Cap. IX

Mao Tse-Tung e il maoismo

LA VITA

Mao Tse_Tung (o Mao Ze-Dong) nacque a Shaoshan, Hunan, nel 1893, figlio di contadini relativamente benestanti; fu allevato secondo i metodi tradizionali della piccola borghesia rurale cinese, alternando lo studio al lavoro della terra del padre e sposandosi non ancora adolescente.

Per sfuggire all'opprimente ambiente familiare, poco più che quattordicenne si arruolò volontario nell'esercito repubblicano di Sun Yat-sen, che lasciò dopo un anno per dedicarsi agli studi di istitutore.

Dopo essersi diplomato alla scuola normale di Changsha (Hunan) [1918], trascorse un breve soggiorno a Pechino per seguire alcuni corsi universitari e qui ebbe i suoi primi contatti con il nascente movimento marxista cinese e in particolare con l'economista Li Ta-chao e il futuro segretario del partito comunista Ch'en Tu-hsiu.

Ritornato nel 1919 a Changsha partecipò attivamente all'organizzazione del movimento rivoluzionario dello Hunan e nel 1920 fondò i primi circoli marxisti locali, dai quali fu poi delegato al congresso costitutivo del partito comunista cinese (conferenza di Sciangai, 1921).

Dopo le repressioni anticomuniste condotte da Chiang Kai-shek (1927), che eliminò numerosi quadri del partito comunista imputato di eccessi contro i civili nelle città che venivano occupate dall'esercito nazionalista, Mao intraprese l'organizzazione della lotta partigiana nella zona montagnosa di Ching-kang shan, al confine tra lo Hunan e il Jianxi. Qui, dopo aver gettato le basi dell'esercito rosso e aver introdotto misure di riforma agraria, fondò una Repubblica sovietica di cui divenne presidente (1931), sottraendosi al controllo del comitato del PCC e del Comintern.

Nel biennio 1934-1935 comandò la 'lunga marcia' durante la quale riuscì a imporre la propria linea di condotta al partito, che lo elesse presidente dell'ufficio politico (gennaio 1935). Alla vigilia dell'aggressione giapponese, in seguito a un incontro con Chiang Kai-shek, che era prigioniero a Xi'an, Mao riuscì a indurre il capo effettivo del Kuo-min tang a una tregua, come prezzo della sua liberazione, per opporre un fronte comune contro i Giapponesi.

Falliti i tentativi di mediazione, la guerra civile riprese con violenza (1946), e mentre Chiang Kai-shek, con i resti del suo esercito, si ritirava a Formosa (Taiwan), Mao proclamò il 1º ottobre 1949 a Pechino la Repubblica Popolare Cinese della quale venne eletto primo presidente.

Da quel momento Mao, riservatasi la presidenza del partito, promosse una campagna di denuncia dei gruppi di 'opportunisti di destra' dentro e fuori del partito che 'sabotavano' la costruzione del socialismo in Cina. Avvenuta la rottura con Mosca che ritirò gli esperti sovietici dalla Cina (luglio 1960), Mao, (settembre 1962), propose di intensificare la lotta contro il revisionismo di Krusciov a livello mondiale e la lotta contro 'i dirigenti degenerati' in Cina attraverso un 'movimento d'educazione socialista', che durò sino al 1966.

Nel corso di quell'anno, Mao approvò la pubblicazione del primo giornale murale (dazibao), redatto all'università, che attaccava violentemente il sindaco di Pechino Peng Cheng e, indirettamente, lo stesso presidente della repubblica Liu Shao-chi.

Gli eventi successivi, come la misteriosa scomparsa di Lin Piao, in seguito accusato di tradimento, e il nuovo indirizzo della politica estera cinese, ridimensionarono il successo di Mao, che cedette sempre più la direzione politica del paese al 'numero due', il primo ministro Chou En lai, leader dei moderati. Il culto della sua personalità proseguì anche dopo la sua morte e venne inizialmente sostenuto dal nuovo gruppo dirigente, proprio contro i veri continuatori della politica del presidente, i radicali che furono successivamente arrestati e bollati come gruppo antimaoista, dopo essere stati definiti la “banda dei quattro”.

Nel 1977 venne costruito al centro della piazza Tien an' men, a Pechino, un grande mausoleo per la sua salma imbalsamata.

IL PENSIERO

Con la figura di Mao Tse-Tung ci troviamo di fronte, non meno che con Lenin, ad una concretizzazione (molti preferiscono parlare di “trasfigurazione”) della prassi rivoluzionaria teorizzata da Marx e da Engels, ai quali Mao direttamente si richiama. L’esperienza del comunismo cinese ha avuto un ruolo decisivo anche in forza dell’influenza esercitata sull’Occidente, nella misura in cui (soprattutto nel periodo di rottura tra URSS e Cina, nel 1959-61) molte frange studentesche e molti dissidenti dei partiti comunisti hanno assunto il maoismo come modello.

Mao partecipa attivamente alla fondazione del Partito Comunista Cinese (1921), e per qualche anno, attenendosi rigorosamente alla precettistica marxiana, è convinto che il protagonista della rivoluzione debba essere il proletariato urbano. Ma se Marx, soprattutto nel Capitale, puntava sulla classe operaia urbana, è perché si riferiva ad una realtà avanzata quale quella inglese: ora, nella Cina in cui Mao si trova a operare, non meno che nella Russia in cui operava Lenin, il proletariato urbano è una realtà pressoché inesistente, data l’arretratezza del Paese (in Cina il settore trainante era, com’è noto, quello agricolo). Si tratta cioè di trapiantare Marx in un mondo di contadini. Sicché, soprattutto dopo la dissoluzione del Partito (1927) e la sanguinaria repressione organizzata da Chiang Kai-Shek (leader del Kuomintang, ossia del Partito nazionalista cinese con cui, fino ad allora, i comunisti erano stati alleati), Mao matura la convinzione che in Cina la Rivoluzione debba caratterizzarsi essenzialmente come “rivoluzione contadina” ed essere condotta per “accerchiamento” delle città da parte delle campagne; queste ultime devono essere trasformate in veri e propri epicentri della prassi rivoluzionaria. Seguendo questa sua innovativa lettura del marxismo, Mao, a partire dal 1929, promuove la creazione in campagna di “basi rosse”, dotate di proprie milizie, di vere e proprie cellule di uno Stato comunista in statu nascendi dal basso.

Spetterà alla “lunga marcia” del 1934 a fare di Mao il leader indiscusso del Partito comunista cinese: con tale marcia, com’è noto, Mao condusse l’esercito rosso dalla Cina centrale alle regioni nord-occidentali del continente, in maniera da sfuggire alle truppe di Chiang. Quando il Giappone aggredirà la Cina (1937), le “due Cine” – quella di Chiang e quella di Mao – stringeranno un’alleanza (la versione cinese della politica dei “fronti popolari”) contro l’invasore, alleanza che si conserverà per l’intero periodo della guerra mondiale. Quando terminerà il conflitto bellico, riprenderà, con toni inaspriti, la guerra civile in Cina, che si concluderà soltanto nel 1949 col trionfo di Mao e con l’unificazione dell’intera Cina sotto il regime comunista.

A seguito del consolidamento del potere, Mao avviò una fase di collettivizzazione rapida e forzata, che durò all'incirca fino al 1958. Il PCC introdusse un controllo dei prezzi che riuscì con ampio successo a spezzare la spirale inflattiva della precedente Repubblica di Cina, ed una semplificazione della scrittura cinese che mirava ad aumentare l'alfabetizzazione. La terra venne ridistribuite dai proprietari terrieri ai contandini poveri e vennero intrapresi progetti di industrializzazione su larga scala, che contribuirono alla costruzione di una moderna infrastruttura nazionale. Durante questo periodo la Cina sostenne incrementi annui del PIL del 4-9%, oltra a un drastico miglioramento degli indicatori della qualità della vita, quali aspettativa di vita e alfabetizzazione. Il PCC adottò inoltre delle politiche intese a promuovere la scienza, i diritti delle donne e delle minoranze, combattendo al tempo stesso l'uso di droghe e la prostituzione.

Il pensiero marxista di Mao trova espressione soprattutto in tre scritti: Sulla pratica, Sulla contraddizione (1937) e Sulle contraddizioni in seno al popolo (1957). Senza apportare grandi novità al “materialismo dialettico” di Marx, Engels e Lenin, questi scritti risultano curiosamente innervati dello spiritualismo confuciano della tradizione cinese e rappresentano una riflessione autonoma rispetto a quella staliniana. Contrario a ogni irrigidimento dogmatico, Mao si richiama senza sosta agli insegnamenti della praxis e sostiene esplicitamente che, per qualsiasi problema (perfino quelli teorici), è necessario assumere la prassi come punto di partenza: ciò in base all’assunto (formulato in Sulla pratica) secondo cui “la conoscenza comincia con la pratica, raggiunge attraverso la pratica il piano teorico e deve poi ritornare alla pratica”. Il ritorno alla pratica è finalizzato a rinvenire in essa le conferme della teoria, ma anche e soprattutto, in un’ottica schiettamente marxiana, a dar vita ad un’azione trasformatrice della realtà esistente.

Come aveva insegnato Hegel ancor prima di Marx, la realtà è intessuta di contraddizioni: ma essa non deve assolutamente essere imprigionata in schemi astratti e meramente concettuali; si tratta piuttosto di restare ancorati alla realtà, sottolineandone la determinatezza e l’incessante diversità che la caratterizza lungo il volgere dell’esperienza. Mao fa notare come, non appena la contraddizione presente sia stata risolta con la soppressione di uno dei due opposti, essa risorga e si ripresenti nella nuova situazione raggiunta: in ciò dev’essere individuata l’eredità taoista del divenire universale, oltre che l’idea di Trockij secondo cui la rivoluzione, per potersi affermare, deve assumere la forma di una “rivoluzione permanente”.

Soprattutto con il saggio del ’57, Sulle contraddizioni in seno al popolo, Mao matura quest’idea della contraddizione, spingendola in direzione antistaliniana (siamo negli anni del XX Congresso del PCUS), ancorché egli non attacchi mai esplicitamente Stalin né aderisca al processo di destalinizzazione avviato in quegli anni nei Paesi dell’Est. Mao distingue attentamente tra “contraddizioni principali e antagonistiche” (quelle dello scontro di classe) e “contraddizioni secondarie e non antagonistiche” (quelle che nascono in seno ad uno stesso partito, tra le diverse linee emergenti): nel caso in cui le “contraddizioni secondarie e non antagonistiche” si cristallizzino e si radicalizzino, esse diventano a loro volta contraddizioni antagonistiche; ma il partito rivoluzionario, secondo Mao, non deve in alcun caso soffocare gli antagonismi, pena il ricadere in un organismo burocratico e autoritario. Il partito deve anzi favorire le contraddizioni a sé interne: ed è sulla scia di questa convinzione che Mao, nel 1956, lancia la cosiddetta “politica dei cento fiori”, che però già nel 1957 assume una piega decisamente meno liberale. La politica dei cento fiori consiste nell’incoraggiamento della fioritura di libere discussioni nell’ambito dell’arte e della scienza.

Ancor più che dai suoi scritti, le novità che Mao apporta al marxismo affiorano dalla sua prassi: in particolare, nell’opera che svolse nei decenni postrivoluzionari, allorché sorse il problema di costruire il socialismo in quello Stato arretrato e agricolo che era la Cina (ipotesi notoriamente non previste da Marx). Soprattutto avviando la cosiddetta “rivoluzione culturale”, nel 1965, destinata a durare per un quinquennio, Mao elaborò quella ricca serie di accorgimenti, di strategie e di precetti che vanno sotto il nome di “maoismo”: l’obiettivo era anche quello di contrapporsi all’URSS, con la quale la Cina aveva ormai rotto (soprattutto con la scelta delle “comuni agricole” e del cosiddetto “balzo in avanti” del 1958).

Mao si propose anche di dare una soluzione all’annoso problema del rapporto tra struttura e sovrastruttura, lasciato in eredità da Marx stesso. Rigettando l’idea che socialismo equivalga tout court a negazione della proprietà privata e dei mezzi di produzione, Mao resta fedele a Marx e sostiene che la struttura coincide con l’insieme dei rapporti sociali di produzione; la conseguenza è che la struttura non include esclusivamente la forma giuridica della proprietà, ma anche lo sviluppo delle forze produttive, la divisione del lavoro, il rapporto tra uomo e natura, tra uomo e macchina, tra uomo e uomo. Ne segue allora che il rapporto tra struttura e sovrastruttura non è il rapporto tra due componenti separate e autonome, ma piuttosto un rapporto in cui la sovrastruttura è intrinseca alla struttura materiale della società, ed è dunque inseparabile da essa.

Da ciò scaturisce una concezione del processo rivoluzionario alternativa a quella sovietica: la rivoluzione è una trasformazione radicale e indivisibile, nel rapporto di produzione, dei rapporti sociali nella loro intera complessità. In forza di questa prospettiva, Mao rigetta il modello sovietico di accumulazione e sviluppo economico, incentrato sull’idea che un processo di rapida industrializzazione porterebbe automaticamente a una società socialista, secondo il motto di Lenin: “elettrificazione + soviet = socialismo”. Questo schema sovietico si rivela agli occhi di Mao catastrofico sotto due diversi aspetti: da un lato, crea una voragine tra industria e agricoltura, tra città e campagna, generando nuove disuguaglianze sociali ed economiche, dando vita ad un gruppo elitario di tecnici e scienziati, riproponendo, in forma enfatizzata, la dicotomia tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Dall’altro lato, il modello sovietico genera una classe di burocrati separati dal popolo e privilegiati, e commette l’errore di assumere la scienza e la tecnica come paradigmi del tutto neutri e socialmente validi. Riducendo il concetto all’estremo, il modello sovietico ripropone in tutto e per tutto lo stesso modello capitalistico in forma ancora più perversa.

Mao è profondamente convinto che la costruzione del socialismo da una parte implichi “balzi” qualitativi, radicali rotture col passato, una rivoluzione senza soluzione di continuità; e dall’altra, l’affermazione antieconomicistica dell’egemonia della politica anche nella trasformazione del dato strutturale. La trasformazione socialista della sovrastruttura non è l’inaggirabile portato dello sviluppo economico, ma anzi è il presupposto di esso. Da tutto ciò segue un diverso modo d’intendere il rapporto tra partito e masse contadine e operaie rispetto alla prospettiva leniniana: il partito è sì la guida a cui devono sottostare le masse, ma non è un qualcosa di esterno ad esse; esso esiste soltanto in funzione di tali masse, a cui Mao riconsegna dunque – antistalinianamente – il ruolo di protagoniste della propria emancipazione. Il partito deve essere al servizio delle masse, e i membri del partito, diceva Mao, quando parlano in pubblico, devono impiegare il modello delle “otto gambe del tavolo”: devono cioè esporre in otto maniere diverse lo stesso discorso, in modo da spiegarsi tanto ai contadini analfabeti quanto ai dottissimi mandarini. Nel caso in cui il partito tendesse a separarsi dalle masse e a comandarle contro la loro volontà, queste devono ribellarsi e far proprio il motto: “bombardare il quartier generale”.

Nel 1964, uscì il Libretto rosso, una raccolta di pensieri di Mao. “Un sole rosso al centro dei nostri cuori”, urleranno nelle piazze i manifestanti comunisti riferendosi a Mao.

da www. filosofico.net

IL DILEMMA DELLA CINA

di PAOLO DEOTTO

La Cina: un paese immenso e lontano, con una storia che si misura a millenni. La Cina e il mito, un binomio che sembra inscindibile. Messer Marco Polo iniziò a far sognare i suoi contemporanei, narrando le meraviglie di quel paese; un sogno comprensibile, perché con i mezzi di comunicazione di sette secoli fa la Cina era un pianeta lontano. Ma poco più di trent'anni fa il fascino irresistibile del paese lontano colpiva ancora, e i sessantottini, con poche ma ben confuse idee, erano pronti a scannarsi anche tra loro per stabilire chi fosse il più puro seguace del pensiero di Mao Tse Tung, il Grande Timoniere di Pechino.

E solo dodici anni fa, nel maggio del 1989, gli studenti cinesi, che dopo le dimostrazioni di dissenso nella piazza Tienanmen subivano una dura repressione militare, venivano eletti frettolosamente a simbolo della lotta per la libertà. E anche in questo caso (e vedremo perché) l'Occidente preferiva contemplare il mito anziché sforzarsi di capire la realtà.

Sullo sfondo, mentre il mondo occidentale cerca rifugio nel sogno, ognuno costruendosi l'immagine della Cina che più lo affascina, un uomo, con un sorriso indefinibile, un po' sapiente e un po' beffardo, guarda tranquillo tanto agitarsi e sembra voler dire, con modi tanto garbati quanto decisi: "Non avete capito nulla".

Quell'uomo potrà essere maestro Kong (o Confucio), o l'imperatore mongolo Qubilai, il grande scrittore Lu Xun, o il grande politico Mao Tse-tung, o il suo collega Chou En-lai, o il grande avversario di entrambi, Chiang Kai-shek; personaggi diversi, ma accomunati da antiche radici che li portano ad essere diversi da noi. Non sempre necessariamente migliori, non necessariamente peggiori. Ma val la pena sforzarsi di capirne qualcosa di più, perché lo sforzo di comprensione, e non il mito, ci aiuta a crescere.

Quando è nata la nostra rivista (ormai quasi cinque anni fa) già si parlava di morte delle ideologie. Spero, come già più volte ho detto su queste pagine, che le ideologie non siano morte, perché questo vorrebbe dire che ci si è rassegnati anche alla morte degli ideali. Piuttosto deve attenuarsi (e un poco si è attenuato) l'approccio passionale alla realtà, presente o passata, ossia quel tipo di approccio che fa sorgere i miti che sopra stigmatizzavo.

Non ho la pretesa, sia ben chiaro, di fornire agli amici lettori una storia della Cina. Per trattare i millenni, ammesso che ne sia in grado, dovrei chiedere al direttore di riservare alcuni numeri della rivista solo a me. Piuttosto cercheremo assieme di esplorare il pianeta Cina dell'ultimo secolo, pur se questo ci porterà inevitabilmente anche a riferimenti ben più lontani nel tempo. Da dove vogliamo partire?

Partiamo da una data vicina, poco meno di trent'anni fa. Il 25 ottobre 1971, era un lunedì, l'ONU (Organizzazione della Nazioni Unite) riconosceva finalmente il governo di Pechino come unico e legittimo rappresentante del popolo cinese. Si poneva così fine ad una situazione assurda: dal 1949 una nazione di oltre un miliardo di abitanti su una superficie di 9 milioni e mezzo di kmq, la Repubblica Popolare Cinese, era ufficialmente ignorata, mentre il popolo cinese era rappresentato in seno all'ONU dal governo di Taiwan, o Formosa, o Cina nazionalista, che esercitava la sovranità su venti milioni di abitanti, su un territorio di 36.000 kmq.

Era l'atto finale di un dramma iniziato sessant'anni prima, nell'ottobre del 1911, quando l'ormai agonizzante Impero Cinese cadeva sotto i colpi della rivoluzione scatenata dal Kuo-min tang (partito nazionale del popolo), partito cinese fondato nel 1900 da Sun Yat-sen sotto il nome di Associazione per la rigenerazione della Cina, divenuta Lega dell'unione dei rivoluzionari (1908), poi, nel 1911, Kuo-min tang.

L'Impero, in continua alternanza tra conservazione di un regime feudale e arci-classista e cauti tentativi di modernizzazione, era in agonia da tempo, e il colpo di grazia era venuto dopo la violenta repressione internazionale della rivolta dei boxers, membri di una società segreta xenofoba, che, nell'indifferenza della corte imperiale, avevano posto sotto assedio diverse legazioni occidentali (giugno 1900).

Le truppe di Regno Unito, Francia, Germania, Russia erano intervenute, nell'agosto di quello stesso anno, avevano sconfitto i rivoltosi, saccheggiato Pechino, imponendo poi al governo cinese, complice quanto meno passivo dei boxers, il pagamento di forti indennità, che avevano messo in crisi le già vacillanti finanze cinesi.

La morte, nel 1908, dell'imperatrice Tzü Hsi, una donna di ferro che aveva tentato di tenere assieme una costruzione che ormai si andava disgregando, segnò la fine dell'Impero. Il Kuo-min tang, in fondo, uccise un cadavere.

Ma qui converrà sostare un attimo e rivolgere lo sguardo al secolo precedente, per meglio capire cos'era la politica occidentale nei confronti della Cina. La violenza xenofoba dei boxers non nasceva dal nulla; la Cina, vista fondamentalmente come un enorme potenziale mercato, aveva subìto nel corso dell'800 la politica cosiddetta delle concessioni: porzioni di territorio cinese, in genere città costiere con vasto entroterra, venivano cedute in concessione alle nazioni occidentali, per i loro traffici di merci, prevedendo sovente anche l'esenzione dal rispetto delle leggi cinesi per i cittadini degli stati titolari delle concessioni. Più che di concessioni, sarebbe corretto parlare di imposizioni, non avendo la Cina, debole militarmente e divisa al suo interno da mille discordie, la forza di opporsi alle potenze europee, alla Russia, al Giappone e agli Stati Uniti.

Questo genere di politica che, pur favorendo una modernizzazione della Cina, con l'avvicinamento della stessa all'Occidente, altro non era che una brutale imposizione, in nome della sacra convenienza commerciale, della legge del più forte, ebbe il suo culmine di immoralità nelle guerre scatenate per il commercio dell'oppio.

Si potrebbe pensare che una nazione civile muova guerra contro i trafficanti dell'oppio, per stroncare un sordido guadagno e tutelare le popolazioni dall'uso di una droga che non conduce che alla distruzione psichica e fisica. Nossignori: la guerra dell'oppio si fece per tutelare il diritto dei mercanti inglesi ad importare oppio in Cina (importazione peraltro severamente vietata nei territori di Sua Maestà).

Nel 1839 il governo di Pechino decise di rimettere in vigore un antico editto che proibiva l'importazione dell'oppio, e il commissario di Canton, Lin Tse-hsü, applicandolo in senso stretto, confiscò e distrusse un carico d'oppio indiano, scaricato da navi inglesi. Londra rispose con l'invio di una spedizione navale che bombardò Canton (1841), occupò facilmente Sciangai e risalì lo Yangtze fino a Nanchino, dove fu firmato nel 1842 un trattato che apriva cinque porti (Treaty Ports, porti del Trattato) al commercio con l'Inghilterra, alla quale veniva anche ceduta l'isola di Hong-Kong, e che fissava i diritti di dogana a non più del 5% del valore della merce.

Ma l'avidità del mondo civile non era ancora soddisfatta. Era facile peraltro trovare buoni motivi per altre azioni militari; la difficile comprensione tra due mondi, quello cinese e quello occidentale, creava spesso incidenti. Quando, terminata la guerra di Crimea che aveva tenuto impegnate Inghilterra e Francia, una nave che batteva bandiera inglese, l'Arrow, fu presa a Canton dai Cinesi e un missionario cattolico francese fu ucciso (1856), si offrì a Londra e a Parigi l'occasione per una spedizione congiunta, che permettesse di migliorare le rispettive posizioni in Cina. Canton fu bombardata ancora una volta e i forti di Taku, presso Tianjin, occupati, finché nel 1858 Francesi e Inglesi ottennero la firma di trattati che concedevano loro nuovi privilegi (accordati dai Cinesi, subito dopo, anche alla Russia e agli Stati Uniti). Sorsero però ulteriori difficoltà e un nuovo corpo di spedizione franco- inglese si impadronì di Pechino (1860), che fu incendiata, mentre il palazzo d'Estate veniva saccheggiato per rappresaglia contro la tortura di alcuni prigionieri inglesi. I trattati imposti a Pechino nel 1860 portarono all'apertura di altri undici porti e riconobbero agli stranieri il diritto di insediarvisi senza soggiacere alla legislazione locale e di compiere viaggi.

Un'altra attività commerciale occidentale era la tratta dei coolies, lavoratori cinesi reclutati con il sistema che oggi chiameremmo del caporalato, e destinati alle grandi piantagioni americane e australiane. Le condizioni inumane con cui venivano trattati questi uomini, su vere e proprie navi schiaviste, faceva sì che la mortalità in viaggio toccasse punte superiori al 40 per cento.

Torniamo quindi alla rivolta dei boxers, nel giugno del 1900. Se il senso morale impedisce di approvare la violenza selvaggia che caratterizzò il comportamento dei rivoltosi, e l'acquiescenza della corte imperiale, riflettiamo però un attimo sull'assoluta immoralità che caratterizzò la politica occidentale. In Cina avevano fatto irruzione le cannoniere occidentali, non per portare la giustizia, ma per equilibrare la bilancia dei pagamenti, oltretutto a tutela di commerci, come quelli dell'oppio o degli schiavi, degni di veri criminali. Di questa realtà non si può non tener conto, se si vuole capire la diffidenza cinese verso l'Occidente, che perdurerà ben oltre quegli anni, caratterizzando la politica cinese di tutto il Novecento. E, ci permettiamo di aggiungere, di questa realtà dobbiamo tenere conto noi occidentali, se vogliamo fare un sano esercizio, poco diffuso, che si chiama esame di coscienza.

La caduta dell'Impero e la proclamazione della Repubblica non portò la pace in Cina. Il generale Yüan Shih-k'ai, incaricato dalla Corte di effettuare la repressione dei disordini causati dal Kuo-min tang, consigliò invece l'abdicazione (febbraio 1912), che segnò la fine della dinastia imperiale Manciù. Sun Yat- sen, il fondatore del Kuo-min tang, ritornato dall'esilio alla notizia della rivolta nel dicembre 1911, fu acclamato al suo sbarco a Sciangai presidente provvisorio della repubblica. Confermato in tale carica dall'assemblea riunitasi il 1° gennaio 1912 a Nanchino, accettò con la riserva di rinunciare a favore di Yüan Shih-k'ai (con cui era intanto segretamente in trattative) se questi, che comunque deteneva il controllo di gran parte dell'esercito, si fosse impegnato a sostenere la repubblica. Dopo l'abdicazione dell'imperatore (dichiarata da un consiglio di reggenza, perché l'ultimo imperatore, P'u-yi, era un bimbo di sette anni), Yüan divenne così presidente (marzo 1912). Ma Yuan soprattutto mirava ad accrescere il suo potere personale e nel 1913 sciolse il Kuo-min tang, che nel frattempo gli si era rivoltato contro. Nel 1916 la sua scomparsa fu seguita da una lotta confusa, e disastrosa per il paese, tra i generali (i Signori della guerra, di fatto a capo di eserciti personali) e i dirigenti repubblicani.

All'inizio del 1918, la Cina del Sud (fino al fiume Yangtze), controllata dal Kuo-min tang che, ricostituitosi, aveva formato un governo rivale a Canton sotto Sun Yat-sen, si oppose a quella del Nord, che era nelle mani del governo di Pechino. Quest'ultimo, pur reso instabile dai contrasti sorti fra i Signori della Guerra, poteva contare sull'aiuto finanziario del Giappone, che mirava già da tempo a estendere la propria zona d'influenza in Cina, e che in base alle clausole del trattato di Versailles era subentrato alla Germania nelle concessioni dello Shandong, suscitando la reazione dei delegati cinesi. Nell'ambito della conferenza di Washington (1921-1922) tale problema venne ridiscusso e la Cina ottenne infine la restituzione delle ex concessioni tedesche e il ritiro delle truppe giapponesi dallo Shandong: ciò rappresentava il primo passo verso la graduale abolizione dei privilegi di cui godevano le nazioni straniere nel territorio cinese. Nel Sud, Sun Yat- sen riorganizzò nel 1923 il Kuo-min tang con l'aiuto di consiglieri inviati in Cina dal Politburo sovietico. Gli iscritti al partito comunista cinese, fondato nel 1921 ed entrato nel 1922 nel Comintern, furono ammessi quali membri nel Kuo-min tang. La morte di Sun Yat-sen, nel 1925 provocò però nel suo partito una frattura tra radicali, favorevoli all'unione con i comunisti, e moderati, che miravano invece ad espellere questi ultimi dal Kuo-min tang e in genere dalla direzione della vita nazionale.

Fu da questo momento che iniziò l'ascesa di due uomini che avrebbero determinato i successivi destini della Cina: Mao Tse-tung e Chiang Kai-shek. Quest'ultimo, capo dell'ala moderata del Kuo-min tang, riuscì a imporre la propria autorità e alla testa dell'esercito nazionalista del Sud iniziò da Canton l'avanzata verso il Nord. In seguito al verificarsi di eccessi contro le popolazioni locali e i residenti stranieri, imputati a estremisti comunisti, durante l'occupazione di alcune città, Chiang Kai-shek la notte del 12 aprile 1927 (dimostrando come sia relativo in politica il significato della parola moderato), fece sopprimere a Sciangai un gran numero di dirigenti comunisti, disorganizzando il loro movimento, e in seguito ruppe con la missione sovietica. L'eliminazione fisica degli esponenti dell'estrema sinistra proseguì sistematicamente anche in altre regioni, e a Nanchino, già occupata nel marzo 1927, venne stabilito il governo nazionalista cinese. Chiang Kai-shek marciò quindi verso il Nord ed entrò, nel giugno 1928, a Pechino appena abbandonata dal generale Chang Tso-lin.

La feroce repressione aveva costretto i comunisti a rifugiarsi nella regione montuosa del Jianxi, dove nel 1927 costituirono, sotto la guida di Mao Tse-tung, Chou En-lai e Chu-teh, una Repubblica Sovietica Cinese, che poteva contare su un forte esercito a base popolare, intensificando con successo la loro propaganda tra i contadini, attratti dalla prospettiva di una riforma agraria.

E qui è opportuno fare un'altra sosta, per chiedersi quale spazio potesse trovare in Cina, paese con una forte carica spirituale, una dottrina materialista come il marxismo.

Una rigida suddivisione in classi caratterizzava da sempre la società cinese, e le stesse dottrine di Confucio (che elaborò, si badi bene, una filosofia morale e non una religione), nonché quelle di Mozi (da cui la parola moismo), pure moralista, con un riferimento trascendente puramente strumentale, queste stesse dottrine, dicevamo, predicavano elevati sentimenti umani (fratellanza, giustizia, operosità, senso del dovere ecc.), ma senza porre in discussione l'ordine fondamentale della società. Le virtù morali, insomma, andavano esercitate tenendo ben salde le differenze intellettuali e sociali.

La speculazione filosofica era del resto patrimonio di pochi, ed è significativo il fatto che in Cina esistessero, fino alla definitiva instaurazione del regime comunista (1949), due linguaggi, nonché due alfabeti e due letterature. I letterati erano assolutamente staccati dal popolo, e l'opera letteraria o filosofica aveva come finalità l'ammaestramento morale. Il testo scritto in lingua volgare (per usare un'espressione nostra) era considerato opera rozza e non degna di attenzione.

In una società prevalentemente agricola, l'uomo del popolo, quasi sempre contadino, non aveva accesso ad attività intellettuali, sia perché gli mancava lo stesso linguaggio, sia perché la sua condizione normale non gliene lasciava il tempo materiale: era quella di assoluto vassallaggio verso la grande proprietà, secondo un collaudato schema di salari bassissimi, che obbligavano il contadino a indebitarsi col padrone, restandogli poi legato per rimborsarlo col lavoro. La condizione operaia nell'attività più diffusa, la filatura e la tessitura della seta, era ancora peggiore. In quest'attività erano impiegate molte donne (circa il 95% della forza lavoro), essendo gli uomini per lo più al lavoro sui campi; ma anche i bambini, già all'età di sei - sette anni, entravano in stabilimento, sottoposti agli stessi ritmi e allo stesso orario degli adulti. Il lavoro si svolgeva in condizioni inumane, al caldo umido, con l'aria impregnata del fetore dei bozzoli sfruttati. Orario di lavoro: dodici ore al giorno. Giorni di lavoro settimanale: sette.

Non migliori erano le condizioni nei cotonifici, dove il lavoro prevedeva anche turni di notte (esclusi invece nelle seterie, perché la sottigliezza del filo è tale da divenire invisibile alla luce artificiale).

Attenzione: non vi stiamo parlando solo della condizione popolare nel periodo imperiale: i dati impressionanti sopra esposti provengono da un'inchiesta condotta a Shanghay dal colonnello inglese L'Estrange Malone, deputato laburista alla Camera dei Comuni. L'anno dell'inchiesta è il 1926, quattordici anni dopo la fine dell'impero.

Insomma, tornando alla domanda che ci ponevamo sopra, la risposta è una sola: lo spazio al marxismo veniva offerto da una consuetudine di sfruttamento totale, che non conobbe variazioni col passaggio dal regime imperiale a quello repubblicano. E' da chiedersi quanto potesse e volesse agire in campo sociale il governo nazionalista. Abbiamo visto che la Cina repubblicana fu da subito travagliata da lotte interne, prima tra Yuan e il Kuo-min tang, poi tra la Cina del Sud e quella del Nord e i Signori della Guerra, poi tra il Kuo-min tang e il partito comunista. In questa situazione torbida si inserì anche il Giappone, le cui mire continentali non si erano mai sopite. Nel 1931, prendendo pretesto da certi incidenti locali, i Giapponesi invasero la Manciuria e ne fecero uno Stato indipendente con il nome di Man-chu-kuo (marzo 1932). Si trattava però in realtà di un protettorato, alla testa del quale figurava nominalmente P'u-yi, ultimo imperatore mancese in Cina. La Cina reagì con il boicottaggio delle merci giapponesi; i Giapponesi attaccarono allora Sciangai (1932), mentre la Società delle Nazioni si mostrava impotente a modificare la situazione.

I Giapponesi penetrarono nella Cina del Nord nel 1933, e nel 1935 si infiltrarono fino alla regione di Pechino.

In questa condizione di perpetuo disordine il governo nazionalista non poteva certo elaborare una politica sociale, né peraltro questa rientrava nei suoi programmi, perché il Kuo-min tang, con l'affermazione definitiva dell'ala moderata di Chiang Kai-shek, si era fatto piuttosto corifeo di una difesa della tradizione che inevitabilmente si traduceva in una difesa anche di uno status quo sociale. D'altra parte l'uomo del popolo in Cina, imbevuto di quella parte di confucianesimo strumentale alle esigenze delle classi dominanti, difficilmente poteva concepire l'idea della rivolta. Ci volle un uomo della statura e della personalità di Mao Tse-tung per iniziare un processo che avrebbe cambiato radicalmente la faccia della Cina.

Nato nel 1893 in una famiglia di contadini relativamente benestanti, Mao, dopo un anno di servizio volontario nell'esercito repubblicano di Sun Yat-sen, si dedicò agli studi di istitutore. Dopo essersi diplomato alla scuola normale di Changsha nel 1918, trascorse un breve soggiorno a Pechino per seguire alcuni corsi universitari e qui ebbe i suoi primi contatti con il nascente movimento marxista cinese e in particolare con l'economista Li Ta-chao e il futuro segretario del Partito comunista Ch'en Tu-hsiu. Partecipò attivamente all'organizzazione del movimento rivoluzionario dello Hunan e nel 1920 fondò i primi circoli marxisti locali, dai quali fu poi delegato al congresso costitutivo del partito comunista cinese, che si tenne a Sciangai nel 1921. Per due anni lavorò come segretario dell'organizzazione del partito dello Hunan, quindi, dal 1923, essendo stato allontanato dallo Hunan, come funzionario del partito a Sciangai. In seguito alla confluenza del PCC nel Kuo-min tang (1924), fu, nel 1926, nominato membro del comitato centrale della nuova organizzazione e rinviato nello Hunan quale esperto dei problemi rurali. L'anno successivo, come vedevamo sopra, iniziò la repressione anticomunista operata da Chiang Kai-shek, cui seguì la proclamazione della Repubblica Sovietica cinese nella regione montuosa del Jianxi.

La carica rivoluzionaria del Partito Comunista Cinese, sostenuta da un'elaborazione dottrinaria semplice, operata da Mao per adattare le teorie marxiste, nate in una realtà industriale, al mondo prevalentemente agricolo cinese, era un pericolo troppo grande per la supremazia del Kuo-min tang, e l'eliminazione fisica del maggior numero possibile di comunisti rientrava nell'antica tradizione cinese di guerra totale e feroce. Mentre Chiang Kai-shek basava il suo potere anzitutto sulla forza militare e sulla potenza finanziaria (con l'appoggio determinante dei capitali americani che volevano tutelare i propri interessi in Cina), Mao Tse-tung aveva capito l'enorme importanza della partecipazione popolare. La neo costituita Armata Rossa della Repubblica Sovietica cinese manteneva stretti legami col mondo contadino. I suoi soldati erano addestrati anche per aiutare nel lavoro dei campi, avevano ordine di trattare sempre con gentilezza la popolazione, di non abbandonarsi mai a quei sequestri ingiustificati, saccheggi, abusi, che erano pratica corrente dei militari nei confronti dei civili delle classi più umili.

Nel 1933 la guerra tra nazionalisti e comunisti ebbe le sue punte massime. Quest'ultimi furono costretti a una penosa e lunghissima ritirata verso lo Shaanxi, nota come Lunga marcia (1934- 1935). Frattanto però l'ala sinistra del Kuo-min tang si batteva per una conciliazione nazionale in vista della lotta antigiapponese. Chiang Kai-shek, nel 1936, fu attirato a Xi'an in un agguato, organizzato dal capo comunista Chou En-lai, e liberato solo dietro l'impegno di una tregua con i comunisti.

Il fronte comune antigiapponese non fu in verità mai totale e compatto e iniziò una strana guerra in cui spesso l'alleato era trattato come nemico, in un gioco di reciproche diffidenze che non poteva che fare le fortune del comune nemico. Nell'agosto 1937 infatti le truppe nipponiche si impossessarono di Pechino, scesero verso sud, sbarcarono a Sciangai e cacciarono da Nanchino Chiang Kai-shek, che si installò ad Hankou. Le milizie comuniste erano ancora esigue, ma la loro azione era molto efficace, soprattutto nella guerriglia, in cui eccellevano. Esse impegnarono le truppe giapponesi rendendole incerte sull'opportunità di addentrarsi ulteriormente nel paese. I Nipponici si limitarono quindi per allora a controllare le coste e le grandi città, le ferrovie e le frontiere della Cina, ma lo scoppio della guerra nel Pacifico contro gli Americani (7 dicembre 1941) assorbì ben presto la maggior parte delle loro energie. La cessazione delle ostilità, con la disfatta del Giappone, tolse l'unico elemento che univa i comunisti del PCC ai nazionalisti del Kuo-min tang. Il generale americano Marshall, inviato in missione straordinaria, tentò allora una formula di compromesso per favorire l'integrazione dei comunisti in una Cina unificata e guidata da Chiang Kai-shek, al quale gli Stati Uniti continuavano a dimostrare fiducia; ma dopo una serie di tregue precarie la guerra civile riprese nel 1946; i nazionalisti persero a poco a poco terreno, soprattutto nella Manciuria, sottratta ai Giapponesi dalle forze sovietiche; i comunisti all'inizio del 1947 si allinearono con l'URSS. Il capo del Kuo-min tang acuì allora la propria intransigenza: sciolse la Lega democratica, di carattere moderato e di origine recente, ma nella quale confluivano sempre più numerosi gli scontenti. Mentre nelle regioni controllate dai nazionalisti regnava l'anarchia, aggravata dalla miseria e da una grave inflazione, Mao Tse-tung propose ai propri seguaci un programma di rinnovamento, pura dottando drastici sistemi. Dopo lunghi e sanguinosi scontri che sconvolsero il paese, le forze comuniste, occupata nell'aprile del 1949 la capitale nazionalista Nanchino, costituirono nell'agosto un governo popolare del Nord- Est e poco dopo quello della Cina del Nord. La partita era ormai perduta per Chiang Kai-shek, che l'8 dicembre 1949 si rifugiò nell'isola di Formosa (Taiwan), stabilendo a Taipei la capitale della Cina nazionalista.

Il 1º ottobre 1949, Mao Tse-tung annunciò a Pechino, ridivenuta capitale, la presa del potere da parte del partito comunista e la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese. Egli ne fu eletto presidente da un'Assemblea nazionale; Liu Shao-chi, Chu-teh e Sung Ch'ing-ling (vedova di Sun Yat-sen) diventarono vicepresidenti e Chou En-lai presidente del consiglio e ministro degli esteri.

Iniziava un'opera radicale di riforma della società, con l'intento di attuare un passaggio morbido al socialismo. La politica agraria, basata inizialmente sull'abolizione del latifondo e la distribuzione delle terre ai contadini, non diede però i frutti sperati, perché le porzioni di terra erano troppo esigue e coltivate ancora con sistemi agricoli primitivi. Iniziò così, nel 1953, la costituzione delle comuni agricole, fattorie collettive nelle quali venne introdotta anche la meccanizzazione dei sistemi di coltura.

Ma nel frattempo si erano attuate altre importanti riforme, nel campo del diritto di famiglia (con il riconoscimento della parità dei diritti tra coniugi), come in quello dell'istruzione, con intense campagne contro l'analfabetismo. La costituzione cinese, che sanciva il principio del PCC come guida del paese, prevedeva anche garanzie per le minoranze nazionali e una certa libertà religiosa. Si trattava però di garanzie molto più teoriche che pratiche, perché il regime di Mao accentuava sempre più il proprio carattere autoritario. Hong-Kong e Cina Nazionalista iniziarono così a conoscere il fenomeno dei profughi, non così numerosi come la propaganda anticomunista voleva, ma neanche rappresentati solo da elementi antisociali, come pretendeva il governo di Pechino.

Aldilà della disapprovazione, ovvia, per qualsiasi sistema autoritario, non si può però disconoscere che la politica del PCC e di Mao portò ad un enorme miglioramento di vita la gran massa della popolazione cinese; tratteggiavamo, qualche pagina prima, le condizioni miserabili in cui vivevano contadini e operai sotto il regime imperiale, e come queste condizioni non conobbero miglioramenti con la Repubblica diretta dai nazionalisti. Il prezzo da pagare per questo miglioramento era la perdita della libertà: ma era forse libero l'operaio che lavorava (come abbiamo visto) sette giorni la settimana, con un orario di lavoro di dodici ore quotidiane? O era libero il contadino che si trovava in una posizione di dipendenza, vita natural durante, con il padrone delle terre?

La grande arretratezza della situazione sociale cinese era stato il vero motore della vittoria comunista; il miglioramento di vita avrebbe però portato, poco a poco, a mettere in discussione il sistema autoritario. Ma non anticipiamo i tempi.

Cerchiamo piuttosto di fare ora un rapido excursus sulle vicende interne della nuova realtà politica che abbiamo visto nascere, la Repubblica Popolare Cinese. Inizialmente assistita dall'URSS, che inviò numerosi tecnici, la Cina tendeva però ad una autonomia da Mosca, ponendosi sempre più come paese guida del socialismo reale in Asia e nel Terzo Mondo. L'aiuto "fraterno" dell'URSS peraltro aveva sempre più le caratteristiche di ingerenza. I rapporti con l'URSS si spezzarono definitivamente dopo il 1960, dividendo il blocco comunista in due tronconi, uno in prevalenza europeo stretto attorno a Mosca e uno in prevalenza asiatico, che guardava invece a Pechino. Tale spaccatura in certo modo si istituzionalizzò quando nel luglio 1963 a Mosca una conferenza tra i partiti comunisti sovietico e cinese, convocata per comporre il dissidio, si chiuse senza raggiungere alcun risultato. Né le dimissioni di Mao da presidente della repubblica (pur conservando la carica di presidente del partito) né la caduta di Krusciov (ottobre 1964) attenuarono la polemica tra i due centri del movimento comunista, anche perché il contrasto rispondeva, oltretutto, a profondi motivi storici che superavano le contingenze ideologiche. L'accusa di revisionismo, lanciata dai cinesi contro la politica riformista (molto timidamente) di Kruscev nasceva dal fatto che i due paesi vivevano momenti storici diversi.

La Cina, che praticamente ricominciava da zero, aveva la necessità di mantenere una tensione interna per far fronte agli impegni assunti nei piani economici, e questo portò all'esasperazione della linea politica del comunismo cinese che si atteggiò a un rigido dogmatismo. L'URSS era ben più avanti della Cina e Kruscev, senza minimamente pensare a riforme in senso democratico, si rendeva conto però che bisognava iniziare ad allentare, seppur con molta prudenza, le mille limitazioni che opprimevano la vita del cittadino sovietico. Ricordavamo in precedenza anche una sfiducia cronica, e storicamente fondata, dei cinesi nei confronti degli europei e degli occidentali in generale.

Anche questa sfiducia giocò la sua parte nello spingere la Cina al distacco dall'URSS e alla costruzione di un proprio modello di comunismo. Né si può scordare che l'URSS intratteneva rapporti costanti con gli USA, che si erano resi garanti, anche con cospicui aiuti militari, dell'indipendenza di Taiwan, da loro considerata come unica legittima rappresentante del popolo cinese.

Internamente la Cina iniziava a conoscere, consolidata ormai la supremazia del PCC, le lotte interne per il potere. L'appannarsi del mito di Mao in seguito al raggiungimento solo parziale degli obiettivi economici pianificati aveva spinto il timoniere a rinunciare alla carica di presidente della repubblica, mantenendo solo la direzione del partito. Ma non per questo Mao era deciso a cedere il potere effettivo. Proprio la frattura che si manifestò in seno al partito tra i teorici della rivoluzione permanente e i revisionisti fu l'occasione per Mao per scatenare la rivoluzione culturale, che interessò la Cina per il periodo 1966-1969 con conseguenze negli anni Settanta, e che sin dagli inizi assunse aspetti contraddittori; soprattutto non fu chiara la distinzione tra opposte fazioni, in quanto nessuno osava attaccare apertamente Mao.

Gli alti funzionari di partito si difendevano ricorrendo alla tattica descritta come "sventolare la bandiera rossa per opporsi alla bandiera rossa" e organizzando gruppi che usavano gli stessi slogan della rivoluzione culturale. Le forze su cui Mao si appoggiò per lanciare questa "rivoluzione nella rivoluzione" furono dapprima gli studenti, poi l'esercito popolare di liberazione. Dapprima furono gli studenti delle maggiori università e anche delle scuole secondarie che, organizzati nel movimento delle guardie rosse e in altri gruppi rivoluzionari, sferrarono pesanti attacchi contro le autorità accademiche e gli alti funzionari di partito e dello Stato "impegnati nella via capitalista". Principali bersagli furono il presidente Liu Shao-chi e i suoi seguaci. Nella prima metà del 1967, quando ai militari venne ordinato di appoggiare la sinistra, la rivoluzione culturale raggiunse il suo momento culminante e ottenne come risultato l'effettiva distruzione dell'apparato del partito. Anche i rappresentanti dell'amministrazione governativa, che faceva capo al primo ministro Chou En-lai, vennero attaccati dall'ultrasinistra.

Tuttavia la vittoria dell'ala sinistra estremista, rappresentata dalle guardie rosse alla base e, al vertice, da alcuni alti esponenti politici, fra cui la moglie di Mao, Chiang Ch'ing, fu di breve durata, in quanto essa si dimostrò incapace di proporre un modello di organizzazione alternativa.

Nel frattempo la lotta tra fazioni e organizzazioni rivoluzionarie non accennava a placarsi, cosicché all'esercito venne affidato il compito di restaurare l'ordine e di fornire amministratori competenti. Venne lanciato un movimento per l'organizzazione di comitati rivoluzionari, ai quali doveva essere affidato il potere amministrativo. La situazione di caos e di incertezza si prolungò fino all'agosto del 1968, quando Mao in persona espresse la sua insoddisfazione nei confronti degli studenti e approvò la costituzione delle "squadre di lavoro di operai e contadini", che furono mandate nelle università a restaurare l'ordine con l'appoggio dell'esercito. Di conseguenza si accelerò la costituzione dei comitati rivoluzionari, a tutti i livelli, in cui i rappresentanti dell'esercito detenevano posti chiave, e venne lanciata una campagna contro l'ultrasinistra.

Nel settembre 1968 Chou En-lai proclamò la "vittoria completa e definitiva della rivoluzione culturale" e nell'ottobre una sessione plenaria del comitato centrale del PCC destituì ufficialmente Liu Shao-chi. La convocazione del 9° congresso del partito comunista, nell'aprile 1969, a undici anni di distanza dal precedente, segnava il trionfo della linea maoista e il riassetto organizzativo del partito. LinPiao, ministro della difesa e protagonista della rivoluzione culturale, venne ufficialmente designato come successore di Mao Tse-tung. La situazione parve essersi stabilizzata a favore dei militari rispetto ai civili. Ma nel 1971 l'improvvisa scomparsa dalla scena politica di Lin Piao e di altri alti esponenti dello stato maggiore, accompagnata da voci di complotto, dimostrava come fosse precario l'equilibrio raggiunto. La lotta tra le diverse fazioni riprese e a essa non fu estranea la nuova politica estera, voluta da Chou En-lai, di apertura all'Occidente, contro il riavvicinamento all'Unione Sovietica, perseguito dai seguaci di Lin Piao. Nell'agosto 1973 il 10° congresso del partito decretò la definitiva condanna postuma di Lin Piao e sancì la vittoria del gruppo che si identificava con il primo ministro Chou En-lai, cioè dei civili rispetto ai militari, del partito ricostituito rispetto all'esercito e alle forze sociali spontaneiste (studenti), di una linea pragmatica e centrista rispetto alla sinistra radicale.

Per quanto riguarda la politica estera, dopo una paralisi dell'iniziativa cinese nel periodo della rivoluzione culturale, una nuova fase si aprì nel marzo 1971, quando la squadra cinese di ping-pong, in apertura dei campionati del mondo, invitò i giocatori statunitensi a recarsi in Cina: era il primo segno della distensione fra i due paesi. La ripresa dell'attività diplomatica di Pechino coincideva da un lato con la stabilizzazione interna, dall'altro con gli importanti cambiamenti sopraggiunti nel contesto sia asiatico sia mondiale (progressivo disimpegno americano nel Sud- Est asiatico, rinascita politica e militare del Giappone, minaccia sovietica alle frontiere e pericolo di una collaborazione tecnica ed economica russo-giapponese in Siberia).

E arriviamo così all'ammissione della Cina all'ONU (che comportò l'espulsione di Taiwan) il 25 ottobre 1971, che ponevamo come punto di partenza del nostro studio. Il progressivo miglioramento dei rapporti con il Giappone, fino al riconoscimento diplomatico (settembre 1972), il viaggio del presidente americano Nixon in Cina nel febbraio del 1972 furono importanti successi della nuova linea di politica estera di Pechino e portarono al riconoscimento della posizione internazionale di grande potenza assunta ormai dalla Cina.

Ci siamo volutamente dilungati sul periodo della rivoluzione culturale perché ci appare come estremamente significativo: il regime di Pechino iniziava a conoscere le lotte interne per il potere. E qui ci si consenta una breve parentesi.

Parlavamo in apertura di sessantottini con poche idee, ma ben confuse. E' difficile non sorridere, oggi, rileggendo gli avvenimenti cinesi di quel periodo e riflettendo sul fatto che i manifestanti inneggiavano al comunismo in versione maoista, inteso come il più puro dei puri, esempio di progressismo, mentre all'interno della Cina si scatenava una violenta lotta per il potere che alla fine vedeva la vittoria della parte moderata dell'apparato. Il mito è certo più affascinante, la strada della rivoluzione permanente (anche se resta da capire contro chi vada fatta… ) è più consolante, rispetto al riconoscere che la tradizione delle violente lotte tra i Signori della Guerra non si era ancora spenta, bensì aveva solo cambiato abito e localizzazione.

Insomma, neanche il socialismo reale riusciva a portare quella concordia che sembra l'eterna grande assente nella storia umana, anche (e tanto meno) quando la si vuole imporre dall'alto. Non desidero però essere frainteso: sarebbe fazioso non riconoscere il cambiamento radicale, in positivo, che la rivoluzione comunista portò nella vita cinese. Ma l'esercizio del potere, una volta risolti i maggiori problemi interni, diventa sempre fonte di lotta tra chi ha preso gusto ad esercitarlo e tra chi ritiene che sia venuto il suo turno, né la Cina ha fatto eccezione a questa regola, della quale la Storia ci fornisce innumerevoli esempi.

Potremmo qui esaminare le ulteriori vicissitudini interne cinesi, che si acuirono con la morte di Mao, nel 1976, e il cui denominatore comune fu comunque lo scontro tra le due opposte fazioni del gruppo dirigente, l'una tendente a continuare la politica di apertura all'occidente e di allentamento morbido del regime, l'altra legata ad una stretta ortodossia. Ma credo che tedierei gli amici lettori con un elenco interminabile di nomi, illustri o meno, di uomini succedutisi al potere. Chi volesse nel dettaglio approfondire questi particolari, potrà far riferimento ai testi che indichiamo in bibliografia e, quantomeno per l'ultimo decennio, soprattutto sfogliare giornali su giornali.

Ci sembra piuttosto utile fermare la nostra riflessione su un altro aspetto: la Cina ha superato indenne la tempesta che, dalla caduta del Muro di Berlino, ha scosso tutto il mondo comunista, facendolo crollare in pochi mesi. Ovviamente anche in Cina la dissidenza ha iniziato a serpeggiare: nessun popolo sopporta a lungo, esaurita una fase di emergenza rivoluzionaria (che può durare anche diversi anni) un regime dittatoriale. Già nel 1979 si era verificata una fase di leggera apertura verso la dissidenza, peraltro rapidamente frenata quando questa iniziò a prendere le connotazioni di aperta contestazione del sistema politico. La risposta del governo di Pechino fu flessibile: repressione dei dissidenti, ma contemporaneamente emanazione di provvedimenti di legge sull'elezione delle assemblee locali, per dare almeno uno strumento di dialettica, seppur rigidamente inquadrata nel sistema socialista.

Successivamente la costituzione del 4 dicembre 1982, la quarta nella storia della Repubblica Popolare Cinese, ha ribadito il predominio del partito comunista sulla società e sullo Stato. La Costituzione ha inoltre confermato che la Cina Popolare è uno Stato socialista di dittatura del proletariato e ha affermato che essa è uno Stato unitario plurinazionale. Nel 1993 è stato inscritto il principio dell'economia socialista di mercato. Quest'ultima è una contraddizione in termini solo apparente: diciamo meglio che è un escamotage per prendere atto di una realtà che è comunque in evoluzione, senza per questo abiurare d'un colpo i principi fondamentali di un sistema. Chi oggi ha rapporti d'affari con la Cina conosce una figura che meno di un decennio fa era inesistente, l'imprenditore cinese, che agisce entro limiti fissati dalla legge e sottoposto a numerosi controlli, ma che comunque è un imprenditore privato che opera in un paese che si proclama, come abbiamo visto, Stato socialista di dittatura del proletariato.

Non crediamo che la fedeltà della dirigenza cinese al marxismo-leninismo-pensiero di Mao e la conservazione di un regime comunque dittatoriale siano originate da cecità politica o da testarda ortodossia. Piuttosto vediamo tornare a galla un'antica saggezza, unita ad una sana diffidenza verso il mondo occidentale, quello stesso che diede così belle prove nel XIX secolo, con lo sfruttamento, la guerra dell'oppio, la tratta dei coolies. La Cina è un enorme mercato potenziale e ad essa guarda, con interesse, tutto il mondo. Un allentamento improvviso dei freni, un'apertura totale e immediata alle, pur legittime, richieste di libertà e di democrazia politica, si risolverebbe, con ogni probabilità, in uno sfascio non dissimile da quello che ha travolto il l'URSS e i suoi satelliti, che Gorbacev si illuse di poter frenare, a cui Eltsin diede furibondi colpi di acceleratore. I risultati di questo sfascio sono sotto gli occhi di tutti, con la nascita di nuove ricchezze e nuove miserie regolate principalmente dalla legge della giungla, con un disordine totale che mette a rischio anche le libertà politiche riconquistate.

Quando, nel maggio del 1989, abbiamo visto le terribili immagini della rivolta di piazza Tienamen, dove le dimostrazioni studentesche vennero brutalmente schiacciate dai cingoli dei carri armati, nella nostra ottica di occidentali abituati a vivere nella libertà e nel benessere, ci siamo commossi e profondamente indignati. Tuttavia, dopo aver ricordato questa tragedia, vorrei chiudere questo studio, che non ha la pretesa di esaurire argomenti così impegnativi ma piuttosto di fornire spunti di riflessione, con una domanda: cosa poteva fare il governo cinese, se non reprimere quella dissidenza, che comunque metteva in discussione le fondamenta stesse della società? Poteva autoliquidarsi, certamente, e forse sotto un profilo unicamente morale questo sarebbe stato giusto. Ma se la morale non sa confrontarsi con la realtà, non è più al servizio dell'uomo. E allora il quesito finale è questo: era giusto autoliquidarsi e, forse, dare la libertà, ma, di sicuro, consegnare oltre un miliardo di nuovi clienti alla logica spietata e inumana del mercato e del profitto? E' una domanda alla quale è duro e difficile rispondere ma, se vogliamo ragionare seriamente, responsabilmente e scientificamente di storia, non possiamo rifiutare di farcela.

http://cronologia.leonardo.it/storia/mondiale/cina003.htm

Dalla "Grande Marcia" alla "Rivoluzione culturale"

1921 I INTERNAZIONALE a Shanghai. Dodici persone (un ristretto numero di intellettuali tra cui Mao Tse-tung, uno studente dei « giovani nuovi ») fondano il Partito Comunista Cinese. Un ristretto numero di intellettuali fonda a Shangai il Partito Comunista Cinese. I dibattiti di questo primo congresso sono dominati dal delegato del Komintern (l'internazionale comunista o Terza Internazionale costituita nel 1919 e sciolta nel 1943). Cen Tu-shiu viene eletto segretario generale del partito.

Mao Tse-Tung (1893-1976) Poeta, Intellettuale, Politico, ebbe una personalità contraddittoria nella quale convissero sempre l'ansia di ribellione e l'esigenza di assicurare alla Cina un potere forte, operante a vantaggio della maggioranza povera. Nato in una famiglia di contadini ricchi del Hunan, rifiutò fin dalla scuola il formalismo autoritario confuciano preferendo la cultura eterodossa dei romanzi e dei testi di strategia; volontario nell'esercito repubblicano nel 1911, acquisì una raffinata cultura cinese e una buona conoscenza della storia e della filosofia occidentali nella scuola normale di Changsha, una delle più moderne del paese; in particolare subì il fascino del pensiero di Rousseau. Lettore e collaboratore di Gioventù nuova, nel 1918 si recò a Pechino dove, bibliotecario all'università, divenne marxista sotto l'influenza di Li Dazhao e Chen Duxiu. Tornato nel Hunan fondò, con numerosi protagonisti delle successive lotte, la "Società di studio degli uomini nuovi" e nel 1921 partecipò alla fondazione del Partito comunista cinese. Organizzò il partito tra i minatori del Hunan e passò nel 1923 a Canton e Shanghai nel quadro della collaborazione tra comunisti e i Guomindang che sostenne per i suoi forti sentimenti nazionali.

Nella primavera del 1927, inviato in missione in Hunan, scoprì la forza del movimento dei contadini poveri nel quale identificò subito la spinta decisiva per la rivoluzione: nell'autunno guidò le rivolte di contadini e minatori del Hunan e si rifugiò poi sui monti Jinggang, dove costituì una zona di guerriglia che gradualmente raccolse gran parte dell'armata rossa. Qui iniziò l'elaborazione della sua strategia: per Mao i contadini poveri costituivano la principale forza di classe della rivoluzione cinese; la loro lotta armata, condotta con strategia di guerriglia da un esercito di partito capace di assicurare la copertura dalla repressione, doveva costituire "basi rosse", nelle quali un potere socialmente contrapposto a quello tradizionale era impegnato a mobilitare e educare i contadini, a togliere ai proprietari inattivi la terra e a distribuirla ai poveri. Nonostante le condizioni materiali improbe, le gravi perdite e la pressante repressione del Guomindang che colpiva militanti e villaggi, la strategia di Mao ebbe successo e già nel 1930 le "basi rosse" costituivano una realtà che il partito comunista e l'Internazionale non potevano più trascurare, anche se prima Li Lisan con la sua linea operaista, poi i gruppi di militanti fedeli a Stalin cercarono di emarginare Mao e i suoi seguaci dal potere nelle "basi rosse" e dal controllo delle forze armate rivoluzionarie).

1922 - II INTERNAZIONALE a Shanghai. È adottato il primo statuto del partito. Nello stesso tempo è avviata la cooperazione con i russi e con il Kuomintang di Sun Yat-sen.

Chen Chiung-ming si ribella a Sun, che fugge a Shangai.

1923 III INTERNAZIONALE a Canton. II partito comunista, che contava 195 membri, si allea con il Kuomintang (il partito nazionalista di Sun Yat-sen) al quale riconosce la direzione della rivoluzione. Ciò in seguito al prevalere della corrente moderata del PCC capeggiata dal segretario Cen Tu-shiu. Un delegato del governo russo firma un patto con Sun, in cui l'URSS dichiara di appoggiare la lotta del Kuo Ming Tang per «l'unificazione e l'indipendenza nazionale ».

1924 Gli aiuti russi ai comunisti cinesi (che non hanno armi e quadri) diventano sempre più cospicui.

1925 IV INTERNAZONALE a Shanghai. Il partito sottolinea, per la prima volta, l'importanza del movimento contadino e conferma la partecipazionezione dei comunisti alla lotta politica e militare unitaria condotta in alleanza con il Kuomintang. Poco dopo muore Sun Yat-sen e all'interno del direttivo del Kuo Ming Tang si apre da lotta per la successione. Tra le varie fazioni Chiang Kai-shek acquista forza e prestigio sempre maggiore e assume lui la direzione del partito nazionalista.

1926 Chiang Kai-shek è eletto presidente del comitato permanente dell'esecutivo centrale del Kuo Ming Tang, che subito promuove una « spedizione settentrionale » contro il governo di Pechino, che avanza accolta trionfalmente ovunque, soprattutto dai contadini, cui promette la riforma fondiaria.

1927 V INTERNAZIONALE ad Hangchow. Il quinto congresso è definito il congresso della sconfitta perché segue di pochi giorni il colpo di forza di Ciang Kai-shek contro i comunisti, la formazione di un governo nazionalista a Nanchino, e l'inizio di dure repressioni dei comunisti. Aumenta la tensione esistente tra Chiang Kai-shèk e la sinistra del Kuo Ming Tang, e nello stesso tempo aumentano le perplessità del Partito Comunista Cinese, incerto se continuare ad appoggiare la lotta del Kuo Ming Tang di Chiang Kai-shek.

Chiang Kai-shek conquista Shangai e rompe i suoi rapporti con il PCC.

1928 Le forze del Kuo Ming Tang conquistano Pechino: Chiang Kai-shek è la persona più potente della Cina. Sotto la guida di Mao Tse-tung, intanto i comunisti cinesi si riorganizzano nel Chingkanshan.

1928 VI INTERNAZIONALE a Mosca. Il congresso, che è dominato dal Komintern, muove severe critiche a Cen Tushiu che viene sostituito da Ciu Ciu-pai. Intanto Mao Tse-tung continua a organizzare il movimento di resistenza nelle campagne aprendo il periodo piú epico della rivoluzione cinese; la Lunga Marcia, e la creazione della base dello Yun-nam.

1929 Gennaio - Mao e le unità dell'Armata rossa che è riuscita a raccogliere attorno a sé si dirigono verso un territorio più sicuro, stabilendosi nel Kwangtung (Kiangsi) qui con le sue "basi rosse" Mao Tse-Tung proclama il regime dei soviet. Nasce la la Repubblica sovietica cinese del Kiangsi,

1930 Chiang Kai-shek tenta l'accerchiamento dei comunisti, senza risultati.

Le "basi rosse" costituivano una realtà che il partito comunista e l'Internazionale non potevano più trascurare, anche se prima Li Lisan con la sua linea operaista, poi i gruppi di militanti fedeli a Stalin cercarono di emarginare Mao e i suoi seguaci dal potere nelle "basi rosse" e dal controllo delle forze armate rivoluzionarie.

Per essere una rivoluzione marxista l'atteggiamento sovietico era abbastanza singolare. E vi è infatti un retroscena che provocò le misure disciplinari contro Mal Tse-tung.

Alla base, ossia nei villaggi, questa posizione di incertezza dei comunisti, posti tra le masse e il Kuomintang, è stata descritta con vivacità da Liu Chih-hsiin:

"A quel tempo eravamo perplessi. Da una parte, dovevamo lottare contro le forze feudali dei despoti locali e dei notabili corrotti e contro la borghesia; dall'altra, dovevamo collaborare con il Kuomintang che rappresentava quelle forze. Dovevamo renderci amici e patteggiare con i residui del feudalesimo, i grandi proprietari e i capitalisti. Dovevamo evitare che gli operai e i contadini risolvessero da sé i loro problemi. Dicevamo loro di attendere gli ordini dal quartier generale del Kuomintang. Ma l'attesa era senza fine, come quella di chi aspetti che le acque del Fiume Giallo diventino chiare".

Essendo questo l'atteggiamento di Mosca, difficilmente Cen Tu-shiu poteva essere criticato per la linea politica che aveva adottato. Sulla questione delle armi, per esempio, alla fine del marzo 1927, il Comintern telegrafò al Comitato Centrale del PCC di evitare ad ogni costo scontri armati tra gli operai e le truppe di Chiang e diede istruzioni affinché tutte le armi degli operai fossero nascoste. E il Partito obbedì regolarmente all' ordine Bukharin che tra l' altro aveva detto: « Non era forse meglio nascondere le armi, non accettare battaglia ed evitare quindi di essere disarmati? » Più tardi, ad Hanklw, si ripeté la stessa storia, e le armi furono anche questa volta nascoste al fine di evitare uno scontro aperto. Per seguire le istruzioni del Comintern e mantenere l'entente tra il PCC e il Kuomintang, furono prese anche varie altre iniziative: i ministri dell'Agricoltura e del Lavoro evitarono di concordare una politica unica che potesse migliorare le condizioni dei contadini e degli operai; il primo organizzò un giro nelle campagne per frenare gli eccessi contadini; il PCC accettò di sciogliere alcune organizzazioni di combattimento come i picchetti operai e le squadre di ragazzi.

Vi fu anche il famoso telegramma inviato, il 30 maggio, da Stalin al PCC, a Borodin e a Roy, che ordinava loro: « Confiscare le terre, ma non toccare quelle degli ufficiali dell'esercito; frenare lo zelo eccessivo dei contadini con il potere degli organi centrali del Partito; eliminare i generali attualmente poco fidati; armare 20 000 comunisti e scegliere 50 000 elementi operai e contadini nello Hupei e nello Hunan per costituire un nuovo esercito; inviare al Comitato Centrale Esecutivo del Kuomintang nuovi elementi operai e contadini per sostituire i vecchi membri; organizzare un tribunale rivoluzionario, presieduto da un noto membro del Kuomintang, per sottoporre a giudizio gli ufficiali reazionari »

Era possibile prendere nello stesso tempo misure così contraddittorie? Dal momento che « tutti i proprietari terrieri erano direttamente o indirettamente protetti dagli ufficiali », la confisca delle terre avrebbe provocato, come già era accaduto, uno scontro armato con gli ufficiali.

Soltanto all'inizio de 1935, nel pieno della Lunga marcia, Mao conquistò un primato nel partito che in seguito consolidò allontanando alcuni avversari e acquisendone altri alle sue posizioni. Fu comunque la scelta di impegnare totalmente il partito nella resistenza al Giappone, scatenando contro l'invasore una lotta totale attraverso la guerriglia contadina e la costituzione di "zone liberate" controllate dal partito, a porre Mao Tse-Tung al centro del movimento comunista cinese e a identificare i comunisti con la "resistenza nazionale".

1931 Maggio - Chiang Kai-shek dà inizio ad una nuova campagna contro i comunisti.

1931 Settembre. Iniziano le ostilità dei giapponesi in Cina.

1931 Novembre. Il 1° Congresso dei Soviet di tutta la Cina fonda la Repubblica Sovietica Cinese unificata: i comunisti cinesi hanno un proprio territorio ed un proprio governo.

1932 Già a inizio anno, La Repubblica Sovietica Cinese Unificata dichiara guerra al Giappone.

1933 Chang Kai-shek tenta per la quinta volta di annientare le forze comuniste ora unite in una "resistenza nazionale".

1934 Gennaio. Il Il° Congresso dei Soviet Cinese decide di iniziare la « lunga marcia » dal Kiangsi verso nord-ovest, verso regioni più sicure e tranquille. Da Juichin parte la colonna principale, in ottobre.

1935 Ottobre. Dopo un anno le principali colonne della « lunga marcia », convergono su Paoan, nella provincia di Shensi. Intanto (come già detto nel '30) Mao Tse-tung -dimostrandosi grande condottiero delle "resistenza nazionalista" acquista un potere sempre maggiore all'interno del PC Cinese.

1936 Dicembre. Chang Kai-shek è fatto prigioniero a Sian da alcuni suoi capi militari che vorrebbero una condotta più energica contro il Giappone che spadroneggia nelle regioni orientali della Cina.

1937 Si giunge ad una tregua tra il Kuo Ming Tang ed il Partito Comunista Cinese. Nel luglio i giapponesi occupano Pechino, e ad ottobre quasi tutte le principali città della Cina settentrionale sono in mano giapponese.

1938 Ottobre. In un suo rapporto, Mao Tse-tung giustifica la collaborazione tra i comunisti ed il Kuo Ming Tang.

1939 Chiang Kai-shek approva il nuovo governo comunista della regione Shansi-Chahar-Hopeh.

1940 Anno piuttosto tranquillo, mentre in Europa sta iniziando e infuriando la guerra.

1941 Iniziano aperte ostilità tra le truppe nazionaliste e quelle cinocomuniste, con gravi perdite da tutt'e due le parti.

1942 Febbraio. Mao Tse-tung riesce ad eliminare le ultime tracce di opposizione all'interna del partito: da questo momento è il padrone incontrastato.

1943 Peggiorano i rapporti tra il Kuo Ming Tang e i comunisti.

1944 Autunno. Il servizio segreto americano riferisce che sia i nazionalisti sia i comunisti spendono più energie a combattersi reciprocamente che a combattere i giapponesi.

1945 14 agosto. Sulla base " degli accordi di Yalta, truppe sovietiche entrano in Manciuria per combattere i giapponesi, proprio quando il Giappone, dopo Hiroshima e Nagasaki è costretto alla resa. Intanto in un clima di grande confusione divampa la lotta tra comunisti e nazionalisti: i primi avanzano rapidamente grazie alla guerriglia.

1945 Novembre - Il presidente Truman incarica il generale Marshall di aprire in Cina negoziati tra nazionalisti e comunisti.

Dopo la liberazione dai giapponesi, la vittoria sul Guomindang nel 1949 e l'eliminazione dei proprietari terrieri, Mao accettò il modello sovietico per l'industrializzazione e per la gestione dei settori moderni della Repubblica popolare, di cui assunse la presidenza. Riprese però l'elaborazione di un'autonoma strategia sociale con la collettivizzazione agraria del 1955 e soprattutto con la creazione delle comuni popolari nel 1958

1945 VII INTERNAZIONALE a Yún-nan. È il congresso della vittoria sul Giappone e dell'unione intorno a Mao che fin dal 1935 ha assunto le redini del partito. È approvato un nuovo statuto che fa del pensiero di Mao la linea direttrice del partito. Dopo altri tentativi di accordo con il Kuomintang, comincia la fase conclusiva della guerra civile che terminerà il 1° ottobre 1949 con l'ingresso dei comunisti a Pechino.

1946 Gennaio. Una tregua è faticosamente raggiunta, ma in aprile, improvvisamente i cinocomunisti s'impadroniscono di Changsun. Intanto gli Stati Uniti iniziano ad appoggiare militarmente i nazionalisti.

1947 Gennaio-febbraio. Malgrado i successi militari conseguiti, i nazionalisti sono in crisi e cominciano ad accusare defezioni.

1948 Ottobre. In questo periodo già 300.000 nazionalisti sono passati nelle file comuniste.

1949 Gennaio. Pechino si arrende ai cinocomunisti. A maggio è la volta di Shangai.

1949 - 21 settembre: a Pechino Mao Tse-tung proclama la Repubblica Popolare Cinese.

" 21 settembre 1949 - New York - La radio comunista informa che Mao Tse-Tung ha annunciato la costituzione della "Repubblica popolare cinese". L'annuncio è stato dato da Mao all'apertura della conferenza consultiva, cui partecipano 600 delegati, che si è iniziata a Pechino".

"22 settembre 1949 - Shangai - Nel suo discorso, Mao ha detto tra l'altro che "grazie alla dittatura democratica popolare il popolo coinese sarà protetto contro qualsiasi tentativo dei suoi nemici interni ed esterni di ristabilire la loro influenza nel paese". Egli ha soggiunto che l'alleanza con l'Urss consente al popolo cinese di non essere isolato in campo internazionale".

Dopo la liberazione dai giapponesi, la vittoria sul Guomindang, e l'eliminazione dei proprietari terrieri, Mao accettò il modello sovietico per l'industrializzazione e per la gestione dei settori moderni della Repubblica popolare, di cui assunse la presidenza. Riprese però l'elaborazione di un'autonoma strategia sociale con la collettivizzazione agraria (nel 1955) e soprattutto con la creazione delle comuni popolari (nel 1958).

Chiang Kai-shek si ritira a Formosa.

1950 14 febbraio - Firma a Mosca di un trattato di amicizia, alleanza e assistenza reciproca tra URSS e Cina.

1950 Mao Tse-tung dà inizio alla riforma agraria su vasta scala.

1950 25 giugno - Scoppio della guerra di Corea; assistenza militare di Mosca ai nordcoreani e ai volontari cinesi. Cino-comunisti penetrano in Corea e nel Tibet.

1953 Gennaio. Inaugurazione del Primo piano quinquennale.

1953 5 marzo - Muore Stalin, poco dopo si firma il trattato di armistizio in Corea (27 luglio 1953).

1954 ottobre - Visita di Kruscev a Pechino: viene restituito Port Arthur, vengono annullate le ultime concessioni russe in Cina (ferrovie, società miste) e viene concesso un aiuto economico.

1954 Primo bombardamento di Quemoy.

1955 Conferenza afro-asiatica di Bandung: si cerca di dare il via ad un'era di buoni sentimenti tra la Cina e questi paesi.

1956 Kruscev sviluppa le sue tesi sulla coesistenza pacifica.

1956 febbraio - Pechino non accetta la risoluzione del XX Congresso (condanna della politica stalinista).

VIII INTERNAZIONALE anomala in quanto si svolge a Pechino in due sessioni. La prima, nel settembre 1956, ribadisce in politica estera i principi della coesistenza e dell'alleanza con l'URSS anche se è cominciata l'era della destalinizzazione. La seconda sessione si svolge nel maggio 1958; è il congresso del «grande balzo in avanti » sul piano economico e di vigorosi attacchi al revisionismo sul piano politico.

La crisi dei paesi dell'Europa orientale nell'autunno del 1956 rivelò a Mao Tse-Tung la fragilità dei regimi controllati dai partiti comunisti e lo indusse a intensificare la mobilitazione delle forze sociali rurali più organicamente legate alla rivoluzione. La rinnovata priorità alla lotta sociale agraria aggravò però le nascenti tensioni tra il potere del partito e gli intellettuali, mentre il sostegno del proletariato urbano era condizionato dalla piena occupazione e da meccanismi assistenziali: Mao si trovò cosi a condurre una battaglia politica che godeva di scarso consenso nei settori moderni della società. Mentre i sovietici con Kruscev, perseguivano con gli Stati Uniti una politica di distensione che, per il continuato rifiuto americano di riconoscere il regime di Pechino, appariva ai comunisti cinesi come una collusione contro la Cina, Mao trasse dall'analisi della situazione sovietica la conclusione che fosse necessario combattere contro ogni ripiegamento dalle scelte rivoluzionarie, anche a prezzo di accentuare le tensioni interne e di dover intensificare repressione di classe, condizionamenti culturali e mobilitazione ugualitaria delle masse.

1957 Mao Tse-tung a Mosca dichiara che « il vento dell'est prevale sul vento dell'ovest »: il socialismo è cioè superiore all'imperialismo.

1957 15 ottobre - Kruscev promette alla Cina la bomba atomica.

1957 novembre Primi screzi tra Russia e Cina.

1958 Mao Tse-tung inaugura il « grande balzo in avanti », con lo slogan « vent'anni in un giorno ». Rivolta nel Tibet contro i cinesi. Secondo bombardamento di Quemoy.

1958 primavera. Prima denuncia in Cina del revisionismo. Apertamente si critica la Jugoslavia, ma l'obiettivo è Mosca.

1958 agosto-settembre - Crisi dello stretto di Formosa, i cinesi bombardano Quemoy. Kruscev non concede a Mao l'assistenza prevista.

1959 I cinesi rafforzano i loro concentramenti di truppe ai confini con l'India, dichiarando che un territorio di vaste dimensioni entro il confine indiano « è sempre stato territorio cinese ».

Mosca per la prima volta critica le posizioni di Pechino.

1959 giugno - Mosca rifiuta l'accordo dell'ottobre 1957 sulla bomba atomica.

1959 settembre - La visita di Krushev negli Stati Uniti provoca critiche di Pechino.

La Tass biasima gli scontri di frontiera cino-indiani. Primi scontri di frontiera cinorussi nel Sinkiang.

1960 Mao Tse-tung assicura l'appoggio cinese ai processi rivoluzionari dell'America Latina, dell'Asia e dell'Africa. II 16 aprile, la direzione cinocomunista sferra il primo deciso attacco contro i « revisionisti ». -A maggio i russi iniziano a ritirare migliaia di tecnici dalla Cina.

1960 21 aprile - Primi editoriali pubblicati a Pechino sulla controversia ideologica con i russi.

1960 20 giugno - Congresso a Bucarest del partito comunista romeno, violenti attacchi rivolti ai dirigenti cinesi.

L'Albania si allinea con Pechino.

1960 16 luglio - L'Unione Sovietica richiama i suoi tecnici dalla Cina e pone fine praticamente a ogni forma di assistenza. Questa "scomunica" è stata paragonata - forse un po' enfaticamente - "allo scisma fra Chiesa di Roma e Chiesa di Bisanzio".

1961 17 ottobre - Denuncia dell'Albania al XXII Congresso del partito comunista sovietico. Rilancio in Cina della campagna contro lo stalinismo

1962 Ottobre.

1962 settembre-ottobre - Conflitto cino-indiano alla frontiera himalaiana. La Cina invade l'India, ma si ritira subito. Pechino accusa Mosca di fornire aiuti a Nuova Delhi.

1962 ottobre - La crisi di Cuba porta la tensione al suo apice; Pechino accusa Kruscev di capitolazione.

1963 - È l'anno della confessione pubblica della controversia ideologica.

1962 5 agosto - Firma a Mosca del trattato sulla limitazione degli esperimenti nucleari; nuove aspre critiche di Pechino.

1964 febbraio - Rapporto di Suslov al partito comunista sovietico sulle accuse sovietiche al partito comunista cinese. Insuccesso delle conversazioni di Pechino sui tracciati delle frontiere.

1964 15 ottobre - Destituzione di Kruscev seguita dallo scoppio della prima bomba atomica cinese.

1965 Inizia la lotta per la successione a Mao.

1965 gennaio-febbraio - Tentativi, senza successo, di riconciliazione fatti da Breznev e Kossighin.

1965 marzo - Riunione a Mosca di 19 partiti comunisti per la preparazione di una conferenza internazionale. La Cina non aderisce all'invito di partecipare

1966 maggio - Inizia in tutta la Cina la «rivoluzione culturale» delle «guardie rosse» (ne parleremo più avanti)

Mao Tse-Tung è convinto che il partito, dotato del monopolio totale del potere sullo stato e sull'economia, stesse divenendo fonte di nuovi privilegi: la trasformazione dei gruppi dirigenti in nuova classe privilegiata poteva far "cambiare colore" al partito, trasformandolo in una forza di tipo fascista destinata a reprimere le masse e ad accentuare le differenze sociali. Per impedire questi sviluppi, nei quali ravvisava il rischio di perdere tutto ciò che la rivoluzione aveva conquistato a tanto caro prezzo (personalmente Mao perdette nella lotta la prima moglie, i fratelli e poi un figlio caduto in Corea), nel 1966 egli scatenò la -"rivoluzione culturale facendo appello alle iniziative eversive dei giovani, penalizzati dal consolidarsi del nuovo assetto sociale e dal carattere repressivo della società, e al sostegno dei militanti rurali formatisi nella lotta sociale e militare ispirata dalla sua strategia. Il suo sforzo per salvare, contro le autorità installate dalla rivoluzione, i valori in nome dei quali la rivoluzione era stata combattuta mise tuttavia Mao nella posizione contraddittoria di essere a un tempo vertice di un regime e capo di ribelli: quando le spinte di protesta, accumulatesi a lungo tra le masse giovanili urbane in una società autoritaria e frustrante, misero in pericolo la stabilità del potere, Mao accettò di far rientrare il suo tentativo, ma visse gli ultimi anni nella tragica certezza che gli ideali che avevano ispirato la lotta sua e dei suoi compagni sarebbero stati presto rinnegati dal partito e dalla società.

Sono questi anni in cui la situazione si fa confusa. Inoltre nasce uno smaccato antisovietismo cinese e varie ostilità diplomatiche verso i successori di Kruscev.

1967 gennaio-febbraio - Assedio dell'ambasciata sovietica a Pechino e manifestazioni antisovietiche da parte delle Guardie rosse, cui fanno subito seguito altrettante ostili manifestazioni da parte dei russi nelle piazze e nelle fabbriche.

1968 maggio - Inizio delle conversazioni di pace per il Vietnam a Parigi: Pechino disapprova apertamente Hanoi.

1969 2 marzo - . Primi sanguinosi incidenti alla frontiera sull'Ussuri. Già nel 1962 Mosca affermava che i cìnesi, in quell'anno, avevano violato cinquemila volte la frontiera sovietica.

1969 IX INTERNAZIONALE IX nel 1969 a Pechino. Viene consacrata la vittoria della « rivoluzione culturale", si forma il Comitato permanente del "Politburo" e si designa il successore di Mao Tse-Tung.

1) Mao Tse-tung (n. 1893) Presidente del partito (veterano della Lunga Marcia).

2) Lin Piao (n. 1907) Vicepresidente del partito, successore designato di Mao, ministro della Difesa nazionale, comandante dell'esercito, n° 7 dell'ex Politburo (veterano della Lunga Marcia).

3) Chou En-lai (n. 1899) primo ministro, n° 3 dell'ex Politburo (veterano della Lunga Marcia).

4) Cen Po-ta (n. 1904) presidente del gruppo centrale della rivoluzione culturale, ideologo, giornalista, ex segretario di Mao, n° 24 dell'ex Politburo.

5) Kang Sheng (n. 1899) membro del Gruppo dirigente della rivoluzione culturale, ex capo dei servizi segreti, specialista nelle relazioni internazionali del PC, n. 25 dell'ex Politburo.

1969 15 marzo - Nuova battaglia, con l'impiego di artiglieria e di mezzi corazzati, sull'isola Damanski.

1969 29 marzo - Dichiarazione di Mosca che si dichiara pronta per consultazioni con i cinesi.

1969 11 giugno - Scontri al confine tra il Sinkiang e il Kazakistan. Nello stesso mese Mosca propone di riprendere i colloqui con la Cina, arrestati nel 1964.

1969 8 luglio - Ennesimi scontri di frontiera sull'isola di Pacha e lungo il fiume Amur. Trapelano notizie circa colloqui tra le due parti.

1969 13 agosto - Violenti scontri si registrano nel Kazakistan, nel Sinkiang e nella regione di Semigalatinsk.

1969 11 settembre Kossighin si incontra a Pechino con Chou En-lai.

1969 20 ottobre - Pechino è disposta a iniziare i negoziati con Mosca. Una delegazione sovietica comincia le trattative in Cina che si concluderanno l'anno dopo..

1970 luglio - Dopo 4 anni di congelamento Mosca e Pechino si scambiano di nuovo gli ambasciatori. Ma i rapporti restano tesi, soprattutto per il rifiuto dei russi a concedere i brevetti indispensabili per una veloce industrializzazione.

Ciò ha fatto sì, che nella primavera del 1971 i Cinesi hanno operato una apertura agli Stati Uniti, che, per il modo con cui è stata fatta, ha preso il nome di "Diplomazia del Ping-Pong".

Effettivamente la mossa in sé di poco conto (si trattava di un invito agli sportivi americani a recarsi in Cina per qualche partita di tennis da tavolo) è, nello stesso tempo, fragorosa perché capovolgeva l'atteggiamento appariscente cinese verso gli Stati Uniti.

« Un ponte è stato gettato questa settimana dall'Oriente rosso agli USA », scriveva il 14 aprile la Washington Post, « ed esso ha la forma d'un tavolo da ping pong »; molta stampa diceva: « Il viaggio della squadra americana in Cina è uno dei piú importanti avvenimenti politici degli ultimi vent'anni ».

Chou En-lai, il primo ministro cinese, ai giocatori statunitensi dichiarava che la loro visita «apre una nuova pagina nelle relazioni tra i due popoli »; e ha aggiunto, il che è forse ancora piú importante: « La Cina è interessata a intrattenere relazioni amichevoli anche con i paesi che non la riconoscono », capovolgendo di punto in bianco la posizione fino allora tenuta dai cinesi in politica estera.

In risposta a questa innegabile apertura che ha precipitato il ritmo delle trattative che già si stavano avendo tra Pechino e Washington, Nixon lo stesso 14 aprile annunciava una serie di misure per migliorare le relazioni con la Cina: la revisione delle liste dei materiali strategici esclusi dalle esportazioni in Cina: l'attenuazione dei controlli valutari; la concessione di visti a turisti provenienti dalla Cina; l'abolizione delle restrizioni alle forniture di carburante alle navi e agli aerei da e per la Cina; l'autorizzazione al trasporto di carichi cinesi su navi e aerei americani fra porti di paesi terzi.

Il 15 luglio 1971 fu annunciato contemporaneamente negli Stati Uniti e in Cina che Nixon si recava a Pechino entro il maggio 1972 per « normalizzare le relazioni e scambiare pareri sui problemi di reciproco interesse».

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A seguito delle tormentate vicende che abbiamo visto sopra, la Cina era sempre rimasta in una posizione internazionale poco chiara; infatti il governo della Repubblica popolare cinese era riconosciuto soltanto da quelli comunisti dell'Europa e dell'Asia, oltre a Gran Bretagna, Francia, Olanda, Svizzera e Paesi Scandinavi, in Europa; da paesi di recente costituzione in Africa e Asia, ma non da tutti, e da Cuba, unico paese del continente americano.

Per questi motivi, all'ONU andò a sedersi, come rappresentante della "Cina", il delegato della Cina nazionalista di Formosa; infatti l'ingresso della Cina comunista all'ONU venne più volte respinto.

Poi arrivò il "ping-pong" e nello stesso anno la Cina entrò a farne parte.

Gli organi di governo

Altrettanto travagliata è stata l'organizzazione dell'assetto politico. Non è stato infatti regolato all'inizio con un'unica legislazione, ma ha richiesto una lunga serie d'interventi e di modifiche. Le condizioni della Cina nei lunghi decenni di lotte del novecento, avevano infatti contribuito a far sorgere una situazione di crisi estrema, ove era particolarmente precario e difficile riorganizzare le strutture dello stato, sia quelle centrali, che periferiche.

Nel 1954 fu emanata la Costituzione che istituiva gli organi fondamentali dello stato indicandone le prerogative e i rispettivi compiti e limiti. Lo Stato cinese vi è definito come una dittatura democratico-popolare della classe operaia e contadina: è questo infatti il segno di distinzione che differenzia proprio alla base il comunismo cinese da quello russo; questo nacque da una rivoluzione soprattutto operaia, quello è il frutto invece d'una rivoluzione prevalentemente agricola.

La Costituzione sancisce la proprietà statale dei beni di produzione (anche se specie nelle campagne permette l'esistenza di una certa forma di proprietà privata), il principio della pianificazione e collettivizzazione economica, e nello stesso tempo garantisce il carattere multinazionale dello Stato.

Gli organi di governo previsti dalla Costituzione sono i Congressi popolari, e precisamente: il Congresso Nazionale Popolare e i Congressi locali di tre ordini (di Provincia, di Distretto, di Cantone). Il popolo elegge direttamente soltanto i membri del Congresso di Cantone, l'ultimo grado cioè dell'ordinamento politico, mentre i rappresentanti dei Congressi più elevati sono eletti da quelli dei Congressi inferiori.

Uno degli aspetti caratteristici dell'ordinamento politico cinese è la differenza che c'è tra il peso politico degli abitanti delle città e quelli delle campagne: i primi godono di un voto plurimo nella proporzione di 8 a 1, proprio per ovviare al fortissimo squilibrio tra città e campagna che caratterizza la distribuzione geografica dei partito Comunista; ma accanto a questo, in Cina, cosa questa poco conosciuta, non esiste un solo partito, ma accanto a quello Comunista, che ha posizioni di indubbia preminenza e controlla tutta la vita sia politica che economica della Cina, vi sono altri partiti.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE

La Repubblica popolare cinese appena costituita (1949, 10 ottobre) iniziò subito un deciso movimento espansionistico nazionalista (Sinkiang e Tibet) e appoggiò con propri volontari la Corea del nord contro il regime della Corea meridionale e gli americani. In nome della libertà dal colonialismo dei popoli sottosviluppati, cercò di dilatare la propria influenza offrendo aiuti ai paesi del sud-est asiatico e africani, ma con scarsi risultati. Per le frontiere del Sikkim entrò in urto violento con l'India (1959-1963). Nel 1964 fece scoppiare la prima bomba atomica, nel 1967 la sua prima termonucleare, inserendosi cosí al 4° posto nel club atomico mondiale; il 4 marzo 1971 pure la Cina iniziò a far girare un satellite intorno alla Terra. Ma già nel 1966 si era dotata di un missile con testata atomica a grande gittata; (uno fu sperimentato e lanciato dal deserto di Gobi alla Mongolia, a 1500 chilometri ).

A quest'attività intensa che ha in pochi anni candidato la Cina a diventare la terza superpotenza (a fianco degli USA e dell'URSS), essa ha affiancato (giugno 1966 giugno 1969) anche un movimento interno (la Rivoluzione culturale) che ebbe per protagoniste le Guardie rosse (vedi più avanti), punta di diamante del comunismo internazionale in contrapposizione (con il motto Tou-P'i Kai: Lotta continua, critica e trasformazione) al revisionismo dell'Unione Sovietica.

Dopo le critiche di Kruscev a Stalin nel XX Congresso del PCUS (1956) e la questione di Cuba (1962), la Cina aveva rotto apertamente con i sovietici e la rivoluzione culturale mobilitò i giovani (contadini, studenti e operai) a stroncare con il ritorno alla teoria pura marxista leninista, il revisionismo e il conservatorismo burocratico che si erano creati in seno alle vecchie leve del Partito. Il personaggio piú importante travolto da questo movimento è stato Liti Shaochi, Presidente della Repubblica.

Per comprendere la serietà del fenomeno bisogna ricordare che da secoli in Cina tutte le cariche pubbliche erano vinte a concorsi per titoli ed esami, per cui solo le persone colte e intellettualmente molto dotate (i mandarini) potevano assumere cariche statali o parastatali; questo spiega perché la storia politica e militaremcinese sia strettamente intrecciata con quella letteraria e filosofica. E nella tradizione si rimise il comunismo quando, con il poeta-letterato Mao Tsetung alla testa, decise di rinnovare la burocrazia della vecchia guardia impoltronita e fattasi opportunista e conservatrice, ricorrendo per tradizione agli intellettuali e facendo leva sugli studenti, i giovani contadini (che studiavano le nuovissime tecniche occidentali agricole) e gli operai (che frequentavano la sera i corsi di periti), creando cosí quel movimento rinnovatore culturale (delle Guardie rosse) che ha fatto quasi rinascere (come raccomanda il Machiavelli nel Principe) il « regime a nuova vita e vigore ».

Nell'agosto 1967, per la prima volta, Bandiera Rossa, organo ufficiale del PC cinese, scriveva che la Rivoluzione culturale è « una grande decisiva battaglia fra lo stato maggiore proletario del Presidente del partito Mao e lo stato maggiore borghese della persona al vertice (il Presidente della Repubblica, Liu Shao-chi) che ha preso la via capitalistica ».

Questa lotta personale fra comunisti cinesi - anche questa valida interpretazione della Rivoluzione culturale - è cominciata nel 1959 quando l'allora ministro della Difesa Peng The-huai, sostenuto proprio da Liu Shao-chi, criticò la politica del « balzo in avanti » e delle « comuni » iniziata un anno prima. Mao apostrofò costoro come «opportunisti di destra», ma, oltre a non poterli radiare dal Comitato centrale, fu costretto ad accettare quelle critiche al punto che il partito con il cosiddetto « aggiustamento » accantonò le iniziative, specie economiche, di Mao.

Durante il Comitato centrale del Partito comunista cinese (settembre 1965) Mao tentò di ripresentare la sua politica riproponendo un atteggiamento piú « rivoluzionario » che però fu opposto dalla maggioranza del Partito guidata dal Presidente Liu Shao-chi, che dal '58 aveva assunto la presidenza della Repubblica, carica occupata fino ad allora da Mao, poi soltanto Presidente del partito. Mao Tse-tung, appoggiato dal nuovo ministro della Difesa Lin Piao, si preparò da allora alla rivincita e non potendo contare sulle gerarchie del partito preparò la « Rivoluzione culturale », facendo leva sulle masse popolari per intimidire i dirigenti del PCC.

Le prime manifestazioni della Rivoluzione Culturale apparvero nell'inverno del 1965 proprio con la destituzione del sindaco di Pechino (poi arrestato) ; ma il vero operare della « Rivoluzione culturale » data alla primavera del 1966 quando Mao chiarisce che il partito è ormai uno strumento inadatto alla rivoluzione e alle necessità dei giovani delle università, delle fabbriche e delle campagne, dando cosí vita, il 25 maggio 1966, al primo nucleo delle GUARDIE ROSSE.

Le "Guardie rosse" non erano un'organizzazione, ma una generazione di cinesi dai 14 ai 25 anni fatta intervenire da Mao direttamente nel tessuto politico del paese « perché la Cina non cambiasse colore, perché la rivoluzione non fosse un sentimento del passato e neppure semplice stabilizzazione di una vittoria ».

Con il « dazibao » (giornale a grandi caratteri, affisso ai muri delle case, delle scuole, delle fabbriche con il quale l'opinione pubblica prende parte al dialogo politico) del 1° giugno 1966 appeso nell'università dì Pechino criticante alcune autorità locali, Mao fece scattare la molla della Rivoluzione culturale il cui «bersaglio principale fu un pugno di uomini che nel partito detenevano posizioni di potere e avevano aspirazioni burocratiche di restaurazione».

Con la Rivoluzione Culturale si è esteso quel principio di rotazione del lavoro già dettato da Mao all'esercito con la Direttiva del 7 maggio 1966: « L'esercito deve essere una grande scuola dove lo studio della teoria si associa alla prassi del lavoro agricolo, industriale e di politicizzazione delle masse. Andare a fare il lavoro manuale alla base è un'eccellente occasione per i dirigenti di imparare daccapo. A parte le persone anziane o deboli, i malati e gli invalidi, questa via deve essere seguita da tutti ».

Cosí alle "Scuole 7 maggio" (un centinaio in tutta la Cina) sono indirizzati coloro che (professori, medici, funzionari del partito, personaggi altolocati) diagnosticati burocrati dalla Rivoluzione culturale debbono essere «rieducati» al nuovo credo rivoluzionario per mezzo dell'autocritica e del lavoro manuale, dove tutto è proiettato non piú verso l'individuo ma verso la collettività.

Con uno sconvolgente fenomeno di massa, per la prima volta nella storia della rivoluzione, una classe dirigente ha (singolare contraddizione del potere) contestato se stessa, impegnando specie le nuove generazioni a ripercorrere un cammino rivoluzionario e spingendo e costringendo i vecchi rivoluzionari ad abbandonare le posizioni raggiunte e a ricominciare daccapo.

Lo scritto politico unitario della Rivoluzione Culturale è il "LIBRETTO di MAO" , tradotto nel mondo in 70 lingue e diffuso in Cina in centinaia di milioni di copie. Questo scritto, che riafferma il primato della politica, è servito anche, essendo scritto in cinese moderno, a superare i dialetti e a imporre a tutti i cinesi un'unica lingua.

Negli ultimi anni, a cominciare dai fanciulli, sia i cinema che le televisioni (come in occidente l'epopea del Far West) proiettono e irradiano in ogni angolo della Cina i documentari dei combattimenti tra Cinesi e Sovietici sulle frontiere dell'Ussuri (7000 chilometri di confine fra i due Paesi in mezzo a regioni che restano tuttora fra le meno conosciute.

La crisi ideologica e politica con l'Urss, e il fallimento del "Grande balzo" costrinsero il partito ad affrontare le prospettive dello sviluppo con molto maggiore realismo e sui tempi lunghi e a contare integralmente, come negli anni di Yanan, solo sulle forze interne alla Cina. Si andò da allora consolidando una forte tendenza pragmatica la cui migliore espressione politica, anche sul piano internazionale, era offerta da Zhou Enlai (1898-1976 primo ministro dal 1949 fino alla morte) consentendo un sempre crescente margine di espansione a iniziative economiche locali e individuali anche al di fuori della pianificazione centrale. La lotta politica interna al partito passò prima attraverso la crisi della Rivoluzione culturale, poi con la caduta di - Lin Biao (1971) e della "banda dei quattro" (capeggiata da Jiang Qing, consorte emarginata di Mao).

Sul piano internazionale, mentre restava alta la tensione con Taiwan, scoppiò la breve guerra con l'India (1962-1963), si riapri, dopo la guerra d' Indocina (1945-1954), la guerra del Vietnam (1960-1975) e con gli incidenti dell' Ussuri (1969) giunse al culmine il contrasto con l'Urss.

Alla morte di Mao Tse-Tung (1976) la Cina era ormai una grande potenza planetaria, con un'economia solidamente strutturata che negli anni Ottanta godette di una sempre più rapida crescita e senza gli squilibri settoriali dell'Urss, e di una posizione politica e diplomatica del tutto autonoma in un'Asia in cui declinava gradualmente la presenza americana, era sempre più forte economicamente il Giappone e l'Unione sovietica non aveva più spazi di manovra.

Crollata l'Urss nel 1991, appiattitosi il ritmo d'espansione del Giappone, la Cina si trovò a essere, terza al mondo per reddito nazionale, la più dinamica delle entità nazionali del continente asiatico, in un'Asia orientale divenuta ormai il principale polo economico mondiale; una delle maggiori entità statali del globo come superficie (9,4 milioni di Kmq - circa 30 volte l'Italia) e la più popolata: oltre 1.3 miliardi di abitanti.