Glossario

 

Marxismo

Termine che designa sia l'insieme delle dottrine di Marx e di Engels, sia il movimento di pensiero e di azione che a tali dottrine si è via via richiamato, con svolgimenti e interpretazioni notevolmente diversi. Marxisti erano denominati intorno al 1880 i seguaci di una particolare corrente del socialismo francese, di fronte ai seguaci delle altre correnti (anarchici, proudhoniani ecc.), detti anche antimarxisti. Il termine «marxismo» emerse a poco a poco tra altre designazioni allora correnti del pensiero teoretico e politico di Marx quali «socialismo scientifico», «comunismo critico», «concezione materialistica della storia» o «materialismo storico». Ciò avvenne nel periodo dell'ampia ed efficace diffusione degli scritti di Marx compiuta da Engels, in concomitanza con le fortune del primo grande partito operaio di massa, il partito socialdemocratico tedesco (lungamente travagliato dai contrasti tra lassalliani e marxiani); nonché per contraccolpo alla «crisi del marxismo» proclamata da T.G. Masaryk (1898), la cui formula fu prontamente raccolta da G. Sorel e da B. Croce, e al revisionismo di E. Bernstein. Nei suoi lineamenti generali, la periodizzazione del marxismo è connessa con la storia politica del movimento operaio internazionale e dei vari partiti socialisti e comunisti, prima di tutto europei.

Il marxismo della Seconda internazionale (1889-1914) fu percorso dalle discussioni tra i marxisti «ortodossi», tra i quali K. Kautsky in Germania e G.V. Plechanov in Russia, e i «revisionisti»; e fu in genere improntato da una filosofia evoluzionistica della storia. Una fisionomia per qualche rispetto originale presenta l'austromarxismo (R. Hilferding, M. e F. Adler, O. Bauer), di orientamento neokantiano, interessato al nesso casualità-teleologia e a problemi etici. Si noti che, di contro a figure di filosofi come A. Labriola o Plechanov, non pochi dei marxisti più notevoli di questo periodo compirono approfonditi studi e analisi socioeconomici. E’ il caso dei citati Kautsky e Hilferding, così come di R. Luxemburg e di N. Lenin. E ciò consentì a questi ultimi di respingere energicamente il revisionismo, da posizioni rivoluzionarie, pur se tra loro in certa misura divergenti. Lenin in particolare caratterizzò il revisionismo in base ai seguenti tratti: in filosofia, ritorno a Kant, antimaterialismo e concezione adialettica dell'evoluzione; in economia interpretazione dei recenti sviluppi monopolistici dell'economia capitalistica nel senso di una attenuazione dei contrasti di classe; in politica, strategia di riforme per via parlamentare e di alleanza democratica con la borghesia, e conseguente rinuncia all'obiettivo del socialismo (secondo il noto aforisma dello stesso Bernstein: «per me il movimento è tutto, lo scopo finale nulla»).

Il fallimento politico e ideologico della Seconda internazionale e, poco dopo, la rivoluzione d'ottobre indussero una tendenziale polarizzazione pro o contro l'«opportunismo» socialdemocratico e in pari tempo pro o contro il «bolscevismo » o «leninismo». Non leniniani ovvero antileniniani furono non solamente i riformisti, ma anche alcuni rivoluzionari, di estrazione per es. luxemburghiana, che ritenevano il leninismo espressione di arretratezza orientale, quindi impraticabile per la classe operaia occidentale. Viceversa, dopo la morte di Lenin, alcuni dei suoi apporti più significativi - quali la teoria (di ispirazione antieconomistica e antispontaneistica) del partito rivoluzionario organizzato, la teoria dell'imperialismo come fase nuova e ultima del processo del capitalismo su scala mondiale, la rivendicazione del materialismo e della dialettica - furono istituzionalizzati nel «marxismo-leninismo».

Il marxismo-leninismo venne presentato da Stalin come la concezione del mondo propria del partito bolscevico, coronata dal “materialismo dialettico”, e dominò il periodo della Terza internazionale. In base a esso una quantità di posizioni venne emarginata sotto l'accusa di deviazionismo (per es. Trockij). Inoltre, mentre Lenin aveva indicato nel marxismo la continuazione organica di precedenti correnti ideali (l'economia politica inglese, il socialismo francese, la filosofia classica tedesca e specialmente la dialettica hegeliana) e non aveva accettato la contrapposizione tra cultura borghese e cultura proletaria, la politica culturale che fece capo a Stalin dette luogo ad atteggiamenti fortemente riduttivi verso la questione dell'eredità culturale e liquidatori nei confronti degli svolgimenti contemporanei della filosofia e delle scienze esterni al marxismo (anche G. Lukàcs, che pure ebbe a cuore il problema dell'eredità borghese, condivise a modo suo questo ostracismo). Rispetto a tale situazione segnò una svolta il XX Congresso del PCUS (1956).

Un posto a sé occupa uno dei maggiori pensatori marxisti che si siano avuti dopo Lenin, e cioè A. Gramsci, leninista convinto ma al tempo stesso estraneo allo stalinismo e al materialismo dialettico.

Fin dagli anni Venti al marxismo «orientale» (il cosiddetto Diamat) si è venuto contrapponendo un marxismo «occidentale», che conta tra i suoi rappresentanti più notevoli due filosofi: K. Korsch e il Lukàcs giovane. Quest'ultimo reagiva all'evoluzionismo positivistico e al riformismo della Seconda internazionale puntando sul tema della «coscienza di classe» e della soggettività rivoluzionaria, e concentrandosi criticamente sulla alienazione e reificazione capitalistiche.

Questa concezione costituì uno spunto per il marxismo «critico» della scuola di Francoforte, e ricomparve, spesso sprovvista della sua carica rivoluzionaria, in pensatori diversi ma accomunati da un reciso rifiuto del materialismo dialettico e dall'interesse per il rapporto marxismo-filosofia. La discussione è stata poi alimentata dalla pubblicazione degli inediti giovanili di Marx, che ha provocato una discussione in termini di scelta alternativa tra il Marx giovane e il Marx maturo del Capitale. Per la prima via si delineava una versione del marxismo in chiave di filosofia dell'uomo, con tentativi di collegarsi di volta in volta a Hegel o all'esistenzialismo (per es. J.-P. Sartre). Tra i critici non stalinisti di questa posizione è da ricordare L. Althusser. R. To. (EGF, pp. 683-684)

• Teorizzazioni recenti nell'ambito del marxismo.

Il dibattito più recente sul marxismo si è incentrato sulla teoria del valore-lavoro, interessando anche la teoria dello sfruttamento.

Nel libro III del Capitale, Marx aveva cercato di determinare prezzi delle merci e saggio generale del profitto a partire dai valori, calcolati in tempo di lavoro. Già agli inizi del Novecento (L. von Bortkievicz, 1906-07) il procedimento marxiano per «trasformare» i valori in prezzi era risultato viziato da circolarità. Nel 1960, con Produzione di merci a mezzo di merci, l'economista italiano P. Sraffa mostrava che era possibile calcolare simultaneamente saggio del profitto e prezzi di produzione, senza ricorrere alla nozione di valore (e quindi senza passare per il saggio del plusvalore calcolato in tempo di lavoro incorporato nelle merci). Il fatto che il concetto di valore-lavoro non servisse per calcolare il saggio del profitto, poneva così il problema del nesso sussistente tra quel particolare concetto e la convinzione che, nel modo di produzione capitalistico, vi fosse sfruttamento dell'operaio da parte del capitalista. Ciò avviava una serie di proposte, soprattutto in ambito economico, ma con importanti ricadute in filosofia, concernenti la possibilità di fondare il concetto di sfruttamento indipendentemente dal riferimento alla teoria del valore-lavoro.

Recentemente P. Garegnani (Marx e gli economisti classici. Valore e distribuzione nelle teorie del sovrappiù, 1981 ) ha cercato di fondare la nozione marxiana di sfruttamento sui rapporti di proprietà, e quindi sull'antitesi tra proprietà privata dei mezzi di produzione e proprietà della sola capacità lavorativa (forza lavoro).

Una proposta per certi versi analoga, benché all'interno di un'impostazione economica assai diversa, è stata avanzata, negli stessi anni, dall'economista americano J.E. Roemer (Una teoria generale dello sfruttamento e della classe, 1982). Quest'ultimo, a differenza di Garegnani, che privilegia il punto di vista teorico dell'economia «classica», accetta senza riserve la prospettiva «neoclassica» e riconsidera il concetto di sfruttamento collocandolo nell'ambito delle teorie della giustizia.

L'interesse filosofico per il marxismo ha subito nell'ultimo decennio un drastico ridimensionamento. Le indagini di tipo filologico-esegetico dei testi marxisti risultano ormai improponibili; e anche in Italia, dove la cultura di «sinistra» si era impegnata a fondo nell'interpretazione del marxismo (sul piano strettamente filosofico sono fondamentali i lavori di C. Luporini), si è assistito al ripensamento di alcune analisi.

La filosofia analitica anglo-americana, invece, ha sviluppato promettenti indagini relativamente alla concezione marxiana della storia (G.A. Cohen, Una difesa della teoria della storia di Marx, 1978) e intorno ai concetti di libertà e giustizia presenti nell'opera di Marx. Anche da parte di filosofi e sociologi non-marxisti (per es. J. Elster) si registra, in questo ambito, il tentativo di enucleare dal pensiero di Marx concetti guida (come, per es., quello di «auto-realizzazione»), intorno ai quali articolare una serie di prospettive per un migliore assetto della società. Contributi come quelli di Elster, Roemer, Cohen e altri sembrano indicare, per gli anni a venire, la possibilità di un punto d'incontro tra posizioni critiche della società capitalistica ispirate, rispettivamente, al marxismo e al liberalismo «di sinistra».

M. Mu. (EGF, pp. 684-685)

Materialismo dialettico

E' la dottrina filosofica che, a cominciare da Lenin, è stata associata al nome di Marx, e particolarmente alla sua concezione della società e della storia (materialismo storico). Essa si è costituita soprattutto sulla base delle riflessioni sulla «dialettica della natura» svolte da F. Engels in rapporto agli svolgimenti ottocenteschi delle discipline chimiche e biologiche. Secondo Engels, questi si spingono oltre i limiti del modello meccanicistico (meccanica dei gravi) e mostrano l'obsolescenza del materialismo a esso legato: il materialismo settecentesco francese, o il suo residuo ottocentesco, il materialismo «volgare» di Bùchner, Vogt, Moleschott. Nei settori-guida delle scienze naturali (fisiologia, embriologia, geologia ecc.), attraverso le rivoluzionarie scoperte della cellula come unità organica, della trasformazione dell'energia, e soprattutto della evoluzione darwiniana, risulterebbero decisive categorie come processo e azione reciproca. Al modo di pensare metafisico finora vigente, che tratta il mondo della natura come un complesso di cose, di entità fisse isolabili, tende a sostituirsi un modo di pensare che tratta il mondo come un complesso di nessi e di processi: metodo che Engels chiama dialettico, con richiamo esplicito a Hegel. Ciò ha un riscontro nel rivolgimento operato da Marx nella concezione della società e della storia, con il vantaggio, in questo caso, di assimilare consapevolmente la dialettica hegeliana, sceverata dal «sistema» idealistico che in Hegel la snaturerebbe. Se la filosofia della natura e la filosofia della storia vengono così a esurimento, e insomma è esclusa ormai una filosofia sopraordinata alle scienze, resta nondimeno un posto per la dialettica intesa come scienza generale delle leggi del movimento, o delle relazioni.

Engels rimprovera poi a Feuerbach di non aver distinto tra il contrasto fondamentale dei punti di vista materialistico e idealistico e i cambiamenti di forma del materialismo via via promossi dalle scienze. Tesi destinata a grande fortuna in N. Lenin. Questi ha di mira, in Materialismo ed empiriocriticismo, il processo di revisione della fisica classica e i relativi dissidi filosofico-epistemologici, con il prevalere di orientamenti francamente idealistici, ovvero agnostici, o convenzionalistici. Lenin sottolinea che il fatto di non poter mantenere, di fronte alla teoria atomica per es., il vecchio concetto di materia, di dover negare la immutabilità della materia e alcune proprietà di essa (come l'impenetrabilità), non comporta una rinuncia al postulato materialistico. Lenin cioè distingue il concetto scientifico di materia (ossia un determinato modello del mondo fisico) e la categoria filosofica di materia: quest'ultima si riassume nel riconoscimento della dipendenza di ciò che è spirituale da ciò che è naturale, del pensiero dall'essere, e così via. Si tratta del materialismo «in basso», proprio delle scienze naturali che Marx ed Engels hanno contribuito a liberare dalla unilateralità della vecchia forma meccanicistica per il fatto stesso di completarlo «in alto» (con il materialismo storico). Lenin si serve, per questo materialismo nuovo, della espressione «materialismo dialettico», sia pure seguitando a usare «dialettica materialistica».

Sul piano gnoseologico, egli sostiene la teoria del rispecchiamento (le sensazioni sono l'immagine fedele della realtà obiettiva; ciò che è rispecchiato - la realtà - esiste ed è determinato indipendentemente dalla conoscenza che lo rispecchia). Con essa intende tenere ferma la differenza specifica di scienza e ideologia, evitando di ridurre (come fa A. Bogdanov) la validità conoscitiva della prima alla funzione di organizzazione sociale dell'esperienza attribuita alla seconda. Per il resto Lenin rimane legato a una concezione realistica della sensazione, e in un certo modo della stessa teoria, anche se avverte che nessuna immagine può mai coincidere con il suo oggetto. Di qui discende la affermazione del carattere relativo di qualunque acquisizione conoscitiva, in riferimento tuttavia alla nozione-limite di una verità obiettiva, assoluta.

Secondo Lenin, è dal punto di vista della pratica (inclusa la pratica osservativo-speri-mentale delle scienze) che si giustifica materialisticamente la dialettica di verità relativa e verità assoluta, anche se non si riesce propriamente a fornire un criterio di verità.

Il doppio contrasto di materialismo e idealismo, e di dialettica e metafisica, costituisce la cornice dell'opuscolo di Stalin Materialismo dialettico e materialismo storico (1938), che codifica in due gruppi di principi - attinenti rispettivamente al metodo (dialettica) e alla concezione (materialismo) - enunciazioni di Engels e di Lenin, drasticamente semplificate. Mentre il materialismo dialettico designa ormai la «concezione del mondo del partito marxista-leninista», il materialismo storico rappresenta solamente una estensione-applicazione dei principi di esso allo studio della vita sociale. Variamente discusso, sviluppato (per esempio da Lukàcs, nella sua teoria della letteratura, basata sulla nozione di rispecchiamento) o respinto (anche da marxisti), il materialismo dialettico ha conosciuto recentemente un tentativo di riformulazione a opera di L. Althusser, nel senso di una epistemologia incentrata sulla differenza scienza-ideologia.

R. To. (EGF, pp. 688-689)

Materialismo storico

E' il punto di vista introdotto da Marx e da Engels relativamente allo studio delle società umane e della loro storia. Il termine è entrato in uso durante gli ultimi anni della vita di Engels, il quale più spesso si serve della espressione «concezione materialistica della storia». Successivamente esso è divenuto il termine più diffuso per designare la scoperta o l'apporto teorico essenziale di Marx e di Engels, anche se gli si è venuta affiancando, fino a soverchiarlo (soprattutto per opera di Stalin), l'espressione «materialismo dialettico» quale designazione comprensiva della filosofia peculiare del marxismo. Il materialismo storico è consegnato fondamentalmente nella tesi che le produzioni cosiddette spirituali degli uomini - fino all'arte, alla religione e alla filosofia - sarebbero determinate in ultima istanza dalla struttura economica delle diverse formazioni sociali, ossia sarebbero modi in cui giungono a coscienza e vengono espressi i contrasti fra le diverse classi sociali (ideologia). Si noti che Marx non rivendicò a sé la scoperta della esistenza delle classi o della loro lotta, ma unicamente il merito di averle poste in connessione con determinate fasi dello sviluppo storico della produzione. Con «struttura economica della società» e con la congiunta metafora della «base reale» su cui si eleva una «sovrastruttura», egli intende appunto l'insieme dei rapporti di produzione corrispondenti a un certo stadio di sviluppo delle forze produttive. Di qui la nozione di modo di produzione come unità delle condizioni sociali e delle condizioni tecnico-materiali della produzione. È la dialettica rapporti di produzione-forze produttive a dar conto dello sviluppo e della successione delle diverse formazioni sociali (per es. di quella basata sulla schiavitù, e di quella basata sul lavoro salariato). In Marx e in Engels il materialismo storico non solo ha come suo correlato la critica dell'ideologia, ma si costituisce specificamente in polemica verso qualunque filosofia della storia, in particolare contro quella hegeliana. Quanto al nesso del materialismo storico con il metodo della «critica della economia politica» (Marx), l'assunto di Marx è di muovere da una analisi del presente, intesa in senso sistematico; distinguendo tra il funzionamento attuale del suo maggior oggetto di indagine (il modo di produzione capitalistico) e la genesi storica di esso. D'altra parte, la nota di rimprovero che egli rivolge agli economisti «classici», di concepire le categorie economiche in maniera astorica, non esclude per nulla da parte sua la ricerca di determinazioni costanti. La quale non si limita ad analizzare il «processo lavorativo semplice», introdotto nel Capitale quale astrazione comune a tutte le forme di produzione sociale, ma investe anche i fondamenti di queste ultime. Sembra quindi incongruo identificare il materialismo storico con una sorta di storicismo.

Fra i contributi variamente significativi avutisi dopo la morte di Marx, sono da ricordare: le precisazioni portate da Engels sulla scorta dei suoi studi etnologici, le osservazioni dello stesso Engels e di Labriola intorno alle sovrastrutture ideologiche e al loro interagire con la «base»; lo sviluppo dato da Lenin alla categoria di formazione economico-sociale, con una interpretazione del Capitale in chiave di sociologia critico-scientifica; le annotazioni di Gramsci su società, politica e stato. Quanto alle versioni complessive del materialismo storico lungo la storia del marxismo, l'orientamento - prevalente nel periodo staliniano ma già fortemente radicato nella Seconda internazionale - a fare del materialismo storico una dottrina generale della evoluzione della società umana è stato contrastato con vigore, tra gli altri, dal giovane Lukàcs e da Korsch. Costoro hanno puntato su una interpretazione in chiave di autocoscienza critica del presente, dal punto di vista rivoluzionario di una classe: «Il materialismo storico è la teoria della rivoluzione proletaria» scrisse per es. Lukàcs. A sua volta Gramsci reagì alla separazione fissata da Bucharin tra materialismo storico (come sociologia) e filosofia materialistica, rivendicando per il materialismo storico il carattere di una filosofia integrale, la quale si situa - mercé la dialettica - al di là della opposizione tradizionale tra materialismo e idealismo. Il materialismo storico è l'aspetto del pensiero marxista sul quale più vivo si è mantenuto il dibattito, anche da parte di non marxisti (sociologi, antropologi, storici ecc.). Fra i suoi contestatori è da ricordare M. Weber.

R. To. (EFG, pp. 689-690)

Capitalismo

Nell'accezione marxiana, sistema economico-sociale basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sulla presenza nel mercato di una particolare merce, il lavoro salariato. Secondo questa interpretazione che, se non unica, è certamente la più influente, e non solo sul piano teorico - obiettivo del sistema economico capitalistico è la massimizzazione del profitto e il suo reimpiego per l'allargamento dell'attività produttiva (accumulazione del capitale). Si tratta perciò di un'economia, e quindi di una società, molto più dinamica ed espansiva di quelle pre-capitalistiche nelle quali la destinazione prevalente del sovrappiù non è l'investimento, ma il consumo delle classi proprietarie. Il mercato, presente anche nei sistemi precedenti, assume nel capitalismo una funzione centrale e generale di regolatore dell'attività di produzione, circolazione e distribuzione della ricchezza. A differenza di «capitale» e «capitalista», il termine «capitalismo» è abbastanza recente. Inserito negli Arricchimenti della lingua francese (1842) di J.B. Richard, è stato poi impiegato da L. Blanc, che nel 1850 lo definì «appropriazione del capitale da parte degli uni a esclusione degli altri». Marx non impiegò mai questa parola, ma fece riferimento alla locuzione «modo di produzione capitalistico». In seguito, per tutto il sec. XIX, l'uso del termine contraddistinse, nel pensiero economico, la corrente socialista anche non marxista (per es., J.A. Hobson). Fu con M. Weber e W. Sombart all'inizio del Novecento, e poi con il dibattito sorto negli anni Trenta sui problemi posti dalla grande crisi, che il termine divenne di uso comune, anche se con significati e connotazioni molto diversi.

• Interpretazioni.

Le prime organiche analisi economiche ad avere come oggetto un'economia volta alla produzione di un sovrappiù e basata sull'impiego di capitale e lavoro da parte di un ceto imprenditoriale risalgono alla scuola fisiocratica francese, che però attribuiva capacità produttiva al solo settore agricolo. Ai classici inglesi A. Smith e D. Ricardo si deve l'avvio dello studio della società industriale e delle leggi che in essa governano la produzione e la distribuzione della ricchezza. Con K. Marx lo studio del sistema capitalistico divenne indagine dì una struttura socio-economica storicamente determinata, della sua nascita, del suo sviluppo, delle sue contraddizioni, delle condizioni del suo superamento.

Il capitalismo è nella sua analisi un modo di produzione basato sulla concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di una classe che rappresenta una parte minoritaria della società e sul corrispondente emergere di una classe non proprietaria che, per sostentarsi, è costretta a vendere la propria forza lavoro. Il processo storico di separazione dei produttori dai loro mezzi di produzione, la loro espropriazione e la subordinazione diretta al capitale, avviata nel sec. XVI, sono quindi alla base della nascita del nuovo modo di produzione. Lo strumento analitico fondamentale dell'interpretazione marxiana è la teoria del valore-lavoro, attraverso la quale vengono indagate le leggi di funzionamento dell'intero sistema e in particolare la produzione e l'appropriazione del plusvalore, e il rapporto di sfruttamento che definisce il legame economico fra capitalisti e proletariato. Il motore dello sviluppo è visto sia nell'espansione delle forze produttive, sia nell'intensificazione della lotta fra le classi.

Un altro dei grandi filoni interpretativi, quello che fa riferimento a W. Sombart e M. Weber, individua in un principio di razionalità economica (lo «spirito capitalistico») l'essenza del capitalismo. Lo sviluppo di comportamenti improntati sia allo spinto d'iniziativa e d'avventura, sia alla razionalità «borghese» e al calcolo, rappresenta per Sombart l'elemento decisivo del passaggio da un'economia precapitalistica, in cui l'attività economica è finalizzata al soddisfacimento dei bisogni «naturali», a un sistema basato sul principio della redditività e orientato all'accumulazione di capitale. La razionalità economica - che si esprime nella correlazione fra mezzi e fini, nella capacità di programmare nel lungo periodo e nell'utilizzo di raffinati sistemi di contabilità - governa tuttavia solo il comportamento degli individui, mentre il sistema rimane nel suo complesso irrazionale, per la mancanza di coordinamento fra di essi. Weber sottolinea ancora più fortemente l'importanza del principio di razionalità e della ricerca sistematica del profitto, realizzati soprattutto attraverso l'impresa privata. Un aspetto significativo della sua analisi riguarda il ruolo giocato dalle religioni nell'assecondare (protestantesimo) o ostacolare (confucianesimo, taoismo) lo sviluppo.

Una terza interpretazione, legata originariamente all'impostazione della scuola storica tedesca (G. Schmoller), fa risalire la nascita del capitalismo all'avvento del commercio e dell'economia monetaria. In questa impostazione, che ha in Th. Mommsen e H. Pirenne due dei maggiori esponenti, si perde la specificità del capitalismo come modo di produzione e si dilata la sua presenza fino ad alcune fasi del medioevo e all'antichità. Oggi è soprattutto in riferimento alla natura del rapporto fra società sviluppate e sottosviluppate (specialmente nei lavori di P. Sweezy, AG. Frank e S. Amin) che il tema della funzione del mercato è stato affrontato. Si tratta di un'impostazione che assume il punto di vista dell'economia mondiale e concepisce il capitalismo in termini di produzione per il mercato. Tale ottica, che ha nell'opera di I. Wallerstein la sua formulazione più sviluppata, identifica il sistema capitalistico con un insieme integrato di paesi (l'«economia-mondo») divisi in centro, semiperiferia e periferia e collegati fra loro da rapporti ineguali. In essi coesistono e si integrano forme diverse di controllo sul lavoro: mentre l'economia del centro è fondata sul lavoro salariato, quella della periferia si basa su forme diverse (come, per es.. la schiavitù nelle colonie americane) che producono tuttavia per il mercato. Fin dal suo affermarsi, intorno alla metà del sec. XVI, il capitalismo è dunque per Wallerstein un sistema mondiale (con centro in Inghilterra. Olanda, Francia settentrionale; semiperiferia in Germania, Italia, Spagna. Portogallo, Francia centrale e meridionale; periferia in Europa orientale e nelle Americhe).

Allo sviluppo del capitalismo come a un formarsi di successive «economie-mondo» fa riferimento anche l'impostazione di F. Braudel, che ne fa risalire le prime fasi al sec. XII Per lui il centro è costituito, in un primo tempo, dalle più importanti città europee (Venezia e in seguito Anversa, Genova e Amsterdam) poi dall'Inghilterra della prima industrializzazione e infine dagli Stati Uniti d'America. Braudel definisce il capitalismo come «il luogo degli investimenti e dell'alto tasso di produzione del capitale», ciò che in epoca preindustriale è caratteristica del commercio internazionale. Soltanto quando anche nel settore industriale si creeranno le condizioni di grandi profitti (rivoluzione industriale), il capitale verrà investito, oltre che nella circolazione anche nella produzione. In ogni società coesistono, secondo questa impostazione, tre stratificazioni della vita economica, diversamente collegate fra loro: quella della «vita materiale» o dell'autosufficienza, quella della concorrenza o delle piccole attività economiche, quella «capitalistica», caratterizzata dall'alta remunerazione degli investimenti.

Sempre legata a un'analisi del mercato, ma riferita soprattutto alle trasformazioni qualitative del suo funzionamento e del suo legame con le strutture sociali è l'interpretazione di K. Polanyi. L'essenza del capitalismo è qui identificata con la «grande trasformazione» provocata dal formarsi di un sistema di mercati autorcgolati, in cui non solo tutta la produzione è in vendita, ma si formano merci «fittizie» come il lavoro, la terra e la moneta. Il passaggio da un mercato controllato a uno retto unicamente dai meccanismi della domanda e dell'offerta, che si ha con l'affermazione del capitalismo industriale del sec. XIX, ha per effetto la separazione istituzionale, nella società, tra sfera politica ed economica. La storia sociale diviene allora il risultato di un doppio movimento: da una parte l'assoluta libertà del mercato per quanto riguarda le merci vere e proprie, dall'altra la tendenza a sottoporre le merci «fittizie» a controlli e regolamentazioni crescenti.

Sul funzionamento dell'economia capitalistica e sul suo sviluppo occorre, infine, ricordare, per l'influenza che hanno avuto sul pensiero economico, l'impostazione schumpeteriana, che individua nell'attività dell'imprenditore «innovativo» l'elemento dinamico del sistema e la sua condizione di espansione, e la teoria keynesiana che, affrontando il tema delle crisi strutturali di sottoconsumo, indica nello stato il soggetto economico in grado di rilanciare la domanda e quindi la produzione e l'occupazione.

• Fasi storiche.

Il sorgere del capitalismo, a seconda delle varie interpretazioni, viene fatto risalire ora al sorgere delle prime città commerciali, ora alle trasformazioni economiche e sociali del sec. XVI, ora all'avvento della società industriale nella seconda metà del Settecento. Un nodo storico cruciale è rappresentato, in ogni interpretazione, dal mercantilismo, affermatosi a partire dal sec. XVI: per alcuni studiosi questa fase rappresenta infatti il passaggio al «capitalismo moderno» per altri, l'avvio di una nuova formazione economico-sociale o una fase di transizione che ne costituisce la necessaria premessa.

Nelle città dell'Europa occidentale dominate dalle corporazioni artigiane e mercantili, si affermarono le prime manifatture, mentre nelle campagne nuove figure di mercanti-imprenditori organizzarono e sottomisero, sempre più diffusamente, il lavoro a domicilio, fino ad allora attività autonoma legata all'autoconsumo o a un ristretto mercato locale. Alla base di questo processo ci fu ovunque un fenomeno di espulsione della manodopera agricola dalle campagne, coinvolte in una fase di crisi dei vecchi ordinamenti e di riorganizzazione dell'assetto proprietario e delle tecniche produttive. L'esodo assunse l'aspetto sia della cacciata violenta dei contadini da parte dei proprietari, sia della fuga dei servi dovuta al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Le masse impoverite che invasero le città rappresentarono un decisivo presupposto per lo sviluppo della manifattura. Nello stesso periodo si verificò anche una intensissima espansione dell'attività mercantile, conseguenza delle scoperte geografiche ma anche di precise politiche statali e della formazione di compagnie mercantili particolarmente spregiudicate. La cosiddetta «rivoluzione dei prezzi» che seguì l'immissione di grandi quantità di metalli preziosi in Europa - contribuendo a modificare i rapporti di potere fra le classi -e la possibilità di fruire di materie prime a basso prezzo provenienti da nuovi paesi, ricchi di risorse ma economicamente e politicamente dipendenti, crearono altre condizioni favorevoli all'espansione economica capitalistica. Mentre grandi eventi politici nell'Inghilterra di Cromwell e, soprattutto, nella Francia di fine Settecento, segnavano l'ascesa della borghesia a classe dirigente. Il processo di industrializzazione avviato nella seconda metà del sec. XVIII rappresentò il passaggio alla fase più matura del nuovo sistema. Fu l'Inghilterra, dove erano simultaneamente presenti molti degli elementi favorevoli sopra indicati (capitalizzazione dell'agricoltura con espulsione di forza lavoro e ampliamento del mercato interno di approvvigionamento e di vendita; forte impero coloniale e afflusso da questo di materie prime a basso prezzo; sviluppo tecnologico che, a partire dal settore tessile, rivoluziona il processo lavorativo e consente una rapida espansione della produzione), ad aprire l'era della rivoluzione industriale, seguila dai principali paesi europei, dagli Stati Uniti e dal Giappone.

Nelle fabbriche, l'introduzione di macchine (in primo luogo della macchina a vapore, che spezzò i vincoli di produttività imposti dalle fonti di energia «naturali» precedenti) rese possibile una sempre più spinta divisione del lavoro; il tempo, prima regolato da ritmi naturali, divenne per l'operaio un'imposizione esterna, scandita da processi meccanici. Le condizioni della classe operaia furono, nella prima industrializzazione, molto dure: masse di uomini, donne, bambini per guadagnare magri salari dovevano lavorare 12, 14 ore e più in ambienti malsani, senza alcuna tutela. Nelle città, cresciute tumultuosamente in seguito allo sviluppo industriale, non furono solo i rapporti di lavoro a essere modificati, ma gran parte delle condizioni di esistenza: dalla struttura familiare alle situazioni abitative ai rapporti sociali. Per i paesi che giunsero all'industrializzazione in ritardo, come Germania, Russia e Italia, vi fu anche il problema di reggere la concorrenza delle merci inglesi. Per questo l'intervento protettivo dello stato, soprattutto a favore dell'industria pesante, fu decisivo nel consentire il decollo.

Una nuova fase di trasformazione del capitalismo coincise con la prima grande depressione, verso la fine del sec. XIX. La nascita di grandi società per azioni e cartelli su scala internazionale e il peso sempre più rilevante del capitale finanziario provocarono sia mutamenti nel funzionamento dell'economia, ormai dominata prevalentemente dal grande capitale monopolistico, sia l'estendersi dell'influenza dei paesi capitalisti su quelli più arretrati. La ripresa dell'attività coloniale, molto intensa in questi anni ebbe anche lo scopo di trovare occasioni di investimento più favorevoli. Questa situazione sollecitò una ripresa del dibattito teorico sulla natura della nuova fase del capitalismo cui parteciparono soprattutto autori di orientamento socialista come V.I. Lenin, R. Luxemburg, R. Hilferding.

Con la crisi degli anni Trenta, in tutti i paesi lo stato affrontò, seppure in misura diversa, i problemi economici posti dalla riduzione drastica della produzione e dell'occupazione, con politiche di rilancio della domanda sia di consumo sia di investimento.

Questi interventi, apparsi in un momento di carattere congiunturale, segnarono in realtà l'inizio di una fase in cui l'intervento dello stato nella vita economica assunse un ruolo e un peso senza precedenti. M. P. (EEG, pp. 199-201)

Socialismo

Termine che, in senso lato, designa tutte le teorie sull'organizzazione politica e sociale propugnanti una riforma della società e dello stato che abbia come fine essenziale la giustizia sociale e come mezzo la socializzazione e/o la statalizzazione delle risorse economiche. Più specificamente il concetto ha origine nel quadro delle contraddizioni sociali derivanti dallo sviluppo della rivoluzione industriale in Europa e indica negli anni Trenta del secolo XIX «i fautori di questo o quello dei molti sistemi sociali che, pure in lotta fra loro, erano uniti dalla comune avversione per l'individualismo prevalente nell'economia e per la preminenza accordata alle questioni politiche, rispetto a quelle economiche e sociali» (G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, I, 1953).

Le origini. Socialismo utopistico e socialismo scientifico.

Il termine socialist venne probabilmente usato per la prima volta nel 1827 sulla rivista oweniana «Co-operative Magazine» e socialisme fu usato nel 1832 su «Le Globe», organo dei sansimoniani diretto da P. Leroux; proprio a opera di Leroux ebbe la prima diffusione attraverso la «Revue encyclopédique» (che ne pubblicò anche un tentativo di definizione: Sull'individualismo e il socialismo, 1833) e «L'Encyclopédie nouvelle». I principali gruppi socialisti erano in Francia i sansimoniani e i fourieristi, in Inghilterra gli oweniani, accomunati dalla critica della politica e dal privilegiare la «questione sociale», dalla critica della proprietà privata, dalla sperimentazione di modelli comunitari di vita, dalla fiducia nell'educazione delle giovani generazioni come strumento essenziale per il superamento dell'individualismo. Nel 1839 questi gruppi furono chiamati «socialisti utopisti» dall'economista J.-A. Blanqui nella sua Storia dell'economia politica, mentre si cominciava a distinguere tra socialismo e comunismo (L. von Stein, Socialismo e comunismo nella Francia contemporanea, 1842). La denominazione di «socialismo utopistico» fu consolidata dalla classificazione della letteratura socialista e comunista operata da Marx e Engels nel Manifesto del partito comunista (1848): a proposito di C.-H. Saint-Simon, Ch. Fourier, R. Owen, essi riconoscono il valore critico delle «loro affermazioni positive sulla società futura, per es. l'abolizione del contrasto fra città e campagna, della famiglia, del guadagno privato, del lavoro salariato, l'annuncio dell'armonia sociale, la trasformazione dello stato in una semplice amministrazione della produzione», ma attribuiscono allo scarso sviluppo del proletariato e della lotta di classe il fatto che «questi sistemi ravvisano bensì il contrasto fra le classi... ma non scorgono dalla parte del proletariato nessuna funzione storica autonoma, nessun movimento politico che gli sia proprio». Marx ed Engels valutano positivamente il «socialismo e comunismo critico-utopistico», distinguendolo nettamente dal socialismo «reazionario» (rappresentato dagli scrittori che idealizzano i rapporti sociali dell'Ancien Regime e dal socialismo filosofico tedesco di M. Hess e di K. Grùn) e dal socialismo «borghese» di P.-J. Proudhon, che non mette in questione la sostanza dei rapporti capitalistici di produzione; tuttavia essi contrappongono al «socialismo utopistico» il proprio «socialismo scientifico», che vede nella formazione del proletariato industriale il portatore reale della trasformazione comunistica della società e nella lotta di classe rivoluzionaria il metodo della trasformazione; e che individua nelle contraddizioni oggettive del modo capitalistico di produzione l'indizio della sua fine necessaria e del necessario passaggio a un superiore modo di produzione. Sono elementi di differenza che Engels ribadisce e sviluppa nei capitoli delVAnti-Diihring raccolti in L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza (1888).

La denominazione di «comunista» assunta dalla Lega dei giusti nel 1847 e dal Manifesto di Marx ed Engels denota il classismo del nuovo orientamento rispetto ai precedenti «sistemi socialisti». Nelle prefazioni del 1888 e del 1890 al Manifesto Engels sottolinea come nel 1847 «socialisti» fossero i seguaci di Owen e di Fourier e i più vari gruppi di riformatori sociali, «comunisti» quei gruppi operai che si erano organizzati su basi radicali, come i seguaci di E. Cabet e di W. Weitling: «Nel 1847 socialismo significava un movimento borghese, comunismo un movimento operaio.»

Questa distinzione perdette significato nella seconda metà del sec. xix e fu recuperata polemicamente dal leninismo nel periodo della rivoluzione sovietica e della fondazione dei partiti comunisti. Il partito operaio tedesco di ispirazione marxista, fondato a Eisenach nel 1869, aveva infatti preso il nome di Partito socialdemocratico (nel senso di partito della democrazia sociale) e socialdemocratico si chiamò anche dopo la fusione avvenuta nel 1875 con l'organizzazione operaia lassalliana (F. Lassalle). Proprio nella Critica del Programma di Gotha (1875), che scrisse in occasione dell'unificazione, Marx distinse due «fasi della società comunista»: quella transitoria della dittatura del proletariato, nella quale dominano ancora l'orizzonte giuridico borghese e la ripartizione del prodotto sociale in base alle prestazioni di lavoro, e «una fase più elevata», caratterizzata dalla scomparsa della divisione del lavoro e delle classi e dall'abbondanza della produzione sociale, in cui vige il principio «Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni», distinzione per la quale la tradizione marxista successiva ha usato i termini di «socialismo» e di «comunismo».

• Socialismo e comunismo.

Nel Partito socialdemocratico tedesco, che divenne il punto di riferimento dei partiti socialisti aderenti alla Seconda internazionale (1889), si sviluppò la tendenza dei socialisti riformisti che consideravano invecchiata e da «rivedere» la dottrina di Marx sulle contraddizioni crescenti del capitalismo, la polarizzazione tra le due classi sociali antagonistiche, la transizione rivoluzionaria verso il comunismo. Il «revisionismo» di E. Bernstein (/presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, 1899) - elaborato a contatto con il riformismo del movimento operaio inglese e della «Fabian Society» di G.B. Shaw e di S. Webb - non solo negava la concentrazione oligopolistica della proprietà e la proletarizzazione dei ceti intermedi, ma affermava che lo stato liberaldemocratico non era più l'organo del dominio della borghesia cui contrapporre la «dittatura del proletariato», e che poteva anzi diventare lo strumento della graduale trasformazione socialista del sistema economico e della piena democrazia; il socialismo doveva liberarsi dall'eredità deterministica e dalla filosofia dialettica della storia per diventare conquista pragmatica quotidiana da un lato, ideale etico dall'altro. Contro questa tendenza polemizzò sia la corrente rivoluzionaria di sinistra, che ebbe le formulazioni teoriche di maggiore rilievo negli scritti della polacca Rosa Luxemburg, sia il «centrismo ortodosso» di K. Kautsky. La Luxemburg elaborò l'analisi del «crollo» finale del capitalismo che lasciava spazio soltanto all'alternativa di socialismo o barbarie e tracciò la prospettiva della rivoluzione proletaria come processo di sempre più ampio e spontaneo coinvolgimento delle masse in esperienze dirette di lotta. Kautsky considerava indispensabili al socialismo gli apparati burocratici centrali dello stato e combatteva come radicalismo anarchico la fiducia nella spontaneità rivolu-zipnaria e nella democrazia diretta. Ancora più complesso nei primi quindici anni del secolo fu il panorama del socialismo russo. Nel 1901 l'eredità politica del populismo ottocentesco, che aveva delineato un socialismo agrario sulla base delle comunità contadine e aveva poi praticato la cospirazione e il terrorismo contro l'autocrazia zarista, fu raccolta dal Partito socialista rivoluzionario. A esso si contrappose il marxismo del Partito operaio socialdemocratico, fondato da G.V. Plechanov, che si divise nel 1903 nella corrente dei menscevichi, che prevedevano uno sviluppo di tipo occidentale per la Russia dopo la caduta dello zarismo, e nella corrente dei bolscevichi, tra i quali Lenin che attribuì al proletariato, guidato da un partito di rivoluzionari di professione rigidamente accentrato (Che fare?, 1902), il compito di realizzare anche la fase «democratico borghese» del processo rivoluzionario legando a sé la massa dei contadini.

Il crollo dell'internazionalismo socialdemocratico di fronte all'imperialismo e alla guerra mondiale e il successo del leninismo in Russia aprirono una profonda frattura nel movimento operaio. I maggiori teorici della socialdemocrazia marxista condannarono l'esperienza sovietica come un tentativo volontaristico in una situazione arretrata che necessariamente metteva capo a una dittatura terroristica del partito e della burocrazia di stato e, in prospettiva, a una dittatura personale (Kautsky, Terrorismo e comunismo, 1919). Ma anche nell'ala sinistra della socialdemocrazia, che appoggiò incondizionatamente la rivoluzione di ottobre, la versione leninista della «dittatura del proletariato» suscitò critiche radicali (Luxemburg, La rivoluzione russa, 1918). Il contrasto tra socialisti e comunisti raggiunse i toni più aspri in seguito all'analisi fatta dalla Terza internazionale della crisi del '29 come premessa a una nuova fase rivoluzionaria; i socialisti vennero indicati come l'ultimo puntello della borghesia e come «socialfascisti». Il marxismo sovietico aveva irrigidito quella che in Marx si presentava come fase di transizione al comunismo sviluppato facendone una formazione economico-sociale autonoma, con proprie leggi economiche e proprie forme giuridiche e politiche.

• Socialismo e «welfare state».

Il socialismo statalistico ha avuto, d'altra parte, una varia fenomenologia teorica e pratica anche in Occidente. In risposta alla crisi del '29 i socialismi occidentali, e in special modo il laburismo inglese e le socialdemocrazie scandinave, elaborarono un modello di politica economica, concordata dal governo con le imprese e i sindacati, al fine di correggere gli squilibri derivanti dal mercato e un intervento di politica fiscale fortemente progressiva per garantire a tutti i servizi sociali e un livello minimo di reddito alle classi meno abbienti: il welfare state, stato di benessere, stato assistenziale o stato dei servizi sociali (come preferì chiamarlo uno dei suoi teorici, W.H. Beveridge, che era stato all'inizio del secolo vicino al socialismo fabiano). La politica del welfare state fu attuata a partire dagli anni Trenta in Svezia e dopo la seconda guerra mondiale in Gran Bretagna e negli altri paesi europei dove i partiti socialisti promossero alcune nazionalizzazioni e forme di «capitalismo organizzato», con un rapporto variabile tra stato e mercato a seconda delle congiunture economiche e politiche e con vari modi di coinvolgimento dei lavoratori nella «democrazia industriale». Significativo fu l'abbandono formale del marxismo, dell'idea dell'antagonismo di classe, della fine dell'abolizione della proprietà privata (con lo slogan «concorrenza in economia nella misura del possibile, pianificazione nella misura del necessario»), da parte della socialdemocrazia tedesca al congresso di Bad Go-desbergdel 1959.

• Crisi dello stato sociale e crollo del «socialismo reale».

Alcune caratteristiche del welfare state sono diventate parte integrante del rapporto contemporaneo tra stato e società, accettato anche da forze politiche che non derivano dalla cultura socialista. 11 liberismo è divenuto in gran parte una finzione ideologica mentre la realtà, perlomeno nei paesi europei, presenta tratti più o meno marcati di corporativismo sociale nel quadro politico liberaldemocratico. A partire dagli anni Settanta lo stato sociale ha comunque dimostrato difficoltà e limiti oggettivi (sovraccarico di domanda, ipertrofia e inefficienza degli apparati statali, insufficienza delle entrate fiscali ecc.), dando luogo a numerose analisi critiche di ispirazione marxista (J. O.'Connor, La crisi fiscale dello stato, 1974) o neo-liberista.

Negli anni Ottanta era nel contempo sempre più evidente la crisi dei regimi di «socialismo reale» marxista-leninista, cioè dell'Unione Sovietica e dei paesi da essa dipendenti, fondati economicamente sulla pianificazione centralizzata e politicamente sul sistema del monopartitismo comunista, paesi nei quali la «costruzione del socialismo» era stata caratterizzata dal rafforzamento degli apparati repressivi di stato e delle gerarchie burocratiche in contrasto con gli ideali di eguaglianza e di autogoverno dei lavoratori proprio della tradizione teorica socialista. Dalla clamorosa denuncia del «culto della personalità» e dei crimini staliniani fatta da Chruscèv nel 1956 ai tentativi di riforma radicale di M. Gorbacev (segretario del Pcus dal 1985 al 1991 ) il sistema politico ed economico del «socialismo reale» si mostrava rigido e scarsamente riformabile. La caduta del muro di Berlino nel 1989, la fine dell'Unione Sovietica nel 1991, l'emergere di nazionalismi aggressivi nell'Est, hanno segnato una svolta storica le cui conseguenze sono difficilmente valutabili. In modi diversi si può parlare di profonda crisi dei socialismi all'Est e all'Ovest, nelle diverse forme divergenti e conflittuali che ha storicamente e teoricamente assunto, e della necessità di una ridiscussione critica di tutta la storia del socialismo. C. Pi. (EFG, pp. 1045-1047)

Comunismo

Termine con cui si designano dottrine che propugnano e descrivono una società basata su forme comunitarie di produzione ovvero di produzione e di consumo, in alternativa a società basate su forme di proprietà privata ovvero di distribuzione e di consumo disuguali. Possesso comune della terra e dei mezzi di produzione, lavoro per tutti, regolazione parificatrice dei bisogni e delle fruizioni, sono i tratti di una tale organizzazione su cui di volta in volta è stato messo l'accento.

Parte integrante di tali dottrine, fino ai nostri giorni, è l'educazione comune, pubblica, di tutti gli individui. Essa ha forte risalto già in Platone, il quale delinea per il suo modello di stato un assetto caratterizzato dall'assenza di proprietà personale riservandolo ai governanti e ai guerrieri, a esclusione di artigiani e agricoltori. Un «comunismo» dunque per nulla democratico ed egualitario; il che non ha alcun riscontro nelle raffigurazioni di società o città ideali fiorite in periodo rinascimentale: celeberrime V Utopia di T. Moro (1516) e la Città del Sole di T. Campanella (1602). Quest'ultima riprende da Platone anche il principio della comunanza delle donne, in funzione di una regolazione selettiva degli accoppiamenti la quale è solo un aspetto dell'assunto di regolamentazione capillare della vita in comune. Rivendicazioni e ideali comunistici sono comparsi via via nel tempo, o ispirati a un'esaltazione del cristianesimo originario (sia dell'insegnamento evangelico sia della vita delle prime comunità cristiane), o contrassegnati da attese millenaristiche o dal richiamo a imprescrittibili diritti di natura e a una idealizzata situazione originaria, prima che a esempi storicamente accertabili (il cosiddetto comunismo primitivo, descritto dalla etnologia ottocentesca). In epoca moderna, lotte e tentativi d'ispirazione comunistica furono la rivolta dei contadini in Germania capeggiata da T. Munzer, repressa ferocemente con l'assenso di Lutero (1525), e, di più modeste proporzioni, l'occupazione pacifica di terreno pubblico non recintato da parte di una frazione dei «livellatori» inglesi, gli «zappatori» o «veri livellatori», nel 1649: iniziativa notevole per la consapevolezza che s'esprime negli scritti di G. Winstanley (La legge della libertà, 1652, dedicato a Cromwell).

Comunismo ed egualitarismo.

Teorizzazioni più o meno ardite si susseguirono nella Francia del Settecento: oltre al Testamento (postumo) del curato ateo J. Meslier vanno segnalati il Dei diritti e dei doveri del cittadino dell'abate G. Bonnot de Mably e il Codice della natura (1755) di Morelly, testi che influirono, insieme con diffusi motivi critici rousseauiani (basti ricordare Robespierre), su F.-N., detto Gracchus, Babeuf, organizzatore, in Francia, della fallita cospirazione degli uguali (1796). Con l'emarginazione dei giacobini egli aveva assunto posizioni sempre più radicali, fino a sopravanzare la stessa richiesta, fino allora la più estremistica, della «legge agraria», ossia di una divisione delle terre legata all'ideale della piccola proprietà. Il Manifesto degli uguali steso da S. Maréchal proclamava la «Repubblica degli uguali» e reclamava la «fruizione comune dei frutti della terra» e «una sola educazione, un solo nutrimento» per tutti; dunque, un comunismo della distribuzione. Facevano da punto di leva l'insufficienza della uguaglianza dei diritti e quindi la necessità di un'uguaglianza «reale», «di fatto»; tema destinato a essere riscoperto, in Francia, sulla scorta delle esperienze e delle delusioni patite con la rivoluzione del luglio 1830 e con i successivi tentativi insurrezionali. In quegli anni l'amico di Babeuf, F. Buonarroti, diffuse il suo scritto rievocativo Cospirazione per l'uguaglianza (1828) e diede vita a un movimento neobabuvista, sempre fortemente politicizzato in senso pratico, democratico-giacobino, con forte presa in ambienti operai. Accanto a lui emerse la figura dell'avvocato E. Cabet, autore del fortunato «romanzo filosofico» Viaggio in Icario (1842), fautore di una comunità dei beni e di un lavoro obbligatorio moderato, da costituirsi gradualmente (a forza di persuasione e quindi col concorso di tutta la società) per irradiazione di colonie-modello su base ormai industriale, secondo gli esperimenti dell'inglese R. Owen. Il suo atteggiamento pacificatore e la sua identificazione di comunismo e cristianesimo furono respinti da T. Dézamy, che nutriva concezioni rivoluzionarie e materialistiche. Notevole, in entrambi, l'assimilazione dell'insegnamento dei grandi rappresentanti del socialismo utopistico, anche se proprio negli anni Quaranta emersero differenze fra socialisti e comunisti, prima di tutto sulla questione della proprietà privata che questi ultimi non solo criticavano ma volevano abolire. Il termine «comunismo», coniato da Cabet, viene allora proposto nella prospettiva del macchinismo, dello sviluppo dell'industria, di un incremento della produttività; arti e scienze sono considerate non nocive o superflue, ma anzi come fattori di progresso; si mira a una «uguaglianza dell'abbondanza». Una formulazione della piattaforma ideologica di questo movimento si trova in A.R. de La Hautière: «L'uomo nasce uguale all'uomo, non affatto simile in forze e bisogni... ma uguale in diritti», tutti cioè «hanno un pari diritto di vivere, di soddisfare tutte le funzioni della vita materiale e spirituale, d'appagare tutti i bisogni».

La svolta del «Manifesto» comunista.

Anche l'associazione segreta tedesca Lega dei giusti, a base prevalentemente artigiana, crebbe da principio come una propaggine del comunismo operaio francese, per poi internazionalizzarsi dacché la sua sede principale si spostò a Londra, grazie anche all'iniziativa di F. Engels. Alla forte impronta dottrinale datale dal sarto W. Weitling (Le garanzie dell'armonia e della libertà, 1842), Engels preferì dapprima il comunismo «filosofico» del giovane-hegeliano M. Hess; ma è sulla base delle concezioni da lui elaborate insieme a K. Marx che il nuovo comunismo (comunismo critico, lo chiamerà più tardi Engels, seguito da Labriola) prese piede, fino alla rottura aperta con Weitling e alla trasformazione della Lega dei giusti in Lega dei comunisti, la quale sostituì il motto «Gli uomini sono tutti fratelli» con il motto «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» (1847), reso famoso dal Manifesto del partito comunista, redatto appunto per essa. Già la scelta del titolo «manifesto» è significativa, se si pensa alle «professioni di fede» e ai «catechismi» di cui abbondava la letteratura socialista e comunista di allora. Data per scontata la liquidazione della tradizione segreta, cospirativa, insurrezionale e scelto l'orientamento verso nuove forme di organizzazione e di propaganda, Marx ed Engels mirarono non ad affiancare ai più avanzati movimenti di lotta esistenti (i cartisti in Inghilterra, i «riformisti» in Francia) un nuovo partito, bensì a individuare un punto di vista teorico che desse conto delle lotte in corso, delle loro condizioni e della loro portata storiche, al di là della cornice nazionale, o comunque non più meramente locale, entro cui necessariamente si svolgevano. Se si guarda alla direzione di fondo, l'abolizione della proprietà privata appare non più come un problema giuridico o morale bensì come la posta in gioco di una fase determinata delle lotte di classe. Ora, una lotta del genere investe non la proprietà intesa come «un semplice rapporto», tanto meno come un «principio», bensì come un determinato sistema di rapporti economici e giuridici.

La borghesia, nel lungo processo che l'ha condotta a essere la classe dominante, ha distrutto o ridimensionato vecchie forme di proprietà e di rapporti, e così ha scatenato un tale rivolgimento di modi di produrre e un tale incremento delle forze produttive da creare le «condizioni materiali» per l'emancipazione del proletariato. Non basta: la sua tendenza a concentrare mezzi di produzione e produttori e le sue lotte hanno promosso l'unificazione degli operai, la loro organizzazione politica, la formazione di una coscienza di classe al di là dell'inevitabile concorrenza interna. In particolare, le nuove forme di organizzazione e divisione del lavoro, il potenziamento senza precedenti del lavoro sociale rendono possibile una trasformazione peculiare della società, per cui, emancipando sé stessa, la classe operaia emancipa tutta la società dalla divisione in classi. A questo proposito, Marx ed Engels distinguono rigorosamente tra il capitale come «potenza sociale» e la relazione di classe capitale - lavoro salariato. E questa che va eliminata, in direzione di una regolazione sociale della produzione. Con ciò non viene affatto soppresso il potere di appropriazione personale dei prodotti, ma soltanto il «potere di assoggettare a sé, mediante codesta appropriazione, lavoro altrui». Così essi replicano alle obiezioni rivolte contro il «modo comunistico di produzione e appropriazione». Il risultato da loro indicato in termini di una «associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti» è poi proprio il rovescio del «rozzo» egualitarismo e «ascetismo generale» di tanta letteratura rivoluzionaria. Sono decisamente scartate la comunanza delle donne, l'abolizione del matrimonio e della famiglia, nonché della religione, quali provvedimenti da adottare d'acchito Nondimeno, altre numerose rivendicazioni vengono accolte. Che non si sarebbe pervenuti a una vera trasformazione della società se non attraverso un periodo di transizione era già ben chiaro, e si discuteva invece di questa transizione, dei modi e dei gradi del passaggio. E appunto in un elenco di misure per la transizione che Marx ed Engels convogliano, nel Manifesto, richieste correnti, come la riforma del diritto di successione e l'imposta progressiva. Più sostanziale, e gravida di conseguenze, la ripresa del tema «conquista del potere politico da parte della classe operaia» in vista (ciò che più conta) di un graduale risolversi dello stato politico in amministrazione pubblica.

Gli sviluppi del programma comunista. Il problema della transizione.

Modifiche a questa visione vengono apportate da Marx e da Engels, soprattutto in seguito alla Comune parigina, da cui essi traggono l'insegnamento che per gli operai non si tratta di impossessarsi, ai propri fini, di una macchina statale bell'e pronta. Nella Crìtica del programma di Gotha (1875), puntuale demolizione del progetto di programma del partito operaio tedesco, Marx fa corrispondere al periodo di trasformazione della presente società in una società nuova un «periodo politico di transizione, il cui stato non può essere che là dittatura rivoluzionaria del proletariato» e distingue una prima fase della società comunista, regolata dal principio «a ciascuno secondo il suo lavoro», da una fase più elevata, sviluppantesi su una propria base, regolata invece dal principio «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Nel vivo del processo rivoluzionario in Russia, Lenin torna a discutere di questi temi e sostiene, sulla traccia di alcune osservazioni di Engels, l'opportunità storica e le ragioni teoriche di ripristinare la denominazione «comunista» per il partito bolscevico, in sostituzione dello screditato «socialdemocratico». Comunista si chiamerà pure il partito protagonista della seconda maggior rivoluzione del nostro secolo, quello cinese, il cui significato storico, per quanto problematico, sembra consistere in un arduo ripensamento, anche teorico (Mao Dzedong), di problemi quali i rapporti operai-masse contadine, industria-agricoltura (ritmo e forme di industrializzazione, collettivizzazione e macchinizzazione dell'agricoltura), direzione politica-masse, partito-stato, ideologia-cultura: ripensamento le cui conclusioni risultano distanti rispetto all'indirizzo economico, politico e culturale preso dall'Unione Sovietica sotto la direzione di Stalin, nonché rispetto alla destalinizzazione avviata ufficialmente da Chruscev nel 1956. Già prima della caduta del «muro» di Berlino (1989) e del crollo dei regimi cosiddetti «socialisti» dell'Est europeo, numerosi critici (anche di ispirazione marxista: L. Trockij, R. Bahro ecc.) avevano messo in evidenza come in tali regimi il controllo della produzione e della destinazione del prodotto sociale fosse in mano a una élite che svolgeva funzioni analoghe a quelle svolte dai proprietari dei mezzi di produzione nelle società capitalistiche. La crisi avviata con gli anni Novanta ha fatto emergere non solo l'incapacità di quella élite a gestire l'economia a fini sociali, ma ha posto anche in assoluto rilievo il problema delle modalità e degli strumenti che sono necessari per esercitare il controllo sociale sull'economia in una prosspettiva pianificata. Il problema della gestione collettivista dell'economia si è così rivelato un punto debole di grave entità dell'ideale comunista. D'altra parte, il tentativo - sia sul piano teorico sia su quello pratico - di integrare il mercato in un'economia di tipo prevalentemente «collettivista» (si pensi alla Cina a partire dagli anni Ottanta in poi) pone a sua volta il duplice problema del controllo del mercato e della gestione delle disuguaglianze economico-sociali che sono intrinseche all'affermarsi del mercato stesso.

R. To (EFG, pp. 193-195)

Alienazione

Nel senso più generale indica la cessione, volontaria o meno, di un bene; così nel linguaggio giuridico si parla di alienazione di un patrimonio o di una parte di esso per significare che il proprietario lo ha in qualche modo ceduto; in campo medico si parla, per analogia, di alienazione delle facoltà mentali volendo indicare la perdita di queste.

Al fenomeno, che era sempre stato riguardato come un fatto negativo, Rousseau diede per la prima volta una carica positiva: nel Contratto Sociale, descrivendo il passaggio degli uomini da un primitivo stato naturale a quello associativo necessario per fronteggiare gli ostacoli che il singolo non era in grado di superare, parlò del tacito contratto stipulato in quella fase dello sviluppo dell'umanità e delle sue clausole che, in fondo, «si riducono tutte ad una sola cioè l'alienazione totale di ciascuno degli associati con tutti i suoi diritti a vantaggio della comunità». In questo modo il singolo aliena effettivamente la propria libertà individuale ma per ottenere i maggiori benefici derivanti dalla sua appartenenza alla collettività.

Con Hegel, che aveva attentamente studiato gli ulteriori sviluppi del concetto di alienazione presso gli illuministi e con particolare riguardo per Diderot, il termine assunse nuovi significati che investivano piani diversi: da quelli tradizionalmente appartenenti alla filosofia a quelli dei rapporti tra gli uomini nella società; qui la parola alienazione designa il processo di separazione degli uomini dal prodotto della loro attività.

La sinistra hegeliana approfondì questo argomento allargando la ricerca a nuovi settori della realtà. Feuerbach, per esempio, analizzò il problema dell'alienazione nel campo delle religioni sostenendo che l'idea di divinità era il risultato di un processo in cui gli uomini avevano idealmente isolato le loro migliori qualità per trasformarle in attributi divini, oggetto di adorazione e di devozione; così gli uomini avevano separato se stessi dal prodotto della loro attività creativa facendo di questo l'entità lontana, grandiosa e onnipotente che ogni religione conserva tuttora al suo centro.

Moses Hess, a sua volta, studiò il fenomeno dell'alienazione a livello sociale ed economico: nella società capitalistica i lavoratori alienano se stessi attraverso la vendita della propria forza-lavoro che si muta, come la divinità descritta da Feuerbach, in qualcosa d'altro, di diverso e di estraneo provvisto di una sua potenza che domina coloro che l 'hanno creata.

Sulla base di questi studi considerati criticamente Marx elaborò il proprio concetto di alienazione che comprendeva le forme diverse del fenomeno nella sfera del lavoro, nell'ambito delle relazioni tra gli uomini e nell'immagine di se stessi che gli uomini costruiscono; in ogni caso il termine di alienazione mantiene il suo significato generale di separazione dall'uomo di ciò che materialmente e spiritualmente gli appartiene a vantaggio di qualcosa che si trova fuori dall'uomo stesso (Estraneazione).

Nella sfera del lavoro, l'alienazione si manifesta in primo luogo all'interno della natura stessa di questa attività che in luogo di essere lo strumento per soddisfare le necessità dell'uomo è un mezzo diretto a realizzare altri scopi e cioè il guadagno immediato; conseguentemente il prodotto del lavoro diventa un oggetto estraneo al lavoratore, non gli appartiene e contribuisce a costituire un mondo di oggetti regolati da leggi proprie e sfuggito al controllo di chi ha contribuito a costruirlo. In altri termini si è di fronte a un'espropriazione generalizzata dell'umanità a beneficio dell'oggetto merce al cui possesso è diretto ogni sforzo, in modo tale che la stessa vita interiore dell'individuo viene immiserita fino a uno stadio pressoché animalesco; solo qui «nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare nel bere e nel generare, tutt'al più nell'avere una casa, nella sua cura corporale, ecc.» il lavoratore può sentirsi libero.

L'alienazione del lavoro è la forma più importante di alienazione sulla quale si fondano o alla quale si riconnettono tutte le altre forme. Nel lavoro alienato intelligenza e capacità di decisione vengono eliminati, il lavoratore compie meccanicamente le azioni necessarie alla produzione di oggetti che non gli appartengono e dei quali caratteristiche e destinazione sono state decise altrove senza la sua partecipazione e per finalità a lui estranee. Lo scopo dell'esistenza umana appare rovesciato: il lavoro non è più il mezzo attraverso il quale gli uomini realizzano se stessi migliorando le condizioni materiali e spirituali della loro esistenza, ma un puro mezzo per sopravvivere; paradossalmente «il lavoratore vive soltanto per guadagnarsi da vivere».

La teoria marxiana dell'alienazione, a differenza delle precedenti riflessioni sull'argomento, colloca il fenomeno all'interno dei rapporti di produzione dell'attuale società che impediscono tra l'altro lo sviluppo armonico e globale dell'uomo, e spingono invece a forme di sviluppo umano irregolare e parziale alle quali soggiacciono anche se in modi e misure diverse gli stessi uomini che appartengono alle classi al potere. La fine dell'alienazione si potrà avere soltanto quando i presenti rapporti di produzione saranno superati.

Ampiamente ripresi dopo il ritrovamento dei Manoscritti economico filosofici del 1844, avvenuto negli anni trenta, i temi marxiani dell'alienazione sono stati oggetto di un gran numero di studi e di interpretazioni diverse, spesso collegate, appunto perché riguardanti la genesi della condizione attuale dell'esistenza umana, con le correnti dell'esistenzialismo contemporaneo.

Approfondimenti e arricchimenti della teoria dell'alienazione sono stati compiuti da vari studiosi e in particolare da quelli che nel loro insieme appartengono a quell'indirizzo di pensiero noto come hegelo-marxismo o marxismo occidentale. La teoria dell'alienazione è anche stata il luogo di incontro per confrontare le teorie di Freud con quelle marxiane e marxiste.

Estraneazione.

Il termine è connesso a quello di alienazione, ma rispetto a quest'ultimo indica qualcosa di più. Oltre ad "alienazione" c'è "estraneazione" quando una cosa, dopo averla noi "alienata", fatta uscire dal nostro potere, si contrappone poi a noi come una potenza estranea, ostile o comunque non più controllabile. Ciò avviene ogni qualvolta i prodotti dell'attività materiale e spirituale umana (in particolare i rapporti sociali, le istituzioni politiche e giuridiche e le ideologie) non soltanto assurgono di fatto a dominatori di chi li ha creati, ma assumono tale carattere anche nelle rappresentazioni e credenze soggettive di costui.

Forze produttive.

Nella terminologia della concezione materialistica della storia sono l'insieme delle correlazioni che esistono fra lavoro umano e mezzi di produzione. Forze produttive decisive sono gli uomini che mediante il proprio lavoro fisico e intellettuale hanno creato e applicato strumenti di produzione e trasformato gli oggetti naturali in vista di bisogni umani. Anche la scienza viene perciò annoverata dal marxismo fra le forze produttive. Esse costituiscono il fattore grazie al quale maggiormente si sviluppa e si trasforma un determinato modo di produzione.

Mezzi di produzione.

Si indicano con questo termine sia gli oggetti della natura (terra, acque, materie prime, semilavorati, ricchezze minerali e ambientali, e altre ricchezze naturali) verso i quali il lavoro umano si indirizza, sia gli strumenti di lavoro, i mezzi e accorgimenti (dai più elementari fino alla tecnica delle macchine) con il cui aiuto l'uomo interviene sugli oggetti naturali. L'evoluzione degli strumenti di lavoro ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo storico dei mezzi di produzione. Affinché un qualsiasi processo produttivo possa aver inizio  necessario che i mezzi di produzione vengano attivati dalla forza lavorativa umana.

Modo di produzione.

Nella concezione materialistica della storia è il termine usato per indicare l'insieme delle forze produttive e dei rapporti di produzione, intesi quest'ultimi come il sistema complessivo dei rapporti sociali all'interno dei quali avviene la produzione dei beni materiali. Dal modo in cui una società produce la propria vita materiale dipendono i connotati specifici della struttura sociale ( base), delle concezioni politiche, morali ecc. degli uomini, nonché delle istituzioni politiche, giuridiche ecc. ( sovrastruttura). Da un lato il cambiamento di un modo di produzione porta al cambiamento dell'intera vita sociale, dall'altro il nascere e succedersi l'un l'altro dei vari modi di produzione che si sono avuti nella storia non è casuale, ma segue leggi storiche precise. Ogni nuovo modo di produzione sta rispetto al precedente a un livello superiore e più progredito, in quanto poggia su un maggiore sviluppo delle forze produttive.

Base.

E', insieme al sinonimo "struttura", il termine coniato da Marx per indicare, nella sua concezione materialistica della storia, il ruolo che hanno nella società i rapporti materiali di produzione nei confronti della «sovrastruttura». I rapporti sociali, che gli uomini costruiscono nell'attività pratica della loro vita e che nel loro insieme formano una determinata società, si suddividono in rapporti materiali e rapporti ideologici. Gli uni nascono nel processo di produzione e riproduzione dei beni materiali, e costituiscono i rapporti originari, primari, la base economica di una data società. La "base" è dunque l'insieme dei rapporti di produzione che corrispondono a un determinato livello di sviluppo delle forze produttive materiali. La "sovrastruttura" è l'insieme dei rapporti ideologici che corrispondono a quella base. Secondo la concezione materialistica della storia "base" e "sovrastruttura" stanno in una attiva relazione dialettica, ossia reciproca.

Sovrastruttura.

E', nella terminologia della concezione materialistica della storia, l'insieme delle idee e istituzioni che caratterizzano una data società. Esse nascono dalla base economica di quella società, corrispondono ad essa, ma su di essa esercitano anche una dinamica azione di ritorno. Alla "sovrastruttura" appartengono non solo le idee politiche, giuridiche, morali, filosofiche, le concezioni del mondo e rappresentazioni ideali, e le rivendicazioni, istanze, aspirazioni umane che nascono sulla base del processo sociale materiale di vita e nelle quali si riflettono interessi sociali e interessi di classe degli individui. Vi appartengono anche le istituzioni politiche, giuridiche e di altro genere (dunque lo Stato, i partiti politici, le associazioni nella società civile, gli organismi culturali ecc.), che gli uomini costruiscono in corrispondenza alle proprie idee, rappresentazioni e aspirazioni e al fine di dare efficacia sociale ai propri interessi. Le idee e istituzioni dominanti in una data società sono perciò, di regola, quelle della classe dominante.

Fra la "base" e la "sovrastruttura" esiste uno stretto nesso dialettico, nel senso che tutte le relazioni e funzioni umane, cresciute sul terreno della "base", influenzano poi a loro volta la produzione materiale, intervenendo su essa con un'azione i cui effetti o consolidano la "base" o la trasformano. Per capire la funzione attiva della "sovrastruttura" occorre tener presente che questa, per il modo molto complesso in cui nasce, gode anche di una relativa autonomia nei confronti della "base".