Indice generale
PARTE PRIMA
PARTE SECONDA
PARTE TERZA
a Gioietta
PARTE PRIMA
Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di
paglia annerita dalle piove e dal fumo. C'era un cane spelacchiato e
rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e
dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova,
canaletti di succo brunastro.
Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri.
D'inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire
che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma
m'infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul
focolaio frignando per il freddo.
Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una
lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi
buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo
terrosa. Poi son venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho
imparato l'italiano, ho scelto gli amici fra i giovani piú
colti; ma presto devo tornare in patria perché qui sto molto
male.
Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci.
Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca
d'imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch'io
confessi d'esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi
trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra coltura e
ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi. Le vostre
obiezioni mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v'ascolto
disinteressato e contento, e non m'accorgo che voi state gustando la
vostra intelligente bravura. E allora divento rosso e zitto,
nell'angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi
alberi aperti al vento. Penso avidamente al sole sui colli, e alla
prosperosa libertà; ai veri amici miei che m'amano e mi
riconoscono in una stretta di mano in una risata calma e piena. Essi
sono sani e buoni.
Penso alle mie lontane origini sconosciute, ai miei avi aranti
l'interminabile campo con lo spaccaterra tirato da quattro cavalloni
pezzati, o curvi nel grembialone di cuoio davanti alle caldaie del
vetro fuso, al mio avolo intraprendente che cala a Trieste all'epoca
del portofranco; alla grande casa verdognola dove sono nato, dove
vive, indurita dal dolore, la nostra nonna.
Era bello vederla seduta nella larga terrazza spaziante su enormi
spalti le montagne e il mare, lei secca e resistente accanto
all'altra mia nonna, la veciota venesiana, rubiconda e spensierata,
che aveva quasi ottant'anni e le si vedeva ancora il forte palpito
azzurrino del polso sollevarsi e cadere nella pelle morbida come una
foglia. Questa mi parlava dell'assedio di Venezia, del sacco di
patate in mezzo la cantina, della bomba che fracassò un pezzo
di casa. E aveva un fazzolettino bianco sui pochi capelli fini, ed
era allegra. Quando veniva a mangiare da noi, babbo le diceva
sempre: "Beati i oci che i la vedi".
Ma allora essa non m'interessava. Io filavo in campagna a giocare
con gli alberi.
Il nostro giardino era pieno d'alberi. C'era un ippocastano rosso
con due rami a forca che per salire bisognava metterci dentro il
piede, e poi non potendolo piú levare ci lasciavo la scarpa.
Dall'ultime vette vedevo i coppi rossi della nostra casa, pieni di
sole e di passeri. C'era una specie di abete vecchissimo, su cui
s'arrampicava una glicinia grossa come un serpente boa, rugosa,
scannellata, torta, che serviva magnificamente per le salite
precipitose quando si giocava a 'sconderse. Io mi nascondevo spesso
su quel vecchio cipresso ricco di cantucci folti e di cespugli, e in
primavera, mentre spiavo di lassú il passo cauto dello
stanatore, mi divertivo a ciucciare la ciocca di glicine che mi
batteva fresca sugli occhi come un grappolo d'uva. Il fiore del
glicine ha un sapore dolciastro-amarognolo, strano, di foglie di
pesco e un poco come d'etere.
C'erano anche molti alberi fruttiferi, àmoli, ranglò,
ficaie, specialmente. Appena i fiori perdevano i petali e i
picciòli ingrossavano, io ero lassú a gustarli, non
ancora acerbi. Acerbi son buoni! Il guscio del nocciolo è
ancora tenero, come latte rappreso, e dentro c'è un po'
d'acqua limpidissima e ciucciosa. Poi, dopo qualche giorno, quando
la mamma è uscita di nuovo per andare dalla zia, essa diventa
una gomma gelatinosa dolce a sorbirsi con la punta della lingua. Ma
la carne com'è buona, cosí aspra. Prima il dente ha
paura di toccarla, e la strizza guardingo, mentre la lingua
riccamente la inumidisce e assapora la linfa delle piccole punture.
Poi la si addenta. Le gengive bruciano, i denti si stringono l'uno
addosso dell'altro, si fanno scabri e ruvidi come pietre, e tutta la
bocca diventa una ricca acqua.
Ma quando viene l'estate, per arrivare i pochi frutti rimasti
bisogna essere ghiri. Andare dove gli uccelli non hanno paura,
perché non sono abituati a trovarvi anche lassú. Alla
biforcazione delle due frasche piú alte mi tenevo agganciato
con un piede e bilanciandomi con la destra distesa procedevo a modo
di bruco con la sinistra sulla fraschetta svettante, trattenendo il
respiro, finché arrivavo al punto dove si piegava e a poco a
poco s'avvicinava fino alla mia bocca. Qualche volta dovevo
lasciarla riscattar via perché la nonna sgridava "Fioi, ve
'mazarè su quei alberi!". Allora stavo zitto, rosso, e
scivolavo giú fluendo.
E c'era anche, accosto al muro della strada, un tasso baccata che
scortecciavo facilmente a larghi brani per vederlo piú pulito
e piú rossiccio. Aveva, al terzo piano, due rami come un
letto, e lí dormivo qualche dopopranzo; oppure contemplavo
tronificante la mularia stradaiola che faceva a ruffa di sotto per
agguantare le bacche rosse che buttavo giú da signore. (Io
non le mangiavo, mi schifavano). Poi imbaldanzita cominciava a
fiondar sassi, e io allora, saltato giú come un demonio,
correvo al portone, ne strappavo la verghetta di ferro che serviva
da chiavistello, e giú a rotta di collo per le strade, fino
quasi al centro della città, con una maglietta e calzoncini a
righette bianche e blu, lunghi riccioli biondi, urlando: "daghe!
daghe!". E alla sera m'addormentavo disteso sul letto, mentre ancora
mamma mi levava le calze piene di terriccio e ghiaiola. Cara e buona
mamma mia.
La mularia! Fecero la guerra a terribili sassate in Sanza, un'antica
fortezza triestina diroccata, accanto alla nostra campagna. Li
sentimmo urlare, correre, massacrarsi. Erano italiani e negri.
Vinsero gl'italiani. E uno d'essi scendeva col collo rotto e cantava
cadenzatamente: «Ma intanto mi go vinto! ma intanto mi go
vinto!». Io vidi tutta la guerra abissina su una grande carta
geografica che babbo aveva inchiodato nella nostra camera, e ci
spiegava, tenendo in mano il Piccolo, dove gl'italiani procedevano.
Di sotto c'erano, a cavallo, con piume in testa e neri in viso,
Menelik, ras Alula: e io gli bucavo il naso con lo spillo delle
bandierine. Ero molto contento che gl'italiani vincessero. Credo
d'aver pregato per loro.
Allora credevo in Dio e pregavo ogni sera: "Padre nostro che sei nei
cieli", e poi stringevo gli occhi, stavo fermo fermo, pensando
soltanto quella persona che desideravo Dio amasse. E questo era
pregare. E pregavo per la mia bella Italia, che aveva una grande
corazzata, la piú forte del mondo, che si chiamava Duilio. La
nostra patria era di là, oltre il mare. Invece qui, mamma
chiudeva le persiane alla vigilia della festa dell'imperatore,
perché noi non s'illuminava le finestre e si temeva qualche
sassata.
Ma l'Italia vincerà e ci verrà a liberare. L'Italia
è fortissima. Voi non sapete cos'era per me la parola
"bersagliere".
La nostra casa era bella e patriarcale. L'atrio era come un grande
tempio, arioso, intorno a cui giravan le scale con le balaustre
bianche, incorniciate di legno lustro, giallo bruno. D'inverno il
sole entrando per i finestroni cercava di scaldare i cacti sgonfi di
zio Daghelondai. Era la casa del nonno in cui abitavano i molti
figliuoli del nonno, e i molti nipoti.
La domenica e le feste il nonno sedeva a capo della tavola
parentale, laggiú in fondo. Era alto di torace con un viso
largo e indulgente e una gran barba bianchissima. Guardava contento
i suoi figliuoli e le loro donne. Quanti cari parenti erano seduti
intorno alla tavola nella gran sala domenicale! Tutti erano seduti
al loro posto, e quando altri venivano, si aggiungeva un'asse alla
tavola e si prendeva una piú lunga tovaglia dall'armadio.
Perché i nostri parenti erano molti, e arrivavano da
Zagabria, da Padova, dall'America e portavano baicoli e giocattoli.
C'era zio Boto, intorno a quella tavola, che faceva quadri e ci
contava le avventure di Saturnino Farandola, e zia Tilde con due
grandi occhi dolci, color mare, e Biancolina, cuginetta, che stava
sempre con mio fratello e io cercavo rabbioso di sapere i loro
segreti, e zio Daghelondai che ci diceva sempre con voce burbera:
"Turco alla predica! Daghelondai!", e io ridevo e mio fratello
saltava spiritato pestando i piedi, e zio Guido, e zio Feliciano, e
zia Mima, e Mario e Bruno, la nonna, zia Bice, papà, Toci,
mamma. E zia Ciuta, prosperosa e matronale. Aveva uno sguardo
benefico, e le cose diventavan facili e semplici com'ella ne
parlava.
E quando tutti avevan già finito di mangiare e bevevano il
caffè fumando i lunghi sigari virginia, la porta si apriva
con grande sforzo e tu entravi nel tuo grembiulino candido con alle
spalle i bei nastrini rosa, dormiglioso Pipi. Eri bello e sano, coi
capelli biondi e le gambocce nude, la giovane carne ancora tiepida
di sonno. I tuoi occhi strani, inquieti o estatici, guardavano
contenti la bella tovaglia bianca che aspettava ancora te prima
d'esser portata via, e i tanti piatti che papà aveva coperti
con altri piatti a rovescio per conservarti calde le vivande.
E ti annodavano un tovagliolone odoroso di lavanda, ti mettevano
davanti i lunghi, teneri risi nel grasso brodo di pollo; la coscia
di pollo e l'ala per i tuoi denti aguzzi; l'ombolo liscio cosparso
dalla salsa di capperi; le rosse ciliege carnose, a ciocche, con cui
t'orecchinavi deliziato del loro fresco; il fettone di torta, la
piú grande fetta che il nonno tagliava apposta per te. E tu
zitto, metodico, grave, sparecchiavi tutto senza domandare cos'era.
Ma tutto ti piaceva, e tutto bastava appena per una corsa in
giardino. Eri sano e forte; i tuoi compagni ti nominavano subito
comandante, poiché li vincevi in corsa, in lotta e in tirar
sassi. Eri buono, e tutti ti volevano bene.
Steno, Gigetto, Toci, Oidecani, Eugenio, Vincenzo, Scarpa, Pipi
op-là, in acqua, in acqua! Oggi si combatte per l'onore del
club "Dagli!".
Schizza il mare a ondate quando il "Dagli!" si butta a testa
giú dalle palafitte. Il panciuto col cappello di paglia
stinta che prima d'adagiarsi nell'acqua bagna igienicamente
l'ombilico e la fronte, scappa via impaurito dal nostro tuffo.
Scappan via tutti i pacifici bagnanti dalla zattera, dalla corda,
dal trampolino, perché nessuno sa dove oggi il "Dagli!" ha
deciso di domiciliarsi, nessuno sa che nuova invenzione porta oggi
il "Dagli!" mentre si tuffa ridendo dalle palafitte.
Il mare schizza di gioia, e spuma. Ché il mare non ama il
lento arranchío asmatico dei vecchi, lo sbattacchío
affannoso degli inesperti. Ama il mare d'essere tagliato, battuto,
disfatto da gambe muscolose e braccia bronzine. Ama la serena
irrequietezza della gioventú, che lo penetra in tutti i sensi
ridendo, bevendolo, sprizzandolo dalla bocca in lunghi zampilli. Ama
i freschi occhi spalancati in corsa tra le profondità e
l'alighe.
Avanti delfinotti! Oggi si combatte per l'onore del "Dagli!".
Perché il "Dagli!" domenica scorsa, buttandosi giú a
gnocco in fila ordinata dalle palafitte, spruzzò allegro le
nude corpora dei conti e signori tedeschi che non lo lasciarono
passare, seccati, l'angolo delle palafitte. Protestarono a terra, e
il direttore minacciò d'impedire il bagno al "Dagli!". Oggi
è giorno di vendetta.
Le ondate si gonfiano da Salvore per far piú turbolenta la
battaglia. I signori tedeschi sono in acqua e procedono ridendo
ironici nei loro mustacchi. Ah, ah!... uno ha la reticella sul
labbro superiore per tener assettato il diritto mustacchio. Dagli,
dagli!
«In semicerchio! Schizzo lento e stretto! Mirare gli occhi!
Procedere in ordine, serrando.» E rispondemmo al nostro capo:
«Dagli!».
Codeste sono le schizzate dei tedeschi! Flosce e piatte come carnume
di medusa. Ma queste del "Dagli!" van dritte e elastiche come colpi
di fionda. Aspra salsedine nelle pupille bionde dei tedeschi!
«Attenti! Serrare!» Ché il nemico smaniante si
butta addosso ai nostri primi e li affonda. Dagli! dagli! da...
Giú. Sento sul collo l'unghiata di rabbia del tedesco
setoloso e l'acqua che si rompe sotto il mio corpo. Tocco fondo. Due
gambe mi tengono fisso quaggiú. Il mare turbina. M'accuccio,
agguanto una gamba, e giú te, porco! «Viva il Dagli!
Da...»
Giú. Su. Dagli, dagli!
«Al largo!» Steno è sparito dopo aver gridato
l'ordine. Noi sappiamo perché. D'improvviso uno dopo l'altro
i tedeschi rapidissimamente piombano in fondo, tirati da qualche
polipo mostruoso. «È Steno! Viva Steno! Dagli!»
Ora li massacriamo. Metri d'acqua si rovesciano sulle bocche
affannose. Gli occhi biondi non vedono piú. Si voltano e
fuggono. E ora comincia il colpo della ritirata. Steno l'ha
inventato, perché il "Dagli!" non può dar quartiere
prima della sponda.
Freddo, calmo, metodico colpo di ritirata! I tedeschi fuggono, ma
uno per uno li stiamo dietro le spalle, e scattando nell'acqua con i
piedi ci rovesciamo giú a braccia larghe intorno al loro
capo. L'acqua aguzza rompe nell'orecchie, negli occhi, nella bocca,
nel naso. Il tedesco respira. E sciampf! nella bocca aperta. E
sciampf negli occhi brucianti. Nelle sorde orecchie. Sciampf.
Sciampf.
Viva il "Dagli!"
Chi resisteva al "Dagli!", amici d'una volta? Chi era capace di
stare sott'acqua come Toci, quando il barbuto Calligaricicicich
cercava di affogarlo con dieci, venti tocciade consecutive? Ed egli
gli respirava in faccia: "cih, cih, cich", e rispariva. Chi sapeva
dar schizzata piú tagliente di Vincenzo? Era come una fiatata
di mostro marino la mezzaluna di mare che balzava su, sotto le sue
mani a cuneo rovesciato. E Steno notava sott'acqua per un minuto, e
Pipi era come un piccolo pescecane predace.
E se uno di noi cedeva nella lotta, per sette giorni doveva passare
attraverso il fuoco di fila dei compagni. Perché il "Dagli!"
era una società con leggi severe, e nessuno s'arrischiava di
disobbedire al nostro capo.
Ora Steno, il nostro capo, è morto. Era un professore che
s'è ammazzato, nevrastenico.
E raccontavo belle storie ai piccoli cugini che m'ascoltavano
accoccolati d'intorno, nell'ombrosa veranda sul mare. Il mare stava
zitto, ascoltando. La casa vicino a lui, dove abitò Tartini,
aveva chiuse tutte le persiane e dormiva, bianca nel sole, con gli
zii e gli altri villeggianti. Silenziose erano le larghe camere
matrimoniali sostenute da travoni squadrati. Era l'ora del caldo e
del riposo. La terra s'ampliava nella distesa del sole. Il cielo era
chiuso e grave. Neanche una vela sul mare. Tacevano le vespe e i
bombi. Un frutto tonfava giú dal ramo. Era il grande silenzio
infocato, quando gli occhi dei colombi stanno chiusi sotto l'ala e
il bue rumina accosciato corpulento sulla paglia fresca.
Ma solo i bimbi in quell'ora si buttano nei prati come un ciapo di
storni autunnali e saccheggiano le ficaie, stroncando i rami aridi,
perché anche il padrone dorme, il signor Vatta dagli
occhietti di gobbo. E poi si raccolgono, a tasche piene, nella
veranda ombrosa e Scipio conta una bella, strana, lunga storia.
È una storia che continua ogni giorno e non finisce
piú. Nella piccola capanna del bosco è nato un eroe,
forte come cento leoni e furbo come cento volpi. Le sue avventure
fanno sgranare gli occhi di stupore, ridere di allegria chi ascolta.
È un ragazzo bello, sereno, buono. È quello che tutti
desiderano d'essere.
E dopo due, tre ore zia Ciuta chiamava ch'era lettera per me, e mi
portava contenta la lettera di mamma. Cara mamma mia. Tu allora
preparavi, nel grande caldo d'agosto, le casse per il trasloco.
Bisognava andar via dalla casa dov'erano nati i tuoi figli.
Sí, mi ricordo che prima di partire avevo visto che rompevano
i muri e i viali del giardino per i tubi dell'acqua, del gas; e
lavoravano muratori, meccanici, falegnami, vetrai, tappezzieri,
terrazzieri. Mi divertivo vederli lavorare. Ma noi s'andava via
perché il nonno era morto e venivano a stare altri parenti,
più ricchi.
E io, tornato da Strugnano, fui molto contento di trovarmi in una
campagna cento volte piú grande, con infiniti frutti e viti,
e molti compagni di gioco. Il giorno che arrivai arrivò pure,
vestita d'una camicia rossa e tocco da fantino, la nipote del padron
di casa. Ucio la guardava, un po' commosso, fra i viticci del
capannuccio.
Bella è la vendemmia. Oltre i vignali vanno grida e risate; i
cani sbalzano, accucciandosi sulle zampe davanti, da questo a quel
gruppo di vendemmiatori, e i passeri frullano sbandati. Il padrone
eccita: "Dai, dai, dàghe, dàghe, forza, prr, prr, prr,
dai, dai!".
Le labbra e il mento sono appiccicose di miele stillato, e le mani,
la maglia, il manico della roncola, i pampani, le brente, i carri.
Tutto è una gomma rossastra. E ci si lava pigiando a palme
aperte gli scricchiolanti grappoli nella brenta.
Buona è l'uva, addentata a grani dal tralcio, mentre dagli
occhi sgocciola il sudore e la palma della mano è stanca
della roncola. Ma ancora questo filare, ancora questa vite, ancora
questo grappolo! Qua con una brenta! Alloo!
E, tornati giú sbalzellando, il pane e il brodo sono buoni
come mai. Si gode della bella tovaglia bianca sotto la lampada.
Domani si ricomincia.
Piovigginava a stento. Sulla melma del piazzale sfilavano due
strisce giallastre di luce. Entrai nella cantina.
«Bonasèra!» «Ah!; bonasèra!»
La cantina era bassa. Nel mezzo, su una botticella fumazzava una
fiamma rossastra di petrolio. Il padron di casa sedeva vicino alla
fiamma, con un bicchiere in mano. Nel volto era del color dei fondi
violacei di botte.
Tutt'intorno gravavano grandi botti brune e tini panciuti. Su i
muri, nei cantoni, tra l'inferriata del finestrino murato c'erano
mille ragnateli stracciati e aggomitolati dalla polvere. Una gatta
baia sotto le botti annusava indolente ma nervosa l'odor di
pantigane che impregnava l'aria.
Uno degli uomini che si rimboccava su i calzoni a sforzo,
perché la dura coscia non voleva cedere, alzò gli
occhi, guardandomi.
Vila era lassú, in piedi, sui tronchi squadrati che reggevano
i tini. Era dritta e fresca, nella sua camicia rossa, e mi sorrise.
Io ero un timido bimbo. E lei mi disse piano: «La salti
su».
I bei grappoli pieni che avevamo colti ieri si pigiavano nel tino.
Spilluccammo i grani piú grossi, stufi d'uva. Mi dette un
grano tondo, grosso come una noce, limpido.
Disse: «La guardi che man che go!». Piccole, ma di pelle
callosa, tagliuzzata alla punta delle dita, nera di pentole, le
unghie rosicchiate. Disse poi: «Lei la ga bele man». Poi
gridò: «Ala, Toni, scuminziemo!».
Lo zio di Vila, il padron di casa, pulí un bicchiere con la
fodera della giacca e m'offrí da bere. Bevvi.
Zappavano l'uva, curvi, aggrappati sull'orlo del tino, anelando come
i taglialegna. Le gambe pelose, rosse, alternavan la battuta con
frenesia, e il tino si squassava sotto i colpi. Gli acini e i gusci
e il succo schizzavano tra le larghe dita dei piedi. Vila stava
dritta, tenendosi sul tino. Le sue unghie eran diventate rosse.
Poi le gambe degli zappatori scomparvero fino alla coscia nello
sguazzacchio vinoso. Il doppio colpo divenne metodico, come di
stantuffo. Pesante e uguale.
Lo zio di Vila beveva, radendosi il succo dai mostacchi setolosi con
il dorso della mano. Il suo grifo era rosso.
Il mosto bolliva nelle botti aperte, sciamante di moscerini
ubbriachi. Assorbivo un caldissimo odore asfissiante. Gli uomini
s'accendevano. Rovesciarono una brenta piena di mosto, e il vino
schizzò a ondata sull'uomo e sul muro, corse a rivoletti
impetuosi, tinse la gatta spaurita. Uno si buttò per terra a
sorbire la motriglia vinosa.
Il padron di casa bestemmiò, rise, mi tese un bicchiere di
mosto. Bruciava. La cantina era bassa e rossastra.
«Vila, un toco de legno per la bota!»
Io corsi prima di lei, per scappar via; ma ella mi rincorse.
Pioveva. La notte era oscura e fangosa. Scridivano gli agostani. Mi
prese per mano e correndo mi baciò il braccio nudo,
sgocciante d'acqua.
Io dissi: «Vila» a bassa voce, meravigliato.
Nella cantina gli uomini zappavano ritmicamente, il padron di casa
beveva, la gatta si leccava il pelo intriso.
Mi sedetti contento per terra. Correvo per una lunga strada piena di
sole. Correvo, correvo.
Quando il sole è alto nel luglio, correndo nei prati l'uomo
si ferma perché il respiro è pieno d'un veleno e d'un
calore cosí dolci e forti ch'egli deve sdraiarsi nel sole e
dormire. Chiude gli occhi, e le palpebre gli fiammeggiano come cielo
infocato, e da tutte le parti s'alzano vampate immense barcollanti
d'albero in albero. L'aria trema inquieta nell'arsura.
Ma m'alzai furioso e corsi in campagna, gridando come un falco
ch'abbia lasciato per la prima volta il suo nido.
La sua camera aveva un intonaco a stampi rossocinerini, mattoni
slabbrati per pavimento, un pianoforte coperto da un canovaccio
crocettato, un letto, un armadio con su boccette medicinali e una
civetta impagliata. Una lastra della finestra era di latta
rugginosa, con un foro per il tubo della stufa. Siccome il foro
s'era slargato, d'inverno, quando mettevano la stufa, Vila incassava
con le punte delle forbici un po' di stracci intorno al tubo. E
fumigavano.
Non era bella la casa dove stava Vila! Io entravo come un ladro
inesperto, ripiegato in tasca il mio frustino da cani, il mio bel
frustino che schioccava con un colpo secco come d'acciaio,
camminando lesto in punta di piedi, trattenendo il respiro. L'aria
odorava di muffa, di polvere, di vino. Qualche volta la porta
dell'ultima camera in fondo, vicina a quella di Vila, era aperta, e
Vila la chiudeva subito. Era un disordine tanfoso di stracci,
bottiglie, cassette, con le pareti scrostate dall'umido, e ci
dormiva la vecia, la mamma del padron di casa, gottosa, reumatica,
gonfia, con baffi neri sul grosso labbro.
La vecia io non la vedevo che di domenica, quando seduti intorno
alla tavola del salotto, bimbi e babe e il fratello del padron di
casa, tutto contento se vinceva un soldo, giocavamo a tombola. Essa
non si poteva muovere. Era seduta su una poltrona portabile, con
ruote, e teneva la destra, grassa come una pera che si sfà,
accanto alla cartella, sul mucchio dei vetrini-segnanumeri. Quando
doveva pagare la cartella, Vila le si accostava, le metteva la mano
dietro la schiena e tirava fuori un sacchetto gonfio di tela grezza,
chiuso con spago. La vecia aveva gli occhietti di un barbagianni di
giorno: erano cattivi e fermi. Io li sfuggivo. Quando seduto accanto
a Vila, ginocchio a ginocchio, facevo finta di giocare, sapevo che
quella vecia vedeva tutto, anche ciò che gli altri non
vedevano, e ci odiava tutti, ma non poteva alzarsi. Avevo schifo di
lei, e non mi fece niente pietà quando un giorno Vila mi
disse che lo zio sputava in faccia alla mamma.
Lo zio era il terrore di tutti. Non era cattivo. Ma beveva rum, e in
rabbia, sputava addosso alla gente e bestemmiava sempre sporcamente.
Ma io non voglio parlare di questa genía! Io voglio bene a
Vila. Vila è buona e bella. Ha una camicia rossa scarlatta,
un berrettino da giochei, scarpettine con tacco alto, e quando gioca
a tamburello salta meravigliosamente da una parte all'altra.
Secchi, netti colpi battevamo col tamburello nell'ampio piazzale
davanti alla grande casa gialla! Quando Scipio e Vila giocano,
gl'inquilini guardano sorridenti dalle finestre e gridano: "Bravo!
bene!". La palla rota come un punto di fuoco da me a lei, da lei a
me: "stan - e stan; stan - e stan". Dice il colpo: ti voglio bene.
Risponde il colpo: ti voglio bene. Il sole è alto. È
l'estate, amore.
Cari tempi erano quelli, amorosi e gloriosi. Mia era Vila, una
signorina, Vila amata da Ucio, corteggiata da tutti i ragazzi della
campagna. Riceveva cartoline da ricchi giovanotti, da studenti delle
lontane università; ma ella rideva con me e mi baciava. Era
mia. Io solo andavo con lei per la campagna, in cerca delle gocce di
gomma sui tronchi dei susini, dei quadrifogli nell'erba, coprendola
colle mie braccia quando pioveva.
Mi accompagnava nelle scorrerie ladresche oltre il confine della
campagna, temendo quando scalavo cauto i muri sconnessi che
minacciavan rovina. Portavo per lei, fra le labbra, la piú
bella pera, ed essa mi calava sui suoi ginocchi e mi baciava
avidamente.
Io ero come un piccolo signore. Ero felice che lei godesse della mia
forza e della mia temerarietà. Perché avevo undici
anni, ma neanche i contadini mi sapevano agguantare in corsa, e
scalai il pioppo e l'elianto che tutti dichiaravano impossibili. Il
padrone di casa mi dette in premio cinque bottiglie di vino; Vila mi
sorrideva impaurita dalla finestra. Era il crepuscolo. Sotto
l'albero i compagni scoppiarono in urli di evviva, e io, sfinito,
temevo il vento come un uccello senz'ali, e guardavo superbo le case
della città che s'accendevano di punti giallastri.
Ah, se ora che Vila è sposata e ha due, tre figlioli che
forse leggono già quello che io scrivo per i bambini, ed
è piú bella, assai piú bella d'allora, giovane
mamma contenta, e non mi guarda nemmeno quand'io passo arrossendo
accanto a lei, si ricordasse dei nostri due anni spensierati! E la
caccia col flobert ai merli e alle gatte? C'era quella civetta
impagliata in camera tua, con l'ali chiuse e inchinata un po' sullo
stecco, solenne come una persona a modo. Aveva i gialli occhi di
vetro, chiari nel semibuio della stanza, tondi, come un bersaglio. E
un giorno tu caricasti misteriosamente il flobert e stic! un occhio
si spaccò. Ricordi? E io ti guardavo felice e meravigliato.
E un giorno ti dissi: «Vila, no ti xe piú quela de una
volta».
E tutto finí.
Ero stufo di lei. Aveva dei gusti strani che mi toglievano la
libertà. Quando assieme ai compagni si dava la caccia con
pali e forconi a un cane rinselvatichito, Vila d'improvviso
s'arrampicava su un albero, e mi pregava: «Vieni su». Io
m'arrampicavo, e guardavo dalle cime alte, scotendole stizzoso.
«Vien qua, dai!» E m'accarezzava i capelli e il collo;
poi mi baciava: e io sentivo le urlate dei compagni in caccia e i
ringhi sfiniti del cane.
Forse anche, Vila non m'amava, non m'aveva mai amato. Avevo
lievissimi sospetti; un colpo di sangue, e sparivano. Io non so
com'era di me. A volte mi buttavo sull'erba, stanco e scontento. Ero
inquieto e mi sarebbe piaciuto star qualche volta solo,
benché avessi bisogno di sentirmela vicina. E perciò,
quando le dissi, quasi senza sapere, quelle strane parole, non capii
perché le avevo dette e per rabbia misi la mano dentro una
siepe di rovo. Vila stette zitta. Io fissavo alcune piccole cose sul
terreno: un ramettino rotto irregolarmente con due foglie passe e
raggricciate, un batuffoletto di seta del pioppo, che s'estendeva
tutt'intorno in lenti filamenti argentei per l'opera predace di
decine di formiche. Ella alzò gli occhi e mi guardò a
lungo. Io sentivo un silenzio che non finiva piú e che mi
seccava assai.
Allora la presi fra le braccia con forza, e Vila perdonò.
Fummo beati e pieni di amore per tutta la giornata.
Ma la mattina dopo Vila mi sfuggí. Correndo a perdi fiato io
l'accerchiai di lontano e sbucai fuori da un cespuglio davanti a
lei. La presi per i polsi e le dissi duro «Coss' ti
ga?». «Ti ga volú ti.» Si svincolò,
e andò via. Poi, dopo qualche settimana, l'incontrai, mi
prese le mani e le baciò.
Io fui subito contento di non esser piú con lei; ma avevo
confusi desideri, non m'interessava niente, m'annoiavo. A volte
disteso per terra, con gli occhi semiaperti nel cielo accarezzavo le
giovani foglie, e d'un tratto m'avvoltolavo nell'erba dura dei
prati.
Ucio è un giovanotto lungo e forte, le braccia pelose anche
alla piegatura, i labbri tumidi, le gengive sanguinolente. Coltiva
nel suo giardino begliomini, daglie s'ciave, crisantemi di S. Anna.
Aveva bisogno d'un fondo per il cesto di fiori che annunziava pronto
da cinque domeniche, e ha rubato la nostra tavola del bucato. Ma
l'adoperò senza raschiar via il sapone incrostato. Aveva
bisogno di rosai perché noi lo burlavamo dei suoi fiori
scempi, e li rubò dal nostro giardino, ma smarrendo sul
terreno il gemello d'ottone matto della camicia. Babbo disse la
domenica dopo in presenza di molta gente: «Go trovà sto
botton. De chi 'l xe?». E Ucio esclamò: «'l xe
mio, 'l xe mio!».
Cosí è Ucio, ragazzone. Il suo rutto puzza d'aglio e
le sue mani sono piote. Quando va a fare la scorreria in campagna,
torna con la camicia carica di pere dure, strappate senza gambo,
come vien vien, ruggini dall'unghie, fracide di sudore del suo
ventre pratoso. Egli non sa distinguere il buono dal cattivo, e
mangia fagioli e patate, e brontola dalle profondità:
«Xe bon, xe bon!».
Ucio è innamorato di Vila. Dice: «Vila xe 'na
stela». E poiché lo zio di Vila l'ha cacciata
infamemente dalla campagna, Ucio cammina a grandi passi su e
giú per il piazzale, poi si stravacca di schianto sulla panca
e giura vendetta.
Io ci sto. Ottima cosa è la vendetta! Sgusciare di notte tra
gli spini della siepe con una lunga stanga in mano e la roncola in
tasca! La notte è fonda e muta. Ormai tutti dormono. Le
persiane del padron di casa sono chiuse. I cani abbaiano dall'altra
parte della campagna.
Ucio dà una risata e diventa bestia. Agguanta la prima vite
che trova e la stronca netta. Agguanta un ramo carico di susine e lo
divarica puntandosi con le zampe sul tronco; poi piomba a terra con
lui. Tonfa un enorme pietrone fra le crote dello stagno che
gracidano a squarciapancia, e l'acqua putrida schizza e l'inonda. Si
scuote, con una scarponata schianta il pesco nano e si slancia
avanti sghignazzando come un satiro in fregola.
Viva la vendetta! Ma io sono quieto e maligno. Apro silenziosamente
la roncola, e incido la vite sottoterra perché muoia e
nessuno saprà perché. D'una stangata rompo la cima del
pero, e m'acquatto di colpo per timore che il crac svegli qualcuno.
Silenzio. Le rane. I cani lontano. Una stella cadente.
Ucio chiama dal melo. Egli divora e stronca: per ogni pomo un ramo.
Io unghio fondo, uno per uno, i grandi pomi che piacciono molto al
padron di casa. Mi lecco le unghie.
Ah? Ucio! come la cacciò via, ah?!
Era una notte come questa. Gridarono nel quartiere del padrone. Il
nostro campanello sonò disperatamente. Balzo a sedere sul
letto, l'uscio di babbo s'apre, apre la porta. Vila si precipita in
camicia piangente: «El me copa, 'l me copa. El me cori drio
col s'ciopo!»
Papà incatenacciò l'uscio. Disse calmo: «Qua
drento no vien nissun. La se calmi». Vila tremava e si torceva
le mani.
«I me lassi andar, i me lassi andar, li prego. No 'l me fa
niente. I scusi. No savevo de chi andar. Ah dio, dio!»
Un pugno sulla porta: «Vila!!». Vila saltò su;
papà la fece sedere e andò ad aprire. Non c'era
piú nessuno. Ma Vila scappò via, corse dalla famiglia
di Ucio, poi rivolò giú a casa sua.
«Porca! puttana! Fora de qua, fora! Va de quela scrova de to
mare! Fora!»
E la cacciò via di notte, con la serva e un fagotto di
biancheria, minacciandola dalla finestra con il duecanne.
«Ah? Ucio?!»
Ricordiamo e ci narriamo godendo della scena drammatica, e poi
decidiamo a freddo di rislanciarci alla devastazione. Ucio
infuriò come la grandine e la bora. Io ero già
annoiato, e mangiando un grappolo d'uva pensavo: "Lavora, lavora,
Ucio! Vila iera mia".
Povero Ucio. Io andai in villeggiatura, in Italia, oltre il confine,
oltre il ponte dell'Iudrio e Ucio intanto, per la vendetta,
bersagliò con il flobert un fanale della carrozza del padron
di casa, e ci lasciò dentro la palla. La sua famiglia fu
mandata via dalla campagna. Io gli scrissi: "Caro Ucio, quando
c'è un solo flobert 6 mm. in campagna, dopo tirato bisogna
levar la palla dal fanale". E cosí a me il padron di casa
voleva molto bene, e quando stetti male mi condusse spesso a caccia.
Perché avevo terribile mal di capo. Ero cresciuto troppo
presto, e letto e studiato troppo nella convalescenza del tifo. Mi
condussero da un dottore che mi visitò tutto, poi si
levò gli occhiali e mi guardò fisso negli occhi.
Fu uno sguardo lungo e una lotta zitta fra me e lui. Io l'odiai
fortemente perché egli vedeva oltre la mia aria da malato.
Non aveva pietà di me. Solo in quel momento m'accorsi d'aver
sempre esagerato con molta verità l'emicrania. E lo guardai
in viso, come a dirgli: "lo non sto male, sto benissimo, sono pigro,
ecco, semplicemente. Mi secca andare a scuola". Sentivo il sangue
corrermi piú sano nelle vene, rialzarsi di colpo il capo un
po' inclinato in atto di debolezza: ero pieno di salute e di forza.
Egli mi guardò a lungo, dubbioso, severo e quasi maligno; poi
mi proibí la scuola e m'ordinò vita selvaggia. Avevo
vinto.
Perché voi non sapete quant'astuzia s'impara guardando come
un'ape entra in un fiore e il ragno chiappa la mosca... Voi non
sapete come un ragazzo possa, obbedendo, costringere i genitori a
fare quello ch'egli vuole. Il nostro mondo raffinato è molto
ingenuo. Basta che voi vi fabbrichiate una situazione in cui
è ormai stabilito come ognuno degli altri si deve comportare.
Se per esempio uno scolaro sviene all'esame di greco, non c'è
professore che abbia l'audacia di non credergli, di fargli ripetere
l'esame e bocciarlo. Ognuno può pensare, dentro di sé,
come vuole, ma v'assicuro che ognuno finisce per credere a
ciò che per convenienza deve fare. E cosí lo scolaro
lo portano in quattro nella sala della direzione, lo posano con le
gambe alte sul bracciolo del sofà, gli slacciano la cravatta,
il vecchio bidello accorre barcollando con la cassetta croce-rossa,
gli toccano il polso, lo spruzzano. - Ma voi non sapete trattenere
il respiro per un minuto. Ah se un barbaro venisse tra noi, compagni
miei, come ci metterebbe tutti in sacco!
Ma questo si dice a cose finite. In realtà io ero ammalato
sul serio di anemia cerebrale e vissi per sei mesi continuamente in
carso. Fu allora che scopersi per la prima volta il mio carso.
Mi conosceva la terra su cui dormivo le mie notti profonde, e il
grande cielo sonante del mio grido vittorioso, quando sobbalzando
con l'acque giú per i torrenti spaccati o franando dai colli
in turbine di lavine e terriccio, d'un colpo di piede rompevo la
corsa per cogliere il piccolo fiore cilestrino.
Correvo col vento espandendomi a valle, saltando allegramente i
muriccioli e i gineprai, trascorrendo, fiondata sibilante.
Risbalestrato da tronco a frasca, atterrato dritto sulle ceppaie e
sul terreno, risbalzavo in uno scatto furibondo e rumoreggiavo nella
foresta come fiume che scavi il suo letto. E dischiomando con rabbia
l'ultima frasca ostacolante, ne piombavo fuori, i capelli irti di
stecchi e foglie, stracciato il viso, ma l'anima larga e fresca come
la bianca fuga dei colombi impauriti dai miei aspri gridi
d'aizzamento.
E ansante mi buttavo a capofitto nel fiume per dissetarmi la pelle,
inzupparmi d'acqua la gola, le narici, gli occhi e m'ingorgavo di
sorsate enormi, notando sott'acqua a bocca spalancata come un
luccio. Andavo contro corrente abbrancando nella bracciata i
rigurgiti che s'abbattevano spumeggianti contro il mio corpo,
addentando l'ondata vispa, come un ciuffo d'erba fiorita quando si
sale in montagna. E l'ondata mi strappava giú a scossoni,
voltolandomi nella correntía e mi rompevo sul fondo
ripercotendomi al sole, strascinato per un tratto sulle erte rive,
fra radici e sassi invano inghermigliati. Poi m'affondavo, e
carrucolandomi per gli scogli rimontavo sfinito la corrente.
Il sole sul mio corpo sgocciolante! il caldo sole sulla carne nuda,
affondata nell'aspre eriche e timi e mente, fra il ronzo delle api
tutt'oro! Allargavo smisuratamente le braccia per possedere tutta la
terra, e la fendevo con lo sterno per coniugarmi a lei e rotare con
la sua enorme voluta nel cielo - fermo, come una montagna radicata
dentro al suo cuore da un'ossatura di pietra, come un pianoro
vigilante solo nell'arsura agostana, e una valle assopita caldamente
nel suo seno, una collina corsa dal succhio d'infinite radici
profondissime, sgorganti alla sommità in mille fiori
irrequieti e folli.
E a mezzo mese, nell'ora in cui la luna emerge dal lontano cespuglio
e si fa strada fra le nubi, candida e limpida come un prato di
giunchiglie in mezzo al bosco, io mi sentivo adagiato in una dolce
diffusità misteriosa, come in un tremor di quieto sogno
infinito.
Conoscevo il terreno come la lingua la bocca. Camminando guardavo
tutto con affetto fraterno. La terra ha mille segreti. Ogni passo
era una scoperta. In ogni luogo sapevo l'ombra piú folta e la
piú vicina caverna quando mi coglieva la piova.
Amo la piova pesa e violenta. Vien giú staccando le foglie
deboli. L'aria e la terra è piena di un trepestio serrato che
pare una mandra di torelli. L'uomo si sente come dopo scosso un
giogo. Ai primi goccioloni balzo in piedi, allargando le narici.
Ecco l'acqua, la buona acqua, la grande libertà.
L'acqua è buona e fresca. Invade ogni cosa. La pietra se ne
inumidisce bollendo. Se si mette il dito nell'umidiccio intorno ai
fusti, si sente come le radici la poppano. Tutte le vite in
patimento respirano libere.
Perché la terra ha mille patimenti. Su ogni creatura pesa un
sasso o un ramo stroncato o una foglia piú grande o il
terriccio d'una talpa o il passo di qualche animale. Tutti i tronchi
hanno una cicatrice o una ferita. Io mi sdraiavo bocconi sul prato,
guardando nell'intorcigliamento dell'erbe, e a volte ero triste.
Triste delle belle creature della terra. Io le conoscevo. Le mie
mani sapevano le fonde spaccature estive dove lo zinzino occhieggia
all'orlo con le sue lunghe antenne, e basta un fuscello o un soffio
a farlo tracollar dentro; i muriccioli di sabbia con cui il filo
d'acqua s'argina maestosamente; e seducevo la formica carica a salir
su una larga foglia di platano per deporla cautamente al li
là dell'alpe. Tutto m'era fraterno. Amavo le farfalle in
amore impigliate nella trama nerastra del rovo, sbattenti
disperatamente le ali in una pioggia di bianco pulviscolo, il bel
ragno vellutato dalle secche zampe che sfilava nell'aria tremula il
suo filo argentino perché s'incollasse sulla peluria uncinata
di una foglia, e tentava con la zampina il filo per slanciarvisi
dritto e tessere l'elastica tela. Ronzava disperata nel mio pugno la
mosca colta a volo; accarezzavo il bruco liscio e fresco che si
raggrinzava come una fogliolina secca; tenevo avvinta per le grandi
ali cilestrine la libellula; affondavo il braccio nell'acqua per
sollevar di colpo in aria il rospicino dalla pancia giallonera;
tentava di ritorcersi l'addome della vespa contro le mie dita e
partorirvi il pungiglione. Squarciavo a sassate le biscie.
Sorridevo agli sbalzelli alati dei moscerini, tagliati dal colpo
imperioso d'una mosca smeraldina, al pispillare roteante delle
rondini, alle nuvole che si trastullano nella luce, rabbrividenti
pudiche sotto le fredde dita curiose del vento, alla foglia
navigante con rulli e beccheggi nell'aria, alle stelle germoglianti
nel cielo quando col vespero si diffonde sul mondo un tepore leggero
come fiato primaverile.
Scivolando negli arbusti, tenendomi agganciato al masso dirupante
con due dita artigliate in una ferita muscosa della pietra,
palpeggiando e sguazzacchiando con la palma aperta sull'orlo degli
stagni, andavo spiando la nascita della primavera. Nel nascondiglio
piú benigno del boschetto, in un calduccio umido di seccume,
ancora ancora quasi riscaldato dal sonno d'una lepre, io frugando
trovavo la prima primola, il primo raggio di sole! l'occhio stupito
della piccola primavera svegliata! E seguivo l'ondeggiar lieve del
suo passo, annusando come cane in traccia, fra radici gonfie e
germogli diafani, dietro un alioso sbuffo di rugiade erbose, di
terra umida, di lombrichi, di succhi gommosi; un odor di latte
vegetale, di mandorle amare - eccolo qui il sorriso roseo dei
peschi, incerto com'alba invernale, cara, cara! e scuoto
freneticamente questo tronco e quello e questo, spargendomi di
petali e di profumi. Per terra schizzano violacee pozzerelle
d'acqua, il passerotto vi frulla con le ali, a becco aperto. Dolce
amata mia, primavera!
Qualche volta mi fermavo nel bosco e alzavo il capo verso gli alberi
alti e allineati. Udivo sgricciar una foglia, cader una coccola, un
pigolío. Poi tutto era silenzio. Io non mi movevo.
Avevo voglia di buttarmi su uno di quei tronchi, stringerlo fra le
braccia, stare con lui. Ma avevo paura di far strepito.
Cercavo lentamente con gli occhi una farfalla, un insetto. Niente si
moveva. Qualche cosa era nascosta nel fogliame, mi guardava, e io
non la vedevo.
Nel bosco rimparai a pregare. Dicevo: "Dio voglimi bene; Dio voglimi
bene". Una volta mi buttai per terra e piansi a lungo.
Salto e sbalzo verso il lembo aperto di cielo. Sotto il sole
lampeggia e rutila in fondo il dolce ricordo. Dove vado? Lontana
è la patria, e il nido disfatto. Ma il vento trascorre con
me, desiderando, oltre il margine roccioso del carso, e sono sopra
il mare, la larga strada del vento e del sole.
Io sono nato nella grande pianura dove il vento corre tra l'alte
erbe inumidendosi le labbra come un giovane cerbiatto, e io
l'inseguivo a mani tese, ed emergevo col caldo viso nel cielo.
Lontana è la patria; ma il mare luccica di sole, e infinito
è il mondo di là del mare.
E la fertilità della terra sgorga pregna di succo nelle
grandi foglie carnose e accende di vermiglio i pomi tondi sulle
piante intrecciate fra loro, empiendo di gioia l'anima degli uomini.
Calda è la messe d'oro, e il profumo dei cedri e delle
magnolie ha colto l'uomo nella sua fatica, ond'egli s'è
ripiegato sulle spighe e dorme ravvolto nel sole.
Pennadoro, nuovo venuto, se tu non dormi, tua è la terra del
sole.
Il monte Kâl è una pietraia. Ma io sto bene su lui. Il
mio cappotto aderisce sui sassi come carne su bragia; e se premo,
egli non cede: sí le mie mani s'incavano contro i suoi
spigoli che vogliono congiungersi con le mie ossa. Io sono come te
freddo e nudo, fratello. Sono solo e infecondo.
Fratello, su di te passa il sole e il polline, ma tu non fiorisci. E
il ghiaccio ti spacca in solchi dritti la pelle, e non sanguini; e
non esprimi una pianta per trattenere le nuvole primaverili che
sfiorandoti passano oltre e vanno laggiú. Ma l'aria ti
abbraccia e ti gravita come grossa coperta su maschio che aspetti
invano l'amante.
Immobile. La bora aguzza di schegge mi frusta e mi strappa le
orecchie. Ho i capelli come aghi di ginepro, e gli occhi sanguinosi
e la bocca arida si spalancano in una risata. Bella è la
bora. È il tuo respiro, fratello gigante. Dilati rabbioso il
tuo fiato nello spazio e i tronchi si squarciano dalla terra e il
mare, gonfiato dalle profondità, si rovescia mostruoso contro
il cielo. Scricchia e turbina la città quando tu disfreni la
tua rauca anima. Fratello, con la tua grande anima io voglio
scendere laggiú.
Perdonami, s'io balzo su come tu non puoi e t'abbandono. È
come se d'improvviso una fonte t'infertilisse sgorgandoti dentro il
cuore. Gorgoglia e fiotta la nostalgia irrequieta. Ho desiderio
d'andare, fratello. Ho desiderio di possedere grandi campi di
frumento e prati ombrosi. La patria è laggiú. Bisogna
ch'io sia fratello d'altre creature che tu non conosci, che io non
conosco, monte Kâl, ma vivono unite laggiú dove calano
le nuvole turgide di piova.
Anni giovani, che vi spalancate tremando come corolle di violette
nella neve, dove volete gioiosi portarmi? Alzo le braccia e le
riabbasso freneticamente come se avessi ali, e a ogni colpo i miei
denti aggrappassero materia piú leggera e tanto diafana che
l'anima mi si spandesse a formar l'alba d'una nuova vita. E sbalzo
sul suolo, ripercosso dallo stesso monte che mi comprende e m'aiuta.
Calo giú.
La bora mi schiaffa a ondate nella schiena e piombo, torrentaccio. I
sassi voltolano e rotolano rombando. Ogni passo è nuovo,
ché se il piede trova traccia si storce e stracolla.
Giú. Il petto rompe a sperone l'aria. Giú, scivolando:
un volo fino al ramo prossimo, al ciuffo d'erba che - un dito
toccandolo - mi tiene in piedi. Scatta il sasso in bilico per
buttarmi a rovina, s'apre in dirupo la terra per accogliermi
sfragellato; ma le mie gambe sono dure e flessibili. Cosí
calava Alboino.
Lichene sotto ai piedi, scricchiolante, rigido; erba giallastra come
foglie morte; un querciolo torto, e eccoli i piccoli verdi pini che
ondeggiano la testa come bimbi dubitosi. Stretti e intrecciati,
cosí che i piedi s'impastoiano, e com'io mi chino ad aprirmi
la strada mi punzecchiano pruriginosi le guance. Procedo: sono tra i
pini giganti. Un contadino con la frusta di pastore si ferma e mi
guarda.
Mongolo, dagli zigomi duri e gonfi come sassi coperti appena dalla
terra, cane dagli occhi cilestrini. Che mi guardi? Tu stai
istupidito, mentre ti rubano gli aridi pascoli, i paurosi della tua
bora. Barbara è la tua anima, ma sol che la città ti
compri cinque soldi di latte te la rende soffice, come le tue
ginepraie se tu vi cavi un palmo di macigno. Fermo nel bosco,
intontito, aspetti che si compia il tuo destino. Che fai, cane! O
diventa carogna putrida a impinguare il tuo carso infecondo. Calcare
che si sfà e si scrosta e frana, tu sei, terriccio futuro.
Di', sloveno! quanti narcisi produrrai tu questa primavera per le
dame del Caffè Specchi?
S'ciavo, vuoi venire con me? Io ti faccio padrone delle grandi
campagne sul mare. Lontana è la nostra pianura, ma il mare
è ricco e bello. E tu devi esserne il padrone.
Perché tu sei slavo, figliolo della nuova razza. Sei venuto
nelle terre che nessuno poteva abitare, e le hai coltivate. Hai
tolto di mano la rete al pescatore veneziano, e ti sei fatto
marinaio, tu figliolo della terra. Tu sei costante e parco. Sei
forte e paziente. Per lunghi lunghi anni ti sputarono in viso la tua
schiavitú; ma anche la tua ora è venuta. È
tempo che tu sia padrone.
Perché tu sei slavo, figliolo della grande razza futura. Tu
sei fratello del contadino russo che presto verrà nelle
città sfinite a predicare il nuovo vangelo di Cristo; e sei
fratello dell'aiduco montenegrino che liberò la patria dagli
osmani; e tua è la forza che armò le galere di
Venezia, e la grande, la prosperosa, la ricca Boemia è tua.
Fratello di Marko Kraglievich tu sei, sloveno bifolco. Molti secoli
giacque Marko nella sua tomba sul colle, e molti di noi lo
credettero morto, per sempre morto. Ma la sua spada è
risbalzata ora fuor dal mare e Marko è risorto. Trieste deve
esserti la nuova Venezia. Brucia i boschi e vieni con me.
Lo sloveno mi guarda seccato. "Brucia i boschi che gli italiani,
gente sfatta di venti secoli, portarono qui per potere andare a
sentire la conferenza di Donna Paola e entrar nella Borsa senza
bora!" Lo sloveno mi dà un'occhiata sghignante, taglia un
ramo, estrae di tasca vecchi fiammiferi che ardon con lenta fiamma
violetta, e accende paziente il foco. Io l'aizzo, ma egli fa un
passatempo di pastore; io l'aizzo come se fossi slavo di sangue.
O Italia no, no! Quando il boschetto cominciò ad ardere, io
m'impaurii e volli correre per soccorso. Ma egli mi disse: "Xe
lontan i pompieri"; sorrise lentamente, raccolse la frusta, e
andò spingendo le quattro vacche.
Io mi sdraiai, sfinito. "Cosí calava Alboino!"
Povero sangue italiano, sangue di gatto addomesticato. È
inutile appiattarsi e guatare e balzare con unghioni tesi contro la
preda: la polpetta preparata è ferma nel piatto. Tu sei
malato d'anemia cerebrale, povero sangue italiano, e il tuo carso
non rigenererà piú la tua città. Sdraiati sul
lastrico delle tue strade e aspetta che il nuovo secolo ti calpesti.
Cosí stagnai, acqua marcia. E il bosco ardeva e la bella
fiamma crepitante insanguinava il cielo.
All'alba rinacqui. Non so come fu. Il cielo era puro e io scorsi la
bella bianca città laggiú, e la terra arata. E di un
balzo, come chi abbia visto Dio, mi buttai su di lei. Sparito era il
sogno e l'incubo: perché io sono piú che Alboino.
Tremando mi caccio nel solco e mi ricopro della terra gravida,
sconvolgendo la sementa. E questo tocco di zolla ghiacciata io
l'addento come pane. Sotto, pulsano le radici. E la mia anima
veramente s'allarga come acqua in una conca immensa, e sento che un
albero lontano sussulta per il vento comprimendo intorno a sé
la terra, e certo quest'idea che mi nasce è la prima primola
nei campi.
A carponi e a tentoni cerco le cose, sbarrando gli occhi, e i rami
invernali pingui di gemme contenute, gli stecchi senza linfa del
vigneto, la terra ghiaiosa che mi preme i calzoni sul ginocchio,
tutto freme com'io lo tocco, perché io sono la primavera.
Rose, rose, rose. E io pungendomi colgo e empio di rose la mia via.
Di qui passerà un giorno ella e mi troverà seguendo la
rossa traccia. Ah anima amata, è nato oggi nel mondo un
poeta, e t'attende.
È nato un poeta che ama le belle creature della terra
perché egli deve ridare puro il loro torbido pensiero, come
acqua succhiata dal sole. E ruba e stronca dalle belle creature
della terra perché egli non è pietoso e sa soltanto di
dover nutrire di sangue vivo. Troppe mammelle di latte nel mondo, e
la forza vitale è debole e accasciata, e gli uomini si
lagnano d'essere vivi.
Nella mia città facevano dimostrazione per
l'università italiana a Trieste. Camminavano a braccetto, a
otto a otto; gridavano: viva l'università italiana a Trieste,
e strisciavano i piedi per dar noia alle guardie. Allora mi misi
anch'io nelle prime file della colonna, e strisciai anch'io i piedi.
S'andava cosí giú per l'Acquedotto.
A un tratto la prima fila si fermò e dette indietro. Dal
caffè Chiozza marciavano contro noi in doppia, larga fila i
gendarmi, baionetta inastata. Marciavano come in piazza d'armi, a
gambe rigide, con lunga cadenza, impassibili. Ognuno di noi
sentí che nessun ostacolo poteva fermarli. Dovevano andare
avanti finché l'Imperatore non avesse detto: halt! Dietro
quei gendarmi c'era tutto l'impero austrungarico. C'era la forza che
aveva tenuto nel suo pugno il mondo. C'era la volontà
d'un'enorme monarchia dalla Polonia alla Grecia, dalla Russia
all'Italia. C'era Carlo Quinto e Bismarck. Ognuno di noi
sentí questo, e tutti scapparono via interroriti, pallidi,
spingendo, urtando, perdendo bastoni e cappelli.
Io rimasi a guardarli con meraviglia. Marciavano dritti avanti,
senza sorridere, senza ridere. La gente che scappava era per loro lo
stesso che la compatta colonna che marciava per l'università
italiana. Io rimasi fermo a guardarli, e fui arrestato.
Un gendarme mi prese per il polso sinistro e andammo. Era una cosa
molto strana. Egli continuava a camminare del suo passo; io cercavo
d'imitarglielo. Gli occhi della gente che passava mi percorrevan
tutto come gocce fredde nella schiena, dandomi un brivido, tanto che
il gendarme pensò: Der Kerl hat Furcht. Ma forse non
pensò niente, e continuava a camminare del suo passo. Ricordo
benissimo che un giovanotto passando estrasse la destra inguantata
per arricciarsi il mostacchio destro, poi tirò fuori la
sinistra per arricciarsi il mostacchio sinistro. Io avevo voltato la
testa per vederlo, sí che, il gendarme procedendo, mi sentii
tirare avanti. Una donna, con un bel boa, torse gli occhi, ma vidi
che rideva. Perché mi lascio condurre da questo imbecille?
Ha le spalline grosse, giallonere. Perché non lasciarmi
condurre da lui? Si va dove non so, ma non è necessario ch'io
sappia. Mi conduce lui, svolta, scantona, e i miei piedi si pongono
sempre paralleli ai suoi. La baionetta scintilla molto lucida.
È carico il tuo schioppo?
Perché non mi risponde? E un garzone di beccaio, invece di
far due passi di piú, salta oltre la panca di passeggio, e il
grembiule macchiato di sangue vecchio si gonfia e sbatte
svolazzando. Appena siamo passati ci guarda e urla:
«Dèghe al giandarmo!». Scappa.
Io vedo bene pulsare l'arteria nel collo di questo imbecille. E le
mie mani sono molto lunghe, e sono come ossa ai polpastrelli. E non
c'è gente. Alboino... Ma io sono piú che Alboino. Io
sono piú che Bismarck. Io stringo insensibilmente il pollice
dentro le altre dita e faccio della mano una piú sottile
prolungazione del polso. Lentamente scivolo fra le sue dita
rallentate per il freddo. Intanto parlo: «Triste vita la loro!
Ché! Capisco bene che lei fa il suo dovere. Quante ore di
servizio hanno? otto? consecutive? e lassú in carso, con
tutti i tempi, di notte». Nella gola mi cantano alcune parole
fresche che la mia bella veciota venesiana me l'insegnò:
"Né per torto né per rason, no state far meter in
preson". Guardo negli occhi il gendarme, strappo, via. Viva la
libertà! Io sono italiano.
Neanche mi rincorse. E io, dopo duecento metri di corsa furiosa,
rimasi male a vederlo impalato, lontano. Poi riprese la sua marcia
cadenzata, toc, tac, in direzione opposta.
Toc, tac, pare che s'avvicini, che sia qua dietro a me, con la sua
mano sulla mia spalla. Filai in un portone: nel casotto del
portinaio c'è un cranio calvo, assiepato da una corona di
capelli fini, di bimbo, curvo su una scarpetta da signora. Esco; mi
pianto la berretta piú salda in testa, mi ravvolgo nella mia
mantella e cammino picchiando con forza il lastrico, come se tra
esso e i miei scarponi sia qualche cosa che bisogna vincere.
Poi corsi al mare.
Nel mare mi lavai il viso e le mani. Bevvi l'acqua salsa del nostro
Adriatico. Lontano, nel tramonto, le alpi italiane eran rosse e oro
come dolomiti. Sui trabaccoli romagnoli calavano le allegre bandiere
tricolori, e il focolaietto di bordo fumava per la polenta. Mare
nostro. Respirai libero e felice come dopo un'intensa preghiera.
Ma m'accorsi, dopo, che la gente mi guardava. I miei scarponi
bullettati eran polverosi e i miei atti curiosi. Non avevo il viso
di quella gente perfetta che camminava su e giú per le rive
senza andare in nessun posto. Era gente che guardava ed era
guardata. I giovanotti avevano larghi soprabiti a campana, con di
dietro un taglio lungo, come le giubbe dei servitori, e bastoni
grossi e lievi che volevano sembrare rami appena scorzati. Le
signorine erano accompagnate dal babbo o dalla mamma, e avevano
stivalini lustri, come i dorsi delle blatte. Erano stivalini assai
piú puliti e limpidi che i loro occhi. Anch'esse mi
guardavano, con contegno; ma s'io le guardavo, voltavan gli occhi.
Non sanno sostenere uno sguardo d'uomo.
Ora in questo via vai i giovanotti schivavano le signorine con
accortezza in modo da sfregarle un poco, ma non tanto che alcuno
potesse dire un bada a te. In generale tutti sorridevano e si
levavano a ogni cinque passi il cappello inchinandosi leggermente di
schiena. Io li guardavo meravigliato, e mi cacciavo tra loro,
stordito dal trepestio e bisbiglio di quell'andar senza ragione.
Andai lentamente per la città, trasportato dal loro lento
fluire. Difficile è camminare tra gente inoperosa. Quello che
precede si ferma d'un tratto; un'altra esce di bottega con la testa
rivolta a ringraziare il commesso che le ha sganciato dalla maniglia
la manica a sbuffi; il terzo vuol camminare dietro a una signorina:
tanto che io, stufo di schivare, misi le mani in tasca e camminai a
linea retta facendo crocchiare le bullette sul lastrico. Stracciai
una sottana e mi lasciaron camminare facendomi largo.
Ma anche cosí, non si è liberi camminando in
città. Ogni vostro passo in città è controllato
da spie che fanno finta di non vedere. I portinai dai portoni aperti
adocchian, di sotto, chi entra; i caffeioli passano lunghe ore
mirando le gambe della gente; la signora tiene stretta la borsetta
badando a destra e a sinistra se alcuno le si avvicini. Nessuno si
fida di nessuno, benché tutti salutano tutti.
E benché io sia coperto molto bene dalla mia mantella, questi
occhi, questo controllo nascosto mi opprimono. I fanali s'accendono
rossi sfolgoranti; le grandi case rettangolari incombono. Se mi
sdraiassi sul selciato? Io sono stanco.
Mi volto bruscamente. Lassú è il monte Kâl.
Perché scesi?
Bene: ora sei qui. E qui devi vivere. Mi abbranco il petto con
le mani per sentire se il mio corpo è, e resiste. E dunque
avanti. Io voglio entrare nella taverna piú lurida di
Cità vecia.
Fumo e puzza. Soffoco. Ma accendo anch'io la pipa, fumo nel fumo, e
sputo. «Camarier! mezo quarto de petess.» Anche
l'acquavita io posso bere, se altri la bevono, e questo bicchiere
è pulito, se altri possono accostarci le labbra e trincare.
Sull'orlo di questo bicchiere ci può essere, invisibile,
l'agonia per tutta la mia vita; ma io bevo. E alzo gli occhi sui
miei compagni.
Un carbonaio, dalla spalla sinistra cresciuta come un enorme tumore,
sputa chiazze nere. Una donna con peli duri sul labbro, spruzzati di
cipria, si netta la bocca con le dita cicciose. Sotto la tavola lo
scamiciato che le sta seduto dirimpetto le tira, freddo, una
ginocchiata fra le gambe. Tra i capelli neri, unti, della padrona
della bettola splende rosea al becco del gas una natta. La guardo
oltre il fondo appannato del bicchiere.
«Camarier! 'ncora mezo quarto!» E picchio col pugno
chiuso sulla tavola zoppa. Mi guardano, e continuano i loro
discorsi.
Accanto a me due figuri con la giacca buttata sulla spalla e la
camicia blu parlano d'una brocca di stagno, come fu rubata. Altri
schiamazzano e cantano. Bene. Niente è qui strano, e tutto
è duro e definito come gli spigoli del corso. S'io dò
un pugno sul muso di quel facchino, lui mi tira due pugni. S'io
faccio la filantropia schiave-bianche a quella donna, essa mi
risponde dandosi una manata sul culo. Sono tra ladri e assassini: ma
se io balzo sul tavolo e Cristo mi infonde la parola io con essi
distruggo il mondo e lo riedifico. Questa è la mia
città. Qui sto bene.
PARTE SECONDA
Eh, ma in città, prima ancora di andar lassú in carso,
io mi annoiai molto. Ora ci penso; e vorrei raccontarvi dei miei
anni di scuola, dei miei cari condiscepoli, delle prime persone che
conobbi; ma non m'interessa abbastanza. Vi scriverei lunghe pagine
seccanti. Invece è bello raccontare godendo delle proprie
avventure e dei sogni. Io mi diverto pensando alla mia vita.
Anche la città è divertente, sebbene qualche volta
m'abbia seccato. Mi piace il moto, lo strepito, l'affaccendamento,
il lavoro. Nessuno perde tempo, perché tutti devono arrivare
presto in qualche posto, e hanno una preoccupazione. Nei visi e
negli stessi passi voi potete riconoscere subito in che modo il
passante sta preparando l'affare. Se guardate bene, siete subito
presi in un gioco eccitante d'operosità, e la vostra
intelligenza batte e rimanda istantaneamente i possibili attacchi
d'astuzia, di coltura, di bontà, di vendetta. Un inquieto e
giovine animale s'agita in voi, e voi andate per le strade ricchi
della sua vita istintiva, com'uno a cui ricircoli il sangue nella
mano stecchita di freddo sotto il guanto. Andate contenti nell'aria
fusa di strepiti e volontà, sentendo che qui, dove
l'interesse d'ogni passante trabocca, comunica, scorre negli altri,
e si scansan gli urti e i carri accogliendo con logica inavvertenza
le mosse altrui qui, nella strada, si decide il domani del mondo.
E io vado per le strade di Trieste e sono contento ch'essa sia
ricca, rido dei carri frastornanti che passano, dei tesi sacchi
grigi di caffè, delle cassette quasi elastiche dove fra trine
e veli di carta stanno stivati i popputi aranci, dei sacchi di riso
sfilanti dalla punzonatura doganale una sottile rotaia di bianca
neve, dei barilotti semisfasciati d'ambrato calofonio, delle balle
sgravitanti di lana greggia, delle botti morchiose d'olio, di tutte
le belle, le buone merci che passano per mano nostra dall'Oriente,
dall'America e dall'Italia verso i tedeschi e i boemi.
Se voi venite a Trieste io vi condurrò per la marina, lungo i
moli quadrati e bianchi nel mare, e vi mostrerò le tre nuove
dighe nel vallon di Muggia, fisse nell'onde, confini della tempesta,
costruite su enormi blocchi di calcare cementato. Per il nuovo porto
minammo e frantumammo una montagna intera. Mesi e mesi di furibondi
squarciamenti che rintronavano l'orizzonte e s'abbattevano come il
terremoto sulle nostre case piene di finestre. E piccoli vaporini,
un po' superbi del loro pennacchio di fumo, facevan rigar dritte
lunghe file di maone tutte pancia, - e dalla strada napoleonica si
vedeva sfolgorar nel mare i carichi di pietra scintillante.
Quest'è il quarto porto di Trieste. La storia di Trieste
è nei suoi porti. Noi eravamo una piccola darsena di
pescatori pirati e sapemmo servirci di Roma, servirci dell'Austria e
resistere e lottare finché Venezia andò giú.
Ora, l'Adriatico è nostro.
Io avrei dovuto fare il commerciante. Mi piacerebbe di piú
trattare e contrattare che studiare i libri. La bella cosa viva che
è l'uomo! le sue mani che s'insaccocciano per nascondervi i
moti istintivi alle vostre parole, i suoi misteriosi occhi fondi che
s'attaccano su i vostri per impedirvi il salto di fianco, la sua
idea precisa, sotterranea, che vi chiama al centro vorticoso
girandovi in spirale ironica dietro le spalle! Bella cosa è
l'uomo, e mette voglia di combattere. Dal suo modo di parlare voi
capite che prezzo bisogna fargli. Egli guadagna tempo, sorride,
pulisce gli occhiali, accende una sigaretta - voi, ecco sapete la
vostra strada e le tappe. Oh! anch'egli è giunto
all'improvviso, e fa finta di non guardarvi, ma tutto il suo corpo
si meraviglia della scoperta e si slaccia gioioso di sicurezza: e
voi siete due uomini smascherati di fronte, e armati che l'altro non
si rificchi nella macchia. Ma chi di voi sa far smaniare quell'altro
della sua insufficiente certezza? Chi sa rigirarlo nelle mani e
spremer acqua dal fuoco e spegnerlo, e bruciarlo secco? Anche domani
è un giorno: e un giorno che può dar mille per le
cento corone che oggi vi siete fatte rubare. Ah quel caffè
che nel Brasile fiorisce male questa primavera!
Primavera, calda primavera, amici miei, nuovo sole su grano nuovo,
strade piú larghe e braccia piene di rami fioriti - e noi
andiamo a scuola con il pacco di libri al fianco. Andiamo fra la
gente e le carrozze, trasognati dietro i nostri desideri di
commercianti, di soldati, di pompieri; levandoci ogni mattina alle
sette, alle sette e qualche minuto di dolce coscienza semisveglia di
letto, ogni mattina, perché, la domenica, c'è messa.
Primavere lampanti ai verdi scuretti. Grigia piovosità
d'inverno. Pomi e pere grasse sugli alberi. Autunno ritornato. Ogni
mattina. Il falegname pialla; - l'officina nera con la macchia
sfavillante, alcuni mezzivisi, un martello in alto; - gli operai con
i calzoni blu sollevare il lastricato e picconare il massiccio
terreno per una conduttura d'acqua o di gas. Com'è triste il
piccone e la vanga nel terreno battuto della città! Si lavora
senza che nessuno vi possa seminare.
Ecco il casamento arido. Otto classi, venti parallele. Qua dentro ho
passato nove anni della mia vita.
Una buona ragazza, di carne incitante e un gIovane alto e forte,
qualche volta triste. Essi si sposeranno fra ott'anni. Essi stanno
seduti su un largo sofà, tenendosi strette le mani e godendo
dei loro caldi corpi.
La mamma vuol assai bene alla figliola, ed è un po' seccata
dei lunghi anni e della serietà del giovane. Sarà
contenta quando si sposeranno, se il giovane non porterà via
la figliola e staranno insieme, allegri e senza tormenti. La zia
corre, alzando e calando con la sua gamba zoppa, a preparare
l'arrosto per la nipote bella che le promette un bacio. La zia
è contenta che essa faccia come vuole il giovane, non vada ai
balli, vada poco al teatro, legga qualche libro. Egli è
l'unico che la difenda contro la cognata, e la zia gode che l'idee
di lui siano opposte a quelle della cognata.
Il babbo, a tavola, si sbottona il gilè e additando con la
mano grassa e unta la sovrabbondanza delle vivande dice soddisfatto:
"Se moro mi, i mii no i ga de magnar". Egli è contento d'aver
sulle spalle un peso sempre piú grave, e brontola sempre
perché i suoi capiscano com'egli sappia lavorar bene.
Il giovane comprende benissimo tutta la piccola famiglia estranea, e
anche l'ammira. E la ragazza è buona, e quando egli la
rimprovera o s'addolora perché non si capiscono, gli dice con
carezza: "Sí, sí, ti ga ragion, ma ti vederà,
studierò, legerò, semo tanto giovini. No stemo esser
tristi, dai!".
E gli anni passano, passano tre anni, e ognuno un giorno vede la sua
strada. Cosí il giovane intruso lasciò la povera
ragazza disperata, salutò la mamma, andò via e
soffrirono per qualche tempo.
Ero stato socio della "Giovine Trieste", non mi ricordo piú
sotto che nome, perché il regolamento delle scuole medie
austriache proibiva allora di far parte di qualunque società,
"specialmente se politica". Pagavo regolarmente i dieci soldi
settimanali. Assistevo regolarmente alle sedute.
Tintinno del campanello automatico, il socio entrava, diceva:
"Bonasera", guardava attorno per trovare un conoscente, si faceva
portare una bottiglia di birra dal custode - un ometto simpatico con
orecchie a vela e naso grosso e lungo, a cui sarebbero stati bene i
colletti a risvolto dei nostri nonni, - accendeva una sigaretta,
leggeva i giornali, chiacchierava. Non si faceva niente, ma ci si
consolava pensando alla preparazione. Tutti si lagnavano della
"Patria", la direzione del partito liberale di cui noi eravamo l'ala
sinistra; ma prima di decidere un leggero rimprovero a questo o quel
nostro uomo rappresentativo, si domandava il permesso alla "Patria".
Una sera, in seduta, quando l'i. r. commissario era già
andato via - perché quando c'era lui si davano annoiatamente
i resoconti di cassa e si leggeva sorridendo la relazione ufficiale,
- si inveí con forte parola contro l'apatia remissiva di
Hortis e degli altri deputati. Poi si votò un vibrato ordine
del giorno; e, come cosa implicita, il presidente domandava chi
volesse venir con lui da Venezian per il nulla osta. Io chiesi
timidamente dalle sedie: «Ma perché domandare il
permesso a Venezian?». Tutti rimasero stupiti. S'alzò
su un giovanotto dal viso insecchito e mummificato in buchi e
angolosità, e sorrise con indulgente compassione fra i denti
guasti, salivando abbondante. Poi disse, un po' tartaglia, ma come
chi la dice buona: «Se vedi che 'l mulo ga de magnar 'ncora
pagnote!». Si sedette contento, e tutti risero battendo le
mani.
Fu quella l'unica volta che pronunziai mezza parola in seduta
pubblica. Del resto brontolavo con i pochi altri ingenui intorno a
un tavolo-scacchiere, progettando ogni sera di formar la "montagna"
nel seno stesso della società. Ma non si concluse mai nulla.
E soprattutto ascoltavo i discorsi dei maggiori, per imparar di
politica, per aver armi contro la zia che disapprovava l'occuparsi
d'irredentismo. Parlavano in generale di trucchi da fare alle
guardie, dell'ultima schifoseria giallonera dei socialisti, del loro
capo ufficio come si sedeva sulla sedia e teneva la penna. Uno
poteva imparare come si fabbrica lo schizzetto triplice per
dipingere di biancorossoverde la k. k. polizia; e poteva anche
essere informato che Franzca del 41 era passata, per cause ignote,
nel casino in via del Solitario. Un giovanottino con un
neo-tre-peli-lunghi raccontava della campagna a Domokos e della
strippata data a Roma per l'anniversario dello Statuto.
Perché la patria era mescolata al risotto alla milanese e
all'ipermanganato di potassa al 3%. La patria era per loro come
quando i giornali pubblicarono il telegramma della morte di
Carducci, e un po' piú in su, un po' piú in sotto,
dicevano della neve in Carinzia, e dell'ambasciatore francese in
viaggio.
Io mi meravigliavo. Io sentivo la patria, esclusiva e sacra. Mi
tremava il petto leggendo di Oberdan. Avrei voluto morire come lui.
E seguivo sulla carta geografica le campagne di Garibaldi,
commovendomi degli eroi. Garibaldi mi fu un venerato amico e dio.
Ancora oggi quando sento parlare storicamente di lui, il cuore mi
balza in rivolta. Io sono ancora un bimbo che vorrebbe combattere
sotto i suoi occhi.
Ma noi nascemmo in altra generazione. Noi cantammo per le strade:
All'armi, all'armi! Ondeggiano
le insegne giallo e nere.
Fuoco, per dio! sul barbaro,
su le tedesche schiere;
scappammo davanti alle guardie di pubblica sicurezza e lontani, a
branchi, continuammo a cantare:
Non deporrem la spada
fin che sia schiavo un angolo
dell'itala contrada.
Non deporrem la spada
fin che sull'alpi Giulie
non splenda il tricolor.
E a casa trovammo la mamma piangente di affanno e di paura per noi.
Ci si bacia, e si va a dormire, soddisfatti.
Io ebbi uno zio garibaldino che a quattro anni mandava in lettera al
babbo un pezzo di pane di collegio per fargli gustare che roba gli
davano; e a tredici scappò dal collegio, di notte, gridando:
"Viva l'Italia!", e camminò, senza un soldo, da Fiume a
Venezia, per arrolarsi con Garibaldi. Non lo presero perché
era troppo giovane; ma gli promisero una lira al giorno per il
mantenimento. Egli prese la lira e la buttò nel canale: che
non voleva soldi da chi aveva meno di lui. Un parente lo
trovò seduto su un rio, sbocconcellante un tocco di pane,
soddisfatto. Da giovane combatté. Era abile commerciante,
pieno di risorse e iniziative. Fu povero, ricchissimo, quasi povero,
agiato. Una volta capitò nel suo scrittoio uno, dicendo che
zio gli doveva dieci fiorini. Zio rispose che glieli aveva
già restituiti. L'altro negò. Zio prese di portafoglio
una banconota da dieci, la pose sul tavolo, prese un fiammifero,
accese una candela, e tenne la banconota, delicatamente per un
angolo, sulla fiamma, finché bruciò tutta.
«Ghe fazo veder che no me interessa de diese fiorini; ma a lei
no ghe devo un soldo. Bongiorno.»
Sposò a modo suo contro la volontà e il piacere di
tutti i suoi parenti; studiò in tre mesi il croato e
andò con la sua donna nelle foreste della Croazia, a fare il
mercante di legnami. Cosicché egli fu sempre per quasi tutti
i parenti uno screanzato mistero da stare in guardia, un uomo
presuntuoso e senza giudizio. Lo sfuggivano seccati; e se mai
dovevano parlare con lui per convenienza, l'ascoltavano come
s'ascolta la storiella mille volte ripetuta del vecchio parroco di
campagna, e guardandolo di sfuggita in viso per presentire che nuovo
tiro meditasse. Pure era ottimo e calmo, benché anima di
passioni. Era alto, e tarchiato di petto: il viso largo, a tratti
grossi, senza delicatezze, ma gli occhi come quelli di mamma, e la
barba bionda chiara, ingiallita dal fumo. Camminava con il passo
delle guide. Parlava lentamente, con voce bassa, profonda, negli
occhi una gioia quasi puerile per ciò che raccontava, ma
d'una puerilità pregna di dolore e disperazione. Non aveva
che la famiglia; e la moglie gli era morta; una figlia gli s'era
uccisa; un'altra aveva abbandonato il marito e s'era fatta
canzonettista. Non piangeva; ma quando, seduto nel nostro salotto,
tossiva, la corda piú bassa dell'arpa di mamma dava una
vibrazione lunga, terribile. Era stanco e quasi sfinito. Mamma gli
diceva: «Eh, su, coragio, ti xe ancora come un
giovinoto!» ed egli sorrideva: «Sí, son ancora
forte; ma...» e sollevava il braccio destro nella posizione in
cui si spiana lo schioppo, e il braccio gli tremava benché
egli alzandolo aveva sperato che gli stesse fermo. «Ma le
gambe le xe ancora bone» concludeva. E ancora, per la terza o
quarta volta, si rimise, a cinquant'anni, e andava a caccia, e
progettava di costruirsi una casetta in carso, vicino a Gropada, su
una terrazza calcarea dominante un vasto orizzonte di grebani e
cielo. Mi ricordo che ci tracciò col bastone ferrato i limiti
dove sarebbe sorta la casa.
Era intelligente e nessuno sa quante cose nostre, che ora a poco a
poco cominciano a esser discusse, egli già ne parlava con
chiarezza, come uno cosí fuori dalle osservazioni e
valutazioni abituali che gli è naturale e ovvio comprendere
verginamente le cose, e si meraviglia che la gente non abbia le sue
idee.
Era sempre in carso e i contadini lo chiamavano "el paron". I
conoscenti gli chiedevano, tanto per dir qualche cosa: «Ma no
ti ga paura d'esser sempre fra quei s'ciavi duri?».
«Ma se no i ghe fa mal nianca a una mosca! I xe boni come
fioi. Ciò, natural! se va uno de quei ebreeti triestini co'
le gambe storte e 'l ghe canta in te le recie: "Nela patria de
Rosseti no se parla che italian", lori i xe a casa sua e i ghe
dà un fraco de legnade, se capissi. Cossa i dovaria
far?» Dopo continuava: «Ma mi vado per i campi, su
l'erba, e nissun me disi mai niente. Un'unica volta, ghe stavo drio
a una pernise, camminavo ne l'erba, e me son sentí ciamar da
un contadin: "Paron, chi me pagarà l'erba?". El iera lontan,
e no 'l se ris'ciava de' vizinarse. Mi lo go vardà. E ghe go
dito a pian: "Vien qua che contemo insieme i fili de erba che go
zapà, che te li pago". Ma ghe lo go dito con un'aria che... e
lú fila via come el levro». Concludeva: «Xe
natural: el s'ciopo no sta mai mal. Ma provè andar in Italia,
in Friul, per le campagne, e po' me savarè dir. Qua i xe
tropo boni, co' sti farabuti de cità».
Odiava la gente vuota e ingiusta, benché nei suoi giudizi
egli fosse tutto fuoco. Non sopportava le chiacchiere di Venezian e
compagni: "... la patria romana... i venti secoli di
civiltà..." - «ma la panza per i fighi! Fioi de cani!
Ve volevo là quando che subiava. I se la saria fata in
braghe.» - Di Garibaldi non l'ho sentito parlar mai, neanche
una volta.
Io ho piacere d'aver avuto questo zio. Gli voglio sempre piú
bene, e qualche volta mi rammarico di esser stato cosí bimbo,
allora, quando viveva, e non averlo conosciuto veramente. Ora
qualche sera poggio la testa sulle ginocchia di mamma e mi faccio
raccontare di lui.
Mi disse una volta che dieci muloni m'avevano aggredito e tutti i
parenti si condolevano del gnocco susinoso lasciatomi in una
guancia; mi disse girando gli occhi quasi sbadatamente: "Spero che
no ti sarà restà debitor de assai".
No credo, zio.
Mamma è malata. Io sto sdraiato accanto a lei sul margine del
letto, accarezzandole la fronte e le mani. Cosí passiamo
qualche ora.
Ogni tanto ella mi guarda e mi domanda: «Credi che
guarirò?». Io la sgrido come una bimba e le racconto di
quando sarà guarita.
Io vorrei difenderla contro il male e tenerla allegra. Mamma
è buona. Ha sofferto assai nella vita, piangendo in silenzio,
e cercando di giustificare chi la maltrattava. Non disse mai una
parola d'odio, si rinchiuse in sé con i suoi figli, come una
povera creatura battuta. Io non perdono a chi le fece male. Io
voglio che la nostra mamma possa godere di noi piú bravi
degli altri.
«Quando sarai guarita verrai un mese con me a Firenze, vuoi?
C'è le colline e gli ulivi, e staremo in pace. Ora son
passati tre mesi, poi passa ancora uno, e dopo facciamo una gran
festa. Io butto il cappello in aria: mamma è guarita.
Vuoi?»
Ella tace rabbrividendo di gioia. E io le parlo e le racconto tante
cose buone, ma sono stanco di questa triste camera oscura, con poca
aria, con l'orologio che batte il suo tempo. Vorrei rifugiarmi al
mio tavolino e lavorare, scrivere un'allegra poesia, uscire in
campagna ed esser solo con il sole e l'aria. Io avrei bisogno di
prosperità e contentezza. Sono quasi irritato contro il suo
male, contro l'oscurità che è calata da tanti anni
nella nostra casa. Si vive paurosi di svegliare negli altri certe
cose che sono sempre presenti dentro di noi; si vive a bassa voce,
guardandoci di sfuggita in viso dopo una risata. Molti giorni si
imbocca la minestra e la carne senza dir parola, sforzandoci a
interessarci dei piccoli che raccontano della scuola. Si vive
cosí da molti anni. E la mamma guarda i nostri occhi che
s'abbassano come in colpa, e non può far niente per i suoi
figlioli. Ella ci bacia il capo, e ci chiede scusa in silenzio.
Un giorno metteva ad asciugare alcuni panni alla stufa e piangeva.
Io le chiesi: «Mamma, cos'hai?». Le chiesi ancora...
essa piangeva e negava, cercava di trattenere lo spasimo, ed era
stanca: «Che hai mamma? perché piangi?».
«Vedi, figliolo, non è niente, gli affari di babbo
vanno male.»
E un giorno babbo tornò da un viaggio, che era stato
anch'esso inutile, e non c'era da far piú nulla. Noi eravamo
seduti intorno alla tavola e cenavamo. Egli entrò, ci
salutò, e si sedette al suo posto. Noi tacevamo. Egli prese
la forchetta e ingollò i bocconi. Ci disse: «Mangiate
dunque!». La sua voce era senza tremito.
Mai ho visto piangere babbo. Gli occhi gli si incassano nelle
tempie, la sua fronte si fa gonfia, ed egli sta fermo con la testa
dritta in su. Egli è un uomo, non si lamenta e s'irrigidisce.
Babbo m'ha insegnato a tacere e a disprezzare il dolore.
E cosí passarono i mesi e gli anni. E io cominciai ad amare
la mia famiglia, e ero consolato ch'essa credesse in me. E mamma una
sera mi disse, poggiandosi sul mio petto: «Figliolo, sono
stanca, vai avanti tu».
Io amo i miei fratelli e i miei genitori perché la nostra
vita è stata dolorosa e confidente. Io vado avanti con essi e
non cedo. Noi vogliamo anche noi il nostro posto. Ci hanno fatto
molto male. Alcuni sono stati buoni con noi, ma non ci hanno capiti.
Noi vogliamo esser noi, con i nostri difetti e le nostre
virtú, liberi di respirar l'aria che ci spetta. Io sono
contento di aver avuto una famiglia povera. Sono cresciuto con un
dovere e uno scopo. Essi mi vogliono bene, e il mio nome è il
loro.
L'orologio batte egualmente il suo tempo e la camera è
stretta e scura. Che sarà di noi se mamma non guarisce? La
sua fronte è sudata, e il suo pallido viso è pieno
d'amarezza.
Voglio oscura la camera. Non filtri il sole dagli scuretti. Io sono
sdraiato bocconi sul letto, immobile, e non penso.
Non soffro. Nell'oscurità dilaga una noia infinita, e io sto
dimentico, intravedendo con disgusto gli scaffali dei libri sulla
parete di faccia.
Ho letto, ho guardato dalla finestra, ho fumato: inutile ritentare.
Non ho voglia di niente, e la camera è fredda.
Sento stridere bimbi in strada, e ombre di carrozze sfumano rapide
sulla parete. Presto sarà notte, e si spegnerà
finalmente anche questo raggio denso di sole che illumina il mazzo
di fiori dipinto lassú.
Intanto gli uomini tornano dal lavoro e si salutano l'un l'altro. E
la terra cammina nella sua via fissa.
Ho girato tutta la città in questa notte di martedí
grasso, annoiato e disgustato senza causa. Forse ricordavo
l'altr'anno, con lei, in caffè. L'ho cercata per tutti i
caffè, temendo di esser visto. Pensavo che le avrei rovinato
maggiormente la serata. Povera putela.
Su per l'Acquedotto ho incontrato un condiscepolo, Nando Baul, che
m'ha fatto entrare alle "Gatte". Era la prima volta che entravo in
un caffè concerto. Guardavo la carne floscia e la gente che
guardava. Il direttore d'orchestra aveva un naso terribile, e le
canzonettiste ci facevano le spiritosaggini. Nando si divertiva, ma
con ostentazione di esperienza. Nando aveva gli occhi lustri. Mi
disse che qualche volta xe piú bel. Credo. Saluti.
Feci un giro per Cità vecia sperando di trovare per le strade
una sporca baldoria. Io sono ancora casto - ma come la vergine che
guai a essere nei suoi sogni - dice all'incirca Nietzsche. Sono
rimasto puro fisicamente per paura di malattie. Forse anche no. Del
resto non importa. Mi sono fatto spiegare dai libri e dai compagni
esperti, e ora sono qui nervoso ad annusare. Avrei gusto di vedere
qualche scena: ma non c'è niente. Odor di piscio. Non ho
coraggio di tener su la testa e guardare agli sburti.
Qua abbasso c'è le solite otto, nove che passeggiano con il
loro andare di oche culone, incappottate sulla camiciaveste. Fin qui
arriva il belletto rosso, qui comincia il viola del freddo, a zone.
Come passo mi toccano il braccio: «'Ndemo su mulo?».
Divento rosso, passo via senza rispondere. Mi fanno schifo.
Schifo terribile. Questa è la ragione. Specialmente i capelli
e le mani. Sento un untume muschiato che non posso sopportare. Se
no, non mi parrebbe niente. Capisco benissimo senza romanticherie.
Io dò tanto; tu dai tanto. È pulito. Porca è la
società che per pulizia ha chiamato ciò... amore. (I
puntini non sono miei: ma della società. Io non adopero
puntini.)
Dal caffè dove bevvi petess la sera della calata, sbocca una
comitiva di ominacci con barba, vestiti da donna; donne spanciate e
altro negrume, urlando, saltando con fanaletti e bastoni. Mi tiro da
parte. Sono contento di avere a casa un letto bianco, pulito, senza
cimici.
Ma una donna, una femmina, per me, per avvoltolarsi insieme nel
letto, per farla urlare di strette e morsi! Questo letto è
troppo grande. Troppo soffice. È meglio dormire con una
coperta per terra.
Andai a vedere al Credit se mi prendevano impiegato. Appena montai
la larga scalinata, piena di stucchi e d'indicibili lampadari, il
silenzio del lavoro mi fece poggiare i piedi zitto, come se
disturbassi, alla fonte, la pulsazione di un mondo misterioso.
Mi dissero ch'era impossibile perché avevo fatto il ginnasio
e non l'accademia di commercio, e poi non sapevo bene il tedesco.
Appena uscito, vedendo il bel verde chiaro degli orti sotto il
Castello, mi tornarono a mente le fantasie puerili salgariane. Belle
cavalcate d'avventurieri ch'incontro ad ogni svoltata della mia
vita, e mi danno il buon saluto augurale inebbriandomi gli occhi con
il luccichio delle carabine strofinate e pronte. Strofinate sul
tavolo, la candela un poco piú in là: e il respiro
della mamma dormente è tanto lungo che la mano strofinante
con foga, su e giú, si rallenta, e s'accorda al respiro
lungo, mentre l'anima comincia a pensare alle difficoltà, e
si riempie di dubbio, come di acqua i fori della tenda appena tolta,
Cominciando la piova. Rividi la brunastra tenda nel primo lume
dell'alba, sgocciante di rugiada, e mi curvai a uscirne dallo
stretto pertugio, guardandomi intorno cauto, spiando gli
scricchiolii dell'erba che si rialzava.
Uno scalone tirato da due cavalloni, carico di stanghe di ferro,
correva a precipizio insordando la città. Il cocchiere,
piantato con le gambe aperte sui due lunghi tronchi scorzati del
margine, frustava e incitava i cavalli. Davanti a quel carro
d'inferno tutti i sogni sparvero. Ero in Corso, fra gente
impellicciata e automobili.
Me n'andai a casa stranito.
Pensavo: picchiar porta per porta. Otterrò d'esser mandato in
una grande casa di commercio dell'Indie, a Rangoon, come Ucio. Un
cinese schiavo moverà nella mia stanza un'enorme ventola
rossastra, perché le zanzare malariche non si fermino sulla
mia pelle. Non scriverò altro che, in inglese: "In possesso
vostra stimata del". Imbroglierò astutamente, come i
commercianti non sanno fare ancora. In tasca la rivoltella.
Risi: perché in India? perché la rivoltella, lucida
come le carabine degli avventurieri? Bimbo, sei letterato. E
rimarrai letterato per quanto mare frammetta tra la tua ultima e la
nuova pedata. Anche se a Rangoon, anche se nell'isola di Robinson,
la ventola ti sembrerà, che so io: l'azione contro le idee:
insomma una di quelle tue immagini strampalate che mettono in
sussulto e in compassione la gente. E scriverai nella tua lettera
d'affari cosa che il copialettere non potrà copiare senza che
la sezione controllo ti dia del matto.
Uscii deluso. Toccai le foglie degli alberi umidi di piova,
sforzandomi a non paragonarle con niente. Un'impressione tattile di
bagnato e di freddo, e basta. Avrei voluto mi fossero
disaggradevoli. Camminai lungamente, evitando di pensare. Poi
decisi: Parto.
Andai alla stazione a pigliare il biglietto di terza classe.
«Per dove?» mi chiese il bigliettinaio. Lo guardai. Io
pensavo di viaggiare senza destinazione; viaggiare perché
speravo in un disastro ferroviario che avesse schiantato due
macchine e piú vagoni, e io mi salvo aggrappandomi fortemente
fra i due valigiai, cosí che l'urto non mi tocca. Poi esco
rompendo il vetro dal vagone rovesciato, striscio a carponi; non
salvo nessuno ma corro alla prossima stazione per avvertire, con
calma, dell'accaduto. «Ha la mano insanguinata» mi dice
premuroso il capostazione. Io la guardo estraggo il fazzoletto e la
fascio. Poi, per favore, domando al capostazione di permettermi
inviare un dispaccio al mio giornale.
«Per dove?» si spazientí il bigliettinaio.
«Per Milano.» E pensai: mi presento al Corriere della
Sera.
Il treno andava a Vienna, e il bigliettinaio dicendomelo sorrise.
Tornai a casa deciso di farmi giornalista.
Il Piccolo mi accettò a cento corone il mese: orario da
mezzogiomo alle sedici, e dalle venti alle tre.
La prima volta che andai a intervistare un'attrice non ricordo
piú se era la Bellincioni o la Tina di Lorenzo - pensavo
mettendo il pollice nel taglio ascellare del gilè bianco:
Rappresentazione d'una novità che non conosco; intervista
antr'act; caffè neri; accendo un sigaro; in redazione:
è il tocco. Ordino in pacchetto regolare le lunghe cartelle
verdognole, le numero: devo scrivere due articoli: la recensione
della novità e l'intervista: in un'ora e mezza. (L'intervista
potevo scriverla la mattina dopo; ma mi piaceva aumentare il lavoro
febbrile.) Bene. Che dirò a lei? È bella. E il Piccolo
è il giornale piú diffuso di Trieste: io, in questo
momento, ne sono il critico teatrale.
Una folata d'immagini come al ritorno delle rondini: ero accanto a
un bosco autunnale, e soffiava la bora, e le foglie d'oro e di
porpora turbinavano intorno a me? Nella mia anima, certo, fu un
subbuglio, un accorrere, un saltellío guizzante, come in una
vasca di parco quando un bimbo butta una mica di pane. Ma il rosso
belletto delle labbra e la polvere d'oro dei capelli di lei mi
parodiò; e io ne fui spaventato come guardandomi in uno
specchio convesso. Scrissi molto male della commedia che m'era
piaciuta, per vendetta, perché anch'io avevo bisogno di
violare la realtà altrui. Ma il direttore si fece portare le
cartelle prima che andassero in tipografia, mi chiamò, mi
rimproverò aspramente e stracciò l'articolo.
Uscendo di redazione, la prima alba mi faceva male sugli occhi
stanchi.
Una notte, dopo qualche anno, una notte di lavoro terribile
perché era morto il papa, io fissavo la lampada a gas sul mio
tavolo. Sentivo andare, borbottare, scartabellare, rombare intorno a
me, sempre piú lontano, lontanissimo, e pensavo,
chissà perché, a Caino e Abele. Dicevo a Dio ch'egli
era molto ingiusto con Caino: perché non accetti il suo fumo?
i rami carichi di frutti e le biade non valgono l'agnello di Abele?
Che male ti ha fatto egli, prima di uccidere Abele? perché?
La bibbia non dice niente. Pensai che questo poteva essere il
pensiero centrale d'una tragedia, e mi misi a ridere malignamente.
Io avevo già ucciso Abele.
Abele aveva teso le corde fra i corni del bufalo fucilato da me, e
cantava. Io l'uccisi. Ma ora le foglie che mi toccavano erano dure e
aspre di veleno come pennini. Desiderai ardentemente: "Abele Abele
se tu fossi ancora melodioso in me, in quest'ora di suprema
stanchezza! Io ho voglia di veder le stelle in cielo e cantare un
grande canto".
Ma mi ghignai.
L'anima mi s'era ormai coagulata per il gocciare della vita
inacidita, rabbiosa, negatrice, e mi corrose in rughe la faccia,
incassandosi una tana nelle occhiaie.
Non vedevo piú le cose, e diedi di cozzo senza sapere in
spigoli acuti onde gli altri mi credettero un eroe. Io andavo per la
strada già scavata, disgustoso a me stesso, desiderando che
qualcuno mi bastonasse a morte.
Una volta anche mi proposi d'uccidermi, ma davanti allo specchio non
potei ammazzare l'essere maligno e ironico che mi guardava. La donna
che m'amava non torse il viso, mi si avvinghiò nervosamente
al collo e tentò con tutta la sua anima di darmi un bacio; ma
le sue labbra non aderirono sulle mie.
Ora sono quieto e viaggio negli espressi.
No, no, la mia vita non fu cosí, ma lo stesso io mi trovo
inquieto e spostato. Io ho trovato compagni e amicizia, e ho
lavorato con essi, ma io sono meno intelligente di loro. Io non so
dir niente che li persuada. Essi invece sanno discutere e dimostrare
che bisogna esser convinti di questa o quella cosa. Io sono
impersuaso e contraddittorio. Bisogna star zitti e prepararsi.
Ma perché essi qualche volta s'accasciano disperando di
tutto? Chi vuol riformare gli altri non ha diritto d'esser debole.
Bisogna andar avanti e dritti. Bisogna accogliere con amore la vita
anche quand'essa è pesante. Bisogna obbedire al proprio
dovere. Essi sono piú intelligenti e piú colti e
piú stanchi.
Forse io sono d'una città giovane e il mio passato sono i
ginepri del carso. Io non sono triste; a volte mi annoio: e allora
mi butto a dormire come una bestia in bisogno di letargo. Io non
sono un grübler. Ho fede in me e nella legge. Io amo la vita.
Ma i discorsi d'arte e di letteratura m'annoiano. Io sono un po'
estraneo al loro mondo, e me n'addoloro, ma non so vincermi. Amo di
piú parlare con la gente solita e interessarmi dei loro
interessi. Può essere che tutta la mia vita sarà una
ricerca vana d'umanità, ma la filosofia e l'arte non
m'accontentano né m'appassionano abbastanza. La vita è
piú ampia e piú ricca. Ho voglia di conoscere altre
terre e altri uomini. Perché io non sono affatto superiore
agli altri, e la letteratura è un tristo e secco mestiere.
Dunque facciamo l'articolo. Da molto tempo sto zitto: è tempo
di risbucare. Lapis rosso: 1, 2, 3, 4, 5...; le cartelle sono
numerate e pronte. Accendiamo la sigaretta. Inchiniamoci sul
tavolino per venerare il pensiero che gorgoglia, commisto
all'inchiostro, giú dalla penna.
Lo sviluppo d'un'anima a Trieste. Comincio a scrivere; lacero; di
nuovo, e altro strappo. Sigarette. La stanza s'empie di fumo, e i
pensieri si serrano come corolle al vespro. Inutile illudersi: non
ho da dire niente. Sono vuoto come una canna.
"Cosa fai qui, davanti a questo tavolino, in questa sporca camera
d'affitto? Anche se tuffi il muso nella frasca verde della boccia
con cui i tuoi occhi, stanchi del grigiume stampato sulle pareti,
cercano di sognare, tu, qui, non respiri. Ora, qui anche Shakespeare
è una pila di libri che ti ruba un brano d'orizzonte.
Dirimpetto, l'Incontro s'inrossa per l'aurora, e se t'affacci alla
finestra e guardi a sinistra, Fiesole è chiara come un
cristallo ambrato. Sul Secchieta c'è la neve. Andiamo sul
Secchieta."
Fasce ai piedi; doppia maglia al petto, un boccone di cioccolata in
tasca: e mentre pesto forte il lastricato della città
perché dai piedi il sangue mi scorra piú caldo alla
testa, penso: "Che ha da fare con la vita dello spirito cotesta
improvvisa scampagnata? C'era un ostacolo in te, un poco piú
alto del Secchieta: e tu invece di pigliarlo di petto e darci dentro
col cranio, gli giri attorno credendo di andare cosí verso il
sole che illuminerà a tuo uso e consumo tutte le cose. Sei
già stanco? e ieri ancora sbalzavi oltre i vigneti e
giú dai muriccioli scontorti e assodati dall'edera che
t'intralciava i piedi, e pumpf! col muso per terra, cervo vinto che
i tuoi coetanei cacciatori sbraitando l'alalà di vittoria
legavan con venchi per le zampe e trascinavano a casa - il viso
rosso dalla scalmana e dal trionfo. Buttavi giú litri
d'acqua, immersa bocca e naso e occhi nella secchia del pozzo,
sbuffando e ingorgogliandoti, senza tregua: sicché l'alenare
delle narici scavava due fondi buchi nell'acqua. Stanco? ".
Qui nel treno che mi porta a Sant'Ellero c'è contadini che
appena montati dormicchiano rovesciando la testa sullo schienale di
legno. Io cammino su e giú per la corsia centrale del vagone.
Stanco? Non so piú niente, ora. Non sono piú in
città. Non ho piú obbligo di dimostrarmi perché
faccio questa o quella cosa. Sono una bestia irrazionale.
Scampagnata, gita, fuga, pazzia, leggerezza, sciocchezza: non so; so
che vado sul Secchieta dove c'è la neve. Scendo dal treno, e
respiro.
Su per gl'intrigati viottoli de' carbonai, che qui là si
allargano in uno spiazzo nero. Dove vado? La collina nasconde
Vallombrosa. Bene, se non mi sperdo; se mi sperdo, meglio. Tocco
vecchi castagnoni senza midollo né carne; l'elleboro nero
è fiorito. Forse i miei occhi troveranno tra le foglie brune
e il musco la prima primola, accanto alla macchia di neve.
Allenta il passo: l'animo si può ingrassare rapinando la
natura. Tutto è fiorito d'immagini intorno a te. Stendi la
mano!: non i getti del rovo tu tocchi, né il cespuglio tenace
delle ginestre, né i sassi della terra: accarezzi e ti pungi
del tuo spirito, che è svolato via da te a crearti il tuo
mondo. S'è abbattuto contro l'oscuro amorfo, e ha piantato di
colpo le sue radici, entro di lui; onde il vento lo agita, rami
invernali gonfi come pugno che piú s'ingrossa come piú
si sforza in se stesso; e i tuoi scarponi marchiano il terreno umido
di linfa succhiata su in mille forme dal sole; e il tuo sguardo si
spande fraternamente nel cerchio divino dei colli verdineri, sotto
il cielo limpido e lieve che par s'elevi - luce - piú in su
dell'aria. Cammina amorosamente nel tuo regno meraviglioso.
Le case di Saltino. La prima neve nei fossi lungo il binario
dentato. Dentro, gambe mie!: è dura e crocchia come ossi fra
i molari d'un cane. C'è degli alberi carichi di gemme
incuffiate di peluria argentea, come strani fiori. Da una stalla
aperta mugghia il muso d'una vacca, e si lecca dentro le larghe
froge. R. R. Telefoni: 50 centesimi e sono a Firenze. Eppure cammino
urlando sulla neve, e non c'è nessuno che si fermi a guardare
il pazzo. Tutt'è bello. Capisco la riforma della scuola media
e il cipresso stronco sotto il peso della neve, che giace infissato
nella neve attraverso la strada e m'obbliga a un salto allegro,
fermati sul petto i lembi della mantella. Ed è buono il
salame, il burro, il tè, il pane casalingo d'una settimana
dell'osteria di Vallombrosa.
Qui è impossibile sian mai venute dame strascicanti lunghe
gonnelle per campi ben pettinati e rasati, né ministri hanno
mai giocato tennis in solino: molti alberghi attendono di
spalancarsi: ma io non credo. Però potrei pigliare a sassi
quelle due aquile insaccate in stracci gialli, appollaiate col
pernio sui pilastri d'un portone.
Ma su, che al Secchieta c'è neve assolutamente intatta.
Nessuna traccia sul dorso del monte: dove sono i giovani italiani?
Aspettano che si bandiscano domenicate invernali con schi e pattini
e signorine. Scrivo con il chiodo dell'alpenstoc le lettere Voce
nella neve. Propongo che la festa vociana sia un'annua salita al
Secchieta, di febbraio. Lupercalia. Ah, ah, in questo momento
qualcuno esce dalla redazione d'un cotidiano e va a dormire! Venite
a bever l'alba sui monti!
E basta: il disotto sparisce. Non c'è che una cosa, alta, non
vista, che bisogna raggiungere. Nessun'immagine. I rami sono rami
irrigiditi che scattano sul viso se ti sfuggono di mano. Picchia il
tacco nella neve per farti il tuo scalino, e un altro piú in
su. Ficca l'alpenstoc. Anche se affondandosi tutto, t'avverte che la
neve è alta come te, non camminare a serpentina; pianta
dritte le pedate.
Niente mi giunge dentro di consentaneo, attorno a cui s'affollino
l'idee e lo poppino e lo assimilino restituendolo mio, frutto
dell'anima piú profonda. Tutto è sensazione di
ostacolo che bisogna vincere: io e il monte siamo; altro no. E non
devo esser che io, in vetta.
Ti volti a contemplare? Sei già stanco che ti metti a fare il
poeta, caro amico mio? Se i polpacci ti scoppiano e la schiena ti si
ripiega insieme e per ogni centimetro di conquista stronchi col
viso, col petto un ramo; e un altro ramo, e rami chissà fino
a dove ti aspettano, duri, ghiacci, ipocritamente velati di
neviscolo come una fiorita di mandorli, e i ghiaccioli ti si
frantumano nel collo, negli occhi abbacinati dall'eterno luccicor
del bianco; e il berretto che ti sguizza giú ti costringe a
ricalare, e l'alpenstoc ti s'incunea tra ramo e tronco,
cosicché tutte le cose indispensabili tentano d'impedirti
ciò che devi - agguanta coi denti la lingua che vorrebbe
imprecare, e cammina. E se la neve intenerita dal sole cala sotto il
tuo piede, in modo che tu potresti adagiarti dolcemente su essa, e
riposare, non cedere alla soffice bontà, non poggiar lieve
gli scarponi: batti, affondati, tirati fuori e avanti lassú.
E lassú - non sai dove, perché forse tu non cammini
verso la cima reale, delle carte geografiche - e il tuo lassú
è grave di nebbia, forse; onde tu raggiuntolo a cuore
spasimante non vedrai gli Appennini imbrunirsi come giovane carne
sotto il sole, né la neve immensa, che tu hai vinto,
accendere i colori, né lontano, in basso, Firenze. Ma tu,
amico mio, ti sei levato da tavolino per salire sul Secchieta; e
s'anche tutte le opinioni della strada, che ti si sono infiltrate
nell'orecchio dalla finestra, col frastuono dei barocci
scampanellanti e le canzoni sporche di vino indigerito; s'anche
tutta la vita degli altri è presente in te pur ora e tenta,
come una ventata polverosa, di storcerti il collo verso quello che
hai già superato a rimirarlo, e accosciarti, tra l'alto e il
basso, sulle tue gambe stanche; anche se in eterno tutta la
città e la sua stanchezza è in te e non la puoi
sfuggire - non importa: tu vai in su: questo solo è vero; tu
devi: questo solo è bello.
Un dirupo nevoso che mi permetto di superare a zigzag: l'attacco due
tre volte con l'unghie. E...
Sul Secchieta c'è una bassa cappella con una madonnina
dipinta. Ho acceso un fiammifero per timore che vi fosse dentro il
lupo. Sono sgusciato strisciando per il pertugio ostruito dalla neve
e sono ruzzolato sotto la madonnina.
Penetro con le dita spalancate nell'acqua del mare, come tra i
capelli morbidi e resistenti d'una donna; e m'arrovescio sulla
superficie a riposarmi. Le piccole onde sbattono mormorando al mio
orecchio, come il cuore della donna all'amante che riposa su di lei.
Allargo lo sguardo: e il mare s'increspa sotto il sole. La sua anima
è quieta e serena, ed egli si stende sulla spiaggia soffice e
si culla cantandosi piccole parole; e cerca con dita di bimbo le
conchigline e i granchietti fra la ghiaiola della riva.
Mi riposo sul mare. Passano sul cielo bianche nuvole e migrano. Se
sollevo un poco la testa vedo tremare gli ulivi di Muggia:
nient'altro. Il riposo è grande e infinito.
Una barca apre lenta la vela, si sbanda leggermente, e esita. Poi
va, raccogliendosi il poco vento. Io sono qui, portato dallo
smuoversi lento dell'onde increspate.
E il mare mi porta lontano dove io non veda altro che mare e cielo,
e tutto sia zitto e pace. Apro la bocca e fra i denti mi scorre
l'acqua salsa, e il corpo si lascia calare lentamente nel mare.
Son qua per terra come un cane in agonia e i nervi mi si inturgidano
per il bisogno d'amare, e stiro la testa come se un capestro mi si
avvincolasse sempre piú stretto intorno al collo. Poi balzo
in piedi e guardo nella notte. Dove sei creatura bella che un giorno
mi devi amare? Guardi nella notte? Sotto le stelle l'aria ha uno
scintillío come di specchio e noi ci vediamo.
Creatura fresca, dentro all'anima tutto è speranza di vita
come in un bosco sotto la calura. La piccola erba carezza il ceppo
rugoso, tremando nell'aspettativa. La terra mormora, l'acqua
è vicina. Ecco l'acqua, la fresca acqua. E tu sei qui fra le
mie braccia, creatura.
Io ti posso baciare perché mi sono conservato puro. Ho
sofferto e pianto per te. Ora è agosto, e i rami rigurgitano
di succo e si drizzano smaniosi. Io voglio abbrancarti furioso e
sentire questa tua carne intatta torcersi sotto le mie dita, qua
sulla terra calda come il mio sangue, perché tu devi esser
mia.
O creatura bella, io non so che colore abbiano i tuoi occhi, ma sono
azzurri perché la grande aria su di noi è azzurra. Non
so dove tu sia, ma guardi dall'alto e rassereni come il sole. In
tutte le cose tu sei perché tutto io amo: nella campanula
bianca del prato e nel fiume che ti rispecchia e va per l'ampia
pianura portandoti nel suo cuore.
O creatura nuova, non so chi tu sei, ma ti sento dentro di me come
se nell'anima un seme mi radicasse. E sono un bimbo che va su per un
monte verde, saltando e cogliendo fiori, e d'un tratto gli s'apre
davanti la valle con i suoi villaggi e la città lontano,
piena di luce nebulosa.
Tu sorridi di certo, perché le stelle scintillano tanto
questa notte. Sento il tuo sorriso sul mio volto come un soffio di
vento in un ciuffo d'erba. Ah cara! tutti i miei pensieri vanno
verso di te come l'api intorno a un fiore dolce. E vanno e vanno a
turbinare intorno a te, creatura mia.
Tutte le cose son vere; ma alcune accadono ora, altre accadranno nel
futuro. E s'io ti racconto in questa triste notte invernale d'una
fata che viene portando odoranti fiori in grembo, tu mi devi
credere, o povera anima mia.
Ho voglia di cose lievi,
dove mi conduce un volo
di rondine, l'orecchio
sfiorandomi. Il sole è tiepido
come guancia adolescente.
Camminando leggermente
vado verso a bianchi meli.
Lunghesso la strada
un ramo d'olivo
il volto mi tocca.
Cose fresche! Rose
gonfie di rugiada;
erba su d'un rivo.
Ah se potessi
baciar la tua bocca!
Il notturno sogno dei fiori si disperde come la rugiada della prima
alba lo tocca. Eppure volentieri io sentirei le tue labbra sui miei
occhi quando la mattina penso cosí dolcemente.
Andiamo per i prati senza sentieri, perché oggi un tiepido
sole ci carezza le palpebre. Camminiamo lungamente, godendoci il
sole invernale e le piccole viole fra le foglie dell'edera sparsa
sul suolo.
È un giorno che l'anima è portata in alto dal proprio
fiato. Se respiriamo, lasciamo bianca vaporosa traccia di noi
nell'aria.
Andiamo ancora avanti un poco, dove il sole scalda il tronco del
bianco platano, e poggiamoci la fronte leggera. Sotto ai piedi
fruscia l'erba nuova, mentre andiamo tenendoci stretti per mano e
guardando tra le ciglia.
PARTE TERZA
Ho ritrovato il mio carso in un periodo della mia vita in cui avevo
bisogno d'andar lontano. Camminavo spesso, lento, alle rive per
veder la gente che partiva. Studiavo l'orario dei piroscafi
lloydiani, e se avessi avuto qualche centinaio di corone sarei
andato in Dalmazia, a Cattaro, poi mi sarei arrampicato su fino a
Cettigne, poi chissà? nell'interno della Croazia dove
c'è boschi immensi e bisogna cavalcare lunghe ore per
arrivare a una casipola di legno bigio. Il pater familias è
ancora l'antico ospite. Di notte, quand'uno non può dormire,
sente un canto triste che lo culla. Forse piuttosto sarei andato
nell'Oriente.
Guardavo i bragozzi ciosoti che con una gran spinta si staccavano,
gonfi e carichi, dalla riva. Il padrone della barca si levava la
camicia per non infradiciarla di sudore, s'arrampicava sull'albero,
e agganciandosi con la gamba sulla scala a corda sbrogliava la vela,
giallastra a macchie mattone. Tutta la notte avrebbero corso
l'Adriatico col borino, e poi un altro giorno, e un altro sotto il
sole. Specialmente mi desideravo la piena calma marina, se il vento
fosse cessato improvvisamente.
Avevo bisogno di star solo. Andavo per le strade poco frequentate,
nell'ombra degli alti casamenti rettangolari, e mi guardavo intorno
spiando di lontano il viso dei passanti. Temevo d'esser conosciuto,
d'esser salutato, di dover salutare. Un amico mi mandò una
cartolina: perché non gli scrivevo? "Poiché non vuoi,
non vengo. Ma non è bello che tu sia cosí scontroso ed
egoistico nel tuo dolore. Proprio ora l'amicizia ti farebbe bene."
Tutte buone care persone: ma io ero in cerca di lontananza.
Stavo solo, nella mia stanzetta, e ogni sera sentivo battere lente
le nove, poi le nove e mezzo, poi le dieci, poi le dieci e mezzo...
Il tempo camminava come si va nei pomeriggi domenicali, portandosi
addosso la noia di tutti gli uomini. E ogni notte sentivo passare
una carrozza nella via, poi la voce di tutti i nottambuli che
gridavano alla moglie o alla mamma per la chiave.
Ecco - pensavo - ora mi metto a leggere, piglio appunti, studio. Ma
calavo la testa sulle braccia raggomitolate - e non potevo piangere.
Non potevo dormire. Ero sotto l'incubo di un'afa grave. E uno usciva
di casa nella notte e camminava con passi stanchi. Sognavo di una
lunga notte di bora, che i pochi viandanti camminano curvi contro di
essa, senza pensare. Mi sognavo soprattutto di cedri infissi nel
fondo del mare, che a poco a poco impietravano. Avevo bisogno di
sassi e di sterilità. E mi ricordai del carso, e dentro ebbi
un piccolo grido di gioia come chi ha ritrovato la patria.
Quante storie mi raccontai quella notte! M'ero sdraiato sul
materasso poggiando la testa sul braccio destro, e ero un bimbo che
aspettava con occhi aperti un po' di lume alla fessura della porta e
la mamma entrasse: "Non dormi? È tardi. Dormi, dormi. Ti
racconto una storia".
Avevo pietà e tenerezza per me stesso. E mi raccontavo a voce
alta una storia del carso: "Molti anni prima di noi una donna del
carso con capelli biondi, aveva partorito un piccolo che tremava
anche sotto la pelle d'orso. Allora lei poiché il suo fiato
non bastava, accese il fuoco per la prima volta. Il piccolo crebbe e
non andava a caccia. Mangiava carne cotta e le notti d'inverno
quando si svegliava d'improvviso e non vedeva la fiamma,
l'oscurità e il freddo entravano in lui, ed egli pensava
strane cose, rabbrividendo. Dalla volta della grotta stillavano
gocce, piú lente del battere del suo sangue, e come cadevano
sullo strame del giaciglio egli sentiva camminare fuori della
grotta. Ma molto lontano; chissà dove, chi era?
"Pascolava le capre; si ficcava dentro un cespuglio e guardava il
cielo tra le frasche. Un cervo passava annusando, un uccello
fischiettava, e quei suoni entravano in lui e si intricavano. Poi
dormiva un poco. Poi tornava al calar del sole, e raccontava con
parole chiare come le foglie dopo la piova. La sua famiglia
l'ascoltava.
"Un giorno, mentr'egli raccontava, vennero uomini, il torso come
macigno spaccato dal ghiaccio; ammazzarono la famiglia, rubarono il
fuoco, e condussero lui in servitú."
Anche altre storie mi raccontai. Ma poi fui stanco, e non potevo
dormire. La mia testa erano tanti pensieri rotti che nascevano e
svolavano via da tutte le parti, portandomi in mille posti
contemporaneamente. Sudavo. Allora m'alzai, mi vestii in furia,
intascai il mio coltello a serramanico, e andai. In via Chiadino
c'era ancora una coppia d'amanti, e la donna giocava con le dita del
compagno che la teneva avvincolata a sé. Io pensai: "Quella
donna gli può benissimo morire proprio questa notte". I cani
abbaiavano. Appena su, verso Kluch, dopo la stanga giallonera della
dogana, io fui solo e respirai. Camminavo senza pensare.
Anche questa mattina s'è alzato il sole. E come al solito i
muratori camminavano nella strada silenziosa, con i loro grossi
tacchi. Ho visto una donna dirimpetto alla mia finestra spalancare
le imposte e chiamare il figliolo ch'era ora di scuola.
Dentro di noi s'accumulano molte nausee e schifi, e un giorno escono
e ci appestano l'aria che respiriamo. Secca assai vestirsi,
mangiare, alzarsi dalla sedia, ed è inutile; ma è
meglio non turbare le abitudini e mettere un piede davanti all'altro
perché ci hanno insegnato a camminare. Soltanto non porre
ostacoli alla noia, perché allora il pensiero s'agita e fa
patire; ma se no, la vita procede calma, senza scosse né
sussurri.
Silenzio e pace. Si cammina per le strade senza far rumore. Non
bisogna svegliare. La gente dorme, male, bene, ma dorme. Nessuno ha
diritto di svegliare il sonno di nessuno. Passa qualche nottambulo,
e una guardia di pubblica sicurezza piantona a passi larghi. Vicino
ai fanali senti il fruscio del gas ch'esce dal beccuccio. Un tratto
di luce; la tua ombra cammina davanti a te, poi si smarrisce un
poco; una seconda ti segue; si fa piccola, s'avvicina, eguale a te.
Ti puoi fermare, sdraiarti su lei, nel lastricato della
città, e dormire anche tu. Ma puoi anche andare avanti,
svoltare a sinistra o a destra, è indifferente. Ora sei in
mezzo a una puzza di petrolio bruciato; poi, quando questa zona
finisce, comincia la ventata calda di grasso dalla cucina d'un
albergo. Tu puoi camminare fino all'alba per la città zitta,
mentre la polvere cala lenta per terra.
Piove. È una giornata lunga. Il campanello suona: entra
Guido, lascia cader l'ombrello nel portaombrelli, va in camera sua,
butta giú i libri, va a mangiare. Mamma passa piano vicino la
mia porta, perché spera io riposi.
Il giorno s'allunga eguale e infinito.
Un carro traballa lento per la strada. Odo picchiare su ferro. I
colombi tubano sul cornicione della casa. Non so che sarà
della mia vita.
Due uomini passano vicino e si salutano levandosi il cappello. Uno
ha un viso triangolare, tutt'ossi, con occhi stanchi e erranti;
l'altro cammina a piccoli passi svelti, tutto contento. È
contento d'aver appetito. È contento della sua casa, della
giovane sposa che lo aspetta alla finestra. Ha il Piccolo ripiegato
in tasca e porta un cartoccio di ciliege per il pranzo. -
Perché si sono salutati? Che rapporto vi può essere
tra questi due uomini? Tutta la vita è intrecciata
cosí ridicolmente. Nessuno può capire l'altro, ma
s'infinge d'amarlo e d'odiarlo. Perché? L'altro fa un atto e
allora si dice che ha fatto bene, che ha fatto male. In nome di che
cosa?
Io passo e lascio passare, e guardo questa ignota vita come un
forestiero. Io sono qui perché in questo momento cammino per
questa strada e vedo un orologiaio curvo su un panchetto svitare una
molla con una piccola punta di acciaio. Tien stretto nell'incavo
dell'occhio una lente a tubo, naturalmente, senza increspare un
muscolo per lo sforzo. Nella bottega mille pendoli dondano
ritmicamente e mille lancette segnano l'ora identica e gl'identici
minuti. Tornan da scuola le bimbe del Liceo, a frotte, tutte vestite
di turchino, e cianciano occhieggiando di straforo i giovanotti che
fanno l'aspetta.
Un ragazzotto spruzza d'acqua il selciato davanti a un negozio, poi
entra, esce con una scopa e butta la polvere in mezzo alla strada.
Un fiaccheraio dorme rannicchiato nella carrozza, sui cuscini
rovesciati, e il cavallo, con il muso insaccato, mastica la biada. I
colombi di Piazza Grande ogni tanto si levano a tormo e volteggiano
in grandi cerchi, poi ricalano e zampettano fra le fossette d'acqua.
Il soldato bosniaco davanti al palazzo della luogotenenza marcia a
passi duri, si volta in tre tempi, torna in su.
Dove sono? L'aria calda mi fa socchiudere gli occhi, e cammino
trasognato. Cammino lentamente e guardo come un forestiero stanco di
viaggio, e che tuttavia debba vedere perché qualcuno lo
attende pieno di affetto e interesse. Ma nessuno m'aspetta e nessuno
si sederà accanto a me tornato chiedendomi con occhi amorosi:
"E dunque? come fu il viaggio?".
Io sono solo e stanco. Posso tornare e restare. Posso fermarmi qui
in mezzo alla piazza finché il sole mi faccia vacillare e
cader per terra; e posso andare fra il frastuono dei carri come nel
silenzio della notte, perché in nessun luogo c'è
riposo per questa mia grande stanchezza.
E i carbonai che dalla maona carrucolano le ceste di carbone sul
Baron Gautsch mi guardano con quei loro occhi infossati e sanguinosi
meravigliandosi del mio interessamento.
Uno tosse, sputa, l'aria gli riporta sul torso seminudo, impastato
di carbone e sudore, i lunghi filamenti di mucco e forse egli pensa
stizzosamente che io ho compassione di lui.
No, no: io sono indifferente. Soltanto non capisco. Vedo che si
lavora intorno a me. Un bastimento greco imbarca grosse travi; due
pescatori issano la grande vela scura, gocciolante; un gelataio
grida la sua merce; uno con occhiali neri nota su un libruccio il
numero sacchi cemento; un servo di piazza si fa avanti con il
carretto rosso; s'accosta, spumando, il vapore di Grado; un manzo
tira un vagone carico di balle di cartone. Sul vagone è
scritto: Troppau-Triest-Rozzol-Assling. Ora un treno sbuffa su per
il colle d'Opcina; un altro arriva a Pola, un altro rintrona sul
ponte del Po. L'aria è piena di strepito. Il movimento
s'allarga. La terra lavora. Tutta la terra lavora in una grande
frenesia di dolore che vuol dimenticarsi. E fabbrica case e si
rinchiude tra muri per non vedere reciprocamente i propri corpi
avvoltolarsi insonni fra le lenzuola, e si tesse vestiti per poter
pensare che almeno il corpo dell'altro è sano e regolare, e
congegna milioni di orologi perché l'attimo l'insegua
perpetuamente frustandola avanti nello spazio, come una dannata che
si precipiti senza tregua per non cadere. Non fermarti mai per un
minuto, o laboriosa terra!
Cosí sentivo; e stavo fermo, come se fossi nel punto morto
della terra. Avrei voluto pregare i carbonai di lasciarmi lavorare
con loro; ma ridevo malignamente e pensavo: Sí, sí,
lavorate. C'è sempre dentro di voi il mistero come un piccolo
grumo che non si scioglie. Lo portate con voi in tutte le vostre
faccende, ed esso sta quieto e buono per darvi l'unghiata
all'improvviso. Mangiate il vostro pane e bevete il vostro vino;
crescete e moltiplicatevi; perché del pane che mangiate e del
vino che bevete si nutre il vostro mistero, ed è l'unica
verità certa che i vostri figlioli daranno ai loro figlioli.
Incallite le vostre mani e il vostro spirito penetri oltre i tessuti
piú stretti e sia cosí limpido da farsi specchio a se
stesso. Torturatevi ogni membro del vostro corpo con tutti gli
istrumenti di lavoro, e anche, se volete, buttatevi su un letto
comodo e affaticate il vostro spirito. Il mistero non lo estenuate.
In che parte di voi è rintanato il piccolo mistero? Potete
stritolarvi tutti, e il vostro ultimo sguardo non lo vede. Lo potete
anche cercare nelle notti stellate e tra i filoni di ferro, sotto,
nell'oscurità, fra le radici delle foreste. Anche, se volete,
potete ammazzarvi; ma la palla che passa oltre le vostre tempie non
lo brucia, e esso vive in voi anche dopo voi, eternamente, il
piccolo mistero che ha fatto questa bella distesa di mare e ha fatto
noi e ci ha fatto costruire i piroscafi rossoneri.
Ridevo quasi forte. M'accorsi che mi guardavano. Allora ebbi
ribrezzo di me. Stetti duro, fermo. Ero tutto infetto. Mi pareva che
una mia parola avrebbe impestato il mondo. Guardai il mare largo,
puro, e avrei voluto pregare. Ma no: tutto il mio dolore è
mio, tutto il mio strazio è per me solo. E mi rinserrai il
petto con le mani, e fui un sussulto di dolore attorto contro se
stesso. Mi parve di poter morire perché il mio segreto
bruciava avidamente il mio sangue, rosso, come il sole maledetto che
tramontava nel mare.
Perché non lavori? Ricordati che qualcuno ha sperato in te.
Ella aspetta, e non è contenta. Ogni minuto che tu implori
è un delitto. Pesta il capo dentro il tavolino, ma lavora
benedicendola. È giusto che sia morta, perché tu sei
un vigliacco.
Mi sedetti al tavolino, presi la penna, cominciai a fare scarabocchi
sulla carta, e facevo freghi con su scritto il suo nome.
Improvvisamente mi spaventai e corsi allo specchio. Guardavo fisso i
miei occhi e mi domandavo: "Sono molto lucidi? Ma Vedrani dice che
non si può capire dai segni esterni se uno è pazzo.
Non sono pazzo. Sta calmo, Scipio". Guardavo le cose riflesse nello
specchio. Le cose riflesse nello specchio - per legge fisica - sono
distanti dagli occhi come sono distanti dallo specchio le cose che
si riflettono. Cercavo di calcolare se anch'io vedevo cosí.
"Se mi pesto devo sentire dolore. Ma anche i pazzi lo sentono. Come
posso avere una prova esterna che io non sono pazzo? " Il tappeto
nello specchio faceva un angolo con il tappeto reale. Guardavo per
la prima volta, come un bimbo. I lunghi fili rossi, i lunghi fili
blu. Corsi in stanza da pranzo; c'era Vanda che lavorava. - Ora
parlo. - Ma non potevo. Avevo terrore della mia voce. Giravo su e
giú. Se fosse strana, e Vanda mi guardasse spaventata?
"Xe in casa mama?" Ma no, no: avevo domandato con naturalezza e
semplicità. Tornai in camera mia. Mi buttai per terra,
tenendomi stretta la testa; la chiamai, due volte, tre volte,
quattro volte, cinque volte..., e continuai a dire il suo nome
lungamente, lungamente, a bassa voce, sempre piú piano. Poi
mi misi a ninnare: Din, don, campanon - Tre putele xe sul balcon -
Una la fila, l'altra la canta, - L'altra la fa putei de pasta - Una
la prega sior Idio - che 'l ghe mandi un bel mario... Poi non
ricordo piú. Mi prese il sopore. Mi rialzai dopo pochi minuti
e stetti calmo. Non so per dove passai. Ma molte volte ho pregato la
pazzia e la morte.
Vorrei farmi legnaiolo della Croazia. Amo le frondose querce e la
scure. Andrei al lavoro camminando un po' storto a destra per l'uso
del colpo, e il lungo manico della scure ficcata in cintola mi
batterebbe la coscia.
Il capo mi dà una manata sulla spalla, ridendo tra denti
bruni. Il capo è forte e esperto e noi gli obbediamo con
riconoscenza. A noi piace esser comandati. Il capo beve petecchio
come acqua, e non traballa mai, ma andando coi suoi passi ben
piantati vigila dall'alba alla notte il lavoro - e gira per la
foresta come una grossa bestia affamata. Se tu non lavori, subito
senti dietro alle spalle uno schianto di rami, una risata di
cornacchia infuriata e una pedata in mezzo della schiena.
Ma il capo è buono e mi dice: Uh, Pennadoro! Ho scoperto una
pianta per te. È dura di cent'anni. Come va la scure? Alla!
alla! stavolta mette il primo dente. Il primo colpo, qua. Sentirai
che carne!
La mia scure è bella, col manico lungo di rovere, e un occhio
quadrato. Ride freddamente come il ghiaccio. È svogliata e
pigra, piena di disprezzo. Ama starsene affondata nell'erba guazzosa
e contemplare il cielo. Qualche volta si diverte di giocar con le
teste dei cespugli e i getti spumosi del frassino. Allora sorride
come una bimba della saliva amarognola che le sgocciola sulle
guance. Ma piú spesso è triste e tetra.
Ah, ma quando si scalda come dà dentro! Dà dentro come
una bestia infoiata. Piomba, piccola e chiara, senza respiro, e han!
come un tuono che scoppi, è incassata nella carne
dell'albero. Tutta l'aria attorno ne vibra, e i fringuelli rompono
la nota. Si disficca a stratte per assaporar bene la ferita, si
libra a dritta ala per un istante, immobile, e han! è dentro
all'ossa. La quercia sussulta drittamente, senza piegarsi, e
accarezza con le frondi basse i quercioletti giovani, attorno, per
non impaurirli, come se solo il dolce vento del mare la muovesse. La
grande quercia è silenziosa come una madre che muore.
Ma la scure canta. La scure s'alza, s'abbassa e canta. Ride
rutilante, rossa. È come pazza. Io n'ho paura. Non vedo che
questo lampo davanti che fischia e scroscia. Han! han! Non sento
piú le mani. Il lampo mi sbatte contro l'albero, e mi ribatte
via! Han! Piccola mano d'acciaio, distruggiamo la foresta!
Perché dunque ci estrassero dalla terra? Dormivamo quieti nel
tepore umido delle radici. Piú fondi ancora eravamo, eravamo
il buio cuore duro della terra. Venne giú un'ondata di luce,
ci squarciarono, ci portarono al sole.
Ebbene: ora viviamo. Ora vogliamo sole sulla terra. Grande sole di
deserto. Sole che spacchi le fronti. Distruggiamo la foresta!
I colpi cantano senza respiro, fra il ronzar dello scheggiume. Ah
com'è buono arrivare al cuore della vecchia quercia! Il colpo
s'insorda. Via! - Un crollo: rintronan gli echi lontani.
Ora gli squartatori e squadratori hanno lavoro per una settimana.
Sono venuti i bimbi a vederla morta per terra, e ne unghiano la
corteccia lichenosa con roncolette dal manico rosso. Sono contenti.
M'hanno dato fragole e lamponi. Io mi frego con l'indice disteso il
sudore delle sopraciglia e li guardo.
Vorrei essere piuttosto sorvegliante d'una piantagione di
caffè nel Brasile. Ho parlato oggi con un negoziante di qui:
dice che sapendo lo spagnolo potrei farlo benissimo. Basta un po' di
durezza. Badare che lavorino.
Dar di frusta non fa male. Avrei piacere di assaggiare quelle larghe
spalle di meticci. È strano che la gente non crederebbe io
possa essere aguzzino. La gente non crede ch'io sono freddo e calmo
e che la loro miseria mi dà semplicemente un senso di noia.
. . . . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . . . .
. . .
E io?
Io sono come voi, non badate. Le mani del giovane barbaro sono
diventate bianche e deboli come le mani delle femmine. Ora è
tempo di sognare: alberi spaccati, schiene frustate, altre cose.
Tante altre forti cose.
Mamma mi diceva timidamente ch'era naturale non dormissi, tutto il
giorno su e giú per la tua stanzetta senz'aria! - Come un
condannato: cinque passi in su e cinque in giú, fra due
scaffali di libri letti e riletti e un muro bianco dove sta scritto
da tanto tempo: Tutte le cose son vere, ma alcune accadono ora,
altre accadranno nel futuro. E s'io ti racconto questa triste notte
invernale d'una fata che viene portando odoranti fiori in grembo, tu
mi devi credere, o povera anima mia. - È passato parecchio
tempo. Ora il piccolo salmo è tagliato con un frego del dito.
E scritto anche, a lapis rosso: Guardami ben: ben son, ben son
Beatrice.
Su e giú, giú e su. E poi sedere davanti a questo
piccolo tavolinetto, e poi sdraiarsi per terra. In strada
gl'innumerevoli bimbi urlano e piangono e tiran sassate sulla
ruletta chiusa dell'erbivendola. Tornano in rimessa, con gran
fracasso, i carri d'una fabbrica di birra. La casa grigia di fronte
è orribile. Quando piove, sgocciola di sudore giallastro. La
luce invade camere soffocate, angoli di grandi armadi scrostati, uno
straccio per terra, una donna grassa che si leva le calze. A
qualunque ora del giorno sono ammassate sulle finestre lenzuola e
coperte stinte. Tutto il giorno c'è una brutta baba sdentata
che sbraita discinta dalla finestra contro il suo bambino: "Ah,
porco! Dove te xe, fiolduncàn?" 'Speta che te guanto mi,
mulo! Cori, Paulin! Che dio te maledissi in tel anima, porco de
mulo! 'Speta mi, co' te vien a magnar!". Tutto il giorno. Alle
diciannove e mezzo una moglie alza lo sportello della finestra e con
una piccola in collo aspetta il marito che viene a passi brevi, col
bastoncello. Ogni sera. La notte passano comitive di ragazzoni
cantando l'inno della Lega o dei Lavoratori. All'alba i muratori
camminano battendo con i loro tacchi di legno, e la donna apre le
imposte e chiama il suo figliolo che è ora di scuola.
Usciamo, perché qui non si può piú stare.
Andavo nel bosco di Melara. Traversavo i prati e mi godevo del
sussurro dei piedi fra l'erba già alta, camminando
lentamente, un po' curvo, a capo scoperto, sotto il sole, come chi
va spiando da piccole tracce e piccoli strepiti una cosa che
s'allontana cautamente.
Tutte le carnose papilionacee, rosse, gialle, screziate, sono in
fiore. Le foglie delle querce s'inturgidiscono di succo, e i ginepri
sono piú coccole che aghi: coccole verdognole, lisce, fresche
come gocce marine. I tronchi dei platani si spellano, e
all'annodatura i primi rami sono gonfi di muscoli crespi come
braccia di forti creature. L'erba dai prati s'allarga sulla strada
maestra.
Dolce principio d'estate in cui tutto è vivo. Io sento
d'intorno a me la sicurezza meravigliosa della vita che s'eterna.
Cede la primavera benignamente, con piovere di petali sanguinei e
bianchi al vento vaporante, mentre i calici ingrossano e
s'insolidano e le farfalle rompono il bozzolo filamentoso e le
guaine dei nuovi germogli si ripiegano secche e scolorite. Ancora
ondula qualche fraschetta gommata e rossiccia, e avvolta
dall'esuberanza dell'erba ancora qualche viola impallidisce negli
umidi nascondigli: lievi parole infantili che tornano sulla bocca
della donna che ha partorito.
Io mi sdraio sotto un rovere e guardo svolettare tra le foglie mille
insettucci rosso turchini, in amore. Tutta l'aria sul mio capo
è piena dei loro brevi svoli. Alcuno cade sfinito, si
agguanta al filo d'erba inarcato e drizza le sue antenne,
stupefatto. Per il tronco gropposo scende e sale la doppia carovana
delle formiche; dall'erba sbalzano sui miei vestiti esili puntolini
neri come cicale minutissime. E mi slungo piú fondo in questa
forte erba fiorita, e sono pieno di dolore e di morte.
Sta quieto. Il cielo è chiaro, come dopo un'acquata. Nel
turchino del cielo lo sguardo si riposa calmamente, come nella
distesa del mare. Veleggia un cirro bianco tremolando. Gli orli
delle foglie contro il sole lameggiano d'argento. Riposa. Il vento
che vien da lontano ti porta un buon sogno se tu stai fermo e
lentamente t'assopisci. Reclina il capo sulla terra. Ora ti giunge
un suono tranquillo di campana. Vicina è la patria.
No, non posso dormire. Le braccia dormono, abbandonate lungo i
fianchi, gli occhi dormono; tutto il corpo e l'anima smania verso il
ristoro del sonno: ma una, una cosa veglia che nessuna nenia di
mamma addormenta e l'acqua che a goccia a goccia fluisce vicina non
placa, e il vento non porta via tra i fiori con sé, natura,
natura! Una cosa. Non posso dormire. Le stoppie vecchie dell'erba
inquietano come questo pensiero che neanche nel sonno mi dà
pace ed è insolubile a tutte le buone virtú della
terra, ed è duro, e mi tormenta in ogni posto. Non posso
dormire. Un disgusto orribile storce le mie guance per tutta questa
vita piena di gioia che mi circonda. Che ho commesso io di non
potermi fondere dentro quest'ora calda in cui una divina certezza
d'amore freme da foglie e tronchi e fiori e uccelli e sole? Ficco le
dita aperte nel groviglio dell'erbe come si fa per scoprire la
bianca fronte dell'amata, e gli occhi suoi mi guarderebbero fissi
serrando l'infinito fra i nostri due sguardi. Dov'è la tua
bocca, creatura, ch'io la baci? Dove sei?
Solo m'hai lasciato qui. E posso percorrere tutte le vie e i monti e
i mari della grande terra, e in nessun posto ti ritroverò
piú. Sono ampie e immense le strade del vento piene di spume
e ondeggiamenti; ma tu sei piú in là. E se anche il
sole mi fa chiari questi stanchi occhi, io non ti posso piú
vedere, tanto lontana sei andata. Quando la notte è viva di
stelle, ti cerco negli spazi immensi; ma l'infinito è senza
di te, perché io non ti posso piú stringere fra le
braccia, creatura.
Ed eri fresca e odorosa come l'alba. Eri un'alberella di primavera.
Quando tenevi la mia mano nella tua bella mano lunga, dovevo
camminare dritto, con passo fermo. Io ti guardavo negli occhi
irrequieti, curiosi di foglioline sotto le foglie secche, che
improvvisamente si spalancavano meravigliati o profondi come il
dolore, e ti sorridevo. Cantavi a bassa voce, limpida come un filo
d'acqua tra l'erbe. Dolce creatura! E quando chinavi la testa sulla
mia spalla, io ti tenevo il mento nella mano, t'accarezzavo le
guance e i fini capelli, e una tenerezza tremante mi prendeva non
potendo io comprendere che tu eri mia. Piccola, piccola!
perché m'hai fatto questo male?
Solo m'hai lasciato qui, dopo averti baciato. E ora non c'è
pace piú, in nessun posto, anima. Dove potremo nascondere la
nostra amarezza? Alziamoci e camminiamo con i nostri cotidiani passi
lenti, in cerca della nostra solitudine.
Il carso è un paese di calcari e di ginepri. Un grido
terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni,
scontorti, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi.
Lunghe ore di calcare e di ginepri. L'erba è setolosa. Bora.
Sole.
La terra è senza pace, senza congiunture. Non ha un campo per
distendersi. Ogni suo tentativo è spaccato e inabissato.
Grotte fredde, oscure. La goccia, portando con sé tutto il
terriccio rubato, cade regolare, misteriosamente, da centomila anni,
e ancora altri centomila.
Ma se una parola deve nascere da te - bacia i timi selvaggi che
spremono la vita dal sasso! Qui è pietrame e morte. Ma quando
una genziana riesce ad alzare il capo e fiorire, è raccolto
in lei tutto il cielo profondo della primavera.
Premi la bocca contro la terra, e non parlare.
La notte; le stelle impallidenti; il sole caldo; il tremar
vespertino delle frasche; la notte. Cammino.
Dio disse: Abbia anche il dolore la sua pace.
Dio disse: Abbia anche il dolore il suo silenzio. Abbia anche l'uomo
la sua solitudine.
Carso, mia patria, sii benedetto.
Ma una notte il dolore fu quasi piú forte di me. Lo sentivo
raccogliersi a goccia a goccia, e l'anima sí chiudeva arida e
indifferente, cercando di non dargli presa. Io so la paura. Non si
capisce altro: ora quell'uomo viene avanti e m'ammazza. Io non posso
muovermi. Non posso sottrarmi. Fare strepito, no. Devo guardarlo
fisso.
Cosí era di me. Camminavo rabbrividendo sulle scaglie
calcaree, sonanti come piastre di ferro ai miei passi, fra cespugli
e pini giovani. Lo strepito dei miei piedi non mi faceva terrore; ma
mi sgomentavo, sudante, come la scaglia toccata scivolava piú
in giú, urtando le altre, crepitando fra stecchi e foglie.
L'anima era stanca e non voleva piú patire. Voleva rimanere
sola e oscura. Pregava con nenia, che non venisse il dolore, che non
venisse l'affanno, che la lasciassero sola e oscura. Ma non c'era
pace nella preghiera; non m'ascoltavo. Ero tutto teso e doloroso
verso uno sfrondare improvviso, un lampo, un colpo di fucile, uno
scroscio. Una terribile cosa presentita; che mi può cogliere
qui, da questa macchia nera, dietro quel muricciolo, eccola.
Correvo, per sfuggire il dolore che m'inseguiva fra i cespugli
mossi, verso il cielo aperto, dove si vede da tutte le parti
intorno, nella luce dell'orizzonte stellato.
Ma nell'infinito notturno fui piú solo e senza difesa. Solo,
col mio dolore, unico compagno, buon compagno, da reclinare la testa
in lui e piangere. Piansi come un bimbo sperduto. La luna
bianchissima nell'aria, soffusa sui sassi e sulle piante da
inumidirsi le labbra e toccarla, fredda, con la mano. Il mare sotto
di lei s'innalzava in una strada d'argento, procedente a larghissime
spire. Nell'immensa luce d'alba l'orizzonte lontanissimo guardava da
tutte le parti, penetrando indifferente in ogni cosa. E io piangevo
solo, alta ombra nera osservata e vana.
M'accoccolai fra le rocce a picco sul mare, nascondendo
vergognosamente la faccia nelle mani. Io non credo in Dio, non credo
in Dio. Ma forse lei è qui sopra di me, in questa luce senza
scampo, in questo cielo, in questa terra. Anche tu sei qui con me.
Forse anche tu soffri. Aiutami, creatura. Ch'io senta solo una
sillaba della tua voce e la tua mano sulla fronte, perché
è silenzio e solitudine qui, e nessuno disturba. Intorno,
nessuna cosa respira. La terra si può aprire e restituire la
sua preda. Il cielo si può riunire per ricrear la sua forma.
L'anima è diffusa in tutte le parti; ma io voglio averti
ancora qui, amore. Io posso farti rinascere. Basta ch'io creda. Io
credo che tu puoi rinascere. Tu non sei ancora morta. Aspetti prima
che ritorni. Io ti scrivevo che si sarebbe stati contenti assieme.
Vedi, quando s'ha te tutto è cosí semplice e bello.
Arrivederci presto, amore. Aspettami presto. In luglio sarò
di ritorno. - Allora, quando ti scrivevo questo, tu eri già
morta. Ma ora sono tornato, e t'aspetterò fino all'alba,
perché tu sei ancora mia, e non è possibile che tu sia
morta. Non avermi abbandonato! Sta' con me, piccola. Ti prego, ti
prego. Creatura. - Non alzavo la faccia per non disturbare la sua
volontà. E bisogna credere e star fermi e credere. Un tocco
fra i capelli. Forse era il vento. La terra è chiarissima
sotto la luna. Perché tu sei eternamente morta.
Ella è morta. Non è comprensibile questa parola.
Nessuno la può veder piú. Nessuno ode piú la
sua voce. È morta. Io non capisco la morte. Io non so nulla.
Io sono davanti alla morte e la guardo incantato come guardo questa
roccia spaccata sotto ai miei piedi. Ma io non voglio morire,
perché non so che cos'è la morte. Ella è in una
tomba nella pietra liscia, nella bara, serrata con viti. Come
facevano quando invitavano le viti? Ella è con le mani
distese lungo i fianchi. Di fuori c'è un nome e due date.
Bisognerebbe strappare quella lapide. Bisogna portare tutti i
ginepri del carso sulla sua tomba. Porterò un macigno grande;
e rami di quercia giovane, perché tu stia sotto il fresco
delle foglie, e i boccioli, e i narcisi, tutti, cosí i fiori
non nasceranno piú in carso. I fiori del carso seccano sulla
sua tomba, brava gente mia! Avanti, avanti, cercate se siete bravi.
Io li ho presi tutti, e ora scendo e la porto quassú con me e
stiamo in pace. Occorrono tutti i boschi di pino per bruciare il suo
bianco corpo.
Riposiamo, riposiamo. Ella è morta, è inutile. Uno
vive tra noi. Per anni e anni. Ha bevuto il latte d'un'altra donna,
ha imparato a scrivere da un altro, ha insegnato a scrivere a un
altro. Io le ho dato un tormento, tu hai sofferto per lei.
Sí, perché aveva degli amici, e quando essi eran
lontani a lei pareva di non essere neanche viva. Ha parlato con
migliaia di persone. Ogni suo atto e ogni sua parola è
allacciata con i nostri atti e le nostre parole, e forma un cosa
unica, non sua, non nostra, di tutti noi, di tutti. Niente
interviene. Un piccolo niente, un atto di volontà: un attimo:
quella persona non è piú eternamente con noi.
Com'è possibile che uno può morire mentre gli altri
continuano a vivere? Io non domando com'uno può morire, io
domando come gli altri continuino a vivere. Egli è morto,
egli solo. Gli altri alla mattina dopo vedono levarsi il sole. Si
stampa il suo nome sul giornale. I treni corrono. Potete già
leggere il suo nome nell'avviso mortuario del giornale comperato in
una stazione intermedia. Io non patisco. Anche questa signora qui di
faccia legge il suo nome sullo stesso giornale che ho in mano io.
Trentamila copie. Io vado a vederla morta. Ma questo non fa niente;
ma io domando: se egli solo, egli addolorato da noi, egli amato da
noi, egli solo è potuto morire, continuando la nostra vita
dunque l'odio, l'amore, la comprensione?
Nessuno può penetrare dentro una persona e amarla cosí
perfettamente ch'essa sia legata a noi come corpo nel corpo. Uno
può morire poiché nessuno lo può comprendere;
dentro ogni individuo c'è un segreto tutto suo che l'amante e
il maestro non toccano. E l'individuo è per l'eternità
staccato dagli altri individui ed egli aspira a esser tutto, dalla
punta delle dita alla sua fede, tutto un segreto invisibile, senza
che gli altri lo possano cercare, muto e solo; egli aspira alla sua
pace d'individuo, dove la sua forma non sia turbata dall'altre;
esser tutto suo. Ed egli patisce finché non arriva: questa
ricerca è la vita. L'individuo desidera di morire dagli
altri. E naturalmente noi non possiamo comprendere la sua morte.
Già da bimbo esiste nell'uomo il rimpianto. Già allora
sentiamo che ci manca qualche cosa che godemmo e che s'è
persa, e piangiamo; e tutti gli uomini assieme, tutta la storia
degli uomini non può consolare il piccolo bimbo che rimpiange
una cosa. Questa è l'umanità in cui ho creduto.
Lavorare è cercar invano un ristoro per la cosa perduta.
Ognuno si cerca, ipocritamente, selvaggiamente, sul corpo della
donna, nella mano dell'amico, nella fede, in Dio. Ognuno, vanamente.
Io solo, quassú, solo, sono sincero; ma anche la solitudine e
la sincerità non bastano. Non basta sapere. Io penso in
parole che gli altri pensano. È necessario morire. Solo
questo è indispensabile: essere.
Ma com'è possibile che l'individuo sia, quando ha raggiunto
la sua solitudine e non c'è piú ostacolo davanti a
lui? Egli muore imperfetto: come si perfeziona senza misura, meta,
mezzo, attività? Egli muore uomo. Che cosa avviene nello
spirito individuale che muore, perché si possa mutare
cosí integralmente il suo carattere umano? Dunque l'ultimo
atto di vita è l'integratore dell'individuo? In quell'attimo
egli è perfetto, e gode umanamente della sua perfezione
divina, perché nessuna cosa umana può morire prima
d'aver raggiunto la sua meritata divinità.
Ma chi ha detto ciò? Che verità afferma che per morire
bisogna esser perfetti? Questa può essere l'illusione con cui
tu hai tenuto su la tua debole vita. Chi dimostra che c'è
perfezione nell'individuo? Egli può anche morire benissimo
essendo imperfetto, rimanere inespresso nella sua parte ottima, per
tutti i tempi inespresso, senza possibilità di futuro. Con
questa eterna, ferma angoscia. La morte non è pace. La morte
è un tormento orribile. Ma lo sente? rimane la coscienza
individuale? Il tormento orribile del tutto attraverso di te. O il
tutto patisce senza riposo?
Il tutto? cos'è? T'hanno abituato a questa parola. Forse non
esiste un tutto, esistono parti staccate che cercano inanemente di
fondersi. Qual Dio t'ha rivelato che la morte sia sola? Può
essere un tuo pensiero d'angoscia. Può essere che neanche il
tuo tormento piú duro tocchi la verità. Non è
scritto che ci sia una verità. Perché è
necessario che ci sia? E anche se c'è, al dolore non è
dato la grazia speciale di veggente. Quest'è la rettorica del
dolore veggente. Perché il dolore dovrebbe essere piú
profondo della gioia? La cosa pensata da tutti non è
necessario sia vera. Per esempio, cosa parlano di annullamento nella
pace cosmica, di trasformazione organica perché nasca una
forma particolare?
Ma può anche essere vero, chi ha detto di no? La tua superbia
di non appagarti in ciò che gli altri dicono. E che vale la
tua superbia davanti al mistero? Tu sei uno che non sa perché
perisce questa pianta adesso che l'hai strappata di terra. Era una
pianta di timo. Sei venuto quassú, portato dal suo profumo.
L'accarezzavi tanto. Le volevi bene. Era una dolce pianta di timo.
Snella, con un ciuffo lieve, odorosa. Tu l'hai strappata
perché non hai capito cos'era. Tu non l'hai capita,
perché sei un letterato. L'avresti radicata piú fonda
nella terra, nessuno piú l'avrebbe potuta strappare. Potevi
esserle dio. Ora marcisce. Nascerà nuova vita da essa. Vita?
ma mille vermi e mille gramigne valgono la pianta di timo che hai
fatta morire? Dio, perché i buoni, perché anche i
buoni? Ma è dunque necessario alla vita che i suoi scompaiano
perché essa possa continuare? Cosí debole è la
vita. Indifferente, senza legge. Muore anche il buono perché
anche il cattivo nasca. Nessuna legge. Non un buono per un cattivo:
sarebbe legge. Buono o cattivo, buono e cattivo: ma queste son
distinzioni nostre! Nell'universo non c'è legge. Regna ancora
il caso, anche ora che è nato l'uomo e la volontà. Tu
ti sforzi d'esser buono, ma la natura non ricava niente da questo
tuo sforzo. Ma gli uomini sí, gli uomini! E, signori uomini,
dopo gli uomini? dopo la vostra alta sapienza? L'universo nuovo
sarà migliore perché Dante ha scritto? I Prigioni di
Michelangelo terranno sulle loro spalle la notte eterna
perché non fracassi la terra che gira intorno al sole, e il
sole che gira intorno a Ercole, e Ercole che gira intorno - Intorno
a che cosa? - Ma tu uomo, tu che vivi e obbedisci alla tua
coscienza, sapendo che non migliori niente, sei un eroe. Sei il
tutto di fronte al niente. Dio tu sei.
Dio? - Ma non potrebbe anche essere che tu vivi soltanto
perché ci sei abituato e ti secca provare l'ignoto? No, non
facciamo storie grandi; vediamo semplicemente come stanno le cose.
La vita è dopo tutto molto comoda per chi non sa arrischiarsi
nel largo mondo. Chi esce dalla casa può smarrirsi, non ti
pare? E c'è una persona che ama assai il suo cervello e il
suo largo petto. C'è qualcuno che vive perché è
ambizioso; ma, umile, dovrebbe morire. Costui sogna nella sua
superbia di avere un compito e una strada, ma che conti tu in
realtà? senza fede, senza lavoro, senza amore, carne
accasciata! Il tuo spirito è soggetto al caso. Una persona
è morta: e tu non credi piú. Sei una forma qualunque
dell'universo che solo in questo può essere superiore:
vincere l'orgogliosa abitudine, e morire. Tu ti puoi persuadere del
mistero. Puoi rinunziare. Essere umile, sereno.
L'abisso non fa orrore. Si può scivolare giú. Solo
bisogna lanciarsi piú in là per non portare con
sé i sassi fragorosi. Andar giú zitti. Non disturbare
il freddo silenzioso dell'universo. Come l'acqua nell'acqua.
O, o! - ma anche può essere che tu non sai sopportare un
dolore, amico. Può essere, non è assolutamente certo,
caro. Può anche essere che ora io ti parli soltanto per paura
di morte. Ma se fosse vero che tu muori perché non sai
sopportare un dolore? Perché sei incerto? Ora viene
l'angoscia. La sentite? L'aria è spasimante sotto le sue
grandi mani. Le nuvole serrano la luna. Sangue, nero. Silenzio. Dio!
Dio muto e fermo sul trono.
Non voglio! È vigliacco morire senza una certezza. Per
nessuno; ma per me, per me, non posso ancora morire. No, sincero,
sí, sincero: perché bisogna esprimere questo momento.
Esprimere. Tutta la vita è espressione. E dunque osserva la
tua morte con la calma necessaria, e preparati un efficace stato
d'animo. Ma perché? Io vado avanti. Io sono un poeta.
Sí, vado avanti, certamente. Il mare è in fiamme. Il
cielo è grande. Notte, buona sorella, un po' di vento va e
viene. Come sarebbe quieto dormire.
Notte! voglio te, mamma! non venga la luce, non voglio l'alba.
Ho strappato tutte le peonie di Lipizza, piena la mantella, e le ho
versate sulla sua tomba. Mamma, di' che non facciano strepito, vado
a dormire. Arrivederci, mucci, addio. Per la strada venivano tutti
gli asinelli carichi di latte. Erri! erri! Quasi montavo su uno
perché ero stanco. Che effetto fa, tornar di lassú e
per le scale puzza d'olio bruciato, non so che odore. Ma chi sta in
questo casamento enorme? No, no, grazie, non ho fame. A rivederci.
Ora ha vinto la pioggia. Un respiro caldo di vento fa tremare i
fogli sparsi sul tavolo, un respiro umido, di malato.
Dalle stanche nuvole s'infiltra la pioggia, giú per l'aria.
Tutto s'ingrigia in un languore d'affanno e la gente cammina senza
meta nelle silenziose strade lunghe.
Torniamo alla vita cosí, rassegnati e muti, perché
forse è meglio, e il dolore e la gioia sono vani.
Finiti gli studi, tornerò a Trieste, e farò il
professore. Io non ho molti bisogni, vivo con poco, e il piú
sarà per le sorelle. Alle domeniche andrò dagli amici
e passeremo un po' di tempo insieme, seduti vicini, chiacchierando
affettuosamente.
Questa buona figliuola è cosí felice che sono venuto,
dopo tanto tempo!, a trovarla. Mi prende le mani guardandomi con
tanto affetto; e non chiede e non è curiosa. Forse ella sa,
ma mi lascia godere in pace il tepore della stanza riscaldata e la
tranquillità della sua casa.
«Berremo una tazza di tè, vuole? Aspetti: dico di non
essere in casa per nessuno, sono cosí contenta!» Ma no,
perché? Anzi, ho voglia di vedere un po' di gente e
discorrere con loro. Son rimasto qualche giorno lontano. Ho sofferto
un poco; ma ora mi son rimesso quasi completamente. Beviamo il suo
buon tè, aspetti, questo biscotto è piú buono.
E cosí mentre si sta chiacchierando da buoni amici, viene una
signorina, porta nuovi discorsi, si parla, anche si discute. Poi io
saluto affettuosamente e torno a casa e sorrido ai miei e gioco con
loro. Essi sono contenti.
A poco a poco, meravigliandosi l'un l'altro, tornano a parlare con
voce naturale, senza guardarmi piú di sfuggita e chinare la
testa sulla tavola, imbarazzati, non sapendo che dire. Ora a poco a
poco la vita nostra riprenderà l'usato tono, vedrai mamma;
anche lavorerò. Sono un po' cambiato, è vero, ma
tornerà anche la speranza, aspettiamo un poco.
Ma l'anima mia benedetta ha ancora tanta forza da negare duramente,
no, no! cosí, no. Via dagli uomini finché tu non li
ami. Via! rispetta almeno il tuo dolore.
Meglio questa scrosciante piova sul mio capo, e tornare
lassú, magari per sempre.
I cani di notte! Vengo su, via dalla città, dimenticando per
la fatica di metter un piede davanti all'altro, e non sento
frondeggiare gli alberi lungo la mia salita, non vedo queste piccole
case solitarie, serrate e sbarrate come per un assassino notturno
che sempre sia pronto. Cammino. La via è acquitrinosa. Non so
della città che dorme o luccica o impazza dietro le mie
spalle. Non so del cielo. Cammino nella fedele oscurità,
svoltando perché il viottolo svolta - e sempre mi pare che
stia per finire e io mi trovi chiuso dove non si può
piú andare avanti. Cammino. La smania dell'incerto, l'ansia
dei muscoli hanno ingoiato il dolore. Penso semplicemente di metter
bene il piede per non sdrucciolare. Ah l'oblio, l'oblio in questo
andare anelante, col petto proteso in avanti per sbilanciare in su
tutto lo stanco corpo! Il sangue mi batte rotto nelle tempie.
Piú presto! E d'improvviso, nell'orecchia, qui sul capo,
l'urlo vigliacco d'un cane.
Un urlo rauco, furibondo, quasi disperato. Un urlo di vendetta per
le inutili notti di veglia. L'anima si riscote e trema. Che cosa
faccio qui a quest'ora? All'urlo risponde il cane vicino che non
aveva sentito il mio passo silenzioso, e un altro dirimpetto,
l'altro piú in su, giovane, allegramente. È dato
l'allarme. E subito tutto l'anfiteatro di colli è sveglio, e
la notte ulula e ringhia contro questo mio povero passo che evitava
lo stelo secco per non svegliare, per passare via, andar solo e
ignorato. Una finestra s'apre cautamente, io m'allontano impaurito
come colto sul fatto.
Tutto è di nuovo presente. Torna il dolore e l'angoscia. Ho
paura. C'è troppe cose ignote, gravide d'oscurità,
intorno a me. Sono veramente in un bosco? Non fui mai qui. Non trovo
nulla d'amico. Tocco i tronchi umidi e gommosi - è un
frassino, certo, questa scorza liscia come pelle. Non senti? Cade
una piova di piccole corolle bianche, come perle minute. Tutto
è riposo. Non muoverti. Non disturbare.
Eppure qualcosa è sveglio. Scricchiola e crepita leggermente.
Che è che anche di notte non dorme? Non fa vento; l'aria
pesante era ostacolo all'andare. Sto fermo e ascolto senza respiro.
Chi è nascosto nel bosco? Ma ho il mio coltello qui. "Chi
è?"
Nulla. E tremo di questo mio vagabondare notturno, in posti deserti
dove solo chi deve nascondersi cerca il suo letto! Come se io
meditassi qualcosa contro gli uomini. No, no! Ecco, vedo la bragia
della sigaretta, scende un uomo. Mi passa accosto con cautela,
guardandomi di sfuggita. Perché ha paura? Ma io non gli
faccio niente! io sento il suo passo allontanarsi e perdersi... ora
è già nella sua casa, accende il lume e guarda i suoi
figlioli che dormono.
Io? Neanch'ella dormiva. Anch'ella era sola e dolorosa. Io veglio la
sua notte. Io batto i boschi e le macchie come un guardiano notturno
in cerca dell'assassino. Io non tollero che la notte nasconda nessun
malfattore nella sua ombra nera. Dalla sera all'alba io cammino
cercando, e alla mattina mi butto sotto un albero e aspetto fino
alla sera. Una volta o l'altra lo devo trovare. Fino allora non ho
diritto di dormire la notte. Anch'ella non dormiva.
La notte ella balzava dal letto e spalancando la finestra avrebbe
voluto star sola col vento nella sua angoscia. Guardava le scure
masse del carso diffondersi davanti a lei, ma laggiú per le
strade camminano, cianciano e si fermano per discutere di politica e
d'affari quelli che camminavano e si fermavano lí, sotto la
sua casa, quelle notti.
Si sdraia accanto alla moglie grassa. - Sogna che venti giovanotti
elegantissimi le si accalcano intorno ammirati del suo cappello
nuovo. - S'inquieta perché non seppe vendere quelle casse
d'agrumi. - Pensa che finalmente le vacanze universitarie sono
finite, e si ritorna a Vienna. - Chissà perché la
sorella ha guardato cosí fisso quell'uomo? - Bisogna che tu
sia piú cortese con lui.
Questa è la vita che esigeva il suo sorriso. Ella doveva
esser allegra. Ella aveva tutto. C'era uno perfino che studiava i
segni di lapis sui libri ch'ella leggeva, e sapeva tutte le strade
dove passava ogni giorno. Tutto ella aveva. E si ammazzò.
Ah! - È lucido il mio coltello, natura! Gli occhi vi si
specchiano come in volto fraterno. La sua lama è pura di
macchia come punta di piccone. Acciaio di Solingen, manico di corno,
serramanico durissimo. Fedele e vigile compagno delle mie notti,
ficcati dritto nella terra accanto alla mano destra. Silenzioso e
sicuro. Io chiesi un temperino a un'amica; essa mi portò
questo quindici centimetri di acciaio. Silenzioso s'arrotò
sui rami e sui tronchi. Ora ride di freddo e di tormento. Silenzioso
vuoi riscaldarti? Tu mi bruci le labbra dal freddo.
Ricordi quella notte? Era caldo, no, dentro la faina? Come la
infiggemmo! Sussultava torgendosi rotta come una biscia, e tentava
di strattarti dalla terra. Ma io, ridendo benignamente, le sputavo
fra i denti fradici di sangue, e ti aiutavo da buon fratello
affondandoti col pugno, sicché il tuo manico incassava un
solco sempre piú fondo nella schiena stroncata, e la sua
pancia s'appiattiva contro il suolo, il suo strido s'inveleniva come
un cantino sempre piú strinto piú strinto. - Stinc!
Hai dimenticato? i suoi bei mostacchi da ratto! Rigido d'ozio tu
sei! o via! Ecco che nel frassino tu fai il tuo netto incasso
triangolare, e ne geme un succo biancastro come sangue marcito. -
Come? Eh, eh! tu hai sete di piú buon liquore, Silenzioso! La
vendetta dissecca. Vieni qua: dammi un bacio! Come tu ridi! Caro.
Zitto! La torre municipale batte l'ora. Va bene: è proprio
l'ora. La città schifosa è laggiú, nel fumo e
nella luce. Andiamo, Silenzioso.
Natura, io ti ringrazio. Tu m'hai fatto libero, e ti ringrazio. Io
ero pieno di legge e di dovere. Io sapevo cosa era la bontà e
cos'era il male. Ma tu mandi gli uomini cattivi e poi mandi altri
uomini per vendicarti di essi. Li strappi, con un piccolo atto,
dalle preoccupazioni del mondo, e li fai tutti tuoi, per la
vendetta. Tu fai morire i buoni per i tuoi giusti fini. Tu ci fai
spremere d'angoscia per i tuoi giusti fini. Tu ci crei e ci annienti
per i tuoi giusti fini. Natura tu sei dal principio dei tempi
giusta, e io ti ringrazio d'avermi fatto nascere. Io t'obbedisco, o
divina e buona natura.
Che vuoi con questo tuo bimbo sano che fai crescere nell'amore di
te? Aspettiamo che cresca, vuoi? Aspettiamo che venga su e lavori e
ami. Ora riposa. Lascialo riposare, natura. Egli ti vede bella come
la sposa e parla con santità di te. Quel piccolo bambino
crede, t'assicuro. Egli crede, e bacia i fiori che incontra per i
campi e saluta gli uomini meravigliandosi della loro bellezza. Egli
guarda come lavora il fabbro e come mettono il lastrico nelle vie.
Egli ha voglia di sedersi insieme ai forti facchini sul carro che
corre e aiuta la donna a mettersi il mastello in testa. Egli ha
voglia di aiutare gli uomini. Lasciamolo crescere. Io ho tempo,
molto tempo, aspettiamo. Qui, qui in questa grande casa verde
è nato. Non credete? Perché mi guardate negli occhi?
È già l'alba? Presto rosseggia laggiú. Bisogna
far presto. Ma non guardatemi cosí, non temete affatto! Io
sono un bimbo che aspetta, che ha tempo, che ha tanto tempo, e
aspetta di crescere e di amare. Toccate come sono già fredde
le mie mani, sono un pezzo di carne gelata. Ho freddo. Datemi un po'
di fuoco e un po' d'acqua, vi prego. Ma non sentite, non sentite
come patisco, fratelli? Lasciatemi dormire qualche ora sul vostro
letto, perché sono assai stanco.
Sto seduto in riva allo stagno dove le armente vengono a bere,
allungo la mano, prendo un sasso e lo butto nell'acqua. Il sasso fa
un tonfo motoso e sparisce.
Cammino a testa bassa, scoprendo i pezzettini di vetro, il filo di
paglia, i batufoletti di capelli mischiati con la ghiaia.
Rompo uno zolfanello in due, prendo il temperino, taglio i pezzi per
lungo, taglio i nuovi pezzi; poi butto via tutto.
Avrei voglia di fresche perline da infilare con l'ago.
Non riposerai. Questo ti prometto. Lavorerai piangendo dal disgusto,
ma lavorerai.
Sei stanco, e forse non puoi far piú nulla. Le tue mani non
sono piú abbastanza forti per il martello; il tuo cervello
è annebbiato. Sei una bestia ferita a morte che cerca un
nascondiglio per crepare. Sta bene. Ma lavorerai.
Tu non sai niente. Un piccolo atto incomprensibile ha disperso le
meschine verità che t'eri racimolato a schiena curva. Sei
solo e nudo. Sei inerte. Sei davanti a un mistero che ti sarà
impenetrabile per sempre. Sta bene. So. Ma lavorerai.
Non sai perché l'erba cresce e il mondo esista. Non sai se il
mondo esiste o no. Non sai cosa tu sei. Può essere che
l'universo sia nato da una maledizione. Il tuo dannato lavoro
sarà, forse, eternamente vano. Ma lavorerai, come se tu fossi
l'ultimo dei rimasti.
Dopo - non so se vi sarà riposo. Ma ti prometto che qui non
avrai riposo. Qui lavorerai. Questo è certo.
Io voglio rifarmi forte e duro. L'aria del carso ha già
sfregato via dal mio viso il color di camera. I polmoni tiran
piú lungo la fiatata. La schiena sente poco i sassi. Io amo
il corpo robusto, capace di patire, di resistere, di lavorare. I
deboli mi fanno schifo, come creature dipendenti dalla pioggia e dal
bel tempo. Salute è condizione di libertà. Le malattie
vadano da chi è abituato a stare in letto - diceva mio zio -
e non mi vengano a rompere le scatole.
Mi fa piacere poter stroncare sul ginocchio un tronco di nocciolo, e
buttar venti passi lontano la pietra che quasi non posso alzar fino
alla spalla. Mi fa piacere ricordare che una volta c'erano uomini
che sradicavano un quercione dalla terra per servirsene di bastone.
Buona cosa è poter difendere col proprio pugno la propria
vita. Non amo il revolver; non saprei, forse, sparare contro un
uomo. Difendermi a coltellate, sí.
Vivrei quassú in carso, solo.
Forse troverei la mia vera Vila, Carsina. Lei non doveva morire.
Credeva che io fossi tutto forza e bontà. Io non sono forte.
Io ho bisogno d'amare come tutti gli uomini. Io voglio la vita
piena, completa, col suo fango e i suoi fiori. Io non sono fedele
alla morte. Io voglio bene alla carne sana, piena di sangue e di
prosperità. Io voglio bene alla mia carne.
Carsina sarà dritta e avrà i capelli un po' resinosi
come i ciuffi dei ginepri primaverili. Denti bianchi e aguzzi, per
mordere. Elastica alla vita da rovesciarsi in una rossa risata col
capo all'ingiú sotto la mia stretta. Sarà bello
svegliarsi alla prima alba e vedere i piccioli delle foglie e il
cielo bianco tra esse.
Baciarci nella rugiada. Carsina, finché tu sarai giovane io
vivrò quassú solo con te.
Io avrei dovuto vigilare nel suo sonno come un cane nella camera del
padrone perché nessuno v'entri. Avrei dovuto tenermela tutta
nelle braccia, e radicarla nella terra. Quando la baciai non seppi
pensare che nel suo cuore poteva essere il pensiero di morte. Io non
l'ho capita. Ora non è dolore, ma punizione. Accetto e non mi
lagno. Non patisco.
Il male sussulta di tratto in tratto in me anche nel sonno, nel
torpore e nella stanchezza fisica. Io credo anche dopo la morte.
C'è un grumo sanguinoso dentro il cervello che non mi
permette di pensare limpidamente.
Creatura, io benedico il giorno che sei nata e il giorno che hai
voluto morire. Non chiedo e non urlo. Io so che tu sei morta ferma e
sicura.
Le piccole parole non possono spiegare la tua morte. Ma ogni buon
atto nostro viene da te, e tu continui a vivere nel laborioso amore.
Cercheremo d'esser degni di te. La nostra opera è tua, e se
possiamo esser contenti di lei, il tuo sorriso ci dà gioia e
pace. Noi ti ringraziamo, sorella, e amiamo la tua morte come
abbiamo amata la tua vita.
Tu non conosci il mistero, ma anche il dolore che ti fermò
gli occhi sul nulla è parte di esso; e se tu lo esprimi
sinceramente, una parte del mistero è svelata. Perché
dal fiore tu conosci le radici, non dalle radici la pianta.
Se il tuo dolore è inerte, che vale il tuo dolore? Allora
esso è vano, e tu, la tua vita, e il mondo. Come nella sacra
forma umana tu devi cercare il mistero, cosí il dolore e la
gioia sono lo sformato nulla da cui tu devi estrarre un nuovo mondo.
Se tu fai, il tuo dolore ha preparato agli uomini una piú
intensa eternità.
Perché non sai cos'è il bene, ma senti chiaramente
cos'è il meglio. Il patimento è buono, se esige da te
un piú profondo dovere. Cosí tu ti allarghi nel
mistero, nutrendoti di lui, e le sue tenebre diventano sole nella
tua anima.
Per questo, che tu devi essere piú buono, tu sei uomo fra gli
uomini. Ora li puoi amare perché hai sofferto e disperato.
Benedici il tuo dolore e scendi, sereno e severo, fra essi.
Sono disteso nell'erba. Sugli occhi mi sventola il sole con il
tremolio soffuso degli olivi. Giunge giunge pieno di salute e di
gioia il maestrale dell'Adriatico. Abbrividisce il verde mare di
Grignano, e sprazza in innumeri fiamme e scintille dorate, e la
fresca pace mi penetra disciogliendomi come terra di marzo. In bocca
balza un canto ingenuo e scomposto.
Come il corpo s'adagia avidamente sulla terra! Le braccia si
distendono grandi su di essa, e il mio respiro si fonde come una
preghiera nell'infinita aria gioconda.
Madre, madre! s'io ti maledii, tu m'accogli piú amorosa e
serena. I tuoi alberi giovinetti mi circondano sussurrando in coro e
crepita e sciaborda il frumento verso il ciuffo rosso del giunco,
mentre dalla nera verdura i pomi tondeggiano e s'acquattano
all'alitare delle vespe e dei moscerini tramanti a punteggi e
sbalzelli il fondo azzurro. E via, d'uno scatto e un trillo si
buttò sul mare lo scassacodola.
Dolce è riposare cosí, amando delicatamente questa
lunga erba, e palpitare persi con lo sguardo nel cielo. Io sono una
dolce preda desiderosa d'inghiottirsi nella natura.
Carso, che sei duro e buono! Non hai riposo, e stai nudo al ghiaccio
e all'agosto, mio carso, rotto e affannoso verso una linea di
montagne per correre a una meta; ma le montagne si frantumano, la
valle si rinchiude, il torrente sparisce nel suolo.
Tutta l'acqua s'inabissa nelle tue spaccature; e il lichene secco
ingrigia sulla roccia bianca, gli occhi vacillano nell'inferno
d'agosto. Non c'è tregua.
Il mio carso è duro e buono. Ogni suo filo d'erba ha spaccato
la roccia per spuntare, ogni suo fiore ha bevuto l'arsura per
aprirsi. Per questo il suo latte è sano e il suo miele
odoroso.
Egli è senza polpa. Ma ogni autunno un'altra foglia bruna si
disvegeta nei suoi incassi, e la sua poca terra rossastra sa ancora
di pietra e di ferro. Egli è nuovo ed eterno. E ogni tanto
s'apre in lui una quieta dolina, ed egli riposa infantilmente fra i
peschi rossi e le pannocchie canneggianti.
Disteso sul tuo grembo io sento lontanar nel profondo l'acqua
raccolta dai tuoi abissi, una sola acqua, e fresca, che porta la tua
giovane salute al mare e alla città.
L'acqua delle tue grotte io amo che s'incanala benefica per le
strade dritte. Amo queste donne carsoline che stringendo fra i
denti, contro la bora, la cocca del fazzolettone, scendono a gruppi
in città, con in testa il grande vaso nichelato pieno di
latte caldo. E la striscia bianca dell'alba, e il bruciar doloroso
dell'aurora fra la caligine della città.
Qui è ordine e lavoro. In Puntofranco alle sei di mattina
l'infreddito pilota di turno, gli occhi opachi dalla veglia, saluta
il custode delle chiavi che apre il magazzino attrezzi. I grandi
bovi bruni e neri trainano lentamente vagoni vuoti vicino ai
piroscafi arrivati iersera; e quando i vagoni sono al loro posto,
alle sei e dieci i facchini si sparpagliano per gli hangars. Hanno
in tasca la pipa e un pezzo di pane. Il capo d'una ganga monta su un
terrazzo di carico, intorno a lui s'accalcano piú di duecento
uomini con i libretti di lavoro levati in alto, e gridano d'esser
ingaggiati. Il capo ganga strappa, scegliendo rapidamente, quanti
libretti gli occorrono, poi va via seguíto dagli ingaggiati.
Gli altri stanno zitti, e si risparpagliano. Pochi minuti prima
delle sei e mezzo il meccanico con la blusa turchina sale sulla
scaletta della gru, e apre la pressione dell'acqua; e infine,
ultimi, arrivano i carri, i lunghi scaloni sobbalzanti e
fracassanti. Il sole strabocca aranciato sul rettifilo grigio dei
magazzini. Il sole è chiaro nel mare e nella città.
Sulle rive Trieste si sveglia piena di moto e colori.
E levan l'ancora i grossi piroscafi nostri verso Salonicco e Bombay.
E domani le locomotive rintroneranno il ponte di ferro sulla Moldava
e si cacceranno con l'Elba dentro la Germania.
E anche noi ubbidiremo alla nostra legge. Viaggeremo incerti e
nostalgici, spinti da desiderosi ricordi che non troveremo nostri in
nessun posto. Di dove venimmo? Lontana è la patria e il nido
disfatto. Ma commossi d'amore torneremo alla patria nostra Trieste,
e di qui cominceremo.
Noi vogliamo bene a Trieste per l'anima in tormento che ci ha data.
Essa ci strappa dai nostri piccoli dolori, e ci fa suoi, e ci fa
fratelli di tutte le patrie combattute. Essa ci ha tirato su per la
lotta e il dovere. E se da queste piante d'Africa e Asia che le sue
merci seminano fra i magazzini, se dalla sua Borsa dove il telegrafo
di Turchia e Portorico batte calmo la nuova base di ricchezza, se
dal suo sforzo di vita, dalla sua anima crucciata e rotta s'afferma
nel mondo una nuova volontà, Trieste è benedetta
d'averci fatto vivere senza pace né gloria. Noi ti vogliamo
bene e ti benediciamo, perché siamo contenti di magari morire
nel tuo fuoco.
Noi andremo nel mondo soffrendo con te. Perché noi amiamo la
vita nuova che ci aspetta. Essa è forte e dolorosa. Dobbiamo
patire e tacere. Dobbiamo essere nella solitudine in città
straniera, quando s'invidia il carrettiere bestemmiante nella lingua
compresa da tutti attorno, e andando sconsolati di sera fra visi
sconosciuti che non si sognano della nostra esistenza, s'alza lo
sguardo oltre le case impenetrabili, tremando di pianto e di gloria.
Noi dobbiamo spasimare sotto la nostra piccola possibilità
umana, incapaci di chetare il singhiozzo d'una sorella e di
rimettere in via il compagno che s'è buttato in disparte e
chiede: "Perché?".
Ah, fratelli come sarebbe bello poter esser sicuri e superbi, e
godere della propria intelligenza, saccheggiare i grandi
campirigogliosi con la giovane forza, e sapere e comandare e
possedere! Ma noi, tesi di orgoglio, con il cuore che ci scotta di
vergogna, vi tendiamo la mano, e vi preghiamo d'esser giusti con
noi, come noi cerchiamo di esser giusti con voi. Perché noi
vi amiamo, fratelli, e speriamo che ci amerete. Noi vogliamo amare e
lavorare.
FINE