno pensato che i veri documenti storici fossero quelli che rischiaravano quella parte della storia degli uomini che era degna di essere conservata, riferita e studiata: la storia dei grandi avvenimenti (vita dei grandi uomini, eventi militari e diplomatici, battaglie e trattati), la storia politica e istituzionale. D’altronde, l’idea che la nascita della storia fosse legata a quella della scrittura portava a privilegiare il documento scritto. Nessuno piú di Fustel de Coulanges ha privilegiato il testo come documento di storia. Nel primo capitolo della Monarchie franque egli scriveva: «Leggi, carte, formule, cronache e storie, bisogna avere letto tutte queste categorie di documenti senza averne omesso neppure una… [Lo storico] non ha altra ambizione che quella di vedere bene i fatti e di comprenderli con esattezza. Non è nella sua immaginazione o nella logica che egli li cerca; li cerca e li coglie con l’osservazione minuziosa dei testi, come il chimico trova i suoi in esperimenti minuziosamente condotti. La sua unica abilità consiste nel trarre dai documenti tutto quello che contengono e nel non aggiungervi nulla che non vi sia contenuto. Il migliore degli storici è quello che si attiene di piú ai fatti, che li interpreta con la maggiore correttezza, che non scrive e non pensa che secondo tali fatti» [1888, pp. 29, 30, 33].

Tuttavia, in una lezione all’università di Strasburgo, lo stesso Fustel aveva dichiarato: «Là dove alla storia mancano i monumenti scritti occorre che essa chieda alle lingue morte i loro segreti, e che nelle loro forme e nelle loro stesse parole indovini il pensiero degli uomini che le hanno parlate. La storia deve scrutare le favole, i miti, i sogni della fantasia, tutte queste vecchie falsità, al di sotto delle quali deve scoprire qualcosa di reale, le credenze umane. Là dove è passato l’uomo, dove ha lasciato qualche impronta della sua vita e della sua intelligenza, là sta la storia» [1862, p. 245; cfr. anche Herrick 1954].

Tutto il rinnovamento della storia oggi in corso si è fatto contro le idee espresse da Fustel nel 1888. Si tralascia qui la pericolosa ingenuità che portava alla passività di fronte ai documenti. Essi non rispondono che alle domande dello storico, e questi deve affrontarli non certo con pregiudizi e risentimenti, ma con ipotesi di lavoro. Grazie a Dio, Fustel, che era un grande storico, non ha lavorato secondo il metodo esposto nel 1888. Non si ritornerà sulla necessità dell’immaginazione storica.

Quello che si vuol affermare qui è il carattere multiforme della documentazione storica. Replicando, nel 1949, a Fustel de Coulanges, Lucien Febvre diceva: «La storia si fa, senza dubbio, con documenti scritti. Quando ce n’è. Ma si può fare, si deve fare senza documenti scritti, se non ne esistono. Per mezzo di tutto quello che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per fabbricare il suo miele, in mancanza dei fiori normalmente usati. Quindi, con parole. Con segni. Con paesaggi e con mattoni. Con forme di campi e con erbe cattive. Con eclissi lunari e con collari da tiro. Con le ricerche su pietre, eseguite da geologi, e con analisi di spade metalliche, compiute da chimici. In una parola, con tutto quello che, essendo proprio dell’uomo, dipende dall’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, significa la presenza, l’attività, i gusti e i modi d’essere dell’uomo» [1949, trad. it. p. 177]. Anche Marc Bloch [1941-42] aveva dichiarato: «La diversità delle testimonianze storiche è quasi infinita. Tutto ciò che l’uomo dice o scrive, tutto ciò che costruisce e che tocca, può e deve fornire informazioni su di lui» (trad. it. p. 71).

Si riparlerà della grande estensione della documentazione storica odierna, in particolare con la moltiplicazione della documentazione audiovisiva, il ricorso al documento figurato o propriamente iconografico, ecc. Ma è utile insistere su due aspetti particolari di questa estensione della ricerca documentaria.

Il primo concerne l’archeologia. Il problema non consiste nel sapere se essa sia una scienza ausiliaria della storia o una scienza a sé. Bisogna solo notare come il suo sviluppo abbia rinnovato la storia. Quando essa fece i primi passi, nel XVIII secolo, permise immediatamente alla storia di estendersi sul vasto territorio della preistoria e della protostoria e rinnovò la storia antica. Strettamente unita alla storia dell’arte e delle tecniche, essa costituisce un elemento fondamentale dell’allargamento della cultura storica che si esprime nell’Encyclopédie. «È in Francia che degli “antiquari” dedicano per la prima volta al documento archeologico, oggetto d’arte, utensile o resto di costruzione, un interesse tanto vivo quanto obiettivo e disinteressato», dice Duval [1961, p. 255], che mette in rilievo il ruolo di Peiresc, consigliere al parlamento di Aix. Ma sono gli Inglesi che fondano la prima società scientifica nella quale l’archeologia occupa un posto essenziale, la Society of Antiquaries di Londra (1707). È in Italia che cominciano i primi scavi, che annunziano la scoperta archeologica del passato, a Ercolano (1738) e a Pompei (1748). Sono un tedesco e un francese che pubblicano le due opere piú importanti del XVIII secolo, per quanto concerne l’introduzione del documento archeologico in storia: Winckelmann, con la Storia dell’arte antica (Geschichte der Kunst des Altertums, 1764), e il conte di Caylus con il Recueil d’antiquités égyptiennes, étrusques, grecques, romaines, et gauloises (1752-67). In Francia, il Musée des monuments français, del quale Alexandre Lenoir fu il primo conservatore nel 1769, risvegliò il gusto per l’archeologia e contribuí a rovesciare la visione negativa del medioevo. Si noti che l’archeologia è stata uno dei settori della scienza storica che piú si sono rinnovati negli ultimi decenni: evoluzione dell’interesse dall’oggetto e dal monumento al luogo globale, urbano o rurale, poi al paesaggio, archeologia rurale e industriale, metodi quantitativi, ecc. [cfr. Schnapp 1980; Finley 1971]. L’archeologia si è anche evoluta verso la costituzione di una storia della cultura materiale, che è anzitutto «storia dei grandi numeri e della maggioranza degli uomini» [Pesez 1978, trad. it. p. 205] e che ha già dato luogo a un capolavoro della storiografia contemporanea: Civilisation matérielle et capitalisme di Fernand Braudel [1967].

Si noti anche che la riflessione storica oggi si applica altresí all’assenza di documenti, ai silenzi della storia. Michel de Certeau ha sottilmente analizzato gli «scarti» dello storico verso le «zone silenziose», delle quali dà come esempio «la stregoneria, la follia, la festa, la letteratura popolare, il mondo dimenticato del contadino, l’Occitania, ecc.» [1974, p. 27]. Ma egli parla dei silenzi della storiografia tradizionale, mentre ritengo si debba andare piú lontano: interrogare la documentazione storica sulle sue lacune e interrogarsi sugli oblii, i vuoti, gli spazi bianchi della storia. Bisogna fare l’inventario degli archivi del silenzio, e fare la storia a partire dai documenti e dalle assenze di documenti.

La storia è divenuta scientifica facendo la critica dei documenti che si definiscono «fonti». Paul Veyne [1971] ha detto alla perfezione che la storia doveva essere «una lotta contro l’ottica imposta dalle fonti» e che «i veri problemi dell’epistemologia storica sono problemi di critica», mentre il centro di tutta la riflessione sulla conoscenza deve essere il seguente: «La conoscenza storica è ciò che le fonti fanno di essa» (trad. it. pp. 383-84). Veyne unisce d’altronde a questa constatazione la considerazione che «è impossibile improvvisarsi storici… È infatti necessario sapere quali quesiti porsi, e anche quali problematiche sono superate: non si scrive la storia politica, sociale o religiosa con le opinioni rispettabili, realistiche o avanzate che siano, che possediamo su questi argomenti a titolo privato» [ibid., p. 384].

Gli storici, soprattutto dal XVII al XIX secolo, hanno messo a punto una critica dei documenti che è oggi acquisita, che resta necessaria, ma si rivela insufficiente [cfr. Salmon 1969, ed. 1976, pp. 85-140]. Tradizionalmente si distingue una critica esterna, o critica di autenticità, da una critica interna, o critica di credibilità.

La critica esterna tende essenzialmente a ritrovare l’originale e a determinare se il documento che si esamina è autentico o falso. È un procedimento fondamentale, che richiede tuttavia due osservazioni complementari.

La prima è che anche un documento «falso» è un documento storico e può costituire una testimonianza preziosa dell’epoca in cui è stato fabbricato e del periodo durante il quale è stato considerato autentico e utilizzato.

La seconda è che un documento, specialmente un testo, ha potuto, nel corso del tempo, subire manipolazioni in apparenza scientifiche che hanno fatto dimenticare l’originale. Per esempio, è stato brillantemente dimostrato che la lettera di Epicuro a Erodoto conservata nelle Vite dei filosofi illustri di Diogene Laerzio è stata rimaneggiata da una tradizione secolare che ha ricoperto la lettera del testo di postille e correzioni che, volontariamente o no, hanno finito per soffocarla e deformarla con «una lettura incomprensiva, indifferente o partigiana» [Bollack e altri 1971].

La critica interna deve interpretare il significato del documento, valutare la competenza e la sincerità del suo autore, misurarne l’esattezza, e controllarlo con altre testimonianze. Ma anche qui, soprattutto qui, questo programma è insufficiente.

Che si tratti di documenti consapevoli o inconsapevoli (tracce lasciate dagli uomini al di là di ogni volontà di tramandare una testimonianza alla posterità), le condizioni di produzione del documento devono essere minuziosamente studiate. In effetti, le strutture del potere di una società comprendono il potere delle categorie sociali e dei gruppi dominanti di lasciare, volontariamente o involontariamente, testimonianze suscettibili di orientare la storiografia in questo o quel senso. Il potere sulla memoria futura, il potere di perpetuazione deve essere riconosciuto e svuotato dallo storico. Nessun documento è innocente. Esso deve essere giudicato. Ogni documento è un monumento che bisogna saper destrutturare, smontare. Lo storico non deve soltanto sapere discernere un falso, valutare la credibilità di un documento, egli deve demistificarlo. I documenti non diventano delle fonti storiche se non dopo aver subito un trattamento destinato a trasformare la loro funzione da menzogna in confessione di verità [Immerwahr 1960].

Jean Bazin, analizzando la produzione di un «racconto storico» – il racconto dell’avvento di un celebre re di Segú (Mali), all’inizio del secolo XIX, fatto da un letterato musulmano appassionato di storia a Segú nel 1970 – avverte che «poiché esso si dà non come invenzione, un racconto storico è sempre una trappola: si può facilmente credere che il suo oggetto gli attribuisca un senso, che non dica null’altro che ciò che racconta», mentre, in realtà, «la lezione della storia ne nasconde un’altra, di politica o di etica, che resta per cosí dire da fare» [Bazin 1979, p. 446]. Bisogna dunque, con l’aiuto di una «sociologia della produzione narrativa», studiare le «condizioni della storicizzazione». Da una parte, bisogna conoscere lo statuto dei dicitori di storia (e questo rilievo vale per i diversi tipi di produttori di documenti e per gli storici stessi nei diversi tipi di società), dall’altra riconoscere i segni della potenza poiché «questo genere di racconto apparterrebbe piú a una metafisica della potenza». Sul primo punto Jean Bazin rileva che «fra il sovrano e i suoi dipendenti, gli specialisti del racconto occupano una sorta di terza posizione di illusoria neutralità: essi sono, da una parte e dall’altra, a ogni momento, invitati a fabbricare l’immagine che i dipendenti hanno del sovrano cosí come quella che il sovrano ha dei dipendenti» [ibid., p. 456]. Bazin avvicina la sua analisi a quella effettuata da Louis Marin appoggiandosi al Projet de l’histoire de Louis XIV con il quale Pellisson-Fontanier tentò di ottenere la carica di storiografo ufficiale. «Il re ha bisogno dello storico, poiché il potere politico non può trovare il suo compimento, il suo assoluto se non con un certo uso della forza, che è il punto di applicazione della forza del potere narrativo» [Marin 1979, p. 26; cfr. Marin 1978].

La messa a punto di metodi che fanno della storia un mestiere e una scienza è stata lunga e prosegue. Essa ha conosciuto, in Occidente, delle battute di arresto, delle lentezze e delle accelerazioni, a volte degli indietreggiamenti; non è avanzata in tutte le sue parti con lo stesso passo, non ha sempre dato lo stesso contenuto alle parole con le quali cercava di definire i suoi obiettivi, anche in apparenza il piú «obiettivo», quello della verità. Si seguiranno le grandi linee del suo sviluppo dal duplice punto di vista delle concezioni e dei metodi, da una parte, degli strumenti di lavoro dall’altra. I momenti essenziali sembrano essere il periodo greco-romano dal V al I secolo prima dell’era cristiana, che inventa il «discorso storico», il concetto di testimonianza, la logica della storia e fonda la storia sulla verità; il IV secolo, durante il quale il cristianesimo elimina l’idea del caso cieco, dà un senso alla storia, diffonde un computo del tempo e una periodizzazione della storia; il Rinascimento, che comincia col tracciare una critica dei documenti fondata sulla filologia e finisce con la concezione della storia perfetta; il secolo XVII, che con i bollandisti e i benedettini di Saint-Maur pone le basi dell’erudizione moderna; il XVIII secolo, che crea le prime istituzioni consacrate alla storia e allarga il campo delle curiosità storiche; il XIX secolo, che mette a punto i metodi dell’erudizione, costituisce le basi della documentazione storica ed estende la storia dovunque; la seconda parte del secolo XX, a partire dagli anni Trenta, conosce insieme una crisi e una moda della storia, un rinnovamento e un ingrandimento considerevole del territorio dello storico, una rivoluzione documentaria. L’ultima parte di questo articolo sarà dedicata a questa fase recente della scienza storica. Non bisogna d’altronde credere che le lunghe fasi di tempo nelle quali la scienza storica non ha fatto balzi qualitativi non abbiano conosciuto progressi del mestiere dello storico, come Bernard Guenée ha brillantemente dimostrato per il medioevo [1980; 1977].

Con Erodoto ciò che entra nel racconto storico non è l’importanza della testimonianza. Per lui la testimonianza per eccellenza è quella personale, quella nella quale lo storico può dire: io ho visto, io ho sentito. Questo è particolarmente vero per la parte della sua indagine consacrata ai barbari, dei quali nei suoi viaggi egli ha percorso i paesi [cfr. Hartog 1980]. È vero anche per il racconto delle guerre persiane, avvenimenti della generazione che lo ha preceduto e della quale egli raccoglie direttamente, o per sentito dire, la testimonianza. Questa priorità accordata alla testimonianza orale e alla testimonianza vissuta resterà nella storia, sarà piú o meno attenuata quando la critica dei documenti scritti e appartenenti a un passato lontano si porrà in primo piano, ma conoscerà importanti riprese. Cosí nel XIII secolo, membri dei nuovi ordini mendicanti, domenicani e francescani, privilegiano, nel loro desiderio di aderire alla nuova società, la testimonianza orale personale, il contemporaneo o il molto vicino, preferendo per esempio inserire nel loro sermone degli exempla i cui argomenti sono tratti dalla loro esperienza (audivi) piuttosto che dalla loro scienza libresca (legimus). Le Memorie, tuttavia, sono a poco a poco diventate piú degli elementi ai margini della storia che non la storia stessa, dato che la compiacenza degli autori nei confronti di se stessi, la ricerca di effetti letterari, il gusto per la pura narrazione le separano dalla storia e ne fanno un materiale – relativamente sospetto – della storia. «Raggruppare storici e memorialisti è concepibile in una prospettiva puramente letteraria», hanno sottolineato Jean Ehrard e Guy Palmade [1964, p. 7], che hanno scartato il genere memorialistico dal loro eccellente studio. La testimonianza tende a rientrare nel campo storico e in ogni caso pone allo storico dei problemi con lo sviluppo dei media. L’evoluzione del giornalismo, la nascita della «storia immediata», il «ritorno dall’avvenimento» [cfr. Lacouture 1978; Nora 1974].

Arnaldo Momigliano [1972, ed. 1975 pp. 13-15] ha sottolineato che i «grandi» storici dell’antichità greco-romana hanno trattato esclusivamente o preferibilmente del passato prossimo. Dopo Erodoto, Tucidide scrive la storia della guerra del Peloponneso, avvenimento contemporaneo; Senofonte ha trattato delle egemonie di Sparta e di Tebe, delle quali è stato testimone; Polibio ha dedicato la parte essenziale delle sue Storie al periodo che va dalla seconda guerra punica alla sua epoca. Sallustio e Livio hanno fatto lo stesso, Tacito ha preso in esame il secolo precedente il suo e Ammiano Marcellino si è interessato soprattutto della seconda metà del IV secolo. A partire dal V secolo a.C., gli storici antichi furono in grado di raccogliere una buona documentazione sul passato, ma ciò non ha impedito a essi d’interessarsi soprattutto agli avvenimenti contemporanei o recenti.

La priorità accordata alle testimonianze vissute o direttamente raccolte non ha impedito agli storici antichi di fare la critica di queste testimonianze. Cosí Tucidide: «Riguardo… ai fatti verificatisi durante la guerra, non ho creduto opportuno descriverli per informazioni desunte dal primo venuto, né a mio talento; ma ho ritenuto di dover scrivere i fatti ai quali io stesso fui presente e quelli riferiti dagli altri, esaminandoli, però, con esattezza a uno a uno, per quanto era possibile. Era ben difficile la ricerca della verità perché quelli che erano stati presenti ai singoli fatti non li riferivano allo stesso modo, ma secondo che uno aveva buona o cattiva memoria, e secondo la simpatia per questa o quella parte. E forse la mia storia riuscirà, a udirla, meno dilettevole perché non vi sono elementi favolosi; ma sarà per me sufficiente che sia giudicata utile da quanti vorranno indagare la chiara e sicura realtà di ciò che in passato è avvenuto e che un giorno potrà pure avvenire, secondo l’umana vicenda, in maniera uguale o molto simile. Appunto come un acquisto per l’eternità è stata essa composta, non già da udirsi per il trionfo nella gara d’un giorno» [La guerra del Peloponneso, I, 22].

Con Polibio lo scopo dello storico è qualcosa di piú di una logica della storia. È la ricerca delle cause. Attento al metodo, Polibio dedica tutto il libro XII delle sue Storie a definire il lavoro dello storico attraverso la critica a Timeo di Tauromenio. Egli aveva in precedenza definito il suo obiettivo. Anziché una storia monografica, scrivere una storia generale, sintetica e comparata: «Nessuno degli scrittori contemporanei si è assunto il compito di scrivere una storia universale… È soltanto dallo studio accurato della connessione e del confronto reciproco di tutti i fatti, delle loro analogie e differenze che si può giungere a ricavare dalla storia non solo l’utile, ma anche il diletto» [I, 4]. E soprattutto l’affermazione essenziale: «Gli storici e i lettori debbono badare non tanto all’esposizione dei fatti, quanto alle circostanze precedenti, concomitanti e susseguenti ai fatti stessi; perché se si tolgono dallo studio della storia le cause, i mezzi e gli scopi che determinarono gli eventi e quale esito felice o infelice ebbero, ciò che resta nella storia è spettacolo declamatorio, non opera istruttiva, e se produce un momentaneo godimento, non giova affatto per il futuro… Le parti indispensabili della storia sono quelle che considerano le conseguenze, le circostanze concomitanti e specialmente le cause degli avvenimenti» [ibid., III, 31 e 32]. Detto questo, non bisogna dimenticare che Polibio colloca al primo posto nella causalità storica la nozione di fortuna; il principale criterio da lui usato per valutare una testimonianza o un destino è di ordine morale; inoltre i discorsi occupano grande spazio nella sua opera [cfr. Pédech 1964].

Gli storici antichi hanno soprattutto fondato la storia sulla verità. «È proprio della storia anzitutto raccontare la storia secondo verità», assicura Polibio. E Cicerone formula le definizioni che resteranno valide durante il medioevo e il Rinascimento. Questa soprattutto: «Nam quis nescit primam esse historiae legem, ne quid falsi dicere audeat? Deinde ne quid veri non audeat?» ‘Chi non sa che la prima legge della storia sta nel non osare dir nulla di falso? E quindi osare dire tutto ciò che è vero?’ [De oratore, II, 15, 62]. E nella celebre apostrofe nella quale reclama per l’oratore il privilegio di essere il miglior interprete della storia, quello che le assicura l’immortalità, e nella quale lancia la famosa definizione della storia come «maestra di vita», si dimentica che, in questo testo che in generale non viene citato per intero, Cicerone chiama la storia «luce di verità» («Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, qua voce alia nisi oratoris immortalitati commendatur?» [ibid., 9, 36]).

Benché Momigliano abbia giustamente insistito sul gusto degli storici antichi per la nuova storia, non bisognerebbe esagerare dicendo, come Collingwood [1932], che «il loro metodo li legava a una corda la cui lunghezza era quella della memoria vivente: l’unica fonte… era un testimone oculare con cui potessero conversare faccia a faccia» (trad. it. p. 58). Tacito, per esempio, fa l’elogio dei moderni – il che va contro la tradizione romana – ma mostra la sua conoscenza e la sua padronanza cronologica del passato; di un passato che, a dire il vero, egli appiattisce e avvicina al presente: «Quando sento dire “di antichi”, immagino degli uomini nati e vissuti molto tempo addietro; e mi passano dinanzi agli occhi Ulisse e Nestore, l’età dei quali precede la nostra di circa mille e trecento anni. Voi invece citate Demostene e Iperide, che, a quanto consta, hanno goduto fama ai tempi di Filippo e di Alessandro, ad entrambi i quali, però, sono sopravvissuti. Dal che appare chiaro che fra la nostra età e quella di Demostene intercorrono non molto piú di trecento anni. Ora, se tu consideri questo intervallo in rapporto con la fragilità delle nostre singole persone, ti sembrerà forse lungo: ma in confronto alla durata vera dei secoli e alla considerazione di questo tempo infinito, è molto breve e quanto mai vicino. Se infatti, come scrive Cicerone nell’Ortensio, il vero grande anno è quello in cui si riproduce assolutamente identica una determinata posizione del cielo e delle stelle, e se tale anno abbraccia dodicimila novecento cinquantaquattro di quelli che noi chiamiamo anni, il vostro Demostene, che mi presentate come vecchio e antico, ha incominciato a esistere non solo nel medesimo anno, ma addirittura nel medesimo mese» [Dialogus de oratoribus, 16, 5-7].

Piú che la finalità data alla storia, ciò che, dal punto di vista dell’attrezzatura e del metodo dello storico, pare importante con la storiografia cristiana è il suo impatto sulla cronologia. Certamente quest’ultima ha subito la prima elaborazione a opera degli storici antichi – quelli in generale che non sono posti fra i grandi – che gli storici cristiani hanno utilizzato. Diodoro Siculo ha stabilito una concordanza degli anni consolari e delle olimpiadi. Trogo Pompeo, conosciuto attraverso un riassunto di Giustino, ha presentato il tema dei quattro imperi successivi. Ma i primi storici cristiani hanno avuto un’influenza decisiva sul lavoro storico e sull’inquadramento cronologico della storia.

Eusebio di Cesarea, autore all’inizio del IV secolo di una Cronaca, poi di una Storia ecclesiastica, è stato «il primo storico antico a manifestare la stessa attenzione di uno storico moderno per la citazione fedele del materiale copiato e la identificazione corretta delle sue fonti» [Chesnut 1978, p. 245]. Questa utilizzazione critica dei documenti ha consentito a Eusebio e ai suoi successori di risalire con sicurezza al di là della memoria dei testimoni viventi. Piú generalmente Eusebio, la cui opera è «un tentativo paziente, scrupoloso e soprattutto profondamente umano per sistemare i rapporti del cristianesimo col secolo» [Sirinelli 1961, p. 495], non ha cercato di privilegiare una cronologia propriamente cristiana, e la storia ebraico-cristiana che egli fa cominciare con Mosè non è per lui che una fra le altre [ibid., pp. 59-61]; il «suo progetto un po’ ambiguo di una storia sincronica si situa tra una visione ecumenica e un semplice perfezionamento dell’erudizione» [ibid., p. 63].

Gli storici cristiani ripresero dall’Antico Testamento (sogno di Daniele [Daniele, 7]) e da Giustino il tema della successione dei quattro imperi: babilonese, persiano, macedone e romano. Eusebio, la cui cronaca fu ripresa e messa a punto da san Gerolamo e sant’Agostino, espose una periodizzazione della storia secondo la storia sacra, che distingueva sei età (fino a Noè, fino ad Abramo, fino a Davide, fino alla cattività babilonese, fino al Cristo, dopo il Cristo) e che Isidoro di Siviglia nel Chronicon (inizio del VII secolo) e Beda nell’Opera de temporibus (inizio dell’VIII secolo) cercarono di calcolare. I problemi di datazione, di cronologia, sono essenziali per lo storico. Anche qui gli storici e le società antiche avevano posto delle basi. Gli elenchi regali di Babilonia e d’Egitto avevano fornito i primi quadri cronologici, il computo per anni di regno aveva avuto inizio verso il 2000 a.C. a Babilonia. Nel 776 comincia il computo per olimpiadi, nel 754 la lista degli efori di Sparta, nel 686-685 quella degli arconti eponimi di Atene, nel 508 il computo consolare a Roma. Nel 45 a.C. Cesare aveva istituito a Roma il calendario giuliano. Il computo ecclesiastico cristiano si riferisce soprattutto alla datazione della festa della Pasqua. Le esitazioni durarono a lungo, come per la fissazione dell’inizio della cronologia e dell’inizio dell’anno. Gli atti del concilio di Nicea sono datati sia con i nomi dei consoli sia secondo gli anni dell’età dei Seleucidi (312-311 a.C.). I cristiani latini adottarono dapprima generalmente l’età di Diocleziano o dei martiri (284); ma nel VI secolo il monaco romano Dionigi il Piccolo propose di adottare l’era ab incarnatione, di fissare cioè come inizio della cronologia la nascita del Cristo. L’uso non fu definitivamente introdotto che nel secolo XI. Ma tutte le ricerche sul computo ecclesiastico, la cui espressione piú rilevante fu il trattato De temporum ratione di Beda (725), nonostante le esitazioni e gli scacchi, costituirono una tappa importante sul cammino del dominio del tempo [Cordoliani 1961; Guenée 1980, pp. 147-65].

Bernard Guenée ha mostrato come l’Occidente medievale abbia avuto degli storici accaniti nel ricostruire il loro passato e in possesso di una lucida erudizione. Questi storici, che fino al secolo XIII sono stati soprattutto dei monaci, hanno anzitutto beneficiato di un accrescimento della documentazione. Si è visto che gli archivi sono un fenomeno molto antico, ma il medioevo ha accumulato carte, nei monasteri, nelle chiese, nell’amministrazione reale, e moltiplicato le biblioteche. Furono costituiti gli inserti, il sistema delle citazioni, che precisavano libro e capitolo, fu generalizzato, specialmente sotto l’influenza del monaco Graziano, autore di una compilazione del diritto canonico, il Decretum, a Bologna (c. 1140), e del teologo Pier Lombardo, vescovo di Parigi, morto nel 1160. Si può considerare la fine del secolo XI e la maggior parte del secolo XII come «il tempo di una erudizione trionfante». La scolastica e le università, indifferenti e anche ostili nei confronti della storia, che non vi fu insegnata [Borst 1969], segnarono un certo regresso della cultura storica. Tuttavia, «un vasto pubblico laico continuò ad amare la storia» e alla fine del medioevo questi dilettanti – cavalieri o mercanti – si moltiplicarono e il gusto per la storia nazionale passò in primo piano, mentre si affermavano gli stati e le nazioni. Comunque, il posto della storia nel sapere restava modesto; fino al XIV secolo essa fu considerata come una scienza ausiliaria della morale, del diritto e soprattutto della teologia [cfr. Lammers 1965], benché Ugo di San Vittore, nella prima metà del XII secolo, abbia detto in un testo rilevante (De tribus maximis circumstanciis gestorum) che essa era fundamentum omnis doctrinae ‘il fondamento di ogni scienza’; ma il medioevo non rappresenta uno iato nell’evoluzione della scienza storica; al contrario esso ha conosciuto «la continuità dello sforzo storico» [Guenée 1980, p. 367].

Gli storici del Rinascimento hanno reso alla scienza storica alcuni eminenti servigi: essi hanno avviato la critica dei documenti con l’aiuto della filologia, hanno cominciato a «laicizzare» la storia e a eliminare da essa i miti e le leggende, hanno posto le basi delle scienze ausiliarie della storia e stretto l’alleanza della storia con l’erudizione.

L’inizio della critica scientifica dei testi viene fatto risalire a Lorenzo Valla, che nella sua De falso credita et ementita Constantini donatione declaratio (1440), scritta su richiesta del re aragonese di Napoli in lotta con la Santa Sede, prova che il testo è un falso poiché la lingua usata non può risalire al IV secolo, ma è datata quattro o cinque secoli dopo: cosí le pretese del papa sugli Stati della Chiesa, fondate su questa presunta donazione di Costantino a papa Silvestro, si fondavano su un falso carolingio. «Cosí nacque la storia, come filologia, ossia come coscienza critica di sé e degli altri» [Garin 1951, p. 115]. Valla applicò la critica dei testi agli storici dell’antichità, Livio, Erodoto, Tucidide, Sallustio, e anche al Nuovo Testamento, nelle sue Adnotationes, per le quali Erasmo scrisse la prefazione dell’edizione parigina del 1505. Ma le sue Historiae Ferdinandi regis Aragoniae, padre del suo protettore, portata a termine nel 1445 e pubblicata a Parigi nel 1521, non è che una serie di aneddoti riguardanti essenzialmente la vita privata del sovrano [cfr. Gaeta 1955]. Come il Biondo è fra gli storici umanisti il primo erudito, cosí il Valla è il primo critico.

Dopo i lavori di Bernard Guenée forse non è possibile mantenere un’affermazione cosí radicale. Il Biondo, nei suoi manuali sulla Roma antica (Roma instaurata, 1446, stampata nel 1471; Roma triumphans, 1459, stampata nel 1472 c.) e nelle sue Romanorum decades, che sono una storia del medioevo dal 412 al 1440, è stato un grande raccoglitore di fonti, ma nelle sue opere non vi è né critica delle fonti né senso della storia: i documenti sono pubblicati gli uni accanto agli altri; tutt’al piú, nelle Decades, l’ordine è cronologico; ma Biondo, segretario del papa, fu il primo a inserire l’archeologia nella documentazione storica.

Nel XV secolo gli storici umanisti inaugurano una scienza storica profana scevra di favole e d’invenzioni soprannaturali. Il grande nome qui è Leonardo Bruni, cancelliere di Firenze, le cui Historiae fiorentini populi (fino al 1404) ignorano le leggende sulla fondazione della città e non parlano mai dell’intervento della provvidenza. «Con lui si iniziò il cammino per una spiegazione naturale della storia» [Fueter 1911, trad. it. p. 22]. Hans Baron [1932] ha potuto parlare della Profanisierung della storia.

Il rifiuto dei miti pseudostorici ha dato luogo a una lunga polemica a proposito delle pretese origini troiane dei Franchi. Di volta in volta, Etienne Pasquier nelle Recherches de la France (il primo libro è del 1560; dieci libri nell’edizione postuma del 1621), François Hotman nella sua Franco-Gallia (1573), Claude Fauchet nelle Antiquités gauloises et françoises jusqu’à Clovis (1599) e Lancelot-Voisin de La Popelinière nel Dessein de l’Histoire nouvelle des François (1599) mettono in dubbio l’origine troiana, mentre Hotman sostiene in modo convincente l’origine germanica dei Franchi.

Bisogna sottolineare in questi progressi del metodo storico il ruolo della Riforma. Suscitando polemiche sulla storia del cristianesimo e liberi dalla tradizione ecclesiastica autoritaria, i riformati hanno contribuito a far evolvere la scienza storica.

Infine, gli storici del XVI secolo, soprattutto quelli francesi della seconda metà, hanno ripreso la fiaccola dell’erudizione dagli umanisti italiani del Quattrocento. Guillaume Budé reca un importante contributo alla numismatica con il suo trattato sulle monete romane: De asse et partibus eius (1514). Giuseppe Giusto Scaligero è partito dalla cronologia nel De emendatione temporum (1583). Il protestante Isaac Casaubon, «la fenice degli eruditi», replica agli «Annales ecclesiastici» del cattolicissimo cardinale Cesare Baronio (1588-1607) con le sue Exercitationes (1612); anche il fiammingo Giusto Lipsio arricchisce l’erudizione storica, soprattutto nei campi filologico e numismatico. Si moltiplicano i dizionari, come il Thesaurus linguae latinae di Robert Estienne (1531) e il Thesaurus grecae linguae di suo figlio Henri (1572). Il fiammingo Jan Gruter pubblica il primo Corpus inscriptionum antiquarum del quale Scaligero compila l’indice. Non bisogna infine dimenticare che il XVI secolo dà alla periodizzazione storica la nozione di secolo.

Mentre gli umanisti – imitando l’antichità – avevano mantenuto, nonostante i progressi dell’erudizione, la storia nel campo della letteratura, alcuni dei grandi storici del XVI e degl’inizi del XVII secolo si distinguono esplicitamente dagli uomini di lettere. Molti sono dei giuristi (Bodin, Vignier, Hotman, ecc.) e questi savants gens de robe annunziano la storia dei philosophes del XVIII secolo [Huppert 1970]. Donald Kelley ha mostrato [1964] che la storia delle origini e della natura del feudalesimo non data da Montesquieu, ma da dibattiti tra eruditi del XVI secolo.

La storia nuova che volevano promuovere i grandi umanisti della fine del XVI e dell’inizio del XVII secolo fu aspramente combattuta nella prima parte del XVII secolo e compresa tra le manifestazioni del libertinismo. Il risultato fu la separazione crescente fra erudizione e storia (nel senso di storiografia), rilevata da Paul Hazard [1935] e George Huppert [1970]. L’erudizione fece dei progressi decisivi durante il secolo di Luigi XIV, mentre la storia conosceva una eclissi profonda.

«Gli studiosi del XVII secolo sembrano disinteressarsi delle grandi questioni, dei grandi problemi della storia generale. Compilano glossari, come quel grande leguleio che fu Du Cange (1610-1688). Scrivono vite di santi, come Mabillon. Pubblicano fonti per la storia medievale, come Baluze (1630-1718), studiano le monete come Vaillant (1632-1706). In breve, tendono verso ricerche da antiquari piú che da storici» [ibid., p. 178].

Due imprese ebbero una importanza particolare. Esse si collocano nel quadro di una ricerca collettiva: «La grande innovazione consiste nel fatto che, negli anni di regno di Luigi XIV, l’erudizione è stata condotta collettivamente» [Lefebvre 1945-46, trad. it. p. 97]. È in effetti una delle condizioni richieste dall’erudizione.

La prima è l’opera di gesuiti, il cui iniziatore fu Héribert Roswey (Rosweyde), morto a Anversa nel 1629, che aveva stabilito una sorta di repertorio di vite di santi, manoscritti conservati nelle biblioteche belghe. Partendo dalle sue carte, Jean Bolland fece approvare dai suoi superiori il piano di una pubblicazione di vite di santi e di documenti agiografici, presentati secondo l’ordine del calendario. Cosí si formò un gruppo di gesuiti specializzati nell’agiografia, ai quali si darà il nome di bollandisti e che pubblicarono nel 1643 i due primi volumi del mese di gennaio degli «Acta Sanctorum». I bollandisti sono ancora oggi in piena attività in un campo che non ha cessato di essere al primo posto dell’erudizione e della ricerca storica. Nel 1675 un bollandista, Daniel van Papenbroeck (Papebroch) pubblicò in cresta al tomo II di aprile degli «Acta Sanctorum» una dissertazione «sul discernimento del vero e del falso nelle vecchie pergamene». Papenbroeck non fu particolarmente abile nell’applicazione del suo metodo. Spetterà a un benedettino francese, dom Mabillon, diventare il vero fondatore della diplomatica.

Jean Mabillon apparteneva all’altra équipe che dava all’erudizione le sue patenti di nobiltà, quella dei benedettini della congregazione riformata di Saint-Maur, che fecero allora di Saint-Germain-des-Prés, a Parigi, «la cittadella dell’erudizione francese».

Il loro programma di lavoro era stato redatto nel 1648 da Luc d’Achéry. Il loro campo abbracciava i padri della Chiesa greci e latini, la storia della Chiesa, la storia dell’ordine benedettino. Nel 1681, Mabillon, per confutare Papenbroeck, pubblicò il De re diplomatica, che pose le regole della diplomatica (studio dei «diplomi») e i criteri che permettono di discernere l’autenticità degli atti pubblici o privati. Marc Bloch, non senza esagerazioni, vede nel «1681, l’anno della pubblicazione del De re diplomatica, una grande data nella storia dello spirito umano» [1941-42, trad. it. p. 83]. L’opera insegna soprattutto che la concordanza di due fonti indipendenti stabilisce la verità e, ispirandosi a Descartes, applica il principio «di fare dovunque scomposizioni cosí intere e revisioni cosí generali» da essere «certi di non omettere nulla» [Tessier 1961, p. 641]. Si riportano due aneddoti che mostrano fino a che punto, passando dal XVII al XVIII secolo, il divorzio fra la storia e l’erudizione fosse divenuto profondo. Padre Daniel, storiografo ufficiale di Luigi XIV, che Fueter [1911] definisce però «un coscienzioso lavoratore» (trad. it. p. 187), apprestandosi a scrivere la sua Histoire de la milice française (1721), fu condotto alla biblioteca reale dove gli furono mostrate milleduecento opere che potevano essergli utili. Ne consultò un certo numero per circa un’ora e alla fine dichiarò che «tutti quei libri erano delle scartoffie inutili, delle quali non aveva bisogno per scrivere la sua storia». L’abate di Vertot aveva terminato un’opera sull’assedio di Rodi da parte dei Turchi; gli vennero portati dei nuovi documenti. Li respinse dicendo: «Il mio assedio è fatto» [Ehrard e Palmade 1964, p. 28].

Questo lavoro di erudizione proseguí e si estese nel XVIII secolo. Il lavoro storico si assopí, si risvegliò soprattutto in occasione del dibattito sulle origini – germaniche o romane – della società e delle istituzioni francesi. Alcuni storici si rimisero alla ricerca delle cause, ma unendo l’attenta erudizione a questa riflessione intellettuale. Tale alleanza giustifica – nonostante alcune ingiustizie per il XVI secolo – l’opinione di Collingwood: «“Nel senso stretto in cui Gibbon e Mommsen sono degli storici, non esiste storico prima del XVIII secolo”, cioè nonesistono autori di uno “studio sia critico sia costruttivo, il cui campo è tutto il passato umano preso nella sua integralità e il cui metodo è di ricostruire il passato partendo da documenti scritti e non scritti, analizzati e interpretati in uno spirito critico”» [citato in Palmade 1968, p. 432].

Dal canto suo, Henri Marrou ha sottolineato che «ciò che costituisce il merito di Gibbon [celebre autore inglese della History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 1776-88] è precisamente l’aver realizzato la sintesi tra l’apporto dell’erudizione classica quale si era a poco a poco formulata presso i primi umanisti fino ai benedettini di Saint-Maur e ai loro emuli, e il senso dei grandi problemi umani, considerati dall’alto e ampiamente, come poteva averlo sviluppato in lui la familiarità con i filosofi» [1961, p. 27].

Con il razionalismo filosofico – che non ebbe, lo si è visto, che delle conseguenze feconde per la storia –, con il definitivo rifiuto della Provvidenza e con la ricerca di cause naturali, gli orizzonti della storia si allargano a tutti gli aspetti della società e a tutte le civiltà. Fénelon, in un Projet d’un traité sur l’histoire (1714), pretende dallo storico lo studio «dei costumi e dello stato di ogni corpo della natura» e di mostrarne la verità, l’originalità – ciò che i pittori chiamano il costume – e insieme i cambiamenti: «Ogni nazione ha i suoi costumi, molto diversi da quelli dei popoli vicini, ogni popolo cambia spesso per i propri costumi» [citato in Palmade 1968, p. 432]. Voltaire, nelle sue Nouvelles considérations sur l’histoire (1744), aveva preteso una «storia economica, demografica, storia delle tecniche e dei costumi e non solo storia politica militare, diplomatica. Storia degli uomini, e non solo storia dei re e dei grandi. Storia delle strutture e non solo degli avvenimenti. Storia in movimento, storia delle evoluzioni e delle trasformazioni, e non storia statica, storia-quadro. Storia esplicativa, e non puramente storia narrativa, descrittiva – o dogmatica. Storia globale infine…» [Le Goff 1978, trad. it. p. 24].

Al servizio di questo programma – o di programmi meno ambiziosi – lo storico mette ormai un’accurata erudizione, che iniziative sempre piú numerose e fatto nuovo, le istituzioni, cercano di soddisfare. In questo secolo di accademie di sociétés savantes, la storia o ciò che la riguarda non è dimenticato.

Sul piano delle istituzioni la scelta di un esempio può cadere sull’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di Francia. La «piccola accademia» fondata da Colbert nel 1663 non comprendeva allora che quattro membri e la sua missione era puramente utilitaria: redigere i motti delle medaglie e le iscrizioni dei monumenti che perpetueranno la gloria del Re Sole. Nel 1701 i suoi effettivi furono portati a quaranta e diventò autonoma. Venne ribattezzata con il suo nome attuale nel 1716, e a partire dal 1717 pubblicò regolarmente delle memorie dedicate alla storia, all’archeologia e alla linguistica, e intraprese l’edizione del Recueil des ordonnances des rois de France.

Sul piano degli strumenti di lavoro, si possono citare, da una parte, l’Art de vérifier les dates, della quale i maurini pubblicano la prima edizione nel 1750, dall’altra la costituzione, intorno al 1717-20, degli Archivi reali a Torino, i cui regolamenti sono la migliore espressione dell’archivistica del tempo, e la stampa del catalogo della biblioteca reale di Parigi (1739-53).

Quale rappresentante dell’attività erudita al servizio della storia può citarsi Lodovico Antonio Muratori, nato nel 1672, bibliotecario dell’Ambrosiana a Milano nel 1694, bibliotecario e archivista del duca d’Este a Modena nel 1700, morto nel 1750. Dal 1744 al 1749 egli pubblicò gli Annali d’Italia, preceduti (1738-42) dalle Antiquitates italicae Medii Aevi. Egli fu, segnatamente, in relazione con Leibniz [cfr. Campori 1892].

Muratori ha preso come modello Mabillon, ma, in quanto laico, egli libera, alla maniera degli umanisti del Rinascimento, la storia dai miracoli e dai presagi. Egli spinge piú lontano del maurino la critica delle fonti, ma anch’egli non è un vero storico. Non vi è elaborazione storica della documentazione e la storia si riduce a storia politica. Ciò che concerne le istituzioni, i costumi e le mentalità è rigettato nelle Antiquitates. «I suoi Annali… sono da chiamarsi piuttosto studi per la storia italiana ordinati cronologicamente, che non un’opera storica» [Fueter 1911, trad. it. p. 411].

Dal punto di vista che qui preme, il secolo XIX è decisivo perché mette definitivamente a punto il metodo critico dei documenti, che interessano lo storico fin dal Rinascimento, diffonde questo metodo e i suoi risultati con l’insegnamento e la pubblicazione e unisce storia ed erudizione.

Sull’attrezzatura erudita della storia si prenda l’esempio della Francia. La rivoluzione, poi l’impero, costituiscono le Archives Nationales, che, poste sotto l’autorità del ministro degli Interni nel 1800, passano sotto quella del ministro dell’Istruzione pubblica nel 1883. La Restaurazione creò l’Ecole des Chartes nel 1821, per formare un corpo di archivisti specializzati che dovevano essere piú degli storici che degli amministratori e ai quali fu riservata, a partire dal 1850, la direzione degli archivi dipartimentali. La ricerca archeologica sui principali luoghi dell’antichità fu favorita dalla fondazione delle Ecoles di Atene (1846) e di Roma (1874), l’insieme dell’erudizione storica dalla fondazione della Ecole Pratique des Hautes Etudes (1868). Nel 1804 era nata a Parigi l’Académie Celtique, per studiare il passato nazionale francese. Essa si trasformò nel 1814 in Société des Antiquaires de France. Nel 1834 lo storico Guizot, divenuto ministro, istituí un Comité des Travaux Historiques, incaricato di pubblicare una «Collection de Documents inédits sur l’histoire de France». Nel 1835, la Société Française d’Archéologie fondata nel 1833 tiene il suo primo congresso. La Société de l’Histoire de France nasce nel 1835. Ormai «un’armatura» esiste per la storia: cattedre di facoltà, centri universitari, sociétés savantes, collezioni di documenti, biblioteche, riviste. Dopo i monaci del medioevo, gli umanisti e i giuristi del Rinascimento, i philosophes del XVIII secolo, i professori borghesi introducevano la storia nel cuore dell’Europa e nel suo prolungamento, gli Stati Uniti d’America, dove era stata fondata nel 1800 la Library of Congress a Washington.

Il movimento era europeo e fortemente colorato di spirito nazionale, se non di nazionalismo. Un segno evidente vien dato dalla creazione in poco tempo di una rivista storica (nazionale) nella maggior parte dei paesi europei. In Danimarca, «Historisk Tidsskrift» (1840); in Italia, «Archivio Storico Italiano» (1842), al quale farà seguito la «Rivista Storica Italiana» (1884); in Germania, «Historische Zeitschrift» (1859); in Ungheria, «Századok» (1867); in Norvegia, «Historisk Tidsskrift» (1870); in Francia, «Revue Historique» (1876), che era stata preceduta fin dal 1839 dalla «Bibliothèque de l’Ecole des Chartes»; in Svezia, «Historisk Tidsskrift» (1881); in Inghilterra, «English Historical Review «(1886); nei Paesi Bassi, «Tijdschrift voor Geschiedenis» (1886); in Polonia, «Kwartalnik Historyczny» (1887); e negli Stati Uniti, «The American Historical Review» (1895).

Ma il grande centro, il faro, il modello della storia erudita, nel XIX secolo fu la Prussia. Non soltanto l’erudizione vi ha creato delle istituzioni e delle collezioni prestigiose quali i «Monumenta Germaniae historica» (a partire dal 1826), ma la produzione storica vi uní meglio che altrove il pensiero storico, l’erudizione e l’insegnamento nella forma del seminario e vi assicurò la continuità dello sforzo di erudizione e ricerca storica. Emergono alcuni grandi nomi: il tedesco-danese Niebuhr per la sua Storia romana (Römische Geschichte, 1811-32); l’erudito Waitz, allievo di Ranke, autore di una Storia della costituzione tedesca (Deutsche Verfassungs-geschichte, 1844-78) e direttore dal 1875 dei «Monumenta Germaniae historica»; Mommsen, che dominò la storia antica, dove utilizzò l’epigrafia per la storia politica e giuridica (Römische Geschichte, a partire dal 1849); Droysen, fondatore della scuola prussiana, specialista di storia greca e autore di un manuale di storiografia: Sommario di istorica (Grundriss der Historik, scritto nel 1858, pubblicato nel 1868); la cosiddetta scuola «nazional-liberale» con Sybel, fondatore della «Historische Zeitschrift», Haüsser, autore di una Storia di Germania (Deutsche Geschichte, 1854-57) nel XIX secolo, Treitschke, ecc. Il piú grande nome della grande scuola storica tedesca del XIX secolo è Ranke, del quale si è visto il ruolo ideologico nello storicismo. Lo si ricorda qui come fondatore, nel 1840, del primo seminario di storia nel quale maestri e allievi si dedicavano insieme alla critica dei testi.

L’erudizione tedesca aveva esercitato una forte seduzione sugli storici europei del XIX secolo, compresi quelli francesi, che non erano lontani dal pensare che la guerra del 1870-71 era stata vinta dai maestri prussiani e dagli eruditi tedeschi. Un Monod, un Jullian, un Seignobos, per esempio, andarono a completare la loro formazione nei seminari d’Oltre Reno. Marc Bloch doveva anch’egli confrontarsi con l’erudizione tedesca a Lipsia. Un allievo di Ranke, Godefroid Kurth, fondò all’università di Liegi un seminario dove il grande storico belga Henri Pirenne, che nel XX secolo doveva contribuire a fondare la storia economica, fece il suo apprendistato.

Tuttavia, uscendo dalla Germania, i pericoli dell’erudizione tedesca apparvero alla fine del secolo XIX. Camille Jullian nel 1896 constatava: «La storia in Germania si sbriciola e si sfalda», talvolta essa «si perde a poco a poco in una sorta di scolastica filologica: i grandi nomi spariscono l’uno dopo l’altro; v’è di che aver paura di veder sopraggiungere gli epigoni di Alessandro o i nipoti di Carlomagno…» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 77]. Lo storicismo erudito tedesco degenerava in Germania, e altrove in Europa, in due tendenze opposte: una filosofia della storia idealista, un ideale erudito positivista che fuggiva le idee e bandiva dalla storia la ricerca delle cause.

Spetterà a due universitari francesi dare a questa storia positivista il suo statuto: l’Introduction aux études historiques [1898] di Langlois e Seignobos, che, definendosi «breviario dei metodi nuovi», riprendeva insieme gli elementi positivi di una erudizione progressista e necessaria e i germi di una sterilizzazione dello spirito e dei metodi della storia.

Resta da fare il bilancio positivo di questa storia erudita del XIX secolo, come ha fatto Marc Bloch nella sua Apologie pour l’histoire: «Il coscienzioso sforzo del secolo XIX» ha consentito che «le tecniche della critica» cessino di essere il monopolio «di un pugno di eruditi, di esegeti e di curiosi» e «lo storico è stato ricondotto al banco di lavoro». Bisogna far trionfare «i piú elementari precetti di una morale dell’intelligenza» e «le forze della ragione» che operano nelle «nostre umili note, [nei] nostri piccoli minuziosi rimandi, che oggi tanti begli spiriti disprezzano, senza comprenderli» [1941-42, trad. it. pp. 85-88; cfr. anche Ehrard e Palmade 1964, p. 78].

Cosí, fermamente stabilita sulle sue ancelle, le scienze ausiliarie (archeologia, numismatica, sigillografia, filologia, epigrafia, papirologia, diplomatica, onomastica, genealogia, araldica), la storia si è installata sul trono dell’erudizione.

5. La storia oggi.

Della storia oggi si traccerà qui, da una parte, il rinnovamento in quanto pratica scientifica, mentre dall’altra se ne ricorderà il ruolo nella società.

Il primo punto verrà trattato in modo relativamente breve, rinviando a un altro studio [Le Goff 1978] nel quale chi scrive ha presentato la genesi e i principali aspetti del rinnovamento della scienza storica nell’ultimo mezzo secolo.

Questa tendenza pare soprattutto francese, ma si è manifestata anche altrove, specialmente in Gran Bretagna e in Italia, in particolare intorno alle riviste «Past and Present» (dopo il 1952) e «Quaderni storici» (dopo il 1966).

Una delle sue piú antiche manifestazioni è stata lo sviluppo della storia economica e sociale; bisogna quindi menzionare qui il ruolo della scienza storica tedesca intorno alla rivista «Vierteljahrsschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte», fondata nel 1903, e quello del grande storico belga Henri Pirenne, teorico dell’origine economica delle città nell’Europa medievale. Nella misura in cui la sociologia e l’antropologia hanno svolto un grande ruolo nel mutamento della storia nel secolo XX, l’influenza di un grande spirito come Max Weber e quella dei sociologi e degli antropologi anglosassoni sono ben note.

Il successo della «storia orale» è stato grande e precoce tra i popoli anglosassoni. La moda della storia quantitativa è stata notevole un po’ dovunque, salvo forse nei paesi mediterranei.

Ruggiero Romano, che ha dato un’immagine, che colpisce per l’intelligenza e le posizioni prese, della Storiografia italiana oggi [1978], ha indicato un gruppo di paesi nei quali la partecipazione della storia e degli storici alla vita sociale e politica – non soltanto alla vita culturale – è viva: l’Italia, la Francia, la Spagna, i paesi sudamericani, la Polonia, mentre il fenomeno non esiste nei paesi anglosassoni, russi e germanici. Esempio pionieristico di una storia nazionale, che integra in sé le acquisizioni e le aperture dei nuovi orientamenti storiografici, è costituito dalla Storia d’Italia dell’editore torinese Einaudi (1972-76).

Oggi il lavoro storico e la riflessione sulla storia si sviluppano in un clima di critica e di disincanto nei confronti dell’ideologia del progresso, e piú recentemente, in Occidente, di ripudio del marxismo, in ogni caso del marxismo volgare. Tutta una produzione senza valore scientifico che aveva potuto illudere sotto la pressione della moda e di un certo terrorismo politico-intellettuale, ha perduto ogni credito. Va segnalato che, inversamente e nelle stesse condizioni, fiorisce una pseudostoria antimarxista che sembra avere assunto come bandiera il tema consunto dell’irrazionale.

Poiché il marxismo, se si eccettua Max Weber, è stato il solo pensiero coerente della storia nel secolo XX, è importante vedere ciò che si è prodotto alla luce della disaffezione per la teoria marxista e del rinnovamento, da tempo avviato, delle pratiche storiche in Occidente, non contro il marxismo, ma al di fuori di esso, anche se si pensa con Michel Foucault che certi problemi capitali per lo storico non possano ancora essere posti che a partire dal marxismo. In Occidente, un certo numero di storici di valore si sono sforzati di mostrare che non soltanto il marxismo poteva giungere a una buona convivenza con «la nuova storia», ma che era vicino a questa storia per la sua considerazione per le strutture, la sua concezione di una storia totale, il suo interesse per il campo delle tecniche e delle attività materiali.

Pierre Vilar [1973] e Guy Bois [1978] si sono augurati che il rinnovamento passi «attraverso un certo ritorno alle fonti» (trad. it. p. 256). Talune opere collettive come Aujourd’hui l’histoire [Hincker e Casanova 1974] e Ethnologie et histoire [Ethnologie 1975], pubblicate a Parigi dalle Editions Sociales, manifestano un desiderio di apertura. Un’interessante serie di testi pubblicati qualche anno fa da un certo numero di storici marxisti italiani [Cecchi 1974] ha mostrato la vitalità e l’evoluzione di questa ricerca. Un’opera come Le féodalisme, un horizon théorique di Alain Guerreau [1980] manifesta, nonostante i suoi eccessi, l’esistenza di un pensiero marxista forte e nuovo.

Si conosce male in Occidente la produzione storica dei paesi dell’Est. A eccezione della Polonia e dell’Ungheria, ciò che se ne sa non è per nulla incoraggiante. Vi sono forse lavori e correnti interessanti nella Germania dell’Est.

Sono stati già indicati in alcuni storici del passato gli antenati della nuova storia, per il loro gusto per la ricerca delle cause, la loro curiosità nei confronti delle civiltà, il loro interesse per il materiale, il quotidiano, la psicologia. Da La Popelinière, alla fine del XVI secolo, a Michelet, passando per Fénelon, Montesquieu, Voltaire, Chateaubriand e Guizot, si tratta di una impressionante linea ereditaria nella diversità. Bisogna aggiungere l’olandese Huizinga (morto nel 1945), il cui capolavoro, Autunno del Medio Evo [1919] fece entrare la sensibilità e la psicologia collettive nella storia.

Si considera la fondazione, nel 1929, della rivista «Annales» («Annales d’histoire économique et sociale» nel 1929, «Annales. Economies, Sociétés, Civilisations» dal 1945), a opera di Marc Bloch e Lucien Febvre, come l’atto di nascita della nuova storia [cfr. Revel e Chartier 1978; Allegra e Torre 1977; Cedronio e altri 1977]. Le idee della rivista ispirarono, nel 1947, la fondazione, a opera di Lucien Febvre (morto nel 1956) (Marc Bloch, resistente, era stato fucilato dai Tedeschi nel 1944), di un istituto di ricerca e d’insegnamento della ricerca nel campo delle scienze umane e sociali, la sesta sezione (delle scienze economiche e sociali) della Ecole Pratique des Hautes Etudes, prevista da Victor Duruy al momento della fondazione della scuola nel 1868, ma che non aveva potuto concretizzarsi. Divenuta nel 1975 Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, questo istituto nel quale la storia aveva un posto eminente accanto alla geografia, all’economia, alla sociologia, all’antropologia, alla psicologia, alla linguistica e alla semiologia, assicurò la diffusione in Francia e all’estero delle idee che erano state alle origini delle «Annales».

Si possono riassumere queste idee nella critica del fatto storico, della storia événementielle, in particolare politica; nella ricerca di una collaborazione con le altre scienze sociali (l’economista François Simiand – che aveva pubblicato nel 1903 nelle «Revue de Synthèse Historique» [pioniera della nuova storia sotto l’impulso di Henri Berr] un articolo, Méthode historique et science sociale, nel quale denunziava gli «idoli» «politici», «individuali» e «cronologici», articolo che ispirò il programma delle «Annales» –, il sociologo Emile Durkheim, il sociologo e antropologo Marcel Mauss furono gli ispiratori dello «spirito» delle «Annales»); nella sostituzione della storia-problema alla storia-racconto; nella attenzione per il presente della storia.

Fernand Braudel, autore di una «tesi» rivoluzionaria su La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’epoque de Philippe II [1966], nella quale la storia era scomposta in tre piani digradanti, il «tempo geografico», il «tempo sociale» e il «tempo individuale» – e l’événementiel respinto nella terza parte – ha pubblicato nelle «Annales» l’articolo sulla «lunga durata» [1958], che doveva ispirare in seguito una parte importante della ricerca storica.

Un po’ dovunque negli anni Settanta, colloqui, opere, piú spesso collettive, fecero il punto sui nuovi orientamenti della storia. Un lavoro d’insieme [Le Goff e Nora 1974] presentò sotto il titolo Faire de l’histoire i «nuovi problemi», i «nuovi approcci» e i «nuovi obiettivi» della storia. Tra i primi, il quantitativo in storia, la storia concettualizzante, la storia prima della scrittura, la storia dei popoli senza storia, l’acculturazione, la storia ideologica, la storia marxista, la nuova storia événementielle. I secondi concernevano l’archeologia, l’economia, la demografia, l’antropologia religiosa, i nuovi metodi di storia della letteratura, dell’arte, delle scienze, della politica. La scelta dei nuovi oggetti si era fissata sul clima, l’inconscio, il mito, le mentalità, la lingua, il libro, i giovani, il corpo, la cucina, l’opinione pubblica, il film, la festa.

Quattro anni dopo La nouvelle histoire [Le Goff, Chartier e Revel 1978], rivolgendosi a un pubblico piú vasto ancora, attestava i progressi della volgarizzazione della nuova storia e i rapidi spostamenti d’interesse all’interno del suo ambito, insieme con la focalizzazione intorno a qualche tema: antropologia storica, cultura materiale, immaginario, storia immediata, lunga durata, marginali, mentalità, strutture.

Il dialogo della storia con le altre scienze proseguiva, si approfondiva, si concentrava e allargava al tempo stesso.

Si concentrava. Accanto alla persistenza dei rapporti fra storia e economia [attestata, per esempio, da Lhomme 1967], storia e sociologia (una testimonianza tra le altre è quella del sociologo Alain Touraine, che dichiara [1977, p. 274]: «Io non separo il lavoro della sociologia dalla storia di una società»), una relazione privilegiata si è stretta fra la storia e l’antropologia, auspicata, da parte degli antropologi, da Evans-Pritchard [1961], considerata con maggiore circospezione da Lewis [1968], che insiste sugl’interessi differenti delle due scienze (la storia volta al passato, l’antropologia al presente, la prima verso i documenti, la seconda verso l’indagine diretta, la prima verso la spiegazione degli avvenimenti, la seconda verso i caratteri generali delle istituzioni sociali). Ma uno storico come Carr scrive [1961]: «Piú la storia diventerà sociologica e la sociologia storica, tanto meglio sarà per entrambe» (trad. it. p. 73). E un antropologo come Marc Augé afferma: «L’oggetto dell’antropologia non è quello di ricostruire società scomparse, ma di mettere in evidenza delle logiche sociali e delle logiche storiche» [1979, p. 170].

In questo incontro fra storia e antropologia lo storico ha privilegiato taluni campi e problemi. Quello per esempio dell’uomo selvaggio e dell’uomo quotidiano [Furet 1971b; Le Goff 1971a] o in uno dei rapporti fra cultura dotta e cultura popolare [cfr. Ginzburg 1976, p. XI: «In passato si potevano accusare gli storici di voler conoscere soltanto le “gesta dei re”. Oggi, certo, non è piú cosí»]. O ancora la storia orale, nella cui abbondante letteratura si potrebbero scegliere il numero speciale dei «Quaderni storici» (1977) dedicato alla Oral History: fra antropologia e storia, che pone bene i problemi per le differenti classi sociali e le diverse civiltà; il libretto di Jean-Claude Bouvier e d’un’équipe d’antropologi, storici e linguisti Tradition orale et identité culturelle. Problèmes et méthodes (1980), perché valorizza bene i rapporti tra oralità e discorso sul passato, definisce gli etnotesti e un metodo per raccoglierli e utilizzarli; e infine la relazione di Dominique Aron-Schnapper e Danièle Hanet Histoire orale ou archives orales? (1980) sulla costituzione di archivi orali per la storia della sicurezza sociale, che pone bene il problema dei rapporti tra un nuovo tipo di documentazione e un nuovo tipo di storia.

Da queste esperienze, da questi contatti, da queste conquiste, un certo numero di storici – fra i quali anche chi scrive – auspicano che si costituisca una nuova disciplina storica strettamente legata all’antropologia: l’antropologia storica.

Nel supplemento del 1980 l’Encyclopaedia Universalis dedica un lungo articolo all’antropologia storica [Burguière 1980]. L’autore vi mostra che questa nuova etichetta, nata dall’incontro tra l’etnologia e la storia, è di fatto piú una riscoperta che un fenomeno radicalmente nuovo. Essa si pone nella tradizione di una concezione della storia il cui padre è senza dubbio Erodoto e che, nella tradizione francese, si esprime nel XVI secolo con Pasquier, La Popelinière o Bodin, nel XVIII secolo nelle opere storiche piú importanti dell’illuminismo, e che domina la storiografia romantica. Essa è «piú analitica, dedita a rintracciare l’itinerario e i progressi della civiltà, si interessa ai destini collettivi piú che agli individui, alla evoluzione delle società piú che alle istituzioni, agli usi piú che agli avvenimenti», di fronte a un’altra concezione, «piú narrativa, piú vicina ai luoghi del potere politico», quella che va dai grandi cronisti medievali agli eruditi del XVII secolo e alla storia événementielle e positivista che trionfa alla fine del secolo XIX. È un allargamento del campo della storia nello spirito dei fondatori delle «Annales», «alla intersezione dei tre assi principali che Marc Bloch e Lucien Febvre distinguevano per gli storici: la storia economica e sociale, la storia delle mentalità, le ricerche interdisciplinari». Il suo modello sono Les rois thaumaturges di Marc Bloch [1924]. Uno dei suoi risultati è l’opera di Fernand Braudel Civilisation matérielle et capitalisme, nella quale lo storico «descrive la maniera con la quale i grandi equilibri economici, i circuiti di scambi creavano e modificavano la trama della vita biologica e sociale, la maniera con la quale, per esempio, il gusto si abituava a un prodotto alimentare nuovo» [Burguière 1980, p. 159]. André Burguière prende come esempio di un campo che l’antropologia storica cerca di conquistare, quello di una storia del corpo, sulla quale lo storico tedesco Norbert Elias, in un libro d’anteguerra [1939] la cui risonanza data dagli anni Settanta, ha offerto un’ipotesi che spiega l’evoluzione delle relazioni verso il corpo nella civiltà europea: «L’occultamento e la messa a distanza del corpo traducevano al livello dell’individuo la tendenza al rimodellamento del corpo sociale imposta dagli Stati burocratici; rientravano nel medesimo processo la separazione delle classi di età, la messa in disparte dei devianti, la segregazione dei poveri e dei folli, cosí come il declino delle solidarietà locali» [Burguière 1980, p. 159]. I quattro esempi che sceglie Burguière per illustrare l’antropologia storica sono: 1) la storia dell’alimentazione, che «si occupa di ritrovare, studiare e, all’occorrenza, quantificare, tutto ciò che si riferisce a questa funzione biologica essenziale al mantenimento della vita: la nutrizione»; 2) la storia della sessualità e della famiglia, che ha fatto entrare la demografia storica in un’era nuova con l’utilizzazione di fonti massicce (i registri parrocchiali) e una problematica che tiene conto delle mentalità, per esempio gli atteggiamenti nei confronti della contraccezione; 3) la storia dell’infanzia, che ha mostrato come gli atteggiamenti nei confronti del bambino non si riducessero a un ipotetico amore dei genitori, ma dipendessero da condizioni culturali complesse: non vi è, per esempio, specificità del bambino nel medioevo; 4) la storia della morte, che si è rivelata come il campo piú fecondo della storia delle mentalità.

In tal modo, il dialogo tra la storia e le scienze sociali tende a privilegiare i rapporti tra storia e antropologia, benché, a parere di chi scrive, per esempio, l’antropologia storica includa anche la sociologia. Tuttavia, la storia tende a uscire dal suo territorio in modo ancor piú audace, dirigendosi verso le scienze della natura [cfr. Le Roy Ladurie 1967] come verso le scienze della vita, specialmente la biologia.

Vi è anzitutto il desiderio degli scienziati di fare la storia della loro scienza, ma non una storia qualsiasi. Ecco cosa scrive un grande biologo, il premio Nobel François Jacob [1970]: «Per un biologo, vi sono due modi di considerare la storia della scienza. Si può guardare, anzitutto, alla successione delle idee e alla loro genealogia; si cerca, allora, il filo conduttore che ha guidato il pensiero fino alle teorie odierne. Questo tipo di storia si fa, per cosí dire, a ritroso, estrapolando il presente in direzione del passato. Passo per passo, si esamina l’ipotesi che ha preceduto quella oggi dominante, poi quella che, a sua volta, l’ha preceduta, e cosí via. In questo modo, le idee acquistano una loro indipendenza… Si assiste, allora, a una specie di evoluzione delle idee, soggetta talvolta a una sorta di selezione naturale fondata su un criterio di interpretazione teorica (e quindi di riutilizzazione pratica), talaltra alla sola teleologia della ragione… Ma vi è un altro modo di considerare la storia della biologia, che consiste nel ricercare come gli oggetti di questa scienza siano diventati accessibili all’analisi, e come si siano aperti – in tal modo – sempre nuovi campi di indagine. Si tratta, allora, di precisare la natura di questi oggetti, l’atteggiamento di coloro che li studiano, il loro modo di osservarli, gli ostacoli che la tradizione culturale oppone al ricercatore… Non vi è piú una filiazione pressoché lineare di idee che nascono l’una dall’altra; vi è un campo d’indagine che il pensiero cerca di esplorare e nel quale tenta di instaurare un ordine, di costituire un insieme di relazioni astratte che si accordino non soltanto con l’osservazione e la tecnica, ma anche con la pratica, i valori e le interpretazioni dominanti» (trad. it. pp. 19-20).

È dunque chiaro cosa è qui in questione. È il rifiuto di una storia idealista, dove le idee si generano con una sorta di partenogenesi, di una storia guidata dalla concezione di un progresso lineare, di una storia che interpreta il passato con i valori del presente. Al contrario, François Jacob propone la storia di una scienza che tenga conto delle condizioni (materiali, sociali, mentali) della sua produzione e che individui in tutta la loro complessità le tappe del sapere.

Ma bisogna spingersi piú lontano. Ruggiero Romano, basandosi sui lavori suggestivi e dai fondamenti indiscutibili di Jacques Ruffié [1976] e su quelli piú contestabili di Wilson [1975], afferma: «Laddove la storia aveva cercato d’imporsi alla biologia servendosene (bassamente e male) per storia demografica, oggi la biologia vuole e può insegnare qualcosa alla storia» [1978, p. 8].

Nitschke ha richiamato l’attenzione sull’interesse che avrebbe una collaborazione tra storici e specialisti dell’etologia: «Molteplici incitamenti alla ricerca storica vengono da un confronto con l’etologia dei biologi. Bisogna auspicare che questo incontro tra le due discipline nella prospettiva di una etologia storica diventi fruttuoso per entrambe» [1974, p. 97].

Ogni profondo mutamento della metodologia storica si accompagna a una trasformazione importante della documentazione. In questo settore, la nostra epoca conosce una vera e propria rivoluzione documentaria: è l’irruzione del quantitativo e il ricorso all’informatica. Chiamato dall’interesse della nuova storia per i grandi numeri, postulato dall’utilizzazione di documenti che permettano di raggiungere le masse, come i registri parrocchiali in Francia, base della nuova demografia [cfr. ad esempio Goubert 1960], reso necessario dallo sviluppo della storia seriale, il calcolatore è cosí entrato nell’attrezzatura dello storico. Il quantitativo era apparso nella storia con la storia economica, in particolare con la storia dei prezzi, della quale Ernest Labrousse [1933], sotto l’influenza di François Simiand, fu uno dei grandi pionieri, ha invaso la storia demografica, la storia culturale. Dopo un periodo di entusiasmo ingenuo, sono stati individuati i servizi indispensabili resi dal calcolatore in taluni tipi di ricerca storica e i suoi limiti [cfr. Furet 1971a; Shorter 1971; Arnold 1974]. Anche nella storia economica, uno dei principali sostenitori della storia quantitativa, Marczewski, ha scritto: «La storia quantitativa non è che uno dei metodi della ricerca storica nel campo della storia economica. Essa non esclude affatto il ricorso alla storia qualitativa. Questa le apporta un complemento indispensabile» [1965, p. 48]. Un modello di ricerca storica innovatrice, fondato sull’utilizzazione intelligente del calcolatore, è l’opera di Herlihy e Klapisch-Zuber Les Toscans et leurs familles [1978].

Lo sguardo dello storico sulla storia della sua disciplina ha sviluppato recentemente un nuovo settore, particolarmente ricco, della storiografia: la storia della storia.

Sulla storia della storia il filosofo e storico polacco Krzysztof Pomian ha gettato uno sguardo particolarmente acuto. Egli ha ricordato in quali condizioni storiche questa storia nacque alla fine del secolo XIX sulla critica del regno della Storia: «Dei filosofi, dei sociologi e anche degli storici si misero a dimostrare che l’obiettività, i fatti dati una volta per tutte, le leggi dello sviluppo, il progresso, tutte nozioni che erano state considerate fino a quel momento come evidenti e che fondavano le pretese scientifiche della storia, non erano che illusioni… Gli storici… furono indicati, nella migliore delle ipotesi, come degli ingenui, accecati dalle illusioni che essi stessi avevano prodotte, nella peggiore come dei ciarlatani» [1975, p. 936].

La storia della storiografia prese come insegna le parole di Croce: ogni storia è una storia contemporanea e lo storico, da sapiente che pensava di essere, diventa un fabbricante di miti, un politico inconsapevole. Ma, aggiunge Pomian, questa messa in questione non tocca soltanto la storia, ma «tutta la scienza e in particolare il suo nucleo, la fisica» [ibid.]. La storia delle scienze si sviluppò con lo stesso spirito critico della storia della storiografia. Per Pomian questo tipo di storia è oggi sorpassato perché dimentica l’aspetto cognitivo della storia, e della scienza in particolare, e dovrebbe diventare una scienza dell’insieme delle pratiche dello storico e, piú ancora, una storia della conoscenza: «La storia della storiografia ha fatto il suo tempo. Ciò di cui oggi noi abbiamo bisogno è una storia della storia che dovrebbe porre al centro delle sue ricerche le interazioni tra la conoscenza, le ideologie, le esigenze della scrittura, in breve tra gli aspetti diversi e talvolta discordanti del lavoro dello storico. E che, cosí facendo, dovrebbe permettere di gettare un ponte tra la storia delle scienze e quella della filosofia, della letteratura, forse dell’arte. O meglio: tra una storia della conoscenza e quella dei differenti usi che se ne fanno» [ibid., p. 952].

Dell’allargamento del campo della storia reca testimonianza la creazione di nuove riviste, in un quadro tematico, mentre il grande movimento della nascita di riviste storiche nel XIX secolo si era soprattutto operato in un quadro nazionale.

Giova ricordare tra le nuove riviste: 1) quelle che s’interessano alla storia quantitativa, per esempio «Computers and the Humanities», pubblicata dal 1966 dal Queen’s College della City University di New York; 2) quelle che riguardano la storia orale e l’etnostoria, tra cui «Oral History. The Journal of the British Oral History Society» (1973), «Ethnohistory», edita dall’università dell’Arizona dal 1954, i ricordati «History Workshop» britannici; 3) quelle che si dedicano alla comparazione e alla interdisciplinarità: i «Comparative Studies in Society and History» americani, dal 1959; l’«Information sur les Sciences Sociales», bilingue (francese e inglese), pubblicata dalla Maison des Sciences de l’Homme (Parigi) dal 1966; 4) quelle che si occupano della teoria e della storia della storia, la piú importante delle quali è la ricordata «History and Theory», fondata nel 1960.

Vi è un allargamento dell’orizzonte storico che deve portare a un vero e proprio sconvolgimento della scienza storica. È la necessità di mettere fine all’etnocentrismo, la necessità di diseuropeizzare la storia.

Queste manifestazioni di etnocentrismo storico sono state censite da Roy Preiswerk e Dominique Perrot [1975]. Essi hanno rilevato dieci forme della colonizzazione della storia operata dagli Occidentali: 1) l’ambiguità della nozione di civiltà. Ve n’è una o parecchie?; 2) l’evoluzionismo sociale, cioè la concezione di un’evoluzione unica e lineare della storia sul modello occidentale. A questo proposito, la dichiarazione di un antropologo del XIX secolo è tipica: «Il progresso si è rivelato sostanzialmente dello stesso tipo… in tribú e nazioni abitanti continenti diversi, magari separati da oceani… Se estese, queste affermazioni finiscono, in prospettiva, con l’affermare l’unità delle origini umane. Studiando la condizione delle tribú e delle nazioni che hanno legato la propria esistenza a singoli e diversi periodi etnici, ciò che si affronta in sostanza è la storia antica e la condizione dei nostri stessi remoti progenitori» [Morgan 1877, trad. it. p. 13]; 3) l’alfabetismo come criterio di differenziazione tra il superiore e l’inferiore; 4) l’idea che i contatti con l’Occidente sono il fondamento della storicità delle altre culture; 5) l’affermazione del ruolo causale dei valori in storia, confermato dalla superiorità del sistema di valori occidentale: l’unità, la legge e l’ordine, il monoteismo, la democrazia, il sedentarismo, l’industrializzazione; 6) la legittimazione unilaterale dell’azione occidentale (schiavitú, propagazione del cristianesimo, necessità di intervento, ecc.); 7) il trasferimento interculturale di concetti occidentali (feudalesimo, democrazia, rivoluzione, classe, Stato, ecc.); 8) l’uso di stereotipi quali i barbari, il fanatismo musulmano, ecc.; 9) la selezione autocentrata dei dati e degli avvenimenti «importanti» della storia, imponendo all’insieme della storia del mondo la periodizzazione elaborata per l’Occidente; 10) la scelta delle illustrazioni, i riferimenti alla razza, al sangue, al colore.

Sempre attraverso lo studio dei manuali scolastici, Marc Ferro si è spinto piú lontano nella messa in questione della concezione tradizionale di «storia universale». Analizzando Comment on raconte l’histoire aux enfants à travers le monde entier sugli esempi dell’Africa del Sud, dell’Africa nera, delle Antille (Trinidad), delle Indie, dell’Islam, dell’Europa occidentale (Spagna, Germania nazista, Francia), dell’Urss, dell’Armenia, della Polonia, della Cina, del Giappone, degli Stati Uniti – e con uno sguardo alla storia «interdetta» (Messicani-Americani, Aborigeni d’Australia) –, Marc Ferro dichiara: «È ormai tempo di confrontare oggi tutte queste rappresentazioni poiché, con l’allargamento del mondo, con la sua unificazione economica ma con la sua disintegrazione politica, il passato delle società è piú che mai una delle poste in gioco nei confronti tra Stati, tra nazioni, tra culture e gruppi etnici… La rivolta sorda di coloro la cui storia è “interdetta”» [1981, p. 7]. È nella sua novità imperfetta un libro capitale che spiace di non aver potuto utilizzare dall’inizio della preparazione e della redazione di questo articolo.

Ciò che sarà una storia veramente universale, non è dato sapere. Forse sarà qualcosa di radicalmente diverso da quello che viene chiamato storia. Essa deve anzitutto fare l’inventario delle differenze, dei conflitti. Ridurla a una storia edulcorata, dolciastramente ecumenica, per far piacere a tutti, non è la via giusta. Di qui il semi-fallimento dei cinque volumi della Histoire du développement scientifique et culturel de l’humanité, pubblicati dall’Unesco nel 1969 e pieni di buone intenzioni.

A partire dalla seconda guerra mondiale, la storia si è trovata di fronte a nuove sfide. Se ne considereranno tre.

La prima è che essa deve piú che mai rispondere alla domanda dei popoli, delle nazioni, degli Stati, che la vogliono, piú che maestra di vita, piú che specchio della loro idiosincrasia, elemento essenziale dell’identità individuale e collettiva che essi cercano con angoscia: vecchi paesi colonizzatori che hanno perso il loro impero e si ritrovano nel loro piccolo spazio europeo (Gran Bretagna, Francia, Portogallo); vecchie nazioni che si risvegliano dall’incubo nazista o fascista (Germania, Italia); paesi dell’Europa dell’Est nei quali la storia non è d’accordo con quello che la dominazione sovietica vorrebbe far loro credere; Unione Sovietica presa tra la storia breve della sua unificazione e la storia lunga delle sue nazionalità; Stati Uniti che avevano creduto conquistarsi una storia nel mondo intero e si ritrovano esitanti tra l’imperialismo e i diritti dell’uomo; paesi oppressi che lottano per la loro storia come per la loro vita (America latina); paesi nuovi che cercano a tentoni il modo di costruirsi la loro storia [cfr., per l’Africa nera, Assorodobraj 1967].

Bisogna, è possibile scegliere tra una storia - sapere obiettivo e una storia militante? Bisogna adottare gli schemi scientifici forgiati dall’Occidente o inventarsi una metodologia storica insieme con una storia?

L’Occidente, da parte sua, si è chiesto durante le sue piú dure prove (seconda guerra mondiale, decolonizzazione, scossa del maggio 1968) se non fosse piú saggio rinunziare alla storia. Non faceva essa parte dei valori che avevano condotto all’alienazione e all’infelicità?

Ai nostalgici di una vita senza passato, Jean Chesneaux ha risposto ricordando la necessità di dominare una storia, ma ha proposto di farne «una storia per la rivoluzione». È uno dei risultati possibili della teoria marxista di una unificazione del sapere e della prassi. Se, come crede chi scrive, la storia – con la sua specificità e i suoi pericoli – è una scienza, essa deve sfuggire a una identificazione di storia e politica, vecchio sogno della storiografia che deve aiutare il lavoro storico a dominare il suo condizionamento da parte della società. Senza di ciò la storia sarà il peggiore strumento di ogni potere.

Piú sottile fu il rifiuto intellettuale che sembrò incarnare lo strutturalismo. Va detto anzitutto che il pericolo sembra essere soprattutto venuto – e non è interamente scomparso – da un certo sociologismo. Gordon Leff ha giustamente osservato: «Gli attacchi di Karl Popper contro quello che egli chiamava a torto lo storicismo nelle scienze sociali sembrano avere intimidito una generazione; coniugandosi con l’influenza di Talcott Parsons, essi hanno abbandonato la teoria sociale, sicuramente almeno in America, a una condizione astorica, a un livello tale che essa sembra spesso non avere piú rapporto con la terra degli uomini» [1969, p. 2].

Philip Abrams, a dieci anni di distanza, sembra aver ben definito i rapporti tra la sociologia e la storia [1971; 1972; 1980] accogliendo l’idea di Runciman, per il quale non esiste una seria distinzione tra storia, sociologia e antropologia, ma alla condizione di non ridurle a punti di vista limitanti: né a una sorta di psicologia, né a una comunanza di tecniche; le scienze sociali – come le altre – non devono subordinare i problemi alle tecniche.

Pare invece che solo una deformazione dello strutturalismo possa farne un astoricismo. Non è questa la sede per studiare dettagliatamente i rapporti di Claude Lévi-Strauss. Si sa che sono complessi. Bisogna rileggere i grandi testi dell’Anthropologie structurale [1958, trad. it. pp. 13-28], della Pensée Sauvage [1962], di Du miel aux cendres [1966]. È chiaro che spesso Lévi-Strauss ha pensato tenendo presente sia la disciplina storica sia la storia vissuta: «Possiamo piangere sul fatto che vi sia storia» [Backès-Clément 1974, p. 141]; ma chi scrive considera come l’espressione piú pertinente del suo pensiero sull’argomento queste righe dell’Anthropologie structurale [1958]: «In un cammino dove compiono, nello stesso senso, lo stesso percorso, solo il loro orientamento è diverso: l’etnologo procede in avanti cercando di raggiungere, attraverso una zona cosciente che non ignora mai, un ambito sempre piú vasto di quell’inconscio verso cui si dirige; mentre lo storico procede, per cosí dire, come i gamberi, tenendo fissi gli occhi sulle attività concrete e particolari, da cui si allontana solo per considerarle in una prospettiva piú ricca e piú completa. Vero Giano bifronte, giacché permette di dominare con lo sguardo la totalità del percorso, è, in ogni caso, solo l’insieme solidale delle due discipline» (trad. it. p. 37).

C’è in ogni caso uno strutturalismo estremamente adatto agli storici: lo strutturalismo generico e dinamico dell’epistemologo e psicologo svizzero Jean Piaget, secondo il quale le strutture sono intrinsecamente evolutive.

Se la storia può vincere queste sfide, nondimeno essa si trova oggi ad affrontare seri problemi. Se ne ricorderanno due, uno generale, l’altro particolare.

Il grande problema è quello della storia globale, generale, la tendenza secolare a una storia che non sia soltanto universale, sintetica – vecchia impresa, che va dal cristianesimo antico allo storicismo tedesco del XIX secolo e alle innumerevoli storie universali della volgarizzazione storica del XX secolo – ma integrale o perfetta, come diceva La Popelinière, o globale, totale, come sostenevano le «Annales» di Lucien Febvre e Marc Bloch.

Vi è oggi una «panistorizzazione» che Paul Veyne considera come la seconda grande mutazione del pensiero storico dall’antichità. Dopo una prima mutazione che, nell’antichità greca, ha portato la storia dal mito collettivo alla ricerca di una conoscenza disinteressata della pura verità, una seconda mutazione, nell’epoca attuale, si opera perché gli storici «hanno a poco a poco preso coscienza del fatto che tutto era degno di storia: nessuna tribú, per quanto minuscola sia, nessun gesto umano, per quanto insignificante in apparenza, è indegno della curiosità storica» [1968, p. 424].

Ma questa storia bulimica è capace di pensare e di strutturare questa totalità? Alcuni pensano che il tempo della storia in briciole sia arrivato. «Viviamo la disintegrazione della storia», ha scritto Pierre Nora, fondando nel 1971 la collezione «Bibliothèque des Histoires». Sarebbero da fare delle storie, non una storia. Quello che chi scrive pensa della legittimità e dei limiti degli «approcci multipli in storia» e dell’interesse di prendere come temi di ricerca e di riflessioni storiche, mancando le globalità degli oggetti globalizzanti, è stato esposto sopra [cfr. Le Goff e Toubert 1975].

Il problema particolare è quello della necessità, sentita da molti – produttori o consumatori della storia –, di un ritorno alla storia politica. Chi scrive crede a questa necessità, a condizione che questa nuova storia politica sia arricchita dalla nuova problematica della storia, che sia un’antropologia storica [Le Goff 1971b].

Alain Dufour, prendendo a modello i lavori di Federico Chabod sullo Stato milanese al tempo di Carlo V, ha auspicato «una storia politica piú moderna», il cui programma sarebbe: «Comprendere la nascita degli Stati moderni – o dello Stato moderno – nel secolo XVI e XVII, distogliendo la nostra attenzione dal principe per dirigerlo verso il personale politico, verso la nascente classe dei funzionari, con la sua etica di nuovo genere, verso le aristocrazie politiche in generale, le cui aspirazioni, piú o meno implicite, si sono rivelate in quella politica alla quale hanno dato tradizionalmente il nome di quel principe che ne è stato il porta-bandiera» [1966, trad. it. p. 12].

Affrontando il problema di una nuova storia politica, si pone quello del posto da attribuire all’avvenimento nella storia, nel duplice senso del termine. Pierre Nora ha mostrato come i media contemporanei abbiano creato un nuovo avvenimento in storia: si tratta del «ritorno dell’avvenimento».

Ma questo nuovo avvenimento non sfugge alla costruzione dalla quale risulta ogni documento storico. I problemi che ne derivano sono oggi ancor piú gravi.

In uno studio rilevante, Eliseo Verón ha analizzato il modo con il quale i media «costruiscono oggi l’avvenimento». A proposito dell’incidente alla centrale nucleare americana di Three Mile Island (marzo-aprile 1979), Verón mostra come, in questo caso, che è caratteristico degli avvenimenti tecnologici sempre piú numerosi e importanti, «è difficile costruire un avvenimento di attualità con pompe, valvole, turbine e soprattutto radiazioni che non si vedono». Di qui l’obbligo per i media di una trascrizione: «È il discorso didattico, specialmente alla televisione, che si è incaricato di trascrivere il linguaggio dei tecnologi in quello dell’informazione». Ma il discorso dell’informazione fatto dai nuovi media racchiude pericoli sempre piú grandi per la costituzione della memoria che è una delle basi della storia. «Se la stampa è il luogo di una molteplicità di modi di costruzione, la radio segue l’avvenimento e definisce il suono, mentre la televisione fornisce le immagini che resteranno nella memoria e assicureranno l’omogeneizzazione dell’immaginario sociale». Si ritrova quello che è sempre stato in storia «l’avvenimento», tanto dal punto di vista della storia vissuta e memorizzata, quanto da quello della storia scientifica fondata su documenti (tra i quali l’avvenimento come documento occupa, lo ripeto, un posto essenziale). È il prodotto di una costruzione che coinvolge il destino storico delle società e la validità della verità storica, fondamento del lavoro storico: «Nella misura in cui le nostre decisioni e le nostre lotte quotidiane sono sostanzialmente determinate dal discorso dell’informazione, è chiaro che la posta in gioco è nientemeno che l’avvenire delle nostre società» [1981, p. 170].

In questo quadro di sfide e interrogativi, si è manifestata recentemente una crisi nel mondo degli storici, della quale si può considerare espressione esemplare un dibattito tra due storici anglosassoni, Lawrence Stone ed Eric Hobsbawm, pubblicata in «Past and Present».

Nel saggio The Revival of Narrative Lawrence Stone constata un ritorno al racconto in storia, fondato sul fallimento del modello determinista di spiegazione storica, sulla delusione prodotta dalla pochezza dei risultati della storia quantitativa, sulle disillusioni nate dall’analisi strutturale, sul carattere tradizionale, cioè «reazionario», della nozione di «mentalità». Nella sua conclusione, che è il vertice di ambiguità di una analisi ambigua, Stone sembra ridurre i «nuovi storici» a operatori degli slittamenti e delle dislocazioni della storia, di una storia che sarebbe ritornata, da quella di tipo determinista, a storia tradizionale: «La storia narrativa e la biografia individuale sembrano da segni evidenti risuscitare alla vita» [1979, p. 23].

Eric Hobsbawm gli ha risposto che i metodi, gli orientamenti e i prodotti della storia «nuova» non costituivano per nulla una rinunzia ai «grandi» temi, né un abbandono della ricerca delle cause per un ripiegamento sul «principio d’indeterminazione», ma che si trattava della «continuazione delle iniziative storiche precedenti con altri mezzi» [1980, p. 8].

Eric Hobsbawm ha giustamente sottolineato che la nuova storia ha anzitutto degli obiettivi di allargamento e approfondimento della storia scientifica. Essa ha indubbiamente incontrato problemi, limiti, forse degli stalli. Nondimeno continua a estendere i campi e i metodi della storia e, quel che piú conta, Stone non ha saputo vedere quello che può essere veramente nuovo, «rivoluzionario», negli odierni orientamenti della storia: la critica del documento, il nuovo modo di considerare il tempo, i nuovi rapporti tra il «materiale» e lo «spirituale», le analisi del fenomeno del potere in tutte le sue forme, non solo in quella strettamente politica.

Mostrando di considerare i nuovi orientamenti della storia come delle mode in via di esaurimento e abbandonate anche dai loro sostenitori, Stone non soltanto è rimasto alla superficie del fenomeno, ma ha finito per schierarsi in modo ambiguo con coloro che vorrebbero ricondurre la storia al vibrionismo o al positivismo limitato di un tempo. Che costoro rialzino la testa nell’ambiente degli storici e intorno a esso, ecco il vero problema della crisi. Si tratta di un problema di società, di un problema storico nel senso «oggettivo» del termine.

Come conclusione di questo articolo, una professione di fede e la constatazione di un paradosso.

La rivendicazione degli storici – nonostante la diversità delle loro concezioni e delle loro pratiche – è insieme modesta e immensa. Essi chiedono che ogni fenomeno dell’attività umana sia studiato e messo in pratica tenendo conto delle condizioni storiche nelle quali esiste o è esistito. Per «condizioni storiche» s’intende il dar forma cognitiva alla storia concreta, una conoscenza sulla coerenza scientifica per la quale vi sia un sufficiente consenso nell’ambiente professionale degli storici (anche se tra questi esistono disaccordi sulle conseguenze da trarne). Non si tratta in alcun modo di spiegare il fenomeno in questione mediante queste condizioni storiche, d’invocare una causalità storica pura, e in ciò deve consistere la modestia del procedimento storico. Ma questo procedimento ha anche la pretesa di ricusare la validità di ogni spiegazione e di ogni pratica che non tenesse conto di tali condizioni storiche. Bisogna dunque respingere ogni forma imperialista di storicismo – che essa si presenti (o che sembri) come idealista, positivista o materialista – ma rivendicare con forza la necessità della presenza del sapere storico in ogni attività scientifica o in ogni prassi. Nel campo della scienza, dell’azione sociale, della politica, della religione o dell’arte – per considerare alcuni terreni essenziali – questa presenza del sapere storico è indispensabile. In forme diverse, certamente. Ciascuna scienza ha il suo orizzonte di verità che la storia deve rispettare; la spontaneità e la libertà dell’azione sociale o politica non devono essere ostacolate dalla storia, che non è nemmeno incompatibile con l’esigenza di eternità e di trascendenza del religioso, né con le pulsioni della creazione artistica. Ma, scienza del tempo, la storia è una componente indispensabile di ogni attività nel tempo. Piuttosto che esserlo inconsapevolmente, nella forma di una memoria manipolata e deformata, non è forse meglio che lo sia come un sapere fallibile, imperfetto, discutibile, mai completamente innocente, ma che la sua norma di verità e le sue condizioni professionali di elaborazione e di esercizio permettono di chiamare scientifico?

Sembra trattarsi, in ogni caso, di una esigenza per l’umanità d’oggi, secondo i diversi tipi di società, di cultura, di rapporto con il passato, di orientamento verso l’avvenire che essa conosce. Forse non sarà la stessa cosa in un avvenire piú o meno lontano. Non perché non si sentirà piú il bisogno di avere una scienza del tempo, un sapere vero sul tempo, ma perché questo sapere potrà prendere forme diverse da quelle alle quali oggi conviene il nome di storia. Il sapere storico è esso stesso nella storia, cioè nella imprevedibilità. Non per questo è meno reale e vero.

Girolamo Arnaldi, riprendendo un’idea esposta da Croce nella Storia come pensiero e come azione (1938), ha affermato la sua fiducia nella «storiografia come mezzo di liberazione dal passato», per il fatto che «la storiografia… apre la via a una vera e propria “liberazione dalla storia”» [1974, p. 553]. Senza essere cosí ottimista, chi scrive crede che spetti allo storico trasformare la storia (res gestae) da fardello – come diceva Hegel – in una historia rerum gestarum che faccia della conoscenza del passato uno strumento di liberazione. Non si vuol rivendicare qui, per il sapere storico, un ruolo imperialista. Se si ritiene indispensabile il ricorso alla storia nell’insieme delle pratiche della conoscenza umana e della coscienza delle società, si crede anche che questo sapere non debba essere una religione e una dimissione. Bisogna respingere «il culto integralista della storia» [Bourdieu 1979, p. 124]. Nelle parole del grande storico polacco Witold Kula «lo storico deve – paradossalmente – lottare contro la feticizzazione della storia… La deificazione delle forze storiche, che conduce a un sentimento generalizzato di impotenza e di indifferenza, diventa un vero pericolo sociale; lo storico deve reagire, mostrando che nulla è mai integralmente iscritto in anticipo nella realtà e che l’uomo può modificare le condizioni che gli sono fatte» [1961, p. 173].

Il paradosso viene dal contrasto tra il successo della storia nella società e la crisi del mondo degli storici.

Il successo si spiega con il bisogno delle società di nutrire la loro ricerca d’identità, di alimentarsi a un immaginario reale; e le sollecitazioni dei media hanno fatto entrare la produzione storica nel movimento della società di consumo. Sarebbe importante d’altronde studiare le condizioni e le conseguenze di quella che Arthur Marwick ha definito «l’industria della storia» [1970, pp. 240-43].

La crisi del mondo degli storici nasce sia dai limiti e dalle incertezze della nuova storia, sia dal disincanto degli uomini di fronte alle asperità della storia vissuta. Ogni sforzo per razionalizzare la storia, per far sí che offra migliori punti di presa sul suo svolgimento urta nella derisione e nella tragicità degli avvenimenti, delle situazioni e delle evoluzioni apparenti. Questa crisi interna ed esterna è, beninteso, sfruttata dai nostalgici di una storia e di una società che si contentano di poco, di qualche derisoria e illusoria certezza. Bisogna ripetere con Lucien Febvre [1947]: «La storia storicizzante chiede poco. Molto poco. Troppo poco, per i miei gusti e anche per quelli di altri» (trad. it. p. 167). È la natura stessa della scienza storica di essere strettamente unita alla storia vissuta, della quale fa parte. Ma si può, si deve – lo storico per primo – operare, lottare affinché la storia, nei due sensi del termine, sia altra.