I.
Italia e Inghilterra nel Risorgimento
I.
La politica inglese in Italia nell'età del Risorgimento1
Il problema mediterraneo comincia a presentarsi all'Inghilterra fino
dal principio del secolo XVI, fino da quando cioè essa pone
le basi della sua potenza marittima e allaccia i primi rapporti
commerciali con gli scali dell'Europa meridionale. Nella seconda
metà di quel secolo, dominata dal conflitto anglo-spagnuolo
che si risolve nel suo trionfo, l'Inghilterra vede questi suoi
traffici nel bacino mediterraneo intensificarsi con ritmo costante.
Durante il secolo XVII essa afferma con ripetute spedizioni navali
il suo diritto e il suo interesse a prender parte alle lotte che si
combattono fra Spagna, Francia, Olanda e Stati minori, per la
supremazia o almeno per l'equilibrio nel Mediterraneo. Ma non
è che nel secolo XVIII che, insediatasi dapprima a
Gibilterra, indi a Minorca, l'Inghilterra diventa vera e propria
potenza mediterranea, avviandosi rapidamente al deciso predominio in
quel mare, che le permetterà di stroncare, sui primi del
secolo successivo, il piano francese, e quindi innanzi di dominarvi,
se non incontrastata, vittoriosa sempre.
L'Italia, per la sua posizione geografica e per la sua struttura,
è in qualche modo il perno della politica mediterranea: fino
dalla seconda metà del secolo XVI, dunque, l'Inghilterra
guarda con interesse a questo paese, nel quale non ha (e non
avrà mai) dirette aspirazioni territoriali, ma che considera,
oltreché un ricco mercato di assorbimento per i suoi
manufatti e in genere per le sue importazioni da altre parti del
mondo, il piú idoneo pontile di sbarco per la diffusione
delle sue merci in tutta l'Europa centro-meridionale. I migliori
affari, in questo periodo, essa li conclude in particolare con i
minori Stati della penisola, Toscana, Venezia, Piemonte, i quali,
tutti circondati e stretti dall'Italia spagnuola, concedono senza
troppe difficoltà le piú ampie facilitazioni
commerciali pur di attirare o di riattirare nei loro porti le grandi
correnti sviate del traffico. Colonie di mercanti inglesi si
stabiliscono con profitto a Livorno e a Nizza. Ma è con lo
Stato sabaudo che le relazioni si annodano specialmente cordiali:
alle ragioni economiche che fanno di Nizza, in concorrenza con
Genova, dapprima irretita nel giuoco spagnuolo, poi in quello
francese, lo scalo migliore per i mercati dell'Italia
settentrionale, verrà ben presto ad aggiungersi, infatti,
l'interesse politico, che all'Inghilterra consiglierà di
tenersi amico in ogni occasione il portiere delle Alpi, facendogli
balenare la possibilità di lauti compensi territoriali,
qualora tenga ben chiusa la porta ai Francesi.
Cosí per tutto il Seicento. La penetrazione pacifica
dell'Inghilterra si svolge con crescente successo: l'Italia viene
progressivamente inondata di prodotti inglesi; tra non molto si
dirà con ragione che l'Inghilterra vi esercita un vero e
proprio monopolio commerciale.
Via via che si accrescono i suoi interessi nel Mediterraneo e si
consolida la sua potenza, l'Inghilterra sarebbe naturalmente indotta
a desiderare, e quindi a favorire, un ordinamento italiano che
escludesse il controllo assoluto della penisola da parte di uno o
dell'altro dei grandi Stati mediterranei. Le ambizioni della Francia
la obbligano invece a farsi conservatrice dello status quo: tra la
Spagna, la cui potenza volge visibilmente al declino, e che comunque
ha dovuto piegare dinanzi alla superiorità marittima inglese,
e la Francia, forte come non mai, ed ora nuovamente mirante
all'egemonia europea, l'Inghilterra non può infatti esitare a
preferire la prima; tanto piú che, mentre questa non si
oppone in sostanza alla sua penetrazione commerciale nella penisola,
la Francia, che verso la fine del secolo XVII comincia a ravvisare
appunto nell'Inghilterra il principale ostacolo alle sue mire
espansionistiche, non mancherebbe certo, una volta padrona d'Italia
o di una parte d'Italia, di chiudergliene le porte.
Ma la situazione si complica inaspettatamente non appena alla
tradizionale rivalità franco-ispana accenna a sostituirsi
(con Luigi XIV) un accordo fra quelle due potenze, tendenti ad
assicurarsi l'assoluto controllo del Mediterraneo. Di questo
pericolo l'Inghilterra, che non possiede ancora una sua base in quel
mare, e che vitali necessità extramediterranee
costringerebbero comunque a misurarsi con la Francia, si rende conto
senza indugio e immediatamente si dispone a reagire. Ancora
piú gravemente colpito, perché compresso e minacciato
di schiacciamento ai due fianchi, si sente il duca di Savoia:
gl'interessi inglesi e sabaudi, per quanto in sfere di ben diversa
ampiezza, coincidono dunque perfettamente. Siamo al tempo delle
prime coalizioni antifrancesi, sul cadere del secolo XVII, nelle
quali Inghilterra e Savoia militano appunto nel medesimo campo.
Apertasi, poi, con la successione al trono di Spagna, la questione
del possesso d'Italia, l'Inghilterra, conformemente al suo vecchio
programma, propenderebbe a spartire quei dominî, ad esclusione
sia dei Borboni che degli Absburgo, fra principi minori italiani o
forestieri, in primo luogo i Savoia; senonché, piuttosto che
vedervi insediato Luigi XIV o una sua longa manus, essa preferirebbe
pur sempre che il regno di Napoli, la Lombardia, la Sardegna
cadessero tutti in mano dell'Austria, con la quale non ha interessi
in contrasto e che, soprattutto, non è e non aspira a
diventare potenza marittima: tanto piú che anche in questo
caso sarebbe possibile profittare del rimaneggiamento per assicurare
allo Stato sabaudo un ingrandimento atto a conferirgli maggiore
efficienza nella essenziale sua funzione di antemurale alla Francia.
Con questo programma l'Inghilterra prende parte alla guerra. Non
è in giuoco soltanto la posta italiana, né si combatte
unicamente sul Po: eppure fino da allora, chi ben guardi, si
delinea, rispetto all'Italia, quel giuoco d'influenze
austro-franco-inglesi che poi si protrarrà in pieno secolo
XIX, quel giuoco d'influenze del quale, dopo ripetute, dolorose
esperienze, gl'Italiani, una volta maturi a risolvere in senso
autonomo e unitario il loro problema nazionale, finiranno per
profittare. La pace di Utrecht consacra il pieno trionfo della tesi
inglese: l'Inghilterra, infatti, a parte i vantaggi diretti che
ottiene, sia nel Mediterraneo (Gibilterra e Minorca), sia
nell'Europa nord-occidentale, vede l'Austria subentrare alla Spagna
in tutti i suoi possessi italiani, salvo la Sicilia (poi tramutata
con la Sardegna) assegnata all'alleato sabaudo. La Francia resta
fuori d'Italia: la quale esclusione costituisce ormai, per il
gabinetto di Londra, una delle garanzie fondamentali per la pace
d'Europa. Anche il successivo trattato di Vienna, per quanto
concluso in assenza e, apparentemente, a scapito dell'Inghilterra,
obbedisce in sostanza a questa direttiva suprema: giacché
l'innegabile vantaggio che potrebbe pur derivare alla Francia
dall'avvenuto insediamento sul trono di Napoli di un rampollo
borbonico è ampiamente controbilanciato dal passaggio della
Toscana, con i Lorena, sotto l'immediata influenza dell'Austria, e,
ancora una volta, da notevoli concessioni territoriali fatte al
Piemonte.
Il governo di Londra è ormai definitivamente interessato al
mantenimento dello status quo nella penisola: l'ordinamento del
1738, infatti, non gli conviene soltanto sotto il rapporto politico,
ma anche sotto il rapporto commerciale, in quanto né
l'Austria in Lombardia, né il Borbone di Napoli, né,
tanto meno, gli altri Stati italiani possono rappresentare per
l'Inghilterra dei concorrenti temibili. Austria e Borbone, anzi,
prendendo possesso dei rispettivi dominî, che trovano
dissanguati dalla secolare occupazione spagnuola, non solamente
necessitano delle forniture inglesi, ma, come il Piemonte, trovano
il loro vantaggio nel favorire, in via di massima, l'espansione
economica di quell'unica potenza mediterranea che ha tutto
l'interesse di garantirli reciprocamente nel pacifico possesso dei
loro territori. Ogniqualvolta dunque si presenterà una crisi
mediterranea minacciante lo status quo italiano, la politica
dell'Inghilterra sarà quella di stringere i propri rapporti
con l'Austria da un verso, col regno di Sardegna dall'altro, in modo
da opporre una resistenza efficace all'ingresso nella penisola di
altre forze straniere. Questa politica presuppone naturalmente
l'esistenza di rapporti, se non proprio di amicizia, almeno di
normale collaborazione tra Austria e Sardegna (cosa non sempre
facile ad ottenersi, ché a Torino non si può non
guardare con gelosia e anche con diffidenza a chi detenga la
Lombardia); come altresí presuppone – e questa condizione si
verificherà quasi costantemente, ma non senza clamorose
eccezioni – opposizione d'interessi e quindi tensione di rapporti
tra Francia ed Austria. Se l'Austria, d'altronde, profittando della
stragrande superiorità di forze, attenterà
all'indipendenza degli altri potentati italiani, l'Inghilterra
avrà buon giuoco, per contrastare queste sue mire, sia
ricattandola con lo spettro di un possibile intervento francese, sia
favorendo i perpetui disegni d'ingrandimento del Piemonte, sia
finalmente incoraggiando i risentimenti antiaustriaci, che alla
metà del secolo, come ognun sa, già cominciano a
serpeggiare fra gl'Italiani.
Questo meccanismo appare in piena funzione fin dalla guerra di
successione d'Austria: la guerra, si sa, sconvolge profondamente la
carta d'Italia, ma nella pace del 1748, mentre l'Austria, sotto gli
auspici inglesi, vien reintegrata in quasi tutte le sue posizioni
italiane e la Sardegna compie un nuovo passo innanzi verso il
Ticino, la Francia continua pur sempre ad essere esclusa d'Italia.
Negli anni successivi, gigantesco sforzo del sistema
franco-spagnuolo per escludere dal Mediterraneo la grande, la sempre
piú minacciosa competitrice: l'inaudito rovesciamento delle
alleanze (Francia ed Austria e poi Spagna e Russia e Svezia contro
Prussia e Inghilterra) fa sí che l'Inghilterra, paralizzata
nel Mediterraneo, veda completamente annullata la sua influenza in
Italia; ma ancora una volta la pace (di Parigi) ristabilisce nel
Mediterraneo la situazione antecedente alla guerra, e ancora una
volta chi paga le spese è la Francia. Solo la crisi
d'America, in tutta l'immensa sua gravità, potrà far
sí che, dopo tanto lottare per l'equilibrio mediterraneo,
l'Inghilterra, troppo fidando nelle posizioni raggiunte, trascuri i
suoi interessi nel nostro mare: ed ecco che subirà senza
reagire, e forse senza intenderne tutta la portata, lo scacco
dell'insediamento francese in Corsica, ed ecco che perderà
Minorca e verrà furiosamente assalita a Gibilterra. La pace
del 1783 non potrà che consacrare la sua retrocessione nel
Mediterraneo, il primo suo passo indietro dopo una serie
ininterrotta di affermazioni e di conquiste. Dura lezione, ma non
senza benefici effetti: il governo di Londra esperimenterà
infatti, una volta per sempre, che il padrone del Mediterraneo
è il padrone del mondo; e da allora in poi si regolerà
in conseguenza.
L'umiliazione dell'Inghilterra, d'altronde, trova qualche compenso
nelle incessanti vittorie riportate nel campo commerciale: dal 1700
al 1787, il valore delle sue esportazioni si è quintuplicato
nel mondo, e in Italia in particolare si è straordinariamente
accresciuto. Allarmate voci italiane, ma piú ancora francesi,
si alzano con sempre maggiore frequenza a denunziare il danno
gravissimo che alla penisola deriva dal controllo economico inglese;
e già molti lamentano che dalla soggezione spagnuola
gl'Italiani non si sian liberati che per cadere politicamente in
quella dell'Austria, commercialmente dell'Inghilterra. Nuove
stazioni commerciali inglesi sono state fondate, infatti, a Messina,
a Napoli, a Cagliari, che aggiunte a quelle piú vecchie di
Livorno, di Savona, di Nizza, inevitabilmente concorrono a deprimere
le poche industrie locali esistenti, a scoraggiare l'impianto di
nuove, a spremere con gli alti prezzi una clientela già
impoverita. Ond'è che la Francia, svolgendo nella penisola la
violenta e tenace sua propaganda anglofoba, non manca d'argomenti
per insinuare agl'Italiani che la rinascita politica del loro paese
è impedita, oltre tutto, e forse prima di tutto, dalla
presenza di questa piovra insaziabile.
Rinascita italiana, e anche indipendenza italiana: parole, concetti
e aspirazioni che da una piccola cerchia di gente colta si erano
andati negli ultimi tempi diffondendo in una sfera piú ampia
di politici, di pubblicisti, di commercianti, di aristocratici,
prendendo l'abbrivo dalla cessazione del dominio spagnuolo, favoriti
e incoraggiati altresí dalla nuova politica riformatrice
audacemente svolta da alcuni principi italiani. Miraggi e speranze
cui anche l'azione ormai tutta italiana e volta all'Italia dei re di
Sardegna, valeva a conferire slancio e concretezza e quasi un
presentimento di effettuabilità; mentre sul fuoco soffiava,
come si è detto, la Francia, insofferente della sua
esclusione dalla penisola, ben certa che un eventuale rivolgimento
antiaustriaco (e in conseguenza anche antiinglese) non avrebbe
potuto essere che d'ispirazione e di segno francese e non avrebbe
potuto non condurre, sia pure per vie indirette, ad un aumento
dell'influenza sua. Notarono, i diplomatici inglesi, questo nuovo
fervore italiano, questa diffusa aspettazione di un avvenire diverso
e migliore, questi primi accenni a uno spontaneo confluire di
volontà principesche e di esigenze dei ceti piú
elevati della popolazione italiana? E fino a qual punto seppero
tenerne conto nello svolgimento del loro giuoco politico?
Si può dire che quasi non se ne accorsero, e che agli effetti
pratici non ne tennero, comunque, il minimo conto. Tutto ciò
non era ai loro occhi che vacua retorica o pretesto e artificiosa
creazione della propaganda francese. Le riforme principesche erano
una cosa, e andavano incoraggiate se non altro perché
valevano a radicare nel terreno italiano quelle dinastie di recente
importazione, e quindi ad aumentare le garanzie di conservazione
dello status quo; un'altra cosa erano i sogni utopistici di una
nazione italiana. La caratteristica dei diplomatici inglesi non eran
allora, come non fu mai nel seguito, l'antiveggenza, la
facoltà cioè, o almeno il desiderio, di anticipare il
possibile corso degli avvenimenti futuri coordinando e tentando di
interpretare i segni incerti e magari contraddittori del presente. I
diplomatici francesi, imaginosi e attivissimi, stavano sempre
all'erta, e figurandosi che ogni giorno si presentassero per la
Francia superbe occasioni, che bisognava non lasciarsi sfuggire;
ogni loro rapporto dall'Italia conteneva quasi sempre, è
vero, una versione arbitraria e parziale degli avvenimenti del
giorno, ma almeno vi si notava un perenne sforzo di penetrazione e
di sintesi dei mille dati d'ogni sorta che cadevano sotto al loro
mobilissimo sguardo; continuamente costoro facevano e disfacevano
l'Italia, pronti a trarre partito anche dalle circostanze piú
avverse. Gli osservatori inglesi non tenevano davvero il Foreign
Office in cosiffatta perpetua agitazione, né ambivano punto
di esporsi, come i loro colleghi e antagonisti, a essere il
piú delle volte smentiti, nelle loro previsioni, dal corso
degli avvenimenti: cauti e riservati, ripetevano per lo piú,
nei loro rapporti, quello che nelle varie corti si diceva
ufficialmente o veniva loro comunicato da personaggi autorevoli; non
interrogavano mai il paese, e, se anche si occupavano di letteratura
o avevano contatti con gli uomini di scienza, non mescolavano mai le
nozioni che da queste letture o incontri potevano loro derivare con
la politica o con la diplomazia. E perciò quello che maturava
nel sottosuolo italiano e che, pur manifestandosi talvolta per segni
anche evidenti, non formava oggetto di comunicazioni e di
transazioni ufficiali, generalmente sfuggiva loro, e comunque essi
non sapevano apprezzarne l'importanza o il valore di sintomo. Vero
si è che intanto, da essi protetti, prosperavano in tutta
Italia gli uffici consolari e le agenzie commerciali inglesi.
I documenti provano, insomma, che durante l'intero corso del secolo
XVIII, o almeno fino agli ultimissimi anni, l'Inghilterra ufficiale
(giacché si vuole qui parlare sempre e soltanto di quella,
tralasciando d'indagare i rapporti, tutt'altro che remoti, fra
cultura inglese e cultura italiana, e le vivissime simpatie per
l'Italia, non solamente artistiche e letterarie, diffuse nel gran
mondo inglese) ignorò candidamente l'esistenza di un
«problema» italiano: ed è inutile dire che se in
qualche caso essa si trovò a dover sancire, o proporre, o
combattere rimaneggiamenti in un senso o nell'altro della carta
d'Italia, ciò fece non preoccupandosi affatto che questi
corrispondessero a un piano conforme agl'ideali dei piú
progrediti fra gl'Italiani, ma solo in quanto essi contribuivano a
mantenere o a turbare l'equilibrio della penisola, e quello generale
mediterraneo, e favorivano o compromettevano il quieto e proficuo
svolgersi della attività commerciale britannica.
Un vero problema italiano, in senso nazionale, non si pose del resto
all'Inghilterra, come è ben noto, neanche in quei venticinque
anni dell'ultimo Settecento e del primo Ottocento, che furono
dominati dal gigantesco tentativo della Francia rivoluzionaria e
napoleonica di realizzare, specie nel bacino del Mediterraneo, le
antiche aspirazioni della distrutta monarchia borbonica. Nel corso
di quella lotta, che segna la conclusione di un secolo e mezzo di
rivalità franco-inglese, l'Inghilterra, invariabilmente alla
testa delle successive coalizioni antifrancesi, e, in Italia,
solidale di ogni effettivo o potenziale nemico o vittima della
Francia, può anche farsi, come occasionalmente si fa,
predicatrice e suscitatrice di idealità
«italiane» in contrasto con le imposizioni e le
depredazioni francesi, agitando magari anche la bandiera
dell'autonomia e della indipendenza nazionale, e promuovendo, nelle
regioni italiane libere dalla soggezione francese, ampie riforme
progressiste; salvo però a farsi, con altrettanta
spregiudicatezza e risolutezza, se e quando ciò possa giovare
alla causa suprema, puntello e stimolo di reazione, e a sostenere,
di contro alla propaganda rivoluzionaria francese, la
necessità e la ineluttabilità di un ritorno, sic et
simpliciter, all'ordinamento territoriale sancito nei trattati della
prima metà del secolo XVII. Politica dell'opportunismo
integrale, giustificata soltanto se la si confronti con quell'unico
fine che in realtà si proponeva, e al cui perseguimento ogni
altra considerazione doveva subordinarsi: il fine non pure di
distruggere la nuova egemonia francese, ma di rendere impossibili
per l'avvenire nuovi tentativi in quel senso, sia da parte della
Francia che di qualunque altra potenza europea. Nelson a Napoli nel
'99, Bentinck in Sicilia nel '12 sembra, sí, che
rappresentino due mentalità diametralmente opposte, due
sensibilità, e insomma due epoche: l'ancien régime, e
il secolo della religione liberale. Ma nella realtà e l'uno e
l'altro, e con loro la folta schiera dei diplomatici e dei militari
e degli agenti segreti britannici che percorrono l'Italia in quegli
anni, non sono che due momenti di un unico processo dialettico, non
hanno di mira che un solo obiettivo al cui raggiungimento, nelle
diverse circostanze di tempo e di luogo, piegano con mirabile
duttilità (per noi latini ragione di sincera meraviglia e di
scandalo) i mezzi in loro potere e il loro linguaggio e le loro
ideologie.
Lo studio della politica inglese in Italia dagli anni delle prime
campagne napoleoniche alla vigilia del Congresso di Vienna non ha
dunque molto valore per la determinazione di quelle che furono nel
seguito le sue linee di sviluppo o, diciam pure, le sue costanti.
Non è che una grande parentesi entro la quale lo
sconvolgimento totale dell'equilibrio mediterraneo fa sí che
l'Inghilterra non veda salvezza, sia nell'ordine politico che in
quello economico, se non, come si è detto, nel ritorno allo
status quo ante, respingendo, in definitiva, nonostante provvisorie
apparenze in contrario, qualunque forma di compromesso.
Senonché si deve considerare come la politica economica
svolta dalla Francia in Italia, e in particolare la proclamazione
del blocco continentale, con l'impoverire la nostra penisola e col
sottrarle i benefici tradizionali del commercio inglese, tanto
d'importazione che d'esportazione, vengano a porre in mano
dell'Inghilterra argomenti eloquentissimi e popolarissimi di
propaganda antifrancese, pienamente coincidenti col perseguimento
dei suoi propri interessi commerciali. L'Inghilterra, che dalla
Sardegna sabauda, dalla Sicilia, da Malta dirige il grande traffico
di contrabbando in Italia, è naturalmente e sistematicamente
portata a incoraggiarvi ovunque quelle stesse idealità
liberali, quelle stesse aspirazioni nazionali o d'indipendenza che i
Francesi hanno agitato un decennio innanzi per conquistare la
solidarietà o assicurarsi l'acquiescenza degli italiani alla
politica di eversione dell'antico ordinamento territoriale e
politico. Le parti si sono adesso invertite: e quella assimilazione
medesima che piú o meno spontaneamente l'Italia ha fatto in
quegli anni dei principî della rivoluzione francese, fa
sí che la propaganda inglese (cui, entro certi limiti di
sostanza e di forma, si associa e partecipa il governo di Vienna)
trovi un terreno singolarmente preparato ad accoglierla, a farla sua
propria, a nutrirsene; e susciti in molti Italiani la speranza e,
piú, la persuasione che, una volta abbattuto l'ordinamento
francese, saranno proprio quei principî che presiederanno
all'instaurazione dell'ordine nuovo. Questo processo di conversione
all'Inghilterra di quegli appunto fra gli Italiani che, sul cadere
del secolo XVIII, hanno piú entusiasticamente abbracciato le
idee nuove venute di Francia, si precisa e si accentua
nell'ultimissima fase delle guerre napoleoniche. Nei primi mesi del
1814, in Italia, non si parla che di libertà e di
indipendenza. S'intende perciò quanto grave e amara dovesse
essere la delusione del ceto pensante italiano di fronte alla fredda
realtà del Congresso di Vienna e all'abbandono, anzi al
«tradimento», dell'Inghilterra. Ma se in alcuni dei
patrioti questa delusione e il disgusto che ne derivò
superarono ogni altra impressione e vietarono ogni speranza
superstite, generandosi una diffidenza invincibile per la
«perfida Albione», in molti altri andò
radicandosi invece la consolante opinione che l'Inghilterra medesima
fosse stata tradita, e sorpresa la sua buona fede, e che le fosse
stato forza piegarsi, suo malgrado, ai superiori interessi della
coalizione europea; e che perciò, negli anni avvenire,
l'Inghilterra non avrebbe lasciato mezzo intentato per favorire in
Italia l'affermazione, lo sviluppo e il trionfo finale delle
idealità liberali e nazionali.
Del radicarsi di tali aspettazioni e, per converso, di tali
risentimenti, anche la tarda diplomazia inglese non poteva mancare
di accorgersi e di farne il suo conto; e in quanto non conveniva in
alcun modo scoraggiare una fiducia che era pur sempre «una
carta in mano» e che nell'avvenire avrebbe potuto dare i suoi
frutti, e in quanto premeva, d'altra parte, anche ai piú
modesti fini di una ripresa e di un incremento del traffico
commerciale, di dissipare quei risentimenti. In questo senso si
può anche dire che l'eredità di quegli anni di crisi
europea pesò sugli svolgimenti ulteriori della politica
inglese in Italia, e in parte ne influenzò le movenze, e in
qualche caso perfino giunse a forzarne il ritmo, il corso e gli
obiettivi.
Ma, in tesi generale, se l'Inghilterra si era già affermata
nella seconda metà del secolo XVIII come la potenza
piú interessata al mantenimento dello status quo
mediterraneo, si deve dire che l'esperienza napoleonica valse
soltanto a trasformare questa sua esigenza in un inderogabile dogma.
La conservazione della pace e dell'ordine, o – come allora si diceva
– del «riposo d'Europa», questo è l'unico
argomento che ormai potrà spingere il governo inglese alla
guerra: che vuol dire che anche in questa occasione il Foreign
Office giudicava il nuovo assetto territoriale del continente di sua
piena soddisfazione. Nel Mediterraneo, in particolare, il suo
prestigio politico aveva infatti raggiunto il vertice della
parabola: il possesso di Malta e delle isole Jonie, il controllo
cioè anche del bacino orientale di quel mare, non erano in
realtà che le due piú vistose pedine venute a
rinforzare il suo giuoco. Non meno cospicui erano i vantaggi
indiretti che aveva saputo conseguire. E a chi mai, se non in
primissimo luogo all'Inghilterra, doveva l'Austria il riacquisto
integrale dei suoi possedimenti italiani, con l'aggiunta di Venezia?
A chi il Piemonte la sospirata annessione di Genova? E quando mai
per l'innanzi aveva il pontefice romano contratto tanto debito di
gratitudine ed espressa cosí viva e sincera la sua
riconoscenza alla protestante Inghilterra? Chi, se non
l'Inghilterra, aveva salvato ai Borboni il trono di Napoli e
garantito loro il possesso di quella Sicilia che essi, e non essi
soltanto, avevano a piú riprese temuto che l'Inghilterra non
avesse difeso se non per riservarne a se stessa il possesso?
Generosa politica, certo; ma insieme, si ripete, pienamente
corrispondente agl'interessi inglesi. L'Austria forte, intanto, era
un vecchio precetto pel Foreign Office, cui adesso aumentavan valore
le preoccupazioni vivissime che a Londra cominciava a destare la
politica russa. Giacché se da tempo ormai la Russia si
volgeva all'Europa, non mai come negli ultimi anni essa aveva
portato il suo gran peso nelle vicende continentali, non mai mirato
cosí visibilmente agli Stretti. Non era l'Austria il naturale
baluardo antirusso e non assicuravano le secolari sue aspirazioni
balcaniche quella rivalità fra le due potenze che
all'Inghilterra, sollecita di una libera via per l'Oriente, stava
massimamente a cuore?
Altro punto obbligato della politica inglese restava l'ingrandimento
sabaudo. Non già che la condotta del governo di Torino, in
qualche caso troppo palesemente opportunistica, fosse sempre stata
tale, anche durante l'ultima crisi, da meritare la riconoscenza
dell'Inghilterra; ma le stesse ricorrenti debolezze sabaude per il
vicino francese non additavano forse la gravità del rischio
che si correva lasciando a guardia delle Alpi un portiere male in
gambe? Il caso di Cherasco non era stato una lezione per tutti?
Ond'è che l'Inghilterra aveva perfino caldeggiato, durante le
conferenze di Vienna, l'annessione della Lombardia al Piemonte,
previo compenso all'Austria in Italia o, meglio, fuori d'Italia, e
alla Francia, eventualmente, in Savoia. Questa combinazione si era
rivelata impossibile, ma l'annessione di Genova era stata operata
proprio con questo fine, nonostante le proteste della repubblica,
che dopo cinquant'anni pagava il fio d'aver venduto alla Francia la
Corsica, quella Corsica ond'era uscito Napoleone: l'annessione di
Genova al Piemonte assicurava d'altronde alla flotta inglese, in
caso di guerra, un rifugio sicuro, nel contempo sottraendo alla
Francia la piú efficiente e pericolosa sua base di appoggio
nella penisola; in tempo di pace, poi, il porto di Genova in mani
amiche non solamente equivaleva al controllo commerciale della
intera vallata del Po, ma costituiva un eccellente punto di partenza
per un piú razionale e integrale sfruttamento dei mercati
svizzeri e tedeschi.
Quanto agli Stati della Chiesa, non era soltanto la spina irlandese
che aveva spinto il Foreign Office a propiziarsi in ogni senso il
Vaticano, appoggiandone le rivendicazioni territoriali: il problema
cattolico a Malta ed in altre colonie costituiva infatti un potente
incentivo all'adozione di quella stessa politica; non mai si era
stati tanto vicini ad un ristabilimento delle normali relazioni
diplomatiche fra Londra e Roma, interrotte ab antiquo.
E finalmente, che gl'interessi inglesi imponessero, piú che
non consigliassero, la restaurazione borbonica sul trono di Napoli,
resulta evidente a chi rifletta ai lauti proventi che l'Inghilterra
aveva cavati dal mezzogiorno d'Italia fino da quando vi si era
stabilita la dinastia borbonica. Subito dopo la restaurazione, che
aveva fatto del residente inglese il padrone di Napoli, non venne
firmato, del resto, fra i due governi, un accordo commerciale
cosí apertamente parziale per l'Inghilterra che non a torto i
migliori napoletani ravvisarono in esso, nel seguito, una delle
cause precipue del deficiente progresso economico del loro paese?
Quanto alla Sicilia, non c'era via di scelta: questa isola, sotto
l'aspetto commerciale, si era trasformata ormai in una mezza
dipendenza inglese; le principali aziende, commerciali, minerarie e
industriali, due su tre erano inglesi; ma inglese, sotto il rapporto
politico, l'isola non avrebbe potuto essere. Di chi dunque?
Indipendente, no: ché, nella sua debolezza, avrebbe
esercitato un'eccessiva attrazione sugli appetiti francesi,
fors'anche russi, e comunque troppo facile esca avrebbe fornito ad
un conflitto fra le potenze marittime. E se doveva andare annessa a
qualche minore potenza, non era meglio ridarla ai Borboni cui dopo
tutto si era mantenuta fedele e che per la sua vicinanza grandissima
ai loro dominî di terraferma l'avrebbero piú facilmente
potuta difendere?
Dal 1815 ai primi mesi del 1859, l'Inghilterra, dunque, consacra
ogni sua energia alla salvaguardia dello status quo territoriale
italiano, di continuo turbato e minacciato da una serie di fattori
interni ed esterni. Interni, l'inquietudine crescente degli strati
socialmente piú elevati della popolazione italiana, tra i
quali sempre piú si diffonde, dopo l'esperienza francese,
l'intolleranza degli anacronistici regimi dispotici e della diretta
o indiretta dominazione straniera; il malcontento del ceto
commerciante per le divisioni della penisola che, concretandosi in
varietà di leggi e di regolamenti, in pluralità di
barriere doganali e di sistemi monetari, in molteplicità
d'intoppi alla circolazione, si risolvono in un gravissimo danno
alla loro attività e alle loro iniziative; e finalmente le
gelosie fra i principi italiani, o aventi dominio in Italia,
travagliati pressoché tutti da smanie d'accrescimento.
Fattori esterni, per non citarne che due, operanti negli anni
immediatamente successivi al Congresso di Vienna, la sollecita
ripresa della politica francese mirante a sostituire la propria
influenza a quella dell'Austria presso le varie corti italiane e, in
caso d'insuccesso, a screditare nella popolazione i regimi
esistenti; e la piú che dubbia attività liberale e
costituzionale svolta dagli agenti politici russi: ai quali due
fattori ben presto si aggiungeranno gli errori compiuti dall'Austria
nell'amministrazione dei suoi possessi italiani.
Gli sforzi dell'Inghilterra per neutralizzare l'azione sovvertitrice
di questi diversi elementi si esercitano naturalmente in piú
direzioni e variano d'intensità a seconda delle mutevoli
esigenze della politica inglese su altri scacchieri, ed
altresí a seconda dei programmi politici dei vari gabinetti
che si succedono a Londra; ma seguono pur sempre alcune direttive
essenziali. Per sopire l'irrequietezza dei ceti colti italiani (tra
i quali è pure frequente il richiamo all'esempio politico
inglese, invocandosi in particolare il precedente della costituzione
siciliana del '12, modellata su quella britannica, garantita
agl'isolani da un rappresentante del governo di Londra e poi
abrogata con l'aperto assenso del costui successore), il Foreign
Office si fa, a Vienna, a Torino, a Firenze, a Roma, a Napoli,
consigliere instancabile di progressive e caute riforme
amministrative e politiche, che mentre valgano ad esaudire i voti
piú ragionevoli della parte migliore della cittadinanza,
mirino ad occupare, e quindi a sottrarre al facile e pericoloso
esercizio della critica, quelle energie nuove che il periodo
francese ha rivelato e messo in valore. Per contentare i ceti
commercianti (le cui lagnanze trovano eco nei rapporti dei suoi
consoli e nelle sempre piú vivaci rimostranze della colonia
inglese in Italia) il governo di Londra, quale che possa essere
l'esempio contrario che esso offre con la sua propria legislazione,
fa continue, energiche pressioni perché gli Stati italiani,
attenuino la politica protezionistica ovunque instaurata dopo la
crisi europea, e magari provvedano a stringere fra di loro intese
commerciali (ciò che, fra parentesi, assai gioverebbe allo
sviluppo dei traffici inglesi...) Negli ambienti del Foreign Office,
nel contempo, comincia ad acquistare qualche credito una corrente
secondo la quale l'Inghilterra dovrebbe prepararsi a favorire, in un
piú o meno lontano avvenire, e unicamente per via di
negoziati pacifici, una semplificazione della carta d'Italia basata
sull'assorbimento, da parte degli Stati piú forti, delle
piccole formazioni del centro della penisola e ancora, e in primo
luogo, sulla dilatazione piemontese in Lombardia: rimuovere insomma
dall'edificio, per salvarne la stabilità, le parti piú
evidentemente caduche.
Quanto agli attriti e alle gelosie fra i principi italiani,
l'Inghilterra si presenta quasi costantemente in veste di mediatrice
e di promotrice di accordi; amica dell'Austria, ma diffidente essa
stessa di certa sua politica invadente, agisce energicamente su
Vienna in senso moderatore, e anzi, ogniqualvolta se ne presenti il
destro, non manca di prepararla al sacrificio, sempre piú
opportuno e un dí o l'altro indispensabile, di una porzione
dei suoi dominî italiani; a Firenze si studia di eccitare lo
spirito di indipendenza; di Parma e Lucca non ha quasi mai ragione
di occuparsi; con Modena, antesignana della politica reazionaria,
finirà col rompere affatto. A Torino, generalmente
antiaustriaca, e anzi freneticamente tale, prende le difese
dell'Austria; salvo a riesumare e svolgere essa stessa le
tradizionali cause di attrito fra i due paesi, nei rari casi in cui
Torino inclini ad eccessiva intimità con l'Austria. A Roma e
a Napoli, nei cui confronti non tarda ad adottare un'attitudine
visibilmente scettica quanto ai sistemi di governo che vi prevalgono
e alla possibilità di promuoverne l'evoluzione, combatte di
volta in volta il prevalere d'influenze straniere esclusive o
tendenti all'esclusività.
Restano, una volta rimosse le vaghe inquietudini per le non chiare
tendenze della politica russa in Italia (ciò che si verifica
tra il 1819 e il 1820), le preoccupazioni costanti per la politica
francese: alle quali il Foreign Office reagisce secondo le direttive
tradizionali, seppure il suo giuoco si faccia piú scaltro e
affinato. In questo senso non sarebbe forse avventato considerare
come un successo, e quasi un capolavoro della diplomazia inglese, la
spedizione francese di Ancona nel '32. Sul momento, invero, ben
pochi intuirono quale interesse potesse mai spingere il Foreign
Office a lasciar siffattamente mano libera alla Francia: non era un
canone della politica inglese quello di non consentire in alcun caso
un insediamento francese in Italia? Ci si attese a uno sbarco
inglese a Civitavecchia, si fantasticò di un preteso piano
rivoluzionario franco-inglese. Non fu che parecchio tempo piú
tardi che i piú si resero conto dei riposti motivi di quella
strana e inusata passività inglese: quando cioè
poterono considerare la profonda impopolarità che da quella
spedizione era derivata alla monarchia di luglio in Italia, ed anzi
alla vera e propria distruzione del «mito» francese che
essa aveva operato fra noi. Entro certi limiti, si potrebbe dire
altrettanto per la seconda spedizione francese negli Stati romani,
nel '49, sebbene opposto in apparenza ne fosse l'oggetto. Ché
se ci si obiettasse che in realtà il merito del finale
insuccesso francese (se merito fu) risale piuttosto, nell'uno e
nell'altro caso, al ministero degli esteri austriaco, risponderemo
che, a parte la conservazione dello status quo italiano, che ne
usciva profondamente turbato, quelle due spedizioni, attraverso
l'occupazione di due vitali punti strategici nell'Adriatico e nel
Tirreno, venivano a modificare altresí l'intero equilibrio
mediterraneo: un fatto, questo, relativamente al quale l'Inghilterra
non poteva certo contentarsi dei sottili affidamenti dell'Austria,
potenza quasi esclusivamente terrestre, ma le bisognava regolarsi da
sé, consultando soltanto i suoi propri interessi. Il caso del
1859, del resto, può prestarsi, come vedremo, ad analoghe
considerazioni.
Insomma, è pur sempre il timore di una durevole espansione
della Francia in Italia, o anche soltanto di un considerevole
aumento della sua influenza fra noi, che, unitamente alla non mai
trascurata considerazione dei suoi interessi commerciali, ci
dà la chiave della politica inglese nella penisola, dal 1815
in poi. Le conferme, o le prove, non mancano, e sono nella mente di
ognuno. Crisi del 1820-1821: l'Inghilterra, seppure non si assenti
del tutto dalla trattazione degli affari italiani, ed anzi si
esprima e si muova, in quella occasione, secondo schemi suoi propri,
sforzandosi di pacificare l'Italia mercé misure di
conciliazione soltanto, ed enunciando la tesi del non intervento,
dopo tutto lascia mano libera all'Austria. Perché?
Perché l'assiste la sicurezza che la Francia non si
muoverà; perché di fronte agli Stati italiani in
subbuglio non si erge che l'Austria. I suoi interventi effettivi,
risoluti e diretti, l'Inghilterra li riserba per quando si profili
il pericolo di una complicazione francese. 1830: rivoluzione di
luglio: minaccia grave, nei mesi seguenti, di una discesa francese
contro gli austro-sabaudi sul Po; il Foreign Office agisce
prontamente ed energicamente a Parigi, a Vienna, a Torino, e ad esso
si deve, o massimamente si deve, se la pace d'Europa è
salvata. 1831-32: crisi romana: l'Inghilterra, dopo aver lasciato
impegnare la Francia, non esita a varcare ufficialmente la soglia
del Vaticano e si fa centro di un'azione diplomatica volta alla
trasformazione del governo papale; comunque, contribuisce
efficacemente a risolvere per vie pacifiche la pericolosa vertenza
austro-franco-romana. 1838: il re delle Due Sicilie, che dopo tutto
è il sovrano assoluto di uno Stato indipendente, si attenta a
cedere ad una compagnia francese il monopolio degli zolfi:
l'Inghilterra immediatamente protesta, fa la voce grossa, e tra lo
stupore del mondo non s'acquieta fin tanto che il pericolo della
prevalenza economica della Francia in Sicilia non sia eliminato del
tutto. 1840: crisi europea determinata dalle complicazioni
orientali: l'Inghilterra dimentica affatto le non lievi cagioni di
attrito che nei quattro o cinque anni precedenti hanno intorbidato
le sue relazioni col Piemonte, e per assicurare l'attiva
cooperazione (o almeno la benevola neutralità armata) di
questo Stato alla sua politica di accerchiamento e
d'immobilizzazione della Francia, protettrice di Mehemet Alí,
gli fa, in pieno accordo con l'Austria, profferte e promesse,
né solamente di garanzia territoriale; nel contempo, timorosa
dell'intimità franco-napoletana, rivelata dalla questione
degli zolfi e, piú, dall'ufficiale mediazione della Francia
nella disputa anglo-napoletana, tenta un ravvicinamento col governo
delle Due Sicilie, mentre dichiara all'Austria che essa stessa si
assume il mantenimento dello status quo e dell'ordine in Italia.
Gli avvenimenti del '46-47 offrono all'Inghilterra un'occasione
mirabile per perseguire questo suo giuoco politico e insieme per
raccogliere in Italia amplissima popolarità, facendo
dimenticare agl'italiani decenni d'indifferenza per le loro
aspirazioni nazionali. Cobden, lord Minto: l'occasione è
eccezionale perché tali aspirazioni si presentano, allora, in
contrasto non pure con l'Austria (la quale, stringendosi con la
Russia e con la Francia, tradisce la funzione assegnatale
dall'Inghilterra), ma altresí con la Francia, in eclissi
conservatrice. L'Inghilterra appare, e in qualche misura è
davvero, l'arbitra della penisola. Gli evviva all'Inghilterra non
sono che un sinonimo degli evviva all'Italia degl'Italiani; da
Torino a Napoli si moltiplicano e s'inseguono le riforme
principesche tenute a battesimo dai diplomatici inglesi; questi
riparano in fretta alla ottusità dimostrata dai loro
predecessori o da essi stessi negli anni della vigilia, uscendo fuor
dal chiuso delle corti e dei ministeri e allacciando relazioni con
uomini nuovi, che, pur non coprendo posti ufficiali, esercitano da
tempo un'indiscussa autorità morale sui loro concittadini, e
sono adesso alla testa dei vari partiti; e già il Foreign
Office ritiene che sia giunto il momento opportuno per negoziare una
revisione dell'assetto italiano in base ai suoi vecchi disegni, e
già s'adopra a quell'uopo, quando – febbraio 1848 – scoppia
la rivoluzione a Parigi, con le conseguenze che tutti sanno:
automaticamente la Francia si pone e s'impone come la protettrice
naturale d'ogni movimento progressista nella penisola,
automaticamente essa riprende in Italia le posizioni perdute.
L'Inghilterra, assalita dal dubbio di avere negli ultimi due anni
lavorato, in realtà, a pro della sua grande antagonista, fa
precipitosamente (e con l'usata disinvoltura) macchina indietro, si
riaccosta all'Austria, tende tutte le sue energie all'intento di
sopire l'effervescenza italiana. Scoppiata poco dopo, e a suo
dispetto, la guerra austro-sarda, sua mira suprema sarà
quella d'impedire un intervento francese: ed anche per questo,
seppure invano, essa si sforzerà di far comprendere
all'Austria la convenienza di una sollecita cessione della Lombardia
al Piemonte, indipendentemente dalle sorti del conflitto. Mediazione
inglese, armistizio. Nel '49, riaccesasi, contro gli amichevoli e
insistenti suoi consigli a Torino, la guerra, il Foreign Office, sia
perché tien fermo alla direttiva d'un Piemonte efficiente,
sia perché nutre sempre il timore di un possibile intervento
francese, s'adopra a Vienna per far rispettare la linea del Ticino.
La crisi è finalmente superata: l'Inghilterra del marzo '49
non è certo sulla linea del '47, delle prime settimane del
'48; la sua popolarità effimera è naturalmente svanita
del tutto; eppure essa non sente di aver perduto la partita. Il
mancato intervento nel nord della penisola di una Francia tornata
alle tradizioni rivoluzionarie è quel che le basta;
né, come già si è osservato, le duole o le
nuoce che la seconda repubblica vada a spegnere a Roma la face della
libertà.
Ma veniamo alla crisi risolutiva. Il programma di Plombières
non contraddirebbe nella sostanza alle note vedute inglesi sul
problema italiano, se – a parte la prevista cessione di due
provincie italiane alla Francia – esso non contemplasse il possibile
insediamento di dinastie francesi o devote alla Francia, a Firenze e
a Napoli; piú ancora se non implicasse la guerra. Di fronte
alla guerra, e alla guerra francese, il Foreign Office punta i
piedi: tanto piú che il terzo Napoleone si è
assicurato il preventivo consentimento russo. Non mai come in quei
primi mesi del '59 la causa italiana ebbe cosí cattiva stampa
in Inghilterra, governo tory e opposizione whig. È forse la
caduta del ministero conservatore, l'avvento del binomio
Palmerston-Russel che rovescia questa presa di posizione? Neanche
per idea: l'Inghilterra inverte la rotta non appena si avvede che la
guerra sul Po, con le complicazioni che suscita nell'Italia
centrale, promette di liquidare, nella penisola, la Francia,
ricattata dalla Prussia e profondamente agitata, nell'interno, della
rivolta dei conservatori cattolici. Villafranca non è davvero
un successo inglese, ma innegabilmente lo è lo sfruttamento
che di Villafranca l'Inghilterra conduce con abilità
consumata e una duttilità che si riallaccia alle migliori sue
tradizioni politiche. Ora sí che il programma revisionista
inglese, seppure dilatato al di là di ogni previsione, si
attua a dovere: e cioè a tutte spese della Francia. Né
importa se l'Austria esce da quella guerra mutilata: da tempo il
Foreign Office è andato avvertendola, infatti, che la
potatura di un ramo gioverà a rinforzare il suo stracco
organismo; da tempo essa anticipa il vantaggio che all'Inghilterra
deriverà dalla conseguente maggiore efficienza dell'Austria
nel settore balcanico. Se nell'Italia centrale le restaurazioni
restano un pio desiderio, questo è in gran parte merito
inglese; come merito inglese è la spinta alle annessioni,
sbaragliamento definitivo di effettivi o supposti piani di Napoleone
in vista di sostituire al granduca un suo luogotenente. Gl'Italiani
sanno di dovere agli amici inglesi se quel promettente principio
dell'opera di riconquista della loro indipendenza e, ormai, della
loro unità nazionale, ha potuto attuarsi senza provocare
ritorni offensivi dell'eterno nemico e fors'anche dell'alleato di
ieri.
Quanto agli avvenimenti del 1860, essi, certo, colsero di sorpresa
il Foreign Office, come del resto anche la Francia e tutte le
cancellerie europee. Francia e Inghilterra da tempo si trovavano con
Napoli in relazioni assai tese; senonché, mentre questa non
ad altro mirava che ad una radicale riforma in senso costituzionale
del governo borbonico, quella (come si è già
ricordato) era sospettata di spiare e possibilmente anticipare la
decadenza della dinastia borbonica per soppiantarla con un ramo
collaterale della sua casa regnante. Ond'è che, allo scoppiar
della crisi, il Foreign Office, già indignatissimo per la
pattuita cessione alla Francia di Nizza e della Savoia, si
adombrò soprattutto per il timore di nuovi intrighi francesi.
Di poi, assicurato che non un palmo di territorio nazionale sarebbe
stato d'ora innanzi barattato o ceduto, non solamente si
acconciò all'occupazione della Sicilia, ma lasciando via
libera, di contro alle vedute e alle proposte francesi, al passaggio
dei volontari da quell'isola sul continente, si fece apertamente
solidale dell'estremo colpo inferto ai Borboni. Di qui, nella stessa
Inghilterra, ed anzi in altissimo luogo, dubbi e scrupoli e
rimbrotti al ministero: d'altronde ben presto caduti. E infatti la
diplomazia inglese aveva offerto in quella congiuntura una luminosa
conferma delle proprie capacità: che non consistevano
proprio, ripetiamolo ancora, nella fertilità delle iniziative
e nell'acutezza delle previsioni, ma per l'appunto nel sapersi
rapidamente acconciare all'inevitabile, ricavando tutto il vantaggio
possibile da esso, come, e piú, dai fatti compiuti. Tardi, ma
sempre in tempo, il governo di Londra aveva dunque percepito come la
costituzione di un nuovo Stato unitario nel Mediterraneo
(costituzione che, per parte sua, esso non aveva mai auspicato
né ritenuto possibile) non solamente non avrebbe leso i suoi
permanenti interessi, ma anzi, e per il modo e per le circostanze
medesime attraverso le quali si andava verificando, e per la
speciale situazione diplomatica che ne veniva a determinarsi in
Europa, e per le inderogabili esigenze del nuovo Stato, li avrebbe
singolarmente favoriti, aumentando, di conseguenza, la sua influenza
nel Mediterraneo; e come, per contro, il perdurare di una causa
permanente di disordine e d'inquietudine nel mezzogiorno d'Italia
avrebbe finito per offrire alla Francia l'occasione e il pretesto
non solamente per esercitare a Napoli un'influenza forse esclusiva,
ma piú vastamente, per sostituirsi all'Austria nel controllo
di un'Italia divisa, e, verosimilmente, discorde.
Quanto all'orientamento politico del nuovo Stato unitario, dati
evidenti permettevano di presumere che, almeno in una prima fase,
esso non avrebbe potuto appoggiarsi né su Parigi né su
Vienna. Finché la Venezia ed altre province
incontestabilmente italiane restavano in mano dell'Austria, il
pericolo di una eccessiva intimità italo-austriaca non era
neanche da prendersi in considerazione; la virulenza del problema
romano e la stessa difficoltà di comporlo valevano d'altronde
ad accertare che, ove pure non avessero agito in quel senso altri e
piú gravi e permanenti motivi, il fatale compimento ultimo
del programma unitario si sarebbe ormai svolto contro la Francia. Ma
poi: quali interessi avrebbero potuto anche nel seguito legare
siffattamente Italia e Francia da costituire una seria minaccia alle
posizioni inglesi nel Mediterraneo? La Corsica e Nizza in mani
francesi rivestivano in questo senso, agli occhi inglesi, lo stesso
valore che la Venezia o il Trentino in mani austriache; la
spartizione, già iniziata, delle coste dell'Africa
settentrionale avrebbe inevitabilmente formato oggetto di
controversie non lievi tra Francia e Italia, specie dopo che il
taglio dell'istmo di Suez, avviato nel '59, avesse restituito al
Mediterraneo gran parte della perduta importanza; anche
l'inevitabile concorrenza in Levante avrebbe messo di fronte Francia
e Italia. La Francia aveva ben piú vasti interessi nel mondo
che non l'Italia, né solo sul Mediterraneo gravitava la sua
potenza; ma l'Italia, dovunque avesse scorto interessi suoi da
tutelare, dovunque avesse fermato lo sguardo, avrebbe fatalmente
incontrato la «sorella latina» sul suo cammino. A chi
dunque si sarebbe rivolta per tutelare la sua sicurezza e per essere
assistita nello svolgimento di un programma di modesta, graduale
espansione? I politici inglesi capivano perfettamente che, tra la
Francia e l'Austria, la nuova potenza non avrebbe potuto appoggiarsi
che all'amica Inghilterra; e caso mai, per parte di terra, alla
Prussia, allora in pieno cammino ascensionale; capivano
altresí che, posto l'immenso e indifeso e in parte
indifendibile suo sviluppo costiero, l'Italia sarebbe stata
costretta, in caso di guerra generale, o addirittura a schierarsi
dalla parte della potenza piú forte per mare o almeno ad
impegnarsi nei suoi confronti ad una benevola neutralità.
Insomma, l'Italia sabauda, nel piú complesso giuoco europeo
della fine del secolo XIX, era dall'Inghilterra destinata a calcare,
volente o nolente, le orme tradizionali dell'antico Piemonte;
senonché ben altro avrebbe potuto essere, all'occorrenza,
l'apporto del nuovo Stato, in paragone dei servizi necessariamente
modesti resi nei secoli da quello che n'era stato il nucleo
originario; come ben altra s'annunziava la stabilità del suo
giuoco politico.
Del resto la nuova Italia, mancante di materie prime, poverissima di
capitali, sprovvista di un'adeguata marina da guerra e mercantile,
bisognosa di farsi al piú presto una sua attrezzatura
industriale e di dare incremento alla sua produzione agricola, e di
ottenere perciò vasto credito, se non altro per dare lavoro
all'esuberante sua popolazione, questa Italia senza dubbio si
sarebbe dimostrata una preziosa cliente dell'Inghilterra; e anche
questa era una considerazione non priva d'importanza per i politici
inglesi.
Gli avvenimenti degli ultimi decenni del secolo XIX, e quelli dei
primordi di questo nostro, attestano che il Foreign Office, pur
(concludendo) assai poco benemerito della unificazione italiana nel
periodo della sua penosa maturazione, non si era sbagliato quando,
all'ultimo, le aveva impresso la spinta definitiva. Spetta ai
politici odierni e agli storici di domani di valutare fino a qual
punto le vitali necessità dell'Italia grande potenza, in
un'Europa profondamente sconvolta dalla crisi del '14-18, e nella
quale tutti i problemi di equilibrio sono rimessi in questione
dall'avvenuta rivoluzione nelle armi e nei mezzi di trasporto,
possano ulteriormente coordinarsi con gl'interessi essenziali
dell'impero britannico.
2.
Nuovi documenti inglesi su Carlo Alberto
principe di Carignano
Niccolò Rodolico, nel suo bel libro su Carlo Alberto2, ha
giustamente attribuito molta importanza a taluni documenti del
Record Office di Londra, da lui per primo rinvenuti e dati alla
luce3: sono i dispacci del ministro d'Inghilterra a Torino, e si
riferiscono segnatamente a due distinti periodi della vita del
principe, il periodo immediatamente successivo alla bufera
rivoluzionaria, cioè, e quello immediatamente precedente alla
sua ascesa al trono.
Ci proponiamo, in questo breve studio (limitato, per esigenze di
spazio, al solo anno 1821) di portare alla conoscenza dei lettori
qualche altro documento della stessa provenienza, che un sistematico
spoglio dei fondi del Record Office ci ha posto in grado di
rintracciare; ben lieti di cogliere questa occasione per rendere al
Rodolico l'omaggio piú serio che possa rendersi a uno
studioso della sua tempra: l'esaminare e il discutere taluni dei
resultati cui egli è giunto, integrando con nuovi apporti il
materiale documentario da lui cosí abilmente sfruttato.
Premettiamo che, pur dissentendo dal Rodolico in qualche punto
minore della sua tesi (di moderata e intelligente rivalutazione di
Carlo Alberto), accettiamo nel complesso il suo punto di vista e le
sue conclusioni. Il processo al Carignano, rifatto, da cent'anni in
qua, innumerevoli volte, non venne infatti istruito mai con tanta
equità, con un cosí scrupoloso esame di tutte le
testimonianze attendibili, con un cosí disinteressato ardore
per la verità, come dal Rodolico.
Senonché la scelta dei dispacci inglesi fatta con molta
accortezza dal nostro autore rivela, a chi conosca l'intera serie,
il difetto fatalmente inerente a ogni scelta, specie quando si
tratti di documenti riflettenti le opinioni, che non possono non
essere in qualche misura provvisorie e mutevoli, di un diplomatico
circa persone che vivono ed eventi che si svolgono sotto i suoi
occhi. L'uso di queste fonti dev'essere estremamente cauto;
può accadere altrimenti che a un dispaccio trionfalmente
addotto a conferma di una finissima ipotesi altri possa contrapporre
un altro dispaccio vergato pochi giorni o anche poche ore piú
tardi dalla medesima mano, il quale a quella ipotesi tolga
senz'altro ogni base4.
Difetto d'informazione (ben comprensibile in chi ha dovuto
sintetizzare in un volume di medie dimensioni il resultato di
innumerevoli ricerche antecedenti, e non ha forse avuto diretto
accesso alle fonti) che in qualche caso si complica con una
interpretazione forse un poco sforzata data ai singoli documenti.
Veniamo al concreto. I documenti inglesi sfruttati dal Rodolico
nella prima parte dell'opera sua consistono, si è detto, in
alcuni dispacci spediti al Foreign Office dalla legazione inglese a
Torino. William Hill, che n'era il titolare già da piú
anni, non si trovava in sede nel marzo 1821: era partito in licenza
un anno innanzi, e – nonostante la gravità della situazione
italiana ed europea – non riprese il suo posto che alla fine di
aprile del 1821 (strana combinazione: quando scoppia la rivoluzione
in Piemonte, tanto la legazione inglese a Torino che quella sarda a
Londra e a Parigi sono affidate a semplici incaricati d'affari). Lo
aveva sostituito il segretario di legazione Algernon Percy5, alle
cui informazioni, perciò dovette necessariamente attingere lo
Hill quando, tornato in Piemonte, cercò di farsi un giudizio
indipendente sulla portata e la vera entità dell'episodio
rivoluzionario, e in particolare sulla asserita
responsabilità di Carlo Alberto.
Che atteggiamento tenne il Percy durante le giornate di marzo e
quali furono i suoi rapporti con Carlo Alberto? Queste domande
involgono l'annoso problema dell'attitudine inglese di fronte alle
convulsioni italiane: problema al quale l'autore di queste note ha
dedicato un ampio studio, ormai prossimo alla stampa. Ricordiamo qui
poche circostanze essenziali.
Nella seconda metà del 1820, e piú ancora nei primi
due mesi del 1825, il Foreign Office era stato ripetutamente
prevenuto della minacciosa situazione interna del regno di Sardegna.
Prima di tutti dal Percy: il quale andava sottolineando la doppia
natura del male, crescente tensione antiaustriaca e impazienti
velleità costituzionali. Il 2 agosto 1820 egli cosí
scriveva:
Mi dicono aver Sua Maestà dichiarato che niente potrà
indurla ad accedere alla domanda di una costituzione; che
abbandonerà i suoi dominî continentali e si
ritirerà di bel nuovo in Sardegna piuttosto che
assoggettarvisi a rinunziare ai suoi diritti, o anche ammettere che
venga posto qualunque controllo alla sua autorità6.
Informazioni alquanto diverse, ma non meno preoccupanti, mandava al
Castlereagh suo fratello lord Stewart, ambasciatore a Vienna. Il 25
luglio, ad esempio, egli scriveva da Baden:
Si crede che il re di Sardegna sia pronto a concedere una
costituzione; non v'è dubbio infatti, che ci si attende una
rivoluzione in Piemonte, a Genova, e (in genere) nel nord d'Italia7.
E quattro giorni dopo, da Vienna:
A Torino regna una grande agitazione, e il re ha mandato qui (un suo
incaricato) per fare comunicazioni confidenziali all'imperatore
d'Austria. Sua Maestà Imperiale ha scritto personalmente al
re di Sardegna... esprimendogli la sua ferma decisione di assisterlo
nel conservare l'ordine attuale8.
Anche lord Burghersh, per quanto ministro a Firenze, si sentiva in
obbligo di richiamare l'attenzione del Foreign Office su quel
«gran focolaio di gelosia contro gli austriaci in
Italia» che era il Piemonte9. L'opinione del Metternich,
d'altronde, era ben nota a Londra: e il cancelliere austriaco faceva
di tutto per comunicare al collega inglese le sue vive apprensioni
circa la sorte del Piemonte affidato a un re «debole e
ondeggiante» e dotato di un esercito altrettanto agguerrito
che infido10.
Nonostante questi ripetuti avvertimenti, lord Castlereagh, si sa,
deliberatamente e sistematicamente si astenne dall'esercitare in un
senso o nell'altro la propria influenza presso quella corte sabauda,
che pure contava fra le piú antiche e le piú fedeli
alleate dell'Inghilterra sul continente, e che in ogni contingenza
difficile aveva sempre beneficiato degli incoraggiamenti e dei
consigli britannici. La legazione inglese a Torino rimase – alla
lettera – senza istruzioni durante i mesi che precedettero lo
scoppio della rivoluzione, nonché durante l'intero
svolgimento della pericolosissima crisi.
Solo alla fine di aprile del '21 giunse a Torino lo Hill, munito
delle istruzioni scritte e verbali di Downing Street. Invano il
governo francese scongiurò lord Castlereagh di esternare il
suo punto di vista sulla questione piemontese11. Lord Castlereagh
stava allora elaborando, in relazione alla questione di Napoli, la
sua dogmatica formulazione del principio del non intervento,
ufficialmente enunziato nel gennaio '2112, del quale pareva che si
piccasse di voler dare una interpretazione preventiva e
singolarmente estensiva, assistendo con passiva indifferenza al
maturarsi di una situazione rivoluzionaria in un paese, come il
Piemonte, minacciato sempre, in occasione di torbidi interni,
dall'intervento di una o di entrambe le potenze finitime. Non pareva
rendersi conto che l'unico mezzo per impedire sicure violazioni di
quel principio da parte di altri governi poteva talvolta consistere
appunto in tempestivi interventi diplomatici; non pareva rendersi
conto (e in questo aveva ben ragione il Metternich) che la stessa
solenne sua enunciazione non avrebbe mancato di provocare in Italia,
in quelle particolarissime circostanze di tempo, le conseguenze
piú indesiderate.
Fatto sta che a Londra il Castlereagh evitò perfino di
discutere la situazione piemontese coi diplomatici sardi. Con essi
parlava solo dei casi napoletani o di politica generale13. Non
già che egli non seguisse con preoccupazione le vicende
dell'Italia settentrionale dalle cui complicazioni era evidente che
poteva scoccare la scintilla generatrice di un conflitto europeo e
perciò anche, a tutto danno inglese, di una possibile
modificazione dello status quo mediterraneo: ma il Castlereagh
statista e Ministro degli esteri subiva adesso, si direbbe,
l'impaccio del Castlereagh teorico politico. Troppo improvvisato,
come teorico, e perciò troppo rigido e ostinato, per trovare
un ragionevole accordo fra la teoria e la pratica.
Nella imminenza del Congresso di Lubiana lo Stewart, tra l'altro,
gli fece sapere essere intenzione dell'Austria d'intendersi con le
altre potenze italiane per una contemporanea riforma dei loro
ordinamenti statali. Era un'occasione opportuna per l'Inghilterra
per esercitare la propria influenza in senso cautamente
progressista.
Ma il Castlereagh non volle averci nulla a che fare, adducendo che
il suo paese non avrebbe mai potuto incoraggiare una «lega
italiana»: in realtà egli sospettava le coperte mire
dell'Austria; ma il suo disinteressamento era proprio il mezzo
piú adatto a sventarle?14.
Algernon Percy si limitò quindi, contro diffuse aspettazioni
e speranze, a tenere minutamente informato il Foreign Office degli
sviluppi della situazione in Piemonte, astenendosi accuratamente dal
pronunziare giudizi o dall'avventare prognostici; quel che è
peggio, ondeggiando assai spesso, nella incertezza del punto di
vista londinese, fra opposti pareri e consigli.
Ma torniamo a Carlo Alberto. Ci furono rapporti fra palazzo
Carignano e la legazione d'Inghilterra anteriormente al marzo '21?
Nel primo semestre del '20 Carlo Alberto è nominato una volta
sola nella corrispondenza ufficiale Torino-Londra: in occasione
della nascita del piccolo Vittorio. E neanche quella volta si dicono
di lui cose peregrine. Dopo di allora si capisce che il Percy
dev'essere entrato in rapporti diretti, relativamente frequenti, col
discusso abitatore di palazzo Carignano. In un dispaccio del 13
marzo '21, infatti, l'incaricato inglese si farà un merito
col Castlereagh di aver «sempre avuto maggiore intimità
col principe Carignano che non il resto del corpo
diplomatico». Ma si dovette trattare di contatti meramente
personali ed extra-ufficiali: fatto sta che non lasciarono
pressoché traccia nei dispacci diretti al Foreign Office.
Sarebbe azzardato supporre che, anziché per il consueto
tramite di corte, il Percy entrasse in rapporti amichevoli col
principe mercé le conoscenze che contava nel piccolo mondo
della nobiltà liberale? Certo è che nel dispaccio 5
aprile 1820 si legge essersi egli spesso incontrato con «un
piccolo gruppo» di liberali, o piuttosto (che il Castlereagh
non avesse a prendere ombra!) di «individui, i quali si
chiamano liberali piú per desiderio di originalità,
credo, che non per effettivi principî».
In un caso, però, l'incaricato inglese avverte l'obbligo di
riferire al suo ministro degli esteri le confidenze di Carlo
Alberto. Siamo nell'ottobre del '20. Ed ecco le parole del Percy:
Durante una visita che ho avuto l'onore di fare a S. A. Serenissima
il principe di Carignano per complimentarlo della nomina a Gran
Mastro dell'artiglieria15, la conversazione si volse sull'ingresso
delle truppe austriache in Italia. S. A. si espresse con molto
calore e non senza qualche ostinazione contro il governo austriaco,
ciò che avrebbe potuto stupire una persona meno al corrente
(di me) dei sentimenti dei piemontesi in genere; disse che sperava
che sarebbero rimasti dove si trovavano; che non potevano venire in
Piemonte se non per due ragioni: per tentare di conquistarlo,
cioè, o per prestargli assistenza; che la loro assistenza non
era affatto necessaria; e che egli era pienamente persuaso che la
sola cosa la quale avrebbe suscitato disordini nel paese sarebbe
stata l'ingresso di un soldato austriaco in territorio piemontese.
Oso dire che questi sentimenti sono universalmente diffusi tra i
militari, e invero che molti li esprimono troppo apertamente16.
Il dispaccio Percy non ci rivela nulla di nuovo. Analoghe
professioni di fede, analoghi sfoghi Carlo Alberto andava facendo in
quel torno di tempo, né solo oralmente. Grave è
però il constatare come egli non si facesse riguardo di
palesare questo suo stato d'animo a un membro del corpo diplomatico
recatosi da lui in visita ufficiale, e piú particolarmente al
rappresentante di quella Inghilterra castlereaghiana, notoriamente
in eccellenti rapporti con la corte di Vienna.
Ma il Percy non si stupiva. Già da tempo egli andava
segnalando a Londra la pericolosa effervescenza antiaustriaca
determinatasi nei circoli politici e militari in Piemonte,
già da tempo egli sapeva che il re medesimo, anziché
porvi freno, ne era, inconscio, il primo istigatore17. Il Foreign
Office, per altro, non pareva preoccuparsene. Anche se il Percy,
qualche settimana piú tardi, scriveva che «il terrore
dell'artiglio austriaco... viene espresso ogni giorno piú
apertamente»18, il Castlereagh pareva pensare che a tutto
ciò avrebbero posto rimedio, quanto prima, i cannoni
austriaci destinati, senza il suo consenso ufficiale, ma col suo
espresso incoraggiamento ufficioso, a soffocare la rivoluzione di
Napoli19.
Dalla corrispondenza del Percy non ci risulta che nel gennaio e
febbraio del 1821 egli avesse altri abboccamenti col principe: la
cui attività e il cui contegno venivano per altro
attentamente seguiti. Ed ecco qui confermata la palese
disapprovazione di Carlo Alberto per la violenta repressione dei
moti studenteschi dell'11 gennaio20, ecco la notizia inedita di una
dimostrazione improvvisata in suo onore, la notte del 15 gennaio,
dinanzi al teatro, da un centinaio di persone21, ecco finalmente i
preoccupati ragguagli sul sequestro di corrispondenza settaria
operato il 3 di marzo, con conseguente compromissione del Carignano,
«che il partito liberale tiene come un idolo e considera come
il principe adatto per venir messo alla testa del governo italiano
che esso si propone d'instaurare»22. Siamo ormai alla vigilia
della rivoluzione. Il Percy segue la crisi con crescente
ansietà, con pessimismo marcato, l'occhio fisso alle mosse
dell'Austria impegnata nel Sud. Al primo sintomo di pronunciamento
militare prevede la defezione di tutto l'esercito; ben presto
confesserà di non veder altra salvezza pel paese, né
altra alternativa, che in una guerra all'Austria!23. Come
osservatore è eccellente: i suoi rapporti con palazzo
Carignano, le sue frequenti visite a corte e alla segreteria degli
Esteri gli permettono di riempire i dispacci, che quasi
quotidianamente detta pel Castlereagh, d'informazioni aggiornate e
sicure. Ma come diplomatico, si può dire, il Percy non
esiste: la sua consegna è di stare a vedere. Chi si aspetta
(e son molti) una presa di posizione da parte dell'Inghilterra,
resta crudelmente deluso. Quel che il Percy può fare si
è (conformemente a un'inveterata e non troppo compromettente
abitudine inglese) di scrivere a Napoli perché il suo collega
A'Court spedisca a Genova una nave da guerra britannica con l'ordine
di accogliere a bordo, in caso di bisogno, la famiglia reale24. Non
altro. Nessuno sa da che parte sia l'Inghilterra. Il ministro
d'Austria la dà, senz'altro, per solidale col suo governo, e
il Percy lo tiene in rispetto facendogli osservare che Inghilterra e
Francia, unite, «potevano aver qualche peso nella bilancia
europea»25.
Il 13 marzo «uno degl'intimi» del principe reggente
cerca invece di dimostrargli «che l'Inghilterra dovrebbe
mandare truppe a guernir Genova, e aiutare il Piemonte a liberare
l'Italia dal giogo austriaco»; il Percy verosimilmente
protesta, e riferisce a Londra26.
Ma veniamo ai contatti con Carlo Alberto. Il Rodolico cita di lui un
dispaccio 16 marzo, recante il resoconto di un importante colloquio
col principe27. Sebbene anche da precedenti dispacci possano trarsi
notizie di qualche interesse circa il costui atteggiamento28,
esaminiamo questo documento.
Carlo Alberto, reggente suo malgrado, lamenta di essere stato
abbandonato da tutti, specie da quelli che piú hanno
insistito perché assumesse la reggenza; auspica l'ora
dell'arrivo di Carlo Felice; invoca l'appoggio diplomatico inglese a
Vienna, e l'invio a Genova di una o due navi da guerra britanniche:
i suoi propositi appaiono incerti e contradittorî. È un
documento davvero impressionante, che induce a viva pietà per
il giovanissimo principe, anche se possa sorprenderci un poco, in
bocca a lui, la seguente intemerata, omessa dal Rodolico:
«Egli sconfessò e riprovò energicamente la
condotta del signor di Caraglio e di altri, i quali, per usare le
sue espressioni, si alzarono dalla tavola del re per tradirlo e
commettere degli atti di brigantaggio». Non avrebbe dovuto
Carlo Alberto serbare in proposito piú misurato linguaggio?
Ma il Percy non azzardò commenti né nel dispaccio al
Castlereagh, né, tanto meno, nella prudente risposta fatta
all'imbarazzatissimo principe:
Osservai a S. A. che non avevo alcuna autorità per darle
anche le piú lievi speranze di successo in questo negoziato;
... che tuttavia, e pel mio personale attaccamento e per la mia
radicata convinzione che la nazione piemontese non desiderasse la
rivoluzione, ero premurosamente disposto a sollecitare la
presentazione della sua domanda a V. S. (al Castlereagh
cioè); ma che ero fermamente persuaso che qualunque misura
ostile non provocata contro l'Austria avrebbe portato a conseguenze
di grave pregiudizio al compimento dei suoi voti29.
Fu allora che Carlo Alberto, per dimostrare che non subiva la
volontà degli insorti, pregò il suo interlocutore di
far sapere al Binder, ministro d'Austria, come non solamente egli
non avesse autorizzato, ma anzi disapprovasse «tutte le misure
adottate contro la nazione austriaca e tutte le grossolane invettive
(lanciate) contro di essa». A prova di che egli si dichiarava
disposto a mettere in esecuzione qualunque provvedimento atto a
proteggere la persona del Binder, cominciando con l'istituzione di
un servizio di guardia alla sua residenza.
Il Percy accettò volentieri l'incarico, che eseguí
senza indugio: riconosceva infatti che il suo collega austriaco si
trovava «in una situazione tutt'altro che piacevole, non
potendo egli uscire di casa durante il giorno senza il timore di
venire insultato». Non che il Binder non se lo fosse un po'
meritato: al Percy stesso riuscivano da tempo insopportabili le sue
«altezzose» e «sofistiche» argomentazioni
circa la «missione» dell'Austria in Europa30. Ma adesso
occorreva difenderlo. Cosa rispose il Binder? Ce lo dice il
Rodolico, osservando:
Le notizie dei fatti date dal Binder al Metternich concordano con
quelle date dal Percy al Castlereagh; in un punto solo vi è
discordanza (ed è umano): scrive il Percy che trovò il
Binder tappato a casa morto di paura; tiene il Binder a dire che non
ha affatto paura, e che ha fatto il bel gesto di rinunziare alla
guardia che il principe avrebbe voluto mandargli31.
Ci rincresce dover dichiarare che a questo punto l'austrofobia ha...
preso la mano al nostro storico. Ecco infatti il testuale rapporto
del Percy quale si legge nel già citato dispaccio del 16
marzo:
Credo fermamente che il barone (il Binder) sia rimasto molto
piacevolmente sorpreso della mia commissione: egli era infatti
estremamente agitato quando io cominciai la mia comunicazione.
Rifiutò ciò nondimeno una cospicua protezione32,
pregandomi di esprimere la sua gratitudine al principe, e di
chiedergli che in caso di disordini venisse impartito alla polizia
l'ordine di proteggere la sua casa e le persone della sua missione
da eventuali attacchi dei male intenzionati.
Nessun contrasto, dunque, tra i due rapporti del Binder e del Percy:
e di quel «tappato a casa morto di paura», neanche la
minima traccia!33.
Un successivo colloquio col principe l'incaricato inglese ebbe il 17
marzo. Soggetto: le voci diffuse di un imminente sconfinamento
dell'esercito sardo in Lombardia. Riferí il Percy, quel
giorno medesimo:
Il principe, dal quale mi sono ancora una volta recato questa
mattina, mi ha di bel nuovo assicurato esser sua ferma intenzione di
adoprarsi per evitare le ostilità e di richiamare le truppe
all'ordine.
Ma il Percy, pur persuaso della buona fede di Carlo Alberto, non si
era del tutto tranquillizzato.
Se l'esercito – scriveva infatti due giorni appresso – porta la
guerra in Lombardia contrariamente alle proteste fattemi dal
principe reggente, credo che nessuno o almeno pochissimi oseranno
straniarsi dalla causa italiana, nel timore di venir bollati di
codardia, e in forza del principio, che si è affermato,
secondo il quale l'atto stesso di tradire il proprio re per una
causa cosí gloriosa sarebbe perdonabile34.
Era pervenuto intanto a Torino, si sa, il duro proclama emanato il
16 marzo, a Modena, da Carlo Felice. Il ministro inglese, in un
secondo dispaccio del 19, lo censurò apertamente, facendo
notare come esso venisse a «gettare il principe reggente nella
piú grande perplessità e minacciasse di suscitare una
guerra civile in tutto il paese» (di questa opinione non era
il Gordon, sostituto dello Stewart a Lubiana, il quale – dopo
essersi fatto eco delle piú gravi accuse contro Carlo Alberto
– accertava che il proclama aveva prodotto la piú favorevole
impressione, rivelando in Carlo Felice una energia di carattere
molto superiore a quella che non ci si aspettasse da lui)35. In
questa occasione (era, verosimilmente, il 18 marzo) il Percy si
recò per la terza volta presso il reggente, che
attestò poi di aver trovato comprensibilmente sfiduciato e
depresso.
Voleva già allora rinunziare alla reggenza, ma ne era stato
dissuaso da tutti i ministri ed ex ministri36. Lo rivide il giorno
20: la sera prima aveva avuto luogo una violenta e, a giudizio del
Percy, altamente impolitica dimostrazione contro l'Austria37;
l'incaricato inglese la deplorava tanto piú che egli aveva
mancato, la mattina del 19, di trasmettere al principe, dietro
richiesta del Binder, «una delle numerose lettere anonime di
minaccia» da questo ricevuti (in quei frangenti non era
assurdo addurre a pretesto le soverchie occupazioni per esimersi da
siffatte incombenze?) Carlo Alberto, comunque, esibí al Percy
una lettera che aveva appena ricevuto dal Binder, insieme con una
risposta di sua mano, che diceva come, in conformità al
desiderio espresso nella lettera del barone, gli sarebbero stati
mandati i passaporti38.
Nient'altro. Il Binder, è noto, partí in giornata.
Il suo collega inglese, intanto, s'impietosiva sulla sorte del
principe, e quasi quasi pareva auspicare che il paese in rivolta si
stringesse intorno a lui per resistere alle imposizioni del nuovo
sovrano.
È da stupirsi – scriveva infatti – che, nello stato di
assoluta anarchia nel quale versiamo attualmente, non vengano
commessi piú gravi eccessi: il proclama di re Carlo Felice,
condannando senza speranza di perdono tutti coloro che si sono in
qualunque modo dipartiti dall'antica forma di governo, pare infatti
concepito apposta per suscitare il piú sanguinoso
sommovimento in tutto il paese.
Sua Maestà non riconosce neanche il principe reggente, per
quanto egli sia stato positivamente nominato a quel posto dall'ex re
suo fratello. Ho sentito dire che, a chi gli osservava che una
protesta siffatta (il proclama cioè) avrebbe provocato una
guerra civile nei suoi dominî, S. M. abbia risposto: tanto
meglio cosí39.
Vane speranze, sterili sdegni. La rivoluzione era in pieno tramonto,
mentre da Napoli giungeva la nuova del troppo facile, definitivo
successo austriaco. La mattina del 21 Carlo Alberto in persona
comunicava al Percy l'avvenuta partenza della sua famiglia,
giustificandola con «ragioni di sicurezza»40. La sera
stessa abbandonava anch'egli Torino, diretto a Novara. Onde il
Percy, che verosimilmente ignorava come, cosí facendo, il
principe avesse eseguito un perentorio ordine pervenutogli dal re41,
e a cui resultava che anche il principe della Cisterna aveva preso
il largo, accorato scriveva: «È melanconico osservare
come quelli che hanno cosí attivamente contribuito a portare
il loro paese allo stato attuale, siano i primi ad
abbandonarlo».
Cessavano cosí i rapporti diretti fra la legazione inglese e
Carlo Alberto, il quale, da allora in poi, non verrà nominato
che di passaggio nel carteggio ufficiale del Percy, pur ansioso
osservatore di quel che accade ad Alessandria e a Novara42.
Saranno le truppe fedeli sufficienti a soffocare gli estremi aneliti
della rivoluzione, o dovrà il Piemonte soggiacere alla
tremenda iattura dell'intervento austriaco, se non austro-russo?
L'incaricato inglese lamenta a tal punto «la distruzione
totale di questo bel paese, inevitabile nel caso che alle truppe
straniere si permetta di entrarvi», che, di sua propria
iniziativa, propone al Castlereagh di «offrire la mediazione
dell'Inghilterra per appianare il dissidio che esiste fra S. M.
Sarda e i suoi sudditi insorti, e per indurre il re a declinare
l'intervento dell'Austria e della Russia»43. Ma il Castlereagh
non intende esporsi troppo. Si limita, il 5 aprile, a esprimere al
Gordon, a Lubiana, la sua speranza che il Piemonte possa venire a
capo della crisi con forze proprie; che se poi un intervento
straniero si renderà necessario, meglio far marciare in
Piemonte le soldatesche dell'imperatore Alessandro che non quelle
austriache44.
Questo dispaccio è appena partito che, il 7 aprile, gli
Austriaci già varcano il Ticino! L'Inghilterra, cosí
non ha al suo attivo neanche un tentativo indiretto per salvare
l'autonomia del Piemonte. Che piú? Di lí a qualche
giorno il Percy dovrà declinare perfino l'invito fattogli dal
generale La Tour d'intervenire in favore del governatore di Genova,
minacciato dagli insorti di un processo sommario: non altro egli si
sente di fare, per conformarsi alle direttive del suo governo, che
d'ingiungere al console inglese di Genova di negare il passaporto
per l'Inghilterra agl'individui eventualmente implicati nel
deprecato processo...45.
Due mesi piú tardi, rievocando i vani sforzi compiuti dallo
stesso La Tour per ricondurre la quiete in Piemonte col solo ausilio
delle truppe realiste, il ministro Hill scriverà (11 giugno):
il generale ritiene però che se egli fosse stato appoggiato
da qualunque altra autorità, sarebbe riuscito allo scopo
senza l'aiuto austriaco; egli ha dichiarato altresí che se io
fossi stato a Torino e avessi potuto appoggiarlo energicamente nei
suoi propositi, questo resultato sarebbe stato indubbiamente
raggiunto. Ma egli era quasi solo a nutrire quel desiderio e quella
certezza, e venne soverchiato dalle opinioni di altre persone di
pari autorità ed influenza.
Lord Castlereagh poteva, invero, recitare il mea culpa.
William Hill era tornato in sede agli ultimi di aprile. Quali
istruzioni gli erano state impartite? Le seguenti46: a) favorire con
ogni sforzo il ritorno al trono di re Vittorio; b) nel caso in cui
ciò fosse risultato impossibile, sollecitare l'arrivo a
Torino di re Carlo Felice, e indurlo a seguire i consigli del suo
mite e assennato fratello; c) suggerire al governo sardo la
opportunità di usare la massima indulgenza compatibile con la
propria sicurezza verso i responsabili dei passati disordini.
Relativamente alla questione dinastica cui già allora pareva
dovesse dar luogo il dubbio contegno tenuto dal principe di
Carignano di fronte alla crisi rivoluzionaria, era logico che lo
Hill giungesse a Torino sfornito d'istruzioni precise. Troppo poco
se ne sapeva ancora, troppo contraddittorie erano le informazioni
fornite dalle due legazioni di Torino e di Vienna. Suo compito
precipuo era anzi quello di raccogliere in proposito dati e
testimonianze attendibili, sí da facilitare una eventuale
presa di posizione da parte del Foreign Office: la cui norma
tradizionale era per altro contraria a ogni mutamento nell'ordine
sancito dai trattati per le successioni dinastiche.
Tralasciamo qui di proposito l'attività svolta dal ministro
inglese in tutti gli altri settori: basterà dire che a
consigliargli prudenza e riservatezza intervenne la voce, sparsasi
nella capitale al suo arrivo, che egli avesse la missione «di
cacciare gli austriaci dal Piemonte»47. Tanto tenaci, malgrado
tutto, duravano insensate illusioni sulla politica inglese!
Vediamo piuttosto lo Hill all'opera per accertare le
responsabilità di Carlo Alberto. I primi e i piú
notevoli accenni in proposito si trovano nel suo dispaccio del 9
maggio, malauguratamente sfuggito al Rodolico, il quale, crediamo,
avrebbe potuto giovarsene per temperare talune fra le sue
argomentazioni. Ne riportiamo i brani piú significativi:
«Grande è il mio rincrescimento nel (dover) confermare,
su informazioni dello stesso conte Revel, che da principio (i
rivoluzionari) ebbero per loro capo S. A. S. il principe di
Carignano... Sebbene tutti quanti (alla lettera: tutti i partiti)
siano convinti che il principe Carignano abbia avuto parte nella
cospirazione, si hanno in proposito, a quel che sembra, piú
asserzioni che non particolari (concreti). S. A. S. venne
compromesso dalle carte sequestrate nella carrozza del principe
della Cisterna, in seguito a un'informazione fornita dal ministro
sardo a Parigi al ministro di polizia a Torino. Si dice che
quest'ultimo si sia immediatamente recato presso S. A. S. per darle
la prima notizia della scoperta. Sia ciò vero o non vero, il
principe di Carignano si recò quel giorno dal re nella sua
residenza di campagna48 e, a quanto pare, svelò tutto quel
che sapeva di questo complotto, compromettendo cosí tutti i
suoi giovani amici. Per tal motivo il suo nome, già idolo di
popolarità, non è stato da allora in poi pronunziato
da tutti (alla lettera: da tutti i partiti) che con esecrazione e
disprezzo. Fu tale l'effetto di questo mutamento improvviso, tale il
turbamento per la condotta arrogante di alcuni ufficiali, che il
principe disse al Percy che non avrebbe mai consentito a regnar sul
Piemonte, e ad altri parlò perfino di andarsene in
America...49.
So che S. A. S. ha scritto a un amico, il quale si è molto
distinto nel (servizio del) la causa reale a Genova per dire che
egli è in grado di giustificarsi pienamente; ad ogni modo si
deve tener presente che egli non ha che ventidue anni.
Quando S. A. S. lasciò Torino, in seguito al primo proclama
del duca del Genovese, e raggiunse l'esercito reale a Novara, il
generale La Tour fece quanto poté per liberare il principe da
questa macchia sul suo onore; ma sia perché si diceva che S.
A. S. fosse minacciato d'assassinio se fosse ritornato (a Torino)
con l'esercito reale, sia per qualche altra ragione, egli si
ritirò, attraverso Milano, a Modena... e a Firenze, dove V.
S. avrà inteso che da principio non venne troppo bene
ricevuto dal granduca suo suocero...50.
Il vecchio re Vittorio Emanuele non ha divulgato quel che è
accaduto fra lui e il principe a Moncalieri, si dice però che
il re abbia immediatamente accordato il suo reale perdono51. Sebbene
ciò possa essere stato determinato semplicemente dalla
bontà di cuore del vecchio re, le conseguenze politiche che
ne derivano sono importanti in quanto impediscono che si possa
gettare un cosí manifesto marchio d'infamia sull'onore
dell'unico erede riconosciuto della Corona...52.
Il lettore avrà notato da sé quel tanto di nuovo che
questo dispaccio rivela, e talune sue inesattezze evidenti. A noi
preme soltanto di rilevare come il ministro inglese non dubitasse
affatto, in sede morale, diremmo, della colpevolezza del principe53,
al quale, tuttavia, accordava l'attenuante della giovanissima
età; in sede politica, invece, lo Hill pareva ritenere che la
piena confessione fatta a re Vittorio, il conseguente perdono da
questo accordato, e la savia condotta tenuta dal principe durante la
sua tempestosa reggenza, eliminassero ogni questione circa la
pretesa indegnità di Carlo Alberto a succedere al trono.
Questa presa di posizione, equa e ragionevole, sebbene ispirata dal
piú tenace antagonista del principe, il conte Revel, non ebbe
a subire, vedremo, sostanziali mutamenti nel seguito, anche dopo che
il ministro inglese attinse per la sua indagine a piú serene
fonti: ad esse si ispirò il Foreign Office per regolare la
sua condotta durante la prima fase della questione Carignano,
essendo interesse inglese evidente che il ristabilimento dell'ordine
in Italia non venisse comunque ritardato da complicazioni
conseguenti a una crisi ormai chiusa54.
Consacrati vari dispacci del maggio e del giugno a ricostruire le
fasi della rivoluzione, a discutere il piano di occupazione
austriaca e a sondare lo stato d'animo dei sudditi di Carlo Felice,
lo Hill tornò a Carlo Alberto il 25 giugno, con un dispaccio
che è stato, nella parte essenziale, pubblicato dal
Rodolico55.
In esso il ministro inglese, che ha avuto diversi altri colloqui col
conte Revel, riferisce, in base alle costui affermazioni, essere le
prove del «tradimento» del principe ormai innumerevoli,
e in particolare s'indugia sui rapporti corsi tra Carlo Alberto e il
Revel il giorno innanzi allo scoppio della rivoluzione. Quali i
commenti dello Hill? Nel complesso non troppo sfavorevoli al
principe: nonostante tutto non gli è riuscito ancora di
appurare fino a qual punto egli sia stato effettivamente compromesso
dal carteggio Cisterna; e non gli sembra credibile che egli mirasse
davvero alla detronizzazione del re; e l'autorevole ministro di
Prussia non gli sarebbe cosí amico se fosse vero tutto quello
che si dice di lui. Ma l'argomento principe di cui si serve lo Hill
per revocare in dubbio l'implacabile condanna pronunziata dal Revel
è un altro. Leggiamolo nel testo tradotto, datoci dal
Rodolico: «Mi si dice che la regina Maria Teresa sia tuttora
favorevole al principe; e Sua Maestà sarebbe certamente
l'ultima a perdonare il principe se fosse sicura che S. A. avesse
avuto tali idee». Quali idee? Non si capisce. Forse quella di
detronizzare il re suo consorte? Ricorriamo al testo autentico.
Tradotto alla lettera, ecco quel che esso ci reca: «... e Sua
Maestà sarebbe l'ultima persona a perdonare se perfettamente
convinta che S. A. S. avesse avuto anche delle mire costituzionali
precedenti (il sottolineato è nel testo) alla
rivoluzione». Ora comprendiamo perfettamente. L'argomento
piú forte usato dallo Hill per scagionare Carlo Alberto
è dunque invalidato dalla falsa supposizione sulla quale si
basa: sappiamo tutti infatti che mire di quel genere, e sia pur
contestate dal presunto consenso del re, Carlo Alberto ebbe
effettivamente anche prima del marzo fatale. Non era vero, allora,
che Maria Teresa avesse perdonato il nipote? Oppure il perdono era
stato concesso perché la regina ignorava tale sua colpa?
Né l'una né l'altra cosa; il problema, ecco tutto, non
va posto in questi termini cosí rigorosi. La regina, lo
vedremo meglio piú oltre, credette effettivamente in una
generica colpevolezza pre-rivoluzionaria, diciamo cosí, del
principe, e ciò non di meno si erse in sua difesa quando
tutti lo abbandonarono, peggio, gli si scagliarono contro,
perché ammirata del suo coraggioso contegno durante la bufera
rivoluzionaria. Tale il suo stato d'animo, necessariamente ignorato,
ancora, dallo Hill. Comunque, perché mai il Rodolico ha
soppresso l'errata illazione del dispaccio inglese? Non riusciamo a
comprenderlo.
Ho dato tutti questi particolari cosí minuziosi (seguita il
dispaccio Hill) attesoché la questione del ritorno in
Piemonte dell'erede presuntivo della Corona può diventar
molto seria; tuttavia, pur senza esprimere adesso alcun desiderio in
proposito, non posso credere che l'esilio di S. A. S. abbia ad
essere cosí lungo come s'imagina il conte Revel (la cui
opinione era «che non si sarebbe tollerato il ritorno del
principe nel paese per periodo assai lungo, e forse mai piú
finché vivesse il re»): la cosa dipenderà in
gran parte dai futuri ministri del re e da altre circostanze.
Pur continuando ad attingere principalmente al Revel per le sue
informazioni, lo Hill – si vede – comincia a formarsi un giudizio
indipendente e fondamentalmente ottimistico. Di lí a poco,
trasferendosi a Genova, egli ebbe modo di considerare anche
piú oggettivamente le cose. Al Rodolico è
malauguratamente sfuggito il dispaccio Hill del 15 luglio, datato
appunto da Genova, che avrebbe potuto fornirgli non inutili
ragguagli. Leggiamo quel tanto che ci può interessare:
Il conte Des Geneys (governatore della città, cui Carlo
Alberto reggente aveva aperto con tutta fiducia l'animo suo: un
personaggio non certo sospetto di cosciente acrimonia contro di
lui56) mi ha confermato l'intenzione del re circa il principe di
Carignano...: a S. A. S. non si permetterà di ritornare a
Torino. Sua Maestà ha confessato al conte Des Geneys che, fra
tutti i casi della rivoluzione, nessuno lo ha imbarazzato o toccato
al vivo quanto la situazione attuale e la precedente condotta del
principe. Avendo chiesto al conte con quale pretesto il re potrebbe
continuare (a esercitare) la sua severità nei confronti del
principe, posto che il re abdicato lo aveva non solamente perdonato,
ma nominato reggente, egli mi ha risposto che S. M. Vittorio
Emanuele, quando aveva perdonato il principe, non era a conoscenza
delle prove esistenti circa il suo tradimento antecedente. Nel
lasciare questa città (Genova) per Lucca, re Vittorio
Emanuele deviò dalla sua strada, perdendosi perciò per
qualche ora fra i monti, per timore d'incontrare il principe che, a
quanto si diceva, aveva deciso di muover da Firenze a questo
scopo57.
Certo che la corte deve trovarsi nel piú grave dilemma circa
S. A. S.: giacché se il principe venisse perdonato, si
farebbe, in qualche misura, ingiustizia a molti ufficiali già
condannati... D'altra parte il principe è erede presuntivo
della Corona, e ha un bambino... Si pensa forse di trasmettere i
suoi diritti ai suoi cugini di Francia, fin qui ignorati dalla corte
per le loro mésalliances? C'è chi lo dice.
La testimonianza del Des Geneys è molto importante: contro di
essa non valgono, infatti, gli argomenti abilmente usati dal
Rodolico per infirmare la versione Revel. È il Des Geneys che
per il primo insinua nell'animo del ministro inglese il dubbio che
il perdono di re Vittorio, da lui fino allora considerato
sufficiente a chiarire giuridicamente la posizione del principe,
possa considerarsi come non avvenuto, perché accordato in
seguito a una confessione reticente. Di piú: che le
circostanze medesime nelle quali esso è stato accordato,
possano costituire una singolare aggravante per la posizione del
principe. L'aver re Vittorio evitato con tanta cura, a rischio di
perdersi fra i monti, un incontro con lui, non autorizzava il
sospetto, e quasi la certezza, che il duro contegno di Carlo Felice
verso l'erede presuntivo fosse, piú che giustificato,
pienamente approvato dal suo bonario fratello? Il ministro Hill,
è ben naturale, restò sconcertato e dubbioso. Perfino
il conte d'Aglié (l'equilibrato rappresentante sardo presso
la corte inglese), allora di passaggio per Genova, gli aveva
espresso la sua «cattiva opinione» di Carlo Alberto58.
Solo un colloquio diretto con i due sovrani poteva ormai chiarire la
complessa questione. Per l'appunto in quei giorni lo Hill aveva
ricevuto dal Foreign Office le ritardatissime credenziali per Carlo
Felice59. Si mise dunque in viaggio (il 25 luglio) per Modena, dove
soggiornava allora la famiglia reale al completo. Passò da
Firenze, donde – scrisse il 18 d'agosto – «per fortuna il
principe era assente».
Non ci teneva a incontrarsi con lui! La prima persona che vide, a
Modena, fu il generale La Tour; venne poi ricevuto da re Carlo
Felice, che lo trattenne amichevolmente a colloquio per quasi
un'ora. Si capisce che lo Hill aveva dovuto nutrire di lui, fino
allora, una ben povera opinione (come tutti, del resto) se, nel
rendere conto di questo colloquio, sentí il bisogno di
attestare che il re aveva parlato «con buon senso, gusto,
sentimento, e senza alcuna durezza»!60. Quel che gli disse di
Carlo Alberto già sappiamo dal Rodolico61: Carlo Felice
rievocò i rapporti d'intimità che nel passato lo
avevano unito a lui, accennò poi all'improvviso
raffreddamento verificatosi da parte del principe già un anno
innanzi, e che a quel tempo era stato spiegato con motivi inerenti
alla sua condotta privata; ma adesso il re supponeva «che il
principe stesse già allora cospirando, e che fosse, o troppo
occupato per potersi mostrare, o che se ne vergognasse». Fin
qui il brano riprodotto dal nostro storico. Ma il testo prosegue:
Avendo udito a Firenze... che il principe Carignano aveva deciso di
domandare che la sua condotta venisse giudicata da una corte
marziale62, e che la Russia l'avrebbe appoggiato in questa domanda,
menzionai la prima di queste voci a S. M.; S. M. immediatamente
rispose: verrebbe certamente condannato se mai (la corte marziale)
gli venisse concessa.
E lo Hill, a commento:
Non citerei questi piccoli particolari se essi non avessero
contribuito, insieme con le altre circostanze piú flagranti,
alla ferma e importante determinazione, cui adesso si è
giunti, di non piú permettere il ritorno del principe a
Torino.
Anche in questo caso, ne conveniamo senz'altro, il brano omesso dal
Rodolico non ci rivela proprio nulla di nuovo: la questione della
corte marziale e l'altra del ritorno di Carlo Alberto erano
già state, infatti, affrontate e, almeno pareva, risolte,
durante il viaggio di Carlo Felice in Toscana, nel mese di giugno.
Il lettore però potrà darci torto se ci permetteremo
di dire che, a nostro giudizio, quella secca, perentoria risposta
del re circa l'inevitabile esito di un giudizio marziale istituito a
carico di Carlo Alberto meritava di venir riportata? Se non altro
per giustizia verso Carlo Felice, che non è equo
rappresentare come unicamente intento, in un colloquio con un
diplomatico straniero, a dar sfogo ai suoi malevoli e generici
risentimenti contro l'erede al trono. La di lui convinzione assoluta
della inescusabile colpevolezza di Carlo Alberto può e deve
venire ampiamente discussa; ma è pur doveroso rendergli atto
che egli ben seppe esprimerla al ministro d'Inghilterra con
dignitosa, regale fermezza.
E a questo proposito ci si permetta una breve parentesi. Tanto il
Luzio che il Lemmi63, e dietro a loro molti altri storici, osservano
che con la lettera diretta a Carlo Alberto il 31 marzo 1821 Carlo
Felice pareva aver perdonato il nipote, o quanto meno che dal
contesto di quella lettera egli pareva animato verso di lui da
sentimenti ben piú indulgenti di quelli manifestatigli nel
seguito. Come si spiega un siffatto mutamento?
Secondo essi Carlo Felice sarebbe rimasto profondamente urtato dai
tentativi di Carlo Alberto successivamente compiuti per persuadere
re Vittorio a riassumere la corona, per interessare alle sue sorti
le corti estere (Memoriale dell'aprile '21, ecc.). Il che è
indubitabile; e se ne ha una ennesima riprova nelle dichiarazioni
fatte dal Della Valle (reggente la segreteria degli esteri) allo
Hill nell'aprile del '22, secondo le quali se il Carignano si fosse
astenuto dall'intrigare a suo proprio vantaggio e, soprattutto,
dall'aprire, per iscritto, la discussione sul problema della sua
responsabilità, Carlo Felice si sarebbe trovato, nei suoi
confronti, in una posizione incomparabilmente piú
difficile64. Non si dimentichi per altro che, il 21 marzo '21, Carlo
Felice ignorava ancora i retroscena della rivoluzione e non nutriva
che presunzioni generiche contro il contegno tenuto da Carlo Alberto
innanzi l'11 marzo; il principale capo d'accusa che a quell'epoca
egli poteva formulare contro di lui era quello di avere abusato
delle sue provvisorie funzioni di reggente per promulgare la
costituzione di Spagna. Ben altre informazioni dovettero pervenirgli
nel seguito, piú che sufficienti, invero, a ispirargli un
invincibile risentimento verso il suo nipote ed erede, anche se
questi, confinato a Firenze, avesse serbato quell'atteggiamento di
contrita riservatezza che ci si aspettava da lui. Perdonato una
prima volta da re Vittorio, una seconda, seppure assai meno
esplicitamente, dal suo successore, Carlo Alberto, comunque, non
beneficiò degli effetti né dell'uno né
dell'altro perdono, essendo entrambi stati accordati in piena
tempesta rivoluzionaria, a conclusione di una indagine
necessariamente affrettata e incompleta delle circostanze di fatto.
Che era giusto, dopo tutto. Solamente un lungo corso di anni,
vissuti da Carlo Alberto in penosa ma fruttuosa macerazione di
spirito, poteva giustificarlo agli occhi del suo re, e, che
piú importa, del suo popolo: anni durante i quali le
drammatiche antinomie del processo nazionale italiano, che avevano
travolto il giovane principe, si sarebbero di continuo ripresentate,
maturando cosí lentamente nuovi svolgimenti e nuove
soluzioni, superanti e integranti quelle esigenze in contrasto.
Ma torniamo allo Hill. Congedatosi da Carlo Felice, egli si
presentò alla regina regnante, e quindi all'ex re Vittorio,
il quale, accoltolo con l'usata cordialità65, lo trattenne a
lungo colloquio. È un vero peccato che il Rodolico non abbia
analizzato il resoconto che lo Hill ne dette in quello stesso
dispaccio del 12 agosto già da lui esaminato per le
dichiarazioni di Carlo Felice. Ne giudichi, del resto, il lettore:
Sua Maestà – cosí scriveva il ministro inglese –
confermò l'opinione del suo regale fratello, secondo la quale
il principe di Carignano verrebbe condannato se gli fosse concessa
una corte marziale. Il re dichiarò che quando il principe,
giunta la prima notizia della rivolta di Alessandria, si era recato
da lui a Moncalieri insieme col generale Gifflenga66, egli lo aveva,
sí, perdonato per ogni sua colpa antecedente a
quell'episodio; ma a quel tempo, osservò Sua Maestà,
egli ne sapeva ben poco, giacché il principe non era stato
gran che compromesso dalle carte sequestrate al principe della
Cisterna. Senonché S. A. S., non appena tornato a Torino, si
era compromesso di bel nuovo con i complotti dei cospiratori. Sua
Maestà non spiegò se di questo fosse già stato
informato quando aveva nominato il principe Carignano reggente, o se
le circostanze l'avessero obbligato a quel passo.
Il re mi disse che nella notte fatale dell'abdicazione egli era
stato tradito dalla sua stessa anticamera, giacché ogni
risoluzione adottata o modificata veniva sull'istante a conoscenza
della folla fuori del palazzo. I suoi cavalli per recarsi presso le
truppe erano pronti, ma egli era stato soverchiato da cattivi
consigli. La grandissima maggioranza della moltitudine era composta
di persone innocenti, attirate dalla curiosità: S. M. avrebbe
desiderato, perciò, che si emanasse un proclama per
disperdere il popolo, o almeno per separare i curiosi dai rivoltosi;
dopo di che avrebbe ordinato alle sue truppe di caricare o anche di
far fuoco67. Il re aggiunse tuttavia che a questo punto egli aveva
chiesto al colonnello del reggimento Aosta se poteva fidarsi del suo
reggimento; questi aveva risposto che poteva fidarsene per tutto
fuor che per far fuoco su compatriotti; (il re) aveva poi rivolto
quella domanda al colonnello delle guardie, il quale aveva risposto
che il suo reggimento avrebbe obbedito qualunque ordine fosse
piaciuto a S. M. di impartire. Il re si era allora rivolto al
principe Carignano per chiedergli se poteva contare
sull'artiglieria: il principe aveva dichiarato che si trovava nella
necessità di dare l'identica risposta del colonnello del
reggimento Aosta.
Tali le dichiarazioni di re Vittorio riguardanti Carlo Alberto.
Senonché diversi mesi piú tardi, annotando ad uso di
lord Castlereagh la celebre prima autodifesa del principe68, lo Hill
si sovvenne di un particolare importante del suo colloquio di
Modena, che nel dispaccio del 12 agosto aveva dimenticato di
riferire. Carlo Alberto, è noto, attestava in quel suo
scritto di avere, l'11 marzo '21, vanamente espresso in Consiglio
parere favorevole alla concessione della costituzione francese; il
giorno appresso (sempre nel suo racconto), urgendo gl'insorti per
ottenere la costituzione di Spagna, e opponendovisi il re, la
regina, dopo aver consigliato, caso mai, l'adozione di quella
inglese,
mi disse in presenza di tutti quei signori che si meravigliava come
io avessi suggerito il giorno prima la costituzione francese, mentre
qualche giorno addietro avevo detto al re che la costituzione di
Spagna era il maggior guaio che potesse toccare ad un paese e che un
sovrano non deve mai umiliarsi. Risposi allora a Sua Maestà
che tale era tuttora il mio modo di pensare69.
Sembra un qui pro quo: la regina che rimprovera il principe per
avere consigliato la costituzione francese dopo avere sconsigliato
quella spagnuola; forse che v'era contraddizione fra i due
propositi? Lo Hill chiarí la cosa nel dispaccio 9 febbraio
1822:
A conferma di questo aneddoto re Vittorio mi disse a Modena che,
alcune sere prima della rivoluzione, il principe, trovandosi nel
palco reale al Gran Teatro, aveva condannato nei termini piú
energici qualunque sistema costituzionale70; e il re lo aveva
ricordato a S. A. S. allorquando la regina gli aveva rivolto
quell'attacco.
Ora sí che s'intende lo sdegno della regina!71.
Un altro punto nel quale la narrazione di Carlo Alberto non coincide
con quella di re Vittorio redatta dallo Hill, è quello
riguardante il «Consiglio di guerra» dell'11 marzo.
Abbiamo veduto la versione del re; quella del principe sostiene
invece: a) che il principe era stato interrogato pel primo; b) che
aveva dichiarato «che rispondeva interamente dell'artiglieria
leggera e che in quanto all'artiglieria a piedi poteva assicurare
che si sarebbe fatta ammazzare per difendere la persona del re, ma
che non poteva risponderne per agire»; c) che oltre al
colonnello delle guardie anche il colonnello del Piemonte Cavalleria
aveva dichiarato che rispondeva interamente del suo reggimento.
Quale la verità? Difficile accertarla72; ci sembra comunque
non privo d'interesse il riportare a questo proposito la versione
d'un testimone oculare, pur sospettissimo, il Della Valle, il quale
fece molti mesi piú tardi le sue confidenze allo Hill.
Secondo il Della Valle (dispaccio Hill 3 agosto 1822) il primo a
parlare, in quella occasione, era stato il colonnello Ceravegna, del
reggimento Aosta, nel senso già noto.
Il Della Valle, udito ciò e veduto il principe secondare
quella dichiarazione con cenno di approvazione, si volse al Vallesa,
che assisteva al Consiglio quella notte fatale, osservando anche lui
quel che stava succedendo, e tutti e due dissero a un tempo:
«Non fosse la presenza del re, dovremmo buttarli dalla
finestra».
Grottesca spavalderia, d'accordo; alla verità della scena
sembra, per altro, dare una indiretta conferma la testimonianza di
un terzo testimone oculare, il Saluzzo. Questi, è noto, venne
da Carlo Felice mandato, nel '22, ministro a Pietroburgo. In uno dei
primi colloqui che ebbe col ministro degli esteri russo, il
Nesselrode, avendogli questo domandato «perché gli
ufficiali che circondavano il re la notte dell'abdicazione non
avessero immediatamente arrestato il colonnello del reggimento
Aosta», il Saluzzo (ci riferisce lo Hill nel già citato
dispaccio 3 agosto 1822)
rispose con grande presenza di spirito: Vostra Eccellenza sa che non
avremmo potuto arrestare il colonnello di quel reggimento senza
arrestare un personaggio di rango molto piú elevato73; al che
il conte Nesselrode mutò immediatamente argomento.
Rinunziando comunque a contrapporre le deposizioni di Carlo Alberto
e di re Vittorio per pronunziarci sul maggior grado di
attendibilità dell'una o dell'altra, questo solo ci preme di
rilevare: che nell'agosto del 1821 re Vittorio giudicava la condotta
del Carignano con altrettanta se non addirittura con maggiore
severità di Carlo Felice; al punto da ritenerlo
indiscutibilmente condannabile da una corte marziale; al punto da
considerare il perdono di Moncalieri come moralmente invalidato
dalle circostanze nelle quali era stato concesso74; al punto (e
questo è l'elemento piú grave) da ritenere opportuno
di influenzare in senso contrario agl'interessi del principe il
ministro di quella grande potenza che, per essere antica alleata del
Piemonte e, insieme, non sospetta di voler esercitare indebite e
interessate pressioni sulle sue direttive politiche, era forse la
piú idonea a pronunziare nel consesso europeo una parola di
serena giustizia, atta a risolvere nel modo piú prudente e
piú equo la questione dinastica sarda75.
Piú favorevole a Carlo Alberto era invece, si sa, l'ex regina
Maria Teresa. Essa precorreva l'equo giudizio della posterità
asserendo che la coraggiosa condotta da lui tenuta nei giorni del
pericolo e delle responsabilità, quando cosí facile
era stato, e cosí comodo, ai severi censori del poi il
ritirarsi ad aspettare gli eventi, meritasse pure riconoscimento, e,
insieme, riscattasse in gran parte i suoi torti antecedenti. La
testimonianza della regina riveste certo un valore notevole;
ond'è che ben a ragione il Rodolico v'insiste di continuo.
Siamo lieti, perciò di potergli segnalare un'altra prova
significativa della di lei parzialità per Carlo Alberto. Essa
si trova nello stesso dispaccio Hill del 12 agosto:
Dopo aver preso congedo da S. M. – egli scriveva – ottenni una
udienza dalla regina Maria Teresa, una principessa di grande ingegno
e capacità. Il discorso di S. M. fu in gran parte dedicato a
giustificare l'abdicazione del re... Usando un linguaggio assai
epigrammatico, essa disse che, nonostante una lunga negoziazione e
l'abuso di falsi colori nel dipingere la situazione, il re si era
trovato nelle condizioni seguenti: i ribelli nella Cittadella
minacciavano di bombardar la città e il palazzo (reale) se il
re non avesse immediatamente firmato la costituzione di Spagna; il
re, tenendo sempre presente la provvidenziale assenza di suo
fratello, aveva preso (allora) la decisione, del tutto inaspettata,
di abdicare: ciò che aveva sconvolto completamente i piani
dei rivoluzionari e l'intera rivoluzione76. In un precedente
dispaccio ho detto che la regina passava per essere un po'
piú favorevole al principe del rimanente della famiglia
reale. (In questa occasione) S. M. non mi disse che poche parole
relativamente al principe; senonché, esprimendosi severamente
sul conto degli Spagnuoli e della costituzione di Spagna, S. M.
osservò che tutt'al piú le idee del principe Carignano
non erano mai andate piú in là della Carta francese77.
Anche in successivi dispacci piacque allo Hill insistere sulla
indulgenza della regina per Carlo Alberto78. Conviene a questo punto
domandarci se tale indulgenza, pur spontanea, non coincidesse per
avventura con gli interessi di Maria Teresa, che già vedemmo
– la sera del 12 marzo – vivacemente ostile al principe. Orbene, a
noi sembra abbastanza probabile che proprio lo stesso motivo che
piú d'ogni altro contribuí a inviperire Carlo Felice
contro di lui (i reiterati tentativi da lui compiuti per persuadere
re Vittorio a riascendere il trono) sia stato quello che valse a
riconquistargli le simpatie di Maria Teresa. La regina era
ambiziosa, di carattere attivo ed energico; passata la bufera
rivoluzionaria, è verosimile che due sentimenti lottassero in
cuor suo: il desiderio di veder abrogato l'atto di abdicazione, e la
preoccupazione per la salute di re Vittorio che esigeva assoluto
riposo. La premurosa insistenza di Carlo Alberto, ad ogni modo,
soddisfaceva il suo amor proprio. Piú tardi essa lottò
virilmente, oltreché contro minori pretese del nuovo re suo
cognato, contro quella, apparentemente ingiustificata e inumana, di
tener lontani dal Piemonte re Vittorio e lei stessa (ciò
risulta con sufficiente evidenza dall'insieme del carteggio di
Hill). Occorre dire che Carlo Alberto non poteva non seguire con la
piú viva simpatia questi suoi sforzi diretti contro il comune
loro persecutore, sforzi dei quali il ministro inglese si era fatto
caloroso sostenitore e campione?
Una tal quale comunanza di risentimenti e solidarietà
d'interessi li univa dunque; quella solidarietà che fece
perfino temere allo Hill, il giorno in cui parve che re Vittorio e
Carlo Alberto, benché per opposti motivi, fossero entrambi, e
forse per sempre, banditi dalla patria loro, che «la corte
abdicataria potesse entrare in Piemonte con intenzioni ostili,
accompagnata dal principe di Carignano». La mitezza di re
Vittorio, per fortuna, rendeva quei timori infondati; ma, come
scriveva lo Hill, «dal talento e dal risentimento della regina
v'è tutto da temere»79.
Una quinta udienza ottenne il ministro inglese a Modena:
dall'arciduca Francesco. L'influenza da lui notoriamente esercitata
su Carlo Felice, il prestigio di cui godeva a Vienna, le voci che
erano corse su una possibile devoluzione a sua moglie, e quindi a
lui, dei diritti di successione alla Corona sarda, tutto ciò
rendeva particolarmente importante il conoscere il suo punto di
vista sulla questione Carignano. Ma il duca di Modena, se a lungo
intrattenne lo Hill su argomenti di politica generale,
scandalizzando il suo interlocutore (che ricordava di avere udito da
lui, non troppi anni innanzi, ben diversi propositi!) con le
smaccate sue professioni antiliberali80, «evitò
accuratamente l'argomento del principe di Carignano; una sola volta,
essendo ricorso il suo nome, S. A. R. si serví di espressioni
piuttosto sprezzanti».
Tiriamo le somme. Reduce dal viaggio di Modena, William Hill si
confermò in sostanza nel primitivo suo atteggiamento circa la
questione Carignano. Egli riteneva ormai: a) che, nonostante le
innegabili colpe del principe nella fase preparatoria della
rivoluzione, non sussistessero a suo carico elementi di tale
gravità da giustificarne l'esclusione dalla successione al
trono sabaudo; b) che la situazione dinastica, considerata in se
stessa, rendesse ad ogni modo estremamente sconsigliabile tale
esclusione, anche se operata, secondo l'opinione e il desiderio
prevalenti81, a beneficio del diretto discendente di Carlo Alberto;
c) che, nonostante i fieri propositi per allora nutriti da Carlo
Felice, questi avrebbe o prima o poi accordato al Carignano il
definitivo perdono; d) che, ammesso che Carlo Alberto avesse dovuto
un giorno regnare, sarebbe stato opportuno di non prolungare di
troppo il periodo della sua «disgrazia» ufficiale82.
Tale il suo punto di vista, tali le direttive alle quali, nei mesi
seguenti, egli ispirò la sua molto prudente, ma non meno
tenace azione politica83. Conosciuto un po' meglio il nuovo sovrano,
lo Hill non tardò a comprendere come, «nel caso che S.
M. potesse un giorno disporsi a perdonare il principe di Carignano,
sarebbe stato suo desiderio che questo atto apparisse (compiuto)
interamente di sua propria iniziativa»84. I governi alleati
potevano dunque (e forse dovevano) adoprarsi a vantaggio di Carlo
Alberto, procurando di aiutarlo a vincere i sincerissimi scrupoli
del re di Sardegna; ma non mai illudersi di poter indurre
quest'ultimo a un non sentito perdono: a meno che non si decidessero
– ipotesi assurda – a forzar su di lui la volontà dei
piú forti85.
Non aveva egli ripetutamente minacciato di abdicare piuttosto che
lasciarsi imporre dalle potenze adunate a Lubiana indesiderate
riforme da introdurre nei suoi Stati? E non avevano in quel caso, le
potenze, receduto, non essendo conforme ai desideri di alcuna di
esse che Carlo Alberto salisse cosí presto sul trono?86.
Prudenza e pazienza, dunque: specie dopo quella intervista di
Hannover (ottobre '21) che aveva ristabilito fra il Castlereagh e il
Metternich un'intesa completa, basata sui comuni interessi
dell'Inghilterra e dell'Austria nel vicino Oriente e in Spagna87.
D'accordo con i miei colleghi ho sempre pensato – scriveva lo Hill
in un dispaccio segretissimo del 23 febbraio '22 – che, se mai S. A.
S. il principe di Carignano tornerà (in patria) tanto prima
avrà luogo questo ritorno, tanto meglio; ho anche giudicato
severo il provvedimento di esclusione contro un cosí giovane
principe; ma conoscendo i forti pregiudizi del re, l'effettiva
colpevolezza del principe, e la poca speranza o opportunità
di vincere un punto di questa importanza con la fretta o la
violenza, non solamente ho serbato io stesso il silenzio, ma, se
mai, ho dissuaso altri dall'abbandonarsi a un'attività troppo
spinta88.
Senonché sul cader del '21 Carlo Felice improvvisamente
deliberava di sottoporre ai suoi augusti alleati l'inderogabile
determinazione cui era pervenuto di escludere Carlo Alberto dal
trono. La legazione inglese non ne venne informata (in tutta
segretezza) che nel febbraio dell'anno successivo. Alla segreteria
degli esteri, volendosi giustificare tanta severità del re,
si ebbe cura di far osservare allo Hill, dal quale ci si aspettava
un congruo appoggio a Londra89, come la grandissima maggioranza
della nobiltà piemontese fosse notoriamente, risolutamente
ostile a Carlo Alberto: del che il ministro inglese non poteva,
allora, non convenire90. Ma qual era nei suoi confronti lo stato
d'animo degli altri ceti sociali? Né il Revel, il quale si
atteggiava a uomo superiore alle meschine vicende della questione
Carignano91, né il Della Valle, né il Saluzzo92,
né il re medesimo parevano preoccuparsene. Non cosí il
ministro Hill, il quale – 23 febbraio – scriveva a lord Castlereagh
che, anziché con orrore,
molte persone del ceto inferiore avrebbero forse accolto il ritorno
del principe con indifferenza, se non con piacere, scorgendo qualche
attenuante (a suo favore) nella sua giovane età, e giudicando
eccessivamente severa la sua definitiva espulsione93.
Cosí avvenne di fatto. E a noi piace di additare nella
sintomatica anticipazione di quel diplomatico un lontano e sia pur
vago presagio di quella fruttuosa intesa fra monarchia e ceti medi,
che costituí forse la piú profonda innovazione del
regno di Carlo Alberto, e, in quanto quel sovrano la volle e la
mantenne, uno dei principali motivi della sua tormentata grandezza.
Ma non il solo Hill, allora, avventurava profezie. Al conte Della
Valle, il nemico piú meschino e piú acerrimo che Carlo
Alberto contasse in Piemonte, va forse il merito d'averne dettate
due anche piú luminose: quella che se mai, per disgrazia, il
Carignano fosse salito sul trono, «la miglior speranza per il
Piemonte sarebbe consistita in un qualche sistema
costituzionale»94; e l'altra, men vera nella sua materiale
accezione, eppure anche piú profondamente vera, che, in quel
caso, l'Austria in Lombardia non sarebbe certo rimasta piú di
due anni95.
II.
Giuseppe Montanelli
1.
Frammento della incompiuta vita
di Giuseppe Montanelli
La giovinezza.
Fucecchio è un antico borgo che, armoniosamente, toscanamente
disposto sulle pendici di una collinetta, domina la vallata
dell'Arno fra Empoli e Pontedera. La piana, ai suoi piedi, è
maravigliosamente bella e feconda. In lontananza, a ponente, sfumano
i monti di Pisa, e a mezzogiorno le stanno di fronte le torri di San
Miniato, col lunghissimo corteggio di case allineate in doppia fila
sul crinale di un poggio. Dalla parte opposta, sono le giogaie
dell'Appennino, macchiate di castagneti, piú sotto il famoso
padule, oggi in gran parte prosciugato. Borgo antico, Fucecchio come
attestano i mozziconi di mura e le due torri rossastre, coronate di
verde che la sovrastano; come attestano certi suoi palazzotti, e le
viuzze sinuose e scoscese. La gente è industriosa, fiera,
risentita; cattolica, ma libera; povera, ma con altissimo senso di
sé. Dopo le chiese, piú numerosi vi sono le osterie e
i caffè: luoghi di ritrovo e questi e quelle, ché i
fucecchiesi amano di radunarsi a crocchio, per parteggiare e
motteggiare e accapigliarsi, o anche per implorare il Signore e
festeggiare, chiassosamente, il carnevale o il santo patrono.
In questo luogo, vero nodo strategico tra Firenze, Siena, Pisa,
Lucca e Pistoia, e dominante le tre vallate dell'Arno, della Pesa,
della Nievole; a due passi da Vinci e a mezz'ora di vettura dalla
Certaldo di Giovanni Boccaccio, in questo luogo, il 21 gennaio del
1813, nasceva Giuseppe Montanelli. La casa dei suoi, piú che
decente, sorgeva proprio nel centro, schiacciata in mezzo ad altre
case bige, un po' cupa, senza sfondo di giardini o di larghi,
tipicamente provinciale nel suo decoroso prospetto a pietrami, con
un gran tetto spiovente. Il padre, Alessandro, era un piccolo
possidente di terra e di case, ma soprattutto maestro dilettante di
violino, organista e compositore d'occasione, personaggio importante
in un paese in cui la passione musicale è sentitissima in
tutti, e in una regione in cui l'orgoglio di possedere una banda, e
di misurarla in periodiche sfide con l'altre del circondario,
apporta tradizionalmente magri bilanci municipali. Luisa Pratesi, la
madre, proveniva da una famiglia di grossi negozianti livornesi:
avvenente della persona, d'animo e di temperamento dolcissimi, e
d'intelligenza particolarmente vivace. La imaginiamo di fattezze un
po' esili, di poca salute, e forse un po' spaesata in quel borgo di
gente grossa e rumorosa, in cui le parentele erano e sono
vastissime, e anzi metà della popolazione portava quello
stesso casato dei Montanelli.
Giuseppe, toscanamente Beppe, fu il primogenito: seguirono due
femmine, Teresa e Gegia. Prima infanzia senza storia nella bambagia
della casa paterna, mentre la patria vedeva senza rimpianti e senza
entusiasmi crollare la prestigiosa impalcatura francese e rientrare
a palazzo Pitti, dalle brume del Nord, il bonario granduca, in tiro
a quattro. Girate pei colli, a diporto o per visitare i poderi, e
lunghe soste in chiesa, col padre rapito all'organo o con la madre
in preghiere. Le due grandi passioni della sua vita, l'aperta
campagna e la musica, mentre il problema religioso fu sempre il suo
piú profondo e costante tormento: che eran poi tre modi
diversi di avvicinarsi a quel Dio che gli riempiva l'anima del suo
mistero, quando anche, fatto grande, volle provarsi a negarlo:
certo, vie migliori e piú attraenti che non gli sapesse
additare, dall'alto della sua professionale imperturbabilità,
lo zio prete, fratello del padre, che viveva in famiglia, all'ombra
della Collegiata, un po' pedagogo e un po' persecutore dei tre
nipotini.
Con l'alfabeto, Beppe impara le note: sillabario e gorgheggio son la
sua dose di tutti i giorni. Ha una bella vocina perfettamente
intonata, che il babbo e un altro musicista del luogo – il maestro
titolare della banda – badano a educargli: a otto o nove anni
già trilla, in chiesa, negli assolo, tanto che i paesi vicini
se lo disputano per cantare nelle grandi solennità religiose.
Spesso, quando è in campagna, improvvisa secondo il suo
estro, o anche seduto al piano: e il padre sogna di mandarlo, un
giorno, a studiare nel celebre conservatorio di Napoli, che ha dato
al mondo il prodigio di un Bellini.
Lo zio prete, che ha fama di erudito e di poeta sacro, e che
comunque passa alcune ore del giorno rintanato fra i molti suoi
libri, è il suo primo maestro; o almeno è lui che,
oltre ad infliggergli i rudimenti del latino, lo inizia ai misteri
della versificazione.
Nove anni, bella vita: e se una precoce e malinconica
maturità vela talvolta il suo sguardo, se la fragilità
della sua complessione fa sí che in famiglia si trepidi
sempre un poco per lui, non per questo gli sono ignote le bande dei
monelli, e il libero errare in quella liberissima terra, e le
spedizioni nei paesi vicini, Castelfranco di Sotto, San Pierino,
sulla grande strada pisana, Lamporecchio, patria dei brigidini. Ma
il culto per la mamma – un culto spinto fin quasi alla
morbosità – sovrasta in lui ogni altro sentimento.
Cerca le carezze di lei con un abbandono e uno slancio che i
piú dei coetanei considerano indegno, ormai, della loro
adolescenza incipiente; e in lei si rifugia freneticamente, quasi
presago di un prossimo abbandono.
La bella vita, infatti, è al suo termine. Un altro zio prete,
che in Pisa è salito in grado eminente – rettore del collegio
di Santa Caterina – insiste perché il fanciullo gli venga
affidato: il collegio è il migliore di Pisa, se Beppe ha
ingegno là si farà le ali. Beppe inizia il suo volo
col cuore grosso; mai ragazzo di provincia soffrí tanto allo
stacco. Pisa è una risplendente meteora e vi ha sede la
famosissima università, che sforna medici e avvocati e
impiegati di governo; ma non è senza sgomento che da
Fucecchio ci si avventura in quel mare, e il collegio può
sembrare una prigione a chi è avvezzo a tanta aria, a tanto
moto, a tanto verde.
Addio Fucecchio, addio marmaglia giocosa, addio babbo e mamma e
sorelle: dalla diligenza che vola via tra suon di bubbole e
schiocchi di frusta, il «signorino» avviato alla tonaca
o alla toga, converte in lacrime l'invidia dei compagni, mentre gli
sfilan davanti le care cose di tutti i giorni.
Lo zio rettore lo accoglie bene in collegio, ma da uomo positivo
comincia subito a levargli i grilli dal capo: latino e grammatica
han da essere, e il pianoforte vien severamente proibito: la musica
non è che uno spasso lecito a tempo perduto.
Imprigionato in quelle alte mura, tra gente sconosciuta, privato di
quella divina armonia che gli parla la lingua della sua casa e dei
suoi colli nativi, Beppe si consuma in tristezza. Passano lunghi
mesi invernali, grigi come l'anima sua, cui già nella vita
non par di scorgere che dolore e rinunzia. Gli studi procedono
cosí fiacchi e mediocri che lo zio rettore risolve di
rimandarlo a casa per qualche mese, a ritemprarsi. E finalmente
Beppe ritorna a Pisa col sospirato permesso del pianoforte, la prima
battaglia vinta: ché se non si giunge a concedergli un
maestro di musica, come vorrebbe, pure si industria a esercitarsi da
sé e del resto è già in grado, fra i tasti e la
voce, di saziare quel bisogno di pura bellezza che lo tormenta e lo
esalta. Si procura musica nuova, altra ne compone da sé, e
cosí rasserenato attende agli studi, di latino, di greco, di
filosofia, che segue senza sforzo e non senza successo, ma con la
marcata indifferenza di chi ha il capo ad altre cose.
Collegio di preti, quello di Santa Caterina96: preti insegnanti,
preti prefetti, e obbligatorietà di un culto che è
troppo esterno ed imposto perché possa conquidere i ragazzi.
D'altronde la continua convivenza con quegli ecclesiastici non giova
a persuadere i convittori del carattere sacro della loro missione.
Uno scetticismo, ora allegro e ora musone, che in particolare si
manifesta in una tenace repugnanza alla confessione (intesa
piú come sistema disciplinare che non come atto puramente
religioso) e alle estenuanti pratiche di devozione si impadronisce
di Beppe, come, del resto, dei piú fra i suoi compagni. La
religione ufficiale soffoca e svia, come accade, la
religiosità naturale, che quanto a lui, tuttavia, trova il
suo sfogo o piuttosto la sua perfetta espressione nel linguaggio
musicale, rifugio frequente di tanti mancati credenti.
Nel 1826, quando Beppe lascia finalmente il collegio per fare il suo
ingresso all'università (a tredici anni giusti, età
non infrequente allora per l'inizio degli studi superiori: quali
studi e quanto «superiori» è facile imaginare!),
quando, esordendo alla libera vita, piú gli occorrerebbe la
remora di un culto e di una fede, egli è adunque peggio che
un ribelle, uno scettico, cui la frettolosa imbottitura erudita e,
piú, l'età immatura non hanno ancora consentito di
cercare altrove, in sede filosofica, una nuova certezza interiore.
Cosí disarmato, e senza transizione, egli entra nella vita
libera e indipendente della università.
È uno sbandato. I suoi, cedendo ai consigli dei due zii
canonici, vogliono che studi legge; lui preferisce la medicina, ma
intanto non pensa che a godere della sospirata libertà: e
sono amicizie sperticate con altri studenti, entusiasmanti
scorpacciate di musica97 (l'organo della chiesa del Carmine è
il suo preferito; a un certo punto, anzi, si offre e viene accettato
come organista fisso, seppure dilettante), frequenza saltuaria alle
lezioni della Sapienza, di medicina e di legge. Dal collegio di
Santa Caterina lo zio reverendo veglia come può, cioè
poco e male, soprattutto mercé periodici rabbuffi, sullo
scapestrato matricolino. Il quale, per quanto tenuto a stecchetto da
casa, assapora con delizia la vita studentesca, con quel che essa
comporta – e piú comportava allora, in una città come
Pisa – di scioperato, di senza pensieri, di baldanzoso fino a
credersi, i sapientoni, i padroni del mondo, in genere, e in ispecie
della città e delle sue bellezze, non solamente quelle di
marmo. La precocità di Beppe nella musica e nella poesia (con
quanta facilità non gli vien fatto di sciorinare versi, o sia
per solennizzare, su commissione, una ricorrenza sacra, o sia per
altri piú futili motivi!) lo rendono uno dei compagni
piú ricercati. Ma gli slanci romantici, e i romantici pudori,
che se non fossero in lui connaturali, basterebbero a instillargli
le gran letture che fa e il malioso mito romantico che tuttora
perdura a Pisa di uno Shelley e di un Byron, stati a lungo a poetare
su quei Lungarni e a riempir di stupore e di fragore e di scandali
le quiete vie della città, fan sí che Beppe s'accosti
e s'accomuni piú volentieri con quelli tra i condiscepoli cui
la gaia vita della Sapienza è, come per lui, non altro che un
mezzo per meglio vibrare e conoscere e amare, e non già mero
sbrigliamento dei sensi e occasione per quotidiane bisbocce.
Che gl'ispirava la musa? Fin dal 1827 – non aveva che quattordici
anni – tre delle sue poesie molto immeritatamente salivano agli
onori della pubblica stampa: Per S. Omobono; Conversione di S.
Ranieri; L'Annunciazione di Maria Vergine. Sapevano, a dir il vero,
un po' troppo di sacrestia, e per fortuna altre corde sostituirono
presto, sulla sua lira, quella chiesastica:
Qual son di gioia e chi soverchia il giorno
con tanti rai? Voi siete angeli ardenti?
siete voi sí che con festosi accenti
all'augusto Omobon volate intorno.
Quell'«augusto Omobon» e quegli «angeli
ardenti» erano una peregrina trovata che meglio sarebbe stato
confidare alla discrezione, non dirò del cassetto, ma d'un
cestino, ingiustamente privato, anzitempo, delle sue spettanze...
Peggio trattato quel povero san Ranieri, che, messo in guardia dal
poeta, per la sua vita indegna:
... comprendi appieno
qual densa nebbia intorno ti circonda!
cosí, nel sonetto, improvvisamente si decideva a mutare
strada:
Sí, disse Alberto. Allo splendor del giorno
schiuse, riscosso dal letargo, il ciglio
e fe' Ranieri al sommo Iddio ritorno.
Dove il lettore può consolarsi pensando che l'autore di quei
rimati misfatti li aveva perpetuati per mera esercitazione, non
sentendo affatto il suo tema; e insieme costernare nel constatare
che si trovassero allora delle pie persone disposte a prestarsi alla
stampa di quelle sacre mostruosità, e, peggio ancora, a
leggerle!
Con l'Annunciazione siamo, fortunatamente, in un'altra sfera, se non
proprio nel cielo dell'arte, lasciamo andare, ma certo meno remoti:
Stupí, tremò la Verginella Ebrea
all'apparir del messagger celeste
che librato sull'ali e preste
d'inusato chiaror raggi spandea
E poi:
Disse e cosí come penetra il sole
entro l'onda, nel sen di lei s'ascose
dell'eterno Signor l'augusta prole.
Riser le sfere e la sembianza amara
la squallida Natura allor depose...
tanto bella umiltade al Ciel fu cara.
Sí, noi avremmo preferito qualunque altro verbo, in questa
occasione, a quello «spandere» prescelto dal poeta, e la
«sembianza amara» ci fa pensare piuttosto a qualche
ingrata droga che non all'inverno o al maltempo; ma chi vorrà
negare che per quattordici anni, via, non c'era male? La donna,
anche se col D maiuscolo, sapeva suggerire al poeta imagini
piú felici, e un versificare piú spontaneo e semplice
che non gli esempi dell'astratta virtú o le gloriose vicende
dei santi virili. Giacché la donna gli era nel cuore e nella
fantasia di ragazzo sognatore e romantico, mentre la storia sacra,
come tale, non gli diceva assolutamente piú nulla.
Non stampati, se Dio vuole, ma tra le poesie di quel tempo, troviamo
altri sonetti del Montanelli. Un Temistocle al soglio di Serse, che,
accusando di lontano un miglio la bravura di un primo della classe,
non saprebbe che infastidire quando il primo endecasillabo, col
richiamarci alla memoria l'offenbachiana Belle Hélène,
non ci mettesse, piuttosto, di buon umore:
Quel Temistocle io son che un dí sostegno...
Il giovane arcade era, s'intende, un pacifista convinto: grave
sventura della causa antibellica quella di non riuscire a ispirare
di sé che trilustri!
Chi fu, chi fu colui che armò primiero
l'omero e il fianco di faretra e d'arco?
Quanto spietato ei fu, qual grave incarco
sovrappose di mali all'orbe intero!
Senonché a qualche maggior indulgenza vuole indurci il
sospetto che di questi e altrettali sonettucci Beppe imbrattasse le
carte ancor prima del 1827. Si veda, ad esempio, quello consacrato
alla morte del Canova (e il Canova, si sa, morí nel 1822)
dove non sapresti se piú ammirare le «onorate
porte» dell'artista o il suo «mesto in letto»
giacere o il librare «le penne» dell'inesorabile
giustiziera. Indimenticabile la chiusa:
Pianse allor la Scultura e ebra di sdegno
gridar parve alla morte: – Ahi qual splendore
involasti, o crudele, al mio bel regno!
Ma se l'autore lo scrisse a nove anni, chi non vorrà
perdonargli?
Lo lasceremmo comunque senza rimpianti alle sue fatiche poetiche,
augurandogli una benefica maturazione, se non ci piacesse di
cogliere, prima, un altro aspetto della sua lira, quello scherzoso:
per allora senza dubbio il migliore. Due esempi soltanto.
S'approssimano le solennità natalizie, e il giovanissimo
studente è squattrinato: perciò si rivolge allo zio
canonico:
Prossimo è il giorno in cui per nostro amore
volle farsi bambino il sommo Iddio;
ve lo rammento, o mio signore Zio.
E perché mai? già vel predice il cuore
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Voi siete perspicace e m'intendete,
sicché mi taccio e dal Ciel prego a voi
cento anni e piú di vita, e se volete
sempre buono appetito, e corpo sano
e quanto puossi piú bramar; di poi
verrò a baciarvi, o caro zio, la mano.
La vigilia di Pasqua siamo alle solite:
Pensai che i miei compagni in allegria
celebreran di Pasqua or or la festa,
lieti mangiando alla presenza mia.
Ed io dovrò (che acerba pena è questa)
leccarmi intanto i baffi ed andar via
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il giorno avanti Pasqua ormai s'abbuia,
sicché voglio spiegarvi i desir miei,
ma, o caro Zio, questa rimaccia in ria
non mel permette dir... Cantar vorrei
al suon delle monete l'Alleluja.
Ché se lo zio canonico era un tipo da allentare i cordoni
della borsa a una richiesta cosí... disinvolta, buon pel
Montanelli; ma allora dovremmo inferirne che il bigottismo imperante
nel collegio di Santa Caterina fosse temperato alquanto dalla
bonarietà del suo rettore! Ed ora voltiamo pagina.
Chi furono, tra il '27 e il '30, gli amici del Montanelli? Ne
conosciamo alcuni. Si chiamavano Giuseppe Giusti98, Vincenzo
Malenchini, Giovanni Fabrizi99, Leopoldo Galeotti, Tommaso Corsi,
tutta gente della quale, detto il nome, s'è detto tutto al
lettore. Ma poi anche fra i meno noti all'università e
tuttavia tutt'altro che ignoti ai conoscitori della storia italiana,
civile e politica, dell'Ottocento, un Giuseppe Barellai, un Leopoldo
Pini, un Adriano Mari100, un Adriano Biscardi, un Luigi Tonti, un
Dell'Hoste: tutti studenti di legge, meno il Barellai; tutti
coetanei del Montanelli, meno il Giusti e il Biscardi, di
quattr'anni maggiori, e il Corsi e il Fabrizi piú giovani
d'un anno101. Bella infornata, via, per l'università di Pisa,
nel 1826, due anni dopo la laurea di Francesco Domenico Guerrazzi!
Dal piú al meno quegli studenti in erba vi portavano tutti
una gran voglia di studiare... la vita, e poco le pandette; un
entusiasmo per la poesia e in genere per le letture
«geniali», che le panche della Sapienza, se mai le
avessero assiduamente scaldate, avrebbero certo trattenuto e sviato
e, forse, spento del tutto. Legga chi vuole lo scintillante esordio
del Giusti studente regalatoci da Ferdinando Martini, dove per vero
piú si parla delle bizzarrie d'altri scolari (uno dei quali
battezzato con l'eloquente soprannome di Stravizio) e anche di
professori, che non dei primi studi del poeta valdinievolino. Se il
Giusti, da Pisa, faceva disperare quel povero cavalier Domenico, che
in Pescia predicava bene ma, come si sa, razzolava malissimo, gli
altri gli tenevan bordone; e per esempio Leonetto Cipriani, che del
Montanelli era stato compagno, se non amico, negli anni claustrali
di Santa Caterina, seppe accozzarne tante che non solamente il
collegio gli toccò lasciare, ma bensí anche Pisa e ben
presto l'Italia...102.
Il Malenchini non era neppure lui quel che si dice uno stinco di
santo, nei suoi giovani anni, né il Biscardi, né il
Fabrizi. Luigi Tonti, pistoiese, poetava e sognava cosí
romanticamente col suo fraterno amico Montanelli, e tanta luna,
pallida naturalmente, era nei suoi versi, che questi, al confronto,
avrebbe potuto dirsi inclinato addirittura all'epica!
Cosí le matricole; cosí, se non peggio, gli anziani:
tra i quali non possono dimenticarsi Michele Carducci, babbo di
Giosuè, ed un Giovanni Frassi, e Giuseppe Mazzoni di Prato:
ai quali vorrei aggiungere Francesco Forti, il grandissimo giurista,
di soli sette anni maggiore al Montanelli, e come lui allievo del
Carmignani103, e il Guadagnoli, che per quanto assai piú
vecchio di costoro, già laureato da alcuni anni, seguitava a
vivere e a folleggiare a Pisa, in compagnia degli studenti, eterno
studente lui pure, nei modi di vita e in quel suo prender
cosí sul serio le filastrocche che scompisciava con troppo
piú brio che arte. Un altro, che studente non era piú
da molto tempo, ma che a Pisa capitava di tanto in tanto, e che –
soprattutto – il Montanelli incontrava durante le vacanze a
Fucecchio, era Silvestro Centofanti: un uomo di gran sapere, certo,
e di grandissimo entusiasmo per gli studi, cui però la
soverchia opinione di sé e il facile eclettismo tolsero di
segnare in un campo o nell'altro quel profondo solco fecondatore che
non ha proprio nulla a che vedere coi successoni mondani, libreschi
o cattedratici. Montanelli, studente svogliato di legge, ma lettore
appassionato e assetato di coltura extra accademica, gli si
attaccò, a Fucecchio, con quello smisurato slancio che era
una delle piú belle e anche delle piú pericolose
caratteristiche del suo temperamento. Scorgeva in lui il rinnovatore
della filosofia italiana, il genio vivificatore che dominava le
scienze le piú disparate e ne illuminava i nessi e i rapporti
reciproci, la mente somma che con la ragione aveva superato, non
bestemmiato, la fede104. Gli si metteva alle costole per intere
giornate – sdegnando gli ammonimenti degli zii canonici che lo
avevano in sospetto di ateismo – e, alla lettera, pendeva dalle sue
labbra. Correvano quasi vent'anni fra loro; pure il Centofanti non
sgradiva affatto la compagnia del ragazzo, che capiva a volo anche
le astruserie e che, d'ingegno precoce, ma duttile e influenzabile
quanto si può esserlo a quell'età, prometteva di
diventare piú ancora che un valido araldo dei suoi sistemi
filosofici, addirittura come figlio suo spirituale, un'opera sua, e
magari un capo d'opera. Centofanti parlava tutto il tempo, e di
tutto: a un tratto, passeggiando, si arrestava di colpo, e imponendo
silenzio al discepolo: – Zitto – gli diceva – mi passa un pensiero
filosofico... sorprendo la natura nell'atto... un giorno sentirai il
mio nome ripeterlo da tutti gli echi del mondo... Io sono il
Napoleone del pensiero –. Bum! Senonché l'implume Montanelli,
sprovvisto ancora del vivo senso dello humour, invece di sbottare in
una risata omerica, compreso di ammirazione obbediva, pago, e anzi
orgoglioso di assistere in tutta umiltà alla misteriosa
genesi dell'Idea. E non pure ascoltava reverente e commosso, ma si
prestava in mille modi a facilitare il geniale lavoro del suo
«maestro»: procurandogli libri, copiandogli manoscritti
ed anche scrivendo dietro dettatura105.
L'esempio del Centofanti, le immense soddisfazioni interiori che
costui ricavava o pareva ricavare dalla sua applicazione, e che si
traducevano in quella tranquilla, incrollabile sicurezza della sua
superiorità, persuasero il Montanelli a gettarsi a capofitto,
sotto la guida di lui, negli studi di filosofia. Legge? Medicina?
Musica? Poesia? Bazzeccole, minuscole sfaccettature d'un prisma che
solo la filosofia poteva abbracciare nel suo insieme, come
altresí scomporre e ricomporre. La religione? Un'impostura
per i poveri di spirito: o una giustificazione per i pigri di mente.
Cosí, fra i tredici e i sedici anni, piú che alla
Sapienza di Pisa il Montanelli fu a scuola da quella, non meno
enciclopedica, gli pareva, e senza dubbio piú unitaria, del
Centofanti.
Principiò col D'Alembert, introduzione, appunto, alla
Enciclopedia, e poi giú a tutto spiano, illuministi e
sensisti, Volney e d'Holbach, il nuovo verbo. Destino consueto degli
ex seminaristi e dei nipoti di canonici.
Non ci voleva un gran che a levare dalla testa una religione che non
era nel cuore e che quantunque si chiamasse cristiana, aveva a che
fare col cristianesimo precisamente quanto il paganesimo
Cosí il Montanelli nelle Memorie, rievocando la sua
adolescenza;
religione tutta di pratiche esterne, di genuflessioni alle immagini,
di scappellature ai preti, di rosari, di messe, di vespri, di
viacrucis, religione che identificava con tutti i ricordi di tedio e
d'oppressione domestica, subita da noi fanciulli in quel barbaro
sistema d'educazione pretesca vigente nei nostri collegi e nelle
famiglie dette religiose. Una ruttata di Holbach e di Volney bastava
a persuaderci che, per essere uomini davvero, non dovevamo credere
né a Dio, né all'anima, né a Cristo, né
al diavolo, ma solamente alla ragione e alla natura106.
L'importante si fu che il Montanelli non studiava per far pompa,
all'«Ussero» o sui Lungarni, della scienza cosí
trangugiata, ma proprio per verace amore dello studio. Anzi, al
caffè degli studenti capitava ben poco, ormai, e come sopra
pensiero; e all'università ci andava per dovere d'ufficio,
con la benigna sopportazione di chi, avvezzo a volare per l'aria,
sia costretto di tanto in tanto a prender terra e ad accomunarsi col
vile pedone. Prendeva delle solenni indigestioni di libri, sepolto
giorno e notte a tavolino fra pile di volumi e catafalchi di
appunti. L'Alfieri rinsavito s'era fatto legare alla seggiola; lui,
malato di troppa saviezza, si legava alla vita un cordone con una
campanella, perché, caso mai si fosse addormentato, il
movimento solo del chinare il busto sul tavolo valesse a destarlo.
La filosofia lo rimandava alle scienze particolari, a tutte le
scienze107; perciò si muniva di trattati elementari di ogni
disciplina, e ingurgitava anche quelli con la furia frenetica di chi
dovesse a tutti i costi giungere a un momento determinato a un
determinato traguardo, e magari s'aspettasse un premio supplementare
per ogni secondo d'anticipo.
Invece del Centofanti, che per lettera o a voce lo spronava a
seguitare per quella strada, col rischio e anzi con la preventiva
certezza che gli accadesse quel che accade a noi del XX secolo che
per piú vedere viaggiamo a cento chilometri all'ora, salvo a
dover rifare a piedi, more antiquissimo, quel tanto di paese che
veramente vogliam conoscere, invece del Centofanti, gli ci sarebbe
voluto, io penso, un buon amico sensato che avesse saputo levargli
di sotto quel troppo di libri e condurlo seco a zonzo per la
città, e la campagna, e magari un Giuseppe Giusti innamorato
e fannullone, che gli avesse procurato l'occasione di una prima
cotta a dovere, tanto meglio se per qualche donnetta di quelle che a
Pisa, allora, si specializzavano in studenti a spasso. Non si
accorgeva che quell'imparaticcio affannato gli logorava i nervi e
gli occhi e gli affinava il già esile petto?
La sapienza è un po' come il vino, che a mezzi litri e litri
interi puoi anche, se lo stomaco è all'ordine, pasteggiar
tutti i giorni, e anzi ti fa pro', ma lo stravizio prima ti
dà alle gambe, poi alla testa, e finalmente, se
séguiti, ti ringrullisce davvero e per sempre.
Il Montanelli lo salvò una malattia, che sarà stata,
come si dice oggi, un bell'esaurimento nervoso: ma allora
chissà come l'avranno chiamata; certo stette male, e dovette
curarsi a lungo, e a lungo riposarsi. Morale: si persuase che
«est modus in rebus», e che, se proprio a lui non poteva
parere che fosse meglio un asino vivo che un dottore morto, per
morire dottore era pur d'uopo, intanto, vivere per addottorarsi.
Natura gli aveva dato, s'è detto, poco giro di petto, e un
corpo secco e allungato, coi nervi a fior di pelle e due occhi
malinconicamente cerchiati e profondi, di quelli che fan pensare al
mal sottile in agguato. Una gran fronte li sormontava, continuata,
in alto, dalle stempiature precoci: dissero poi che assomigliava al
Mazzini (e piú gli somigliò quando, come lui, si
lasciò crescere una barbetta stenta e i due baffi a ricasco),
e, a giudicar dai ritratti, bisogna riconoscer che è vero:
né tanto in questo o quel particolare della figura quanto nel
suo complesso e negli atteggiamenti e nel rapporto tra le membra e
in quel caratteristico contrasto tra la fragilità
dell'aspetto e l'impressione di solidissima forza interiore che ne
promana irresistibilmente.
Riprese a studiare, ma con piú metodo e calma; non sembra, ma
a riempir la cisterna fa piú una pioggia continuata e calma
che non un grande scroscio calamitoso, il quale, anche se il cielo
incomba gonfio e nero, già si sa che dura poco, senza contare
che per la troppa sua forza rischia d'ingorgare i condotti e
cosí sperder l'acqua all'intorno, inutilizzata e
inutilizzabile. Ancora i suoi filosofi, sí, ma forse con
minor presunzione di scoprire in loro la chiave buona per tutte le
toppe, forse con piú gusto per i problemi che non per la loro
soluzione, con piú intelligenza insomma. E non piú il
Centofanti unico nume, seppur tuttavia al posto d'onore nel
Pantheon, ma in associazione e in contrasto con altri:
giacché era legge del Montanelli studente, come del resto dei
piú fra i suoi colleghi d'allora, di prima e di poi, di
concepire e di imparare ad amare la scienza in funzione e quasi per
tramite di un particolare scienziato, e di aver sempre, per
cosí dire, un santo di settimana. Che è poi, anche
quello, un modo di espandere il prepotente bisogno d'amare e di
credere che tutti i giovani incalza, e chi non abbia una fede o una
donna, crederà nel maestro e amerà lui, e disgraziato
quello che, fra i quattordici e i diciotto, non abbia adorato un
sistema o un'idea o un ideale di vita personificandoli di volta in
volta in uomini vivi assunti a specchio di perfezione.
Aveva ormai sedici anni il Montanelli quando al Centofanti scriveva,
il 15 di giugno del '29, invocandolo a Fucecchio: «... Ella
solo può mettermi nella buona strada per giungere al tempio
vero della sapienza». Sí, ma nel contempo dandogli
conto, oltre che delle letture in corso (ideologia del Traus) del
buon proseguimento dei suoi studi legali, lo informava di vittoriosi
esami sostenuti alla Sapienza108: s'era dunque messo di buona lena,
finalmente, al suo curricolo universitario, trovando anche
là, come accade nonostante le ostentate espressioni di
scherno che saran sempre di prammatica tra gli studenti di
piú robusta e sveglia vita intellettuale, pan pei suoi denti,
e non affatto insipido o secco. Certo, l'università di Pisa
non era allora proprio nel suo fiore; tramontati da tempo i suoi
astri maggiori (l'ultimo, il celebre Pacchiani, aveva appena
lasciato la cattedra di fisica), rimanevano riditori e
accademizzatori; cosicché, un po' per colpa di qualche
singolo docente e un po' perché dal '15 in poi tanti germi di
libera vita, cioè di cultura, erano stati, anche in Toscana,
sistematicamente soffocati e isteriliti – non per nulla le
università sono i registratori piú certi, e direi
quasi i termometri, d'ogni minima oscillazione della temperatura
spirituale di un determinato paese – la Sapienza poteva già
dirsi in lento, ma certo decadimento. Comunque, qualche bel nome
continuava ancora ad adornare di sé le liste professorali: e
basterà citare un Rosini e un Ragnoli, a lettere, un
Carmignani e un Del Rosso, a legge109, alle cui lezioni accorreva
sempre una gran folla non di soli studenti, e delle cui opere si
parlava non pure in Toscana, ma in tutta la Italia dotta, e anche al
di là delle Alpi. Al Rosini (vedremo come si facesse rider
dietro per le sue correzioni... al Manzoni) proverbiato per la sua
prosopopea, tutti perdonavano sorridendo la mania di scrivere
romanzi e commedie, che lui soltanto considerava immortali,
perché come insegnante, era indubbiamente assai dotto e
infaticabile, e come uomo d'una bontà e d'un candore a tutta
prova. Certo, il Montanelli frequentava i suoi corsi e, se non la
sua casa, certo, o al caffè o in altre conversazioni, lo
avvicinò di frequente. Per quanto attempato e togato, per
quanto lo chiamassero Pompa, il Rosini sapeva mettersi in confidenza
con i giovani d'ingegno, con taluni dei quali non sdegnava –
cosí col Giusti – di scambiar versi per darne o riceverne
impressioni e consigli; e con i giovani scrittori talvolta anche
polemizzava o s'imbizziva per la recisione dei loro giudizi critici,
come accadde ad esempio col Montanelli qualche anno piú
tardi, a proposito di una sua non so quale sentenza intorno alla
nuova e alla vecchia scuola in un articolo di rivista110. Allora il
Montanelli si mostrava severo col vecchio maestro, che aveva la
debolezza di far recitare a Pisa, a un pubblico composto in gran
parte di suoi studenti, commediole da strapazzo, come – nel marzo
del '36 – I nipoti e la zia, che fu un memorabile fiasco111; ma
prima d'allora, negli anni della formazione, non era stato
cosí, s'è detto, e anzi gli si era sinceramente
legato.
Ma il maestro cui piú dovette il Montanelli, e in primo luogo
il gusto degli studi legali, fu senza dubbio il Carmignani, titolare
di diritto penale, legittimo vanto della facoltà pisana, uomo
di prodigiosa erudizione e versatilità, allora all'apogeo
della sua grande carriera d'insegnante e di avvocato. Era una bella
tradizione dell'università di Pisa quella che il piú e
il meglio dell'insegnamento, per gli studenti volonterosi, non si
facesse in aula, dalla cattedra, ma in casa dei singoli professori,
che anticipavano cosí, all'infuori dei regolamenti, i moderni
seminari di facoltà. Il Montanelli fu tra gli assidui del
Carmignani, dal quale si disse allora che non sapeva staccarsi mai,
seguendolo a casa, allo studio, al caffè, alle veglie serali
presso questa o quella famiglia pisana, sfruttando la sua
biblioteca112; affettuosa ammirazione da una parte, fiducioso
incoraggiamento dall'altra: il Montanelli non piú se ne
scordò, quand'anche, piú tardi, il Carmignani, grave
di anni e intellettualmente diminuito, mutasse assai d'umore nei di
lui confronti, ingelositosi dei suoi successi, quasi che il merito
primo non ne spettasse per l'appunto a lui.
Si veda a riprova di questa riconoscente equità del
Montanelli l'altissimo encomio che al suo maestro egli
tributò, venti anni dopo, nelle sue Memorie, sottolineando la
novità e l'importanza delle sue dottrine giuridiche e
filosofiche113.
Scorsero cosí, tra maestri, libri ed amici, gli anni
dell'università: anni quieti e fruttuosi pel Montanelli,
almeno a giudicare dal tono e dal contenuto delle sue lettere e dal
pochissimo ch'egli credette di dovercene dire, appunto nelle
Memorie. Anche la grande scossa del 1830, che pure infiammò
tanto la gioventú italiana, se certamente lasciò
traccia nel suo spirito, risvegliandovi un mondo di idee e di
aspirazioni fino allora o immature o inespresse, non valse a
distorglierlo dagli studi. Il suo nome, ad esempio, non comparve
mai, per allora, tra quelli, registrati dal Buon Governo, degli
studenti piú infiammati o imprudenti: vero è che non
aveva che 17 anni. Pure si furon proprio quei libri, quelle
abitudini di disciplina intellettuale, quel frequentare
l'élite della intelligenza toscana che di lui, come di tanti
altri, suoi amici e compagni, fecero il patriota italiano nel senso
moderno della parola. La generazione che nel '48 si mostrò
matura ad affrontare, se non proprio a risolvere, il problema
italiano, era quella appunto che intorno al 1830 sedeva ancora sui
banchi dell'università e che – le poche eccezioni confermano
la regola – assisté senza direttamente parteciparvi al grande
esperimento fallito del '30-31. Prendiamo i nomi dei giovani
compromessi, in Toscana, nei disordini di quel biennio, e
constateremo che salvo il Guerrazzi e pochissimi altri, nessuno di
costoro prese parte attiva, nell'età matura, alle risolutive
vicende del successivo ventennio: molti, anzi, fra i giovani
liberali del '30, nel '48 erano diventati codini... La generazione
del Montanelli cominciò ad agire politicamente, cioè a
dar daffare alla polizia, disorientata dai nuovi metodi di
cospirazione e di propaganda, proprio dopo il tramonto delle
illusioni del 1830-31.
Ma si deve a questo punto rilevare un carattere
dell'università pisana che non è senza importanza per
determinare il tipo di patriottismo e, in genere, di passione
politica che furono del Montanelli e di moltissimi fra i suoi
condiscepoli. Questa università, se ancora non contava fra i
suoi docenti scienziati di altre regioni d'Italia, come ben presto
fu suo vanto e fortuna (una fortuna dovuta proprio all'ondata di
repressioni che investí il mondo intellettuale della penisola
all'indomani del '30, ma che in Toscana ben presto s'andò
attenuando fin quasi a scomparire del tutto), già da tempo si
era segnalata e come specializzata nella larghissima
ospitalità che accordava agli studenti forestieri, né
solamente italiani. Era un poco la tradizionale mitezza e
liberalità del governo toscano, in materia politica,
commerciale, di culto, che attirava gli studenti stranieri, molti
dei quali già stabiliti con le loro famiglie in Toscana, o
destinati a prendervi radice una volta laureati; era un poco il
portato del magico clima e della magica bellezza della Toscana; e
finalmente era un poco l'effetto della comparativa indulgenza che,
all'indomani della grande crisi italiana del 1820-21, si era usata
verso i relitti, qualche volta illustri, di quel drammatico
naufragio di speranze: in quale altro Stato della penisola sarebbe
stato tollerato un gabinetto letterario di fama europea come quello
Viesseux dove, attorno ad uno svizzero, si fossero riuniti
sistematicamente i rappresentanti dell'intelligenza locale con un
Colletta, un Pepe, un Leopardi, un Tommaseo, un Poerio, un Montani,
un Giordani, ospiti semi-permanenti della città di Firenze? E
quale altro governo avrebbe permesso che costoro accogliessero, come
facevano, ogni straniero di distinzione che fosse di passaggio,
senza riguardo per le dottrine politiche che professasse, e anzi
tanto piú gradito e onorato se di sentimenti liberali? Il
Buon Governo, si sa, si limitava a sorvegliare, a prender nota degli
incontri, di tanto in tanto a sussurrare, non mai a intimare,
consigli di prudenza: le filze dell'archivio segreto ingrossavano,
delizia degli storici futuri, ma le riunioni seguitavano
tranquillamente, alimentate dal rigoglioso fiorire
dell'«Antologia», e a loro volta alimentatrici di quella
famosa rivista.
L'università di Pisa, dunque, era un po' il frutto di quel
sistema e di quelle abitudini: ed appariva, in qualche modo, come
una specie d'immenso gabinetto Vieusseux per gli studenti. Gli
studenti toscani non costituivano, anno piú anno meno, che
all'incirca una metà della popolazione studentesca – gli
altri eran lombardi e piemontesi ed emiliani e romani; piú,
con qualche francese o tedesco, due grossi nuclei distinti, uno
straniero e di nazione e di lingua, l'altro soltanto per
appartenenza politica: quello dei greci e quello dei corsi, che si
contavano di anno in anno a parecchie diecine, e in qualche anno
salivano a piú centinaia. Che i corsi, legati alla Toscana da
antichissimi vincoli, e da perduranti interessi commerciali,
mandassero i loro figliuoli a studiare a Pisa, nulla di strano:
tanto piú che il francese, ancora, lo masticavano poco (ma fu
una circostanza, quella, di decisiva importanza per l'avvenire della
Toscana, e ben lo seppe il Mazzini che seppe mirabilmente sfruttare
ai suoi fini quella periodica migrazione di cittadini francesi);
piú singolare, invece, l'afflusso dei greci, fattosi
particolarmente intenso col crescente peggiorare delle relazioni fra
governo e governati, nelle province cristiane dell'impero turco, e
poi con lo scoppio e il prolungarsi della irresistibile rivolta. Li
dicevano greci tutti quanti, ma venivano da Corfú come
dall'Albania, dal Dodecanneso come dai principati di Moldavia e
Valacchia o dall'Armenia. Portavano a Pisa la nostalgia della loro
patria schiava, il fascino di un'antichissima civiltà
soffocata, la dolcezza della loro lingua, il loro gusto agli studi,
alle sètte, agli intrighi. Se dai compagni corsi gli studenti
di Pisa apprendevano quel che fosse fierezza e solidarietà
regionale e in piú ne derivava interesse ai problemi della
politica interna francese, quelli greci davano loro il senso vivo di
come la questione nazionale premesse non pure l'Italia, ma mezza
Europa, e perciò solo si imponesse la necessità di una
stretta unione fra combattenti per la libertà nazionale, a
qualunque paese appartenessero, di contro al fronte unico della
Santa Alleanza. La loro università, insomma, era un poco lo
specchio d'Italia e d'Europa: e in nessun altro luogo veniva fatto
cosí naturalmente ai giovani colti di discorrere della grande
politica, di sprovincializzarsi, di cogliere il lato universale di
certi problemi che altrove venivano posti con esclusivo riferimento
alle vicende e alle necessità italiane.
Questo carattere cosmopolitico dell'università pisana non
è stato sufficientemente rilevato o rammentato sin qui:
eppure ebbe decisiva importanza nella formazione del patriottismo
toscano. E ancora non bene si sa quanta parte l'ateneo pisano, a un
passo dal porto franco di Livorno, prendesse alla organizzazione e
alla alimentazione della rivolta greca; né con quanta
commozione vi si seguissero le vicende della infelice Polonia. E in
quale altro centro italiano si era meglio informati delle cose
francesi? E dove piú rapidamente e frequentemente potevano
pervenire le notizie della emigrazione italiana, che, col fissarsi
numerosissima in Corsica, pareva voler serbare la speranza o
l'illusione di un piú facile e prossimo ritorno in patria,
mentre piú agevole le riusciva di mantenere di là
contatti con i gruppi cospiranti all'interno?
A Pisa il Byron aveva concepito la generosa sua spedizione, e vi era
rimasto, nell'aria, un profumo di gentile eroismo; a Pisa si erano
rifugiati, per ritemprarsi, sfortunati campioni della lotta
antiturca; a Pisa, famosa allora pel clima di eccezionale mitezza,
usavano svernare personaggi stranieri, inglesi i piú,
cioè protestanti, liberali, umanitari, e per giunta gran
propagandisti delle loro dottrine.
Questo l'ambiente, estremamente vivo e stimolante, nel quale si
formò il futuro triumviro del 1849: del quale vedremo ben
presto come si andasse scegliendo gli amici piú intimi non
solamente fra i piú congeniali dei compatrioti toscani, ma
tra studenti d'ogni parte d'Italia, e fra i Corsi e Greci.
Anticipazione di un internazionalismo tutto spontaneo, che fu sempre
uno dei fondamenti incrollabili della sua ideologia politica.
Ed ora avviciniamoci un poco di piú al Montanelli tra i
diciotto e i vent'anni, subito prima e subito dopo la laurea,
ottenuta a pieni voti nell'estate del 1831»114.
Le lettere di lui, che si conservano copiose, seppur disperse, a
partir da quest'epoca, ci permetteranno di tratteggiare con qualche
maggior precisione la sua indole, le sue inclinazioni, i suoi sogni.
Con piú abbandono, con piú frequenza che a chiunque
altro, scrive sempre al Centofanti, a Firenze, quando non sono
insieme a Fucecchio, e a lui, sicuro della sua comprensione e della
sua simpatia, traccia, di lettera in lettera, un quadro anche troppo
minuto e fedele del mutevole suo stato d'animo e delle minime
perturbazioni che valgono a modificarlo. Del resto è la gran
moda, quella, intorno al '30: quasi tutti gli epistolari del tempo
offrono una documentazione concorde della mania introspettiva che si
è impadronita del ceto colto, contagiato dalle tendenze
romantiche della letteratura corrente. Il che vale a dire che, nel
piú dei casi, quegli epistolari sono tutt'altro che
dilettevoli, a leggersi oggi: tanta è la ingenua sicurezza
che anima gli scrittori di non aver proprio nulla di piú
urgente da raccontare che le private vicende dell'io interiore,
registrate col compiaciuto apparente distacco di chi osservi le fasi
di un imponente fenomeno naturale. E non già, badiamo bene,
raccontarle in sede di confidenza e d'espansione amorosa, lui a lei,
e lei a lui, ma da uomo a uomo, con una serietà e una
compunzione che, quando, ed è quello che accade piú
spesso, non t'infastidiscono, ti fanno sorridere.
Ed ecco qui il Montanelli che, sulla fine del '30, fa parte al
Centofanti della sua irrequietezza interiore, del suo spasimante
desiderio d'amore, del palpito patriottico che tutto lo pervade.
Ogni due righe una fila di punti esclamativi e una manciata di
puntolini e da principio a fine un tono da febbricitante, che si
estrinseca nelle concitate proteste d'eterna amicizia e in un
perpetuo altalenare tra la compassione e l'orgoglio del proprio
stato, il cui privilegio sembra essere la precocità del
dolore. Quanto al dolore, passi. Ma l'eterna amicizia... Verso la
fine del '31 i due hanno un primo passaggio d'armi in seguito al
quale, offesissimo, il Centofanti non vuole aver piú nulla a
che fare col Montanelli. Tocca a questo, cinque mesi dopo, venire a
Canossa:
Dopo le cose che son passate fra noi io non ardirei di scriverle se
l'interesse della patria, e della scienza, non me lo imponesse... Mi
prevarrò di questa occasione per parlarle di me, dello stato
terribile in cui mi trovo da cinque mesi in poi, e del bisogno che
sento di riottenere la sua affezione? Il cuore mi consiglierebbe a
farlo... ma quando rifletto alla giustizia del suo sdegno,
quantunque, ingenuamente lo ripeto, per parte mia non sia stato
provocato maliziosamente, mi perdo di coraggio. Che le dirò
dunque? Le dirò che non ho cessato un momento di amarlo..., e
lo amerò sempre finché io vivo, come il mio padre,
come il mio amico, come il mio tutto.
E il Centofanti, toccato, perdona: ... «io aspetto con
desiderio – e tu vorrai non ritardare... la tua venuta in questa
città». Onde il Montanelli, che sospira allora un
giornale nel quale lavorare sotto la direzione di «quell'uomo
straordinario»: «Noi tutti saremo a sua disposizione –
senza altro scopo che quello di riflettere nell'Italia la luce che
riceveremo da lei»115.
Altra volta il Montanelli discorre, sempre col Centofanti, e non
senza enfasi, del dovere di prodigarsi per l'umanità e la
patria, che egli avverte prepotentissimo: «Ancora pochi anni,
ed io pure mi vedrò circondato da giovanetti, che, nuovi alla
vita, mi domanderanno di ciò che feci per il bene
dell'umanità e della patria, e mi interrogheranno sulle
passate vicende». Il Centofanti gli risponde in chiave: non
vede l'ora che «il suo giovane amico» lo raggiunga a
Firenze, gli magnifica l'accoglienza che da tutti riceverà:
«Io ti aspetto con ansietà! Parliamo ogni giorno di te,
dei nostri cari e ardenti cooperatori, e della futura vita
letteraria che condurremo!»116. E qualche mese dopo:
Se tu sapessi le seccature che mi hanno tanto impedito in questi
ultimi giorni, avresti già nell'anima quell'impeto generoso
con cui spesso avrei voluto liberarmi da quei vincoli... E il Tonti
che fa? Sveglialo con un bacio in mio nome... Nel cuore rimane il
sentimento di quella armonia di divina bellezza del mondo morale al
cui concento godo ora di poterti abbracciare col desiderio117.
L'amore pel Montanelli era grande; ma piú grande ancora
l'amore di sé. Una volta fu chiamato d'urgenza a Fucecchio
per qualche guaio successo in famiglia. «Ho voluto darti
questa nuova testimonianza di amore comunicando teco questi miei
dolori, prima di entrare in carrozza», scrisse subito al
Montanelli, aggiungendogli con tutta semplicità che quel
contrattempo gli aveva impedito, come desiderava, di cominciare
finalmente «l'edificio della sua vera gloria», cui si
sentiva ormai maturo «riposando su fondamenta di
ferro»118.
E quattro giorni dopo: «Tu, mio dolce amico, non sei stato
meco in questi amarissimi giorni! Oh se tu avessi saputo le mie
pene, saresti volato da me per reggere sul tuo seno questo mio capo
non oppresso, ma grave de' piú tremendi pensieri!»119.
Per fortuna il dialogo epistolare non toccava sempre e unicamente
questi vertici di lirismo; spesso era questione di libri e d'idee,
ché il Montanelli, appena laureato, si cibava di Filangieri,
di Vico120, di Romagnosi e di Rousseau e amava scambiare col
Centofanti le impressioni di codeste sode letture121. Talvolta,
respiriamo, era anche questione di piú lievi interessi:
pettegolezzi universitari122, interessi legali dal Centofanti
affidati al suo giovane amico123, o interessi del cuore; ché,
a forza di praticare quel dotto suo amico, il Beppe, o piuttosto
Geppino, come egli lo chiamava, aveva finito, sembra, con
l'innamorarsi, ricambiato, di una sorella di lui, Antonietta124: la
quale, forse, si accompagnava talvolta a loro, nelle quotidiane
passeggiate a Fucecchio125.
Ma il cerchio di conoscenze e d'amicizie del giovane fucecchiese si
andava allargando: notevole come egli inclinasse sempre verso
persone di piú di lui e per età e per cultura;
notevole come riuscisse a cattivarsi, di costoro, non pure quel
bonario incoraggiamento che dall'alto si suole concedere ai giovani
di belle speranze, ma addirittura un affettuoso ricambio di stima,
da pari a pari. Uno dei «grossi calibri» che fin
d'allora corrispose col Montanelli è Niccolò Tommaseo.
Si conoscono nel principio del '32126 e alla metà d'anno
già si dànno confidenzialmente del tu127: il dalmata
sollecita il giovane amico a scrivere, gli colloca articoli, lo
incarica di traduzioni, gli propina consigli letterari, che quegli
dichiara «savissimi» e si propone di «praticare
per sempre»: anche gli comunica la passione per la purezza
della lingua («Mi occupo indefessamente dello studio della
lingua – gli scrive infatti il Montanelli, da Fucecchio, il 22
d'ottobre del '32 – ed ho preso grand'amore ai trecentisti, e
principalmente al Cavalca») e stimola in lui gli scrupoli
religiosi:
A questa occupazione, – continua il Montanelli, – congiungo lo
studio dei Santi Padri, e principalmente di sant'Agostino. Non son
contento finché non ho inteso il sistema cristiano in tutta
la sua integrità. La profonda cognizione e comprensione di
questo sistema è necessaria in tutti coloro i quali altamente
convinti della verità delle idee religiose vogliono rialzarle
nei popoli, e proporzionatamente ai bisogni della nuova
civiltà.
Il Tommaseo gli ha proposto di collaborare a una raccolta di
biografie: il Montanelli accetta con entusiasmo. «Il desiderio
di poter giovare in qualche parte alla umanità m'infiamma
talmente che son pronto a fare qualunque cosa, ove mi sia indicata.
Ti prego a disporre di me in tutto ciò che ti
piace»128. Attraversa quel periodo beato dal quale si crede
che il mondo non sia che un gigantesco laboratorio per le proprie
impazienze risanatrici: ad ogni male un rimedio e, perché
torni piú efficace, non altro che il fermo volere dei
«buoni».
Nel novembre del '32 Montanelli legge sull'«Antologia»
un articolo del Tommaseo sulle cose italiane. È fuori di
sé, l'entusiasmo suo e dei suoi «giovani amici
egualmente infiammati d'amore per la umanità» non
conosce piú limiti. Saluta in Tommaseo un maestro nella
piú vera ed estesa accezione del termine129.
Credimi – continua – che fra i tanti giovani che frequentano
l'università alcuni ve ne sono dai quali può molto
sperare la nostra patria. Se i precettori sapessero fecondare questi
germi che natura ha posto nel cuore di molti, il numero dei buoni
sarebbe anco maggiore, perché oh quanto male rispondono, mio
caro Tommaseo, allo slancio della gioventú i metodi degli
insegnamenti!, e se tu domandassi a quelli che hanno intrapresa la
rischiosa via della sapienza da chi abbiano ricevuto l'impulso al
ben fare, ben di rado ti sarà risposto che questo impulso fu
dato da un istitutore. Io m'ingegno di trasferire in tutti i miei
compagni quei nobili sentimenti dai quali sono infiammato, e tale
è lo scopo dei miei pensamenti e delle mie opere giornaliere.
Ci occupiamo nel risolvere i grandi problemi sociali, e ci
addestriamo all'arte della parola. È fra noi unione veramente
fraterna e la nostra mente è governata da una sola idea, come
il nostro cuore non palpita che d'un solo affetto. Nella
dissoluzione universale dei vincoli sociali ci congratuliamo ben
sovente con noi medesimi nel sentirci stretti dai dolci nodi
dell'amore, e della fratellanza, e ci sforziamo di avvalorare con
l'esempio le nostre parole...130.
Subito dopo il Tommaseo fu a Pisa, e vide a lungo il Montanelli e i
suoi amici (al Montanelli, e forse al Bianchi, alluse senza dubbio
in un passo di quella sua Gita a Pisa che si legge nella
«Antologia» del novembre '32: «Con questo
sentimento (di religioso raccoglimento) io passeggiava stasera nelle
tenebre la piazza di Santa Caterina131..., dove mi aspettavano due
cari giovani di belle speranze, perché il cuor loro è
in armonia con l'ingegno».
La tua presenza – gli scrisse per parte sua il Montanelli il 5
dicembre132 – lasciò un gran vuoto nei nostri cuori, ma
sebbene lontani noi siamo uniti, e in questa unione consiste la
felicità della nostra vita. Molti giovani si sono avvicinati
a me, e sebbene non tutti siano dotati del medesimo ingegno, in
tutti però è grande l'entusiasmo, e in te abbiamo
riposto grandi e belle speranze... Mio caro Tommaseo – amami –
consigliami – dirigimi – ed io consiglierò e dirigerò
i miei amici. Cosí adoprando potremo in poco tempo
impadronirci della gioventú e rendere un grande servizio
all'umanità e alla patria.
Analoghe professioni di fede, analoghi slanci in altre lettere di
quei giorni133: in una delle quali Montanelli accenna ai due suoi
amici, e amici del Tommaseo, il Tonti134 e il Monzani135,
chiamandoli «nostri fratelli»; in un'altra, dopo avergli
parlato d'altri due comuni amici, il Tolomei e il Bianchi, il
secondo dei quali «assisteva alle nostre conversazioni»,
gli raccomanda di «compiegare in modo le tue lettere da non
poter essere lette da qualche occhio profano. Sarei dispiacente di
una infrazione di sigillo»136 In una terza, infine, il
Montanelli, discorrendo con lode delle Mie prigioni del Pellico, di
fresco pubblicate:
Non ci stanchiamo di ripetere – scrive – che le verità
religiose sono la principalissima garanzia della felicità
individuale e sociale. Impadroniamoci per quanto è possibile
d'un terreno che oggi occupano uomini ignoranti, superstiziosi e
codardi e l'ufficio del letterato sia un vero sacerdozio morale. La
libertà dei popoli, come altra volta tu osservavi,
sarà frutto non d'odio ma d'amore. E non ameranno veramente,
e potentemente i loro simili se non che gli uomini persuasi
fermamente delle grandi verità della vita.
E prosegue: «I vincoli fra i giovani si stringono sempre con
maggiore intimità».
Il lettore avrà già notato da sé quanto
siffatte espressioni trascendano il valore di generiche affermazioni
di fede o di semplici attestazioni di una sia pur calorosa
colleganza spirituale. Qui c'è qualcosa di piú. Ci son
dei «fratelli», v'è un apostolato di fede,
v'è una sistematica azione svolta fra gli studenti, vi son
ritrovi tra elementi di diverse città e di diversa
provenienza, v'è insomma, chiara e evidente, una
organizzazione nascente. Di che si tratta? Il nome della Giovane
Italia sorge spontaneo alla mente: ma allora quell'insistere
piuttosto sui doveri verso l'umanità che su quelli verso la
patria? Quella preminenza accordata ai valori religiosi? No, siamo
su altro e ben diverso terreno. Siamo precisamente in presenza di un
tentativo, uno fra i pochissimi mai compiuti in Italia, di
trapiantare a Pisa una «chiesa» cioè, una sezione
del movimento sansimonista. Qualche notizia in proposito del resto,
ce l'aveva già data il Montanelli medesimo, pur naturalmente
restío, negli anni successivi, a ricordare un cosí
«superato» episodio della sua vita giovanile. Leggiamo
le sue Memorie, nel capitolo dedicato al Liberalismo cattolico:
descritto magistralmente il suo passaggio dall'ingenuo cattolicismo
dell'infanzia al disinvolto materialismo e sensismo degli anni
universitari, il Montanelli prosegue osservando che per alcun tempo
l'eccitazione politica verificatasi nel 1830 fece sí che egli
non sentisse il «vuoto desolante» dovuto alla morte
della fede religiosa.
Cosí non mi avvidi della sterilità di una dottrina che
abbassava il pensiero alla sensazione, e i sentimenti morali al
tornaconto, altro che quando, andate a rovescio le rivoluzioni
italiane del '31, e mancate le promesse di Francia, e immolata
l'eroica Polonia, all'ebbrezza divina dei primi entusiasmi concepiti
nell'amore della libertà, e nella certezza del suo trionfo,
sottentravano le amarezze del disinganno, e le cupe riflessioni
suggerite dallo spettacolo delle umane sventure. Avventuratamente ai
primi del 1832 mi caddero in mano i libri della scuola sansimoniana,
non ancora bamboleggianti nelle sguaiataggini teocratiche del padre
Enfantin. E questa dottrina che ci conciliava col nome di religione,
bandito dalle scuole materialiste, e a difetto di sintesi religiosa
attribuiva i mali presenti, e separando i periodi critici dai
periodi organici, un nuovo periodo organico prometteva a ricomporre
l'armonia fra la materia e lo spirito, l'individualità e
l'associazione, la libertà e l'autorità, la
conservazione e il progresso, dottrina siffatta dai pantani del
gretto materialismo mi sollevò a piú spirabil aere; e
colla certezza di cooperare alla sintesi religiosa futura partecipai
alla piccola chiesa sansimoniana nel 1832 formatasi
nell'università di Pisa, e seguitai dipoi con altri miei
compagni di studi il movimento delle questioni chiamate sociali137.
Cosí il Montanelli stesso, nel 1853; ma già sei anni
innanzi, conversando col sopraintendente dell'università di
Pisa, gli aveva confessato di avere «nei tempi andati seminato
nel popolo gli errori del sansimonismo»138.
Nel maggio del '32, del resto, lo stesso Montanelli aveva scritto al
Centofanti:
Da quattro mesi in poi ho abbracciato interamente con molti altri
miei amici la dottrina di Saint-Simon, ed ho sofferto ancora delle
vessazioni. Fin da questa epoca il vecchio uomo è in me
interamente disperso. La mia vita è cangiata – essa ha uno
scopo139.
Queste notizie vennero confermate dai biografi del Montanelli, prima
di tutti dalla moglie di lui140, la quale, attingendo, senza dubbio,
alle confidenze verbali del consorte, raccontò altresí
come rapidamente e miseramente quel tentativo andasse a finire.
Lo zio rettore (di Santa Caterina) lo invigilava seriamente. Una
sera lo chiama nel suo appartamento del collegio, ciò che
indicava male e rimescolava tutto il giovane Montanelli...;
chiudendo la stanza gli disse con molto mistero che la polizia
conosceva esistere una società di giovani sansimoniani e lo
avvertiva che se gliene fosse parlato badasse bene di non andarci.
Siccome questa società si riuniva in casa sua avvisò
gli amici che erano sorvegliati e sapendosi scoperti non poterono
piú riunirsi.
Gli archivi del Buon Governo, compulsati in proposito, non rivelano,
a dir vero, alcuna traccia di questa pur importante vicenda141. Di
sansimonismo, ch'io sappia, vi si parla una volta sola, e diversi
mesi piú tardi, e con riferimento a Firenze, ed è
comico osservare come sotto quel nome la polizia toscana registrasse
non già, come ci si aspetterebbe, una conventicola
politico-religiosa-sociale, ma una specie di società
malfamata tra giovani sfruttatori per... la tratta delle bianche!
Eterno, poco invidiabile destino dei partiti o delle sette malvisti
dai governi che il loro nome venga usato a designare ogni sorta di
birbonate che con la politica o la religione non hanno proprio nulla
a che fare...
Comunque, non c'è alcun dubbio, nei primi mesi del 1832 il
Montanelli fu sansimonista, come ebbero ad attestare piú
tardi anche taluni suoi confidenti ed amici, tra gli altri il
Minghetti e il Levi.
La sua mente – scrisse quest'ultimo – fu colpita dalla grandezza
come dalla novità del sistema... Malgrado i divieti della
censura sospettosa il Montanelli ebbe modo di procacciarsi i libri
del maestro, e le molte pubblicazioni che venivano allora in luce a
Parigi sulla dottrina. La sua mente affettuosa e appassionata
s'infervorò per essa; raccolse intorno a sé un nucleo
di seguaci fra i giovani e la scolaresca di Pisa. Si scorgeva nel
genio del Montanelli una cotale affinità con quella del padre
Enfantin, il san Paolo del sansimonismo... E il Montanelli
fondò in Pisa una chiesuola, la quale teneva adunque adunanze
regolari, aveva ministri e riti. Ogni giorno vi si facevano letture
per insegnare il sistema dal punto di vista storico, filosofico ed
economico; già cominciavano le dottrine a propagarsi fra la
scolaresca... quando la polizia fu messa in sull'avviso: ne
spiò i convegni, li scopi, sostenne in carcere alcuni
discepoli, soppresse il tempio, ed i credenti vennero dispersi142.
Chi mise la polizia sull'avviso? Non lo sappiamo; certo è che
la studentesca veniva sistematicamente sorvegliata, né era
facile nascondere dei ritrovi frequenti e affollati. Conoscendo
però le abitudini della polizia toscana, e tenendo presente
il silenzio degli archivi del Buon Governo in proposito, non
è da escludere (a parziale correzione del postumo del Levi)
che l'unica misura adottata dalle autorità pisane fosse
quella di suggerire al canonico Montanelli di dare al nipote una
buona lavata di capo, accompagnata da precisi riferimenti alle
«scoperte» della polizia. Né il metodo, a quel
che pare, si dimostrò sbagliato...
Ho sotto gli occhi alcune delle pubblicazioni di propaganda messe in
giro, proprio sui primi del '32, dalla «centrale»
parigina della chiesa sansimonista. Probabilmente furono quelle che
capitarono in mano al vero dottore in utroque. Una, di un 180
pagine, s'intitola: Religion Saint-Simonienne. Economie politique et
politique. Articles extraits du «Globe», Paris, marzo
1832. Un'altra, sempre intestata alla stessa Religion: Politique
industrielle. Système de la Méditerranée, di
Michel Chevalier, Paris, marzo 1832. La terza, dell'aprile,
piú voluminosa di tutte (pp. 207): Morale. Réunion
générale de la famille. Enseignements du Père
Suprême. Les trois familles. In copertina vedo richiamati i
fascicoli già usciti: Exposition de la doctrine; Lettres sur
la religion et la politique; Reveil de predications; Appel aux
artistes, ecc. Leggo anche un avviso di un certo interesse:
«Les publications de la réligion S. S. ne sont pas une
spéculation, mais une œuvre d'apostolat. L'enseignement
qu'elles renferment est distribué aux mêmes conditions
que les autres enseignements, c'est à dire
gratuitement».
Siamo al tempo in cui la chiesa sansimoniana, giunta all'apice
dell'effimera sua popolarità, inizia la parabola della
decadenza, affrettata dai profondi e clamorosi dissensi che dividono
i suoi dirigenti. Trionfa padre Enfantin, ma è un trionfo che
condurrà ben presto al ridicolo e alla dissoluzione
definitiva. Comunque qual è, ancora nel '32, il messaggio del
sansimonismo? Frutto della sete di religiosità seguita alle
perentorie negazioni del secolo XVIII, tentativo di armonizzare la
fede e la scienza, la rivelazione e la ragione, la libertà e
l'autorità, il rinnovato dogma dell'eguaglianza sociale e
politica con la necessità dell'ordine, esso pareva rispondere
alle esigenze fondamentali e pure antitetiche di ogni spirito colto,
cioè libero, nell'Europa della restaurazione. Era un generoso
tentativo di anticipar sulla terra, mediante una progressiva
riforma, essenzialmente sociale, le beatitudini relegate dal
cristianesimo nell'al di là: un sogno di bontà e di
bellezza basato su una concezione ottimistica dell'umanità e
inteso appunto a rendere alla vita terrena le attrattive negate, o
piuttosto respinte, dal dogma teocratico. La grande forza morale
fino allora sottratta ai suoi compiti vitali, sviata dalle sue mete,
incapsulata, isterilita nella contemplazione di un avvenire
inconoscibile, la fede religiosa veniva finalmente chiamata a
facilitare il raggiungere di quel massimo di giustizia sociale e
quel minimo di benessere per tutti senza dei quali l'umanità
non avrebbe mai trovato un suo stabile e precipuo assetto.
Emancipazione del proletariato, emancipazione della donna, queste le
maggiori rivelazioni del nuovo verbo. Tutto l'afflato romantico del
principio del secolo tradotto ed espresso in un secondo Vangelo,
integrazione e avveramento di quello del Cristo. L'amore universale,
l'armonia spontanea, la fine d'ogni egoismo individuale di classe,
di patria, come leva e meta insieme del grande rivolgimento pacifico
profetizzato. Tale, nelle sue linee maestre, il messaggio
sansimonista, cui particolari approfondimenti teorici, specie nel
campo dell'economia, valevano a conferire una tal quale apparenza
scientifica atta a sedurre, oltre alle coscienze bramose di un
accordo fra religione e vita, fra spirito e materia, anche la mente
degli zelatori di una mera riforma sociale.
Venne in Italia qualche apostolo del sansimonismo? Venne a Pisa? O
bastò al Montanelli e ai suoi amici la semplice lettura del
«Globe», giornale del movimento, e delle altre
pubblicazioni di propaganda? Chi furono, nella università
pisana, i componenti di quell'effimera chiesa? Si misero essi in
rapporto con la «centrale» di Parigi? Tutte domande alle
quali, sin qui, non siamo in grado di dare alcuna risposta, salvo
che ci sembra probabile che il Bianchi, il Monzani, il Tonti e forse
il Tolomei, che sono i nomi piú spesso citati nella
corrispondenza montanelliana del tempo, e taluni di essi, come
vedemmo, qualificati «fratelli», facessero parte del
gruppo. E il Tommaseo? Seppe mai precisamente a qual titolo i suoi
giovani seguaci di Pisa avessero stabilito tanta reciproca
fraternità? Fu anch'egli, sia pur per breve tempo, un
simpatizzante sansimonista? Altra domanda alla quale non ci sentiamo
di rispondere perentoriamente: invitiamo però i biografi di
lui a tenere il massimo conto delle strane, ripetute allusioni a un
sodalizio di giovani fattegli da Montanelli. Se egli restò
all'infuori del sansimonismo, qual senso esse avevano per lui?
Scioltasi nel modo che si è detto quella comunità, non
per questo gli affiliati rinunziarono alla reciproca
intimità, agli studi e alle aspirazioni comuni. Il Levi ci
assicura che quando egli giunse la prima volta a Pisa (e dovette
essere nel 1837)143, «il Montanelli me ne espose le dottrine
(del sansimonismo) con l'entusiasmo del credente, la fantasia del
filosofo-poeta»; in lui, «come in pochi altri spiriti
piú ardenti, sopravviveva nel fondo dell'anima la fede alla
idea sansimonista, e si adoperava ancora a propagarla nei cuori
aperti ai facili entusiasmi... Il sansimonismo aveva smesso la forma
autoritaria di religione, ma era divenuto una dottrina, una scuola
sociale; non si posava piú come domma, ma presentavasi come
un corpo di dottrine filosofiche, economiche e religiose, che
chiedeva di essere discusso»144. Il seme aveva dunque
germogliato, lasciando negli adepti, come derivato di quella breve e
sfortunata esperienza, alcuni punti fermi, ai quali il Montanelli,
se non altri, si manteneva poi fedele per sempre: l'ansia di
pacificare il penoso dissidio interiore fra la istintiva
incoercibile religiosità del cuore e l'insoddisfacente
dogmatismo cattolico, cosí inadeguato a risolvere, e fin
anche a percepire, i problemi fondamentali del secolo; l'assillo di
un piú equo e razionale assetto sociale; l'insoddisfazione
per una impostazione meramente politica della grande lotta allora in
pieno corso per l'affermazione dei valori nazionali.
È cosí che, seppure non sotto il segno proibito del
sansimonismo, vediamo il Montanelli avvicinarsi, dal '32 in poi, a
tutte quelle forze che, nella Toscana del tempo, agiscono nella
medesima direzione, spinte da analoghe necessità ideali.
Sulla fine dell'anno, a Pisa, un gruppo di giovani, capitanati dal
livornese Enrico Mayer (si noti bene, un protestante-mazziniano) e
del quale fan parte il professor Rossellini, il Tonti, il Monzani,
il Corinaldi e il Montanelli, decide di fondare un giornaletto
settimanale145 dal titolo significativo di «Educatore del
povero»: il giornale (che forse non è altro che
l'estrinsecazione di un vecchio progetto già da mesi
caldeggiato dal Montanelli)146 è dedicato alle «classi
inferiori», alle quali si vuole instillare il culto del
dovere, della patria, della moralità all'infuori di ogni
influenza chiesastica; soprattutto si vuole abituarle a pensare147.
«Si spera che tu sarai uno dei piú assidui
collaboratori», scrive il Montanelli al Tommaseo; «se
hai qualche cosa preparata mandala, e la stamperemo nei primi
numeri»148. E qualche giorno dopo:
Ho letto, e meditato la tua lettera. Io non sono né il capo,
né il direttore dell'impresa – ma nulladimeno potrò
insinuare molti buoni principî al giovane Leondarachis, il
quale è il centro di tutto. – I miei articoli
procurerò sieno scritti secondo quei principî che tu
raccomandi... Il tuo articolino sarà inserito nel terzo
fascicolo. – Io faccio un dialoghetto diretto a togliere dalla mente
del popolo quel pregiudizio comune – che si debbano rispettare le
cose le quali ci sono state lasciate dai nostri antenati.
Il Leondarachis era un giovane greco, amico del Montanelli, che
allora dirigeva, a Pisa, la tipografia Capurro. Ben presto lo
vedremo sorvegliato dalla polizia come sospetto editore di stampe
clandestine patriottiche. Sui primi di gennaio del '33 nuova lettera
del Montanelli al Tommaseo per esprimere talune sue riserve a due
articoli da lui mandati all'«Educatore». Non aveva
ancora vent'anni, il redattore del giornaletto, eppure si sentiva
già da tanto da dire schiettamente la sua al già
illustre Tommaseo; uno di questi articoli non gli pareva
«accomodato alle circostanze attuali» dell'Italia.
Non bisogna predicare confidenza nello straniero al popolo – di cui
vogliamo servirci per liberare questa povera patria dall'invasione
ecc. ecc. – Verrà un tempo in cui il principio della
fratellanza dei popoli risuonerà sul labbro di tutti. Per ora
può giovare un poco d'egoismo nazionale... Ti dirò
ancora che il linguaggio dei tuoi articoli mi sembra un poco troppo
ascetico. Bisogna valersi delle idee religiose, e rieccitarle in
tutti i cuori profondamente – ma ci sono certe formule che non
convengono agli scritti d'un giornale, e che potrebbero renderci
ridicoli nel cominciamento dell'opera. Ti parlo con libertà
fraterna. Del resto la semplicità dei tuoi articoli mi piace
molto.
L'«Educatore del povero» vide effettivamente la luce nel
gennaio del '33. Ma nacque morto. Fossero dissensi fra i redattori,
o tra questi e lo stampatore, fosse l'improvvisa partenza
dall'Italia, nel marzo, del Mayer, che verosimilmente lo finanziava,
o fosse un veto piú o meno formale della censura, certo
è che ne uscí un numero solo149, – e il povero
restò senza... educazione! Il tentativo, comunque, era stato
importante: sarebbe proprio un errore il sostenere che fu quello,
nell'Italia della restaurazione, il primissimo esperimento di un
giornale tutto per il popolo, volto a studiare e a illustrare la
questione sociale? Noi non diremo. Del dialoghetto montanelliano,
rimasto fra gli inediti del disgraziato giornale, non altro sappiamo
che quanto ce ne dice l'autore medesimo: e sarà inutile
sottolineare il caratteristico soggetto in tutto degno di uno
zelante neofita di un sansimonismo purgato da ogni eccesso
teocratico.
Siamo venuti a parlare di un sansimonismo dell'«Educatore del
povero» di sulla traccia fornitaci dal catalogo del Montanelli
col Tommaseo. Adesso seguiamo un altro filone di non minore
importanza: i rapporti Viesseux-Montanelli.
Nella Nazionale di Firenze, fondo Viesseux, si conservano ben 140
lettere del Montanelli al veramente benemerito creatore
dell'«Antologia», del «Gabinetto
letterario», dell'«Archivio storico italiano»:
cominciano dal 1831, finiscono soltanto con la morte di uno dei due
corrispondenti. La prima lettera è del 25 novembre 1831150 e
s'inizia con un riferimento alla conoscenza fatta dal Viesseux, a
Firenze, due mesi prima. Il Montanelli aveva poco piú di
diciotto anni ed era appena laureato: pure lo si era già
ammesso agli onori della collaborazione all'«Antologia»,
l'unica rivista italiana che varcasse allora le Alpi, l'unica che
stacciasse ben bene, prima di accettarli, i candidati collaboratori.
Erano stati molto probabilmente il Centofanti e il Carmignani a
procurare al loro discepolo questa soddisfazione, certo piú
ambita e invidiabile di uno straccio di laurea. Scrivere
nell'«Antologia» voleva dire, infatti, allinearsi nella
stessa schiera col fior fiore dell'intelligenza italiana, saper la
propria prosa messa sott'occhio di lettori di primissima scelta e di
gusto veramente raffinato; scrivere nell'«Antologia»
valeva anche una distinzione d'altra natura, non meno ambita: una
distinzione politica. Non era giornale di parte, ché anzi fu
merito del Viesseux il mantenerlo sempre sulla linea di quello
spregiudicato eclettismo che era valso ad assimilarle un cosí
denso pubblico, ma era inteso, o per lo meno si risapeva, che firme
dell'«Antologia» erano tutte di patrioti provati, con
l'Italia in cima dei pensieri e non importa se proprio l'Italia una,
ma certo l'Italia: purgata dai barbari, e riconsacrata ai suoi
antichi, alti destini.
Il Viesseux – come del resto tutti i buoni direttori di riviste –
cominciava cosí, con le reclute: le metteva al banco di prova
delle recensioni, per poi – se meritavano – promuoverle al rango di
articolisti. Anche il Montanelli seguí la trafila. Il primo
suo scritto accettato dal Viesseux fu una severa recensione a due
operette di un certo abate Orlandi, Apologia delle Scienze e delle
Arti. Elogio delle principali scoperte. Firenze 1831. Fu pubblicata
nel fascicolo di dicembre 1831151, non senza prima aver subito, a
sua volta, l'esperta critica del Viesseux. «Tanto mi sono
dispiaciute le cose discorse da questo Autore, che non ho potuto
fare a meno di stendere alcune idee in una notizia
letteraria», scriveva il Montanelli al Viesseux, il 16
dicembre; e cinque giorni dopo:
Con sommo piacere ho inteso dalla sua gentilissima lettera del 20
corr., che il mio articolo ha incontrato la di lei approvazione.
Ciò mi incoraggisce non poco, e mi anima a seguire con ardore
la carriera che ho intrapresa. Modificherò volentieri quelle
espressioni un poco pungenti che mi sono sfuggite nell'impeto della
composizione. Fu il lavoro di una mattinata e non ebbi tempo di
riflettervi sopra gran cosa. Ma è troppo giusto e ragionevole
che nella critica si conservi sempre quella dignità, che
conviene allo stato attuale delle cognizioni ed è il
carattere distintivo della vera sapienza. La prego ad indicarmi i
luoghi che desidera precisamente mutati nella stampa che mi
rimetterà152.
Cosí il «patriarca del giornalismo italiano»,
come assai piú tardi lo definirà il Montanelli,
insegnava il mestiere ai «pivellini»153.
L'articolino, cosí, riuscí una buona cosa, senza
pretese, ma chiaro e suadente: anche oggi, a leggerlo, si capisce
che il Montanelli aveva ricavato dagli studi fatti un'abitudine alla
precisione e alla concretezza, anche filosofica, non proprio comune.
L'abate Orlandi sapeva certo un monte di cose e molte delle sue
osservazioni erano buone; «ma assai maggiore sarebbe stato il
loro pregio – cosí il giovanissimo critico – se alla
erudizione e alla dottrina si fosse aggiunta una disposizione
piú metodica nel soggetto, una analisi piú severa
nelle investigazioni parziali, una elocuzione insomma meno retorica
e piú filosofica». Ma di che si occupano, precisamente,
gli opuscoli incriminati? Lasciamo stare, amico lettore: non
turbiamo il divino silenzio dell'oblio che li ha pietosamente
ricoperti d'un velo; ti seccheresti tu, e piú dovrei seccarmi
io se volessimo, per ogni quisquilia, risalire pedantescamente alle
fonti...
Una seconda recensione del Montanelli fu pubblicata
sull'«Antologia» del febbraio '32: Sul giornaletto
poetico stampato in Corfú, osservazioni di Achille
Delviniotti corcirense, Pisa 1832154. Anche questa volta non ci
occupiamo dell'opera presa in esame se non per avvertire che
l'autore era un amico del Montanelli e fu ben presto un sospetto
politico; cerchiamo invece di scoprire il recensore nel suo mondo
ideale, tanto piú che, acquistata qualche maggiore
franchezza, il Montanelli abbordò in questo articolo,
cosí particolare, sfere piú ampie e piú alte, o
vogliamo dire questioni di carattere generale. Ascoltiamolo, senza
dimenticare la contemporanea esperienza del sansimonismo:
Il fondamento principalissimo dell'ordine sociale sta nella
rettitudine dei costumi. Chiunque intende a promuovere il
perfezionamento della morale, e a consolidare l'impero della
virtú, merita dunque la riconoscenza della società.
È dolce il vedere che a questo santissimo scopo mirano le
opere piú celebri dei nostri giorni: ma piú dolce
ancora si è il considerare che una gran parte di tali opere
appartiene alla gioventú... Noi, che partecipiamo con
l'autore al desiderio di vedere la poesia compagna indivisibile
della morale, non possiamo se non che far eco a tutte le cose da lui
discorse contro un genere di scritti diretti a corrompere i costumi
e la gioventú. Il poeta è l'interprete dei sentimenti
piú generosi e sublimi che onorano la umanità.
Inspirando agli uomini le affezioni virtuose e sociali con le forme
della bellezza, egli può cooperare mirabilmente ai progressi
della civiltà... Sarebbe tempo una volta che le arti del
bello adempissero ai bisogni del secolo, e si mostrassero le vergini
custodi delle fiamme del sentimento, e le umane propagatrici della
luce della virtú.
Dove, a parte le piú ampie riserve sulla... verginità
delle arti, ben si discopre il caloroso afflato idealistico che
tutto animava il Montanelli e, meglio ancora, come l'argomento di
questi suoi primi scritti non fosse che un pretesto, piú o
meno trasparente, per proclamare certi veri che gli fremevano
dentro.
Mentre sfornava le recensioni, il Montanelli pensava, s'intende, a
farsi onore con qualche articolo originale. Anzi, si era fatto
coraggio fin dalla prima sua lettera al Viesseux:
Già da qualche mese – gli aveva scritto – ho concepito la
idea di una opera, il soggetto della quale si è «una
introduzione allo studio di diritto, per servire ai giovani che
vogliono dedicarsi al medesimo». Ho già preparato
moltissimo materiale, ne ho distribuito tutte le parti, e non molto
tempo né molta fatica mi costerebbe il condurle a termine...
Vorrei pertanto far conoscere il mio piano, e le mie idee in un
articolo di codesto giornale l'«Antologia». E se Ella me
lo permettesse, me ne occuperei immediatamente.
Viesseux, che anche coi giovani era un puntualissimo corrispondente,
rispose subito: non s'impegnava mai, per sistema, a pubblicare
articoli che non avesse letti, ma il Montanelli scrivesse, ed egli,
una volta veduto l'articolo, s'augurava di poterlo stampare155.
D'altronde i suoi amici lo consigliavano, molto saggiamente, a
portar prima a compimento l'opera progettata (mirante a
«supplire in qualche modo al difetto delle nostre
scuole», rivolgendosi ai «giovani che si dedicano allo
studio del Diritto, e si trovano in una provincia del tutto nuova
senza che gli si mostri né come ci sono entrati, né a
quale scopo, ecc.»), e poi ad annunziarla nelle riviste.
Montanelli fece al Viesseux un caldo elogio
dell'«Antologia», il cui capo «non potrebbe essere
né piú lodevole, né piú adatto alle
condizioni attuali dei tempi e dell'Italiana società...
Chiunque ama la Italia, e desidera il perfezionamento della
umanità dee professarle la piú viva gratitudine per
una impresa sí utile e bella»; reiterò le sue
proteste di voler aiutare, nonostante la sua
«tenuità» il sempre maggior successo della
rivista, essendo «animato dal piú vivo desiderio di
giovare alla mia patria, studiandomi di conoscere la
verità»156; e della introduzione al diritto non
parlò piú.
Il 28 dicembre tornò alla carica: si proponeva questa volta
di dar conto di una nuova Philosophie du droit del Germinier, uno
scrittore col quale, diceva, «io simpatizzo molto»157;
ma il Viesseux gli rispose158 che l'opera era già stata
affidata, per la recensione, ad altro collaboratore. E il
Montanelli:
Mi dispiace che sia già impegnato il relatore dell'opera del
Germinier. Se Ella ha altri libri dei quali desideri che sia reso
conto nell'«Antologia», la prego a prevalersi di me
liberamente. Le Scienze che hanno particolarmente formato per
l'addietro il soggetto dei miei studi sono la Filosofia razionale,
la Morale, il Diritto, e la Scienza sociale. Mi sono occupato ancora
di Storia, e non ho tralasciato le lettere. Ma non ne ho fatto uno
studio cosí esclusivo come delle prime159.
Sorrise il buon Viesseux? Speriamo di sí; ma era, il suo, un
sorriso indulgente, che non disarmava i giovani, anche quelli che
avrebbero meritato una lezioncina di modestia...
Comunque, il Viesseux non rispose. E allora il Montanelli, che non
lasciava presa (7 febbraio, inedita): «Ho quasi terminato un
articolo sull'ultima opera del Romagnosi che contiene: Una raccolta
dei principali sistemi di filosofia morale presso gli
antichi», lo voleva l'«Antologia»? No,
l'«Antologia» non lo voleva, perché del Romagnosi
si era già occupato il Marzucchi. «Pazienza! –
cosí l'infaticabile critico. – Il signor professore
avrà trattato l'argomento assai meglio di quello che avrei
potuto fare io»160. Ma il Viesseux aveva saputo indorare la
pillola:
Io le manderò con piacere – gli aveva scritto infatti l'11
febbraio (lettera inedita) – la prima opera della quale potrò
disporre... Quando le verrà fatto di scrivere qualche cosa
del tutto originale su qualche punto di quei rami delle scienze
morali delle quali ama d'occuparsi, mandi pure, io le dirò
ingenuamente se ciò che m'avrà mandato potrà
convenire pel mio giornale.
Finalmente, era... la promozione!
Giacché Ella mi dice che posso spedire anco qualche articolo
originale in scienze morali e politiche – rispose a volta di
corriere il Montanelli – ho pensato di trattare un argomento che
forse non le dispiacerà: La esposizione del sistema Bentham e
la storia delle sue vicende. La rapidità con la quale il
sistema Bentham si diffuse in Europa, e la eguale rapidità
con la quale è caduto in discredito ai nostri giorni, possono
fornire soggetto di bellissime ricerche sulla direzione che lo
studio del Diritto ha preso in questi ultimi tempi.
E chiedeva un'opera del Compte che gli sarebbe servita per
l'articolo in questione161.
Questa volta andò bene: Viesseux, di massima, accettò,
non senza rinnovare raccomandazioni e consigli di lavorare con la
massima calma e di mostrarsi un po' piú severo nella critica
di... se stesso, spedí il Compte162. Il 3 marzo Montanelli
scriveva: «Il mio lavoro su Bentham progredisce. Ma seguo il
suo consiglio. Faccio e rifaccio – e volentieri imbratto molta
carta»163. E a novembre: «Quando in qualche giornale
inglese capiterà la biografia di Bentham la prego di
avvisarmi perché desidererei di parlare di questo grand'uomo
dopo aver molto meditato sulle sue opere»164. Un buon
discepolo, via.... Cosí buono e dimesso che, a quanto pare,
finí per spaventarsi della gravità dell'assunto, tanto
che all'ultimo momento vi rinunciò.
Era fra i suoi difetti quello di affrontare alla leggera temi troppo
diversi e impegnativi. Una toscana facilità e fluidità
di scrittore, benissimo identificata dal direttore
dell'«Antologia», gli nuoceva piú di tutto. Non
venne fuori, il 21 di novembre, con due nuove proposte di
pubblicazione, una d'un articolo già scritto, nientedimeno
che sulla Critica sistematico-universale e Guida alla rinnovazione
della filosofia di un Giovanni Maggi, «giovane italiano, il
quale alla docilità dell'ingegno congiungeva ardentissimo
desiderio del bene dell'umanità, l'altro ancora da scrivere
sulle ultime vicende e lo stato attuale della musica, trovandone le
cagioni nelle grandi trasformazioni sociali»?165. Viesseux
strabilia:
Io non posso fare a meno di osservare quanto vi seducano gli
argomenti piú difficili a trattarsi...166. Basta, vedremo.
Checché ne sia, devo ammirate la vostra lodevolissima
ambizione, e la facilità della quale mi date prova... Se
avessi saputo che siete intelligente della storia della musica e
della sua filosofia vi avrei mandato un'operetta sulla quale mi
è stato chiesto un articolo di rivista. Ora ve la mando167.
Ebbe dal Centofanti, che già lo aveva letto ed approvato, e
che del resto vi era citato con lode, il primo articolo del
Montanelli; glielo rimandò con preghiera di... rifarlo168, e
poi lo pubblicò nel fascicolo di dicembre.
L'articolo era degno dell'«Antologia». Del Maggi, al
solito, non c'importa nulla; ma vediamo Montanelli al lavoro,
vediamo come in pochi mesi l'aquilotto avesse fatto le sue penne al
volo.
Ecco lo slancio d'una bell'anima che volge intorno lo sguardo, che
apprende la dissoluzione universale dell'epoca in cui viviamo, che
cerca un rimedio ai tanti mali che ne circondano, e non lo trovando
nelle antiche dottrine domanda una nuova ma magnifica rigenerazione
di principî filosofici.
Il desiderio del signor Maggi è il desiderio di tutte le
anime generose: e noi pure e come uomini e come italiani lo abbiamo
comune con lui. Ma sotto molti aspetti anco in questo punto le
nostre idee sono dalle sue essenzialmente diverse... si attende una
nuova scienza sociale in cui siano rigorosamente dimostrate le
conseguenze del principio dell'eguaglianza morale di tutti gli
uomini, promulgato dal cristianesimo... Quando affermiamo essere
necessaria una rinnovazione filosofica, vogliamo dire che un nuovo
sistema di principî generali dee sorgere dalle scoperte, e
dalle osservazioni parziali della moderna sapienza... Ma la italiana
gioventú, anziché applicare l'ingegno a queste grandi
creazioni filosofiche, le quali richiedono maturità
d'intelletto e lungo corso d'osservazione e d'esperienza, può
essere in altro modo assai piú utile alla patria comune,
intraprendendo specialmente una sistematica illustrazione del nostro
passato filosofico... È pur tempo che l'Italia nella
conoscenza del passato acquisti il sentimento dei suoi futuri
destini. È pur tempo che noi sappiamo ciò che ci deve
l'Europa, e superbi delle nostre glorie nazionali occupiamo il posto
che ci conviene nella storia della moderna filosofia. È
impresa lunga e difficile: ma guai se gli ostacoli e le
difficoltà dovessero diminuire l'ardore dell'italiana
gioventú!
Amico lettore, cosí scriveva il Montanelli non ancora
ventenne: con questa altezza di concetti, con questa coscienza di
patria, con questa serietà di studioso e di cittadino. Non
vorremmo perdonargli allora il peccato veniale d'un ostentato
enciclopedismo da strapazzo? E non vorremo finalmente intendere
come, pur muovendo dai piú diversi lidi egli drizzasse, e pur
sempre, la prora, o almeno proponesse di farlo, verso quell'unica
meta, la grandezza auspicata della patria restituita al suo glorioso
destino?
Ma proseguiamo nella lettura del carteggio Montanelli-Viesseux. Per
tutto il gennaio e una buona metà di febbraio del '33,
silenzio. Il 22 febbraio, Montanelli:
Bisognerebbe che io vi potessi significare le cause del mio silenzio
perché voi interamente mi scusaste. Vi basti il sapere che
già da un mese non ho aperto un libro, e che ora solamente il
mio cuore comincia a riacquistare un poco di calma dopo tante
agitazioni sofferte. Nulladimeno, quantunque, oppresso dai
piú tristi pensieri, mi sono spesso ricordato di voi... Avrei
già fatto da qualche tempo l'articolo sulla musica. Ma non ho
potuto applicare. Spero però di mandarvelo quanto prima.
D'ora in poi son tutto per voi169.
Perché questa crisi? Perché questi tristi pensieri?
Tenteremo piú oltre di venirne a capo. Il 13 marzo, sempre il
Montanelli: «Vi manderò l'articolo sulla musica
unitamente ad altre cose... Vi ripeto che mi vergogno di questo
prolungamento...» E, a una proposta del Viesseux di retribuire
i suoi scritti:
Mi dispiace che le circostanze nelle quali mi trovo mi obblighino ad
accettare la vostra graziosissima offerta... Mi sforzerò di
scrivere sempre in modo che ne siate contento... Sono circondato da
alcuni giovani i quali con un poco piú di coltura potranno
essere ottimi collaboratori. Speriamo che gli ostacoli frapposti ad
un'opera cosí utile, e cosí generosa saranno presto
distrutti. Speriamo!170.
Era l'«Antologia», si sa, che cominciava a... far acqua
in parte anche per quell'articolo del Tommaseo che al Montanelli era
tanto piaciuto non senza, tuttavia, suscitare la sua meraviglia che
la censura lo avesse permesso. A Firenze la gran battaglia per la
salvezza o la perdita della rivista era ormai in pieno corso,
scatenata dalla «Voce della verità».
Viesseux ostentava ancora la sua bella tranquillità: tanto
che il 14 marzo spediva al Montanelli due nuovi libri da recensire –
la versione di due manuali giuridici tedeschi annotati dal Romagnosi
– e altri da consegnare, per lo stesso oggetto, a un amico171.
Montanelli accettava volonteroso l'incarico: «Avrò
occasione di dir qualche cosa relativamente alla filosofia tedesca,
ai pregiudizi che impediscono in Italia lo studio di quella
filosofia, e alla necessità di conoscerla, perché il
movimento intellettuale italiano possa associarsi al movimento
generale europeo»; e nel contempo spediva al Viesseux il
famoso articolo musicale172.
Ma il governo toscano aveva vinto (o piuttosto perduto) intanto la
sua battaglia: l'«Antologia» era morta, un lutto
nazionale piú doloroso, piú grave e piú
universalmente sentito che se fosse scomparso, davvero, un grande
italiano. «Già da qualche tempo io prevedevo ciò
che realmente è avvenuto!» scrisse, ai dieci d'aprile,
il Montanelli, costernato e indignato. «Potete immaginare
però di qual dolore mi riescisse la notizia della
soppressione dell'"Antologia" sebbene aspettata! Presto verrò
a Firenze. Ho bisogno di discorrere molto con voi»173. Era
tutto un periodo della sua vita che si chiudeva; era una pia
illusione – quella di un compromesso possibile fra governo e
governati, fra conservatorismo e progresso, fra autorità e
libertà – che s'infrangeva; era anche, per lui, una via
luminosa che gli veniva sbarrata proprio allorquando avrebbe potuto
cominciare a percorrerla piú speditamente e non senza frutto,
anche materiale e immediato. Vero è che l'esperienza
dell'«Antologia», per quanto breve, gli era stata
preziosa. Non invano si andava a scuola da quel maestro del buon
senso, dell'equilibrio, del contenuto ardore, della disinteressata
probità scientifica che si chiamava Viesseux.
Vent'anni piú tardi, riconoscente, lo scolaro illustre
doverosamente scriveva:
Se Firenze un giorno vorrà temperare sulla piazza di Santa
Trinità i funesti coi grati ricordi, inalzerà ivi, in
nome della filosofia educatrice, un monumento alla operosità
instancabile, perseverante e modesta del fondatore
dell'«Antologia»174.
L'«Antologia», del resto, non era stata la sola palestra
aperta al Montanelli per dar le prime prove del suo ingegno.
Già nell'estate del 1831, diciottenne, egli era venuto a
Firenze per leggervi, nell'Imperiale e Reale Ateneo Italiano, due
suoi discorsi: quelli stessi che, a quanto pare, attiraron su di lui
l'attenzione dell'«Antologia»175. Un ragazzo prodigioso
in una assemblea di parrucconi: certo, dovette fare impressione.
Tanto piú che questi due discorsi, subito dopo stampati, non
avevano nulla a che fare con le solite, inutili e asfissianti
comunicazioncelle erudite. Nel primo: Della morale e della critica
considerate nei loro rispetti scambievoli, oltre alla chiara
impostazione storica e filosofica, quel che piú c'interessa
è la decisa professione di fede idealistica e romantica,
antiutilitaria e antisensistica, del giovanissimo oratore.
... il fatto primitivo della morale è il bisogno della
virtú; il fatto primitivo dell'Estetica è il bisogno
della creazione dell'arte... Questi bisogni sono ambedue una
emanazione di quella forza mirabile per cui l'animo esce in certa
guisa fuori di se stesso, e si diffonde negli oggetti che lo
circondano.
Passando a parlar di poesia come massima espressione di morale in
azione, il Montanelli accettava la teoria dell'Ancillon, secondo la
quale la grande distinzione fra poesia antica e moderna era quella
che l'antica intendeva principalmente a «dipingere l'uomo nel
contrasto delle sue affezioni»: che era poi l'antinomia
maggiore fra paganesimo e cristianesimo. «Che cosa è la
vita nel sistema del cristianesimo se non un contrasto continuo
della libertà con le passioni, dello spirito e del mondo? E
come può in questo contrasto dilettar l'uomo l'aspetto della
natura, e delle bellezze dell'universo?» Perciò la
poesia moderna era «sentimento e malinconia, dipingendo l'uomo
con tutti i suoi contrasti». La vita moderna, col progresso
dell'industrialismo, spingeva l'uomo sempre piú al
perseguimento del suo materiale interesse: ed ecco il compito
supremo degli artisti, correggere quelle tendenze, rialzare l'umana
dignità «con le forme della bellezza tenere vivo quel
fuoco sacro da cui si partono tutti quei sentimenti che onorano
l'umanità». Ingenuità di poeta? E sia pure: ma,
in questo caso, benedetta ingenuità!
A non dissimile meta tendeva l'altro discorso: Dell'amore nella
poesia antica e moderna176: dove, seppure con illazione assai
contestabile nella sua perentorietà, il Montanelli stabiliva
che «l'amore come bisogno puramente fisico signoreggia nella
poesia degli antichi, ed è l'anima della moderna (massimo
campione il Petrarca) come sentimento eminentemente morale... Il
sentimento morale dell'amore... nacque con la formazione della
novella civiltà». Quale il compito dei novissimi poeti?
Quello di rivolgere principalmente le potenze dell'arte alla riforma
dei costumi, alla rigenerazione morale dell'umanità...
Cantarono d'amore gli antichi, ne cantarono i moderni poeti. Ma
questo affetto fu nei primi un semplice bisogno della natura, fu
negli altri uno slancio egoistico del cuore. A voi (giovani poeti)
è riserbata la nobilissima missione di riunire i pregi degli
antichi a quelli dei moderni». La missione della poesia era
dunque assai altamente sentita dal Montanelli: il quale, come
accade, sapeva per allora altrettanto bene ragionar su di essa,
quanto mal gli riusciva di applicar nella pratica, in veste di poeta
egli stesso, quei troppo superbi dettami.
Giurista, filosofo, critico, poeta, musico. Che piú?
2.
Giuseppe Montanelli e il problema toscano nel 1859
A Giuseppe Montanelli, agitatore politico, scrittore, statista,
soldato, tutto fu perdonato dai suoi contemporanei – anche
l'infelice prova ministeriale del '48-49, anche le oscillazioni,
vere o presunte, del suo pensiero politico, e perfino la
mediocrità dei suoi versi – ma non l'atteggiamento che
assunse nell'anno decisivo per le sorti della Toscana e d'Italia. Il
contrasto determinatosi allora fra la sua azione politica e le
direttive del nuovo governo toscano raggiunse infatti tal
gravità, tale asprezza che il Montanelli, si sa, ne
uscí letteralmente stroncato nella sua fama di patriota; la
morte, sopraggiunta nel giugno del 1862, quando egli aveva appena
potuto riprendere la sua attività, gl'impedí d'altra
parte di fruire di quella piena riabilitazione la cui
doverosità cominciava ad imporsi agli stessi suoi piú
accaniti avversari. Scomparso lui dalla scena del mondo, si
poté anche inalzargli monumenti e variamente onorarne la
memoria, ma un processo di revisione di quella specie di condanna
morale che lo aveva colpito e atterrato negli ultimi anni non venne
mai piú.
Intenti a ritracciare in base a nuovi documenti la vita di lui,
singolarmente bistrattata quasi piú da incauti apologisti che
non dai suoi stessi denigratori, vorremmo adesso non proprio
avviarlo noi, questo processo di revisione, ma per lo meno radunarne
gli elementi necessari: persuasi come siamo che il chiarimento di
questo episodio possa giovare altresí a mettere in luce,
piú generalmente, certi modi e certe forme, altamente
caratteristici, del glorioso rivolgimento toscano.
Il 27 aprile del 1859, esattamente alla stessa ora nella quale a
Firenze aveva luogo la pacifica cacciata del granduca, Giuseppe
Montanelli, esule in Francia ormai da dieci anni, partiva per
l'Italia, deliberato, nonostante la non piú giovane
età (egli era nato a Fucecchio nel 1813) e la malferma
salute, a prender parte alla guerra, arruolandosi fra i volontari
toscani177. Giornata di vibrante entusiasmo, a Parigi: truppe in
partenza, inni ed acclamazioni, l'Italia in tutti i cuori e su tutte
le labbra. L'ex triumviro della Toscana, l'illustre autore delle
Memorie, l'applaudito poeta della Tentazione e di Camma, a buon
diritto poteva dar libero sfogo alla sua esultanza, giacché
quel che accadeva gli appariva come una solenne conferma delle sue
previsioni e in qualche modo come un altissimo premio alla sua
incessante propaganda politica, costantemente ispirata al concetto
fondamentale della complementarità del problema italiano con
quello generale europeo. In particolare – e pur fra comprensibili
dubbiezze e oscillazioni determinate dall'estrema fluidità
della situazione – il suo punto fermo in politica era rimasto, dal
'49 in poi, quell'uno: che senza l'aiuto di Francia, cioè, la
libertà e l'indipendenza d'Italia sarebbero rimaste un bel
sogno inattuabile. Questo aveva detto e scritto agli amici italiani
di qua e di là delle Alpi, questo si era studiato di
dimostrare nelle numerose pubblicazioni date alle stampe in quegli
anni, e in questo senso aveva orientato la sua propaganda negli
ambienti politici della capitale. Parlava ai Francesi d'Italia e
agli Italiani di Francia; né mai si era stancato di ricercare
e di additare i motivi e i modi di un allineamento franco-italiano,
quand'anche i dati concreti della situazione fossero parsi
contrastar nettamente con quei suoi piani politici.
Le innumerevoli e cospicue sue relazioni ed amicizie francesi – dal
Lamartine all'Hugo, dal Michelet al Lamennais, dal Quinet al
Légouvé, dal Martin al Perrens – non erano state da
lui ricercate e coltivate proprio in vista di questa indispensabile
illuminazione della «intelligenza» francese sui dati
della questione italiana? Oggi sappiamo bene quanto merito risalga
all'emigrazione politica italiana nell'attuazione del piano
napoleonico concepito e stimolato dal Cavour: ma certo ben pochi fra
gli emigrati erano al pari di lui riusciti ad introdursi (grazie
anche ai clamorosi suoi successi letterari e teatrali) nei
piú esclusivi ambienti della capitale, nessuno conosceva
cosí a fondo le redazioni dei grandi giornali. Nel
«Siècle», nella «Presse», gli organi
piú apertamente italofili della stampa francese, parecchie
erano state le «corrispondenze d'Italia» da lui fornite
su dati che sistematicamente si procurava da Firenze, da Milano, da
Torino178. Nella «Revue des Deux Mondes», nella
«Revue de Paris» e in altre minori il suo nome era
familiare. E gli amici toscani, quelli stessi che pur sovente
dissentivano da lui circa l'azione da svolgere nel granducato in
previsione di complicazioni politiche, a chi se non a lui si
rivolgevano quando occorresse loro denunziare sulla stampa francese
la situazione del loro paese?
In quei primissimi mesi del 1859, poi, l'attività spiegata da
Montanelli aveva raggiunto un ritmo addirittura febbrile. Egli
sperava ormai nella guerra, sí179, ma, introdotto com'era nel
sancta sanctorum della politica imperiale (il Pietri e il Baciocchi
eran fra le sue conoscenze), non poteva non registrarne tutte le
oscillazioni, valutando l'entità delle resistenze che contro
la guerra si andavano affermando in Francia, un po' in tutti i
settori. «Qui l'opinione ha bisogno d'essere scaldata, –
scriveva sul principio dell'anno ad un suo corrispondente, a Torino,
l'Homodei, incitandolo a procurargli un sempre piú nutrito
notiziario lombardo da trasmettere ai giornali amici, – ... Tutta la
borghesia è spaventata»: orleanisti, cattolici,
repubblicani, tutti all'opposizione, tutti contrari alla guerra!180.
Pur di travolgere quelle opposizioni, pur di popolarizzare l'impresa
italiana, il Montanelli si era messo a piena disposizione del conte
di Cavour, relegando provvisoriamente in sott'ordine ogni sua
prevenzione circa le finalità ultime della politica
sabauda181: era entrato in rapporti indiretti con lui e conversando
e scrivendo contribuiva per parte sua a realizzarne il serrato
giuoco diplomatico. Suggeriva, per la Toscana, una energica ripresa
del movimento di agitazione liberale, in vista di costringere il
granduca a consentire ad un ministero costituzionale il quale
preparasse la partecipazione della Toscana alla guerra auspicata:
ché se il granduca vi si fosse opposto, per appellarsi
all'Austria (scriveva e faceva scrivere, nel gennaio e nel febbraio,
al Puccioni, al Parra, al Visconti Venosta e ad altri ancora), ecco
trovato un eccellente pretesto per un contro-intervento
franco-sardo, cioè appunto per provocare la guerra182. Da
Torino, invece, gli si scriveva autorevolmente perché
procurasse anche lui di persuadere i suoi amici toscani a
organizzare piuttosto un moto insurrezionale che avrebbe dovuto
scoppiare non appena in Piemonte i preparativi per la guerra fossero
stati compiuti; e, insieme, s'invocava la sua presenza animatrice
nella capitale sabauda183. Era quello il tempo nel quale sembrava
che gli energici sforzi della politica inglese per scongiurare il
conflitto dovesse trionfare, impantanando la questione italiana in
un congresso delle potenze.
Il Montanelli frattanto s'adoperava a sollecitare l'afflusso di
volontari dalla Toscana in Piemonte: l'indifferenza o la freddezza
degl'italiani nell'imminenza della crisi presumibilmente risolutiva
lo preoccupavano immensamente184. Si rendeva conto infatti che
solamente sui campi di battaglia l'Italia avrebbe potuto fornire la
prova decisiva della sua maturità nazionale: e i sintomi,
già manifesti, di una rinnovata abdicazione dei suoi
compatrioti del centro e del mezzogiorno di fronte all'attesa azione
franco-sabauda lo inducevano ai piú tristi presagi. Il
mirabile esempio lombardo – e con i lombardi egli si teneva da tempo
in assiduo contatto – restava malauguratamente isolato185.
Innumerevoli lettere, innumerevoli articoli e pseudo-corrispondenze
italiane, redatti in quel suo stile caldo, imaginoso, poetico,
seppure talvolta un poco prolisso, uscivano dalla sua penna. Si
poneva in rapporto col principe Gerolamo Napoleone186, si recava –
per la prima volta in dieci anni – a intervistare l'imperatore nella
vana speranza di penetrarne gl'intendimenti finali circa l'assetto
che si sarebbe potuto dare all'Italia dopo la guerra187; studiava,
d'intesa con gli amici di Firenze e di Torino, la possibile
immediata fondazione, a Parigi di un giornale in lingua francese
consacrato alla causa italiana188; si occupava a far tradurre e a
diffondere il celebre opuscolo Toscana e Austria189; dettava
manifesti alla nazione tedesca per incitarla a seguire con simpatia
o almeno con minor diffidenza l'imminente impresa liberatrice
d'Italia, imaginava, allo stesso scopo, un indirizzo dei protestanti
italiani ai correligionari inglesi e tedeschi190; scriveva al
Poerio, di fresco sbarcato in Inghilterra, reduce dalle galere
borboniche, suggerendogli di sfruttare l'immensa sua
popolarità in quel paese per indurre il governo a farsi
banditore, nel temuto Congresso, della restituzione ai Toscani e ai
Napoletani delle costituzioni del '48, illegalmente abrogate191.
Fu, ripetiamo, un periodo ansioso e attivissimo, durante il quale il
Montanelli, trascurando ogni altro suo interesse192 e
differenziandosi dai piú dei colleghi in repubblicanismo,
clamorosamente ostili ad una guerra voluta dal despota napoleonico,
si prodigò con incessante entusiasmo. E finalmente fu la
guerra, la sospirata partenza per l'Italia.
Il Montanelli era cosí mal ridotto in salute193 che, pur
avendo interrotto il suo viaggio a Chambéry194, appena giunto
a Torino195, ammalò. Riavutosi, volle, prima di partire pel
campo, conferire col Cavour (oltre che con vecchi suoi amici quali
il La Farina, il Pallavicino, il Farini). I due, che fino allora non
si erano mai incontrati – avrebbero dovuto vedersi a Parigi, un mese
innanzi, ma poi l'affrettata partenza del Cavour aveva fatto mancare
il ritrovo196, – ebbero un esauriente colloquio, e a quanto pare si
lasciarono soddisfatti l'uno dell'altro. Il Cavour, anzi,
ripetutamente insistette perché, rinunciando all'idea di
prender parte alla guerra, il Montanelli – il quale non poteva
servirsi del braccio sinistro, malamente ferito nel '48, a Curtatone
– si disponesse ad accettare un qualche ufficio politico meglio atto
a sfruttare le sue capacità197; anche gli amici francesi lo
avevano scongiurato di non esporsi a fatiche troppo superiori alle
sue deboli forze (come non capiva che, di fronte al nemico, un
robusto contadino valeva mille volte piú di un intellettuale
incurvato sui libri?)198. Ma il Montanelli che, come si è
detto, avrebbe voluto vedere quella guerra trasformata dagli
italiani in una specie di crociata nazionale, e che sentiva come
vergogna e sciagura d'Italia che le truppe francesi avessero a far
l'esperienza delle imbelli virtú della maggioranza dei suoi
compatrioti, rifiutò netto: e con lo slancio di undici anni
prima, soltanto men giovane e forte, partí per il campo,
resistendo finanche al desiderio nostalgico di rivedere al
piú presto la sua Toscana; ma invero il meglio della Toscana
non erano proprio quei volontari che egli si apprestava a
raggiungere?199. Si trovavano costoro ad Acqui, ordinati (per usare
un'espressione eufemistica) nel corpo dei Cacciatori degli
Appennini, sotto il comando dapprima di Girolamo Ulloa, intimo amico
del Montanelli, quindi del Boldoni200: fra di essi il Montanelli
prendeva il suo rango come semplice milite, rifiutando la nomina a
sottotenente201; era un suo vecchio principio quello che la
responsabilità del comando spettasse esclusivamente agli
esperti, e non mai agli ufficiali improvvisati.
Qual era allora il suo punto di vista sulla situazione politica e in
particolare sulle sorti della Toscana «protetta» dal re
sabaudo? Egli partiva dalla premessa, ovvia a quei giorni, esser la
Francia arbitra assoluta dei destini d'Italia; occorrer quindi non
contrastare apertamente il programma imperiale, notoriamente mirante
ad assicurare l'indipendenza alla penisola sulla base di una
costituzione federale. Soprattutto premeva che sui primordi del
conflitto non venissero sollevate discussioni e questioni
concernenti il problema dinastico in Toscana, atte a smorzare lo
slancio guerresco dell'imperatore, con l'insinuargli dei dubbi circa
possibili deviazioni del governo di Torino dal piano concertato a
Plombières.
Nel primo periodo della guerra dell'indipendenza, dalla scesa dei
francesi in Italia fino all'entrata loro in Milano –
preciserà piú tardi lo stesso Montanelli202 – mi parve
inopportuno ogni movimento il quale accennasse alla formazione d'un
solo Stato italiano retto da Vittorio Emanuele: ciò per due
precipue ragioni. La prima delle quali era di non contradire al
disegno federale convenuto a Plombières...; la seconda di non
accrescere difficoltà a un moto napoletano, il quale
costringesse il Borbone ad unire alla Francia e al Piemonte le sue
milizie contro l'Austria. Ciò non vuol dire che il disegno
federale francese mi sembrasse preferibile all'unità regia
bene intesa.
Dove immediatamente si scorge come fino da allora il Montanelli
subordinasse la soluzione del problema che piú gli stava a
cuore, quello toscano, alla soluzione integrale del problema
d'Italia; e anche come in lui durasse viva e cocente la memoria del
'48, allorquando l'affrettata annessione della Lombardia al Piemonte
aveva in qualche modo trasformato la guerra «nazionale»
in una impresa ad apparente, esclusivo profitto della dinastia di
Savoia.
Senonché si volle e si vuole dai suoi detrattori che fino da
quella prima metà di maggio egli andasse invece già
intrigando negli ambienti imperiali, ad Alessandria, per propugnare
la candidatura del principe Napoleone al trono toscano203. Somma
ingiustizia degli uomini e delle cose! Mentre il Montanelli militava
in Acqui, felice di trovarsi fra quella gioventú animosamente
impaziente di entrare in linea204, e risoluto a non occuparsi per
allora di cose politiche, un influente personaggio toscano,
già vecchio amico suo, ma poi tra gli oppositori del suo
ministero e quind'innanzi sempre contrarissimo a lui, il Salvagnoli,
si presentava, come ognun sa, il 17 maggio, all'imperatore,
formalmente richiedendolo, fra l'altro, di mandare un corpo di
truppe francesi in Toscana, per salvarla dai temuti eccessi
dell'estremismo mazziniano. Di qui la destinazione in Toscana del
5° corpo d'armata, comandato dal principe Napoleone, di qui le
innumerevoli gravissime complicazioni che sono nella memoria di
tutti, di qui gli esiziali sospetti sulle intenzioni francesi,
ravvivati dal fatto, non ignoto ai piú, che era proprio il
Salvagnoli quegli che nel novembre del '58 aveva presentato
all'imperatore un progetto di riordinamento della penisola
comprendente la cessione dell'Italia centrale al principe
Gerolamo!205. Di qui, finalmente, né proprio si riesce a
intendere con qual fondamento, certe accuse... al Montanelli, anche
di recente echeggiate da pur coscienziosi scrittori di cose
toscane206.
In realtà quella missione del Salvagnoli costituiva una prova
caratteristica del disorientamento che aveva colto, a Firenze,
quella minoranza medesima dalla quale era pur stato promosso, o
guidato, o volonterosamente accettato, l'ordine nuovo instaurato in
Toscana alla fine d'aprile. E infatti se l'accordo fra quei patrioti
era stato agevolmente raggiunto, e agevolmente si sosteneva quanto
al lato negativo del loro programma (il bando definitivo al
granduca), una disorientante varietà di propositi li divideva
quanto ai criteri e alle finalità della ricostruzione. Lo
stesso programma dell'annessione al Piemonte, che pure si
presentava, fra tutti, come il piú concreto e maturo ed
attuabile, dava luogo a profondi dissensi circa il tempo e il modo
della sua attuazione. Annessionisti ad oltranza, postulanti la
fusione immediata, e in qualche modo l'annullamento della
personalità politica toscana nell'organismo piemontese, di
contro ad annessionisti dell'ultima ora, solleciti invece di
salvare, nell'operare l'unione, quanto piú si potesse delle
tradizioni e delle leggi e insomma del patrimonio politico toscano;
dissensi nel ministero, e poi fra i singoli ministri e i capi
piú autorevoli della parte nazionale, e accuse incrociate di
autonomismo o, per converso, di scarso amore della
«patria» toscana; e, accanto agli annessionisti, i
fautori di un piú modesto programma di rinnovamento, affidato
ad una nuova dinastia, o addirittura gli unitari
«italiani», i quali, parimenti opposti agli
annessionisti ed agli autonomisti, assegnavano alla Toscana la
missione e la funzione di centro iniziatore di una integrale
unificazione italiana.
Divisi gli animi a questo modo nel partito «nazionale»,
la gran massa del paese supinamente indifferente, quando non ostile,
alle novità dell'aprile e a quelle in corso di sviluppo; con
una stampa non ancora adeguata e informata al nuovo clima politico
ed alle nuove possibilità che ne derivavano; non è
meraviglia davvero che l'annunzio del prossimo arrivo del principe
Napoleone in Toscana gettasse a Firenze e a Torino allarme e
subbuglio vivissimi. Impaccio del governo toscano, fulminea
contromanovra del Cavour, lí per lí determinatosi,
nonostante le tranquillanti dichiarazioni e dell'imperatore e del
principe, a neutralizzare la malaugurata mossa francese, premendo
sul Boncompagni e, attraverso quello, sul Ricasoli, perché
senza indugio venisse proclamata l'annessione della Toscana al
Piemonte.
Dichiaratamente contrario a che le questioni del futuro ordinamento
dell'Italia centrale venissero pregiudicate finché durava la
guerra, il Montanelli fin qui non si era mosso da Acqui.
Senonché parve anche a lui che la spedizione del principe
Napoleone venisse a creare una situazione nuova del tutto,
suscettibile di decisivi sviluppi: e anch'egli si domandò se
non si correva per caso il rischio di trovarsi, alla fine della
guerra, dinanzi ad un irrimediabile fatto compiuto. 23 maggio,
sbarco a Livorno del cugino dell'imperatore; due giorni appresso il
Montanelli, recatosi in Alessandria, chiede ed ottiene udienza da
Napoleone III. Il colloquio (il secondo fra loro) verte da principio
sulla situazione toscana, intorno alla quale l'imperatore riceve da
piú parti le informazioni piú desolantemente
contraddittorie. «Mi sforzai di mostrargli – cosí il
Montanelli in una sua relazione inedita207 – che quanto al non
volere i Toscani divenir provincia del Piemonte, il Boncompagni
poteva avere forse ragione». (Proprio cosí! Il
Boncompagni, infatti, ignaro ancora della manovra cavourriana, e
personalmente alieno dal forzar la mano ai Toscani, scriveva e
operava allora in senso tutt'altro che annessionistico, mentre
l'imperatore, per parte sua, deplorava o figurava di deplorare
quello che gli sembrava, di tutto quell'«imbroglio»,
l'unico dato di fatto incontrovertibile: e cioè l'assoluta
contrarietà dei toscani a rinunziare alla loro autonomia).
Ma quanto all'idea unitaria monarchica – cosí ancora, il
Montanelli – la Toscana, e soprattutto le città di provincia,
la sentivano profondamente... Idee di separazione in Toscana non ce
ne erano davvero. E dalla Toscana il discorso s'elevò a tutta
l'Italia, ed ebbi a persuadermi come li statisti italiani che
avvicinavano l'imperatore erano lontani dall'avergli o per ignoranza
o per malizia fatto apprezzare l'indole e la portata del nostro
movimento unitario208.
Ecco dunque il preteso separatista, il francomane, il
«plonplonista» Montanelli fare in altissimo loco
propaganda unitaria, e, come tutti i propagandisti, del resto,
accomodare ai suoi fini la verità di fatto, sostenendo
imperturbabile non esservi in Toscana idee autonomistiche (!),
esservi anzi l'idea unitaria profondamente radicata e diffusa...
Avrebbe potuto affermar cosa meno esatta, ma, insieme, alterare la
verità per un piú nobile oggetto? Avrebbe potuto, lui
repubblicano, sacrificare piú di cosí al programma
della unità monarchica? Protestandosi assolutamente
disinteressato quanto alla soluzione da darsi al problema dinastico
toscano, l'imperatore poteva essere in buona o in malafede: il
Montanelli per parte sua lo credeva perfettamente sincero, riteneva
comunque che, una volta sollevata, con la spedizione del principe
Napoleone, la questione generale dei futuri destini d'Italia,
tant'era prendere alla lettera quelle sue proteste, affacciando
senza indugio e con spregiudicata franchezza la soluzione piú
radicale e integrale. Al qual proposito sarà opportuno
osservare come, bene o male ispirato che fosse nello scoprire
siffattamente il programma della completa unificazione italiana, il
Montanelli agisse in piena indipendenza e da Torino e da Firenze,
nettamente precorrendo atteggiamenti e prese di posizione assai
piú tardi diffusisi tra i suoi concittadini: salvo che allora
gli si muoverà rimprovero di non volervisi associare, anzi di
essere sordo al richiamo dell'unità italiana!
Riconoscendo la legittima dittatura morale del Cavour esercitata su
tutta l'Italia, volle il Montanelli che il gran ministro venisse, a
sua norma, puntualmente informato del suo colloquio con
l'imperatore: ond'è che l'intendente d'Acqui, dietro sua
espressa richiesta, gliene trasmise una precisa relazione209. Noi
non conosciamo questa relazione, ma che il Cavour restasse
soddisfatto dell'attività da lui svolta, dimostra appieno, ci
sembra, la circostanza che il Montanelli venisse allora
ufficialmente e calorosamente raccomandato, a nome del governo
reale, alle locali autorità di Acqui e di Alessandria210.
Piú tardi, del resto, anche Giorgio Pallavicino, spintovi dal
Montanelli, suo vecchio amico, trasmise al Cavour un resoconto del
colloquio imperiale211. Dal quale il Montanelli non usciva, a dire
il vero, gran che ottimista circa la possibilità d'indurre
l'imperatore a rivedere e a modificare il suo programma di
ordinamento federalistico per l'Italia. Lo scrisse, fra gli altri,
al Michelet: «Giorni sono ad Alessandria ebbi una conferenza
con l'imperatore. Quanto alla questione dell'ordinamento politico
non mi parve disposto di tener conto della opinione che su questo
manifesterà a suo tempo l'Italia. Ma ora è vivamente
preoccupato della guerra»212. Senonché gli argomenti
usati dal Montanelli per avvalorare la tesi unitaria dovevano aver
suscitato qualche impressione nell'animo del suo interlocutore.
Pochi giorni dopo, infatti, avendo questi designato due personaggi
del suo seguito, il senatore Pietri e il professor Rapetti, a
studiare sul luogo la situazione toscana e a riferirgli in merito,
uno di costoro, il Rapetti, ebbe ordine di recarsi innanzi tutto a
interpellare, ad Acqui, il Montanelli. Resultato del loro incontro
fu non solamente che il messo imperiale si dichiarò, e a voce
e per iscritto, «persuaso della necessità di edificare
su questa base» (cioè sulla base unitaria), ma che a
Napoleone III egli rimise, del Montanelli un memorandum scritto al
medesimo oggetto: memorandum che, al pari della relazione al Cavour,
noi non conosciamo, ma che, ci si assicura, incontrò
l'approvazione dell'imperatore213. In un suo appunto autografo,
ahimè frammentario, il Montanelli, del resto, precisa che i
due principali argomenti da lui svolti in quel documento erano, da
un verso, l'ormai dimostrata incompatibilità del dominio
temporale del papa con l'idea nazionale e con i principî dello
Stato moderno, dall'altro (citiamo le sue parole) «il consenso
ampiamente diffuso che, al di sopra d'ogni altra differenza di
pareri, collegava gli animi italiani nell'ossequio
all'autorità unitaria del re Vittorio Emanuele»214.
Il contegno del Montanelli, come si vede, non avrebbe potuto essere
piú... italiano di cosí; del che gli era buon
testimone, fra gli altri, il vecchio amico Vincenzo Malenchini,
già ministro della guerra nel governo provvisorio toscano, ed
ora suo commilitone, anzi suo superiore gerarchico nei Cacciatori
degli Appennini215, in pieno accordo col quale il Montanelli andava
svolgendo la sua azione politica. Eppure, come abbiamo piú
sopra accennato, non mancavano già fino d'allora altri...
amici, i quali si compiacevano di spargere, a Firenze, brutte voci
sul suo conto. Lo sapevano francofilo convinto; giungeva l'eco dei
suoi colloqui con l'imperatore e con i suoi emissari. Non ce n'era
dunque piú che a sufficienza per bollarlo sostenitore segreto
della pretesa candidatura del principe Napoleone al trono
toscano?216. Egli era ad Acqui, ma non vi fu perfino chi scrisse
«essere il Montanelli venuto a Firenze col principe Napoleone
per il quale voleva fare un partito», o chi riuscí ad
identificarlo frammisto a quella piccola folla che, la sera del
1° di giugno, improvvisava a Plon-Plon una dimostrazione di
simpatia?217. In realtà egli univa allora in una medesima
inequivocabile deplorazione autonomisti e plonplonisti218.
Propagandista presso l'imperatore di unità monarchica, il
repubblicano Montanelli non ristava, nel contempo, dall'incuorare i
suoi concittadini a pensare per allora unicamente alla guerra. Tale,
oltre alla dichiarata fiducia nella efficienza dell'ausilio
francese, della quale la recentissima vittoria di Montebello aveva
fornito una prova quanto mai luminosa, era, ad esempio, il contenuto
di un suo opuscoletto politico pubblicato a Livorno in quei giorni:
Il ventinove maggio in Toscana219. In esso il Montanelli dichiarava
che l'ottimo ordinamento per la sua Toscana era semplicemente quello
il quale permettesse e promuovesse il piú largo afflusso di
contingenti armati sul teatro delle operazioni. Era, questa, una
censura al governo di Firenze che, mentre aveva sollecitato il
presidio delle truppe francesi, non sapeva fare un esercito della
gioventú toscana? Senza dubbio lo era, seppure il Montanelli
non la esprimesse che sotto la forma di un incitamento per
l'avvenire; e come tale Il ventinove maggio non era destinato di
certo ad aumentare la già scossa popolarità da lui
goduta in patria. Ma a noi quel suo scritto interessa in special
modo in quanto ci fornisce la prova indiscutibile che, anche dopo il
colloquio con l'imperatore, il Montanelli non altro aveva in mente,
appunto, che la sorte della guerra e l'avvenire unitario d'Italia:
l'antico banditore della Costituente, infatti andava giornalmente
cedendo all'elettrizzante contagio monarchico, che si sprigionava,
vorremmo dire, dai campi lombardi.
L'idea dell'indipendenza – scriveva egli in quegli stessi giorni a
un amico – signoreggia tutte le altre: e perché a capo
dell'indipendenza sono un imperatore e un re, sarebbe considerato
come partigiano dell'Austria chiunque recasse nel moto attuale idee
politiche contrarie all'autorità regia ed imperiale. Si
è tanto detto che l'Italia s'è perduta per discordie e
indisciplina, che ciascuno si fa come scrupolo di divenire causa di
dissenzione o di scandalo220.
Palestro, 31 maggio; Magenta, 4 giugno; le porte di Milano si aprono
al vittorioso esercito franco-sardo. Qual fremito di ricordi per
chi, ora per ora, aveva vissuto, undici anni prima, autentico
combattente, la tragedia lombarda! Il Montanelli, che con i suoi
Cacciatori si è trasferito intanto da Acqui ad Alessandria221
– preludio forse dell'invocata entrata in campagna pei volontari
toscani? – ha la suprema soddisfazione di constatare come il
programma unitario stia apparentemente conquistando anche
l'imperatore, galvanizzato dal successo.
I municipali di Milano – cosí si legge, infatti, in certi
suoi appunti inediti222 – andavano incontro a Vittorio Emanuele
rinnovando davanti all'imperatore dei Francesi il patto col quale la
Lombardia erasi unita al Piemonte nel 1848. Questo era un ostacolo
di piú al disegno d'una federazione di principati
costituzionali... Il tacito consenso dell'imperatore a cotesto
assetto, e piú il famoso suo bando di Milano, col quale
chiamava gl'Italiani tutti a combattere sotto lo stendardo di
Vittorio Emanuele, mi fecero pensare che ormai l'idea dell'opuscolo
federativo [il celebre opuscolo del La Gueronnière,
pubblicato a Parigi nel febbraio e notoriamente ispirato
dall'imperatore] fosse per lui abbandonata, e che voleva soldati, e
nulla gl'importava se l'Italia a lui li inviasse accoppiando
all'impresa dell'indipendenza l'impresa dell'unità. Allora mi
feci un dovere di predicare come opportune quelle dimostrazioni
unitarie che avanti il proclama di Milano io avrei biasimate.
In altri termini: fu il proclama di Milano quello che lo indusse a
uscire dalla riserva nella quale si era fino ad allora tenuto per
passare alla propaganda diretta delle idee unitarie in Toscana.
Si vorrà censurarlo per aver egli dichiaratamente regolato la
sua azione politica sui cenni imperiali? Per aver atteso,
cioè, l'implicito consenso di Napoleone III prima di
determinarvisi? Sarebbe senz'altro un errore: in tutta Italia,
infatti, e tra gli stessi patrioti piú indipendenti,
universale era allora la convinzione che l'arbitro della guerra
sarebbe poi stato l'arbitro supremo della pace; che, per dirla con
parole di G. B. Giorgini, «in Toscana [non] potrebbe
consumarsi o reggersi un fatto qualunque non consentito dalla
Francia»223. Il Montanelli che aveva ancora fresco il ricordo
delle dichiarazioni antiunitarie fattegli pochi giorni innanzi
dall'imperatore, non si sarebbe aspettato di certo una cosí
brusca sua conversione; ma è inutile dire che l'accolse con
esultanza; tanto piú che forse si lusingava di avere in
qualche misura personalmente contribuito, con le sue parole e col
suo memorandum, a questa improvvisa (e ahimè ingannevole)
adesione imperiale al programma unitario.
Qual era allora la situazione in Toscana? Disorientato, da un verso,
dalle insistenti pressioni piemontesi in senso annessionistico
(missione Nigra-Cipriani, vivamente deplorata dal Ricasoli), quindi
dall'improvviso loro abbandono in sulla fine di maggio (una volta
accortosi il Cavour d'aver battuto una pista falsa); e, dall'altro
verso, dalla conturbante presenza delle truppe francesi, il governo
toscano si era accuratamente astenuto, nelle ultime settimane, da
ogni concreta manifestazione di principî o di propositi sia
nel senso dell'annessionismo che in quello autonomistico o unitario.
Il rinvio di ogni decisione a guerra ultimata si rivelava ormai ben
piú che un programma preordinato, il portato di una
incoercibile repugnanza e quasi impossibilità collettiva, in
seno al governo, a operare una scelta fra quei diversi partiti. La
Toscana pareva davvero quella donnetta disputata da un gruppo di
soldatacci, cui l'aveva amaramente paragonata il Capponi.
Giudicò il Montanelli, cosí stando le cose, che fosse
giunto il momento opportuno non solamente per iniziare, o
riprendere, in Toscana manifestazioni unitarie extra-governative, ma
per imprimer loro, possibilmente, quel carattere di autentica
«popolarità» che fino ad allora era ad esse
mancato, come l'imperatore gli aveva fatto espressamente notare in
occasione del colloquio alessandrino, e che ben piú di ogni
assicurazione di un Corsini o di un Ricasoli avrebbe valso a
dimostrare la loro corrispondenza ai voti della cittadinanza. L'idea
del Montanelli, in concreto, fu quella di promuovere, da parte dei
municipi toscani, clamorose manifestazioni in favore della
costituzione di un grande regno unito d'Italia, cui la Toscana, un
giorno, avrebbe dovuto congiungersi. Anche il Cavour, allorquando
aveva sperato di ottenere dalla Toscana un solenne voto
annessionistico, aveva suggerito al Boncompagni di sollecitare quel
voto dai municipi toscani: nell'assenza di una regolare assemblea
legislativa (cos'era la Consulta dell'11 maggio se non un vero e
proprio consiglio di Stato emanante dal potere esecutivo?), gli
unici organismi rappresentativi del popolo toscano potevano dirsi
infatti i consigli municipali. Essi erano composti, è vero,
di membri nominati dal governo, e per giunta dal cessato governo
granducale, ma in ragione della loro stessa molteplicità
potevano ancora considerarsi, entro certi limiti, quasi uno specchio
della cittadinanza o almeno del ceto possidente. Il Cavour, mutata
la rotta, aveva finito col rinunziare al suo progetto, tanto
piú che, a suo giudizio, esso avrebbe reso necessaria una
preventiva ricomposizione dei consigli municipali mercé nuove
elezioni amministrative; lo ripigliava adesso il Montanelli, con
questo di mutato: che egli si diceva convinto di poter raccogliere
larghe adesioni ad un programma unitario anche dai consigli
esistenti.
Discusso il suo piano con taluni suoi colleghi di corpo, e prima di
tutti col Malenchini224, il Montanelli lo sottopone al senatore
Plezza, che nella sua qualità di commissario regio riveste in
Alessandria la suprema autorità politica. Costui, che
evidentemente divide le impressioni allora quasi universalmente
diffuse a Torino circa le velleità autonomistiche del governo
toscano, non solo approva incondizionatamente il progetto
montanelliano, ma apertamente si associa alla sua attuazione.
Sollecita l'approvazione del Cavour? Sembra di sí ma ad ogni
modo il suo appoggio implica naturalmente quello del suo governo.
Occorre mandare in Toscana una persona ben vista, pratica
dell'ambiente, capace di tentare la conversione sul programma
unitario di tutte le correnti «italiane», dagli uomini
di governo fino all'estrema ala sinistra repubblicana. È il
Montanelli che propone il nome d'un suo amico residente in
Alessandria, Bartolomeo Aquarone, professore in quel liceo, noto
giornalista e letterato, che ha lungamente soggiornato a Firenze.
L'Aquarone accetta, vien fornito di mezzi pecuniari e di
lasciapassare dal Plezza, di commendatizie, d'istruzioni e di
abbozzi di proclami dal Montanelli225, e parte immediatamente. Quali
sono le istruzioni del Montanelli? Ne abbiamo rinvenuto un frammento
fra le sue carte226:
Fa d'uopo ripigliare la tradizione napoleonica del regno d'Italia.
Fa d'uopo togliere ai separatisti il loro piú forte
argomento, mostrando con qual magno nome di regno d'Italia che non
si tratta d'incorporare Toscana né altre province di Italia
al Piemonte, secondo che potrebbero dare ad intendere le errate
formole unitarie che ora s'adoperano di fusione e d'annessione, ma
d'unire Piemonte, Lombardia, Toscana, Liguria, e quante altre
province italiane di mano in mano acquisteranno libertà di
manifestarsi, in un regno d'Italia. La Toscana, dichiarando che
vuole il regno d'Italia, renderà alla causa nazionale due
servigi. 1) sostituirà la formola piú vasta e
piú simpatica di regno d'Italia a quello di regno dell'alta
Italia, che offende giustamente l'aspirazione unitaria. 2)
rannoderà il movimento attuale italiano alla tradizione
napoleonica. Sarei d'avviso che fin d'ora si rendesse popolare
l'idea di adottare per codice civile del nuovo regno il codice
Napoleone. Sarà una soddisfazione data alla Francia, e un
benefizio per noi... L'imperatore dei Francesi potrà mostrare
che le armi della Francia spianano la via a idee progressive. Le
parole sacramentali del pronunciamento municipale sarebbero adunque:
Viva il regno di Italia; viva Vittorio Emanuele re d'Italia; viva il
codice Napoleone227.
La mossa montanelliana è, come si vede, tutt'altro che
inabile: giacché d'un sol colpo essa mira ad atterrare i
molteplici ostacoli che in Toscana si oppongono alla propaganda
unitaria: agli annessionisti mostrando che l'unità
verrà realizzata nel nome e a profitto della dinastia di
Savoia; agli antiannessionisti che il Piemonte al pari della Toscana
si fonderà a suo tempo nel nuovo regno; ai francofili che ci
si riattaccherà alla tradizione napoleonica; e finalmente ai
diffidenti della politica francese che l'omaggio alla Francia
sarà puramente morale (codice Napoleone), in nessun modo
implicando soddisfazione di presunti suoi appetiti territoriali, ai
quali del resto il Montanelli non crede228.
Munito di cosí fatte istruzioni (cui, diversi mesi piú
tardi, sviati apologisti del Montanelli pretesero attribuire,
né si riesce ad intendere come, carattere di propaganda
annessionistica229), l'Aquarone si dirige in Toscana: siamo ai primi
di giugno, e presumibilmente al 9 del mese230. Quali sono i
resultati della sua missione? Non ne sappiamo che poco. Vediamo
comunque di orizzontarci alla meglio, sfruttando i pochi dati
attualmente a disposizione. L'Aquarone, crediamo, non
pubblicò relazioni di questo suo importantissimo viaggio
politico; ma tra le carte del Montanelli si conserva una sua lettera
del 12 giugno (da Livorno?) che contiene qualche notizia in
proposito231:
Pare, come scrissi ieri al Plezza, che il Ricasoli sia interamente
sulla nostra linea. A Firenze il Morandini232 e il Monzani mi
diedero assicurazione di ciò; e in Livorno la cosa mi viene
confermata da altri233. Dio sia lodato. Andremo insieme, potendo; se
no, andremo da noi. Ma pare che s'abbia ad aspettare. Dicono che i
municipi attuali, composti dal cessato governo, forse non
corrisponderanno: e che però il Ricasoli vuole tosto
procedere alla formazione dei nuovi, per le elezioni... Bene.
Frattanto ho dato commissione di studiare i consigli municipali
quali sono: e se que' di Firenze, Livorno, Pisa, Lucca, Pistoia,
Siena e Arezzo possono corrispondere, o volentieri, o sotto la
pressione, sono d'avviso che s'abbia a andare innanzi subito. Con
questo fine andrò dimani, lunedí, a Pisa; e diman
l'altro a Lucca; e indi anche a Pistoia; ché ad Arezzo, a
Siena, e a Firenze, pensano Morandini e Monzani. Se abbiamo questi
sei o sette municipi, a me paiono bastare: ché al voto
universale ricorrerei a malincuore; e si ricorrerà,
abbisognando, poi. Ora una cosa abbisognerebbe, un giornale che
indirizzasse il paese... Vi sono alcune repugnanze che giova
ottundere; alcune prevenzioni che vogliono essere dissipate; insomma
abbisogna acchetare gli spiriti intorno ad alcuni sospetti,
fomentati, soffiati, gonfiati, e inaspriti dall'amore delle
personalità politiche toscane. Mi si parlò, e da uomo
di polso, di centralità tirannica... Risposi che Firenze
sarebbe pur sempre Firenze, il centro, la sede del Bello e delle
Arti... Vedi che c'è dell'invidia in tali argomenti...; la
quale gioverebbe fosse combattuta... da un giornale. Lo vuol fare il
Cavour?
Da questo documento risaltano bene, non che certi stati d'animo
allora ampiamente diffusi in Toscana, il carattere della propaganda
italianissima svolta dall'Aquarone dietro precise istruzioni del
Montanelli: e dire che ben presto quest'ultimo verrà
gabellato per un autonomista, per antiunitario! Proprio lui che,
quello stesso 12 giugno, scriveva all'amico Turchetti:
... Se la Provvidenza mi vorrà strumento utile al
riordinamento civile del regno d'Italia che spero si farà
volenti o nolenti gli eunuchi autonomisti toscani, come mi diede
forza a resistere agli spasimi dell'esiglio, mi proteggerà
nella gloriosa tempesta del campo...234.
Ma torniamo ai resultati della missione Aquarone, e vediamo in
proposito la versione del Montanelli. Il 21 di giugno egli scriveva
al Pallavicino a Torino, perché a sua volta questi ne
informasse il Cavour, che il «lavoro unitario» da lui
iniziato in Toscana era già a buon punto: «ben presto,
aggiungeva, se ne vedranno i frutti»235. E poi, specificando:
Il pronunciamento per la formazione del regno d'Italia è
cominciato. Spero che il governo piemontese ne apprezzerà
l'importanza e sentirà che per acquistare autorità
unificatrice è d'uopo che presto incominci ad unificare,
lasciando per ora da parte le legazioni, e ritenendo come massa
unificabile il vecchio Stato piemontese, la Lombardia, lo Stato
parmense e la Toscana.
In un secondo tempo il nuovo regno
alle province che vi facessero adesione comunicherebbe la sua
unità; si sposterebbero le antiche supremazie di capitali, si
farebbe sentire alle province il vantaggio di questo spostamento, si
cercherebbe la maggiore uniformità possibile delle nostre
istituzioni civili con le francesi.
Diversi mesi piú tardi, facendo la storia della sua azione
politica236, il Montanelli scriveva, della missione Aquarone, che
proprio ad essa si era dovuta la prima, la decisiva spinta a quel
memorabile movimento unitario dei municipi toscani, che si era
svolto nella seconda metà di giugno e piú specialmente
nei giorni immediatamente precedenti e seguenti a Villafranca.
Prima il municipio di Siena..., quindi il municipio di Livorno
cominciarono la manifestazione unitaria della Toscana. Nelle
adunanze che Aquarone promosse fu deciso di unire alla
manifestazione municipale un movimento di firme che in alcune
città prese colossali proporzioni. Il municipio di Livorno
proferí primo la parola di Regno d'Italia. Nelle altre
dichiarazioni municipali seguitava a prevalere l'errata e insidiosa
formola di fusione o annessione al Piemonte.
Questa versione è integrata da un passo degl'inediti Cenni
biografici dedicati al Montanelli dalla sua vedova:
«Montanelli indirizzava Aquarone agli amici Antonio Parra237,
Biscardi238, per cooperare alla riuscita, e si ebbe il bel resultato
delle 25 000 firme dei Livornesi, che furono i primi e trascinarono
gli altri municipi».
Senonché la storia delle manifestazioni municipali toscane fu
invero assai piú complessa che non appaia dalla narrazione
montanelliana. La propaganda immediatamente iniziata dall'Aquarone
era venuta infatti a sovrapporsi, e in parte a confondersi con
analoghe iniziative o spontaneamente presentatesi in Toscana, o
introdottevi e caldeggiate da esponenti della Società
Nazionale accorsi a Firenze all'incirca nel medesimo tempo, con la
missione di promuovere, invece, manifestazioni annessionistiche.
Fino dal 6 giugno, intanto, e come per contraccolpo dell'entusiasmo
sollevato dalla vittoria di Palestro, aveva cominciato a circolare
in Firenze, e poi in tutta la Toscana, il noto indirizzo a re
Vittorio, acclamato «re d'Italia»239, il quale,
apertamente appoggiato da due dei ministri in carica, il Ricasoli e
il Salvagnoli, era andato rapidamente coprendosi di migliaia di
firme240. A questo indirizzo si erano evidentemente ispirati
parecchi municipi, affrettatisi a votare, in omaggio al re sabaudo,
ordini del giorno non meno calorosi seppure, in genere, assai
piú prudentemente indeterminati nella formulazione241. Fu
questa, in realtà, la prima manifestazione unitaria
extragovernativa svoltasi in Toscana, e indubitatamente essa venne
promossa e si svolse affatto indipendente dall'iniziativa
montanelliana: si deve per contro riconoscere che la formola
proposta dall'Aquarone presentava, di fronte a questa prima, una
notevolissima accentuazione in senso unitario. Altro era infatti
acclamare a un re d'Italia, che era del resto nelle tradizioni della
innocua rettorica patriottica, altro promuovere una manifestazione
sistematica in favore di un definito e concreto regno d'Italia.
Il 12 giugno, allorquando la propaganda svolta dall'Aquarone era
ancora nella sua fase iniziale, una seconda manifestazione unitaria
aveva luogo a Firenze: dove il consiglio dei ministri approvava un
decreto (di poi né pubblicato né sottoposto
all'approvazione della consulta, attesa l'opposizione del Cavour)
proclamante in Toscana la sovranità di re Vittorio,
«onde cooperare alla formazione d'una Italia una e
forte». Questa volta era la tendenza annessionistica che
prendeva nettamente il di sopra; e, con essa, il radicato
presupposto ricasoliano di disporre delle sorti del paese senza
ricorrere alla consultazione piú o meno indiretta della
volontà popolare.
Contro questa tendenza veniva adesso ad urtare la propaganda
dell'Aquarone, il quale, messaggero, sí, del Montanelli, ma
insieme coperto da una sia pur generica autorizzazione del governo
sabaudo, non si peritava di sollevare pubblicamente il problema
unitario nella sua interezza, cioè il problema non pure della
Toscana, ma, seppur gradualmente, di tutta l'Italia e delle sue
sorti future, partendo dalla dichiarata premessa che la
manifestazione della volontà toscana avrebbe dovuto svolgersi
dal basso all'alto, e, se non all'insaputa, certo senza il diretto
intervento delle autorità di governo. Il ragionamento del
Montanelli-Aquarone filava, invero, perfettamente: che valore
avrebbe mai rivestito, ragionavano essi, il voto unitario o
annessionistico pronunziato o provocato da un ministero
gerarchicamente dipendente dal commissario del governo piemontese? E
come si poteva mai sperare che l'imperatore avesse a prenderlo in
seria considerazione? Ond'è che l'Aquarone, evitando i
circoli ufficiali, «batteva» soprattutto i ritrovi della
democrazia militante, come non senza scandalo e allarme si dovette
ben presto constatare a Palazzo Vecchio. Ci si trovava senza dubbio
di fronte ad uno dei piú seri tentativi che fossero stati
messi in opera dal 27 aprile in poi per sottrarre al governo
l'iniziativa e la direzione della grande politica in una col
controllo della cosí detta «volontà»
popolare. Il ministero toscano si trovò, o ritenne di
trovarsi, a mal partito; temette davvero un bis del '48;
fantasticò che la «piazza» stesse per
sopraffarlo242. Furono i contatti dell'Aquarone e dei suoi accoliti
col gruppo dolfiano che lo preoccuparono? Credette davvero che il
governo di Torino, mal ragguagliato delle cose toscane, avesse
macchinato di rovesciarlo per sostituirgli degl'intriganti
interessati appunto a dipingere l'oligarchia fiorentina come
tendenzialmente autonomistica? E l'uno e l'altro motivo
contribuirono certo a determinare all'azione il binomio
Ricasoli-Salvagnoli243, ma forse piú che tutto il nome (ben
presto rivelatosi, nonostante gli sforzi del Montanelli per tenersi
nell'ombra244) di colui che nell'ottobre del '48 aveva
«rovinato» la Toscana con la sua rivoluzione
democratica, e che adesso, dal Piemonte, dirigeva le fila del nuovo
complotto. Cedendo alla suggestione, o piuttosto alla «grande
paura» del '48, non ci s'immaginava forse che allato del
Montanelli, e consapevole, anzi solidale dei suoi progetti, fosse
anche adesso il Guerrazzi?
Di tutto ciò ben poche tracce si trovano nel carteggio
Ricasoli (almeno in quella parte che fin qui ci è stata resa
nota), abbondantissime invece in quello del Cambray-Digny, allora in
missione a Torino, che qualche intimo teneva, come si sa,
giornalmente al corrente di tutto quello che né le gazzette
né i dispacci d'ufficio potevano lasciar trapelare.
«È positivo che ieri doveva esservi (a Firenze) gran
dimostrazione in piazza», gli si scriveva ad esempio il 15 di
giugno; aggiungendosi che solo a gran fatica si era potuto,
all'ultim'ora, impedirla. Tra i promotori della dimostrazione,
principalissimo l'Aquarone «che è stato a Livorno, a
Lucca, a Pisa, a Siena ecc... È venuto anche lui per
intrigare nel solito senso». (Solito? La contessa Digny doveva
ben presto accorgersi che era quello un aggettivo singolarmente
fuori di posto). «Chi ha portato a galla questa gente conviene
si affretti a rimetterla all'ordine, altrimenti ne andremo tutti di
sotto»245. Nuovi ragguagli il giorno appresso, con precisa
denunzia delle «insinuazioni del Montanelli e del Guerrazzi,
che si dice siano stati, e siano ascoltati a Torino piú di
quello che credi. In sostanza, questi agenti spargono che il governo
non deve prender parte alla cosa (cioè alla diffusione e alla
votazione degl'indirizzi unitari); ma che se il paese vuol la cosa e
la fa, cosa fatta capo ha»246. E il 17: «... pare certo
che il partito estremo abbia avuto gran parte in questa faccenda,
sia scrivendo di qua agli esaltati ed agli esuli Montanelli,
Guerrazzi e compagni costà, sia ascoltando i consigli che dai
medesimi riceveva. Forse anche questi stessi sono stati ascoltati da
chi è al potere costà, e che sarà rimasto
ingannato dalle fandonie che avranno raccontato»247. Alle
quali informazioni, e alle vive sollecitazioni perché
l'Aquarone ed altri agitatori della sua risma venissero
immediatamente richiamati in Piemonte, il Cambray-Digny per parte
sua rispondeva, il 18: «Pur troppo credo che l'agitazione
nuova per la fusione non parta da Torino, ma finora da Acqui, ora da
Piacenza (e cioè dal Montanelli, che – come vedremo – si era
trasferito intanto, con i Cacciatori, in quest'ultima città,
subito dopo lo sgombro austriaco). E credo che si faccia
direttamente spendendo il nome del Cavour». Egli, per altro,
poteva in coscienza attestare che il Cavour non c'entrava per nulla,
che anzi deplorava del pari e le imprudenti manifestazioni
annessionistiche del governo di Firenze, e quei pericolosi
pronunciamenti unitari248. Ma il Nocchi, segretario del Ridolfi, di
rimando (20 giugno):
Insisti sul fatto che Malenchini249 e Montanelli hanno ingiustamente
e per passione svisato le cose nostre, e mandato da loro, contro un
governo piemontese (e intendeva il governo toscano invigilato dal
Boncompagni), il piemontese Aquarone, che, con un indirizzo e mene
tendenti ad agitare il paese contro il governo, è venuto
credendo di trovare tutti contrari alla fusione..., e ha spacciato
ripetutamente di venire a nome e per commissione di Cavour. Mostra
la convenienza di far cessare, potendo, queste mene250.
La quali «mene», ripetiamo, ponevano il gabinetto
ricasoliano nel piú crudele imbarazzo. Come reagire se non in
qualche modo impadronendosi delle idee diffuse nella
«piazza» per tentare di controllarne l'attuazione,
strappando cosí l'iniziativa agli agitatori? Tale fu in
effetti la sapientissima manovra concepita ed eseguita dal Ricasoli
indipendentemente affatto dalle istruzioni torinesi, se non proprio
in contrasto con esse251. L'impressione che si ricava dai documenti
fin qui venuti alla luce è che il progetto montanelliano
dell'indirizzo municipale venisse insomma adottato nella sostanza,
ma abilmente modificato, per mano del Salvagnoli, in quella che era
la sua formulazione unitaria: l'espressione di «re
d'Italia», la quale d'altronde era già stata usata in
precedenza, venne, sí, mantenuta, ma s'introdusse al posto
dell'altra «Regno d'Italia», quella, generica, di
«famiglia italiana»252, sopprimendo altresí ogni
accenno alla Francia e, in particolare, al codice Napoleone253.
Cosí alterato, l'indirizzo cominciò a circolare in
Firenze il 16 di giugno: gli amici del ministero provvedevano
intanto a trasmetterlo in provincia con raccomandazione ai
gonfalonieri di farlo votare dai rispettivi consigli. All'insaputa
dello stesso Salvagnoli, suo alter ego, il Ricasoli fece anche di
piú: si mise cioè d'accordo col Dolfi perché
questi diramasse per suo conto e apparentemente di sua propria
iniziativa una circolare ai gonfalonieri toscani, invitandoli a
fargli recapitare gli ordini del giorno di approvazione del
patriottico indirizzo254.
Le reazioni da parte degli autonomisti e in particolare del gruppo
dei cosí detti «georgofìli» furono, si sa,
vivacissime255; comunque fu proprio questo, a quel che sembra, il
punto di partenza delle poi tanto celebrate manifestazioni
municipali toscane: le quali, iniziatesi a Siena, il 17 di
giugno256, indi seguite a Montepulciano, a Livorno, a Pistoia, a
Pisa, a Fucecchio (patria del Montanelli)257, e in piú luoghi
accompagnate da plebiscitarie adesioni della popolazione (onde si
poté dire che costituirono in certo modo una prima prova del
suffragio universale in Toscana)258, vennero ad assumere un ritmo
precipitoso, e, vorremmo dire, «totalitario», nei giorni
immediatamente seguenti all'armistizio. Che poi la formola
effettivamente votata dalla maggioranza dei municipi fosse
altrettanto diversa da quella del Salvagnoli quanto questa si era
distaccata dal primitivo modello montanelliano; che insomma questa
manifestazione municipale, ad opera segnatamente di zelantissimi
agenti della Società Nazionale, si rivolvesse in pratica in
un plebiscito per l'annessione della Toscana al Piemonte, questo
è altro conto: senonché giova forse il notare che
perfino il Ricasoli, e con lui, implicitamente, il Salvagnoli,
ebbero in un primo tempo a deplorare, quasi con le identiche parole
che vedemmo usate dal Montanelli, quelle formole, che «non
rappresentavano il concetto grande d'un'Italia una e
forte»259.
Dell'iniziativa Montanelli-Aquarone, comunque, chi piú si
ricordava? La manifestazione municipale passava alla storia come
concepita, organizzata, attuata esclusivamente a Palazzo Vecchio.
Tanto che l'Aquarone, giunto a Firenze in veste di missus dominicus,
ne ripartiva ben presto, cioè verso il 20 di giugno, con la
fama di un temibile arruffapopoli, le cui prave intenzioni si erano
fortunatamente spuntate contro l'insonne vigilanza del governo e la
patriottica disciplina del paese260: peggio ancora, apertamente
sconfessato da quel governo piemontese che pure aveva in qualche
modo approvato la sua missione261, ma al quale nel frattempo si era
fatto notare, dal quartier generale francese, quanto pericoloso e
inopportuno si fosse l'andar sollevando, in piena guerra, con una
propaganda unitaria, il delicatissimo problema di Roma e di
Napoli262. «Il pericolo delle dimostrazioni – si scriveva il
20 giugno appunto da Firenze al Cambray-Digny – pare allontanato: il
sig. Aquarone se ne partí con le trombe nel sacco»; e
quegli, il 22: «Non dubito che alla disperazione dell'Aquarone
e degli altri non abbia contribuito il sapere che la loro condotta
non era approvata qua»263.
Se l'Aquarone se n'era partito con le trombe nel sacco, il
Montanelli, dopo questo episodio, venne investito da una prima
ondata di recriminazioni e di accuse. «Domani spero potremo
trattare gli affari della Toscana – scriveva ad esempio il 28 giugno
il Digny, – ed ho fiducia che presto gl'imbroglioni politici avranno
una prova materiale che qui (a Torino) non si vuole per ausilio il
disordine. Spero che presto vedrete rimettere il capo nel guscio
guerrazziani, montanelliani ecc.»264. E il Ricasoli, 5 luglio,
al fratello Vincenzo, che lo aveva informato della imperiale
disapprovazione al «pronunciamento» nazionale toscano:
«Se il governo attuale non si fosse disegnato come ha fatto,
oggi la Toscana sarebbe in mano di Guerrazzi e Montanelli»265.
Il Guerrazzi, per parte sua, difendeva il Montanelli in una lettera
al Corsi:
Non so di M...; ch'ei si dolga è probabile, ma impedire alla
vittima un lamento, e darlo ad intendere parricidio penso sia arte
di quei nuovi Neroncini da 16 alla crazia, che vorrebbero anco
essere adulati, e ringraziati. Che faccia opera cattiva, non lo
posso credere: infermo e non giovane va a offrire il suo sangue:
altro non può: sarebbe anco questo un tradimento alla
Indipendenza?266
Tito Menichetti, che a quel tempo era ancora grande amico del
Montanelli, rispondendo ad una sua lettera, affermava l'8 di luglio,
che essa gli era giunta tanto piú opportuna e gradita in
quanto «in quel momento alcuni amici tuoi (!) ti facevano la
lunga mano di certi rigiri antinazionali. Io... per mostrare che tu,
tutt'altro che preoccuparti delle questioni interne, tiravi innanzi
diritto diritto nella tua via, portai la tua lettera al Ricasoli,
che fu contentissimo d'aver in mano quella prova parlante del tuo
indirizzo politico». (Il Ricasoli abbandonò dunque, da
allora in poi, le sue prevenzioni contro il Montanelli? Neanche per
immaginazione! E ne vedremo piú avanti le prove). Il
Menichetti, comunque, non esitava a deplorare, per parte sua, che
fosse stata cosí intempestivamente sollevata la questione
della fusione della Toscana al Piemonte: «Ma io rammento –
aggiungeva – quello che mi dicesti a Goito nel '48 quando venne
fuori la questione albertista: È una piaga che non andrebbe
scoperta, (ma ormai) va medicata»267, e cosí dico qui.
Ormai che è messa fuori non va avversata»268. Il quale
ultimo accenno conferma appieno, seppur ve ne fosse ancora bisogno,
come alla radice di quelle accuse al Montanelli fosse appunto
l'opinione da lui francamente professata dover la Toscana mantenere
la sua autonomia fino alla costituzione di un regno unito, che
andava intanto preparato nello spirito degl'Italiani e soprattutto
dei Toscani269. L'«antinazionale» era dunque colui che,
mentre tanti suoi concittadini eminenti si dichiaravano rassegnati a
priori a qualunque soluzione della questione dinastica toscana,
eccezion fatta soltanto per una restaurazione lorenese, informava la
sua azione politica, come sempre aveva fatto, del resto, alla
piú grande unità nazionale; colui che dal campo stava
offrendo un esempio non comune di umile dedizione alla causa
italiana!
Lontano, materialmente e, piú, spiritualmente da quel
focolaio d'intrighi, sereno nella sua coscienza, il Montanelli si
era trasferito frattanto, come già abbiamo detto, da
Alessandria a Piacenza270. Certo, non era quella la guerra, la
guerra combattuta che aveva sognato e cui si era consacrato! La vita
delle retrovie lo esasperava: se aveva rinunziato con immenso suo
sacrificio, non solo sentimentale, a ritornare in Toscana271, non lo
aveva fatto davvero per seguire a quel modo, a rispettosa distanza,
l'avanzante corpo d'operazioni. Giorno per giorno promettevano ai
Cacciatori una prossima partenza pel fronte, ma intanto le settimane
passavano, battaglie gloriose e decisive si susseguivano senza che
quella promessa venisse mai mantenuta: in Italia, e anche in
Francia, si sorrideva dei compiti «turistici» affidati
alle truppe toscane...272. Il 21 di giugno, da Piacenza, il
Montanelli scongiurava il Pallavicino, a Torino, d'interporsi
perché i Cacciatori venissero finalmente riuniti all'esercito
operante: «t'assicuro – scriveva – ... che urge prendere una
risoluzione. Questi giovani si sentono umiliati di non avere avuto
il battesimo del fuoco. Il primo e il secondo battaglione sono in
ordine»273. Il giorno appresso, sempre a Piacenza, ebbero
luogo le esequie di un volontario livornese, Giovanni Seteri,
prosaicamente morto di malattia: nelle frementi parole pronunziate
dal Montanelli sul feretro del suo compagno chi non sentí
l'anelito verso quell'altra morte che già aveva sfiorato
l'oratore nel '48, la morte gloriosa sul campo?274. Quel medesimo
giorno truppe francesi del 5° corpo d'armata, in provenienza
dalla Toscana, lasciavano Piacenza, dopo una breve sosta, dirette,
esse, in prima linea. Era un immeritato avvilimento pei volontari
toscani vedersi ancora una volta precedere al fuoco dalle truppe
alleate! Il Montanelli, che pure, a Piacenza, ha occasione
d'importanti e fruttuosi contatti e colloqui politici275, e
benché non ignori affatto come proprio in quei giorni si
stiano concludendo le trattative per la congiunzione dei Cacciatori
degli Appennini con i Cacciatori delle Alpi, allora operanti in
Valtellina276, si risolve finalmente a precedere i suoi commilitoni.
Generale – scrive al Garibaldi, che ha conosciuto a Firenze nel
novembre del '48 e per le cui virtú militari nutre vivissima
ammirazione277 –, non vi chiedo gradi, ma parte ai pericoli. La
ferita che a Curtatone riportai nella spalla sinistra non mi
consente maneggiare il fucile; ma posso col braccio destro
maneggiare la sciabola... L'esilio m'incanutí il pelo, non
l'anima. Mi ritrovo ardente soldato d'Italia come ai piú bei
giorni dell'ultima impresa, e mi sento degno di ricominciare per lei
le prove al vostro fianco, o prode condottiero di prodi.
Cosa gli rispondesse il Garibaldi ignoriamo: sappiamo solo che alla
fine di giugno il Montanelli, in compagnia del suo Malenchini278,
giunse a Tirano, festosamente accolto dal generale279.
«Garibaldi lo teneva sempre seco, e facevano insieme le
escursioni», scriveva qualche anno dopo, rievocando quel
tempo, la vedova del Montanelli280. Verosimile, perciò, che
il 5 e l'8 di luglio egli partecipasse personalmente alle brillanti
scaramucce d'alta montagna svoltesi sullo Stelvio (le ultime di
quella campagna!) e che il 9 del mese, quando, come un colpo di
fulmine, pervenne al campo la notizia dell'armistizio, egli si
trovasse a fianco del generale. Sorpresa, delusione, sdegno, dei
volontari. E il Montanelli? «Quando accadde l'armistizio –
cosí egli in un suo inedito appunto281 – io mi trovava a
Tirano... Garibaldi mi mandò a Torino a trattare con Cavour
di diversi negozi282; per via seppi la pace di Villafranca».
Da un lasciapassare rimessogli dall'autorità militare resulta
infatti che il Montanelli partí da Tirano il 10 di luglio,
che il giorno appresso transitava da Sondrio, il 12 da Como e che
quindi si arrestava a Milano. Fu a Milano, appunto, che venne a
conoscenza delle inaspettatissime deliberazioni di Villafranca, e in
particolare di quelle concernenti le restaurazioni nell'Italia
centrale: «avrei voluto che coloro i quali non credono a
comunione italiana mirassero, come a me avvenne, il tragico
commovimento che all'annunzio delle condizioni di pace levossi in
Milano»283. Col Garibaldi il Montanelli non aveva preso, in
vista dell'armistizio, che delle intese molto generiche284.
L'annunzio delle stipulate restaurazioni lo spinse naturalmente a
concepire progetti piú circostanziati. In concreto:
«ordinare l'Italia centrale a resistenza, dando a Garibaldi il
generalato della lega»285; fare cioè di un'Italia
centrale armata e indipendente il fulcro per la dilatazione del
movimento nazionale in tutto il resto della penisola286. Montanelli
comunicò senza indugio il suo piano al Garibaldi, ottenendone
piena, immediata adesione287: indi (era il pomeriggio del 14 luglio)
proseguí per Torino, dove avrebbe potuto intendersi col
Cavour, dimissionario già dal giorno innanzi, e dove di ora
in ora si attendevano l'imperatore ed il re288.
Esposi arrivato a Torino il mio disegno a Valerio, a Kossuth; chiesi
a Cavour che ci desse Garibaldi: disse non potere come ministro di
un re che aveva accettato la pace di Villafranca mandare nell'Italia
centrale Garibaldi con la veste di generale piemontese; chiedesse
egli il congedo; lo chiedessero i suoi soldati; e i governi
dell'Italia centrale facessero il resto289.
Invero, egli si trovava allora nell'identico stato d'animo e
sull'identica linea del Cavour, il quale dubitava di esercitare
l'estremo suo potere per spronare i suoi agenti a Bologna, a Parma,
a Modena, a Firenze a organizzare la resistenza contro le
restaurazioni, a istituire governi forti, a richiamare dalla
Lombardia le rispettive truppe, a suscitare insomma la rivolta
armata delle popolazioni contro gl'iniqui deliberati di Villafranca:
del resto era quello l'ovvio programma di tutti gli uomini della
sinistra, dal Mazzini (le cui previsioni sui limiti e i resultati di
quella guerra ricevevano purtroppo una impressionante conferma) al
Guerrazzi. Ma se ovvio era il programma, e agevole il convenire
della sua opportunità, meno ovvio e meno agevole era
l'additarne un'attuazione possibile, cioè commisurata alle
gravissime difficoltà della situazione. Nonostante le
assicurazioni e gl'incitamenti del Cavour, restava intanto da
appurare un punto di fondamentale importanza: cioè se Francia
ed Austria si fossero accordate per un eventuale intervento militare
in vista d'imporre le restaurazioni nell'Italia centrale o se si
fossero limitate a sancirle in diritto. La mattina del 15, a Torino,
si viveva ancora, a questo proposito, nella piú ansiosa
incertezza. Anche Celestino Bianchi, che il Boncompagni e il
Ricasoli avevano mandato d'urgenza nella capitale sabauda per
esaminare la situazione e significare l'assoluta contrarietà
dei toscani a piegarsi alla restaurazione granducale290, si
dimostrava passabilmente all'oscuro e di questo e di molti altri
dati essenziali concernenti le sorti del suo paese. In attesa di
informazioni sicure, egli e il Montanelli, due vecchie
conoscenze291, incontratisi nel primo pomeriggio del 15292,
convennero in massima circa l'opportunità, anzi l'urgenza di
armare la Toscana per prepararla a resistere contro eventuali
imposizioni straniere293. A questo proposito, anzi, il Bianchi,
com'è ben noto, ebbe subito una serie di decisivi colloqui
con influenti personalità piemontesi: in seguito ai quali si
sentí di spedire a Firenze un primo dispaccio
tranquillizzante294. Pochi istanti dopo giungevano a Torino i due
sovrani alleati. Nel corso della loro conversazione circa
l'armamento della Toscana, tanto il Bianchi che il Montanelli
avevano ravvisato l'opportunità di proporre il trasferimento
sulle rive dell'Arno di quella legione ungherese che si era andata
ordinando in Piemonte, ma che non aveva avuto il tempo di prender
parte alla guerra (vecchia idea fissa dei democratici toscani quella
di ricorrere, in caso di estremità, a volontari stranieri!)
La sera stessa il Montanelli condusse l'amico, che già si era
abboccato con alcuni esponenti ungheresi, dal Kossuth in persona, da
lui conosciuto a Piacenza. Ma il vecchio agitatore non era affatto
dell'opinione che la Toscana abbisognasse di straordinari
apprestamenti difensivi. «Voi avete bisogno d'un plebiscito,
di una urna per lo scrutinio, e non d'un esercito», diceva. Al
che i due patrioti toscani opponevano l'eventualità di un
intervento austriaco o austro-francese. Un intervento? Ma era
un'ipotesi assurda, replicava il Kossuth. Del resto perché
non se ne sinceravano il Bianchi e il Montanelli, sollecitando
esplicite assicurazioni a Palazzo reale? Fu allora, secondo la
versione dello stesso Kossuth, che il Montanelli annuendo al
consiglio, si precipitò in piazza Castello «agitando
furiosamente il suo unico (?!) braccio. Una mezz'ora dopo ritorna,
irrompe nella mia stanza, mi getta le braccia al collo: Niente
intervento! niente intervento! Il re mi ha dato la sua parola
d'onore!»295.
Scrivendo parecchi anni piú tardi i suoi ricordi di quegli
anni fortunosissimi, il Kossuth si lasciò sfuggire parecchie
inesattezze; in questo caso, oltre a... tagliare un braccio al
nostro Montanelli, egli scambiò l'imperatore col re, o almeno
il Montanelli col Bianchi; il Montanelli infatti ottenne udienza, la
sera del 15, da Napoleone III296, mentre fu il Bianchi che l'ebbe da
Vittorio Emanuele. Ma, a parte questo, il suo racconto, colorito e
vivace, resta sostanzialmente esatto. Come si svolse il colloquio
fra il Montanelli e l'imperatore? E dal suo augusto interlocutore
non altro seppe il Montanelli se non che le restaurazioni non
sarebbero state imposte «armata manu»? Il Kossuth a
questo proposito tace: bisogna dunque ricorrere ad altre
testimonianze. Le dichiarazioni imperiali, integranti quelle
già fatte al Pepoli e al Cavour297, ebbero in realtà
tale importanza e furon causa, nel seguito, di cosí aspre
polemiche che il lettore vorrà consentirci di entrare al
proposito in qualche particolare.
La relazione piú diffusa della quale disponiamo circa questo
colloquio è quella che ne dette, fino dal giorno appresso, il
Bianchi in un suo dispaccio al Boncompagni:
Imperatore ha detto a Montanelli: la restaurazione della dinastia di
Lorena non dee farsi con aiuti stranieri: soldati austriaci non
possono adoperarsi fuori dei paesi attribuiti all'Austria.
S'istituisca in Toscana un governo provvisorio; interroghi per
sí o per no il paese, se voglia o no casa Lorena; plebiscito
trasmettasi Congresso europeo, coi voti del paese qualora respinga
lorenesi. Imperatore promette farsene sostenitore al Congresso.
Insiste forte non accadano disordini e passioni demagoghe. Toscana
farà bene richiamare tutti i suoi volontari... L'imperatore
fattagli da Montanelli la questione cosa sarebbe avvenuto se la
Toscana si fosse pronunziata per l'annessione ha risposto:
impossibile!298.
Questa versione viene integrata da quella piú tardi redatta
da un amico del Montanelli, il Redi:
Presa la parola per primo, l'imperatore gli svelò senza
mistero la ragione per la quale si era fermato (Prussia),
aggiungendo dover ritenersi la indipendenza d'Italia stabilita come
base di un nuovo diritto pubblico europeo; non potersi però
conseguire se non in due fasi, delle quali la prima aveva avuto
luogo, e per la seconda si sarebbe poi presentata l'occasione
opportuna. Mettendo nei preliminari per la pace il patto del non
intervento ci aveva posti in grado di prepararci per quella.
Richiesto dal Montanelli che cosa credesse doversi fare in attesa di
questa seconda fase, egli rispose di adottare quelle istituzioni che
sarebbero reputate piú confacenti al genio italiano e di
farsi forti. Allora il Montanelli gli comunicò com'egli
opinasse doversi intendere all'unità d'Italia.
«L'unità? mai!»299, piuttosto irritato
l'imperatore riprese: «Pensate che Roma è necessaria al
papa». E informandolo di avere nei preliminari convenuto che
avrebbe favorito una confederazione italiana, a quella gli disse
bisognava attenersi. Osservatogli dal Montanelli siccome egli stesso
avesse consigliato di rendersi forti, e siccome le confederazioni
riescano generalmente deboli, dopo alcuni istanti di riflessione
aggiunse: «Nel caso l'unità non potrebbe essere
possibile che dal centro: ma non se ne può parlare per
ora». E lo confortò a tornare in Toscana e ad usare di
tutta la sua influenza per far adottare una politica che conducesse
al risultato da lui suggerito300.
In base ad una terza versione, anche questa spettante ad un amico
del Montanelli, il Pini, l'imperatore avrebbe inoltre esplicitamente
dichiarato al suo interlocutore che la politica delle annessioni
poteva riuscire assai pericolosa per l'Italia: «franche parole
(le quali) produssero una forte sensazione sull'anima di
Montanelli»301.
Tralasciamo altre versioni o calcate su queste302 o visibilmente
inventate303, tralasciamo del pari l'accenno che al colloquio
imperiale il Montanelli stesso dedicò in una sua lettera
apologetica data alle stampe due anni piú tardi304. Nel
complesso il punto di vista di Napoleone III resulta infatti
già sufficientemente chiarito da quel che ne scrissero il
Bianchi, il Redi, il Pini; mentre le loro narrazioni corrispondono a
quanto, circa le intenzioni dell'imperatore all'indomani di
Villafranca, ci resulta da altri suoi colloqui o lettere.
Particolarmente importante a noi sembra, e lo additiamo al lettore
in quanto vale a chiarire il successivo indirizzo dell'azione
politica montanelliana, l'accenno del Redi circa la possibile
unificazione «dal centro» (come contrapposto alla
unificazione per via di annessioni al Piemonte) ammessa
dall'imperatore, ancorché aggiungesse che non era il caso di
occuparsene per allora.
Si parlò, nel colloquio, del principe Napoleone? A giudicare
dai resoconti fin qui riportati, sembrerebbe di doverlo escludere;
senonché in una lettera pubblicata sui giornali, nel gennaio
del '61, dal Mariscotti, lancia spezzata del Montanelli, questi,
polemizzando col Bianchi, che accusava il Montanelli di essersi
rassegnato a quella candidatura fino dal suo primo ritorno a Firenze
alla fine di luglio del '59305, ebbe a scrivere:
Il Montanelli non poteva promuovere la candidatura del principe
Napoleone, come quegli che nell'ultimo abboccamento avuto a Torino
con l'imperatore, era stato da quegli avvertito... che al tempo
stesso che sarebbe stato consentito ai popoli dell'Italia centrale
di eleggersi nuova dinastia, non pensassero per altro a nessun
principe della casa imperiale di Francia, perché egli, lo
imperatore, non avrebbe potuto accettare la elezione senza esporsi
al pericolo di una guerra europea.
Questo e non altro avrebbe il Montanelli riferito al Bianchi,
recisamente attenendosi al punto di vista imperiale306. Anche la
testimonianza del Mariscotti deriva, certo, da confidenze del
Montanelli: a renderla attendibile vale tuttavia la circostanza che
essa non solamente non contrasta con informazioni d'altra
provenienza sulle intenzioni allora nutrite dall'imperatore circa il
principe Napoleone, ma anzi ne riceve integrale conferma. Prima di
Villafranca e per diverse settimane dopo l'8 di luglio, l'imperatore
infatti espresse invariabilmente la sua decisa contrarietà a
progetti del genere: che poi il suo giuoco politico mirasse a
rendere impossibile ogni altra soluzione della questione toscana e
per questa via a far sí che la stessa diplomazia europea
finisse col forzargli la mano sul punto della candidatura
«plonploniana», resta da vedersi (invero noi crediamo
che sulla astuzia sopraffina di Napoleone III si sia alquanto
esagerato...); comunque ciò non ha a che fare col nostro
assunto immediato.
Il colloquio con l'imperatore dette al Montanelli l'impressione che
non convenisse in alcun modo opporsi alle sue vedute, o, come si
dice, «prenderlo di punta». Napoleone aveva dichiarato
formalmente impossibili le annessioni; su altre possibili soluzioni,
per contro, non si era pronunciato con altrettanta risolutezza.
Perché dunque, adottando il programma delle annessioni,
sfidare apertamente quell'unico fra i potentati europei il quale,
seppure aveva deluso, all'ultimo, le speranze degl'Italiani, aveva
in concreto iniziato l'opera dell'indipendenza della patria loro?
Questo programma annessionistico, d'altronde, non era mai stato
veduto, già lo sappiamo, con particolare favore dal
Montanelli: era forse logico attendersi che vi si convertisse
proprio allorquando l'imperatore gli dichiarava d'esservi
recisamente contrario? Lasciata a se stessa, certo la Toscana
avrebbe potuto correre gravissimi pericoli, e l'esperienza del '49
era anche troppo eloquente in proposito; ma la garanzia del non
intervento, da un lato, e la possibilità di una lega militare
e politica con le altre regioni dell'Italia centrale non bastavano
forse a eliminare ogni eccessiva ansietà al riguardo?
Villafranca, del resto, non aveva modificato l'opinione del
Montanelli, quanto all'onnipossenza napoleonica nel fissare le
condizioni della pace definitiva per l'Italia. Villafranca, se mai,
additava sempre piú nell'imperatore il vero padrone d'Europa.
Lo si era accusato di debolezza, di ondeggiamenti, d'irresolutezza;
ma gli avvenimenti non dimostravano forse precisamente il contrario?
L'imperatore aveva voluto la guerra, ed alla guerra era giunto
nonostante le fortissime opposizioni scatenatesi in tutta la
Francia, ne aveva fatto annunziare il programma ed i limiti in una
celebre pubblicazione, e a quel programma e a quel limiti si era
tenuto sostanzialmente fedele, nonostante che i travolgenti successi
riportati lo avessero fatto temporaneamente pencolare verso
soluzioni non prevedute; vittorioso, aveva saputo troncare la
guerra; aveva sfidato l'Europa, ed ora aveva la saggezza di
sacrificare all'Europa l'immensa popolarità che si era
acquistato in Italia. Non dimostrava tutto ciò
irrecusabilmente che l'imperatore sapeva quel che voleva, e quel che
voleva sapeva ottenere? Conoscere tempestivamente i suoi effettivi
propositi circa il riassetto italiano, e disporsi a secondarli,
nella prevedibile impossibilità di una efficace opposizione,
significava dunque mettersi in grado di ricavarne il massimo
vantaggio.
Il quale ragionamento apparirebbe incontestabile se Napoleone III
fosse stato davvero l'uomo che il Montanelli, in base alle
apparenze, non poteva non supporre che fosse307, se Villafranca non
avesse determinato in Italia una situazione estremamente dinamica e
tale da imporre a tutta la penisola, o prima o poi, l'alternativa
fra due, e soltanto due, soluzioni estreme, lo status quo ante,
cioè, o la compiuta unità nazionale; se, finalmente,
la politica napoleonica non avesse provocato nelle cancellerie
europee, e piú particolarmente in quella inglese, le reazioni
piú imprevedute. Perché il Montanelli non seppe
preveder tutto ciò dovremo noi tacciarlo, per usare di una
espressione moderna, di rinunciatarismo? No davvero. Pur costernato
per la brusca interruzione della guerra, egli era infatti
sinceramente persuaso che il programma della integrale indipendenza
italiana sarebbe stato, in un secondo tempo, completato dallo stesso
Napoleone, e che l'ormai inevitabile instaurazione e il libero
funzionamento di regimi costituzionali in tutte le regioni d'Italia
avrebbe fatalmente condotto, da ultimo, in un modo o nell'altro,
all'unità nazionale. Condizione essenziale perché
ciò potesse verificarsi era il non intervento: e si doveva
rischiare che l'imperatore, contrariato dalle velleità
annessionistiche degl'italiani lasciasse mano libera all'Austria o,
peggio ancora, si concertasse con essa per procedere, a mano armata,
ad eventuali occupazioni dell'Italia centrale al fine di sottrarla
al Piemonte?
Il Montanelli, insomma, pur brancolando anch'egli nel buio, fu dei
primi a intuire tutto il partito che si poteva e si doveva trarre da
quell'armistizio che anche a lui si era presentato, in un primo
tempo, come una tremenda iattura; dei primi a intuire, sia pure
confusamente, che proprio su Villafranca avrebbe potuto imperniarsi
la seconda fase della rivoluzione italiana: a condizione però
che il centro propulsivo si spostasse ormai dal Piemonte all'Italia
centrale. Giacché se con le annessioni si fosse liquidato il
problema dell'Italia centrale, l'unità della penisola tutta,
correva il rischio di non piú realizzarsi, determinandosi
ormai un equilibrio possibile fra il regno dell'alta Italia, gli
Stati della Chiesa e il regno delle Due Sicilie: il dinamismo
rivoluzionario italiano avrebbe potuto in quel caso allentarsi fino
anche ad annullarsi del tutto. Invece se l'Italia centrale,
liberamente e fortemente governata, avesse conservato
provvisoriamente la sua autonomia, ponendosi di fronte all'Europa
come campione dell'indipendenza e della futura unificazione della
penisola, la questione italiana sarebbe rimasta all'ordine del
giorno della diplomazia mondiale, i sedimenti rivoluzionari
serpeggianti nelle province romane, napoletane e siciliane ne
sarebbero stati automaticamente stimolati e ravvivati, i governi di
Roma e di Napoli si sarebbero sollecitamente trovati nel dilemma o
di trasformarsi conformemente ai voti della popolazione (e quindi
anche di compiere passi nel senso dell'unificazione italiana) o di
affrontare a breve scadenza una rovinosa rivoluzione.
Tali le riflessioni che al Montanelli vennero suggerite dal
colloquio con l'imperatore ed alle quali, come già si
è detto, egli ispirò nel seguito la sua azione
politica. Né gioverebbe qui di contrapporre ad esse le altre,
non meno evidenti, che avrebbero pur potuto derivarsene, e che
infatti ne derivarono i piú, pervenendo a conclusioni opposte
alle sue: quelle appunto che vennero poi coronate dai fatti. Ma a
noi deve bastare per adesso di avere accennato come un animo
italianissimo potesse, all'indomani di Villafranca, oppugnare
strenuamente la politica delle annessioni, non già – come si
volle – in ragione ed in nome di nostalgie autonomistiche o, peggio,
d'imperdonabili preferenze per etichette o per ordinamenti
stranieri, ma per l'appunto in ragione ed in nome di quegli stessi
principî unitari, o nazionali, ai quali obbediva allora ogni
italiano cosciente. Accenno, ahimè, tutt'altro che superfluo,
quando per un poco si tengan presenti le inaudite deformazioni e i
camuffamenti che il programma bandito dal Montanelli ebbe allora a
subire per parte dei suoi avversari politici.
Ma torniamo a Torino e a quella notte del 15 luglio. Uscito da
palazzo reale, il Montanelli si affrettò dunque dal Kossuth,
dal Valerio, dal Bianchi, ai quali riferí le dichiarazioni
imperiali308. L'indomani egli riprendeva, con raddoppiata lena, le
trattative per l'armamento dell'Italia centrale: non aveva, è
vero, alcuna posizione ufficiale, ma mentre in qualche modo poteva
dirsi il rappresentante dell'ala sinistra del patriottismo toscano
rallié alla monarchia, poteva parlare altresí nel nome
di Garibaldi. E Garibaldi alla testa di un esercito dell'Italia
centrale non era già di per sé un apporto d'immensa
importanza oltreché tutto un programma politico? Celestino
Bianchi concordava con lui pienamente, almeno per allora: al punto
che, essendosi il Montanelli, quella stessa mattina del 16 luglio,
profferto di servire la causa toscana nel miglior modo che a lui
fosse possibile ormai, recandosi cioè in missione a Parigi,
dove avrebbe potuto mobilitare tutte le preziose sue aderenze,
specie nel mondo giornalistico, e insieme fruttare a beneficio del
suo paese la confidenza ripetutamente dimostratagli dall'imperatore,
lo stesso Bianchi senz'altro s'impegnò di riferirne a Palazzo
Vecchio, aggiungendo «che sperava che l'offerta dei suoi
servigi non sarebbe stata respinta». Riteneva il Bianchi
davvero utile il conferimento di un incarico del genere al
Montanelli, oppure non ad altro mirava che ad allontanarlo dalla
Toscana, dove – il Montanelli stesso doveva convenirne – egli
avrebbe potuto diventare, suo malgrado, «bandiera di
agitazione a causa dei suoi precedenti?»309. Chi sa. Diversi
mesi piú tardi, invero, il Bianchi affermò che quel 16
luglio il Montanelli «era con noi», in altri termini che
conveniva in pieno col programma del governo di Firenze, il quale
«persisteva, quanto era in lui, nella sua politica
unitaria»310. Ma che significava «politica
unitaria»? Si poteva benissimo essere annessionisti-unitari,
come antiannessionisti-unitari. Del resto, col propugnare
apertamente il suo piano di una lega fra gli Stati dell'Italia
centrale (quella lega che il Ricasoli, per parte sua, vide sempre di
mal occhio), il Montanelli, ci sembra, chiariva abbastanza quali
fossero, al proposito, le sue vedute politiche. Sarebbe assurdo
presumere, d'altra parte, che, mentre gli risuonava ancora
nell'orecchio quell'«impossibile» dell'imperatore, egli
s'impegnasse col Bianchi nel senso annessionistico.
No: il Montanelli si limitò ad offrire, quali che fossero, i
suoi servigi; e la prova indiscutibile l'abbiamo proprio nella
lettera che, probabilmente dietro invito del Bianchi, egli ebbe a
scrivere, il 17 luglio, al Ricasoli: nella quale invano si
cercherebbe una professione di fede annessionistica. Essa311 non
conteneva, in realtà, che una cavalleresca quanto generica
raccomandazione della causa italiana al capo del ministero toscano,
unitamente ad una esplicita presa di posizione contro quelle
restaurazioni, che (bisogna pur ricordarlo) uomini come il
Lamarmora, successore del Cavour, come il Minghetti, il Rattazzi e
il Desambrois, primo plenipotenziario sardo al convocato Congresso,
stimavano e dichiaravano in quei giorni difficilmente evitabili312.
Sulle annessioni, «ne quidem verbum»!
Sarebbe spettato, dunque, al governo toscano di esigere da lui, nel
caso, una preventiva professione di fede in tutto conforme alle sue
direttive: non si era dato tanto addosso al Montanelli, a Firenze,
per la missione Aquarone e per le pretese sue mene in favore del
principe Napoleone? È il Bianchi stesso, invece, che ci
assicura, non senza nostra legittima meraviglia, che «il
governo della Toscana accettò le proposizioni del Montanelli
e m'incaricò di trattare per l'assegnamento». Strano
che un incarico di tanta fiducia si assegnasse ad un... avversario
politico! Nuova riprova del grave (seppure comprensibilissimo)
smarrimento che colpí il governo di Firenze nei giorni
immediatamente seguenti all'armistizio: allorquando, diciamolo pure,
alle speranze annessionistiche si temette di dover ormai rinunziare.
Ma c'è di piú: incaricato di trattare col Montanelli
per l'assegnamento, il Bianchi a sua volta aveva delegato l'incarico
al «comune amico avvocato Menichetti», del quale vedemmo
già, piú sopra, la lettera 8 luglio al Montanelli. Era
costui, quel che si dice una «creatura» del Montanelli
stesso; ma nel '59 egli era diventato un pezzo grosso, a Palazzo
Vecchio! Esponente della Società Nazionale, già
commissario governativo in provincia, ben presto redattore della
«Nazione», poteva definirsi un fiduciario del governo
toscano. Ebbene, in che senso si esprimeva allora costui nelle sue
trattative col Montanelli? Leggiamo un'altra sua lettera del 18
luglio:
Di fusione si capisce che non è a parlarsi – scriveva –: pure
forse non sarà male esprimere questo voto. In qualunque modo
la nostra professione di fede deve essere contro la passata
dinastia; per la dinastia mi pare, della principessa Clotilde col
principe Napoleone, per l'ingrandimento della Toscana313.
Che dire, di fronte a questo singolare documento, se non che il
tanto deprecato possibilismo del Montanelli incontrava negli
ambienti di governo, a Firenze, una... concorrenza temibile?
Il 18 di luglio, intanto, il Montanelli, dopo avere annunziato al
Ricasoli il prossimo arrivo a Firenze del Siccoli, noto emissario
garibaldino, verosimilmente incaricato di allacciare le trattative
per la lega militare e per il comando a Garibaldi314, partiva alla
volta di Lovere per riferire al suo generale circa le prime intese
strette a Torino315. L'abboccamento ebbe luogo il giorno 19316 e il
resultato ne fu che il Garibaldi gli rilasciò la nota
dichiarazione: «In caso che i governi provvisori di Modena,
Toscana, e Bologna, mi offrissero il comando in capo delle truppe
dell'Italia centrale, io lo accetterò volentieri»317.
Senza indugio il Montanelli riprese perciò (il 20 luglio) il
suo viaggio in direzione di Piacenza, Modena e Bologna318, dove,
munito di questa dichiarazione e accompagnato, a quanto sembra, dal
Malenchini319, si proponeva di entrare in rapporti col Farini e col
Pepoli320.
Senonché non si era ancora separato dal Garibaldi, si
può dire, che da Torino il Peruzzi si affrettava a
telegrafare e a scrivere al Ridolfi, a Firenze: «Dicesi parta
da Milano per Toscana il Montanelli. Qui consigliano d'impedire lui
e Guerrazzi»; «conviene impedire il ritorno del
Montanelli e del Guerrazzi non tanto per quel che farebbero, quanto
per quello di cui potrebbero essere il pretesto, e per il cattivo
effetto che i loro nomi farebbero all'estero. Perciò mi
varrò dell'azione confidenziale ed amichevole dei loro
amici...»321. Questa era la lusinghiera accoglienza che
all'esule impaziente, dopo dieci anni, di rivedere la patria, si
preparava! Ignorava dunque il Peruzzi – il quale, il 21 del mese,
partiva da Torino per Parigi, investito della nota missione
diplomatica – che il Montanelli era stato designato a seguirvelo, e,
verosimilmente, a collaborare con lui? Vedremo piú oltre che
il Peruzzi, in realtà, stimava, sí, pericoloso il
Montanelli in Toscana, utilissimo invece a Parigi. Senonché
ed egli ed altri toscani eminenti, come lui timorosi della
popolarità di un Montanelli in Toscana, non sapevano e non
ricordavano che proprio l'imperatore (sul quale affettavano di
credere che il nome del Montanelli, evocante il '48, potesse
suscitare sfavorevole impressione) lo aveva spinto a recarsi in
Toscana?
L'ex triumviro, intanto, ignaro di tutto ciò, proseguiva nel
suo viaggio diplomatico. Ottenuto senza difficoltà l'assenso
del Farini e del Pepoli alla proposta lega e al
«generalato» del Garibaldi322, varcava gli Appennini,
ansioso di conferire personalmente col Ricasoli, oltreché di
rivedere finalmente la sua terra e la sua casa323. Giunse a Firenze
il 25 o il 26 di luglio, e subito si recò a Palazzo Vecchio,
dove – attestò il Corsi in una lettera al Guerrazzi, del 27 –
«tutti gli hanno stretta la mano, e con ciò solo furono
sopite tutte le vecchie ruggini»324. Altro che sopite, come
vedremo! Altro che «riconciliazioni con tutti o quasi tutti
gli antichi amici» come, per parte sua, ebbe a scrivere il
Cambray-Digny!325.
Moltissime, e di tutti i partiti, furono le personalità
politiche che si affrettarono a visitarlo, tanto che quasi subito
egli si trovò nel bel mezzo degli affari toscani, adesso
particolarmente agitati per l'imminenza delle elezioni
dell'assemblea: autonomisti piú o meno lorenesi in cuor loro,
fautori di un regno separato dell'Italia centrale, napoleonisti326,
annessionisti, sostenitori di una candidatura sabauda indipendente,
malcontenti e intriganti. «Non citerò le molte persone
che appena arrivato in Firenze vennero a trovarmi... e mi parlarono
nello stesso senso della lettera menichettiana», scrisse
piú tardi il Montanelli stesso327; e il Redi: «Gli
davano pensiero i popolani del Dolfi i quali chiedevano con
insistenza la fusione al Piemonte..., avendo (egli) preso impegno di
fare della Toscana il centro egemonico della futura
unità»328. Celestino Bianchi non fu degli ultimi a
visitarlo; ma ormai le loro vie divergevano: «Non
entrerò in molti particolari sul nostro colloquio –
cosí il segretario generale del governo toscano, quando, nel
gennaio del '61, gli stava a cuore di «silurare» la
candidatura del Montanelli al Parlamento nazionale329 –: dirò
solo che lasciandomi conchiuse dicendo: bisogna persuadersi che
l'idea dell'unità era un bel sogno al quale è forza
rinunziare. Non c'è che una volontà in Europa che sia
rispettata; non c'è che una parola che sia ascoltata: quella
dell'imperatore dei Francesi: la Toscana ormai nella sua mente
è destinata: sapete a chi: bisogna piegare la testa... Da
quel giorno in poi non ebbi mai piú occasione di trovarmi col
professor Montanelli, né di parlare con lui». Orbene:
è verosimile che il Montanelli tenesse col Bianchi un
discorso di questo genere? Innanzi tutto si deve osservare che non
una sola parola scritta dal Montanelli allora, prima di allora o
dopo di allora, ci permette di credere che egli rinunziasse mai alla
vagheggiata unità d'Italia, seppure si vedesse o si credesse
costretto a relegarne l'attuazione in un avvenire piú o meno
lontano (e sí che la censura postale, accuratamente eseguita
nell'ufficio stesso del Bianchi, non si faceva troppo riguardo nel
sequestrare la corrispondenza dei personaggi sospetti; figuriamoci
se al Montanelli, fatto segno ad accuse cosí aspre e
persistenti, si fosse potuto contestare la prova provata di questa
sua rinunzia: lo si sarebbe senz'altro ridotto al silenzio!)
Sembrerebbe inconcepibile, d'altronde, che proprio allorquando il
Montanelli andava tenendo discorsi cosí poco... ortodossi, i
governanti toscani (vedi testimonianza del Corsi) lo accogliessero
con tanta cordialità, almeno apparente...
Come si difese il Montanelli da questa accusa del Bianchi? Nel modo
piú ragionevole: riconoscendo francamente, cioè, quel
tanto di vero che in essa si conteneva.
Il Bianchi, – egli rispose infatti330, – non fu narratore
veridico... quando della conversazione che avemmo in Firenze
riferí parole che non ricordo avere pronunciate, e non
pronunciai certo nel senso che egli volle dar loro, per insinuar
dubbi sulla indipendenza del mio carattere, e sulla schiettezza dei
miei sentimenti italiani. Sbaglia poi grandemente il signor
Celestino Bianchi, se mi stima uomo da aver paura di dichiarare che
dopo la pace di Villafranca vi furono momenti sí incerti, e
sí perigliosi, nei quali anch'io potei credere salutare
all'Italia l'eventualità di una Reggenza del principe
Napoleone, benché nulla oprassi a tal uopo, e non contraessi
alcun impegno.
Or dunque, esclamerà a questo punto il lettore,
«habemus confitentem reum!» A che continuare, dopo
questa franca ammissione, a contestare la versione del Bianchi?
Senonché ci si permetterà di osservare che,
quand'anche fosse dimostrato che fino dalla seconda metà di
luglio del '59 il Montanelli optasse per la soluzione napoleonica
del problema toscano, questa non implicava affatto, almeno nelle sue
intenzioni, una definitiva rinunzia al programma unitario.
«Reggenza», infatti, non significa che temporanea
occupazione del trono nel nome e nell'attesa del legittimo e
definitivo suo detentore. Orbene, in nome di chi il principe
Napoleone sarebbe stato proclamato reggente se non, notoriamente, in
quello di re Vittorio suo suocero? E qual meraviglia che a molti
patrioti toscani l'idea di quella reggenza si presentasse allora
spontanea come la sola via d'uscita dalla gravissima situazione
determinatasi dopo Villafranca, in quanto su di essa si sarebbero
potuti raccogliere i consensi sia del Piemonte che della Francia? Si
è visto già come il Menichetti fosse per l'appunto di
quella opinione; uomo di secondo rango costui? E sia pure; ma che
dite di fronte a documenti ineccepibili dimostranti che personaggi
politici di prima grandezza, come il Peruzzi, il Matteucci, il
Corsi, il Ridolfi, ed altri ancora331, inclinarono nettissimamente,
in quel torno di tempo, verso la candidatura napoleonica al trono
toscano, se non addirittura verso altre ben piú di quella
straniere all'Italia? Sbagliarono anch'essi, si dirà; e in
ogni caso il loro errore non può certo addursi a discolpa del
Montanelli. Verissimo: a condizione però che il giudizio di
condanna o di assoluzione sia uguale per tutti...
È nostra opinione, comunque, che alla fine di luglio del '59
il Montanelli, pur non scartando a priori l'ipotesi napoleonica, non
si esprimesse in concreto che in senso antilorenese,
antiannessionistico332, e in favore della costituzione di un forte
organismo politico nell'Italia centrale. Il suo programma immediato
era pur sempre quello di far designare il Garibaldi a comandante
degli eserciti collegati. E che? Poteva mai il Montanelli
immaginarsi che il generale si sarebbe messo al servizio del
principe Napoleone? Le altre testimonianze delle quali disponiamo
non contraddicono al nostro assunto. Non quella del Capponi
(«ora il Montanelli promette, o minaccia, o annunzia PlonPlon;
ma senza però raccomandarlo»)333, non quella del
Cambray-Digny («non manca chi faccia partito per altre
dinastie. La napoleonica è messa avanti da diversi, tra i
quali primeggia il Montanelli. Io, per dire il vero, non l'ho udito
proporla decisamente, ma mi parve che andasse per quella
via»)334, e neanche quella del Peruzzi, che da Parigi
riportava, sul conto del Montanelli, pretese rivelazioni del
ministro francese a Firenze335. Solo il Massari e il La Farina,
entrambi, allora, fieri avversari del Montanelli, ce lo dipingeranno
sordamente intrigante, non appena rientrato in Firenze, in favore
del principe Napoleone: senonché non si dovranno prendere con
ampio beneficio d'inventario le costoro asserzioni? Il La Farina
intanto, non si fece eco di queste accuse che alla fine di
settembre, retrospettivamente cioè, e proprio allorquando la
canéa antimontanelliana ebbe raggiunto il suo apice336;
quanto al Massari, questi, pur attribuendo a re Vittorio in persona
il severo giudizio sul Montanelli supposto campione di
«plonplonismo», non dubitò di metterlo in fascio
col Cipriani e col Farini337: or chi non sa quanto sospetti, a dir
poco, siano i giudizi torinesi del tempo sull'attività,
nonché di costoro, di chiunque non si mostrasse rigidamente
ossequente ai cenni del governo piemontese?
Quale si fosse, sulla fine di luglio del '59, l'effettivo programma
del Montanelli noi sappiamo di già; ma in base a qualche
altro documento ci è dato entrare al proposito in qualche
maggiore precisazione. Ecco ad esempio lo schema di un discorso da
lui pronunziato nella sua Fucecchio, il 28 del mese:
So che qualcuno volle farmi delitto d'amare la Francia. Lo
compatisco. Non li vide partire (i soldati francesi) come li ho
veduti io. Non passò con loro come ho passato io le Alpi.
Tutto il mio credo si riepiloga in tre principali principî, e
in tre uomini. Principî: 1) Indipendenza; 2) Unità
nazionale; 3) Alleanza con la Francia. Il resto sono espedienti. Gli
uomini: 1) Napoleone III: mosse la questione italiana. Senza di lui
non saremmo qui. Difficoltà immense: le vincerà. 2)
Vittorio Emanuele: fermo allo Statuto; strinse la alleanza con la
Francia. 3) Garibaldi, personificazione della democrazia, il
capitano del popolo. Mano di Garibaldi a Vittorio, mano di Vittorio
a Napoleone; o con l'annessione o senza, tutto anderà. Guai
se il nodo si scioglie338.
Dove, a parte l'insistenza probabilmente eccessiva sui
beneficî dell'alleanza francese, ben si vede come il
Montanelli, nonché abbandonare il caposaldo
dell'unità, vi si afferrasse tutto, anzi, su di essa
imperniando la sua propaganda. Ma – si dirà – come prevedeva
il Montanelli che questa unificazione sotto gli auspicî
francesi potesse realizzarsi? Ci viene qui in soccorso, ancora una
volta, la testimonianza del Redi339: secondo il quale l'idea
montanelliana sarebbe stata, fino d'allora, quella di ottenere
dall'imperatore e, mercé i suoi buoni uffici, dal Congresso
delle potenze, che, in cambio della volontaria rinunzia da parte
dell'Italia centrale ad annettersi al Piemonte, venisse concessa al
Veneto l'autonomia amministrativa e politica, oltre alla
facoltà di ordinare un suo esercito. L'uscita delle truppe
austriache dai confini d'Italia avrebbe d'altronde permesso di
sollecitare il ritiro anche del corpo di occupazione francese a
Roma, cioè il definitivo conseguimento dell'indipendenza e
della nazionalità italiane.
Riconosciute esse nel diritto pubblico europeo (ragionava il
Montanelli), l'unificazione d'Italia, non avversata dalla Francia,
diviene una questione d'ordine interno, e la Toscana non
tarderà ad attrarre a sé a una a una tutte le membra
della patria italiana. Se torniamo con la mente a quel tempo –
cosí il Redi – ... il concetto non apparirà tanto da
nemici del proprio paese come si fece passare340.
Senonché questa presa di posizione, in pieno contrasto con
quelle che erano allora le direttive del governo responsabile, non
era destinata di certo a migliorare le relazioni del Montanelli, con
i circoli ministeriali.
I governi dell'Italia centrale, intanto, primo in ordine di tempo
quello di Firenze, offrivano al generale Garibaldi, conformemente
agli accordi presi e col Montanelli e col Malenchini341, il famoso
comando in capo. Il Garibaldi, superate talune difficoltà che
si opponevano alla sua accettazione342, si dirigeva immediatamente
in Toscana343; ben presto veniva formalmente conclusa la lega
militare fra gli Stati dell'Italia centrale. Erano, entrambi,
avvenimenti della piú alta importanza (in buona parte dovuti,
come sappiamo, all'opera personale svolta dal Montanelli); i quali,
preceduti dalla convocazione dei collegi elettorali in Toscana e in
quegli altri Stati, venivano a determinare in questa parte d'Italia
una situazione nuova, cosí suscettibile di prevedibili
sviluppi rivoluzionari, che il Montanelli non si sentí
piú di lasciar la Toscana come avrebbe dovuto fare se avesse
accettato la nota missione in Francia. Gli pareva, adesso, che la
causa italiana si potesse servire assai piú efficacemente a
Firenze che non a Parigi nelle anticamere dei ministeri o nelle
redazioni dei grandi giornali; e ciò tanto piú che la
diplomazia francese pareva allora sviarsi, con le successive
missioni De Reiset e Poniatowski344 – con le quali, diciamolo subito
ben chiaro e ben alto, il Montanelli non ebbe assolutamente nulla a
che fare345 – in assurdi e sterili tentativi volti a persuadere i
toscani ad accettare una restaurazione lorenese.
Tramontata dunque la prospettiva di un impiego diplomatico, e
tramontata, sembra, unicamente per volontà del Montanelli346,
l'ex triunviro si presentò candidato alle elezioni politiche.
Che gli ambienti ufficiali non vedessero con soverchio entusiasmo
questo suo divisamento (il Montanelli era pur sempre l'uomo della
Costituente: una volta membro dell'assemblea non avrebbe cercato di
riesumare l'antico progetto?) è piú che comprensibile,
e del resto ci consta sicuramente347: si deve per altro riconoscere
che nulla di men che corretto fu tentato dal governo per escluderlo
dall'assemblea: tanto che il 7 d'agosto egli otteneva, nella sua
Fucecchio, una votazione quasi plebiscitaria348.
Eccolo adunque deputato; eccolo investito, con gli altri suoi
colleghi, di una immensa responsabilità di fronte all'Italia
e all'Europa. Ben si sapeva, a Palazzo Vecchio, che si poteva
contare su di lui per la progettata solenne votazione antilorenese;
c'era da aspettarsi perciò, che gli amici del governo
facessero di tutto, in quella prima metà d'agosto, per
convertire lui e i molti altri deputati antiannessionisti anche al
programma dell'unione al Piemonte. Quindi lusinghe, pressioni,
intercessioni autorevoli. Pel Montanelli, in particolare, vennero
messi di mezzo, fra gli altri, perfino il Manzoni e il Garibaldi, ai
cui consigli si pensò che egli si sarebbe, per deferenza,
inchinato349. Ma il Montanelli non piegò. Era forse legato da
impegni assunti personalmente con l'imperatore? Cosí si
sussurrò da molti, i quali evidentemente ignoravano come un
uomo di fede possa, per non tradire le sue convinzioni, sfidare
sereno l'impopolarità e, peggio, gli oltraggiosi sospetti
anche degli amici. Ma sarà proprio necessario ricorrere a
supposizioni del genere, quand'anche si voglia considerare la sua
mancata adesione, in seno all'assemblea, al voto dell'immensa
maggioranza dei deputati, un gravissimo errore?
Le accuse di «plonplonismo» al suo indirizzo si erano
andate intensificando e aggravando. Le echeggiavano a gara, ormai,
da Parigi il Pasolini350 e il Peruzzi351, da Londra il Corsini352 e
a Firenze un po' tutti quanti, dal Capponi353 al Mazzini, di fresco
giuntovi, come si sa, in un incognito parecchio trasparente354.
Queste accuse acquistavano adesso tanta maggior consistenza in
quanto resultava che alla corte imperiale, nonostante le recise
smentite degli ambienti ufficiali, il progetto
«plonploniano» cominciava ad essere favorevolmente
gustato355. Non si venne perfino a sapere che il 19 d'agosto eran
partiti da Parigi alla volta d'Italia due agenti del principe
Napoleone, uno dei quali, il Texier, amico personale del Montanelli,
e l'altro, il Sarda Garuga, espressamente incaricato dal principe di
visitare diverse personalità dell'Italia centrale356, fra le
quali il Farini, il Cipriani, il Pepoli, il Matteucci,
l'Albéri, il Montanelli?357.
Sembrerebbe dunque di dover convenire che, se non alla fine di
luglio, almeno verso la metà del mese successivo il
Montanelli «scoprisse le sue batterie». Viceversa
è nostro preciso parere che, nonostante l'imponente mole di
prove a suo carico, il suo atteggiamento restasse anche allora
quello che già avemmo a chiarire per l'addietro: e
cioè che né egli né gli altri
«francesizzanti» promuovessero attivamente la
candidatura napoleonica, ma nel contempo neanche la scartassero,
ritenendosi positivamente obbligati, per il bene stesso del loro
paese, a indagare la convenienza e la probabilità di riuscita
nel modo stesso che adoperavano per le altre soluzioni proposte del
problema toscano358. Il Montanelli si era tenuto, nel complesso, in
riserva fin quando i destini di questa parte d'Italia erano rimasti
impregiudicati; ma ormai che, riunita l'assemblea, si voleva dal
governo sforzarla a votare un partito definitivo, egli avvertiva
l'imprescindibile dovere di uscire da quel riserbo per definire il
suo punto di vista: il quale comportava l'attiva collaborazione
delle quattro assemblee dell'Italia centrale in vista di addivenire
alla formazione di un unico Stato da sottoporsi, in attesa degli
eventi ad una dittatura o reggenza provvisoria. Questo era e
restava, del suo programma immediato, il punto essenziale; mentre
era di secondaria importanza – una volta escluso il pericolo di un
ritorno dei Lorena – la questione a qual principe affidare, sempre
nel nome di re Vittorio, l'ufficio. Le sue personali preferenze,
già si è visto, cadevano sul principe Napoleone,
simbolo vivente della indispensabile alleanza italo-francese; ma il
Montanelli non s'impegnava sul nome suo, come s'impegnava invece,
aperto e risoluto, sulla questione della provvisoria autonomia
dell'Italia centrale359; e ne abbiamo la riprova nel coscienzioso
voto da lui dato, nella seduta dell'assemblea del 9 novembre, al
progetto di reggenza di Eugenio di Carignano360.
Tale era allora e tale in sostanza rimase, checché
pretendessero in contrario i suoi detrattori, il suo punto di vista
sulla questione toscana361. Solo si deve aggiungere come a radicarlo
in quella opinione contribuisse essenzialmente una constatazione che
al suo cuore di soldato dell'indipendenza dovette riuscire
particolarmente penosa: quella cioè che i suoi concittadini
non sembravano invero troppo disposti ad affrontate virilmente i
rischi, anche di guerra, che da una proclamazione annessionistica
fatta contro la volontà della Francia, avrebbero potuto
derivare, ed anzi sarebbero derivati con tutta probabilità.
Garibaldi, sí, giungeva in Toscana (per venire, del resto, di
lí a poco, sostituito dal Fanti nel comando in capo degli
eserciti collegati) e la lega militare era, sulla carta, conclusa;
ma che perciò? Né il popolo toscano si mostrava,
allora, risoluto a difendere a qualunque costo e contro chiunque la
sua libertà, né il suo governo, conveniamone, andava
apprestando con la dovuta sollecitudine i mezzi per rendere
possibile, in qualunque evenienza, quella difesa. In cosí
fatte circostanze – osservava il Montanelli – l'attentarsi a
sfidare, con la Francia, l'Europa tutta sarebbe stato un gesto
sublime, ma inutilmente temerario: giacché, per quanto
ingrossato dai contingenti dei volontari, per quanto valorosissimo,
l'esercito sardo non avrebbe potuto di certo resistere contro
eventuali interventi offensivi di una o di entrambe le potenze
firmatarie dei patti di Villafranca362.
Ma torniamo all'assemblea toscana; della quale non importa davvero
di ricordare in questa sede, come il 16 agosto procedesse unanime
alla votazione della proposta Ginori proclamante la decadenza
definitiva della dinastia lorenese. Forse non furono molti i
deputati che, in quella solenne occasione, sentirono, come il
Montanelli sentí, di compiere un sacro dovere: giacché
pochi avevano, come lui, lealmente servito il granduca, e
sinceramente sperato di farne un principe italiano; pochi, come lui,
erano stati in grado di valutare tutta l'irrimediabile sua
inadeguatezza di fronte all'alta missione assegnatagli; pochi, come
lui, avevano, finalmente, dal 6 febbraio del '49 in poi, realizzata
l'assoluta incompatibilità e di quel principe e in genere di
tutta la sua casata con la resurrezione italiana. Per breve ora,
dunque, il Montanelli provava l'ebbrezza, solitamente negata agli
spiriti piú alti, dell'unanime consentimento. Per breve ora:
ché già fino dal 13 agosto egli aveva creduto di
doversi opporre alla votazione della proposta Romanelli per una
mozione di plauso al governo in carica ed al cessato governo
provvisorio363; e quello stesso 16 agosto non aveva potuto
nascondere la sua contrarietà a che la proposta Mansi e
Massei per l'annessione della Toscana al Piemonte venisse rinviata
agli uffici. La discussione di queste due proposte si svolse, come
è noto, la mattina del 20, nel segreto delle sezioni: in seno
alle quali il Montanelli non dubitò, naturalmente, di
svolgere i motivi della sua opposizione364, salvo ad astenersi,
d'intesa con altri due deputati, dall'intervenire alla successiva
seduta pubblica, nel corso della quale l'annessione della Toscana al
Piemonte venne approvata all'unanimità. Era il piú
gran sacrificio che il Montanelli potesse fare alla causa
governativa, quello di rinunziare ad esporre pubblicamente le
ragioni del suo atteggiamento, per non turbare la manifestazione
della maggioranza365. Ma nessuno gliene fu grato366: ed anzi furono
proprio taluni fra i suoi colleghi i quali l'annessione avevano
votato pur convintissimi che fosse quella una manifestazione
platonica, dopo la quale ci si sarebbe dovuti acconciare ad un
qualsivoglia altro partito, e magari anche all'accettazione della
duchessa di Parma, furon proprio costoro i piú accaniti
contro il Montanelli: che senza altro accusarono di lesa patria,
cominciando con l'accreditare la falsa leggenda che egli avesse
votato contro l'annessione.
È esagerato di certo, anzi è positivamente infondato
quel che scrisse il D'Ancona – che del Montanelli ebbe a pubblicare,
da par suo, parte del carteggio, – che cioè da quel 20
d'agosto in poi il Montanelli «perdette ogni autorità,
e quel resto di popolarità della quale si lusingava essere
ancora in possesso si dileguò del tutto. Morí
fisicamente ai 17 giugno 1862; politicamente, era già morto
dopo quel voto»367. Ma è pure indubitato che dopo il 20
d'agosto il Montanelli, già poco grato ai potenti della sua
terra, si trasmutò ai loro occhi in un vero e proprio nemico
pubblico, piú infido e dannoso d'un Poniatowski, piú
temuto, e, certo, meno rispettato d'un Mazzini. Perché mai
tanto risentimento e, diciamolo aperto, tante persecuzioni contro un
oppositore cosí solitario? Che mai poteva rappresentare
costui, e con lui i due suoi compagni di astensione, di fronte
all'assemblea unanime? Si aveva forse il dubbio che quel voto di
un'assemblea eletta a suffragio ristretto non corrispondesse che
assai imperfettamente ai propositi ed alle aspirazioni della
maggioranza dei cittadini pensanti? La verità si è che
quella voce isolata, o piuttosto quella voce rimasta silenziosa nel
coro, veniva a costituire come una frattura in quella facciata di
unanimità formale che da tempo ormai i governanti toscani si
erano preoccupati di edificare nel loro paese per opporla a
un'Europa diffidente; che essa rappresentava un principio pericoloso
d'indipendenza, mal tollerabile fintanto che durasse quello stato di
pericolosa incertezza sulle sorti toscane: tanto piú che era
la voce di un patriota antico, ben noto nel mondo straniero, contro
il quale si spuntavano, in definitiva, le assurde insinuazioni, che
pur si osava da taluno rivolgergli, di venduto allo straniero e
perfino di segreto fautore delle restaurazioni!368.
Dal 20 d'agosto, perciò, il Montanelli avrà la vita
difficile, nella sua Toscana. I giornali governativi (e cioè
quasi tutta la stampa) non gli daranno piú tregua369; la
censura postale sorveglierà accuratamente la sua
corrispondenza; le sue parole ed ogni suo movimento verranno
controllati e riferiti a Palazzo Vecchio; ogni sua passata o
presente benemerenza verrà dimenticata o svisata; ogni suo
gesto sarà cagione di sospetto. I documenti in nostro
possesso ed altri che ci siamo procurati (e che a suo tempo
pubblicheremo) non lasciano dubbi a questo proposito. Pian piano gli
si farà davvero il vuoto d'intorno, un po' pel timore che
molti proveranno di frequentare la compagnia di un oppositore
sorvegliato, un po' anche perché le calunnie diffuse contro
di lui370 finiranno con l'alienargli effettivamente ogni simpatia.
Montanelli sperimenterà come sia piú amaro l'esilio in
patria che non lo stesso esilio materiale dal proprio paese! Non si
giunse perfino a negargli la restituzione di quella cattedra pisana
che aveva pur abbandonato, nel '48, dopo sette anni di celebrato
insegnamento, per andare a combattere?371. Non gli si vietò
con ogni mezzo l'ingresso nel Parlamento nazionale radunato a
Torino, rendendogli ancora piú amaro questo ostracismo col
contrapporgli, nei singoli collegi un dopo l'altro tentati,
concorrenti affatto ignoti ed oscuri?372. I suoi scritti – e ve ne
furono di bellissimi, profusi in giornali minori o in opuscoli,
attestanti non solamente l'usata acutezza della sua mente e la
profondità e l'estensione del suo sapere, ma anche il
coscienziosissimo studio delle questioni prese in esame373 – vennero
sistematicamente ignorati o, peggio ancora, sommariamente stroncati.
Caso tipico fra tutti, quello del suo volumetto L'Impero, il papato,
e la democrazia in Italia, pubblicato nel novembre del '59, il quale
non provocò nella stampa toscana che recensioni beffarde e
sprezzanti: eppure v'era in quel suo scritto, che, fra innegabili
divagazioni e genericità, ricercava e additava un possibile
componimento dei troppi dati contraddittori del problema italiano,
v'era in esso tanto nobile fervore, tanta altezza di concetti, tanta
sottigliezza di argomentazioni, da fornire non pure la
giustificazione ideale del suo contegno politico, ma bensí la
conferma di come il Montanelli andasse annoverato fra le piú
fini e originali e nutrite menti politiche dell'Italia d'allora. Ma
chi pensò, ad esempio, dopo il 5 maggio del 1860, a ricordare
che in quelle pagine si conteneva tra l'altro un presagio
chiarissimo della spedizione garibaldina nell'Italia del sud?
Tutto ciò non contava. Il peccato del Montanelli, già
colpevole di rappresentare i brucianti ricordi del '49, era senza
remissione per gli unitari dell'ultima ora. Ond'è che questo
geniale pubblicista, questo cittadino sempre e soprattutto sollecito
del bene del proprio paese, questo antico antesignano
dell'unità italiana, poté venir condannato, nella
propria terra, alla morte morale; cioè ad assistere,
inoperoso, alla grande fatica, sempre sognata, del costruire in
concreto la nazione italiana, appena sbozzata nei campi di
battaglia. Al quale tormento, sí, lo sottrasse la morte
fisica, ben presto sopraggiunta.
3.
Un giorno a Fucecchio
Sono andato a Fucecchio a cercar Montanelli. Da mesi e mesi,
propostomi di ricostruire la vita di lui, turbinosissima, mi son
messo a raccogliere e ad annotare le carte e memorie sue; e a un
certo punto ho sentito che non avrei potuto penetrare a pieno il mio
personaggio senza respirare la sua aria nativa, contemplar la sua
terra, discorrere con i suoi compaesani.
Quante volte, nei quinternacci d'appunti del vecchio patriota
toscano, quante volte scorrendo le sue lettere d'esilio, o
rileggendo i suoi versi, non m'è tornato sotto gli occhi,
accompagnato da un aggettivo nostalgico, questo toscanissimo nome:
Fucecchio!
Allor che di lontano al guardo apparve
il nativo castello, e sulle antiche
torri, e sui rudi tetti,
e sulle verdi collinette apriche
morir vidi del sole il raggio estremo,
la piena degli affetti
con piú tumulto m'ondeggiò nel seno.
Forse chi m'era appresso
nelle tronche parole in quell'istante,
il commosso sentía spirto ondeggiante.
La Fucecchio dei suoi anni d'infanzia, quando il futuro triumviro
della Toscana, un monello estasiato di musica, tirava i mantici
dell'organo nella chiesa della Collegiata, o quella degli anni
universitari quando, nelle vacanze, accodato al «sommo»
filosofo Centofanti, egli pure un fucecchiese, il Montanelli errava
pei poggi umanissimi (i poggi di Leonardo...) sognando spirituali
trionfi. Fucecchio che lo piangeva morto all'indomani di Curtatone,
per festeggiarlo quattro mesi piú tardi, redivivo, con
incontenibile slancio paesano, e memorabile spreco di mortaretti e
lumini: poi la gloria improvvisa del ministero (un di Fucecchio
arbitro della Toscana tutta, e quasi piú potente dello stesso
granduca!) e il piú improvviso crollo, l'amara parentesi di
quei dieci anni francesi. Come lontana la rossa torre Bernarda
circondata d'olivi, come lontane le carciofaie di San Pierino, sulle
rive dell'Arno! Calunnie infami inseguivano l'esule: quanti fra i
molti, fra i troppi amici del buon tempo osavano ormai difendere il
condannato all'ergastolo del 1853? Solo a Fucecchio, egli amava
pensare, solo nella sua terra remota e schietta gli umili sapevano
restargli fedeli: contadini e artigiani, e gli antichi compagni di
giuochi su pei gradini della cattedrale. E forse non era vero; ma
quel pensiero lo aiutava a vivere, ad aspettare. Nell'imagine del
borgo nativo – un poco assopito nella sua storia illustre – gli si
concretava, quasi, l'imagine stessa della patria da resuscitare.
Pensava all'Italia e vedeva Fucecchio. E come sovente, coi Michelet,
coi Lamennais, coi Du Camps non gli accadeva, dimenticando per un
istante letteratura o politica, di parlar di Fucecchio, come fosse
stata la città di Dio, a fronte di quel prodigio tutto
razionale, Parigi!
Venne il '59. Venne il ritorno. E la tentazione tante volte
avvertita, negli anni d'esilio, di andarsene a rimirare l'Italia
rinata o rinascente procul negotiis, da quel sereno cantuccio
provinciale, dove gli sarebbe stato cosí dolce recuperare la
sanità perduta, la sanità del corpo, e piú,
quella dello spirito troppo provato dalla ingratitudine umana; la
tentazione egoistica non visse, già s'intende, un istante. Fu
il campo dei volontari prima, furono poi le corse affannose a
Torino, a Firenze, e di nuovo a Parigi, e a Pisa: a Fucecchio appena
qualche comparsa fuggevole, per ritrovarvi la lena, appena il tempo
di spalancar le finestre di quella bella sua casa, là in cima
al paese, per contemplare la sottostante valle verdissima e poi
ripartire. Chi avrebbe mai potuto prevedere che quel ritorno in
Italia avrebbe coinciso col periodo piú triste della sua
vita? Che lo avrebbero perfino tacciato, perché non voleva
l'unità al modo di tutti, di non amare il suo paese? Che lo
avrebbero escluso dal parlamento, dove sognava di rappresentare
Fucecchio?
E venne, tre anni dopo, un giorno d'aprile in cui il Montanelli,
precocemente vecchio, febbricitante, velato di mestizia quel suo
sguardo splendente, tornò per sempre a Fucecchio. Moriva ogni
giorno, e non sapevan di che; ma lo sentiva anche lui e, pur
religioso com'era, non poteva darsene pace. C'era tanto da fare, in
Italia, per un uomo della sua tempra! Tanti problemi urgevano, che
gli pareva avrebbe saputo risolvere. Guardava dalla sua poltrona
quei monti, quei colli, quei campi fervidi d'opere, e non voleva
credere che avrebbe dovuto ben presto lasciarli per sempre. Nella
stanza s'ammonticchiavano le carte su cui, con quella scrittura
chiara e ordinata dapprima, poi sempre piú precipitosa e
arruffata via via che premevan le idee nell'ansia di non finire,
sudava affrontando le grandi questioni del giorno e dell'avvenire,
abbozzando discorsi e articoli, e disegnando ampi studi metodici
sull'ordinamento della nazione italiana. Quell'ordinamento, pensava,
cui solo l'esperto della sua storia nei secoli e il conoscitore
profondo delle tendenze vive del suo popolo sarebbe mai pervenuto.
Fucecchio, fiera d'averlo finalmente per sé, questo suo
figlio illustre, e insieme rispettosa di quel privilegio, lo
circondava di reverente silenzio.
Morí, non rassegnato, ai 17 giugno: né piú di
lui rassegnati i fucecchiesi tutti, che come una grande famiglia
avevano diviso e sofferto, senza comprenderle, le sue amarezze:
mormoravano adesso che gli avversari suoi lo avessero fatto morir di
veleno, e diffidavano quasi di quelle stesse manifestazioni
d'omaggio che alla sua memoria si largivan di fuori; anticipavano
con appassionato rancore il giorno in cui, crollati i falsi idoli,
il Montanelli, inquieto nella sua tomba laggiú nel chiostro
dei frati, avrebbe avuto pace con la vendetta di una piena
riabilitazione.
Son passati da allora settantacinque anni: e accanto al Montanelli
riposano ormai tutti quelli della generazione sua, e i figli loro.
Eppure il senso di quella iniquità della sorte, di quella
morte indebita, e quasi di quel torto fatto al paese tutto, è
vivo a Fucecchio come nel '62. La storia, si può e si deve
riconoscerlo, non ha ancor dato al Montanelli tutto quel che gli
spetta: Fucecchio attende ancor oggi con piena fiducia che sorga il
biografo riparatore. Per lui nelle case che furono degli amici si
conservano gelosamente ritratti e lettere; per lui si trasmettono di
padre in figlio memorie e dicerie; per lui l'arciprete custodisce il
calamaio di bronzo in cui il concittadino illustre intinse negli
estremi giorni la penna. I fucecchiesi, in sua attesa, hanno pagato
la loro passione con l'erigere al Montanelli un gran monumento
marmoreo, giú nella piazza dedicata al suo nome, e nel
tempestare di lapidi la casa dove nacque, visse, morí. Nel
Municipio, in una vetrina dorata, campeggia come una sacra reliquia
la sua uniforme di combattente del '48, del '59.
Tutto questo ho ben sentito arrivando a Fucecchio, non appena
svelatomi nella mia qualità d'aspirante biografo. Dal
bambinetto che mi s'è messo alle costole e non mi ha lasciato
un minuto, tutto fiero di render un servizio al gran Montanelli,
all'avvocato X, uno di quei legali di provincia che ingannano il
tedio delle giornate senza clienti ricostruendo sulle pergamene del
vescovado la storia del loro paese, a un paffuto canonico che alla
gloria locale sa perdonare perfino le deviazioni massoniche, tutti
vivono ancora nel riflesso di quella luce. Con quanto scandalo,
putacaso, non hanno veduto alcuni giorni addietro partir da
Fucecchio, prosaicamente ingabbiata con su l'indirizzo del
compratore, la vecchia poltrona sulla quale il Montanelli soleva
sedere...
Giro pel paese, in traccia di questi ricordi. E mi sembra che, a
parte qualche restauro o qualche fabbrica nuova, Fucecchio dovesse
esser proprio cosí, anche tre quarti di secolo fa. Il
caffè «Iris», certo, si sarà chiamato
altrimenti; e dove ora è il Fascio ci sarà stata la
Società operaia, intitolata a Montanelli, suppongo, con
sull'uscio la fatidica insegna del mutuo soccorso, due mani che si
stringono. Beati i paesi che nascono in groppa a un dirupo, a
rispettosa distanza sia dalla strada ferrata che dalla via
nazionale! Son quelli che conservano immutati nei secoli i loro
caratteri esterni, il tipo etnico, la lingua.
Fucecchio, l'ho detto, sorge tutta su quel dirupo, del quale occupa
la scarpata a mezzogiorno e ponente: solo poche case, fra le
piú vecchie, ma in compenso quasi tutte le nuove son
sciorinate in pieno, quasi ad accogliere al loro arrivo le strade
diritte e alberate che giungono da Castelfranco di Sotto, da Santa
Croce, da Altopascio, dopo un viaggio avventuroso tra i poggi, il
piano, il padule. A levante, sul pendio, le due torri quadrate, un
cinquanta passi una dall'altra, parlano, coi pochi avanzi delle
antiche mura, di Fucecchio medievale, terra contesa tra Lucca e
Firenze.
La casa nativa del Montanelli è a mezza costa, semplice e
grigia in una via traversa; l'altra che poi fu sua, e nella quale
morí, quasi un palazzo (ora è deserta; ma l'hanno
adocchiata per farne un asilo d'infanzia) s'inalza invece, in pieno
mezzogiorno, sull'orlo del dirupo. Sfido io che il Montanelli,
alloggiasse sui Lungarni di Pisa o a Palazzo Vecchio, o anche in un
boulevard di Parigi, non riuscisse né a Parigi né a
Firenze né a Pisa a trovar qualcosa di comparabile con quel
suo belvedere! In faccia, all'ultima quinta, i monti di Pisa con la
Verruca scapozzata; piú qua, a limite della pianura solcata
d'acque e di strade, i colli di Castelfranco; a sinistra, contro il
cielo, il profilo di San Miniato, con lo smozzichío delle sue
torri, come la mascella d'un vecchio dai pochi denti guasti; a
settentrione le montagne turchine di Pescia. Per un poeta – e il
Montanelli era nato poeta, seppure le troppe disparate ambizioni,
poeta, filosofo, storico, giurista, politico, non gli permettessero
d'abbandonarsi tutto alla sua limpida vena – per un poeta c'era di
che sognare ad occhi aperti; c'era di che lasciarsi prendere, per
sempre, da non so quale arcana malinconia, quella malinconia che il
Montanelli aveva negli occhi e che tanto contribuí a
circondarlo d'un fascino irresistibile. Accanto alla casa, e sullo
stesso livello, una chiesa, preceduta da un portico, arena di
ragazzi; e un altro chiesone alle spalle, con una sua gran scalinata
(quante chiese, quante campane, quanto pensiero dell'Infinito!); di
qui un vicoletto tortuoso e precipitoso, che mena al piano, fra alte
case e piccoli orti. A un crocevia un tabernacolo, con entro, in
terracotta azzurra, l'imagine dell'Immacolata ed una iscrizione per
ricordare che vi fu posta, nel 1833, proprio dal Montanelli. Non
aveva che vent'anni, a quel tempo: e già conosceva i trionfi
della scuola di Pisa e gli erano amici il Giusti e il Capponi, e
sull'«Antologia» s'erano potuti leggere certi suoi
scrittarelli eruditi. Ma al suo paese si rifugiava, e poi sempre
amò rifugiarsi, nella piú candida semplicità.
Lecito era con i sapienti delle città disputare, dubitare
magari, delle cose divine ed umane; a Fucecchio non si poteva se non
adorare, cantando e quasi rimpiangendo la troppo sublime bellezza
del creato. 1833: l'anno in cui gli era morta la madre; ed era stato
per lui un dolore cosmico, di quelli che abbuiano per sempre la
vita: davanti al quale, irreparabilmente sgomento, non aveva potuto
reagire, si vede, che con quell'umile gesto. L'Immacolata si
confondeva per lui con la madre.
E tu perché sí presto, o Madre mia,
abbandonasti sulla terra un figlio
che dolorosamente ti desia?...
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
O rimembranze del sereno aspetto,
e delle voci dall'amor dettate,
e degli amplessi del materno affetto;
voi nell'anima mia vi riposate,
come nel sen di giovinetto ardente
verginali sembianze innamorate.
Percorro il vicolo fino al suo sbocco in piano, poi mi faccio
indicare il convento dei frati, che dà sulla campagna aperta.
M'apre un converso imberbe, quasi un ragazzo, dall'aria attonita.
Giro giro, nel chiostro, una fila di tombe qualunque: nel mezzo,
pochi arbusti si godono un gran quadrato di cielo. Ed ecco qua la
tomba di Montanelli, segnata da una brutta lapide grigia. Ricordate
le virtú dell'estinto prosegue: «Il 1° luglio 1867
– meditando l'eroica impresa che finí a Mentana – Giuseppe
Garibaldi – Il gran cavaliere dell'umanità – Memore del
perduto amico – venne a deporre una lagrima su questa tomba
gloriosa»; mi volgo al converso, e vorrei domandargli se non
trova un po' strano che in quella sede venga glorificato il
sacrilego attacco a Roma papale. Ma non voglio turbarlo. Ora mi
s'avvicina misteriosamente: «Sa lei, mi dice, che nella bara
vennero nascosti dei documenti segreti?» Non lo sapevo, no,
né lo credo: ma la leggenda mi piace; quasi che nella
minaccia implicita di disseppellire un dí o l'altro quei
fogli la fiera Fucecchio abbia assaporato per tutti questi anni la
sua vendetta sui nemici del Montanelli!
Esco al sole, rivedo dinanzi a me le due torri. È il
mezzogiorno, e da quel fitto di comignoli neri arrampicati sull'erta
escono esili tracce di fumo a suggerire desinari da povera gente.
Alla locanda due o tre commercianti, con le loro borse rigonfie,
assaporano lo stufatino. Penso che ai tempi di Canapone eran proprio
costoro – vestiti di nero o di verde, giacchetta fino ai ginocchi e
il cravattone di traverso sotto il mento – proprio costoro che
facevano circolare la stampa clandestina o trasmettevano le notizie
proibite; e il Buon Governo li teneva d'occhio, pur non vedendo
nulla.
Poi finisco al caffè: con un poncino all'«Iris»
si può bene concludere la gita a Fucecchio, tanto piú
che i borghigiani autentici stan lí, mezzi sull'uscio e mezzi
dentro, col bicchiere in mano, a ragionar di politica. Pare non
sappiano che non conviene o non s'usa, altrove, di questi tempi. Ma
loro discutono forte, accalorati e convinti: toscani, senza
affettazione, all'eloquio, romagnoli all'aspetto un tantino
spavaldo, e ai discorsi. Centellino il mio punch, e imagino il
professor Montanelli, il «professore» a Fucecchio, per
antonomasia, in mezzo al gruppo, pari fra pari, a parlar di
Ricasoli, di Garibaldi o Cavour o, prima ancora, della Costituente.
Ora s'è fatto piú in là e piú in alto,
su quel gran piedistallo ingombro di libroni di marmo, ma si
direbbe, da come guarda malinconico, con quel braccio al collo,
all'insegna dell'«Iris», che scambierebbe ben volentieri
quel podio solenne con uno scanno nel caffè di Fucecchio.
4.
Ancora di Montanelli e Cernuschi
Proprio negli stessi giorni nei quali la «Nuova Rivista
Storica» pubblicava l'articoletto di Giuseppe Leti,
L'evoluzione di G. Montanelli dal federalismo all'unitarismo (fasc.
V del 1936), basato su tre importanti lettere inedite del Montanelli
al Cernuschi, vedeva la luce nel fiorentino «Archivio storico
italiano» (fasc. IV dello stesso anno) un mio piú
diffuso saggio sull'identico argomento: entrambi, per strano caso,
intesi a chiarire l'attività svolta dal discusso patriota
toscano nell'anno 1859. Come questi due scritti si completino a
vicenda, o piuttosto – dirò immodestamente – come quello del
Leti valga in sostanza a confermare a puntino la tesi da me
sostenuta circa la fondamentale coerenza politica del Montanelli,
lascio al lettore accorto di giudicare. A me preme soltanto
rettificare talune circostanze addotte dal Leti, sí che il
giudizio non abbia a fondarsi su dati in parte inesatti.
«Cernuschista» ad oltranza – come ci conferma il bel
volume da lui recentemente pubblicato: Henri Cernuschi, patriote,
financier, philanthrope, apôtre du bimétallisme. Sa
vie, sa doctrine, ses œuvres, Paris 1936 – il Leti non si è
mostrato, infatti, del tutto equo nei suoi apprezzamenti sul
Montanelli: cedendo anch'egli inconsciamente alla forza di quella
tenacissima leggenda antimontanelliana, che purtroppo è
tuttora avvalorata da molti studiosi del Risorgimento italiano. Tra
il Montanelli e il Cernuschi, rimasto l'uno a Parigi, nel '59,
comodamente assiso nella sua poltrona di spettatore e di critico
delle vicende italiane, e l'altro partitone precipitosamente per
arruolarsi volontario e poi per gettarsi a capofitto nell'aspra
lotta politica seguita alla guerra, fra i due sarà facile
dire, di certo, che il secondo salvò appieno la sua coerenza
ideale e la sua intransigenza politica, mentre al primo fu
giuocoforza adattarsi a piú di un compromesso e abbandonare
per via piú d'uno dei suoi postulati. Sarebbe ingiusto,
peraltro, e antistorico, non rendersi conto di come l'atteggiamento
del Cernuschi, pur altamente rispettabile, presupponesse un notevole
distacco dalle cose italiane, l'assenza cioè di quella
disperata volontà di contribuire a risolver una volta per
sempre ed a qualunque costo il problema italiano, la quale ben vale
a giustificare le oscillazioni e le evoluzioni imputabili a presso
che tutti i patrioti italiani nel decennio successivo alle delusioni
del '49. Cernuschi salva la sua coerenza, ma si strania
definitivamente all'Italia, almeno in quanto a concreta azione
politica; Montanelli agisce, lotta, s'impegna, si piega ad ogni
sacrificio, pur di collaborare anch'esso alla grande fatica finale.
Cernuschi può scrivere, tranquillamente: «Per noi non
c'è nulla da fare: abbiamo aspettato dieci anni, ne
aspetteremo dieci altri»; Montanelli invece affronta la
realtà qual'è per acquistare il diritto di concorrere
a modificarla: «Tornare in esiglio non me la sento!»,
risponde con ingenuo abbandono. Sí, l'Italia si va facendo
per vie e con mete in parte diverse da quelle da lui auspicate; ma
è pur sempre l'Italia degli Italiani, che nasce, e ci vuole
una bella dose di astrattismo politico per non cedere alla potente
suggestione che emana dai campi lombardi, per non sentire che in
taluni solenni momenti della vita nazionale ogni assenza è
una colpa.
Le tre lettere del Montanelli al Cernuschi pubblicate dal Leti vanno
dunque valutate sotto questo angolo visuale: e allora cadranno da
sé i commenti poco benevoli con i quali egli ha creduto di
doverle accompagnare. Altre sue notazioni si debbono, per contro, a
non perfetta conoscenza dell'argomento: cosí l'accenno alla
diffidenza nutrita dal Gioberti pel Montanelli, esattissimo se
riferito al '49-50, ma non per i due anni seguenti, nei quali i due
patrioti riallacciarono e anzi intensificarono le antiche e tanto
proficue relazioni di mutua stima ed amicizia; cosí la
notizia che il Montanelli sarebbe rientrato in Italia nel '58,
mentre non ripassò le Alpi che allo scoppio della guerra,
nell'aprile dell'anno seguente; cosí l'affermazione, grave e
infondata, essere stato il Poniatowski (quello stesso che poco dopo
doveva screditarsi nello sterile tentativo di rappattumare i toscani
con l'esule granduca) a porre in contatto il Montanelli con
Napoleone III, mentre è risaputo che intermediari furono i
due còrsi Pietri e Rapetti (a questo proposito voglia il Leti
notare che mentre la prima lettera del Montanelli al Cernuschi non
può certo recar la data di Firenze, dove il Montanelli non si
recò che alla fine di luglio, la seconda dev'essere del 26 e
non del 23 di maggio, giacché venne scritta all'indomani del
colloquio con l'imperatore, svoltosi, appunto, il 25 di quel mese).
Quanto poi al deprecato «feticismo» del Montanelli, per
le cose e gli uomini di Francia, mi permetta l'egregio Leti di
definire alquanto sommaria e frettolosa la sua sentenza, calcata
piuttosto su partigiani giudizi emessi nel calore dell'azione da
avversari politici del Montanelli, che non su un pacato riesame
dell'effettiva attività da lui svolta: senonché,
volendo risparmiare al lettore una non breve dissertazione su questo
punto, mi limiterò a rinviare il Leti al citato mio articolo,
primo saggio di una completa biografia critica che sul Montanelli io
vado preparando.
Un ultimo punto. Ritiene il Leti che, dopo la discussione epistolare
del maggio-giugno '59, l'ex triunviro toscano e l'eroe delle Cinque
giornate cessassero i loro «buoni rapporti»: il che
farebbe presumere che il dissenso fra costoro avesse attinto
notevole gravità ed asprezza. Ma anche questo è un
dato insussistente. Io non so se l'archivio Cernuschi consultato
dall'autore sia piú o meno completo; so bensí che fra
le carte del Montanelli si conservano almeno due lettere del
Cernuschi a lui dirette in data susseguente al '59, entrambe
attestanti il perdurare di una calorosa amicizia cementatasi negli
anni del comune esilio (una terza, non datata, potrebbe benissimo
attribuirsi allo stesso periodo). Credo che possa interessare, oltre
che il Leti, i lettori di questa rivista il conoscere i brani
piú significativi e di queste due lettere e di altre due del
Cernuschi al Montanelli, anche queste sfuggite al biografo del
Cernuschi: la prima in risposta alla lettera del Montanelli del 30
dicembre '58; l'altra, assai piú importante, in risposta a
quella dell'11 maggio '59. Cosí reintegrato, il carteggio fra
i due banditori del federalismo – quello che accettava l'iniziativa
unificatrice della monarchia di Savoia col dichiarato proposito di
temperare gl'inconvenienti mediante l'immissione del massimo
compatibile di spirito e di ordinamenti federalistici nell'organismo
unitario, e quello che da lungi perseguiva il vano sogno di una
applicazione «totalitaria» dei principî
federalistici ad una Italia che non ne voleva sapere – assume
indubbiamente un ben piú alto interesse.
Cernuschi a Montanelli, Parigi, 31 ottobre 1858 (Biblioteca
Labronica, Livorno, Autografoteca Bastogi, cass. 14, ins. 1362).
L'anno sembra finir discretamente. Che il '59 dovesse riuscire il
miglior anno dal '48 in qua?
Né animo, né anima ci mancano. Venga del serio e ci
vedranno te e me all'opera. Caro amico, ho nel capo che un giorno o
l'altro faremo qualche bella cosa insieme. Non ci fu mai nessuna
nube tra noi due. Caso raro nell'emigrazione, e che segnalo come
augurio felice del capo d'anno. Tuo di cuore.
Cernuschi a Montanelli, Parigi, 11 maggio (1859) (ibid.).
Ho ben veduto quello che mi dici, che la mutazione toscana è
opera torinese. Il governo provvisorio spedito da Cavour non era
ancor giunto a Sarzana, quando era già proclamato a Firenze.
Deboli governi, quelli che vengono dal di fuori. Ma noi chiediamo
molto per contentarci di poco, ti disse La Farina. Dunque il capo
degli unitari tradisce gli unitari. Gli perdono, l'unità
è condannata a tradire. In realtà il comitato non
è unitario né federalista, ma commesso viaggiatore
della casa di Stupinigi.
Ho letto che i tuoi amici di Palazzo Vecchio si sono degnati di
perdonarti e amnistiare le offese da te e altri fatte al g. duca. Il
che vuol dire che senza l'amnistia di Malenchini e Ulloa, Montanelli
non sarebbe potuto tornare a Fucecchio. No, e nemmeno con l'amnistia
ci deve tornare...
Quello che mi accora è di vedere che in questa lotta fra i
due imperatori, l'Italia fa la parte meschina di legione straniera.
I liberali elettoratici d'Italia smettono l'antica boria del far da
sé. Seguono in questo il pensiero nostro e fan bene. Ma per
noi c'è nulla da fare. Abbiamo aspettato dieci anni, ne
aspetteremo dieci altri... Sarà ben lecito, anche espulsa
l'Austria, di serbare dignità e convinzioni... Reazionario o
rivoluzionario, il moto intimo delle città d'Italia
sarà sempre federalista, i conati unitari sempre sterili e di
breve durata. Firenze votava la fusione colla Repubblica romana nel
'48. Gran parole; sarà lo stesso col Buoncompagni.
Ma tocca agli eventi di ragionare oramai, e al dittatore che salpa
da Genova...
Tienti d'acconto caro amico; la vita che fai mi dispiace molto per
molte ragioni; ma il poeta segue il suo genio.
Cernuschi a Montanelli, Parigi, 29 giugno 1861 (ibid.).
Pubblico (senza venderla) anche un'edizione francese [della nota
risposta all'accusa del Cavour]. Sotto l'usbergo del sentirmi puro,
sono tranquillo. Non pertanto mi sarà oltremodo grato di
sapere la tua opinione. Leggo la «Nuova Europa»; parmi
che non sarebbe impossibile inserirvi la mia risposta, che infine
è la parola d'un uomo che fu oltraggiato dinanzi un'assemblea
eletta da tutta Italia. Mi rimetto al tuo senno, alla tua amicizia.
... Ti abbraccio, come a Milano, quando c'incontrammo la prima volta
nel marzo '48...
Cernuschi a Montanelli, Parigi, 7 luglio 1861 (ibid.).
Rivoluzionari avanzati, e reazionari mi fanno complimenti [per la
risposta all'accusa di Cavour]. I Piemontesi no, ben inteso. Hoc
erat in votis. Gli editori mi chiedono a gara una ristampa. Esito...
Comunque, né sincerità né convinzione mi
mancano. Ma sono certo che senza fisionomia federale non si
farà nulla di buono. L'unità è parola adottata,
è vero, dai piú caldi, ma è una maschera sul
volto della dea: l'Italia...
III.
La Destra storica
L'opera della Destra
Quando la Destra, nel 1861, cominciò la sua opera di governo,
l'Italia era un paese povero, malsicuro, ignorante, scarso di
risorse, diviso e fragile nella sua neonata unità,
indipendente solo di nome.
E invero: unificati sette quasi tutti zoppicanti bilanci statali374,
si trovò che il primo bilancio italiano presentava un
disavanzo effettivo di oltre 500 milioni (le entrate erano inferiori
allo stesso disavanzo!)
L'esercito era composto degli elementi piú eterogenei:
vincitori e vinti, regolari e irregolari, pochi contenti e molti
scontenti; la marina militare era quasi tutta di legno, quasi tutta
velica, ossia tutta da rifare.
Gli analfabeti costituivano circa il 78% dell'intera popolazione, le
scuole elementari eran poche e pochissimo frequentate.
Pessime le comunicazioni in tutto il regno: basti dire che non
c'erano che 1983 chilometri di strada ferrata375.
Infuriava la reazione nel mezzogiorno, a fondo sociale, a etichetta
politica; e se i Piemontesi consideravano l'Italia da Napoli in
giú una colonia da redimere376, i meridionali trattavano
quelli né piú né meno che come invasori
stranieri.
Si è accennato ai guai piú grossi o piú
appariscenti. S'aggiunga che in Europa l'Italia, improvvisamente
costituitasi piú grande del previsto, era guardata con
generale diffidenza e sospetto.
La Destra faticosamente individuò, fermamente affrontò
i problemi essenziali che minacciavano la compagine dello Stato o ne
ostacolavano lo sviluppo. Li risolse? Non so. Fatto sta,
però, che nel 1876 poté consegnare alla Sinistra, che
le succedette, un'Italia che con quella di quindici anni addietro
non aveva, come si vedrà, piú niente a che fare.
Sulla via della prosperità, perché col bilancio
risanato377 (che si fosse finalmente raggiunto il pareggio
annunciò Minghetti nel marzo del '76), con le entrate
pressoché triplicate (da 480 milioni nel 1862 a 1123 nel
1876), con una popolazione duramente avvezzata a pagar gravi
imposte378.
Forte e rispettabile, perché munita di un esercito
severissimamente disciplinato (fucilazione del Barsanti, 1870), a
base nazionale (sistema della leva generale imposto al paese con
fermezza spietatamente necessaria), modernamente ordinato
(ordinamenti Fanti, Ricotti); e di una marina quasi tutta nuova (a
vapore e in ferro), con naviglio meno numeroso che nel '61, ma
piú scelto e assai ingente come tonnellaggio (da 112 000
tonnellate a 152 000).
Meno ignorante, perché con una percentuale di analfabeti
discesa dell'8% e con un numero di scuole elementari aumentato
sensibilmente; ma quel che piú conta, messa in grado di
rovesciare rapidamente l'ancora umiliante rapporto proporzionale tra
letterati e illetterati mercé il principio sancito e
applicato della obbligatorietà e gratuità
dell'istruzione elementare.
Incomparabilmente piú ricca di risorse: si pensi solo che si
costruirono oltre 5400 km (erano 7804 nel 1876) di ferrovie,
obbedendo piú che al criterio di farle servire a un traffico
già avviato, a quello, eroico in tempi di economie fino
all'osso, di sollecitare un traffico inesistente; si pensi che la
marina mercantile fu portata al quarto posto in Europa, al quinto
nel mondo (da 10 000 t a vapore nel 1862 a 1 milione nel 1877).
Definitivamente assicurata nella sua unità, dopo la dolorosa,
ma definitiva lotta contro il brigantaggio, causa d'infiniti e
astiosi dibattiti nella stampa e in Parlamento, dopo l'ingrata, ma
indispensabile contenzione e compressione del volontarismo, dopo una
serie di valide prove militari, dopo la creazione di una efficiente
burocrazia raccolta in tutto il paese, dopo la promulgazione di
ottimi codici nuovi, in sostituzione di quelli fino ad allora
vigenti, regionali e l'uno all'altro opposti.
Nella considerazione europea, poi, l'Italia aveva compiuto passi da
gigante: la piccola nazione audace, sbarazzina e inquietante del
1861 era tenuta nel '76 per un organismo robusto, serio e
resistente, suscettibile dei piú grandi progressi, elemento
di pace nel mondo. Due anni dopo la caduta della Destra (1878)
l'Italia sedeva da potenza sovrana e indipendente al Congresso di
Berlino379; quattro anni piú tardi (1882) poteva negoziare
quel trattato della Triplice Alleanza che le riconosceva, in
effetto, il rango di grande potenza e gliene assicurava i
corrispondenti vantaggi.
Questa maggior considerazione, si badi bene, veniva tributata ad un
paese il quale, ottenuto a fatica negli anni tra il 1861 e il 1866
il suo riconoscimento ufficiale380, non aveva mai cessato pertanto
di riaffermare e non solo teoricamente e ipoteticamente, i suoi
diritti su Roma; finché, svincolandosi a poco a poco dal
pesante vassallaggio verso la Francia, e pur riuscendo a evitare di
rompere le buone relazioni con quello Stato, non aveva osato
prendersela, Roma381, e imporre al Vaticano un modus vivendi (legge
della quarta votazione il 2 maggio 1871: 185 favorevoli e 206
contrari), la cui saggezza si è dimostrata appieno in presso
che 60 anni di esercizio382. Ad un paese il quale, venuto appena
all'onor del mondo, si era permesso di turbare la pace d'Europa,
d'accordo con la Prussia, guerreggiando contro l'Austria e
annettendosi l'assai sospirata Venezia.
Presunte passività.
Abbiam visto, nelle sue linee essenziali, l'attivo raggiunto dai
governi della Destra. C'è un passivo?
Altro che. Secondo taluni anzi esso soverchierebbe di gran lunga
l'attivo. Unità? Sí, ma a spese delle distrutte
autonomie locali383 e spargendo a piene mani germi di pericoloso
malcontento. Pareggio? Sí, ma con danno gravissimo anzi
irreparabile dell'economia nazionale e mercé una politica di
grettezze, inintelligente e arbitraria384. (Nel 1870 l'illustre
Cialdini scagliava in faccia al ministero le sue dimissioni
dall'esercito, motivandole con le economie eccessive che
all'esercito appunto si erano volute imporre: «monumento della
nostra politica insufficienza»; economie fino all'osso che
«tagliano nervi, arterie, muscoli al corpo cui sono applicate,
e lo lasciano quindi senza moto e senza vita»). Politica
estera debole e incerta385; interna, scorretta, e oscillante tra una
sconfinata libertà e una ingiustificata reazione. Politica
scolastica? Senza larghe vedute e con risultati inferiori
all'universale attesa. Scarso impulso alle magnifiche
possibilità del Nord, annientamento di quelle del Sud. Nessun
grande principio nuovo da opporre a quello, nei primi tempi
necessariamente nemico, millenario e augusto, proclamato dal
Vaticano.
I fatti noti, e quel che è diventata l'Italia, e alcune
considerazioni che sarà opportuno svolgere in seguito
dimostrano l'infondatezza sostanziale di tali riserve, le quali
tutte si spiegano peraltro col desiderio paradossale, ma umano, dei
contemporanei di veder la nuova Italia di fresco liberata dai ceppi
della dominazione straniera e dello spezzettamento, balzare alla
testa delle nazioni civili, e col rimpianto e quasi la vergogna dei
posteri che ci volessero tanti anni per renderla pari a quelle, pari
soltanto e non mai superiore. Mirabile in realtà è il
ritmo di progresso che la Destra seppe imprimere in tutti i campi
alla vita del paese; ed è proprio in quel ritmo ancor meglio
che nel dettaglio delle opere compiute che va ravvisato il suo
merito precipuo.
Altri invece, pur riconoscendo le tremende difficoltà
incontrate e superate dalla Destra, le rimproverò e
rimprovera quel che si potrebbe dire, e che essa veramente in un
certo senso si propose e attuò, imborghesimento della
rivoluzione, soffocamento cioè di un processo ideale sotto
motivi prosaici, prevalentemente economici: acquisto e non conquista
di Roma e della Venezia, prudente e ingloriosa guerra del '66 e
finalmente Aspromonte e Mentana, prove supposte di una deplorevole
inadeguatezza di fronte al sognato coronamento romantico, eroico
dell'epoca del Risorgimento386.
Come se la dote essenziale degli uomini di Stato non fosse, per
dirla con parola di moda, il tempismo: quel loro spontaneo e
immediato adeguarsi, cioè, al mutare di talune profonde
esigenze della vita del paese, contro le quali è follia
lottare. Come se, in concreto, la Destra non si fosse trovata, nel
'61, di fronte a una Europa arcigna, pronta a disfar l'Italia al
primo suo barcollamento o segno di immaturità. Come se non
fosse stato piú che necessario, urgente sottrarre gli
Italiani a quell'atmosfera di irrealtà, di fantasia, di
improvvisazione che produce in un certo istante i miracoli (o quelli
che tali appaiono), ma è, nel tempo, creatrice prima di
irrequietezza e di delusioni, e dunque di improduttività.
Come se lo spettacolo di un paese che, non appena costituitosi a
nazione, tra le piú straordinarie vicende, si impone e segue
un regime di vita severo e produttivo, che della nazione gli dia,
oltre che il nome, la fisionomia e l'interiore aspetto, non fosse il
piú straordinario ed «eroico» che possa vedersi.
Quanto poi alla guerra del '66 e ad Aspromonte e Mentana, le facili
critiche che a quegli episodi si muovono rivelano un doppio errore
di valutazione assoluto e relativo (relativo appunto alle
necessità del tempo).
La guerra del 1866.
Fummo soverchiati, è vero, a Custoza e non riuscimmo a fare
di Lissa la prima vittoria che costituisse come il solenne atto di
nascita dell'Italia grande potenza. Ma son, questi, accidenti se pur
dolorosi, frequenti nella vita delle nazioni attive e operose; e il
criterio per giudicare della loro gravità va ricercato, ci
sembra – quando, naturalmente, non si tratti di sciagure rovinose
per l'esistenza stessa del paese – non tanto nella entità
delle perdite subíte in scontri poco fortunati, ma nelle
conseguenze profonde, positive o negative, elevanti o deprimenti,
suscitatrici d'energia, o viceversa, che recano nella vita della
nazione. Se cosí è, né Custoza né Lissa
vanno deprecate: disavventure di una guerra che, dichiarata a soli
sei anni di distanza dalla costituzione del regno – ed erano appena
cessati i violenti e minacciosi conati antiunitari –
rappresentò una vittoria gigantesca già di per
sé, per il solo fatto che un governo avesse avuto l'audacia
di volerla e il paese di farla. E poi: una guerra nostra contro
l'Austria, e cioè contro una grande potenza per davvero,
d'antica e ancor salda consistenza unitaria, militarmente forte,
politicamente ricca di prestigio in Europa387.
Nessun precedente. Non il '48, che aveva colta l'Austria di sorpresa
e attaccata dal di fuori quando già minata all'interno:
rivolta, e poi guerra e guerriglia, gloriosissime, sí, ma non
guerra vera. Non il '49, temeraria partita d'onore d'un piccolo
Stato a tradizione militare, che non poteva dopo tutto finire troppo
male, appunto per la piccolezza del Piemonte, certo che l'Europa non
avrebbe mai tollerato una sua troppo onerosa sconfitta388. Non il
'59, senza dubbio pagina splendida per noi, ma troppo francese e
cioè troppo poco rischiosa per noi. Non il '60, che si
combatté di sorpresa e con mezzi eccezionali contro uno Stato
già morto nella coscienza politica d'Europa, o almeno
mortalmente isolato.
1866: per la prima volta dunque l'Italia, allietata di
sproporzionate speranze, e cioè già minorata nella sua
capacità di resistenza, promuove una guerra pericolosa della
quale assume virilmente tutti i rischi; e pur sa che nel caso di
rovescio nessuno in Europa le farà scudo di sé389.
Diplomaticamente e militarmente, l'Italia, finalmente maggiorenne,
agisce di sua esclusiva iniziativa.
C'era, sí, la Prussia; ma l'alleanza (da quanto tempo non
s'era perduto lo stampo?) venne negoziata da pari a pari, do ut des
(e se mai con prevalente vantaggio della Prussia, che otteneva la
garanzia del nostro intervento nel caso che venisse attaccata e non
ci accordava, né noi insistemmo troppo per ottenere, la
reciprocità); una volta negoziata, mantenuta da noi con
scrupolo che qualcuno giudicò anche eccessivo (nell'aprile
1866, con nobile temerarietà, La Marmora rifiutò senza
discuterle le lusinghe dell'Austria, che avrebbe acconsentito a
cederci senza condizioni la Venezia purché avessimo
abbandonato l'alleanza prussiana390; e ce ne dette atto solenne il
Bismarck, 20 dicembre 1866, alla Camera prussiana).
La guerra non volse bene per noi. Che perciò? Fu guerra
onorevolissima e le nostre cosiddette sconfitte restarono inulte
solo perché la guerra terminò precipitosamente negli
altri settori. Ma la vittoria grande, vera e profonda la riportammo
pure, e pochi se ne accorsero (se ne accorse l'Austria, che si
piegò a riconoscere il regno solo dopo la guerra)391. E fu
che il paese, cosí fragile, cosí recente, cosí
diviso pur ieri, sopportò bene la prova. Ne uscí
cioè piú robusto, piú maturo, piú unito,
come provò la stolta minacciosa rivolta di Palermo,
condannata dalla coscienza unanime e schiacciata inesorabilmente tra
la generale soddisfazione, quasi il paese volesse ammonire i
rivoltosi che i problemi interni italiani, per gravi che fossero,
s'avevano ormai a risolvere pacificamente tra noi, l'Italia
superandoli tutti, non essi l'Italia e la sua indissolubile
unità.
Gli italiani non valutarono allora l'enorme importanza della guerra,
anzi si diffuse per tutti un senso di disagio e quasi di vergogna,
come se portassimo via la Venezia, che da quella guerra ci venne,
alla Prussia orgogliosa di vittoria392. Superba crisi, dimostrativa
nel piú alto grado di quanta strada il paese in pochi anni
avesse percorsa, di come la coscienza nazionale s'andasse formando e
diffondendo il senso geloso dell'onore nazionale – e cioè di
quanto quella guerra fosse stata, meglio che opportuna,
indispensabile.
La Destra, dichiarandola, aveva dimostrato di riporre nel paese una
fiducia che a molti, sul momento e anche piú tardi, era parsa
intinta di eccessivo ottimismo393. Ma il paese aveva risposto
magnificamente e non tanto o non solo con la condotta tenuta durante
la guerra, ma meglio e soprattutto con quello scoramento virile,
orgoglioso, che lo prese a guerra finita. Un paese il quale non si
fermava infatti nella considerazione, pur consolante, che a Lissa –
dopo secoli di storia municipale o regionale – la marina italiana,
timida certo nel disegnare l'attacco, si fosse rivelata saldissima,
eroica anzi nel fronteggiarlo; e non si confortava nel pensiero
della difficoltà dell'impresa superata, ma arrossiva e
imprecava, e di scontri incerti faceva addirittura sconfitte sue; –
questo paese rivelava in sé qualità eccezionali, nella
sua compagine una coesione insospettata, e giustificava le
piú grandi speranze per l'avvenire.
E fu bello che gli uomini della Destra non tentassero loro di
risollevare artificialmente l'animo del paese, difendendo la guerra,
magnificandone i risultati, strombazzandone le sicure benefiche
conseguenze future. Fu bello che anch'essi, i quali pur vedevano la
compiutezza delle cose, si fermassero severi a giudicare i dettagli
e del giudizio fornissero al paese tutti gli elementi. Sapevano che
solo il tempo avrebbe rivalutata l'opera loro, e saggiamente lo
preferivano.
Scriveva l'inviato inglese a Roma, Odo Russel, allo zio John, da
Ariccia, 27 agosto 1866:
La Venezia è stata ceduta, l'Italia è compiuta, gran
fatto nella storia! Tutte le questioni estere sono esaurite per
l'Italia fin da questo momento. Essa può permettersi di
stabilire rapporti amichevoli con tutte le nazioni e di volgere la
sua attenzione soltanto alle questioni interne... Lasciate che
dimostri la sua buona volontà procedendo la prima al disarmo,
che provveda alla pace, all'industria e al commercio, e tutto il
resto verrà da sé.
Aspromonte e Mentana.
Non dunque la guerra del '66 al passivo. Aspromonte?394. E Mentana?
Se la prima fu l'esame di stato della nuova Italia, Aspromonte fu
quello di maturità – quello di maturità soprattutto
per gli uomini di governo (e analogamente Mentana). Fin da
principio, per fortuna, tali uomini ebbero, né mai piú
smarrirono, quella sensazione cui già si è accennato,
che l'Europa avrebbe rispettato l'Italia solo se questa fosse
riuscita a far dimenticare i suoi torbidi natali e si fosse imposta
una politica normale, prosaica395, stroncando inesorabilmente
qualunque tentativo di garibaldinismo in azione.
Si accusa generalmente di doppiezza e peggio chi non seppe prevenire
Aspromonte o Mentana; si osserva che se il governo non intendeva
appoggiare questi tentativi, avrebbe dovuto soffocarli al loro primo
disegnarsi. E non s'intende che, se in qualche dettaglio la politica
italiana del 1862 e del 1867 non è da approvarsi, come quella
che – per dirla con espressione volgare ma efficace – troppo
mostrò la corda, nell'insieme, nell'ordito, fu savia e
opportunissima. Bisognava infatti far capire all'Europa che c'era in
Italia un governo abbastanza forte per contenere tutti gli
estremismi, ma insieme dare la sensazione della popolarità
grande goduta dagli estremismi (e quasi d'un loro continuo e
minaccioso e male evitabile sovrapporsi al governo); e quindi della
necessità e della urgenza che si lasciassero risolvere con
mezzi legali i problemi apparentemente impostati e infiammati dalla
piazza396.
Apparentemente. Poiché nessuno nutriva in Italia piú
vivo il desiderio e piú acuto sentiva il bisogno di
completare l'unità italiana che gli uomini responsabili della
Destra. E forse il loro problema massimo fu appunto quello di
suscitare con ogni mezzo nel paese quel desiderio e quel bisogno, e
insieme di far apparire che fosse il paese a suscitarli, anzi a
imporli al governo397. (Quanto e quanto inutilmente faticò
Rattazzi nel '62 per far scoppiare a Roma una rivolta
«spontanea»!398). Giuoco complicato e pericoloso che
riuscí quasi sempre a meraviglia399.
E per ciò vanno rivalutati in pieno gli uomini meno popolari
della Destra, i quali debbono la loro fama non invidiata all'essere
rimasti scoperti, e a volte anche malamente scoperti400,
nell'esecuzione di questo giuoco, onde ne vennero loro facili
contumelie e facili recriminazioni, non dei soli contemporanei.
(Novembre 1862: alla Camera, discutendosi e palleggiandosi le
responsabilità di Aspromonte, un deputato della Sinistra
chiede addirittura che il gabinetto Rattazzi venga messo in stato
d'accusa!)401.
Ma, si dirà, fu il loro giuoco cosciente? O non piuttosto,
fidenti nella fortuna, si lasciarono quegli uomini della Destra
governare da una serie di elementi contrastanti e inconciliabili,
quali ad esempio gli umori di una piccola minoranza rumorosa e
faziosa e la granitica volontà determinata402 delle grandi
potenze, abbandonandosi ora in braccio a quelli passivamente e ora,
per obbedire a questa, violentandoli e additandoli alla generale
esecrazione?
Se ad alcuno saltasse in mente di dire a un uomo il quale, su
fragilissima imbarcazione, abbia saputo a gran forza di remi
reggersi su un mare tempestoso, evitando sapientemente gli scogli
onde è cosparso, che la sola fortuna lo ha assistito e che
egli, tra i marosi, non sapeva quel che si facesse, noi lo terremmo,
giustamente, per uno che non conosce il mare. In verità non
conosce la politica chi può sostenere che gli uomini della
Destra, pienamente consapevoli dei dati contraddittori della loro
politica, non governarono, ma si lasciarono governare.
Si osservi che sarebbe bastato un passo falso a compromettere il
tutto e a svelare troppo sfacciatamente la commedia che s'andava
rappresentando in faccia al mondo, d'un governo che di nascosto
spinge e poi grida d'esser trascinato403; sarebbe bastato un nulla a
rovesciare l'equilibrio fittizio ma sufficiente che per dieci anni o
quasi si riuscí a mantenere tra le forze apparentemente
armoniche e quelle apparentemente disarmoniche. Per dieci anni; ora,
se è possibile che in un dato momento un uomo di Stato,
incerto sul da farsi, venga assistito da un singolare colpo di
fortuna, sarebbe stolto attribuire al caso una politica decennale,
ferma e immutabile nelle sue volute apparenti incertezze. (Quanto a
me io non credo neppure al colpo di fortuna. Si dice: il tale
è fortunato perché, in dubbio tra vari partiti, ha
scelto, senza troppa riflessione e senza conoscerli ben tutti,
proprio quello che si è poi rivelato il migliore. Ma l'uomo
non rinasce e non si riforma innanzi a ciascun problema che turba la
sua coscienza. Tutta la sua esperienza anteriore, e l'istinto, che
non è in buona parte che un derivato incosciente di tale
esperienza, lo assistono inavvertitamente quando egli agisce).
Ma torniamo ad Aspromonte e a Mentana e diciamo pure, per quanto
strana possa suonare tale affermazione, e quasi irriverente, che
costituirono anch'esse un successo della Destra404, quanto doloroso
e sofferto, non è chi non sappia. Si doveva fermare Garibaldi
sulla via di Roma, e a volte i garibaldini e perfino il loro duce
finsero di non intenderne le ragioni, ma bisognava pure che
Garibaldi – ossia l'incarnazione della esasperata e indocile
volontà popolare, quale in parte fu, e in parte assai
maggiore si volle far credere che fosse – sulla via di Roma si
avviasse. E ci si avviò due volte, e la prima fu arrestato
dagli schioppi italiani, l'altra dai piú efficaci e moderni
francesi. Tutte e due le volte, pur nell'ansia e nel lutto, l'Italia
sentí che si era avvicinata in effetto all'agognata meta e
che ormai, con quel sangue versato, se l'era meritata anche di
piú, Roma.
Russia e Prussia riconobbero il regno solo dopo Sarnico, che fu il
prologo di Aspromonte405. Palmerston scriveva a Russell, presidente
del Consiglio dei ministri d'Inghilterra – il quale opinava, 6
ottobre 1862, che nessun ministro italiano avrebbe potuto condursi
meglio di Rattazzi (lettera a Hudson, 6 ottobre) – che gli pareva
che questo «Garibaldi affair» offrisse una ottima
opportunità per chiedere con qualche energia, a Napoleone se
non gli pareva giunto il momento di sgombrare Roma. E il governo
italiano, a carico del quale i Nicotera e compagni sbraitavano
perché, dopo aver dato prove non dubbie di incoraggiamento a
Garibaldi, lo aveva trattato poi d'improvviso come un nemico,
poteva, il 10 ottobre, valersi di Aspromonte per scrivere alle
legazioni all'estero che se gli era riuscito di dominare il
movimento insurrezionale, bisognava pur riconoscere che la parola
d'ordine dei volontari era stata questa volta «l'espressione
di un bisogno piú imperioso che mai». Quello stesso
governo che prodigava segretamente armi e denari per suscitare
ovunque la passione di Roma, poteva, ancora, valersi di Aspromonte
per domandare in tono di seria preoccupazione se le potenze
avrebbero mai compreso «quanto sia irresistibile il movimento
che trascina la nazione verso Roma»406.
Risvegliare le masse, farne udire all'estero la poderosa voce – e
insieme tener con mano ferma il timone e non farselo strappare di
mano: ecco il punto difficile che la Destra seppe brillantemente
superare. L'Italia voleva esser grande e pari in civiltà ai
piú potenti paesi d'Europa: non spedizioni irregolari,
dunque, e confusione di poteri e salti nel buio e dittature opposte
alla solenne indiscussa e suprema autorità e volontà
regia – tutte cose che s'eran viste nel '60, ma allora l'Italia non
c'era, né c'era un esercito italiano né un re
italiano; e del resto s'erano anche allora troncate e liquidate in
fretta e furia, forse con ingratitudine, certo con somma
virtú politica e scienza dei frutti amari che competono a un
paese il quale vuole imporsi nel mondo civile e nel tempo stesso
ignora o fa mostra d'ignorare che la compostezza, la dignità,
l'ordine, il rispetto delle proprie leggi sono il presupposto della
civiltà e la condizione dell'altrui rispetto.
Sí, noi vogliamo andare a Roma – disse Ricasoli in
Parlamento, il 10 luglio 1861 – ... Ma come dobbiamo andarci?... Non
con moti insurrezionali, intempestivi, temerari, folli, che possano
mettere a rischio gli acquisti fatti e compromettere l'opera
nazionale...
Politica per tutti.
Quando Ricasoli (giugno 1861) fu costretto ad assumere la tremenda
eredità di Cavour, la popolazione italiana poteva, per
riguardo al suo atteggiamento di fronte al regime, dividersi presso
a poco in quattro categorie: una, non cospicua ma numerosissima,
costituita da quanti eran vogliosi di seguitare sulla via rischiosa
e fruttuosa del '59-60407; l'altra, la media, da gente cui pareva
miracolo, e fors'anche mal sostenibile, quel che era diventata
l'Italia e non volevano che pace e lavoro408; la terza, meno esigua
in verità della prima, se pur non cosí rumorosa, e
anzi coll'andar del tempo sempre piú tacita e isolata, che
raccoglieva tutti gli scontenti non di questo o quel provvedimento,
ma del regime, i lodatori del tempo che fu. La quarta, finalmente,
la massima, degli indifferenti ed estranei, ahimè vastissima,
come quella che raccoglieva il grosso della popolazione, ignorante,
sfiduciato, e misero409.
In quindici anni, con questa gente410, i governi della Destra fecero
quel che sappiamo, conquistarono cioè all'Italia una
situazione interna e internazionale incomparabilmente piú
forte che all'indomani della costituzione del regno. E non è
da dirsi che la prima categoria di cittadini, di quelli solleciti
d'un rapido progresso politico del paese, si fosse allargata – se
mai, tutt'altro. Né furon questi, nel complesso, accarezzati
dai governi, i quali d'altronde, si mostrarono inesorabili con i
reazionari; spaventarono piú di una volta e non contentarono
quasi mai, nel dettaglio delle cose, la grande categoria intermedia;
né si preoccuparono di legare al loro carro gli indifferenti.
Con ciò, e nonostante ciò, perseguirono una loro
chiara politica, che era poi politica per tutti411 (e non conta se
pochissimi furon quelli che, sul momento, la riconobbero come loro o
adeguata ai loro interessi). Per gli estremisti, che videro
compiersi il sogno unitario; per i reazionari che, una volta
rinunciato alle loro vane speranze, si sentirono accolti e confusi
con gli altri tutti, e dovettero riconoscere che l'Italia non era il
piccolo Stato vendicativo e implacabile che dapprima avevano
temuto412; per la categoria intermedia, che senza quasi scosse o
giuochi d'azzardo, si trovò lieta di una maggiore
prosperità e garantita nelle sue esigenze da condizioni di
stabilità e solidità infinitamente migliori (si
può dire che la borghesia manifatturiera, commerciante,
produttiva, di tipo moderno, si formò in Italia proprio negli
anni della Destra – certo, non esisteva nel 1861 ed operava
già largamente intorno al 1880); per gli indifferenti,
finalmente, che iniziarono, e furono anche dall'alto sospinti a
iniziare quel processo di differenziamento, di autoripartizione in
categorie d'interessi, coordinate e partecipanti agli interessi
collettivi, che dura ancor oggi.
Governo costituzionale.
Politica tragica, in un certo senso; cosí assoluta era
l'inadeguatezza dei mezzi ai compiti prefissi, cosí accanita
la resistenza opposta da taluni ceti sociali (brigantaggio, dal 1860
al 1865 circa; renitenza alla leva, con migliaia e migliaia di
disertori negli stessi anni; rivolta contro la tassa sul macinato,
1868-69), cosí supina e gelida l'indifferenza della massa
ogniqualvolta si trattasse di realizzare cosa che richiedesse non
tanto l'unanime consenso, ma almeno un po' di buona volontà
da parte di tutti; cosí implacabile, assai spesso,
l'opposizione delle minoranze di Sinistra413. Questa politica e i
suoi risultati e i suoi modi e limiti non si possono rammemorare
oggi senza provare, per non dire altro, un senso di profonda
stupefazione. Perché, chi guardi l'opera della Destra
dall'alto, nel suo insieme, non può non cogliere quel suo
granitico aspetto di cosa rettilinea, coerente, organica, quel suo
carattere di amministrazione severa nella quale non è
consentito lo spreco e i fini sono raggiunti con i minimi mezzi, che
la resero cosí adeguata al tempo e alle necessità
sostanziali del paese e degli uomini. Quasi ci sembra, quell'opera,
oggi frutto di un pensamento originale, indipendente, individuale e
di una azione personale libera e ininterrotta. Quasi si direbbe che
il realizzatore di tale politica, assorto nella sua non lieve
fatica, non abbia avuto a soffrire intralci di sorta, che al suo
genio operante il paese si sia assoggettato o lasciato assoggettare
come il corpo addormentato sul tavolo d'operazione, ai ferri del
chirurgo.
E invece! In quindici anni, otto mutamenti di ministero e non so
quanti anche radicali rimpasti414; rigidissima osservanza delle
regole sancite dalla costituzione415. (Nessuno dimenticava le
celebri parole di Cavour morente: «Non mezzi eccezionali, non
stato d'assedio; cogli stati d'assedio tutti sanno governare
bene»; e se in qualche rara occasione fu giuocoforza
sospendere in qualche luogo e temporaneamente le franchigie
costituzionali, non si derogò mai alla savia massima del
Rattazzi, giustificarsi tali sospensioni solo quando servissero
«per salvare le franchigie stesse, non per
distruggerle»). Un Parlamento attivissimo e sensibilissimo,
punto disposto a inchinarsi di fronte al potere esecutivo416; una
classe politica estremamente nervosa e inquieta, una libertà
di parola e di stampa quale noi oggi non riusciamo neanche a
concepire. Partiti e gruppi di opposizione, come si è detto,
tenaci, elastici, e combattivi, generalmente rispettati e, quando
toccati nel fondamento della loro libertà, indiavolati nella
difesa e nell'attacco, onde la violazione temporanea delle
libertà statutarie da parte del governo serví sempre,
come deve accadere in un paese sano, a distogliere il potere
esecutivo dal ripeterla, a rinvigorire i gruppi perseguitati417
(tipico il celeberrimo episodio di Villa Ruffi). Diversità
profonda di cultura, di educazione, di ambiente, opposizione netta
di interessi tra gli uomini succedutisi al potere418. Uno scontro
perpetuo di tendenze, anche tra gli aderenti ai medesimi gruppi,
quale soltanto può verificarsi in un paese che non ha ancora
suturato i distacchi, le opposizioni e le gelosie (d'altronde non
tutti facilmente suturabili neppure in decenni di vita unitaria) tra
i sette Stati che poco innanzi lo dividevano419; donde la
necessità, poi diventata assurdamente tradizionale in Italia,
di equilibrare regionalmente la composizione dei Ministeri, causa
prima dell'ascesa degli incompetenti al potere420.
Difficoltà grosse, contrasti gravi per la Destra421; e non
sarà male addurne qualche esempio tipico; comunque le une e
gli altri scaturivano direttamente e necessariamente dalla
concezione stessa che gli uomini della Destra si erano fatti,
inculcavano agli altri e soprattutto rispettavano in pratica, della
vita politica in un paese civile.
Le elezioni422 non di rado cagionarono le piú strabilianti
sorprese agli stessi ministri dell'Interno, proverbiali, in massima,
per la neutralità assoluta che mantenevano durante il loro
svolgimento. Lanza, piemontese corretto e scrupoloso, si
sentí perfino in diritto, nel 1865, all'indomani di una
campagna elettorale che era stata una vera ecatombe per gli amici
del governo, di affrontare il La Marmora, allora presidente del
Consiglio, rimproverandogli di essere stato un po' troppo con le
mani alla cintola, dando cosí prova di una «insipienza
di cui non si trova esempio negli annali di nessun governo
costituzionale»423. Dopo il '70, pare, i ministri dell'Interno
ruppero qualche volta la bellissima tradizione di codesta
«insipienza». Ma quanto furiosamente e clamorosamente
non vennero denunciati! Si legga in proposito lo Zini.
L'osservanza delle regole costituzionali era cosí rigida
generalmente (primissimi nell'esigerla e nel richiamare ad essa
continuamente e quasi pedantescamente il governo, quelli di
Sinistra; e non di rado era comico veder quelli stessi che nel paese
si credevano lecito di violare allegramente la costituzione,
diventarne i piú severi glossatori in Parlamento. Bene, del
resto, perché in tal modo a poco a poco perdevano l'abito
dell'opposizione di principio e si preparavano alla diretta
amministrazione del paese)424, era dunque cosí rigida tale
osservanza che, 1° dicembre 1862, si trovò enorme e
contro ogni consuetudine parlamentare, e anzi offesa nuova e
gravissima al Parlamento, che il Rattazzi, in difficoltà per
i postumi di Aspromonte, liquidasse il suo ministero senza aspettare
il voto prammatico di condanna della Camera.
Ricasoli, tra gli uomini della Destra, fu forse quello che
piú sentí la necessità di addivenire a un
accordo pacifico con il Vaticano, che tranquillasse la coscienza
degli italiani cattolici e assicurasse il libero sviluppo
cosí agli interessi spirituali e materiali della nazione
italiana, come a quelli della Santa Sede. Ai suoi progetti di
sistemazione di tali questioni teneva piú che a ogni altra
cosa. Sui primi del 1867, essendo egli al potere, l'opposizione di
Sinistra suscitò in tutto il paese rumorosissimi comizi
popolari contro un progetto di legge da lui presentato sulla
libertà della Chiesa e la liquidazione dell'asse
ecclesiastico. Ricasoli, l'uomo del «reprimere, non
prevenire», l'uomo che aveva bollato (febbraio 1862) il
sistema preventivo come «proprio specialmente del governo
dispotico», dimenticò per un istante i savi
principî e si permise di ordinare ai prefetti che vietassero
tali comizi. Non l'avesse mai fatto! La Sinistra gli sollevò
un tale putiferio nella Camera, seppe cosí bene rinfrescargli
la memoria sui canoni da lui medesimo enunciati intorno alla
politica interna dei governi costituzionali, che – definite
«teorie russe» le sue deboli giustificazioni – lo
costrinse alle dimissioni.
La libertà di parola non si contestava certo a nessuno; quel
che non fu detto in quegli anni contro i governi della Destra!
(allora non vigevano le disposizioni sulle prerogative del primo
ministro ecc.). «Voi siete figli della paura», osava
dire Crispi, novembre 1864, ai ministri e ai ministeriali,
sostenitori della convenzione di settembre. Il governo italiano
è un «mucchio di canaglie e di ladri», andava
proclamando Menotti Garibaldi425 nel 1870, in seguito alla
repressione dei moti repubblicani, scoppiati in vari punti d'Italia.
Che non si scagliò in faccia a Sella426, il cireneo della
finanza italiana, per il suo «feroce» tassare, tassare,
tassare?427. Rimando il lettore che voglia farsene un'idea ai
resoconti parlamentari.
Quanto alla libertà di stampa428 di che allora si godeva,
tralasciamo i pamphlets, gli opuscoli, i volumi che a centinaia si
lasciarono stampare, svelanti e deprecanti le «vergogne»
della Destra (assai istruttivo il leggerseli, ora che sono spente le
passioni che li hanno ispirati: cosí tenui e giustificabili
ci appaiono quelle vergogne o cosi prontamente rimediate...);
tralasciamo i giornali di sinistra, non perché fossero
temperanti, ma perché si potrebbe pensare che ad essi molto
si perdonasse per riguardo alla loro disapprovata, sí, ma pur
sempre patriottica attività. Si scorrano invece le collezioni
dei giornali clericali. Quelli eran giornali che apertamente
invitavano alla sedizione contro i poteri dello Stato, che
notoriamente si tenevano in contatto, erano anzi agli ordini di
potenze o potentati, o ex potentati stranieri congiuranti ai danni
d'Italia. Sequestri? Ben di rado: e tanto meno soppressioni. E
allora? Ottusità del governo? Può darsi. Fatto sta che
la stampa clericale anti-italiana tanto sbraitò che
finalmente, un bel giorno, pensò di mutar registro, e
cessando di fare il processo all'Italia, si mise a far quello ai
problemi italiani: ossia iniziò il suo collaborazionismo, che
è poi quello piú utile e qualche volta anche
piú gradito ai governi, il collaborazionismo della
opposizione.
Ma un governo che si lascia anche vilipendere non è un
governo spregevole? Gli uomini della Destra evidentemente non
pensavano cosí. Forse pensavano che non serve a nulla ed anzi
riesce quasi sempre dannoso il porre e mantenere il governo della
cosa pubblica troppo au dessus de la mêlée, il farne un
alcunché di sacro, di intangibile, di infallibile e
perciò lontano dalla vita del paese. Volevano serbar sempre
immediata la sensibilità delle passioni, degli umori, dei
bisogni dei governati, per soddisfarli se del caso, per correggerli
se necessario, per non straniarsene mai. Meglio il vilipendio, se
prova nell'offensore un caldo interesse per la cosa pubblica, che il
reverenziale silenzio, prova d'indifferenza o sicuro mezzo per
determinarla al piú presto. Se poi ci solleviamo dal
dettaglio e guardiamo all'insieme, troviamo che non ci fu mai
governo cosí universalmente rispettato, pur tra le
appassionate ingiurie momentanee, come quello della Destra.
Collaudi.
Difficoltà e contrasti non gli furon dunque risparmiati, come
s'è visto e meglio si vedrà nel seguito. Ma la
solidità e insieme l'elasticità dell'opera sua furon
determinate, come suole, appunto dalle difficoltà, appunto
dai contrasti. Il suo programma, dapprima maturato nel pensiero
individuale, ne venne chiarito, inciso, potenziato. Le battaglie che
ogni proposta degli uomini di governo suscitò tutt'intorno e
le veementi discussioni e il confronto a cui venne piegata con le
esigenze dei piú vari interessi le assicurarono naturalmente,
se concretata poi nella realtà pratica, oltre al consenso
ponderato e vorrei dire alla corresponsabilità di quanti alla
discussione avevano partecipato, una poliedricità, una
capacità intima di resistenza, una adeguatezza alle dissimili
necessità del paese, nelle sue varie regioni, che forse in
Italia ha pochi riscontri.
La Destra ottenne tutto ciò seguendo un sistema analogo a
quello generalmente seguito nelle buone officine, le quali, innanzi
di lanciare i loro prodotti sul mercato, li sottopongono a una
prova, che sia la piú severa di quante non possano venir loro
imposte nel normale funzionamento. Prodotti meccanici, o d'altra
sorta, in tal modo verificati si impongono e resistono. Analogamente
le provvidenze dei governi. Mentre è giusto diffidare e
presagire gravi e forse mortali difficoltà future a quelle
che, o per la indifferenza degli elementi politici chiamati alla
verifica, o in seguito alla soffocazione, tra di essi, delle voci
discordi, concepite pur con travaglio e buon volere grandissimi, non
conoscono al loro primo affacciarsi alla realtà concreta se
non facili vie e facili consensi.
Opera educativa.
Se meravigliosa appare a noi la efficienza e continuità che
la macchina costituzionale mantenne, attraverso le circostanze
piú gravi forse che il nostro paese abbia mai attraversato
negli ultimi sessanta anni, non certo parve tale agli uomini del
tempo; tra i quali era universalmente diffusa la pacifica e
pacificante sensazione che la costituzione e le sue garanzie fossero
non un abito da festa da fare indossare al paese in tempi quieti e
normali salvo poi a buttargli addosso bruscamente nei periodi di
crisi la camicia di forza dei provvedimenti eccezionali429 e,
peggio, della inconfessata ma effettiva violazione delle norme
statutarie; sibbene uno strumento utile e potentemente educativo e
normalizzatore solo se usato ininterrottamente, in tutti i casi,
gravi o non gravi, comodi o non comodi. Strumento sapientemente
concepito, che corregge automaticamente gli abusi, frena le corse
pazze, diffonde in tutti calma e fiducia. Strumento che non permette
né sorprese né imposizioni e a tutte le
attività lecite, a tutti i programmi ragionevoli, a tutti gli
interessi confessabili assicura sviluppo e tutela, tutti
assoggettando a un lento e saggissimo ritmo, ottimo per mettere in
rilievo le cose vitali e meditate, ottimo altresí per
lasciare inaridite dietro di sé le precipitose e caduche.
Sí che la Destra, attaccandosi disperatamente alla
costituzione nei momenti piú gravi, non solo vi trovò,
come accade, salvezza, ma insieme compí una profonda
indimenticabile opera di educazione del paese tutto. Gettando, come
essa non mai cessò di fare, luce piena e meridiana sulle
questioni e gli episodi piú complessi e delicati, e su di
essi e le loro cause e soluzioni impostando esaurienti dibattiti,
non solo acquistò sempre indicazioni e argomenti utili alla
determinazione della migliore politica da seguirsi, ma anche forza
indiscutibile e impareggiabile nell'eseguire, ma anche e soprattutto
la generale fiducia. (Prova mirabile gl'incredibili sacrifici
finanziari che sostenne, negli anni tra il '60 e l'80, il popolo
italiano; lamenti generali contro gl'implacabili tassatori, è
vero, ma la pubblicità della politica governativa, la
sicurezza che ogni nuovo introito non sarebbe stato usato che per lo
scopo per il quale era stato richiesto, l'esistenza di numerosi
controlli all'opera ministeriale430, congiunti al lento ma sicuro
miglioramento del bilancio, finivano col placar tutti, nella
certezza che ogni loro sacrificio si traduceva in vantaggio
immediato per il paese).
In tal modo tutti quelli che occupavano posti di
responsabilità e tutti quelli che modestamente faticavano la
vita si sentirono piú legati a un'unica impresa nella quale
non dovesse essere lecito ai pochi di compromettere impunemente la
pace e il lavoro dei molti, e ai molti incombesse il dovere di non
isolare i pochi nella loro aspra fatica, ma di dar loro la ragionata
convinta definitiva solidarietà, che è poi quella che
irrobustisce i popoli, li fonde in una sempre piú tenace
unità e li rende capaci di segnare un'orma nella storia del
mondo.
Esperienza viva.
I metodi seguiti dalla Destra sono, è vero, quelli stessi
all'osservanza dei quali sono tenuti, si sa, tutti i governi
parlamentari; ma si deve pensare che essi costituivano una
novità assoluta per due terzi d'Italia e che il loro retto
funzionamento era gravemente ostacolato dagli umori e dai residui
rivoluzionari che fino a tutto il 1870 continuarono a serpeggiare
per il paese. Eppure si potrebbe obiettare: la fatica costituzionale
della Destra, di fronte a quella analoga dei moderni governi
parlamentari, non era singolarmente agevolata dall'allora vigente
suffragio ristretto (mezzo milione di elettori) e dall'assenza dei
grandi partiti di masse? In altri termini: non si presenta
l'esperienza della Destra ormai come qualcosa di definitivamente
chiuso, non costituisce essa un buon campo di sfruttamento
unicamente per gli storici eruditi? Non è forse da negarsi
qualunque stretta continuità, e interdipendenza tra quella
esperienza e quella che viviamo noi, ora che il governare si fonda,
generalmente, sul consenso e il controllo della grande maggioranza
della popolazione? Niente di tutto questo. Suffragio universale
presuppone generalmente organizzazione, piú o meno
progredita, delle masse le quali, individuati i loro interessi di
categorie, li perseguono in contrasto piú o meno accentuato
con gli interessi di altre categorie; significa cioè
riconoscimento politico (legalizzazione) di un mutamento di
posizione verificatosi nell'ordine sociale. Ma com'è noto,
esso porta con sé, come naturale conseguenza, una generale
diminuzione di interesse per le questioni politiche propriamente
dette, di fronte al porsi e all'imporsi delle grandi questioni
sociali. I governi hanno avuto in politica assai piú libere
le mani dal giorno in cui hanno cominciato a funzionare gli annessi
e connessi del suffragio universale o comunque a larghissima base.
Può sembrare un paradosso, e non è, sol che si
rifletta un istante alla storia politica di tutti i paesi moderni.
Oggi l'attività dei gruppi politici non è polarizzata
ad un unico intento, ma si disperde intorno ad una serie assai vasta
e varia di problemi, collimanti tutti, s'intende, con quelli
politici, ma che in essi non si esauriscono. Non era cosí
sessant'anni addietro; e agli uomini della Destra, ai quali
incombevano formidabili problemi di natura politica, non si
presentò mai la comoda possibilità dei diversivi,
buoni a smorzare l'interesse veramente morboso suscitato da quei
problemi nei gruppi politici. Tutti sanno invece quanto accorti e
sagaci siano diventati gli uomini di governo del nostro secolo nella
manovra di agitare alternativamente questioni politiche e questioni
sociali e di acquistare con le concessioni nell'un campo la mano
libera nell'altro.
La Destra non conobbe riposo. Il programma di lavoro esposto nel
1861 è sostanzialmente ancor quello che forma la base delle
discussioni dieci anni dopo, salvi, s'intende, quei punti che ne
sono già stati tradotti in pratica e che per altro continuano
anche essi a fornire motivo di incontri e scontri per il modo della
esecuzione.
È vero che il mondo politico dei tempi nostri è
incomparabilmente piú vasto che non fosse un sessant'anni or
sono; è vero che in oggi i governi, se sono tenuti a
rispondere, per costituzione, alle sole Camere, in realtà
subiscono un controllo continuato ed efficacissimo attraverso la
stampa, i comizi, i congressi dei partiti, da parte di tutte le
forze pensanti del paese; ma è per lo meno incerto se la
ristrettezza del mondo politico costituisca o no una facilitazione
per l'opera loro. (S'intende che questo parallelo non riguarda che i
governi costituzionali. Quelli che sono al di fuori, al disopra, al
di sotto del sistema costituzionale non conoscono controlli e i
gruppi politici che essi lasciano sussistere non sono in
realtà che organi del potere esecutivo, se pur qualche volta
il loro ufficio non si riduce a salvare delle inutili apparenze).
Almeno per l'Italia, si può dir questo: che la Destra fu
sottoposta al severo e continuo controllo del Parlamento, quando
questo era sovrano non di nome, ma di fatto esercitava la sua
funzione con instancabile zelo, ed era davvero incorruttibile; che
invece i governi succedutisi dopo la concessione del suffragio
universale, se conobbero tutte le difficoltà del sistema
nuovo, conobbero anche e seppero largamente sfruttare tutti gli
artifici e tutte le astuzie che la novità appunto del sistema
e la impreparazione politica del paese suggerivano o permettevano.
Il Parlamento.
Il Parlamento di sessant'anni fa era una accolta di competenti431,
eletti da competenti, attraverso un sistema che portava alla ribalta
non rappresentanti di categorie di interessi, ma di categorie
ideali432. Costituendo esso l'unico tramite tra il governo e il
paese, essendo esso solo incaricato del geloso compito del controllo
al potere esecutivo, sentiva profondamente la sua
responsabilità ed esercitava scrupolosamente il suo mandato
consultivo e correttivo. Oggi, quando pur funziona, il Parlamento
non è che un prisma nel quale si riflette – o dovrebbe
riflettersi – l'intensa vita politica e sociale del paese; agendo
sulla stampa, usando dei sempre piú larghi mezzi che sono a
sua disposizione, giovandosi dell'influenza che esercita su tutte le
grandi organizzazioni, il governo può in determinati casi
infirmare, attenuare, spezzare l'eventuale irriducibile opposizione
parlamentare. Ma allora il Parlamento assommava e, si può
dire, esauriva in sé l'attività politica del paese433;
e col Parlamento, e con lui solo, bisognava fare i conti, senza
possibilità di appello a chicchessia434. Il governo era
costretto ad agire nelle condizioni del consiglio di amministrazione
di una società, che fosse non teoricamente ma effettivamente
invigilato in perpetuo dall'assemblea dei soci435.
Donde difficoltà estrema del governare, ma anche
amministrazione trasparente (quante inchieste parlamentari! O non si
giunse nel 1867 a domandare un'inchiesta perfino sull'uso dei fondi
segreti del ministero dell'Interno?); politica avveduta e non mai
precipitosa, e finalmente quella caratteristica impareggiabile dei
governi parlamentari non corrotti, ed è che tu non puoi mai
distinguere l'opera compiuta dal potere esecutivo da quella del
legislativo. Non che i due poteri non siano distinti, ma tale
è il controllo che l'uno esercita sull'altro, e tale, in
effetto, la collaborazione, pur fra i contrasti, che tra i due si
stabilisce, che, all'ultimo, l'opera del governo appare rifusa nel
bagno parlamentare e l'opera parlamentare fa blocco con la prima.
Sicché, quando si parla di quel che ha fatto la Destra, non
già si deve intendere quel che han fatto ministeri di Destra,
ma bensí tutte le forze del paese sotto l'amministrazione
della Destra: opposizioni comprese.
La quale Destra era, si sa, dichiaratamente avversa a un
allargamento del suffragio436; pure fu essa che, con il tono
impresso alla vita politica del paese, rese possibile la non remota
introduzione di quella riforma (1882; il censo è portato da
40 a 19 lire, l'età dai 25 ai 21 anni, il titolo di studio
alla licenza di seconda elementare; gli elettori passano da 504 263
a 3 milioni)437. Nelle elezioni, allora pochissimi erano chiamati a
dare il voto, ma era diffusa la sensazione che quei pochi dovevano
considerarsi come eletti di primo grado, come interpreti provvisori
di piú vaste categorie di interessi. Di qui il rivolgersi
evidente che facevano i candidati, i quali pur nella lettera si
dirigevano ai soli loro elettori, al paese tutto; e i discorsi
programmatici che tenevano spesso non solo nelle limitate adunanze
degli elettori, ma in riunioni pubbliche, e i manifesti politici che
spargevano largamente, quasi volessero compiere la prima educazione
politica di quelle masse che un giorno sarebbero state chiamate a
partecipare alla vita pubblica, e intendessero iniziarle alla
conoscenza dei grandi interessi collettivi438. Sotto la Destra,
scrive Oriani, il «popolo cominciò a comprendere che il
governo non era piú un nemico come pel passato». E se,
ad esempio, fin dal 1860, i ministri dell'Interno vietavano
assolutamente che nelle adunanze delle associazioni operaie di mutuo
soccorso si ragionasse di politica, pure nella stessa, poi sempre
ripetuta proibizione, poteva ravvisarsi il riconoscimento da parte
loro della opportunità che gli operai se ne occupassero,
poiché la motivavano coll'espresso timore che le associazioni
non avessero a guastarsi convertendosi in conventicole politiche; ma
si affrettavano a soggiungere che nessuno perciò si sognava
di contestare agli operai il diritto di radunarsi fuor di quelle per
discutere questioni politiche.
La Destra insomma con quel che fece o volutamente lasciò fare
in questo campo, s'adoperò in modo che alla riforma legale
che essa riteneva ancora intempestiva, precedesse una riforma
spontanea nella concreta realtà dei fatti; e che in
un'atmosfera di purezza e di fedeltà a una carta che
sintetizzava l'aspirazione costante di generazioni e generazioni di
italiani a un sistema di libertà e di civiltà, le
grandi masse sorgessero alla vita politica e si preparassero a
dividerne i pesi e i vantaggi.
I partiti.
Non sussistevano, a quei tempi, i grandi partiti di masse; l'Italia
non conosceva ancora, cioè, la sovrapposizione tanto
lamentata in oggi degli interessi di partito o di categoria a quelli
collettivi o nazionali, e le conseguenti paralisi della vita del
paese, pauroso scoglio per i regimi costituzionali. È vero;
ma se, pur tralasciando di soffermarsi su quei casi noti e
gravissimi nei quali la Destra ebbe ad urtare contro la resistenza
rabbiosa opposta da vaste porzioni del sottosuolo sociale al proprio
coordinamento e subordinamento all'ordine statale439, si esamina la
situazione dei partiti tra il 1861 e il 1876, nell'ambito della
Camera, si riconoscerà che, in un piú ristretto
cerchio, questi non costituivano per la Destra una difficoltà
minore dei partiti odierni. Qual piú qual meno numeroso, eran
tutti infatti profondamente consci della propria storica importanza
e del diritto esclusivo di governare la cosa pubblica. A ciascuno di
essi il paese andava in parte debitore del proprio costituirsi a
nazione o almeno ciascuno di essi gli rinfacciava il debito
presunto: dai repubblicani che sostenevano risalisse al loro gruppo
l'onore di avere suscitata l'iniziativa del Risorgimento, ai
cavourriani persuasi di averlo essi soli reso possibile, era un
digradare di frazioni politiche fieramente avverse le une alle
altre, tutte benemerite, fra le quali era forza al governo
destreggiarsi e tirare innanzi senza disgustar seriamente
nessuno440. E ai disgusti non erano davvero alieni né
difficili quei partiti se, nel novembre 1863, una ventina di
deputati della Sinistra presentavano le dimissioni per essersi
trovati in minoranza alla Camera nel deplorare la politica
repressiva.
Il sistema della Destra.
Ma qualcuno potrebbe domandare: quale fu dunque questo mitico
governo di Destra, tutto e soltanto saggio e avveduto, senza
macchia, infallibile, sempre pari a se stesso? E quali questi uomini
di Destra tutti disinteressati, modesti, e accorti? O non accaddero
anche allora ingiustizie, scandali, brogli? o non si compierono
anche allora pesanti errori in ogni ramo della pubblica
amministrazione?
Errori, sí, scandali, ingiustizie, sí; uomini insomma
di carne ed ossa, sí. Dio ci guardi dall'idealizzare. Ma qui
si discorre, piú che degli uomini, del sistema; e piú
dell'insieme che del dettaglio. E si vuol dire, e dirà, che
era quello un sistema siffatto che, se non poteva evitare gli errori
e le colpe, almeno riusciva, col tempo, a convertire gli uni e le
altre in qualcosa di bene. Perché era fatale, nell'aperto
contrasto di tendenze e nella libertà che da tutti allora si
godeva, che niente – e di male e di bene – restasse celato e potesse
operare inavvertito; ma tutto si risapesse e su tutto si esigesse, e
fosse forza concedere, l'indagine piena. L'errore diventava colpa, e
si scontava; l'ingiustizia, nota a tutti, nuoceva in ultima analisi
non a chi l'avesse subita, ma provocata; lo scandalo, perché
denunziato da chi aveva interesse e diritto di denunziarlo, si
rendeva insostenibile. L'imperizia non poteva reggersi ai posti di
comando di fronte a una libera anzi incoraggiata concorrenza. E via
di seguito. Questo sistema che non poteva, certo, mutare la natura
degli uomini, ma che li rendeva forzatamente migliori nell'agire,
sottoponendoli a un controllo e a una concorrenza ininterrotti e
ininterrompibili, era il sistema liberale seguito dal governo nella
irrequieta Sicilia, se nel febbraio 1867, sciolta la Camera, 72
deputati accusano il ministero441, in un violentissimo manifesto
diffuso nel paese, di violare le pubbliche libertà; se
nell'agosto 1870 si ventilarono le dimissioni in massa dei deputati
della Sinistra per protestare contro il governo che non si decideva
alla spedizione su Roma. E via cosí442.
Parlamento agitato. Eppure la convivenza qualche volta anche
tumultuosa di queste frazioni infiammate e suscettibili e
intransigenti giovò straordinariamente anche a loro medesime,
e cioè a far sí che a poco a poco esse riuscissero a
comporsi in una unità se non armonica (che dopo tutto non
è neanche desiderabile), almeno sempre meglio capace di
collaborare ai fini comuni, di subordinare a questi le singole
pregiudiziali443.
La tradizione recente e quella remota.
Tali i tempi, tali i modi della Destra. Ai quali dunque possiamo
riconoscere, almeno in ordine alle difficoltà incontrate e
superate, uno stretto legame di parentela con quelli moderni dei
paesi retti a sistema costituzionale. Ma contro la Destra si
è stretta da tempo in Italia la universale congiura del
silenzio. Quasi essa non altri titoli avesse al nostro ricordo che
la presa di Roma o il pareggio o altrettante utilissime cose, ma
contingenti, e cioè morte e sepolte per noi. E non si pensa
che il modo che si è tenuto per governare il paese e renderlo
capace di raggiungere questi e molti altri pregevoli risultati
supera le caduche circostanze esterne, né può mai
perdere la sua ognora freschissima attualità.
Comunque, se pur negletta, grande tradizione, quella della Destra,
nella sua severa umiltà, misura e perseveranza in uno sforzo
incessante; grande anche se quanti giorno per giorno la vissero, di
questi suoi meriti non ebbero coscienza444. Ma tale grandezza – la
piú vera profonda e duratura – oggi non s'intende e anzi si
disprezza e appunta di meschinità, preferendosi generalmente
il richiamo a un passato assai piú remoto, del quale si
levano a cielo e propongono e impongono come sprone e modello taluni
isolati aspetti gloriosi chiassosi e attraenti. Accade perciò
che Sella, Ricasoli o Minghetti sian piú antichi, piú
lontani da noi che non, per esempio, Caio Gracco e Giulio Cesare; e
che, per citare un fatto curioso, essendosi or non è molto
riesumato a fini di propaganda il Crispi, si siano i piú
posti ad osservarlo con la stessa compiaciuta meraviglia con la
quale in un papiro nuovamente rinvenuto avrebbero letto di un fin
qui ignoto e fiabesco faraone. Mentre il mondo non è
piú quello dei Gracchi ed è ancora, e sarà, chi
sa per quanto tempo, quello dei Sella e dei Crispi.
Accade altresí che, avvezzandosi a sognare un ipotetico
avvenire di grandezza, ispirato da un lato alla esaltazione di un
remoto e mal conosciuto passato, dall'altro alla sprezzante
ignoranza della storia d'ieri, molti perdano nonché il senso
vivo di quel che accade nel presente, la nozione del dovere che a
tutti incombe di contribuire alla elaborazione del comune domani.
IV.
Origini del movimento operaio in Italia
I.
L'atteggiamento dei clerico-reazionari
Un vero e proprio movimento di organizzazione operaia si determina
in Italia soltanto dopo il 1860. La risoluzione del problema
politico è un presupposto necessario all'impostazione del
problema sociale. L'avvenuta unificazione dimostra chiaramente agli
artigiani e agli operai, ossia alle piú intelligenti frazioni
del proletariato, che la rivoluzione politica non ha mutato
né si è preoccupata di mutare le loro condizioni
economiche; si dimostrano fallaci, quindi, le promesse degli
agitatori politici.
Col 1861, la organizzazione operaia si intensifica, le
società di mutuo soccorso si moltiplicano e si diffondono; i
tentativi di riunire i vari nuclei in uno solo, diventano fatti di
una importanza non piú trascurabile. Questo fervore appare
tanto piú notevole quanto piú si conoscono le tremende
condizioni morali e materiali dei nostri operai di sessant'anni fa
(analfabetismo a un livello altissimo; salari di fame, orari di
lavoro prolungatissimi). Il numero degli scioperi aumenta, e, in
alcuni gruppi piú progrediti (esempio, i tipografi) si fa
strada l'idea delle casse di resistenza; qua e là si
cominciano a imporre tariffe di lavoro.
Gli elementi mazziniani cercano di prendere la direzione del
nascente movimento operaio, dando una spinta vigorosa all'incerta
tendenza organizzatrice, additando via via soluzioni pratiche ai
molti problemi della vita operaia individuale e collettiva; ma essi
credono fermamente che la risoluzione del problema operaio non
potrà venire che da una grande rivoluzione morale, religiosa,
istituzionale del paese tutto, dalla repubblica democratica che
è il fine di questa rivoluzione. E quindi tentano di servirsi
dei nuclei operai come di centri di propaganda delle loro dottrine
politiche insurrezionali, abbinano insomma il problema politico col
problema sociale; con questo, non dànno tutto il possibile
incremento alle nuove iniziative sorte nel campo operaio (tali le
cooperative di consumo e di produzione), suscitano urti e scismi.
La maggior parte delle organizzazioni operaie li segue, nella
fiducia, non ancora sufficientemente scossa dalla recente
esperienza, che il miglioramento delle condizioni della classe
lavoratrice dipenda dal «completamento» della
rivoluzione.
La minoranza, che rifiuta il programma mazziniano ma che non
è capace di far da sé, cade in braccio ai
conservatori.
La delusione successiva al conseguimento della unità politica
costituí, per gli operai, la base necessaria al primo
formarsi di un vago sentimento di classe; la sensazione precisa che
i decantati vantaggi di questa unità non riguardavano affatto
le masse popolari, sibbene le classi borghesi e che, se mai, al
popolo era riservato di sopportare il peso del nuovo ordine di cose,
creò nel cuore degli umili il risentimento contro la
borghesia, determinò o rafforzò la sensazione della
società nettamente divisa in classi, antagonistiche fra loro.
Questo sentimento di classe si evolve con molta lentezza, fra i
nostri operai, dopo il 1860, e per i primi anni possiamo
rintracciarlo solo negli operai della grande industria, la quale
comincia a svilupparsi con un certo successo, nel Nord, verso il
1865.
Molti elementi contribuirono al precisarsi, al consolidarsi, al
diffondersi del sentimento di classe; io voglio qui fermarmi ad
illustrarne uno, del quale credo non si sia tenuto sufficiente
conto, sin qui: la propaganda clerico-reazionaria che, allo scopo di
creare imbarazzi al nuovo governo e determinare magari una crisi
definitiva con conseguente ripristino dei vecchi regimi, si studia
di aizzare l'astio e l'odio dei lavoratori contro le classi
dominanti.
La forma piú pericolosa, e piú nota, di questa
propaganda è quella che i clericali, attraverso la loro
formidabile organizzazione, compiono nelle campagne, tra i contadini
ignoranti, sfruttandone e stimolandone il profondo malcontento, che
le novità politiche hanno accentuato. Ne nasce il
brigantaggio nelle province meridionali, e, piú tardi, nel
1869, la pericolosa rivolta contro la tassa sul macinato, alla
quale, peraltro, contribuirono – oltre la propaganda clericale –
molti altri elementi.
Nelle città, i clerico-reazionari disponevano di un gran
numero di giornali e pubblicazioni periodiche di ogni genere, assai
diffusi, specie nel popolo. Furono questi un magnifico mezzo di
reazione.
I clericali ebbero l'accortezza di misurare l'importanza via via
crescente che l'elemento operaio andava assumendo nel paese; e
compresero quale tremendo pericolo quell'elemento, debitamente
aizzato, potesse costituire contro l'ordine sociale. In questo, si
mostrarono molto piú intelligenti dei moderati e dei
conservatori, i quali, si può dire, ignorarono in quegli anni
il problema operaio, limitandosi a sabotare il programma sociale
degli uomini di sinistra, a emettere, ogni tanto, e sempre per bocca
di isolati, timidi progetti di riforma o calorosi inviti alla
rassegnazione e alla calma dedicati agli operai, salvo poi ad
agitarsi smisuratamente, in presenza di qualche episodio piú
appariscente del processo di organizzazione operaia o di qualche
esplosione del malcontento popolare.
In quei loro giornali, i clericali si rivolsero soprattutto ai
poveri, agli sfruttati, ai disgraziati lavoratori, compiangendone la
sorte.
Bisogna confessare che, a quei tempi, regnava in Italia la
piú sconfinata libertà di stampa e di parola; tale che
a noi, che viviamo nel 1924, è ragione, almeno, di stupore.
La base della speculazione clericale è ben nota: il nuovo
regime, partorito dalla rivoluzione, è sorto sulle rovine
della religione e, quanto meno, la sua esistenza riposa sulla
negazione dei valori religiosi. Orbene, la religione costituisce
l'unico conforto per i diseredati, i quali si contentano di patire
in questo mondo, nella speranza e certezza di una migliore vita
ultraterrena. Togliete la religione alle plebi, e queste cadranno in
preda al piú gretto materialismo, si cureranno solo della
vita presente, né piú tempereranno la visione delle
ingiustizie terrene nel concetto di una giustizia superiore;
reclameranno perciò la soddisfazione immediata dei loro
diritti, si rivolteranno contro i potenti e daranno retta a chi
nella violenza additerà loro l'unico scampo per risolvere la
questione sociale.
Leggiamo «La Giovane Italia», strenna per l'anno 1862
(Bologna, Tipografia di Santa Maria Maggiore, 1861).
Chi ha allevato questo popolo senza Dio, senza Religione, educato
alla sfrenatezza? Chi gli ha ripetuto all'orecchio le mille volte
che egli è indipendente, e sciolto dai legami dei pregiudizi
antichi?... Non sono stati i moderni padroni? Il popolo li ha
intesi, e docile si mostra alle loro istruzioni, ed avendo imparato
che la libertà consiste per l'uomo nell'operare a suo
talento, fa ogni sforzo per porre alla pratica questa dottrina (p.
86).
Non è lecito invocare, solo fino a un certo punto, il Dio
della Libertà; ché quello, una volta messo al centro
dell'altare, incalza:
Predicaste la Libertà, la fratellanza, ed il vostro dire mi
piacque; siete dunque tutti fratelli. Voi proletari faccio ministri
del mio supremo volere. Andate, dividete, spartite e se essi... non
cedono alla forza delle teorie da essi predicate, sgominate tutto,
confondete, sperperate, ed in mio ed in loro nome superando gli
ostacoli, versate sangue, trucidate (p. 88).
Dal liberalismo al socialismo, al comunismo, il passo è
breve; piú che breve, logico. Ecco la giustificazione postuma
della lotta tenace che il papa e i principi cristiani hanno condotto
contro le nuove idee, sulle quali il nuovo regime si è
basato. Si tratta di «salvare l'Italia dal socialismo»,
proclama un opuscolo intitolato La Italia disfatta dalla rivoluzione
piemontese, stampato a Malta nel 1862 (p. 33).
Stolte, oltreché illogiche, le classi dirigenti che si
illudono di far argine al dilagare del socialismo col proporre alle
plebi dei palliativi.
Il socialismo – scrive «Il Conservatore», mensile
stampato a Bologna, all'insegna di Dante, anno I, n. 2, febbraio
1863 – non si combatte che riconducendo l'uomo a Dio, che
ricordandogli i legami che egli ha con lui, che illuminandolo con la
fede della sua origine e del suo fine, che confortandolo tra le
miserie di questo esiglio, colle dolci attrattive di una piú
dolce speranza.
L'uomo che non riconosce piú il diritto divino si
rifiuterà di star soggetto a un altro uomo, vorrà fare
a suo modo e «se è piú forte degli altri si
usurperà gli altrui diritti, violerà la libertà
degli altri, e cosí il disordine e l'anarchia saranno la
conseguenza inevitabile di una società atea».
(«Il Conservatore», maggio 1863).
In queste linee è già il nucleo fondamentale della
propaganda clericale. O tornare indietro, alla religione e ai regimi
che sulla religione e la legittimità si fondano, o avanti, ma
fino in fondo, fino al comunismo.
Quando, nel 1871, scoppia a Parigi la rivoluzione comunarda, i
clericali italiani gongolano di fronte allo sbigottimento generale.
Trovano che i signori liberali sono, in verità, poco logici.
E la «Civiltà Cattolica», s. VIII, q. 501, 6
maggio 1871, scrive:
Non si capisce che, senza dare nel comico, pretendano di
rimproverare, in nome della società e della civiltà,
gli aderenti della Comune di essere troppo dialettici nell'applicare
gl'insegnamenti e troppo attivi nell'imitare gli esempi delle loro
signorie liberali e conservatrici. Noi soli che abbiamo sempre
detto: o cattolici col papa, o barbari col socialismo, abbiamo il
diritto di giudicare e vituperar Parigi, senza mutare
improvvisamente il nostro modo di pensare.
Dall'enunciazione di questi principî piú generali, si
passa alla propaganda spicciola. Cito qui alcuni passi tolti dal
giornale fiorentino «La Vespa», avvertendo che in molti
altri giornali e pubblicazioni reazionarie del tempo si trovano
espressi i medesimi concetti e, inoltre, che gli articoli di
«La Vespa» sono largamente e compiacentemente riportati
da altre pubblicazioni, periodiche o no, redatte appunto da
clerico-reazionari.
Si attaccano le basi del nuovo regime. Ecco quel che della patria
italiana scrive «La Vespa», il 4 novembre 1864:
Santa cosa è la patria, quando, madre amorosa, provvede
egualmente benefica a tutti i suoi figli, e vuole in eguali
proporzioni distribuiti i premi, i compensi, i sacrifizi. Dove
però sotto il nome di patria si consumano i piú neri
eccessi, dove la libertà si vende e si traffica..., dove ogni
giorno si assiste al miserando spettacolo di vedere il galantuomo
nudo e il farabutto in carrozza, qual senso può avere mai
questa parola sulle ingannate moltitudini?
Questo concetto della patria matrigna ai piú dei suoi figli,
lo ritroveremo poi pari pari nel bagaglio di propaganda dei
socialisti.
Si stuzzicano i poveri nel punto piú delicato: le tasse.
L'avete voluto, il nuovo regime – dicono agli operai i clericali. E
ora godetevene le inique tasse. Prima, sotto gli altri regimi, le
tasse le pagavano solo gli abbienti. Ora si è piantata la
massima «che tutti i singoli cittadini, avessero o no
ricchezze, dovessero essere tributari dello Stato, qualunque fossero
i suoi bisogni, qualunque fossero i vantaggi che i cittadini
potessero aspettarsi da questi sacrifizi» («Il
Conservatore», luglio 1863).
Ecco il destino del popolo credenzone e balordo, sotto i nuovi
regimi. «Dopo aver fatto sgabello col suo corpo a chi agognava
ricchezze e poteri, egli ha visto il miserabile sfuggito come un
lebbroso, la povertà perseguitata e punita come un
delitto» («La Vespa», 2 giugno 1864).
Ci troviamo di fronte ad una vera e propria propaganda di odio. Il
popolo è dipinto come «l'asino che s'abbevera d'acqua,
mentre si tronca la schiena per portare agli altri i barili del
vino» (ivi, 17 giugno 1864).
Il nuovo regime vuole peggiorare sempre piú le condizioni del
popolo, vuol vederlo soffrire. «Invece di stabilimenti di
carità si sono dischiuse le carceri, invece delle scuole, i
postriboli. Ma niuno ha steso la mano al proletariato, niuno si
è ricordato di lui, fuorché l'agente municipale per
mandargli la cartella delle tasse, il precetto e il
gravamento» (ivi, 25 novembre 1864).
L'hanno proclamato sovrano, il povero popolo; ma ora, che i
maneggioni si sono messi a posto, «il popolo sovrano, dal gran
trono dove te lo avevano insediato, te lo piantano a sedere a
bischetto» (ivi, 16 gennaio 1865).
E i clericali dal cuore largo non possono trattenersi dal piangere
sulla sorte della classe operaia «cosí mal conosciuta,
cosí iniquamente spregiata, cosí barbaramente, nel
tempo della libertà e della filantropia, tiranneggiata ed
oppressa» (ivi, 2 giugno 1864), e «sui malanni della
povera gente sempre perseguitata». E concludono
cristianamente: «Finché la dura!» (ivi, 17 giugno
1864).
Bisogna far entrare sempre piú questi pii concetti nella
testa degli ignorantoni. Si fabbricano perciò dei versi,
apposta. I versi s'imparano a memoria. Ed ecco:
... Fiorin d'alloro,
la libertà ci costa gran denaro,
tutti hanno fame e avean a star nell'oro!
... Fiorin di pioppo,
per certe gole ci vorrebbe un tappo;
chi non ha da mangiare e chi ne ha troppo.
(«La Vespa», 13 giugno 1864).
... Pagate, pagate, pagate, buffoni,
vogliamo milioni, vogliamo milioni,
... Qua le tue spoglie, o popolo,
nulla aver devi addosso...
arroterem le forbici,
finché avrai sano un osso!
(Ivi, 5 luglio 1864).
Si incitano i poveri alla rassegnazione, spiegando che, nel beato
regno d'Italia, tutto si deve pagare: la luce, l'aria, l'acqua, la
terra: si deve pagare per vivere, morire, lavorare, per avere
diritto di essere lenoni e infami, per cacciare le donne nelle case
di prostituzione. Oh, invano il popolo domanda «pane e
lavoro» (ivi, 1° agosto 1864).
Ma hanno scritto: «Finché la dura!» Perché
il povero lavoratore «che si tronca la schiena col lavoro per
mangiare un tozzo di pane ammuffito, che si logora insomma la vita
per provvedere agli agi ed al lusso del milionario»,
finirà, alla prima occasione, per «migliorar la propria
posizione mediante un delitto» (ivi, 11 novembre 1864).
Il momento della rivolta non può essere lontano. È
logico che giunga e che giunga presto: la società,
«infiammata dalle moderne dottrine, partorirà un'ira di
comunismo che già, come cane alla catena voi sentite
latrare» («La Giovane Italia», p. 81). E ben venga
dunque.
Ah, sospirano i clericali, se il popolo conoscesse la sua potenza e
se ne sapesse servire! «Non sarebbe tanto spesso calpestato,
deriso e ingannato» («La Vespa», 23 agosto 1864).
Parole di questo genere venivano, non dirò a determinare, ma
a rinforzare e a giustificare, nei nostri operai, il nascente
sentimento d'odio contro gli abbienti, ad aumentare la loro
diffidenza contro gli agitatori politici i quali pretendevano ancora
il loro aiuto per disegni rivoluzionari di carattere politico, dando
a sperare in conseguenti miglioramenti economici.
Ciò non significa che i clericali tendessero, come ultimo
fine, a scatenare la guerra di classe. Ché anzi, essi
sognavano la restaurazione degli antichi cristianissimi regimi nei
quali di questione sociale non si ragionava neppure, o la si
considerava tutt'al piú come un affare di beneficenza;
infatti – si legge nel citato opuscolo L'Italia disfatta, ecc., p.
11 – «quando un popolo trova ne' mercati come provvedere alla
vita, né il prezzo di generi che abbisognano alla sua
sussistenza è lasciato all'arbitrio di pochi monopolisti ed
incettatori, questo popolo benedice sempre al principe che lo
regge».
Tuttavia, pur di creare seri imbarazzi al governo italiano,
suscitando nel paese un minaccioso problema e ponendo il governo
nella necessità di affrontarlo, i clericali seppero piegarsi
a fare della vera e propria propaganda suscitatrice dell'odio di
classe.
La quale, unita a molti altri elementi, forní ai nostri
operai la preparazione sufficiente a far loro comprendere, qualche
anno piú tardi, il contenuto della propaganda socialista; e a
far loro abbandonare, quasi in massa, le prime guide del loro
risorgimento morale e materiale.
2.
La prima «Internazionale» e la crisi del
mazzinianismo
Il problema sociale in Italia tra il 1860 e il 1870.
Tra il 1860 e il 1870 i partiti politici italiani si trovano faccia
a faccia, per la prima volta, col problema sociale. Certo, sarebbe
stolto sostenere che, innanzi il 1860, i soli problemi nazionali e
costituzionali abbiano interessato le nostre classi colte;
ciò significherebbe dimenticare gli scritti notissimi di
Mazzini, Ferrari, Pisacane, per non citare che i maggiori; ignorare
i primi tentativi di organizzazione operaia, soprattutto in Piemonte
dopo il 1850; non dare la dovuta importanza ai molti giornali sorti
con un programma di piú o meno disinteressata tutela degli
interessi operai, sempre innanzi al 1860; dei quali giornali, tra
parentesi, sarebbe utilissima una raccolta sistematica. Ma è
chiaro che un paese, il quale non ha ancora raggiunto la soluzione
dei problemi dell'indipendenza e della pubblica libertà, non
può considerare urgente la questione sociale.
La preoccupazione per il problema sociale nella borghesia italiana
innanzi il 1860 esiste senza dubbio, ma è preoccupazione
saltuaria, nata in seguito a improvvise ed effimere agitazioni di
operai o di contadini, o imposta dagli scritti di qualche pensatore
isolato, che si tiene informato dell'assiduo travaglio sociale dei
paesi stranieri: preoccupazione spesso rinnovata e presto
dimenticata.
Tra il 1860 e il 1870, invece, l'interesse e la preoccupazione per
la questione sociale crescono progressivamente per intensità
e per ampiezza, si fanno costanti; cresce e si diffonde, in
corrispondenza, in larghi strati della popolazione quel doloroso
malcontento, che trova la sua causa nel dileguarsi di tutte le
speranze di miglioramento, che aveva concepite per l'immediato
avvenire, innanzi il 1860, aggiunto alla non variata miseria. Di
fronte a certe manifestazioni piú violente del disagio
popolare la preoccupazione borghese si converte in incubo pauroso.
Nelle città, progredisce la organizzazione operaia. Iniziato
dai moderati, ripreso e tenacemente incoraggiato dai mazziniani, il
mutuo soccorso associa operai, artigiani, qualche volta contadini,
nel nord e nel centro d'Italia; piú lentamente si diffonde
nel mezzogiorno. Dal mutuo soccorso per malattia, vecchiaia,
infortuni si sviluppa, nascostamente perché non tollerato,
quello per la disoccupazione involontaria e volontaria, crescono
rapidamente per numero e per importanza gli scioperi; si tentano le
prime cooperative di consumo e di produzione, assai numerose le
prime, raramente fortunate entrambe. Alcune minoranze di operai
della grande industria si mostrano, intorno al 1870, già
provviste di un vero e proprio sentimento di classe.
Le grandi masse agricole, invece, hanno in generale accolto con
ostilità le novità politiche e i pesi del regime
nazionale; giacciono inerti in una plumbea immobilità, rotta
soltanto da disordinati sfoghi di malcontento, ignare di ogni
organizzazione, incapaci di attirare l'attenzione durevole delle
classi dirigenti sui propri bisogni, gravate dalla secolare
ignoranza. Troveranno una nuova vita nell'emigrazione transoceanica;
ma questa, intorno al 1870, si presenta piú come una promessa
per l'avvenire che come un immediato vantaggio.
I partiti politici e il problema sociale.
Tentar di classificare i punti di vista sotto i quali, fra il 1860 e
il 1870, era considerata in Italia la questione sociale è un
po' arbitrario: la classificazione suppone una certa
immobilità di posizioni, che in realtà sono mutevoli,
e non può tener conto delle zone intermedie tra partito e
partito; ma una classificazione, sia pure sommaria e grossolana,
è tuttavia utile a chiarire quello che avviene in Italia nel
1871. Con queste cautele, mi sembra di poter precisare le varie
posizioni come segue:
a) Clericali. Del disagio in cui versano le classi povere, sono
responsabili tutti coloro che hanno cooperato a fondare l'Italia una
e indipendente rovesciando gli antichi regimi e spogliando il
papato; scalzando il sentimento religioso, essi hanno tolto alle
masse l'unico conforto. Di qui nasce il problema sociale; la
soluzione non può trovarsi che in un ritorno al
cristianesimo, che dà ai diseredati la rassegnazione, e ai
potenti il sentimento di carità. Mostrando i guai del regime
inaugurato nel '59, i clericali si soffermano volentieri sui mali
del proletariato, esagerandoli e accentuando le inquietudini ai
danni del governo e delle classi dirigenti. Di color nero è
dunque la prima seminagione del sentimento classista tra le masse.
b) Conservatori e moderati. È impossibile distinguerli
nettamente, li accomuna uno scarso calore per il problema sociale in
tempo di calma: discussioni sul mutuo soccorso, sulla cooperazione,
qualche volta sull'arbitrato, che vengono additati agli operai come
mezzi atti a raggiungere la progressiva soluzione del problema
sociale, e poco piú. In tempi grossi (esempio: scioperi)
nasce lo spauracchio della questione sociale; moderati e
conservatori si agitano, gridano al pericolo, usano parole gravi, ma
raramente affrontano i problemi con decisa volontà di
risolverli. Gli uni e gli altri non ostacolano la nascita e lo
sviluppo delle organizzazioni operaie, spesso anzi le incoraggiano;
vogliono però che esse siano dirette o vigilate da uomini del
loro partito, non ammettono che fazioni sovversive se ne servano a
fini politici. Ma, mentre i moderati riconoscono, in qualche
occasione, non essere perfetta la costituzione della società,
ed essere loro dovere proteggere le classi operaie, studiando la
possibilità di accogliere una parte delle loro richieste, ai
conservatori il problema operaio appare sotto la veste di un puro e
semplice problema di beneficenza: non si parla ai lavoratori di
pretesi loro diritti. Nell'educazione e nella istruzione diffuse
fidano entrambe queste correnti: l'operaio diventerà
ragionevole e fuggirà i demagoghi.
c) Mazziniani. Nei gruppi di sinistra o «d'azione», il
problema sociale è agitato prevalentemente dai mazziniani:
non hanno essi idea di un proletariato vero e proprio, come quello
che si forma dovunque si sviluppano le grandi industrie; in tutta
Italia non vedono che artigianato e non pensano che a questo. Il
problema sociale è uno degli elementi del problema di
rinnovamento generale che incombe al paese.
Le classi operaie conquisteranno il diritto all'emancipazione
partecipando alla lotta politica; questa, realizzata la completa
unità della patria, darà la cosa pubblica in mano ai
repubblicani. Le organizzazioni operaie, promosse e favorite con
fervore, debbono essere specialmente centri di propaganda e di
azione unitaria e repubblicana. Suggerendo agli operai tutte quelle
provvidenze atte a migliorare i rapporti tra capitale e lavoro, i
mazziniani condannano generalmente lo sciopero, nutrono fiducia
nell'aiuto che le classi medie volontariamente presteranno alla
elevazione delle classi artigiane; il principio della lotta di
classe viene respinto. Ma il proletariato non speri in un radicale
miglioramento delle sue condizioni se non da un radicale mutamento
della costituzione politica del suo paese. Il massimo impulso, che i
mazziniani imprimono al moto operaio, si ha tra il 1861 e il 1865.
d) Bakunisti. Il programma anarchico collettivista di Bakunin (il
quale soggiorna in Italia tra il 1864 e il 1867) si propaga dapprima
segretamente tra pochi isolati e viene attenuato notevolmente non
appena trovi modo di farsi noto pubblicamente. Nell'attesa di un
moto rivoluzionario, che si prepara in segreto, la propaganda
pubblica si riduce a un blando riformismo che domanda, per esempio,
l'istituzione di una imposta unica sul reddito, in sostituzione di
ogni altra. Ma i bakunisti appoggiano gli scioperi, comprendono per
i primi, come gruppo politico, l'importanza delle masse agricole
italiane; sono, infine, i primi importatori in Italia
dell'Internazionale (fondata a Londra nel '64); di una
Internazionale, però, che ha ben poco a che fare con quella
marxista e ha un programma al tutto confuso con quello bakunista.
Essa si diffonde con lentezza tra il 1867 e il 1870, trovando
seguaci quasi esclusivamente nel mezzogiorno dove Bakunin aveva
soggiornato piú a lungo e aveva trovato favorevole terreno in
piccole zone della borghesia intellettuale. Il primo periodo di
acclimatazione dell'Internazionale in tutta Italia corrisponde a
quegli anni, fra la Convenzione di settembre (1864) e la presa di
Roma (1870), durante i quali i mazziniani, preoccupati dal problema
politico e istituzionale, trascurano assai il campo operaio.
All'infuori di queste correnti ideologiche, poche minoranze operaie
del nord e centro d'Italia, alla ricerca di un effettivo
miglioramento delle proprie condizioni economiche, si organizzano
esercitando istintivamente la resistenza, in netto antagonismo con
la classe proprietaria e industriale. I primi esempi di
organizzazione di resistenza sono dati dai tipografi.
La Comune e Mazzini.
Tra le crescenti preoccupazioni conservatrici da un lato, e il
moltiplicarsi delle organizzazioni operaie e la lenta infiltrazione
dell'internazionalismo dall'altro, la Comune di Parigi del 1871
è come una scintilla che produce il corto circuito: essa ha
in Italia enorme ripercussione, porta alla crisi l'evoluzione
dell'intero decennio, obbliga partiti e coscienze ad assumere un
atteggiamento preciso, dissipa molti equivoci.
La Comune fu generalmente e falsamente interpretata da noi come una
insurrezione di carattere nettamente socialista. In realtà,
di socialista, a Parigi, ci fu ben poco: ma gli Italiani, detrattori
o apologisti che fossero, trascinati da opposte passioni, avvolsero
immediatamente «la Comune» in un velo di leggenda. Se il
«Monitore di Bologna» (moderato democratico), nel numero
del 25 marzo 1871, scrive che si tratta addirittura «di
abolire l'incomodo del tuo e del mio, si tratta di sostituire la
forza al diritto, la barbarie alla civiltà», il
«Gazzettino Rosa» (repubblicano garibaldino, prossimo ad
abbracciare i principî dell'Internazionale) (Milano, 1°
aprile 1871) inneggia alla rivoluzione del 18 marzo: «Salve, o
aurora della libertà, io ti veggio già spuntare
all'orizzonte nel color della fiamma». Se la
«Nazione» (conservatore) (Firenze, 3 maggio 1871) trova
che il «socialismo, il comunismo, tutti i delirî delle
sette piú sfrenate minacciano la società», la
«Civiltà Cattolica» (6 maggio 1871) ride di tanto
sbigottimento, vantandosi: «Noi soli, che abbiam sempre detto:
– O cattolici col papa o barbari col socialismo – abbiamo il diritto
di giudicare o vituperare Parigi, senza mutare improvvisamente il
nostro modo di pensare».
Garibaldi, generoso, impulsivo, irreflessivo, esalta i soli uomini
che «in questo periodo di tirannide, di menzogna, di codardia
e di degradazione hanno tenuto alto, avvolgendovisi morenti, il
santo vessillo del diritto e della giustizia».
L'atteggiamento di Mazzini è assai complesso. Lodi,
sí, all'eroismo degli insorti, e alle loro aspirazioni
repubblicane; indulgenza per i loro, in parte giustificabili,
eccessi; vergogna eterna alla codarda assemblea versagliese; in
guardia però da ogni esaltazione per il programma parigino,
che, applicato integralmente, annienterebbe la Francia come nazione,
riducendola ad una federazione di comuni autonomi. Di mano in mano
che Mazzini s'accorge della crescente infiltrazione delle idee
comunarde in Italia, la sua condanna si fa sempre piú aspra e
radicale. Le conseguenze di questo suo atteggiamento furono
gravissime. Tra i partiti politici italiani, quello
mazziniano-garibaldino aveva costituito, fino al 1871, l'estrema
sinistra; e non soltanto nel campo politico, ma anche in quello
sociale. Fino allora le prime incerte, e a malapena precisabili,
infiltrazioni internazional-bakuniste non avevano occupato un posto
considerevole nella vita pubblica italiana. Fino allora, quasi tutti
i rivoluzionari di temperamento, i malcontenti, i sognatori
romantici di una società migliore o diversa si erano stretti
intorno a Mazzini, uniti nel nome di repubblica, sinonimo di
rivoluzione, discordi in ogni altra questione, e soprattutto nei
presupposti morali e religiosi. Ma la discordia si manteneva
generalmente latente; non aveva avuto modo di manifestarsi, o, ancor
meno, di approfondirsi. Il programma mazziniano era l'unico che
promettesse novità sostanziali, richiedesse audacia di
propositi e di mezzi, calmasse quel bisogno di agire in un modo o
nell'altro, ma, comunque, d'agire, che, specie dopo il '67,
assillava quanti fino allora avevano sfogato la loro energia
esuberante nella cospirazione e nelle campagne di guerra. Mazzini
era stato per interi decenni l'iniziatore o il sicuro alleato di
tutte le battaglie per la libertà; amici e nemici lo
consideravano ormai come il rivoluzionario per antonomasia, come il
prototipo del ribelle; lo seguivano, quindi, anche tutti quei
rivoluzionari per temperamento che un'assidua propaganda e la
naturale inclinazione andavano spingendo al materialismo,
all'ateismo, ossia – e non riuscivano ad accorgersene – agli
antipodi del sistema mazziniano.
Quando Mazzini condannò la Comune di Parigi, molti fra i suoi
seguaci, specialmente i piú giovani, rimasero profondamente
delusi. Non era Mazzini repubblicano? Non era anch'egli nemico delle
disuguaglianze sociali? Sorpresi dapprima, finirono coll'esserne
indignati; almeno non pretendesse, Mazzini, di tenere ancora lui,
fra le sue mani, lo stendardo della repubblica e della rigenerazione
sociale!
È inutile che Mazzini ripeta che si devono condannare tanto i
comunardi quanto i versagliesi: egli apparisce come l'alleato della
reazione di tutta Europa. I fogli di estrema destra non si lasciano
sfuggire la buona occasione per gabellare come loro alleato
l'ex-irriducibile nemico. Il «Corriere di Milano» (26
giugno 1871) in un articolo intitolato Mazzini codino, afferma che
l'esule è ormai molto meno lontano dai cosiddetti
conservatori che dai suoi pretesi discepoli; la
«Nazione» di Firenze, che ha ancora fresche di stampa le
peggiori calunnie sul conto di Mazzini, ammette (10 luglio 1871) che
egli ha detto in questa occasione «gravi e solenni
verità», che egli ha cuore «di patriotta e di
uomo onesto», che le sue invettive sono
«eloquenti». La stampa conservatrice tutta, realizza un
doppio vantaggio: dimostra che il ribelle ha messo giudizio, e ne
ricava la conseguenza che la Sinistra, divisa, è prossima a
sfasciarsi. Molti giovani, ai quali la Comune di Parigi dà
per la prima volta la sensazione della possibilità di
abbracciare un sistema d'idee piú avanzato di quello
mazziniano, e non davvero nebuloso o incerto poiché
già ha dato luogo a un grandioso tentativo di realizzazione
pratica, reagiscono abbandonando Mazzini.
Crisi tra i mazziniani.
Una volta distaccatisi dal mazzinianismo, in che senso poteva
dirigersi, quella minoranza ardente? Quali ideali servire? La via
era chiaramente indicata: all'Associazione Internazionale dei
Lavoratori venivano concordemente attribuite le glorie o le colpe
della Comune. Tra noi, l'Internazionale si era frattanto diffusa qua
e là (specie nel mezzogiorno), attraverso una propaganda
abbastanza attiva esercitata da agenti di Bakunin, non ancora
entrato in aperto conflitto con Marx. Inoltre Mazzini, non appena
lanciata la scomunica contro l'insurrezione parigina, aveva sentito
il dovere di spiegare con una causa generale i perturbamenti sociali
del suo tempo, e l'aveva rintracciata (e del resto l'andava
additando da un pezzo) nel materialismo, che minacciava, secondo
lui, le fondamenta della civiltà intera.
Creatura e incarnazione del materialismo era l'Internazionale dei
Lavoratori. Il materialismo, la Comune, l'Internazionale, erano
dunque fulminati dall'istessa condanna; a quest'ultima, quindi, si
rivolgono tutti i mazziniani eterodossi anche nei riguardi del
problema religioso.
Mazzini conserva durante tutta la crisi, che si determina nello
scorcio del '71 e perdura nella sua fase piú acuta fino al
marzo '72, ossia fino alla morte di lui, un'ammirevole
intransigenza. Le ire e le polemiche divampano in tutta la stampa,
perché quanto piú recenti e fulminee sono le
conversioni anti-mazziniane, tanto piú caloroso è
l'entusiasmo per la nuova fede.
Non v'è, credo, letteratura piú viva e varia di quella
dei giornaletti internazionalisti che pullulano in Italia tra il
1871 e il 1872. Lettura purtroppo tutt'altro che agevole; tanto
è difficile rintracciarli e seguirli in collezioni complete.
Giornaletti di piccolo formato, i piú con testate chiassose,
iscrizioni di grande effetto; generalmente colti da malattie mortali
dopo pochi numeri; sempre tormentati da angustie finanziarie e dagli
artigli del fisco. Trascinati da un impeto di entusiasmo a lodare la
Comune si sentono dapprima, di fronte alla condanna mazziniana, come
spaventati dalla loro audacia. Ma noblesse oblige: bisogna difendere
la posizione, anche se difficile. Cercano di spiegare
l'atteggiamento di Mazzini, osservando che egli non ha forse tutti
gli elementi necessari per giudicare equamente la Comune.
Protestando la loro devozione a lui, che li ha educati al culto
della libertà, e della giustizia, e da cui li divide una
momentanea aberrazione, non vogliono sentire parlare di una
scissione, o, comunque, ne respingono ogni responsabilità. Ma
non intendono sacrificare al rispetto, alla gratitudine per il
Maestro, la loro propria indipendenza di giudizio. Frattanto
l'intransigenza e lo sdegno di Mazzini e del suo stato maggiore li
obbliga ad assumere posizioni sempre piú nette; superato il
disagio iniziale, si sentono alfine nello stato d'animo di minorenni
usciti di tutela. Alla fermezza di Mazzini oppongono da parte loro
una fermezza corrispondente e crescente. Li urta, soprattutto, la
pretesa del Maestro di non concedere patente di repubblicano a chi
non accetta in blocco il suo sistema: non si può, secondo
lui, essere atei e repubblicani. Protestano: – Siamo repubblicani
convinti e lo mostreremo alla prova; siamo forse per questo
obbligati a credere nei fantasmi? Dio, se mai esiste, sta nei cieli
e non ha niente a che fare con il regime politico-sociale. Non si
rallegrino, però, i nemici comuni; s'accorgeranno se non
saremo di nuovo tutti d'accordo quando si tratterà di fare la
rivoluzione. Ora che abbiamo calma e tempo, ne approfittiamo per
discutere tra di noi.
Mazzini fa il processo all'Internazionale, che si preoccupa, egli
dice, dei soli interessi materiali. Ma che cosa hanno guadagnato gli
operai finché si sono attenuti alle moralissime teorie
mazziniane? Un uomo che ha formulato il suo sistema da oltre
trent'anni non può pretendere di tenervi aggiogate
eternamente le nuove generazioni. È vecchio, si è
cristallizzato; è incapace ormai di seguire il progresso. Lo
nega, anzi, e con ciò distrugge la base stessa del suo
sistema. Siamo atei e materialisti, e ce ne vantiamo; stufi di
quella odiosa abitudine di trasportare sempre nelle piú alte
sfere della morale, della giustizia, del dovere questioni
d'interesse immediato, questioni di pane; abitudine che serve a
ingarbugliare i problemi piú semplici, e a nasconderne la
soluzione.
«Siamo patrioti? Può darsi. Unità e indipendenza
hanno portato vantaggi a iosa ai signori; ma al proletariato? Forse
che le sue condizioni sono mutate? La patria è del lavoratore
di tutto il mondo, perché patria vuol dire interessi,
aspirazioni comuni».
Queste in sintesi, le accuse piú caratteristiche e le
corrispondenti professioni di fede che la stampa internazionalista
rovescia addosso a Mazzini, fra il 1871 e il 1872, con un crescendo
impressionante. Liberatisi dal peso dell'autorità mazziniana,
rotta la lunga tradizione di sommissione, sembra che questi
transfughi o reietti del mazzinianismo traggano come un sospiro di
sollievo, si sentano piú leggeri, piú agili,
piú liberi nei loro movimenti; che provino una gioia
infantile nel gridare, contro tutto e contro tutti, le loro audaci
negazioni, le loro nuove aspirazioni. Rigettano tutto quello che del
mazzinianismo hanno ingerito (non digerito) negli anni durante i
quali di necessità hanno dovuto farne parte.
Hanno a noia soprattutto quell'uniforme misticismo (come essi
scrivono), quel velo di mistero, quella nebulosità che
ravvolgono sempre Mazzini; quei suoi ragionari sono cosí
complessi, quelle sue premesse cosí confuse, tutto il suo
sistema è tale un intreccio di logica e di sentimento, che i
cervelli semplici e sani non possono né comprenderlo,
né seguirlo.
I successi degli internazionalisti. Morte di Mazzini.
L'esito di questa crisi è indicato molto eloquentemente dai
fatti. Nel luglio del 1871 Mazzini, con un certo ottimismo, constata
che l'unica città italiana dove l'Internazionale abbia messo
piede, è Napoli445. Ma le cose mutano rapidamente. Il 5
novembre tre delegati internazionalisti fanno una prima parata al
XII Congresso operaio, convocato a Roma dai mazziniani; Marx scrive
a Sorge, annunciandogli che in Italia «noi facciamo progressi
vertiginosi. Grande trionfo sul partito di Mazzini»446. Il 19
dicembre 1871 si tiene a Bologna il primo comizio dei fasci operai
aderenti all'Internazionale, presenti sei sezioni; il 18 febbraio
'72, altro comizio internazionalista a Villa Cambellara:
intervengono le sezioni e i gruppi romagnoli, in numero di undici.
Il 17-19 marzo 1872 a Bologna altro congresso regionale, presenti
diciotto sezioni. Il 5 aprile 1872, Bakunin scrive a Francesco Mora
che l'Internazionale ha preso grande sviluppo in Italia, tanto che
questa, con la Spagna, «è forse il paese piú
rivoluzionario in questo momento»447.
Il 3 agosto 1872, a Rimini, si aduna il primo Congresso generale,
nel quale gli internazionalisti italiani, separandosi violentemente
e con grande leggerezza dal Consiglio Generale di Londra, ossia da
Marx, si stringono attorno al Bakunin, ossia al collettivismo
anarchico; vi partecipano ventuno sezioni, di ogni parte d'Italia.
Da ricerche fatte nei giornali del tempo, mi risulta che verso la
metà del '72 esistevano in Italia almeno 50 sezioni
internazionaliste!
Chi rilegga oggi i giornali mazziniani del tempo, come la
«Roma del Popolo» (Roma) o l'«Unità
Italiana» (Milano), ammira, sí, la fermezza con la
quale Mazzini e i suoi fedeli sostengono l'urto; ma si avvede di un
certo sgomento da cui sono presi di fronte alla grandezza della
valanga, tanto piú funesta quanto piú improvvisa;
valanga sospinta e ingrossata, da un lato, dal curioso atteggiamento
di Garibaldi; dall'altro, dalla polemica scatenata con il consueto
ardore da Michele Bakunin.
Mazzini muore sconfortato, in piena crisi del suo partito,
abbandonato dalle piú giovani e promettenti forze, convinto
della intima debolezza dei suoi piú fidi, quasi tutti vecchi
e sfiduciati, divisi da dissensi, talora non lievi, e da rancori
personali. L'amarezza sua è cosí profonda che a volte
anche la lotta gli pare inutile; unico bene il suo riposo eterno.
«Le delusioni di ogni genere – egli scrive a un repubblicano
in Svizzera nell'ottobre 1871 – hanno ucciso in me l'entusiasmo e
ogni capacità di gioia o di solo conforto, fuorché
quello che viene dagli affetti; non il senso del dovere. Tento quel
poco che tento per un'Italia ideale e per uomini ch'oggi non sono. E
se questo senso religioso non si fosse per ventura serbato in me, mi
sarei ucciso...»448.
Sí, aveva ragione Agostino Bertani quando, la sera dei
funerali di Mazzini, agli amici raccolti e pensosi dell'avvenire,
diceva che, morto il Maestro, l'Internazionale «sarebbe
entrata a scindere il partito repubblicano e assai presto se ne
sarebbe sentita l'azione..., sarebbe forse venuto del sangue,
sarebbe cominciata l'età delle ire, che, invece di
affrettare, avrebbe ritardato di chi sa quanto l'attuazione degli
ideali sociali emananti dalla dottrina del Maestro»449.
Ma, qualche mese piú tardi, Marx ed Engels s'accorgono che la
crisi del mazzinianismo, dalla quale essi hanno tanto sperato per il
vantaggio della loro corrente, si è risoluta a tutto favore
del collettivismo anarchico: Bakunin, sfruttando il malcontento
generale e la sua perfetta conoscenza dell'ambiente italiano, ha
tirato verso di sé il rivoluzionarismo verboso degli
internazionalisti italiani. «Bignami – scrive malinconicamente
Engels a Sorge il 2 novembre 1872, – è il solo individuo che
abbia preso il nostro partito in Italia»450; e allude
all'esiguo gruppo che fa capo al giornale «La Plebe» di
Lodi.
Avevano commesso, in realtà, un formidabile errore fondando
serie speranze per l'avvenire del socialismo in un'idea, che era
nata quasi dal nulla in conseguenza della Comune di Parigi e che
aveva raccolto, in pochissimi mesi, un impressionante numero di
seguaci. Lo stesso Bakunin sopravvalutava la potenza rivoluzionaria
dei giovani italiani; alla distanza di due anni, anch'egli doveva
accorgersi che si trattava soltanto di un'effimera
infatuazione,destinata ad esaurirsi in vani tentativi di sommossa.
3.
Repubblicani e socialisti in Italia
I.
Si ragiona molto oggi, in sordina e no, di un desiderabile
riavvicinamento fra repubblicani e socialisti. Il connubio
porterebbe a una maggior valutazione del fatto politico da parte
socialista (della cui necessità i socialisti piú
intelligenti si rendono oggi perfettamente conto) e a una maggiore
valutazione del fatto sociale e a un piú stretto contatto con
le esigenze e le aspirazioni del proletariato, da parte
repubblicana. Lascio ai politici di determinare la convenienza del
connubio: io vado ripensando alla storia dei due partiti in Italia e
alle ragioni riposte o evidenti che valsero a separarli dapprima, e
poi a mantenerli divisi e corrucciati. C'è una vecchia
ruggine fra di loro, ci sono astiosità e malintesi: non
sarà forse del tutto inutile indagare quando e come si
formarono e se per caso la comune disavventura dei partiti
democratici non potrebbe costituire l'auspicata occasione di un
chiarimento.
Premetto ch'io non son di quelli che ritengono contenere il
programma di Mazzini la soluzione integrale del problema sociale;
credo anzi che tale programma, quale Mazzini lo delineò, non
possa piú informare di sé un partito vivo e operante,
profondamente innestato nelle radici vitali della nazione. Parlo
volutamente di Mazzini, trascurando gli altri teorici nostrali del
repubblicanesimo, perché da lui son discese e a lui si son
costantemente ispirate la dottrina e la prassi del partito
repubblicano italiano nel campo sociale, che è quello che
presentemente c'interessa. Mazzini, non v'è dubbio, sta ai
repubblicani come Marx ai socialisti, e forse piú ancora;
ché un revisionismo mazziniano paragonabile sia pure alla
lontana con quello marxista non s'è mai avuto; nel che sta,
per me, la massima prova d'insufficienza del mazzinianismo.
Credo per contro che di un bagno di mazzinianismo – e se volete solo
o soprattutto di spirito mazziniano, rettamente inteso – possa molto
avvantaggiarsi il movimento socialista, che ora, ricco di una
durissima esperienza, va dolorosamente riprendendo il suo cammino;
se non altro è ormai chiaro a tutti che la pregiudiziale
repubblicana è destinata a diventare comune denominatore di
tutte le correnti sinceramente democratiche.
Il fascismo, che ha salutarmente aperto gli occhi a molta gente e
affrettato processi di composizione e di decomposizione lentamente
maturantisi, ha in sostanza, io penso, segnato la vittoria del
principio repubblicano e, nello stesso tempo, probabilmente firmato
l'atto di morte di un partito repubblicano italiano; d'ora innanzi,
invece di repubblicani tout court, avremo dei socialisti
repubblicani, dei democratici repubblicani, e perché no?, dei
cattolici repubblicani. Dire: io sono repubblicano e basta,
sarà dire assai poco, equivarrà cioè a
esprimere una quanto mai generica fede democratica.
Di necessità dunque, a parer mio, si giungerà o prima
o poi a un connubio tra socialisti e repubblicani, o meglio tra
socialisti e una frazione di repubblicani; connubio che non
avrà niente di transeunte, niente di opportunistico; che non
si opererà cioè in vista della formazione di un
provvisorio fronte unico di battaglia.
Ma sono andato fuor di strada, ché il mio intento è
solamente quello di riandare le vicende e studiare le relazioni
corse tra repubblicani e socialisti negli ultimi sessant'anni.
Di propaganda socialista in Italia non si principiò a parlare
prima del 1865: il partito repubblicano era allora forte e
combattivo; era il piú intransigente dei partiti
d'opposizione e, per quanto disposto a compromessi e a transazioni,
il piú sinistro; era, in una parola, il partito sovversivo.
Socialismo era parola vaga, mal compresa dai piú, usata a
designare correnti in Italia ancora di là da venire, da
qualche scrittore politico: fra i quali, deplorandola, se ne serviva
Mazzini. C'era un modesto movimento operaio, conteso fra democratici
moderati e repubblicani, che si limitava a raccogliere élites
di lavoratori nelle fila del mutuo soccorso, a convocare di quando
in quando i loro rappresentanti a congresso, a pubblicare
giornaletti popolari, a fondare e a incoraggiare le società
cooperative. Qua e là, nei centri industriali, v'eran gruppi
di operai che stavan scoprendo l'arma della resistenza e
principiavano a proclamare con crescente frequenza gli scioperi –
spontanei perché non suggeriti da alcun partito politico.
Il programma mazziniano (che ritengo superfluo riassumere qui sia
pure per sommi capi) era l'unico programma concreto di
rivendicazione che si offrisse alla classe lavoratrice. Attorno a
Mazzini si stringevano perciò, con e anche senza riguardo
all'aspetto politico e religioso della sua propaganda, tutti i
democratici degni di questo nome, che non avessero con lui
particolari troppo vive ragioni di dissenso. Mazzini, per quanto
prevalentemente assorbito dalle cure del partito, poteva
fondatamente sperare di riuscire in un giorno non lontano a
organizzare sotto la sua insegna l'intera classe lavoratrice
italiana, contadiname escluso.
Capita in Italia il primo socialista di marca: il Bakunin,
introdotto e presentato da Mazzini il quale ignora le sue nuove
tendenze anarchico-socialiste. Bakunin d'altronde si è fino
allora curiosamente ingannato, come molti altri conoscitori per
sentito dire di Mazzini, sui fini e sui metodi del partito
repubblicano in Italia; lo ritiene un partito di opposizione
intransigente che si sforzi di introdurre in tutte le manifestazioni
della vita pubblica quel medesimo spirito di libertà su cui
ha fatto leva per cacciar d'Italia le dinastie straniere. Non ci fu
dunque né dabbenaggine da parte di Mazzini nell'unger le
ruote a Bakunin, né tradimento nero da parte di quest'ultimo
nell'immediato rivoltarsi contro Mazzini, che fece non appena
orientatosi un poco nell'ambiente italiano: non senza amarezza, come
provano le sue lettere di quegli anni. Ma è tuttavia notevole
il fatto (esaurientemente dimostrabile) che la prima propaganda
socialista in Italia fu facilitata da repubblicani e si
compié massimamente in ambiente repubblicano. Forse molti
ignorano ancora che Mazzini fu per quattro anni un amico
dell'Internazionale.
Strano a dirsi, Bakunin, un forestiere, riesce in un battibaleno a
radunare intorno a sé e al suo programma di rivoluzione
sociale, direi a rivelare a sé medesimi, un non esiguo
gruppetto di democratici, mazziniani e garibaldini. Gli è che
la propaganda attivissima del libero pensiero e la fortuna
incontrata dalle correnti positivistiche che, fuori dagli ambienti
piú colti, si traducevano in gretto materialismo, hanno
preparato al socialismo un terreno assai favorevole. Bakunin non fa
che approfittarne con abilità e con fortuna, rivolgendosi
dapprima a una ristretta élite di intellettuali, quindi a un
piú vasto pubblico di operai e di artigiani, ai quali riesce
a insinuare il sospetto che Mazzini non ad altro tenda, col suo
programma sociale a scartamento ridotto, che a solleticare i
lavoratori per ottenere l'aiuto nella lotta per la conquista del
potere politico.
Dell'opera piuttosto sotterranea svolta da Bakunin si cominciarono a
scorgere le conseguenze un paio d'anni dopo la sua partenza
dall'Italia, avvenuta nel 1867: si videro sorgere qua e là
robuste sezioni dell'Internazionale, si sentí parlare di una
società segreta tra democratici socialisti con ramificazioni
all'estero, fece capolino qualche primo giornaletto di propaganda
socialista, si videro italiani partecipare ai congressi
dell'Internazionale, s'intensificarono certi attacchi contro Mazzini
da parte di suoi gregari poco ortodossi, evolventi non more solito
verso destra, sibbene verso un'estrema sinistra, scorto dalla quale
il programma mazziniano pareva addirittura roba da conservatori.
Fondamento di tutte le accuse il suo misticismo religioso, la sua
visione di un Dio autoritario, primo gradino di una scala
d'autorità, di padroni e di sfruttatori cioè, che dal
cielo si prolungava in terra, fra gli uomini. Di qui, a torto o a
ragione, pigliava le mosse, e a quella come a punto centrale si
richiamava, ogni altra critica, fino al 1870, per altro, piú
mormorata che detta, timidamente affacciata e non sostenuta:
Mazzini si è cristallizzato in formule di quarant'anni
addietro. Mazzini ciancia di emancipazione operaia, ma dopo tutto
gli basta e gliene avanza dell'innocuo mutuo soccorso e di qualche
cooperativetta; Mazzini imborghesisce il movimento operaio; Mazzini
non capisce che la rivoluzione sociale, come tale, comprende e
quindi risolverà col problema sociale anche quello politico e
non viceversa, e che solo nella speranza della prima si moveranno
gli infimi strati sociali; Mazzini, infine, seguita a predicar la
rivoluzione, e sia pure una rivoluzione meramente politica, ma in
sostanza, come Bertoldo l'albero, non trova mai il momento opportuno
per scatenarla; per non mollare sulla questione monarchia o
repubblica, Mazzini perde insomma di vista faccende di assai maggior
rilievo.
Accuse velate e a mezza bocca, diserzioni alla chetichella scoppiano
in aperta rivolta nel 1871, quando tutta Italia è corsa da un
fremito rivoluzionario che è un riflesso, una conseguenza e
un contagio della Comune di Parigi: le masse operaie s'affollano
nelle neonate sezioni internazionaliste, i ceti possidenti si
buttano al conservatorismo reazionario, raddolcito da prudenti
proteste di pseudo-democraticismo, un gruppo d'intellettuali e
d'intellettualoidi inizia con entusiasmo la carriera degli
organizzatori; i mazziniani, disorientati, attraversano una penosa
crisi d'incertezze, che si traduce e si risolve in fierissima lotta
contro i socialisti non appena questi accennano a voler conquistare
le società operaie, tentando di travolgere la invidiabile
posizione fino allora goduta dai mazziniani, di quasi monopolisti
del movimento operaio italiano: repubblicani e socialisti sentono,
primi in Italia e per la prima volta, che la forza dei partiti da
ora innanzi sarà commisurata all'entità della loro
penetrazione nelle masse lavoratrici. Mazzini e Bakunin polemizzano
clamorosamente, mentre un'improvvisata stampa socialista copre tutta
l'Italia.
La rapida fortuna del socialismo è a tutte spese del
mazzinianismo: lo prova il fatto, documentabile, che quasi tutti i
capi del movimento socialista sono transfughi delle file
repubblicane; è tutta gente venuta su con Mazzini e che,
turbata per l'aspra condanna da Mazzini pronunciata contro la Comune
repubblicana, se prima sospettava, ora sostiene apertamente che
Mazzini, per incomprensione senile, tradisce il suo stesso
programma, che non ne intenda piú i logici necessari
sviluppi. Mazzini ribatte che repubblica non vuol dire comunismo;
quei giovani (che tali sono pressoché tutti) concludono che
ormai per Mazzini l'aspirazione repubblicana importa un semplice
mutamento nella forma del governo: il resto, immutato.
È proprio nel 1871, dunque, che si determina l'incomprensione
fra i due partiti; forse Mazzini avrebbe saputo in progresso di
tempo eliminarla e, calmati gli spiriti, passata la raffica
rivoluzionaria, trovare un punto d'accordo durevole; ma purtroppo
morí nel '72, in piena battaglia, e quel che è ancora
piú grave, senza poter lasciare il partito in mani vigorose.
Poiché credo si possa andare tutti d'accordo nel negare ai
Saffi, ai Campanella, ai Quadrio, ecc. (bravissime persone del resto
sotto molti altri punti di vista) un acuto temperamento politico,
una consapevole energia, la capacità insomma d'intender nello
spirito e non, come troppo spesso accadde, di osservare
bigottescamente l'insegnamento di Mazzini.
La frazione giovanile del partito repubblicano si gettò con
vera e propria voracità sugli ideali banditi
dall'Internazionale; con la voracità di chi da tempo ha sete,
insoddisfatta, d'ideali. Era un pezzo che il mazzinianismo non le
bastava piú. Nel 1871 la sua inadeguatezza alle aspirazioni
della gioventú intellettuale apparve evidente. Scriveva
Cafiero, l'ardente rivoluzionario pugliese, ad Engels:
Il povero vecchio (Mazzini) non vuole comprendere... che il suo
concetto di unità e libertà nazionale – grande al suo
tempo – impallidisce ora come la luce di una candela innanzi alla
luce del sole, venendo paragonato al sublimissimo concetto
dell'unità... di tutti i popoli nella nuova organizzazione
sociale, che avrà per base l'eguaglianza.
Sí, al programma mazziniano mancava ormai un mito, mancava un
orizzonte lontano e magari irraggiungibile cui tendere. Il mito di
Mazzini era stato l'unità d'Italia e Mazzini aveva avuto la
fortuna (o la sfortuna) di vederlo bruscamente realizzato, se pur
non secondo le sue aspirazioni, per un colpo di bacchetta magica.
Dopo il '60, nonostante il rinforzo dato alla parte di
rivendicazioni sociali, il suo programma era rimasto come svuotato:
poco seguite e poco comprese erano le sue aspirazioni religiose, che
gli davano una luce vivissima d'idealità e lo proiettavano in
un lontano futuro; poco chiara era la sua visione della
trasformazione sociale, a mezzo della riunione nelle stesse mani del
capitale e del lavoro; evidentemente utopistico, nella sua
realtà immediata, il suo vagheggiato collaborazionismo tra
borghesi e operai. Ai giovani che hanno bisogno di guardar lontano,
parve che il mazzinianismo avesse terminata la sua trentennale
funzione di propulsore della vita italiana e che si riducesse ormai,
in sede politica, a un ripicco da vecchio intransigente, ripicco al
cui soddisfacimento non meritava davvero si dedicassero fresche
energie, ansiose di provarsi (tanto piú dopo che si era
dimostrato parto di mente settaria il ripetutissimo ammonimento non
potersi giungere né a Venezia né a Roma con l'Italia
monarchica e dopo l'infelice esito delle ultime spedizioni militari
repubblicane); e in sede sociale si riducesse a un metodo di lenta e
severa educazione di alcune élites operaie, ossia a un loro
progressivo imborghesirsi – metodo comunque incapace d'affrontare in
pieno e risolvere la questione appassionante del conflitto di
classe, appena disegnato in Italia, già in atto da tempo in
altri paesi d'Europa.
Fra il 1860 e il 1870, certo, Mazzini non si preoccupò
abbastanza del necessario reclutamento di forze giovani, ossia non
pensò alle esigenze comprensibili dei giovani; non li
appassionò alla repubblica, presentando loro un suggestivo e
compiuto programma di rinnovamento politico e sociale, non seppe
appassionarli al lavoro di organizzazione degli operai, ravvivando
quei congressi, quei giornali, quegli istituti che andava convocando
e creando. Gli mancarono i collaboratori, è vero, ma egli
stesso perse il senso per l'innanzi cosí vivo in lui,
dell'ambiente, perse in sensibilità; si ostinò sulla
questione religiosa, senza avvertire che su quella strada, in quegli
anni, nessuno lo avrebbe seguito e non capí quel che di buono
e di sfruttabile anche a fini idealistici era in quell'ondata di
materialismo che lo rendeva furioso e a volte ingiusto e che pur
rispondeva a sentite necessità della vita italiana e
precisamente a quella fase della sua evoluzione nella quale gli
italiani dovevano guardarsi intorno, studiarsi, conoscersi,
acquistar la positiva nozione del proprio stato, delle proprie
possibilità economiche, provvedere con sollecitudine agli
immensi bisogni di una moltitudine priva di tutto.
La sua ostinazione, la sua sicurezza, la sua mancanza di
elasticità – ben comprensibile del resto, posta la sua
avanzata età – lo compromisero irrimediabilmente agli occhi
dei giovani, non appena questi giunsero, faticosamente, a liberarsi
del tradizionale fascino che egli esercitava su di loro, lo misero
in urto, in seno al suo partito, con quelle forze a cui teneva di
piú e nelle quali per l'avvenire fidava di piú.
Scatenò la sua battaglia, nel 1871, sicuro di vincere; e
invece morí quando volgeva a male. Questa fu la sua tragedia.
In un prossimo articolo cercherò di lumeggiare altri aspetti
di questa crisi, proseguendo la succinta storia delle relazioni fra
repubblicani e socialisti, dalla morte di Mazzini fino ai giorni
nostri.
II.
Dopo il 10 marzo 1872 il dissidio fra internazionalisti e
repubblicani, vivacissimo di già, inferocí: polemiche
violente sui giornali, risse per le strade.
Ma non tardò molto a cambiar vento: appunto perché
cosí aspro e acuto, il dissidio non poteva prolungarsi
troppo. Una volta affermatisi nonostante i repubblicani, gli
internazionalisti si buttarono alla positiva propaganda
insurrezionale, agendo in piccoli gruppi di artigiani, operai e
piccoli borghesi, risoluti, piú per disperazione che per
convinzione, a passare ai fatti: era dunque naturale che la lotta
con i repubblicani passasse in seconda linea. (Dell'atteggiamento
dei socialisti evoluzionisti non è il caso di parlare: troppo
esigua era ancora la loro forza perché potesse pesare sulle
sorti della battaglia politica e sociale, e ben lo seppero Marx ed
Engels). Un altro incentivo alla pacificazione degli animi venne da
una nuova ondata di quel confusionismo, che Mazzini aveva tanto
virilmente combattuto e che costituiva invece la riconosciuta
specialità dei garibaldini, i quali si vantavano socialisti e
repubblicani, ma – Garibaldi in testa – da un lato castravano
placidamente il socialismo dei suoi «eccessi» (ossia di
quanto lo distingue da un radicalismo di maniera), dall'altro
dimostravano d'avere in uggia grandissima Mazzini e la sua scuola.
Garibaldi essendo dunque il duce della democrazia italiana (tot
capita tot sententiæ) volle tentare il pateracchio fra le due
ali estreme. E nel novembre del 1872, in un congresso torre di
Babele fece varare un mastodontico Patto di Roma, che avrebbe dovuto
essere il loro minimo denominatore comune. Questo Patto è
senza dubbio un documento di notevole interesse; programma d'azione
di quella democrazia repubblicana che trovava ridicolo ormai il voto
di castità politica degli intransigenti, ebbe un solo
difetto: che ai filo-socialisti parve troppo blando e reticente; ai
mazziniani – che si dilettavano a declinare candidamente passato
presente futuro del verbo insorgere – e agli antisocialisti
arrabbiati in genere, troppo acceso; ci si accennava nientedimeno
che alla repubblica sociale e al lavoro come unica sorgente della
proprietà. Il pateracchio andò a monte; e invece di
confusionismo, portò alla democrazia repubblicana: almeno per
allora, distinzione netta. Distinzione cioè fra quattro
gruppi: 1) mazziniani puri (giornalismo un po' educativo e un po'
barricadiero; comizi e comizi; sindacalismo operaio;
antiparlamentarismo); 2) repubblicani transigenti, alla Bertani
(partecipazione alla lotta politica, rinvio sine die dell'attuazione
del programma integrale); 3) repubblicani alla Alberto Mario (voto
di castità, ma interessamento vivissimo alla politica; ottimi
giornali, e idee chiare in testa); 4) repubblicani alla Garibaldi
(filo-socialismo, confusione).
La storia delle relazioni fra socialisti e repubblicani negli ultimi
trent'anni del secolo XIX è la storia dell'alterno prevalere,
nella democrazia di sinistra, della prima, della seconda o
dell'ultima di queste frazioni. Parrebbe, a prima vista, che con
tutte i socialisti potessero accordarsi, meno che con quella dei
mazziniani, legata per l'eternità al verbo antisocialista del
Maestro. E invece fu proprio essa che – passata la bufera del
1871-72 e finché prevalsero fra i socialisti i rivoluzionari
– si dimostrò la piú sensibile alle loro seduzioni.
Gli è che i socialisti rivoluzionari erano in gran parte
ex-mazziniani i quali del mazzinianismo avevano ereditato la
frenesia per la cospirazione e per il «tentativo»,
nonché i metodi di lotta; gli è anche che i
mazziniani, pur condannando fermissimamente le loro intemperanze
teoriche, li consideravano come preziosi alleati per quell'eventuale
colpo di forza che avrebbero pur tentato, un giorno o l'altro, al
fine di rovesciare il regime monarchico. I socialisti avrebbero dato
una mano col disegno di scatenare la rivoluzione sociale
addirittura, ma si sarebbero poi dovuti necessariamente arrestare
alla prima tappa, e cioè alla repubblica mazziniana, che
almeno assicurava l'instaurazione di un serio regime democratico. Di
qui, fra diffidenza e sospetti, Villa Ruffi (1874); e ci vuole una
bella dose d'ingenuità per credere che soltanto a un
inqualificabile arbitrio fossero dovuti gli arresti di repubblicani
eminenti ivi eseguiti dal governo; per credere insomma che in un
momento nel quale i socialisti rivoluzionari preparavano
l'insurrezione armata, invocando anche pubblicamente l'adesione o
almeno la neutralità benevola di tutti i democratici sinceri,
i capi del movimento repubblicano si sarebbero adunati segretamente
in campagna per avvisare ai modi atti a intensificare la lotta
antisocialista! Bubbole.
Ma il mancato successo, con gli arresti e la sospensione della
libertà d'associazione che ne seguirono, rinnovò i
rancori: gl'internazionalisti non dimenticarono mai piú che i
deputati repubblicani alla Camera – Ferrari eccettuato – nel gran
chiasso d'interpellanze e discorsi, si limitarono a scagionare il
loro partito dall'accusa di cospirazione, buttando a mare
l'Internazionale; fra i repubblicani si fecero avanti – colla voce
grossa e con gravi «l'avevamo detto noi» –
gl'intransigenti antisocialisti, che ebbero, da allora in poi,
almeno fino al 1880, larghissimo seguito.
Quali in Parlamento, quali fuori (i comizi popolari per agitar nel
paese questioni di larga risonanza furono invenzione repubblicana
rivelatasi efficacissima e a torto abbandonata), i repubblicani in
questi anni furono attivissimi: si lottò per il suffragio
universale, per la laicizzazione dello Stato, per
l'obbligatorietà della scuola primaria, e via discorrendo. I
mazziniani puri, alieni dal parlamentarismo, partecipavano sí
a questa lotta, ma ribadendo periodicamente la pregiudiziale; non
potendo altro, sfogavano il loro rivoluzionarismo impotente in
dimostrazioni di piazza, coronate da discorsi sovversivi, con largo
sfoggio di bandiere vietate. Era questo il loro modo di tener viva
la scintilla, ma con tali sistemi si attirarono addosso il ridicolo,
un ridicolo che li circondò poi sempre, aureola di maniera;
se ne allontanavano gli uomini seri che ne avevano abbastanza di
buffonate e di alfierianismi, gli scontenti e i rivoluzionari per
davvero che, tanto, preferivano il positivo sovversivismo dei
seguaci di Bakunin.
Un merito per altro va riconosciuto a questi mazziniani, e
grandissimo: che portarono tutti nella lotta politica una
onestà, una purità d'intenti e uno spirito di
sacrificio personale, che si può senz'altro dichiarare senza
esempio in Italia. In periodi di piú sozza corruzione
politica, si poté e si può rivolgersi alla loro scuola
con un senso di vero sollievo. Peccato che alle eccezionali doti di
moralità i discepoli di Mazzini non unissero doti altrettanto
eccezionali di vivacità e originalità intellettuale.
Proverbiale ad esempio divenne la indeterminatezza del loro
programma massimo: ripetevano instancabili le formule di Mazzini, ma
chi avesse domandato loro particolari precisi sull'ordinamento e il
funzionamento della repubblica futura, avrebbe dovuto contentarsi di
frasi, di certe frasi per giunta che parevano uscir tutte da un
identico conio, tanto si trasmettevano identiche e immutabili di
bocca in bocca, di penna in penna, d'anno in anno. Questa
indeterminatezza favorí naturalmente le diserzioni di destra
e di sinistra; ché i mazziniani si trovavano fra due
calamite: l'una, quella parlamentaristica (dell'inserirsi,
cioè) attirava soprattutto gli anziani che, a seguitar
nell'intransigenza, vedevan tramontare qualsiasi possibilità
di carriera; l'altra, socialista rivoluzionaria, soprattutto i
giovani, piú spregiudicati, meno tradizionalisti, piú
bisognosi d'azione. Reazione e causa ad un tempo, di qui nacque e
prosperò la famosa e deprecata ortodossia mazziniana
(carattere sacro attribuito alle virgole nei testi del Maestro). Con
una falla a prua e una a poppa, i Saffi, i Quadrio e loro satelliti
si chiusero a chiave nel punto di mezzo della nave, tappandosi le
orecchie per non sentirsi chiamare da una parte o dall'altra (Dio sa
se ce ne volle, per esempio, perché ammettessero, con
infiniti ma e se, la partecipazione del partito alle urne!) Sapevano
per esperienza che, quando si stabilivano contatti fra repubblicani
e socialisti o fra repubblicani e gente di governo, chi ci perdeva
era sempre il loro partito: come matrimoni fra ebrei e cattolici,
che i figli, novantanove su cento, vengono su cattolici. Ciò
nonostante il mazzinianismo fu sempre roso – o ravvivato, secondo i
punti di vista – da un dissidentismo di destra e uno di sinistra.
Gli è che in certe regioni – prima l'Emilia – si nasceva
allora, di regola, repubblicani; si facevano le prime armi in quel
partito e poi, da entro il medesimo, si mostravano le vere tendenze
individuali. Chi, fra il '70 e il Novecento, non esordí alla
vita politica con una milizia piú o meno breve tra le file
repubblicane? (a guardarlo in prospettiva, il movimento repubblicano
di quegli anni assomiglia un poco a quelle stazioni ferroviarie di
smistamento nelle quali gli innumerevoli viaggiatori si trattengono
quel tanto che basta per prendere il treno; e vi sono treni per
tutte le direzioni).
Se sul terreno dell'azione internazionalisti e mazziniani avevano
considerato tuttavia di quando in quando la possibilità
d'accordi, sul terreno teorico il disaccordo era completo e
inesauribile; piú ancora su quello sindacale. I mazziniani
circondavano d'ogni cura le associazioni operaie aderenti al Patto
di fratellanza mantenendole sul terreno della cooperazione e della
mutualità; gl'internazionalisti facevano la concorrenza,
incoraggiando ovunque lo sciopero.
A leggere oggi i resoconti dei vari congressi che il Patto
radunò dal 1872 in poi, non si può a meno di ammirarne
la saggezza, la moderazione; qualche volta, la praticità.
Senza dubbio vi si tennero a balia gran parte di quegli istituti la
cui propaganda e imposizione rappresenta l'immensa benemerenza del
movimento socialista, e di quello solo. Perché mai nessuno ne
va grato agli organizzatori del Patto? La risposta – fatta la debita
parte alla consueta ignoranza delle cose di casa nostra – è
semplice: le deliberazioni dei congressi mazziniani eran bellissime,
ma non uscirono mai dai congressi, a confrontarsi con la
realtà; o se uscirono, se ne accompagnò la prova con
uno spirito eccessivamente timido e timoroso; né informarono
mai di sé – si eccettui la bellissima campagna
cooperativistica – una propaganda vivace e attraente. E fu
cosí che il mazzinianismo preparò, il socialismo si
appropriò ed attirò, ma imprimendo a tutto, anche a
ciò che era sembrato meno moderno, un suo potente spirito
vitale, una sua profondissima forza di rinnovamento, un suo
eccezionale senso della realtà.
Altro errore dei mazziniani fu, io penso, la condanna degli scioperi
(nel congresso del 1882 si decisero a considerarlo come una non
sempre evitabile iattura!); e gli scioperi son la chiave del
successo socialista. L'esservisi opposti, il non averne compresa
l'indispensabilità e l'altissima funzione, anche morale,
almeno nella prima fase dell'organizzazione operaia, condannò
il sindacalismo mazziniano a morir dissanguato, nonché ad
attirare su di sé la dolorosa ingratitudine della massa
lavoratrice.
Nel 1879 il partito repubblicano, la cui ala sinistra aveva
attraversato nei due anni precedenti e specie nel 1878 (attentato
contro Umberto) un periodo di relativa stasi e di
impopolarità, ebbe un impulso di vita piú fervida.
Gli giovavano la decadenza precipitosa dell'Internazionale
rivoluzionaria, il sempre piú diffuso malcontento del paese
(anche la sinistra, dopo tante promesse, ora che era al potere
seguitava a picchiar tasse su tasse) e anche una maggior
vivacità degli stessi dirigenti suoi, fra i quali si andavano
rivelando personalità notevoli, battagliere, dotate di fine
senso politico, venute su alla scuola di Mazzini e di Cattaneo, ma
con cultura e mentalità indipendenti (aprile 1879, fondazione
a Roma della Lega della democrazia). Un valido aiuto la causa
repubblicana ricevette anche dalla rinascita massonica (quanti erano
i repubblicani che non bazzicassero in Loggia? e dove, se non in
Massoneria, si troverà la spiegazione di certe
riconciliazioni, di una piú intensa propaganda, di una
maggiore organicità?) e dall'agitazione irredentistica,
patrocinata calorosamente, ma anche sfruttata a fini propri, dai
repubblicani; agitazione che il supplizio di Oberdan portò ad
un alto grado di passione.
Il partito operaio (fondato nel 1882) venne a dar nuovo indirizzo e
nuovo tono alle relazioni fra socialisti e repubblicani: preoccupato
di conquistar benefici economici e politici al proletariato, con un
programma pratico antidottrinario e antirivoluzionario, il partito
operaio – a parte il riconoscimento dello sciopero – può
sembrar figlio, se si vuole illegittimo, della scuola repubblicana,
e invece le si contrapponeva nettissimamente per la dichiarata
intransigenza di fronte a tutti gli altri partiti sul terreno
economico (sul politico eran previsti accordi) e per l'esclusivismo
antiborghese: si sa che i mazziniani avevano tirato avanti le
società operaie a forza di soci onorari factotum:
consiglieri, delegati ai congressi, sovvenzionatori, ecc. Era un
brusco colpo di timone; ed era, in sostanza, il primo serio
tentativo di concorrenza al sindacalismo democratico in quanto che
il partito operaio lottava sul suo terreno legalitario. La guerra si
dichiarò quasi subito contro Milano. Le due organizzazioni si
rubarono i soci, si oppugnarono nei congressi regionali e nazionali,
si contrastarono il terreno perfino nelle elezioni politiche,
tendendo i repubblicani ad allearsi con la democrazia radicale, i
dirigenti del partito operaio a lasciare candidature indipendenti di
lavoratori. Sono arcinote le accuse furibonde scagliate dai
demo-repubblicani lombardi ai loro oppositori di aver applicato il
tradizionale «non olet» alle interessate lusinghe dei
gruppi di governo, pronti a gonfiare la nuova frazione pur di
indebolire la temibile coalizione di sinistra: primo accenno a una
politica antidemocratica di parte socialista, primo scontro di una
lunghissima battaglia antisocialista condotta dai repubblicani in
anni piú vicini ai nostri.
Non mancarono anche, tra i repubblicani e quelli del Partito
operaio, provvisori accordi. Ma la nuova tendenza sindacale che
questi ultimi rappresentavano, modificatasi sotto l'influsso dei
socialisti intellettuali imbevuti di Marx, i quali, attraverso il
partito operaio operarono la loro conversione tattica verso il
proletariato militante, era destinata a portare un fierissimo colpo
al movimento repubblicano, conducendo a morte il vecchio Patto di
fratellanza che ne costituiva la base granitica; condannandolo
cioè, per molti anni, a essere un partito essenzialmente se
non unicamente politico, disinteressato o ridotto a vivere in
margine alla rigogliosa attività sociale che da allora in poi
caratterizzò la vita italiana. Di fronte al rigoglio d'idee
nuove, di metodi nuovi, di forze nuove, il vecchio Patto, capitanato
dagli stessi uomini del 1871, ma inquinato da elementi sospetti
vagheggianti un accordo tra il mazzinianismo e il collettivismo
socialista, non seppe resistere; posto di fronte alla
necessità di adeguarsi alle mutate esigenze dell'ambiente
operaio, non fu elastico, non fu politico; si contrasse,
s'irrigidí e fu travolto. Che i mazziniani vedessero con
orrore il collettivismo acquistar diritto di cittadinanza nel Patto
creato da Mazzini, è comprensibile; ma non è
piú comprensibile ancora che i giovani, gli uomini nuovi
provassero un irresistibile desiderio di sbarazzarsi di certi Catoni
oltrepassati che – come il Minuti, ad esempio – erano ancora nel '90
o giú di lí contrari all'agitazione per le otto ore?
Con la morte del Patto sparivano dall'orizzonte operaio alcuni
postulati, sui quali, come sul nucleo della dottrina sociale
mazziniana, i suoi dirigenti avevano costantemente battuto; e ai
quali dopo tanti anni di lotta e di esperienze gli operai italiani –
cadute le attuali elefantesche soprastrutture bestemmiatrici dello
spirito medesimo di un sano associazionismo – dovranno pur tornare:
non voglio citare che l'indispensabile conciliazione fra
emancipazione del lavoro e senso nazionale; e l'importanza
straordinaria del fatto politico.
Nel 1895 nacque il partito repubblicano italiano; ma di ciò e
delle successive relazioni fra socialisti e repubblicani, altra
volta.
Mi preme per ora concludere rilevando la sempre piú netta
distinzione che, dopo il 1890, va operandosi tra repubblicani alla
vecchia e repubblicani moderni: Bovio, Colajanni, Ghisleri,
Imbriani, Papa, per non citare che i piú eminenti, ricchi
d'idee e di attività, stretti intorno a giornali che ancor
oggi si rileggono imparandovi, hanno infatti ben poco a che fare,
per esempio, col d'altronde rispettabilissimo gruppo che si riunisce
intorno alla Fratellanza artigiana di Firenze. «Cuore e
Critica», «L'Italia del Popolo», rappresentano
degnamente la generazione repubblicana che seppe fondere e integrare
le idealità mazziniane col positivismo di Cattaneo; e
cioè con una vigile coscienza dei sempre nuovi complessi
problemi della vita nazionale.
4.
Di una storia da scrivere e di un libro recente
La storia del movimento operaio in Italia negli anni che corrono
dalla morte di Mazzini alla fondazione del partito socialista (1892)
è ancora da scrivere: e sarebbe un lavoro di prima importanza
e, direi, necessità. È vero che sull'argomento noi
disponiamo di una bibliografia vastissima: vecchie storie
dell'Internazionale, memorie documentarie e aneddotiche, biografie e
autobiografie, pubblicazioni di propaganda degli anarchici, dei
socialisti, dei repubblicani, qualche monografia di carattere
regionale, qualche studio obiettivo sulle organizzazioni economiche,
e via discorrendo; ma il tentativo di radunare le sparse membra, di
superare la cronaca, di basare solidamente una sintesi, e non
è stato compiuto o è stato compiuto senza adeguata
preparazione, e, forse, troppo presto. Licenziando nel 1927 il mio
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia
(1860-72), scrissi un po' alla leggera che a quel primo studio avrei
fatto ben presto seguire un altro volume che avrebbe condotto il
filo della narrazione «almeno fino alle soglie del secolo
XX». Svariati motivi m'impedirono poi di tener fede a quella
promessa, ma certo il piú serio sarà stato quello che
non ero ancora maturo a un'opera di cosí vasto respiro,
né sufficientemente distaccato dalle cose di quel tempo per
poter affrontare un'esposizione obiettiva. Preferii piuttosto
indagare la preistoria del nostro movimento operaio e rifarmi alle
fonti italiane e premarxiste del pensiero socialistico. Per chiarire
l'azione politica e sociale svolta dall'ultima generazione nata nel
clima preunitario occorreva d'altronde penetrare assai piú a
fondo ch'io non avessi potuto fare fino allora il modo della sua
formazione spirituale, e con quali premesse e con quali
finalità, e, da ultimo, con quali residui essa avesse
partecipato alla fase conclusiva del processo unitario italiano. Di
dove venivano, cosa avevano operato, quali esperienze positive e
negative avevano attraversato nei loro giovani anni gli uomini della
prima Internazionale, i continuatori del «socialismo»
mazziniano, i primi cooperativisti, i primi apostoli del verbo
marxista? Fino a qual punto la loro nuova attività obbediva a
profonde esigenze della vita italiana, fino a qual punto invece a
sollecitazioni dall'esterno?
Era giusto il loro assunto che lo Stato italiano, quale si era
venuto concretando sotto il governo della Destra, non rispondeva
alle mete proposte da coloro che piú avevano contribuito alla
sua formazione e che perciò proprio ad essi aspettava
l'imporne una radicale trasformazione? Cosa c'era di vero nella
formola da essi usata della «delusione» provata dalle
«masse» pei risultati dell'unità? Altrettanti
interrogativi ai quali bisognava rispondere meditatamente e non
già ad orecchio, ricalcando schemi consunti.
Ho l'immodestia di ritenere che questi dieci anni d'infedeltà
al tema primamente propostomi non siano da considerarsi, in questo
senso, interamente perduti; d'altra parte l'approfondimento notevole
che gli studi di storia del Risorgimento hanno registrato da ultimo
ha senza dubbio giovato a maturare i problemi storici posti dalle
vicende italiane dell'ultimo trentennio del secolo XIX. La prima
storia del movimento operaio in Italia può inoltre
solidamente basarsi, ormai, sulle ricerche d'archivio; possibili, a
tutt'oggi, solo fino al 1867, ma in certi casi, forse, prolungabili
fino ad anni piú prossimi a questi nostri. E non verrà
voglia, ad esempio, di rettificare la narrazione, che fin qui si
è fatta del primo diffondersi dell'Internazionale nell'Italia
del sud, in base ai dossiers della questura napoletana che di
recente son stati segnalati e ordinati? Non penserà qualcuno
a estendere siffatte ricerche negli archivi di Firenze, di Milano,
di Torino? Dei primi processi contro l'Internazionale non si
conoscono, fin qui, che gli atti di accusa e le sentenze, oltre alle
poco attendibili versioni degli interessati: non vorremo adesso
compulsare addirittura le filze processuali?
C'è molto da lavorare, dunque, in questo campo; e in certo
senso occorre affrettarsi se vogliamo valerci delle testimonianze
dei pochi superstiti fra i veterani della vecchia organizzazione
operaia, e in altro senso occorre procedere con molta cautela e
andare a rilento prima di trar conclusioni. Da lavorare per chi,
come me si proponga di dare un seguito, ormai, a un'opera bene o
male già avviata, e per chi intenda incominciare daccapo e
con diversi criteri; abbandonando tutti la rotta indicata da
precedenti «storici» per segnarci una via nuova
attraverso ricerche di prima mano. Cominciano ad essere possibili,
ad esempio, certe biografie critiche di un Cafiero, di un Costa, e –
perché no? – di un Malatesta o di un Cipriani; e si potrebbe
studiare la prima Internazionale sui suoi innumerevoli giornaletti
di propaganda, se non addirittura tentare la storia della stampa
sovversiva in Italia dal '70 in poi; anche si potrebbero studiare i
rapporti di filiazione e d'incrocio fra i vari partiti e gruppi:
come si passi, che so io, dalla «Plebe» alla
«Critica sociale», da Bignami e Gnocchi Viani a Turati e
alla Kuliscioff; e quale sia stato, in concreto, l'apporto del
mazzinianismo con la sua tradizione e la sua pratica
cooperativistica al sindacalismo socialista. O anche la storia del
movimento operaio, nelle sue varie fasi, in una singola
città, o regione: Milano socialista, ad esempio, dai tempi
del «Gazzettino rosa» fino al tramonto del partito
operaio. Bellissimo tema, in particolare, sarebbe la storia di un
piccolo centro provinciale che abbia sentito, per tempo, l'influenza
o il contraccolpo della propaganda socialistica: un tema che
potrebbe venire affrontato dagli studiosi di provincia (i quali
lamentano, nel loro isolamento, di non poter lavorare) col semplice
ausilio, il piú delle volte, della biblioteca e dell'archivio
comunale. Bisognerebbe cominciare col rendersi conto di quale fosse,
agli albori della vita unitaria, la costituzione sociale del paese
prescelto: proporzioni fra i vari ceti, rapporti reciproci, risorse
locali, condizioni economiche e morali della classe lavoratrice,
ecc.; e poi, o prima ancora, ricercare l'atteggiamento assunto dai
vari gruppi di fronte ai problemi della organizzazione politica
(contributo positivo o negativo o nullo alla creazione dello Stato
unitario; stato d'animo della popolazione di fronte alla realizzata
unità; divisione in partiti politici; influenza della Chiesa,
e via discorrendo); tener d'occhio, a mezzo della stampa locale e di
memorialisti paesani – ce ne furono tanti, in Italia, anche in tempi
recenti, e son cosí poco sfruttati – o di carteggi
particolari, il primo disegnarsi di una organizzazione autonoma fra
i lavoratori, e le reazioni da essa suscitate, e l'urto eventuale,
in seno ad essa, di tendenze diverse; seguire le successive prese di
posizione della classe lavoratrice di fronte a importanti
avvenimenti della vita nazionale, e i progressi delle organizzazioni
e il loro entrare in rapporto con altre consimili della provincia e
della regione; indagare l'effettivo grado di autonomia dei
lavoratori organizzati (rapporti con gli intellettuali
propagandisti), e, pian piano, le forme e i limiti della loro
partecipazione alle lotte politiche e amministrative, e via
cosí. La storia di dieci o dodici paesi di provincia, a
economia agraria o industriale o marittima, del nord, del centro o
del sud, di pianura o di montagna, questa storia, narrata di su
fonti autentiche, con scrupolo di verità, senza intenzioni di
«rivendicazione», non ci fornirebbe forse un materiale
prezioso per la piú grande storia d'Italia negli ultimi tre o
quattro decenni del secolo passato?
Pensavo tutto questo, leggendo il primo volume della Vita di
Mussolini, di fresco pubblicata, pei tipi Mondadori, da Ivon de
Begnac. Son 355 pagine fitte, le quali arrivano al 1902 e nelle
quali si parla soprattutto del padre di Mussolini, Alessandro (molto
anche della Romagna in genere). Alessandro Mussolini, nato nel 1854,
fece, si sa, di professione il fabbro, e fu nella sua Predappio (e,
per maggior esattezza, nella frazione di Dovia) uno dei primi e
piú attivi operai socialisti: autodidatta, amico devoto e
ammiratore del Costa, e del Cipriani – non forse chiamò il
suo primogenito, oltreché Benito, in memoria del Juarez,
anche Andrea e Amilcare in omaggio ai due idoli della sua
giovinezza? –, partecipe, nel '74, a quella «marcia su
Bologna», che alcuni anni or sono ha fornito la trama a un
buon romanzo italiano; fieramente anticlericale, garibaldino a
oltranza come tutti i primi internazionalisti; patriota e nel tempo
stesso antimilitarista; propagandista indefesso delle sue dottrine,
e perciò carcerato due volte (nel 1878 e nel 1902) e per
quattr'anni ammonito (dal 1878 al 1882); attentissimo ai problemi
della organizzazione economica: fondatore e capo, nonché di
una società dei bevitori, arguto travestimento di un gruppo
sovversivo, di una cooperativa di braccianti, e per ciò
assuntore di lavori pubblici, e finalmente e per parecchi anni fra
gli amministratori del suo comune. Il De Begnac, che è uno
scrittore, sa presentarcelo vivo e naturale, il suo personaggio, e
con lui la sua Predappio con le sue lotte intestine, con la sua
miseria, con le sue insoddisfatte aspirazioni di accrescimento e di
potenziamento, nella cornice di quella Romagna eternamente
appassionata e violenta, civilissima e sovversiva. Nulla di
piú suggestivo e di piú illuminante, per uno studioso
dell'età recentissima; nulla di piú comprensibile,
s'aggiunga, delle ingenue contraddizioni nella vita e nel pensiero
di questo operaio socialista di ceppo repubblicano, il quale, mentre
sogna la rivoluzione sociale (e, quando è possibile, la
tenta), non per questo si sente meno nel solco della tradizione del
Risorgimento; di questo anticlericale nato, il quale pur manda i
suoi figli in collegio dai salesiani; di questo estremista
intransigente il quale accetta cariche pubbliche; di questo tardo
legalitario che, quando le elezioni volgano sfavorevoli al suo
partito, non troppo s'adonta che i suoi seguaci fracassino le urne.
Il torto dell'autore (oltre a quello di annegare in troppo colorismo
strapaesano, troppe diversioni introspettive un soggetto di tanta
umana schiettezza), il torto dell'autore, anzi, è proprio
quello di non avere inteso come siano appunto cotali contraddizioni
e, con esse, taluni atteggiamenti non ortodossi del suo personaggio,
quelli che valgono ad accentuarne ai nostri occhi il singolare
interesse, facendone un tipo piú nettamente rappresentativo
di un'età e di un costume. Giacché il problema non
è davvero quello di rappresentare Mussolini padre come
precursore di tempi allora impreveduti e di correnti ideologiche
allora inconcepibili; ma piuttosto quello di conferire tanta
verità alla sua figura, tanta necessità, direi, alle
sue azioni, da farne un interprete fedele e immediato e quasi un
simbolo di certe esigenze, di certe aspirazioni, di certi motivi
ideali del suo ceto, nell'Italia d'allora. Se nella vicenda di lui
noi dobbiamo vedere non solo la premessa e il punto di partenza per
il singolare cammino percorso dal figlio, ma anche un poco – come
è certamente nei desideri del De Begnac – la storia delle
masse operaie e contadine che finalmente entrano, sia pur da
ribelli, nella vita della nazione e via via acquistano coscienza dei
suoi multiformi problemi, e piú in generale, della immensa
distanza che sempre separa ideale e realtà, programma e
prassi, ben s'intende come sia erroneo, oltreché inutile, lo
stendere un velo su talune sue limitazioni e, talvolta, deviazioni.
Tutte le esperienze son necessarie e in ultima analisi preziose alla
vita di un popolo, tutte le riconquiste presuppongono un antecedente
abbandono, tutte le affermazioni una negazione o almeno un dubbio:
tutto sta nel saper ricostruire e tenere realisticamente presente il
processo dialettico che lega questi vari momenti con un vincolo
reciproco di indispensabilità. È cosí che, ad
esempio, io non avrei affatto temuto di riferire integralmente certi
passi caratteristici della prosa rivoluzionaria del primo Mussolini:
sia le invettive contro i milioni del «povero prigioniero
Gioachino Pecci»451, che l'invito ai preti a gettare la
«tonaca alla fiamma purificatrice del progresso per indossare
il farsetto onorato dell'operaio»452, o il contesto della
infiammata corrispondenza «Cos'è il socialismo?»
(«il socialismo... è la scienza che illumina il
mondo..., è una sublime armonia di concetti, di pensiero e di
azione che precede al gran carro dell'umano progresso... Diceva un
giorno il grande Brunelleschi: datemi un punto di appoggio per la
manovella, che io vi solleverò il mondo. Ebbene, diciamo noi,
uniamoci tutti pel comun bene e prementi tutti come un sol uomo
nella gran manovella – la rivoluzione sociale – daremo l'ultimo
colpo a questo mostruoso e crollante edificio...»)453. Il De
Begnac addita in Mussolini uno dei pochi socialisti di allora
sensibili a un patriottismo monarchico e, per cosí dire,
nazionalistico: ma la dichiarazione da lui fatta in consiglio
comunale all'indomani del regicidio di Monza («... nel
prendere parte al lutto nazionale protestiamo contro l'insulso ed
efferrato assassinio commesso contro la vita di un galantuomo,
dichiariamo, per essere coerenti ai nostri principî, e per
ragioni di partito, di astenerci dalla votazione»)454 non
corrisponde forse all'atteggiamento ovunque assunto in quella
occasione dai socialisti italiani? Questa figura di popolano serba
tutta la sua attrattiva a condizione che se ne rispetti
scrupolosamente la primitiva semplicità: orbene, scrivendo
che una letterina di Mussolini alla «Lotta» di
Forlí per dissuadere il partito dal riunire un congresso a
Lugano costituisce «un documento importantissimo per la storia
del socialismo in Italia»455, oppure che «se la storia
non parla ancora di quest'uomo ciò si deve al fatto che
nessuno storico ha ancora scrutato nella vita di Romagna dal 1880 al
1900»456, non si rischia forse di svisare i lineamenti e
l'azione di questo ardente e modesto e sincero militante dell'idea
socialistica?
Il De Begnac ricorre forse un po' troppo a queste amplificazioni, a
queste omissioni: direi, in genere, che ha troppo il gusto della
«interpretazione». Perché sorvolare, ad esempio,
sulla circostanza, pur nota, che la forlivese
«Rivendicazione», cui Mussolini di quando in quando
mandò qualche sua cronachetta predappiese (rapporti succinti,
quali poteva scriverli, negl'intervalli del suo lavoro, un autentico
operaio, non mai articoli veri e propri), era un giornale anarchico
rivoluzionario, tra i cui assidui collaboratori figurava un
Malatesta?457. Perché, ancora, non affrontare con storica
obiettività il problema dell'atteggiamento assunto dai
socialisti nostrani di fronte al primo tentativo coloniale
dell'Italia d'allora? Pareva a costoro che i partiti di masse
avrebbero in qualche modo tradito le loro idealità se, in un
paese afflitto da grande miseria, com'era allora il nostro, e quindi
dalla impossibilità di risolvere sollecitamente i suoi
piú gravi e piú urgenti problemi interni, avessero
aderito a una costosa politica espansionista. Il che non implica
affatto che i socialisti non amassero il loro paese: lo amavano
bensí, ma in quanto si mantenesse fedele a quella bandiera di
libertà cui pur doveva il suo costituirsi a nazione; bandiera
di libertà alla cui ombra i socialisti italiani avevano, dal
piú al meno, militato tutti, nei loro giovani anni, e
sarebbero stati pronti ad impugnare ancora le armi, se dall'esterno
si fosse comunque minacciato l'integrità nazionale. Garibaldi
non era (o almeno non si reputava) dei loro? E quando Oberdan
salí il patibolo, non furono i socialisti appunto che meglio
ne compresero il disperato gesto e ne onorarono poi, di anno in
anno, la memoria?458 Cosí per Crispi: dal fatto che un certo
giorno, vista respinta una prima domanda d'impiego presentata al
comune di Predappio dal figlio giovinetto, Mussolini gli gridasse,
in piazza: «Non ti avvilire, tu sarai il Crispi di
domani», non mi sembra si possa senz'altro dedurre che il
fabbro rivoluzionario nutrisse qualche inconfessata simpatia pel
«gran vecchio». La lettura del «Risveglio»,
l'altro giornaletto cui Mussolini collaborava in quegli anni,
legittima comunque qualche dubbio in proposito.
Questi pochi miei appunti ad un libro, il quale, indiscutibilmente,
ha in sé qualcosa di assai stimolante e rappresenta un
meritorio sforzo di documentazione in un campo fin qui disertato
dagli studiosi, vogliono significare invito all'autore a proseguire
nelle ricerche adesso iniziate, raccogliendo ulteriori documenti e
ulteriori testimonianze sul protagonista di questo suo primo volume
(del quale, del resto, egli ci parlerà di certo anche nel
secondo volume: Alessandro Mussolini, infatti, morí nel
novembre del 1910, a pochi mesi di distanza dal «suo»
Andrea Costa)459. A tale proposito mi permetto di segnalare fin
d'ora al De Begnac quei pochi accenni sul Mussolini, a lui sfuggiti,
che ho potuto rintracciare fra le mie note:
«Sole dell'avvenire», Ravenna, 30 settembre 1883:
corrispondenza da Predappio. Circa la visita compiuta il 12
settembre a Predappio e a Dovia dal Costa; suo discorso di
propaganda socialista a Dovia, suo incoraggiamento a partecipare
alle elezioni amministrative; grande spiegamento di forze compiuto
nell'occasione dall'autorità: «tanta forza
quassú era uno spettacolo straordinario; dapprima le donne
nostre temevano chi sa che diavoleria, poi risero». La
corrispondenza non è firmata: che sia di Mussolini?
«Sole dell'avvenire», 1° dicembre 1883: cronaca del
Congresso dei socialisti rivoluzionari di Romagna, riunitosi a
Forlí il 18 novembre: tra i delegati figura, per Dovia,
Mussolini.
«Rivendicazione», Forlí, 20 novembre 1886:
corrispondenza da Predappio firmata da diversi «socialisti di
Predappio», non da Mussolini, circa i disordini verificatisi
in paese il 23 ottobre (altra, su analogo argomento, a firma
Ravajoli, il 29 settembre 1888).
«Rivendicazione», 6 agosto 1887: corrispondenza da
Predappio circa la situazione comunale: anche questa non firmata da
Mussolini.
«Rivendicazione», 17 settembre 1887: corrispondenza da
Predappio circa i funerali del «compagno» Antonio
Bartoletti, svoltisi in forma puramente civile («In Predappio
o si è socialisti o cattolici; i monarchici o democratici
sono pochissimi, ed avvi un sol repubblicano»). È
firmata «I compagni».
«Rivendicazione», 7 dicembre 1888: «La Federazione
socialista rivoluzionaria di Predappio e sezione di Dovia, liete del
felice avvenimento che ha commosso tutti i compagni, vale a dire
della liberazione dell'indomito Carlo Cafiero, salutano in lui
affettuosamente l'eroe ribelle dei moti di Benevento, e il futuro
campione delle lotte economiche. Per la Federazione: Chiadini,
Lombardi, Mussolini, Marani, Girelli».
«Rivendicazione», 23 febbraio 1889: lettera aperta a
firma «Molti lavoratori di Predappio e comuni vicini per
invocare la costruzione di un certo tratto di strada che dovrebbe
congiungere la vallata del Rabbi con quella del Savio».
«Rivendicazione», 30 marzo 1889: corrispondenza a firma
Mussolini, da Predappio, 18 marzo: «Ieri sera, vigilia della
gloriosa rivoluzione parigina del 71, la nostra Federazione
socialista nel locale sociale fra molti invitati commemorò il
18° anniversario del comune parigino. Vari compagni
pronunciarono discorsi di circostanza e tutti applauditissimi. Si
finí inneggiando alla prossima rivoluzione sociale e inviando
un saluto all'eroico colonnello del comune, il valoroso
rivoluzionario Amilcare Cipriani, glorioso avanzo di tanta
grandezza».
«Sole dell'avvenire», 6 luglio 1889: cronaca della
riunione del partito socialista rivoluzionario della Romagna
tenutasi a Forlí, il 30 giugno: per la federazione di
Predappio e Dovia sono presenti Mussolini, Brusaporci e Balducci. Si
discute della partecipazione ai due congressi socialisti che si
riuniranno a Parigi nel luglio; Mussolini prende parte alla
discussione.
«Rivendicazione», 1° maggio 1891: lettera aperta de
«Gli operai disoccupati» da Predappio 28 aprile, alla
deputazione provinciale di Forlí: domandano lavori pubblici;
«è in nome della fame che domandiamo di essere
occupati».
«Rivendicazione», 27 giugno 1891: corrispondenza da
Predappio, 3 giugno, a firma Mussolini, circa la visita compiuta a
Predappio dai componenti la detta deputazione per studiare lavori
stradali; gradito ricordo lasciato in tutti, speranze degli operai,
ecc.
«Risveglio», Forlí, 31 marzo 1894: corrispondenza
da Predappio, 28 marzo, circa l'arresto verificatosi alla domenica
dei compagni Capelli, Raggi, Brusaporci, rei di aver cantato l'inno
dei Lavoratori; Castagnoli è riuscito a fuggire.
«Risveglio», 10 maggio 1896: corrispondenza da
Predappio, non firmata, circa questioni stradali.
«Risveglio», 7 giugno 1896: cronaca del IV Congresso
regionale socialista romagnolo tenutosi a Forlí il 31 maggio.
Manca qualunque rappresentante di Predappio. In relazione a
ciò si noti che in calce alla corrispondenza da Predappio
pubblicata il 26 gennaio si legge: «I socialisti di Predappio
hanno aderito al partito? [N. d. R.]».
«Risveglio», 29 luglio 1899: cronaca del XXIII Congresso
socialista romagnolo tenutosi a Forlí il 23. Manca, ancora
una volta, qualunque rappresentante di Predappio.
«Risveglio», 5 maggio 1900: la corrispondenza da
Predappio, 29 aprile, non firmata (ma che il De Begnac attribuisce a
Mussolini), si occupa anche della bicchierata fatta a Dovia il
1° maggio: «Si inneggiò all'Estrema Sinistra per
l'energica lotta che ha sostenuto e sosterrà... e si fecero
auguri perché la vittoria finale assicuri l'indipendenza e la
libertà al forte popolo boero».
Termino augurando che l'esempio del De Begnac venga seguito da
altri: cioè che s'inizi una fervida opera di raccolta e
d'illustrazione di documenti spettanti alla storia del movimento
operaio italiano negli ultimi trent'anni del secolo XIX.
Dopo la pubblicazione del volume qui segnalato non è da
dubitarsi che studi siffatti non abbiano ad incontrare il plauso ed
anzi l'incoraggiamento generale.
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1 L'autore di questo articolo sta per pubblicare in volume la prima
parte di un suo studio, compiuto nel periodo del suo alunnato alla
Scuola di Storia Moderna in Roma, condotto su documenti degli
archivi di Londra, Torino, Firenze e Napoli, intorno alla politica
svolta dall'Inghilterra in Italia fra il 1815 e il 1847 [Inghilterra
e regno di Sardegna dal 1815 al 1847, a cura di P. Treves, Torino
1954]. In questi rapidissimi appunti egli ha inteso di prospettare
storicamente il problema dei rapporti Italia-Inghilterra quale si
pone fino dal secolo XVII e di chiarire, della politica inglese, le
premesse fondamentali e taluni sviluppi piú caratteristici
fino alla crisi risolutiva dell'unità italiana. Sia qui detto
che la Scuola di Storia Moderna ha cercato, fin dal suo nascere
(anno 1926) di promuovere lo studio della storia d'Italia nel
piú ampio quadro della storia europea [L'articolo comparve
nella «Rivista storica italiana», 1936].
2 Carlo Alberto principe di Carignano, Firenze 1930. Del seguito,
vivamente atteso, di questa pregevole opera è stato
pubblicato il volume su Carlo Alberto negli anni di regno 1831-43,
proprio mentre si stava ultimando la stampa di quest'Annuario.
3 Prima di lui nessuno si era preoccupato di consultare, in merito
alla questione di Carlo Alberto, i carteggi conservati nel Record
Office. Il Vayra (La leggenda di una corona: Carlo Alberto e le
perfidie austriache, Torino 1896) si era limitato, a suo tempo, a
tradurre – né sempre con esattezza – i dispacci spediti da
Verona dal Wellington, i quali erano già stati pubblicati da
lungo tempo in Inghilterra.
4 Un esempio tipico di questa mutevolezza dei diplomatici si ricava,
nei confronti di Carlo Alberto, dal dispaccio del ministro inglese a
Torino, William Hill, a lord Londonderry, 9 febbraio 1822 (Public
Record Office, Sardinia, 65; dispaccio segreto e confidenziale, n.
4), e riguarda la legazione di Francia. Da esso risulta che nel
settembre del 1820 la legazione di Francia era contraria al ritorno
di Carlo Alberto in Piemonte; in ottobre, invece, lo favoriva; sui
primi del '22 vi si manifestava di bel nuovo contraria. Ci
auguriamo, fra parentesi, che questo accidentale rilievo non abbia a
procurare un nuovo piacere al francese César Vidal, noto
studioso del Risorgimento, il quale, scottato per una innocente
recensioncina al suo Charles-Albert et le Risorgimento italien
(Paris 1930), ci ha fatto l'onore, in un suo successivo volume, di
attribuirci (per combatterle, naturalmente) opinioni mai espresse da
noi circa Carlo Alberto e la politica della Francia e dell'Austria
(Louis-Philippe, Metternich et la crise italienne de 1831-32, Paris
1931, pp. 20 nota c 285). Ci rincresce dover confessare che di
questo argomento non ci siamo mai occupati fin qui se non, appunto,
per temperare il soverchio zelo francese del signor Vidal.
5 Nell'indice dei nomi di persone che chiude il volume del Rodolico,
il Percy non figura: per un banale errore egli è stato
registrato sotto il suo nome di battesimo, Algernon.
6 P(ublic) R(ecord) O(ffice), Sardinia, 61, n. 9 (a lord
Castlereagh). D'ora innanzi, dei dispacci della legazione inglese a
Torino daremo soltanto il numero e la data; salvo indicazioni in
contrario s'intende che sono tutti diretti a lord Castlereagh (lord
Londonderry dall'aprile 1821) e che appartengono tutti alla serie
Sardinia, che nel catalogo del Foreign Office reca il numero
d'ordine 67. Del Percy si vedano anche i dispacci 13 settembre, 3 e
24 ottobre, 25 novembre, 24 dicembre 1820.
7 P. R. O., Austria, 151.
8 P. R. O., Austria, 151. È vero che nei mesi seguenti le
informazioni dello Stewart parvero improntate a un maggiore
ottimismo: conseguenza dei rapporti giunti a Vienna, da Torino, dal
generale Ficquelmont. Cfr. ad esempio il dispaccio Stewart 22 agosto
1820.
9 P. R. O., Tuscany, 35, dispaccio 2 ottobre 1820.
10 Cfr. il dispaccio Stewart, Vienna, 8 agosto 1820 (loc. cit.):
«Ho trovato il principe (Metternich), oggi, piú
visibilmente agitato che mai per l'innanzi circa l'attuale
situazione... Egli mi ha comunicato in particolare i suoi allarmi
per il Piemonte e mi ha detto che crede il re di Sardegna debole e
ondeggiante». Nel seguito il cancelliere austriaco mutò
parere circa re Vittorio: ché la sua abdicazione gli parve
atto di grande energia (cfr. Mémoires, documents et
écrits divers, Paris 1880-84, III, p. 463). Tutto ciò
dimostra che ha torto il Webster, autore di magistrali studi sul
Castlereagh quando (The Foreign Policy of Castlereagh (1815-22),
London 1925, p. 328) scrive che la rivoluzione in Piemonte giunse
«inaspettata, per quanto nel 1820 il nord d'Italia fosse stato
considerato assai piú pericoloso del sud. Ma per nord si era
intesa la Lombardia». Si deve per altro riconoscere che i
timori concepiti nel corso del 1820 si acquetarono un poco nei primi
mesi dell'anno seguente grazie al cieco ottimismo dimostrato dal San
Marzano a Lubiana.
11 Dispaccio Stuart (ambasciatore inglese a Parigi) a Castlereagh,
22 marzo 1821 (P.R.O., France, 250, n. 84).
12 Cfr. Webster, Op. cit. , pp. 303 sg., 321 sg. Il Gordon,
sostituto dello Stewart alla Conferenza di Lubiana, assicura che il
dispaccio circolare del Castlereagh piacque moltissimo al delegato e
ministro degli esteri sardo, San Marzano (ivi, 325). In
realtà questi scriveva al suo re, il 15 febbraio, che la
protesta del gabinetto di Londra «non cambia nulla nel sistema
adottato dall'Inghilterra, e non può influire sugli affari
generali; essa fornisce solo un testo alle declamazioni dei
liberali» (Avetta, Al Congresso di Lubiana coi ministri di re
Vittorio, in «Il Risorgimento italiano», 1923, pp.
215-18). Il Percy, a Torino, si sforzava intanto di neutralizzare le
conseguenze evidenti della circolare Castlereagh, ripetendo che di
essa non dovevano gloriarsi né i radicali inglesi né i
liberali francesi né i carbonari italiani (Negri, La
rivoluzione piemontese del '21 nel carteggio della diplomazia
pontificia, in La Rivoluzione piemontese del '21. Studi e documenti
pubblicati dalla Società Storica Subalpina, 1924, II, 469).
13 Ciò si ricava dai dispacci del conte d'Agliè, e del
conte Pollone, da Londra, al San Marzano (l'Agliè, è
noto, partí per Parigi e Torino ai primi d'agosto del 1820, e
non tornò in sede che molti mesi piú tardi, dopo avere
esperito importanti missioni a Lubiana e a Napoli). Il 23 luglio
1820 l'Agliè, rendendo conto di un suo colloquio col
Castlereagh, scriveva: «Quanto a noi, egli mi disse che
sentiva essere la nostra situazione molto difficile, ed esigere
molta prudenza e vigilanza; ma evitò di entrare in
particolari» (Bianchi, Storia della diplomazia europea in
Italia, II, pp. 307-8. Il Bianchi attribuisce erroneamente a questo
dispaccio la data di Parigi). Non si può escludere è
vero, che dispacci riservati dell'Agliè o del Pollone
manchino dalle filze esibite agli studiosi nell'Archivio di Torino,
né che il segreto pensiero del Castlereagh venisse
dall'Agliè convogliato oralmente al San Marzano; quel che si
può escludere quasi con certezza si è invece che,
partito l'Agliè, il Castlereagh si aprisse confidenzialmente
col giovane incaricato Pollone.
14 Cfr. i dispacci Stewart del 21 e 27 dicembre 1820 (loc. cit.) e
Castlereagh a Stewart, 19 gennaio 1821 (P. R. O., Austria, p. 158,
n. 6).
15 Tale nomina ebbe luogo in settembre e non nel giugno, come scrive
il Rodolico a p. 99. Piú tardi lo Hill riferí che a
Torino «molti erano rimasti sorpresi che il re avesse affidato
a una persona cosí giovane un posto considerato della
piú alta importanza in questo paese» (dispaccio 25
giugno 1821).
16 Dispaccio Percy 3 ottobre 1820.
17 Dispaccio Hill 17 maggio 1821: «In realtà
l'antipatia del vecchio re (per gli austriaci) era cosí viva
che per due anni dopo che essi ebbero evacuato il paese egli non
cessò mai di parlare su questo soggetto sia con me che con
qualunque viaggiatore inglese io gli presentassi a corte; ora si
afferma perfino che, a forza di tenere lo stesso linguaggio dinanzi
ai suoi ufficiali, egli abbia in qualche misura determinato
quell'animosità che ha tanto contribuito ai recenti
avvenimenti».
18 Dispaccio Percy 8 dicembre 1820.
19 Istruzioni San Marzano ad Agliè (che è in viaggio
per Napoli), Lubiana, 28 febbraio 1821: «Conoscete
perfettamente... le vedute e l'opinione del gabinetto di St James,
sapete che esso, malgrado la sua neutralità assoluta,
è antirivoluzionario» (Avetta, op. cit., p. 246). Il
contegno assunto dall'Inghilterra a Lubiana è troppo noto
perché occorra riferirne qui.
20 Narrando che il principe «manda ogni giorno all'ospedale
per assumere informazioni sul conto dei feriti e per offrire loro
ogni assistenza», il Percy viene a dare piena conferma al
racconto del Rodolico (p. 122) contro le risibili fandonie del
Brofferio. Cfr. il dispaccio Percy 19 gennaio 1821.
21 Questa notizia, vera o non vera, non è stata fin qui
registrata, ch'io mi sappia, da altre fonti. Dispaccio Percy cit.,
19 gennaio 1821.
22 Dispaccio segreto Percy 6 marzo 1821. Il Percy è
già informato di quanto, nelle lettere sequestrate, riguarda
Carlo Alberto, qualificato dal principe della Cisterna decisamente
inferiore «a siffatta incombenza».
23 Dispaccio Percy 10, 11 e 13 marzo 1821.
24 Dispaccio cit. 11 marzo 1821; egli sta per mandare all'uopo un
corriere a Napoli quando gli giunge notizia che il re e la regina
hanno abdicato e sono partiti per Nizza. Dispaccio cit. 13 marzo
1821.
25 Dispaccio cit. 13 marzo 1821.
26 Dispaccio cit. 13 marzo 1821. A Torino e in tutto il Piemonte
è diffusa l'idea che l'Inghilterra interverrà
militarmente per impedire un'eventuale occupazione straniera. Lo
attesta lo stesso Percy (dispaccio 15 marzo 1821): si crede che
«qualora la Russia mandasse truppe in appoggio dell'Austria in
Italia, la Francia di concerto con l'Inghilterra agirebbe
immediatamente contro i dittatori del nord in pro dell'indipendenza
italiana». Se ne parla in Lombardia, come dimostra un rapporto
31 marzo della polizia di Como alla direzione di polizia a Milano: i
liberali piemontesi vanno spargendo che «gli Inglesi abbiano
sbarcato un corpo di truppe per soccorrere i Napoletani»
(Colombo, La rivoluzione del 1821 secondo fonti austriache, in La
rivoluzione piemontese del 1821. Studi e documenti cit., II 717).
Ancora il 13 aprile il Laneri scriveva al sindaco di Savona:
«Quindici bastimenti inglesi sono giunti a Genova per
sostenerci in questa circostanza» (Luzio, Carlo Alberto e
Mazzini, Torino 1923. pp. 31-32).
27 In due luoghi: a pp. 185-86 e a p. 197, nota.
28 Segnaliamo qualche punto piú interessante. Nel dispaccio
11 marzo il Percy afferma che Carlo Alberto si è rifiutato di
recarsi, conformemente all'ordine di S. M., fra le truppe ribelli ad
Alessandria, «adducendo di sapere che lo si sarebbe forzato a
mettersi alla testa degli insorti e a figurare cosí d'agire
d'accordo con loro». Questa versione contrasta con quella
piú generalmente accettata (basata sui Memoriali di Carlo
Alberto e sulla testimonianza del Balbo: cfr. Rodolico, p. 157)
secondo la quale tale linguaggio sarebbe stato tenuto dal Gifflenga,
che Carlo Alberto aveva designato ad accompagnarlo nel viaggio;
è confermata però dal ministro d'Austria, Binder
(dispaccio 12 marzo 1821 pubblicato dal Rinieri, La rivoluzione in
Piemonte. Le società segrete, ecc., nella cit. silloge La
rivoluzione piemontese. Studi e documenti, I, pp. 622-23) e dal
biografo del conte Revel (Introduction à la guerre des Alpes,
ecc., p. XLIV). Nello stesso dispaccio dell'11 marzo il Percy dava
circostanziata notizia della convocazione fatta dal re quel giorno
stesso degli ufficiali comandanti i corpi armati di stanza a Torino
per interpellarli circa l'assegnamento che poteva farsi sulle
rispettive truppe. Orbene, questo episodio è stato fin qui
generalmente attribuito al giorno seguente, 12 marzo. La
testimonianza del Percy, il cui dispaccio – ripetiamo – è
datato 11 marzo, sembrerebbe inoppugnabile, a meno che non si pensi
(cosa niente affatto inverosimile) che, giacché non tutti i
giorni si presentava l'occasione di far partire dispacci, egli
figurasse soltanto di scriverli (in quelle gravi circostanze)
quotidianamente; e che in realtà li scrivesse tutti insieme,
salvo ad apporre a ciascuno di essi date diverse. Quanto alle
dichiarazioni fatte dagli ufficiali convenuti, il resoconto Percy
collima con la versione tradizionale, secondo la quale il colonnello
del reggimento Aosta e il principe di Carignano avrebbero risposto
che sulle loro truppe, pronte a difendere il re, non era da fare
assegnamento quanto a un'azione contro i rivoltosi (Carlo Alberto,
è noto, scrisse nel suo primo Memoriale in modo alquanto
diverso; ma di ciò piú oltre). Senonché il
Percy aggiunge che, uditi quegli scoraggianti rapporti, «il re
scoppiò in lacrime». E ancora: nel dispaccio 12 marzo
il Percy, vagliando le voci che corrono nella capitale circa il
contegno tenuto da Carlo Alberto alla Cittadella (chi diceva dentro
di essa e chi dinanzi ad essa), esclude che egli possa essersi unito
ai rivoltosi nel grido di «W la Costituzione», e
ciò «quali che siano gl'intimi sentimenti del
principe».
Non sembra che la notte fatale dell'abdicazione del re, il Percy
avesse colloqui con questo o col neo-reggente: egli si limitò
probabilmente, come gli altri suoi colleghi del corpo diplomatico, a
recarsi quella notte alla Segreteria degli esteri, dove le
drammatiche novità vennero loro comunicate (all'Archivio di
Stato di Torino, Lettere Ministri. Gran Bretagna, Registro lettere
della Segreteria degli esteri, si conserva infatti copia di un
biglietto, datato 12 marzo, ore 11,30 p., con cui il San Marzano
invitava il Percy a recarsi d'urgenza alla Segreteria). Il Percy
comunicò l'avvenuta abdicazione del re con dispaccio al
Castlereagh scritto alle due di mattina del 13 marzo. Un colloquio
col re e col reggente ebbe invece, all'alba del 13, l'ambasciatore
di Francia, La Tour du Pin: su di esso e sulle dichiarazioni fatte
da quel diplomatico molto si è scritto e fantasticato. Ma il
Segre nel suo Vittorio Emanuele I, Torino 1930, pp. 241-42, ci
accerta di non averne trovato traccia nel carteggio La Tour du Pin,
da lui consultato a Parigi. Stimiamo opportuno perciò
registrare in proposito la testimonianza dello Stuart, ambasciatore
inglese in Francia. Il cui dispaccio 17 marzo 1821 (P. R. O.,
France, 250, n. 79) in sostanza conferma appieno la nota versione
del De Reiset (cfr. in Rodolico, p. 180), tacendo di un supposto
colloquio del La Tour con re Vittorio e riferendo solo, di quello
con Carlo Alberto, le dichiarazioni di quest'ultimo in senso
favorevole alla promulgazione della Costituzione francese. Il
Gordon, invece, che attingeva a fonti austriache, accertava, nel suo
dispaccio 22 marzo 1821 (P. R. O., Austria, 163, n. 27) che il La
Tour avrebbe «consigliato il principe di Carignano di adottare
la Costituzione francese, impegnandosi, con questa condizione, ad
assicurargli l'appoggio del governo francese». Già che
siamo a parlare del Gordon, della cui assennatezza, ossia
antiliberalismo, tesseva gli elogi il San Marzano, contrapponendolo
al bollente Stewart (dispaccio cit. 15 febbraio 1821), citiamo qui
il primo giudizio che di Carlo Alberto reggente egli trasmetteva al
Castlereagh (dispaccio 17 marzo, loc. cit.): «Il principe di
Carignano è sospettato di avere favorito la rivoluzione, e
anzi di averla in qualche misura istigata, di concerto con
autorevoli agenti, riuniti in club a Parigi... Circola la voce che
il principe di Carignano stia per assumere il titolo di re
d'Italia».
29 Abbiamo riprodotto in extenso la risposta del Percy perché
il Rodolico l'ha omessa.
30 Da molti mesi il Binder coltivava assiduamente il suo collega
inglese, gratificandolo di «espressioni che – scriveva il
Percy il 24 ottobre 1820 – potrei quasi dire di venerazione per
l'Inghilterra». Ma il Percy non lo ricambiava di ugual moneta:
riteneva che col suo contegno il Binder facesse di tutto per rendere
sempre piú impopolare l'Austria in Piemonte, era urtato, si
è detto, delle sue elucubrazioni sulla missione austriaca
(dispaccio 19 febbraio 1821), lo stimava insomma una vera
calamità per la pace d'Europa (cfr. anche l'altro dispaccio
13 marzo), Né era egli solo a pensarla cosí. Il La
Tour du Pin qualificava infatti il suo collega austriaco «un
vero pazzo» (dispaccio 18 gennaio 1821, in Segre, op. cit., p.
225).
31 Op. cit., p. 191, nota.
32 Il che è confermato dallo stesso Carlo Alberto nel suo
primo Memoriale e dalla sua lettera 29 marzo 1821 a re Vittorio
(Scritti di Carlo Alberto, a cura di V. Fiorini, Roma 1900, pp. 37,
163). Il dispaccio Binder, cui allude il Rodolico, è stato
pubblicato dal Rinieri, op. cit., pp. 624-26: esso contiene ampli
particolari sulla missione Percy e su una successiva missione De
Maistre mandatagli quel giorno stesso dal principe: il Binder non
crede alla buona fede del reggente (circa la sua intenzione di far
credere a una imminente guerra all'Austria al solo scopo di
guadagnare tempo) e assicura che neanche il ministro di Russia vi
crede.
33 Con questo non intendiamo dire che il Binder fosse un eroe (ci
accerta del contrario l'incaricato d'affari pontificio, Valenti, in
un dispaccio dell'11 dicembre 1820, pubblicato dal Rinieri, op.
cit., p. 588); ma solo ristabilire la verità su questo punto
particolare.
34 Dispaccio 19 marzo 1821, n. 21. Era stato il proclama di Carlo
Alberto del 15 marzo quello che aveva diffuso la sensazione che egli
intendesse davvero dichiarare la guerra all'Austria. Cfr. in
proposito il dispaccio Stuart 23 marzo 1821 (P. R. O., France, 250,
n. 86).
35 Dispaccio Gordon 19 marzo 1821 (P. R. O., Austria, 163, n. 26).
Il proclama venne da Carlo Alberto comunicato, come è noto,
ai ministri; d'accordo coi quali (18 marzo) ne sospese la
pubblicazione. Di qui la leggenda (raccolta, ma non creduta dallo
Hill), che egli se lo fosse «tenuto in tasca per due
giorni» e che non lo avrebbe «pubblicato né si
sarebbe recato a Novara se non avesse successivamente ricevuto da un
corriere, in via privata, la notizia della completa disfatta dei
Napoletani» (dispaccio Hill 25 giugno 1821). Su questo
proclama e sulla ritardata pubblicazione cfr. Dallari, L'alba di un
regno. Carlo Felice a Modena, in «Rassegna storica del
Risorgimento», 1924, pp. 944-47.
36 Cfr. Rodolico, p. 194, nota. Sulla depressione del reggente cfr.
il dispaccio Metternich a Stadion, 26 marzo 1821: «La
révolte en Piémont va mal comme révolution...
Son principal champion, le prince de Carignan, ne fait que
pleurer». (Mémoires cit., III, p. 493).
37 Cfr. in Rodolico, pp. 197-98, il brano del cit. dispaccio Percy
che ad essa si riferisce. In un altro luogo dello stesso dispaccio
l'incaricato inglese notava che l'attacco al Binder aveva alienato
molti consensi alla causa costituzionale.
38 Dispaccio Percy 20 marzo 1821. Il Rinieri, op. cit., p. 627, dice
che manca la risposta del reggente alla richiesta di passaporti
fatta dal Binder. Eccocela adesso riassunta dal Percy.
39 L'ultimo periodo di questo passo del dispaccio Percy è
stato pubblicato dal Rodolico a p. 193, nota.
40 Dispaccio Percy 23 marzo 1821.
41 Lo s'ignorava evidentemente anche a Parigi donde, il 28 marzo,
scriveva lo Stuart che il reggente aveva rinunziato al suo rango il
giorno medesimo nel quale la legazione francese aveva ufficialmente
smentito che il suo governo intendesse appoggiare il movimento
antiaustriaco in Italia (P. R. O., France, 250, n. 91). Ma dai
dispacci Percy e Stuart si è lasciato influenzare il Webster
quando ha scritto (op. cit., p. 331) «che Carlo Alberto (dopo
qualche esitazione) abbandonò una causa che era evidentemente
diventata disperata dopo che Napoli era stata disfatta e la Francia
aveva rifiutato di aiutare in qualunque modo».
42 Cfr. i due suoi dispacci del 24 marzo (nn. 26 e 27) e l'altro del
26 di quel mese.
43 Dispaccio cit. 26 marzo 1821. Questo passo compiuto dal Percy
è ignorato dal Webster, il quale scrive soltanto (p. 330) che
l'idea di una mediazione franco-inglese avanzata dal governo di
Parigi venne senz'altro scartata dal Foreign Office. Il Percy non
dà che notizie generiche, piú tardi, dei noti passi
compiuti dal ministro di Russia, Mocenigo, per portare a un accordo
fra gl'insorti e il governo legittimo; né troviamo conferma
nei suoi dispacci dell'affermazione dell'incaricato pontificio
secondo cui il negoziato Mocenigo avrebbe dato «ombra ai due
rappresentanti di Francia e d'Inghilterra, che avrebbero voluto
essere invitati a prendervi parte» (dispaccio 29 marzo 1821
pubblicato dal Negri, op. cit., II, p. 497).
44 Dispaccio Castlereagh a Gordon 5 aprile 1821, segreto e
confidenziale (P. R. O., Austria, 161, n. 2); il Webster, op. cit.,
p. 330, ne ha pubblicato solo un brevissimo estratto. Sul proposto
intervento russo in Piemonte si vedano le giuste considerazioni
svolte in contrario dal Gordon (dispaccio 15 marzo 1821) e dallo
Stuart (dispaccio 26 marzo e 5 aprile 1821) e quel che scrive lo
Hill nel dispaccio 17 maggio 1821. Il 22 aprile il Metternich
scriveva allo Stadion: «Ne jugez pas l'Angleterre sur rien de
ce que vous dit lord Stewart: tout ce qu'il dit est faux. Il vous
aura fièrement niée la marche d'un corps russe en
Piémont; eh bien, son Cabinet le demande à cor et
à cri, car il voit juste...»
45 Dispaccio Percy, 11 aprile 1821. Sulle intenzioni, a vero dire
rientrate, di taluni fra i capi degli insorti genovesi d'intentare
un processo al Des Geneys, allora recluso a Palazzo Ducale, cfr.
Bornate, L'insurrezione di Genova nel marzo 1821, Torino 1923, pp.
63, 109.
46 Cfr. il dispaccio Castlereagh a Hill, 7 maggio 1821, in gran
parte pubblicato dal Webster, op. cit., p. 331.
47 Dispaccio Hill 17 maggio 1821: «voce non innaturale,
commentava egli, giacché la speranza e l'aspettazione sono
spesso il resultato di un desiderio generale».
48 Questa parte del racconto Hill è cronologicamente
inesatta: fra l'altro, re Vittorio non si recò a Moncalieri
che il 7 di marzo, mentre Carlo Alberto venne a conoscenza delle
famose lettere sequestrate il giorno 5.
49 Il Luzio, op. cit., p. 47, trovando la notizia di questa
intenzione del principe nella citata biografia del Revel, strabilia
e inclina a ritenerla inventata. La testimonianza dello Hill
dimostra invece che il Revel palesò la cosa fino dal maggio
1821, se era lui la fonte dello Hill; se poi non era lui, è
chiaro che la notizia acquista ancora maggiore importanza.
50 Sullo stesso argomento tornava lo Hill nel dispaccio 18 agosto
1821: «Il granduca di Toscana è scontento della
condotta privata del principe di Carignano e sarebbe felice di
qualunque accomodamento che ne facilitasse l'allontanamento da
Firenze». La corrispondenza del ministro inglese a Firenze,
lord Burghersh, non getta alcuna luce sulla questione, ancora
controversa, del contegno tenuto da Carlo Alberto a Firenze; per
quanto da documenti toscani (ci assicura il Masi, Carlo Alberto
nell'esilio di Firenze, in Studi Carlo-Albertini, Torino 1933, p.
59) il Burghersh resulti un simpatizzante per il Carignano. Sul
medesimo soggetto ritornava lo Hill a un anno di distanza. Il
principe – scriveva il 3 agosto 1822 – «conduce adesso a
Firenze una vita della piú grande regolarità e anche
di bigotta devozione; ma Sua Maestà e la corte non sono
disposte a ritenere sinceri questi ed altri segni di
contrizione». Anche lo Hill diffidava dei racconti troppo
edificanti fatti al proposito dalla contessa di Truchsess.
51 Il Rodolico, pp. 152-55, sembra considerare la storia del perdono
di Moncalieri come una maligna fantasia messa in giro dal Revel.
Ammettiamo volentieri che questa conferma dello Hill non sia da
ritenersi probante in quanto di netta derivazione revelliana; ma ne
vedremo piú oltre ineccepibili riprove. A una confessione di
Carlo Alberto al re si allude del resto nello stesso Simple
récit, ecc., notoriamente composto da amici del principe su
dati in gran parte forniti da lui (Scritti di Carlo Alberto cit.,
pp. 87-88).
52 La data del colloquio di Moncalieri è, si sa, quella del
10 marzo; lo Hill in un annesso al dispaccio 9 maggio 1821 (Ordine
cronologico degli avvenimenti che ebbero luogo durante la
rivoluzione in Piemonte) afferma invece che esso si sarebbe svolto
l'8 di marzo. Errore evidente: forse lo Hill confondeva fra il
colloquio del 10 e la cavalcata fatta il 7 da Carlo Alberto per
accompagnare il re a Moncalieri.
53 Della stessa opinione era allora la legazione di Francia; cfr. il
tono dei giudizi espressi dal La Tour du Pin su Carlo Alberto in
Matter, Cavour et l'unité italienne, Paris 1922, I, p. 39.
54 Giuste al proposito le considerazioni del Rodolico, p. 327;
sebbene la richiesta fatta da Carlo Alberto al Percy agli inizi
della reggenza perché venisse inviata una squadra inglese a
Genova non possa davvero addursi a prova dell'interesse inglese a
impedire un predominio austriaco in Italia: altrimenti la
circostanza del mancato invio della squadra potrebbe addursi
senz'altro a prova del contrario. Il Webster, op. cit., p. 332,
scrive che «in questa faccenda (la questione Carignano) il
Castlereagh non prese parte alcuna»: il che è esatto,
purché si ricordi, tuttavia, che le istruzioni ai
plenipotenziari inglesi al Congresso di Verona, consacrato fra
l'altro all'esame di quella questione, vennero vergate da lui.
55 Alle pp. 168-70. Nella prima parte del dispaccio lo Hill afferma
che il «tradimento» imputato al principe deve riferirsi
all'attività da lui svolta in qualità di gran mastro
dell'artiglieria: «Il principe non era ancora da un anno in
possesso del suo ufficio; operò certamente vari mutamenti fra
gli ufficiali, trasferendone molti affezionati alla vecchia corte, e
circondandosi dei suoi amici particolari, e in confidenza con lui, o
piuttosto di cattivi consiglieri». A questo punto s'inizia la
trascrizione del Rodolico: il quale precisa che il dispaccio venne
vergato dallo Hill dopo i colloqui avuti a Modena; senonché
il ministro inglese, il 25 di giugno, non si era ancora mosso da
Torino. Per esser pedanti noteremo che l'affermazione dello Hill –
il ministro di Prussia «ritiene che S. A. S. si troverà
in grado di giustificarsi in gran misura» – è stata
tradotta dal Rodolico con omissione delle tre ultime parole, le
quali hanno pure un qualche valore.
56 Carlo Alberto aveva, si sa, grande stima pel Des Geneys e
riponeva in lui illimitata fiducia, come dimostra la lettera che gli
scrisse, ancora reggente, il 20 marzo 1821. Cfr. Boselli, Carlo
Alberto e l'ammiraglio Des Geneys nel 1821, estratto dagli
«Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino», vol.
XXVII; Prasca, L'Ammiraglio Des Geneys, Pinerolo 1926.
57 A conferma di questo particolare (per quanto sia forse esagerato
l'asserire che re Vittorio si perse fra i monti) cfr. Segre, Note e
documenti sui casi e sui profughi del 1821, nella citata silloge La
Rivoluzione piemontese, I, p. 242; e Dallari, op. cit., p. 958.
58 Cfr. dispaccio Hill 6 novembre 1821; e sui rapporti fra
l'Aglié e Carlo Felice (Lemmi, Carlo Felice, Torino 1931, pp.
166-67).
59 Ne accusava ricevuta quello stesso 15 luglio. Motivo del ritardo,
si sa, la speranza, a lungo nutrita dal Foreign Office, che re
Vittorio si lasciasse indurre a riascendere il trono. I ministri
delle altre grandi potenze si erano già tutti recati a Modena
fin dal mese di aprile (Dallari, op. cit., P. 949).
60 Carlo Felice era tutt'altro che una personalità di
eccezione; ma era assistito da un vigoroso buon senso, da non comune
energia di carattere, e aveva altissima coscienza dei doveri di un
sovrano, come ci ha ben mostrato il Lemmi nel suo bel libro, citato,
a lui dedicato. Nel dispaccio 6 novembre 1821 lo Hill giungeva,
quasi suo malgrado, ad ammettere che Carlo Felice «possa
essere piú fermo e aver maggiori attitudini per
regnare» di suo fratello.
61 pp. 269-70. Il dispaccio Hill reca la data del 12 agosto.
62 Si veda in proposito il dispaccio Castellalfero (ministro sardo a
Firenze), 20 giugno 1821, in Luzio, op. cit., pp. 49-50; e quello
del Maisonfort (ministro francese a Firenze), 19 giugno 1821, in
Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, Memorie storiche,
Firenze 1852-61, III, p. 322.
63 Luzio, op. cit., p. 42, nota; Lemmi, op. cit., p. 192.
64 Dispaccio Hill 5 aprile 1822, segretissimo.
65 La personale devozione dello Hill per re Vittorio (risaliva ai
tempi del soggiorno della corte sabauda in Sardegna) era ben nota;
cfr. su di essa il riconoscimento del Saluzzo nel suo Memoriale
pubblicato dallo Zucchi, nella silloge cit., I, p. 454.
66 Il generale Gifflenga, si sa, non si recò a Moncalieri
insieme col principe; è esatto comunque che la mattina del 10
marzo anch'egli si trovava colà. Sul di lui conto scrisse lo
Hill, nel dispaccio 7 dicembre 1821, essersi molto meravigliati che
re Vittorio lo avesse scelto, il 13 marzo, per accompagnar lui e la
regina nel viaggio di Nizza; ma che la regina al ministro austriaco,
il quale si era fatto eco di queste impressioni, aveva replicato:
«Quando si attraversa una foresta di notte, non c'è
miglior protettore o guida del capo dei banditi». L'aneddoto,
in termini leggermente diversi, è riportato dal Lemmi (op.
cit., p. 193, nota), il quale lo ha da tutt'altra fonte.
67 È noto che quel proclama era già stato perfino
stampato. Dagli archivi ne trasse una copia, molti mesi piú
tardi, il Della Valle per mostrarla al ministro inglese, il quale la
spedí a Londra. Cfr. il suo dispaccio 5 aprile 1822.
68 Il Rapport et détails de la Révolution, ecc., in
Scritti di Carlo Alberto cit., pp. 3-30. Lo Hill ne aveva già
dato notizia nel dispaccio 18 agosto 1821; ma solo parecchi mesi
piú tardi fu in grado di procurarsene una copia.
69 Op. cit., p. 25.
70 Questa dichiarazione di Carlo Alberto era certo in contraddizione
con i suoi veri sentimenti; del che si ha una riprova indiscutibile
nella lettera che il 21 novembre 1821 egli stesso scriveva al
Sonnaz: «J'ai dit, et telle fut toujours ma manière de
penser, qu'un gouvernement tempéré, comme celui de la
France, ou dans le même genre, était le
meilleur...» (Scritti di Carlo Alberto cit,, p. 182). Ma che
il principe si fosse proprio espresso, qualche tempo prima dello
scoppio della rivoluzione, nel senso esposto da re Vittorio dimostra
anche questa lettera di Maria Teresa al duca di Modena, 28 febbraio
1821: «Il re è... nemico del regime costituzionale, e
questo è ugualmente odioso al duca e al principe (Carlo
Alberto); dunque spero in Dio che per qua non vi sia nulla da
temere» (Dallari, op. cit., p. 940). Sulle discussioni
relative alla costituzione in quel drammatico Consiglio della
Corona, cfr. Passamonti, Prospero Balbo e la rivoluzione del 1821,
nella cit. silloge, I, pp. 330-31; e Zucchi, op. cit. pp. 477-78.
71 Il Rodolico, nella parte del suo libro dedicata alla narrazione
critica degli eventi rivoluzionari, non accenna neppure a queste
discussioni in extremis svoltesi fra i sovrani, il principe e i
ministri a proposito della costituzione. E non s'intende il
perché.
72 Si noti che il Balbo, nelle sue Memorie (Passamonti, ed. cit,, p.
323) non menziona la presenza di Carlo Alberto quando ci riferisce
le dichiarazioni dei vari comandanti. Il Saluzzo, riferita la
risposta del Ceravegna, si limita a scrivere: «le chef de
l'artillerie prit la parole et dit qu'il en était de
même de ses cannoniers» (Zucchi, op. cit., p. 475).
73 Cfr. il Saluzzo nel suo Memoriale: «On a reproché au
ministère de n'avoir pas fait arrêter le col. Ceravegna
au sortir du cabinet du roi et peut-on croire que la pensée
n'en soit venue à personne! Mais une considération de
la plus grave importance, que c'est devoir de taire même pour
la justifier, arrêta cette pensée au moment même
où elle fut conçue» (Zucchi, loc. cit.).
74 Analoga era l'opinione del generale La Tour, dallo Hill riportata
nel già citato dispaccio 18 agosto 1821: «Parlando
della voce secondo la quale il principe avrebbe determinato di
chiedere una corte marziale, il generale La Tour mi ha detto che
nessun ufficiale piemontese potrebbe o vorrebbe condannarlo per atti
della sua reggenza; un siffatto processo dovrebbe basarsi
sull'attività precedente di S. A. S., attività che,
eccettuato l'intervallo di pochi giorni o piuttosto di poche ore,
era stata già perdonata da S. M. Vittorio Emanuele sebbene S.
M. fosse allora all'oscuro di molte cose accadute pel tramite di S.
A. S.». Il La Tour era, ciò nondimeno, favorevole, si
sa, a un sollecito ritorno di Carlo Alberto in Piemonte.
75 Sugli addebiti fatti da re Vittorio a Carlo Alberto, cfr. in
particolare Masi, op. cit., p. 141; Dallari, op. cit., pp. 957-58;
Luzio, op. cit., pp. 12, 29; Segre, Vittorio Emanuele cit., p. 248,
oltre ai noti dispacci del Maisonfort pubblicati dal Gualterio, op.
cit., III, passim. Resulta chiaro da innumerevoli documenti che re
Vittorio era profondamente risentito con Carlo Alberto; ond'è
che non ci spieghiamo come il Luzio dopo avere tentato di attenuare
l'importanza degli addebiti mossi da re Vittorio, possa scrivere
(op. cit., p. 51) che «sarebbe indubbiamente assai
grave» se quel sovrano avesse davvero nutrito «un
giudizio sfavorevole al principe». Il dispaccio Hill,
comunque, toglie ogni dubbio in proposito.
76 Anche il Metternich riconobbe che l'abdicazione aveva fiaccato la
rivoluzione (a Rechberg, 25 marzo 1821; Mémoires cit., III,
p. 490). Glielo aveva fatto notare il Binder già il 17 marzo
(dispaccio pubblicato dal Rinieri, op. cit., p. 623).
77 Il che, d'altronde, coincideva con i suoi interessi: la
costituzione di Spagna, se adottata tal quale, lo avrebbe privato
infatti, dei diritti di successione in favore delle figlie di re
Vittorio.
78 Cfr. i suoi dispacci 13 gennaio e 9 febbraio 1822.
79 Dispaccio Hill cit., 13 gennaio 1822; cfr. anche l'altra del 24
dello stesso mese: egli si è adoperato per sollecitare il
ritorno di re Vittorio in patria, ritenendo che «dato il
risentimento della regina, e la sua intesa col principe Carignano,
vi fosse piú da temere dalla sua assenza» che non dal
suo ritorno. Si veda anche Rodolico, pp. 292 sg. Circa lo stato
d'animo della regina Maria Teresa di fronte alle prospettive di
riassumere il trono siamo poco informati. Il Saluzzo (Zucchi, op.
cit., p. 521) attesta che essa insistette col marito perché
rifiutasse qualunque offerta in proposito; il Maisonfort, invece, in
un dispaccio del 31 agosto 1821, riferiva che la conversazione della
regina gli aveva dato l'impressione che essa rimpiangesse di non
piú esser sul trono (Gualterio, op. cit., III, p. 324). Da un
dispaccio Daiser (nuovo ministro d'Austria a Torino) al Metternich,
24 maggio 1822, sembrerebbe lecito dedurre che egli ritenesse aver
Maria Teresa spinto re Vittorio a sollecitare, malgrado tutto, il
ritorno in Piemonte (Rinieri, op. cit., p. 649).
80 Lo Hill aveva conosciuto l'arciduca a Cagliari, negli anni della
lotta antinapoleonica. «M'è rincresciuto di notare –
cosí riferiva questo suo colloquio – che, pur discorrendo
egli con la sua solita abilità, il suo linguaggio è
molto mutato relativamente ai sistemi liberali... S. A. R. era
allora un candidato al posto di capo della Lega italiana, in quel
tempo in progetto..., adesso è uno dei piú abili
agenti di suo cugino l'imperatore. Trattandosi di un sovrano
italiano... sono rimasto piuttosto sorpreso di udire con che tono
sarcastico e spregiativo l'arciduca parlava degli italiani...
Facendo un paragone fra il suo real suocero Vittorio Emanuele e la
presente Maestà Sarda, l'arciduca mi ha detto con palese,
viva approvazione, che S. M. Carlo Felice non è soltanto
fermo, ma severo!»
81 Dispaccio Hill, 18 agosto 1821, in parte pubblicato dal Rodolico,
pp. 310-11.
82 Dispaccio Hill, 3 marzo 1822: «Il re ritiene che, essendo
egli e il principe vissuti un tempo come padre e figlio, riuscirebbe
parimenti penoso ad entrambi risiedere (adesso) uno vicino
all'altro; se in questo caso (infatti) il re non ricevesse mai il
principe, il marchio d'infamia (su di lui) resterebbe forse anche
piú indelebile che non nel caso di una prolungata assenza del
principe». Al che, però, lo Hill obiettava che
«se S. M. dovesse vivere molti anni, il principe, che ha
ricevuto la prima educazione in Francia sotto Bonaparte, finirebbe,
con un altro lungo esilio, col cessare quasi di essere un
piemontese».
83 Alla prudenza lo Hill venne consigliato dall'infortunio
capitatogli a proposito del ritorno di re Vittorio in Piemonte, pel
quale egli si era battuto fino al punto di incorrere nel
risentimento di Carlo Felice, che lo aveva fatto richiamare
all'ordine dal Castlereagh. Si noti come il punto di vista dello
Hill sulla questione Carignano coincidesse con l'opinione formulata
dal Metternich in un dispaccio del 6 dicembre 1821 (Mémoires
cit., III, pp. 525-27).
84 Dispaccio Hill 13 novembre 1821; cfr. anche l'altro del 9
febbraio 1822.
85 Dispaccio Hill 25 novembre 1821.
86 Dispaccio Hill 24 ottobre, 6 e 13 novembre 1821.
87 Cfr. Webster, op. cit., pp. 367 sg.; Metternich, Mémoires
cit., III, p. 524.
88 Identiche istruzioni aveva mandato il Metternich al Daiser; onde
questi, 13 dicembre 1821, assicurava che si sarebbe «imposto
il silenzio piú assoluto su questo affare» (Rinieri,
op. cit., p. 638). Il Truchsess (ministro di Prussia) seguiva
invece, si sa, una politica opposta. Dispaccio Hill 24 ottobre 1821:
«Il mio collega prussiano è sempre assente, a Napoli,
donde ho ricevuto ier sera una (sua) lettera confidenziale nella
quale mi prega di adoperarmi in favore del principe di Carignano; ma
io temo che nulla sarà fatto per S. A. S. fino alla riunione
del Congresso a Firenze, l'anno prossimo, seppure anche allora mi si
dice infatti da parte russa che S. M. Sarda usa verso i sovrani
alleati un tono quasi altrettanto altezzoso che verso i suoi
sudditi...»
89 Il Della Valle insinuava allo Hill che «se due o tre degli
alleati fossero stati disposti ad ascoltare l'appello del re, il
principe avrebbe abbandonato le sue pretese al trono e la questione
di legittimità e primogenitura sarebbe stata salvata dalla
successiva adozione del suo figliuoletto». Dispaccio Hill 5
aprile 1822.
90 Dispaccio Hill 9 e 23 febbraio 1822. Successivamente lo Hill si
ricredette anche su questo punto, non senza merito, sembra,
dell'infaticabile sostenitore del principe, Luigi d'Auzers.
Dispaccio Hill 3 agosto 1822: dice il d'Auzers (fine psicologo,
invero) che «nonostante la violenza dei piú contro di
lui (Carlo Alberto), egli è sicuro che se il principe
arriverà, non ci saranno cinque famiglie a Torino che non si
mostreranno ansiose di partecipare al primo ricevimento a palazzo
Carignano». Ragguagli sul d'Auzers dava lo Hill nel dispaccio
segretissimo e confidenziale del 3 marzo 1822.
91 Dispaccio Hill 9 febbraio 1822: il Revel «dice che se il re
è incline al perdono, quanto prima il principe
tornerà, in vista di regnare, tanto meglio; ma a lui consta
che il re è del tutto contrario a S. A. S. Ciò
nonostante, aggiunse il governatore, se il re dovesse morire domani,
sarebbe mio dovere proclamare il principe e naturalmente lo farei.
Il conte Revel mi ha informato che, poco dopo il suo ritorno, il re
gli ordinò di raccogliere tutte le prove che erano emerse a
carico del principe nei processi dei ribelli. Quando esse vennero
sottoposte a S. M., il re disse che ve n'erano troppe, e, insieme,
non abbastanza; ciò che il conte Revel interpretò:
troppe per l'onore del principe, ma non abbastanza per processarlo.
Dice tuttavia il conte che, se ancora adesso il re desse ordini in
proposito, si raccoglierebbero prove imponenti, ma che col passar
del tempo riuscirà piú difficile trovar prove dirette.
Sua Eccellenza mi ha anche detto in confidenza avergli nientemeno
che il generale Ecuyer (uno dei favoriti del re) domandato
perché non avesse sottoposto a processo il principe insieme
agli altri ribelli; al che egli aveva immediatamente risposto che in
una questione concernente non soltanto un principe di casa Savoia,
ma l'erede presuntivo della Corona, ciò sarebbe stato
impossibile senza ordini espliciti del re. Il conte, mi è
parso, sospetta fosse desiderio del re che egli avesse preso su di
lui questa responsabilità quando era luogotenente generale o
viceré: egli non l'ha fatto, eppure dice che un esempio di
questo genere riuscirebbe utile di fronte ai tanti principi
ereditari che, di recente, sono stati i primi traditori nei loro
rispettivi paesi».
92 Dispaccio Hill 9 febbraio 1822: «Il Saluzzo mi ha detto
confidenzialmente che fin quando il principe Carignano
resterà erede presuntivo, nessun ufficiale oserà
condannarlo, e che il re dovrebbe in prima e non in seconda istanza
consultare in proposito i suoi alleati».
93 Anche in un'altra occasione lo Hill si era preoccupato dello
stato d'animo della moltitudine, in contrapposto a quello diffuso
nei ceti piú alti: a proposito del ritorno di re Vittorio in
Piemonte, che egli auspicava ritenendolo ardentemente desiderato
dalla massa del popolo, checché ne pensassero i nobili. Cfr.
il suo dispaccio 6 novembre 1821. Alle opinioni delle masse in
Piemonte aveva alluso anche lo Strassoldo in un dispaccio al
Metternich del 29 aprile 1821 (Colombo, op. cit., pp. 738-40).
94 Cosí nel noto dispaccio circolare diramato alle Missioni
all'estero, su cui cfr. dispaccio Hill 3 marzo 1822.
95 Dispaccio Hill 23 febbraio 1822.
96 Cfr. su di esso quel che ne scrisse il Cipriani, nelle Avventure
della mia vita, I, pp. 27 sgg.: Leonetto v'era entrato, di dodici
anni, nel '24, e vi rimase, col fratello Pietro, quattr'anni. Da lui
impariamo che il vicerettore era un buon maestro di latino; che
l'italiano v'era insegnato, male, da un prete Rocchi, e da un tal
Cardella; e il francese da un Giannoni, non meno antipatico e
ridicolo del Cardella; e che due dei prefetti si chiamavano Bachi e
Lecori. Vero è che alla testimonianza del Cipriani, un vero
energumeno, da ragazzo, non è da credersi alla lettera.
97 David Levi, che lo conobbe nel '37, attesta che della musica il
Montanelli fu «non solo amante, ma cultore insigne»
(Vita di pensiero, p. 118).
98 Veramente il Giusti, che all'università di Pisa
entrò, come il Montanelli, nel novembre del 1826, e che
perciò sembra difficile non lo avvicinasse fino d'allora,
ebbe a scrivergli piú tardi (nel '47): «quando ti
trovai a Pisa nel 1832»... Errore di memoria? O volle il
Giusti accennare al '32 come all'anno nel quale, tornato egli
all'università dopo una triennale parentesi oziosa, ebbe
inizio l'amicizia fraterna col Montanelli? Cosí mi sembra
probabile.
99 Si laureò nel '31.
100 Entrò all'università nel '29.
101 Altro compagno di Montanelli, Giuseppe Bianchi, col quale ebbe
poi studio legale.
102 Per le bravate del Cipriani a Santa Caterina, culminanti col
ferimento del prefetto Bachi, si vedano le citate sue Avventure:
dalle quali risulta che anche il Montanelli, che un bel giorno,
stomacato, ebbe a chiamarlo «corsaro», s'ebbe da lui una
scarica di violentissimi pugni nel viso. Del rettore don Valerio il
Cipriani non traccia un brutto quadro: il povero sacerdote, colpito
a seggiolate e a calci dal riottoso scolaro perché, dopo quel
ferimento, gli aveva dato, non a torto, invero, della «bestia
feroce», dell'«assassino», venne soccorso – dice
sempre il Cipriani – da una dozzina di preti; dopodiché,
«disteso sopra una poltrona, alzando le braccia
esclamò: "Curavimus Bahylonem non est sanata, derelinquamus
eam". E senza perdere un momento fu ordinata una carrozza, e
Leonetto rimandato dal padre».
103 Sul Forti si veda quel che, con intelletto d'amico, scrisse il
Montanelli stesso nelle Memorie, I, p. 23, presagendo
l'immortalità addirittura ai suoi due libri delle istituzioni
civili, pubblicati postumi, essendo morto costui giovanissimo nel
1838- Cfr. anche le pagine che gli dedicò il Martini
nell'Epistole del Giusti, IV, pp. 136 sg.
Forse fu amico del Montanelli anche Girolamo Poggi, altro eminente
giurista, strappato alla scienza nel 1837, di soli trentaquattro
anni, su cui cfr. Memorie, I, p. 23.
104 Per una sommaria revisione critica del Centofanti si cfr.
Memorie, I, p. 63.
105 Si veda in proposito la curiosa lettera del Montanelli al
Centofanti, 26 novembre 1830 (inedita) nella quale cercava di
ricordare tutto quello che, in relazione «al sistema ideale e
storico» il Centofanti gli aveva detto «una mattina di
domenica mentre passeggiavano per la via di Santa Croce»; dopo
di che aggiungeva: «Se potrò richiamarmi alla memoria
qualche altra cosa gliela scriverò».
106 Memorie, I, p. 64.
107 Cfr. un'altra lettera inedita – forse ancora del '29 – del
Montanelli al Centofanti nella quale, ricorrendo a lui «come
suo unico protettore per domandargli schiarimenti sopra varie
difficoltà che gli correvano nel corso dei suoi studi»
gli esponeva dubbi eruditi sorti in lui dalla lettura di una opera
del Boggelli e della Storia antica e moderna dello Schlegel.
108 Diritto civile e canonico.
109 Altri professori di discipline giuridiche erano allora il Dal
Borgo, di istituzioni civili, forse piú attivo e piú
noto, a torto o a ragione, come poeta che non come giurista; e il
Cantini, di diritto canonico.
110 Cfr. Montanelli a Vieusseux, 3 dicembre 1834.
111 Cfr. Montanelli a Vieusseux, 24 marzo 1836.
112 Cfr. Montanelli a Vieusseux, 13 febbraio 1831.
113 Memorie, I, p. 22.
114 Tutti i biografi concordano nell'asserirlo laureato nel 1831.
Che fosse già laureato nell'estate di quell'anno dimostra il
titolo dottorale apposto alla stampa dei suoi Due discorsi,
piú avanti citati. A conferma si vede del resto la lettera
del Centofanti a lui (inedita), 4 giugno 1831.
115 Inedita, 21 maggio 1832.
116 Lettera 30 maggio 1832 (?).
117 Lettera 6 gennaio 1833.
118 Lettera 11 gennaio 1833.
119 Lettera 15 gennaio 1833.
120 Notare che al Vico il Tonti, amico del Montanelli, dedicò
nel '36 un saggio, stampato a Lugano (Carteggio Tommaseo-Capponi, I,
p. 357).
121 Cfr. lettera del Centofanti 30 maggio 1832; e del Montanelli 2
dicembre 1832.
122 Cfr. ad esempio le tre lettere (inedite) del Montanelli, 20, 21,
29 novembre 1832, circa la stizza del Carmignani per un severo
articolo su di lui del Centofanti.
123 Molte lettere del 1832 e '33 vertono appunto su un complicato
affare dei due fratelli Centofanti (la vendita di una
proprietà da loro ereditata a Pisa), nel quale troviamo
mescolato il canonico Della Fanteria, piú tardi diventato la
bestia nera dei liberali pisani. Cfr. Montanelli a Centofanti, 20
novembre, 29 novembre 1832 e altre lettere del 1833.
124 Cfr. ad esempio la lettera Centofanti, del 30 maggio 1832:
«E se l'Antonietta oggi non rispondesse, tu vorrai scusarla.
Ella t'ha già risposto con l'anima»...
125 Su queste passeggiate lettera Montanelli a Tommaseo, ottobre
1832. Del resto anche il Centofanti teneva il Montanelli al corrente
di certe sue vicende intime, come si rileva dalla lettera (inedita)
dal 16 gennaio 1833.
126 In una lettera non datata del Montanelli al Tommaseo si legge:
«La tua conoscenza farà sí che l'anno 1832 segni
un'epoca notabilissima nel corso della mia vita...» Del
Tommaseo, comunque, il Montanelli faceva già elogi sperticati
in una lettera del 12 gennaio 1832 al Vieusseux (inedita),
relativamente a un suo articolo sul veltro allegorico pubblicato
nell'«Antologia» articolo che gli era bastato per
abbandonare in proposito, diceva, «la mia opinione conforme a
quella del Troia».
127 Cfr. Lettera di Montanelli, senza data, ma del 1832.
128 Lettera 22 ottobre 1832.
129 Al Vieusseux scrive, il 21 novembre: «Molto piú
ancora mi è piaciuto l'articolo di Tommaseo che ho letto tre
volte e sempre con piacere, e con frutto. Non so come la censura
abbia potuto permettere la stampa di molte cose contenute in
quell'articolo! Ma la confutazione di coloro che vogliono la
unità materiale dell'Italia ha servito di passaporto alle
(parole indecifrabili) contro la legittimità, e alle
bellissime idee sull'unione intellettuale, morale e religiosa degli
italiani, senza la quale tutti i nostri sforzi non potranno giammai
riuscire a buon fine...» (Marradi, op. cit., p. 168).
130 Lettera 21 novembre 1832.
131 Si noti che il Montanelli abitava allora – come ebbe a scrivere
al Vieusseux, 22 febbraio 1832 – appunto in piazza di Santa
Caterina, in casa della vedova Tami: lo zio rettore, si vede, voleva
averlo sott'occhi!
132 E al Vieusseux, 28 novembre (inedita): «Tommaseo vi
parlerà dell'università. Assistemmo insieme ad una
lezione sul Diritto di natura; e potrete farvi raccontare le cose
notabili della medesima»; e il 12 dicembre (inedita), allo
stesso: «Qua si parla ancora della visita da lui (Tommaseo)
fatta alla università – e molti di questi professori mi hanno
fatto domandare qual giudizio avesse recato delle loro
lezioni».
133 Del dicembre 1832 è certamente una delle lettere non
datate del Montanelli al Tommaseo e precisamente quella già
citata in una nota precedente: «... stringendo fra noi un
dolce vincolo di unione gioveremo alla causa dell'umanità
piú con l'esempio che con le parole. È tempo di
dimostrare agli uomini egoisti che sono ancora dei cuori nei quali
arde la sacra fiamma dell'amore – e che può esistere una
unione vera, sincera, e operosa – nella dissoluzione universale dei
vincoli sociali».
134 Del Tonti, pistoiese, il Tommaseo pensava assai bene: «Ha
ingegno e animo meno menci di quel che dia la Toscana, per
solito», scrisse nel gennaio '35 al Capponi (Carteggio I, p.
210); nel '36 lodò un suo saggio sul Vico (p. 357); nel '37
gli dedicò perfino dei versi (p. 210).
135 Cirillo: si occupò di studi storici.
136 Questa lettera è certo del gennaio '33, come si rileva
dal confronto con altra che reca impressa quella data. In
quest'ultima, infatti, il Montanelli chiedeva al Tommaseo:
«È stato a ritrovarti il giovane di cui ti parlava
nella passata lettera?». E nell'altra: «... Si
presenterà da te a mio nome un mio amico Giovanni Bertolani
che potrai considerare come fratello».
137 Memorie, I, p. 65.
138 Cosí si legge in un rapporto 16 agosto 1847 del
soprintendente Boninsegni. Marradi, Montanelli, ecc., p. 179.
139 Inedita, datata sull'autografo 30 maggio 1832, ma indubbiamente
di parecchi giorni innanzi (come dimostra la risposta del Centofanti
in data 20 maggio e la replica del Montanelli stesso, del 21). Il
Centofanti non si scandalizzò per nulla: «Abbraccia
affettuosamente per me tutti i giovani che hanno teco una
vicendevole trasmissione di alte e nobili simpatie – gli scrisse
infatti. – Occupiamoci della grand'opera alla quale dovremo
coraggiosamente applicarci!»
140 Cfr. la breve biografia che essa scrisse del marito in Marradi,
op cit., p. 172. E anche Pemens, op. cit., p. 359.
141 Si noti altresí che allorquando, nel '47, la polizia
toscana raccolse sul Montanelli tutto quanto resultava a suo carico
per gli anni precedenti, dell'episodio sansimonistico si
dimostrò del tutto ignara.
142 Levi, Vita di pensiero, pp. 117 sgg.
143 Il Levi, veramente, scrive che ciò avvenne nel 1840; ma
dal carteggio montanelliano noi sappiamo che già nel '37 si
era stretta fra loro quella fervida amicizia che durò poi
cosí a lungo, ed alla quale il Levi ispirò, moltissimi
anni piú tardi, il commosso, postumo elogio del Montanelli
(in Vita di pensieri, cap. I).
144 Op. cit.
145 Che per prudenza chiamano, anziché giornale, «opera
che si dispensa ogni settimana». Montanelli a Tommaseo, senza
data, ma dicembre 1832.
146 «Vi è una società che paga 5 paoli al mese
onde mantenere l'impresa, e chiunque vuole entrare in questa
società avrà 5 dispense – scrive il Montanelli al
Tommaseo. – Il prezzo poi d'associazione per tutti è di lire
4 all'anno», Cfr. sull'«Educatore», Linaker,
Mayer, I, pp. 184 sgg.
147 In questo progetto di un giornale letterario, artistico e
scientifico che avrebbe dovuto pubblicarsi a Livorno sotto gli
auspici di quel Gabinetto scientifico e letterario, e per esso dal
professor Doveri, ma con la collaborazione di un gruppo di giovani
capitanati dal Montanelli e sotto la direzione del Centofanti, cfr.
due lettere del primo al secondo (inedite), maggio 1832, e la
risposta favorevole del Centofanti in data 20 maggio. «Il
giornale deve esser fatto – scriveva infatuato il Montanelli... –
perché questa gioventú ha bisogno di impiegarsi
utilmente in una grande intrapresa». Il Centofanti non meno
pronto del suo «discepolo» a scambiare le fantasie con
la realtà, dopo qualche giorno vedeva già tutto fatto;
«Parliamo ogni giorno di te – gli rispondeva da Firenze il 30
maggio, – dei nostri cari ed ardenti cooperatori, e della futura
vita letteraria che condurremo!» Perché poi il progetto
fallisse, non sappiamo; ma forse non ultimo motivo ne fu la...
doccia fredda sul sansimonismo del gruppetto pisano.
148 Lettera non datata, ma certamente degli ultimi di dicembre,
giacché trasmette gli auguri pel capo d'anno.
149 Cfr. su di esso le impressioni del Centofanti in lettera
Montanelli, 18 gennaio 1833 (inedita).
150 Veramente nella Nazionale si trova una lettera del Montanelli al
Vieusseux in data 13 febbraio '31 (già pubblicata, mutila
dell'ultimo paragrafo, del Marradi, op. cit., p. 165); ma il suo
tono e il contenuto dimostrano che deve essere del 13 febbraio '32.
Del resto è chiaro che la lettera del 25 novembre '31
(inedita) è la prima che il Montanelli diresse al Vieusseux
(«Giacché negli ultimi giorni del settembre decorso
trovandomi in Firenze ebbi il piacere di fare la sua conoscenza, mi
prendo la libertà di dirigerle questa mia...»)
151 A firma M. G. Il fascicolo – si vede che anche allora usava
cosí – non comparve però che a principio di febbraio
del '32.
152 Lettera pubblicata in Marradi, op. cit., p. 177 F.
153 Scriveva del resto il Montanelli in altra lettera del 12 gennaio
'32 (inedita): «Si meraviglierà forse osservando tante
correzioni nelle stampe del mio piccolo articolo... Ma queste
correzioni hanno avuto la sua ragione, Orlandi, giacché ho
saputo essere egli un giovane pieno di buona intenzione, e d'amore
per lo studio. Queste sue disposizioni meritavano un riguardo. Mi
è stato detto di piú che è perseguitato
moltissimo dai preti del suo paese, i quali cercano ogni modo per
attaccarlo sia nella sua condotta, sia nella sua produzione
scientifica. Anco questa ragione mi ha fatto usare verso di lui
maggior riguardo, senza defraudare però in alcuna parte
l'amore del vero, e della Scienza». Al che il Vieusseux, 11
febbraio (inedita): «Ella fece bene di mitigare alcune
espressioni che erano un poco pungenti, ma sarebbe stato meglio,
forse, il non mitigare tanto. Ci combineremo meglio un'altra
volta».
154 Il Montanelli la spedí al Vieusseua con lettera (inedita)
3 marzo '32.
155 Il 13 febbraio 1832, tornando sull'argomento, scriveva:
«... Il principio che Ella professa di non impegnarsi prima
d'aver letto, è troppo giusto e ragionevole perché
ciascuno [non] debba sottomettercisi senza difficoltà! Senza
di esso il giornale mancherebbe d'unità e di scopo».
156 Lettera inedita.
157 Lettera 21 dicembre 1831 pubblicata in Marradi, op. cit., pp.
166-67.
158 In data 5 gennaio 1832 (in margine alla lettera del Montanelli).
159 Lettera inedita.
160 Sull'articolo del Marzucchi, una volta pubblicato, cfr. le
impressioni del Montanelli nella lettera a Vieusseux 21 novembre
1832 (Marradi, op. cit., pp. 167-68).
161 È questa la lettera del 13 febbraio 1832 pubblicata dalla
Marradi con la data erronea del 1831. Basta il semplice
avvicinamento con quella del 7 febbraio per capire che le due
lettere furono scritte una di seguito all'altra.
162 Si veda la lettera (inedita) del Montanelli in data 22 febbraio
1832.
163 Lettera inedita.
164 Lettera 21 novembre, pubblicata in Marradi, pp. 167-68.
165 Lettera pubblicata in Marradi, pp. 167-68.
166 Equivocando il buon Vieusseux aveva creduto, addirittura, che il
Montanelli volesse scriver lui una guida alla rinnovazione della
filosofia: di qui la rettifica del Montanelli in lettera (inedita)
28 novembre.
167 Lettera 27 novembre pubblicata in Marradi, pp. 168-69.
Successivamente il Montanelli avvertí che si sarebbe
contemporaneamente occupato anche di un volume su la Musique mise
à la portée de tout le monde, stampato in Francia nel
'30 (lettera inedita dell'11 dicembre 1832).
168 Cfr. la lettera (inedita) di Vieusseux a Montanelli, 18
dicembre, contenente oltre alle sue critiche sull'articolo, una
tirata contro il Centofanti, troppo borioso e imperativo.
Montanelli, al solito, si mostrò remissivo:
«Seguirò in tutto e per tutto i vostri consigli,
perché vi stimo molto... Anzi vi sarò gratissimo degli
avvertimenti che mi darete, come sono grato a tutti quelli che mi
correggono, che mi istruiscono, che mi dirigono» (lettera
inedita 22 dicembre). Il 29 dicembre (inedita) gli rimandò
l'articolo accorciato e modificato: «Quanto diritto avete, o
mio caro Vieusseux, alla riconoscenza della nostra patria!»
169 Lettera inedita.
170 Lettera inedita.
171 Lettera inedita.
172 Lettera inedita 18 marzo 1833.
173 Lettera inedita.
174 Memorie, I, p. 25.
175 Marradi, op. cit., p. 172.
176 Entrambi vennero pubblicati a Pisa nel 1831: Due discorsi del
dottor G. Montanelli, ecc.
177 Cfr. Il 29 maggio in Toscana. Parole di Giuseppe Montanelli,
Livorno 1859. Era stato l'annunzio della partenza pel Piemonte dei
volontari toscani comandati dal Malenchini che lo aveva indotto ad
arruolarsi: «Fossi stato moribondo quest'annunzio mi avrebbe
trattenuto sull'orlo del sepolcro», p. 2.
178 Abbiamo qui sotto gli occhi l'autografo di una sua
«corrispondenza» relativa alla situazione toscana,
datata «Florence, 18 mars 1859». Per la
cordialità e la continuità dei suoi rapporti con la
redazione del «Siècle» cfr. nella
«Nazione», Firenze, 1° settembre 1859, la lettera
con la quale il Montanelli aderiva entusiasticamente all'iniziativa
bandita da quel giornale per un dono nazionale al
«Siècle».
179 A Giovanni Dragonetti scriveva l'8 gennaio: «Mi pare che
questa volta qualche cosa certamente vedremo. L'eccitazione d'Italia
è ormai irresistibile. Il Piemonte dovrà agire e il
resto verrà dietro... Speriamo rivederci presto... sui campi
lombardi». G. Dragonetti, Spigolature nel carteggio letterario
e politico di L. Dragonetti, Firenze 1886, pp. 320-21.
180 Minuta di lettera che si conserva fra le carte Montanelli-Parra,
nell'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica di Livorno,
cass. 40, ins. 2242. D'ora innanzi citeremo questa importantissima
raccolta con le iniziali B. L.
181 Alla politica del Cavour il Montanelli aveva cominciato ad
accostarsi fino dal 1856: di qui polemiche vivacissime con taluni
dei suoi compagni di emigrazione, e per esempio con Girolamo Ulloa.
182 Puccioni, Il risorgimento italiano nell'opera, negli scritti,
nella corrispondenza di Piero Puccioni, Firenze 1932, pp. 12 sg.
Lettera del Parra e del Visconti Venosta in risposta ad altre del
Montanelli in B. L.; taluna del Parra (che era figliastro del M.)
anche in nostro possesso (Raccolta Rosselli, che indicheremo con le
iniziali R. R.).
183 Lettera dell'Homodei da Torino, il febbraio 1859 in B. L., cass.
231, ins. 197. Superfluo rammentare come a Torino si temesse che
l'eventuale successo di un'agitazione per la costituzione, in
Toscana, potesse consolidare la dinastia lorenese.
184 Verosimilmente fu sua l'idea, suggerita il 21 aprile dal Tommasi
Crudeli al Puccioni, a Firenze, di promuovere in Toscana il rifiuto
delle imposte per devolvere l'ammontare al Piemonte sotto forma di
contributo di guerra. Puccioni, op. cit., p. 48.
185 Fino dal gennaio 1859 il suo corrispondente Homodei gli aveva
confidato il piano cavourriano tendente a provocare la diserzione in
massa dei coscritti lombardi, nella speranza d'indurre l'Austria
«a cercar di riprenderli, dal che una dichiarazione di
guerra». B. L., c. 31, i. 197.
186 Il 20 febbraio una deputazione di esuli italiani si recava,
com'è noto, a rendere omaggio al principe, reduce, con
l'augusta sua sposa, dal Piemonte. Il Montanelli, quantunque
designato a «capitanare» la deputazione, non vi
partecipò, forse perché ammalato: cfr. in B. L., c.
40, i. 2220, la minuta autografa di una sua lettera, senza data, al
«Monitore Toscano»; lettera che va probabilmente
assegnata al gennaio del 1861 e che non venne pubblicata (si
vedrà piú oltre come altre due lettere del Montanelli
venissero pubblicate da quel giornale in quell'epoca). È
certo comunque che il Montanelli ebbe un abboccamento col principe
prima della sua partenza per l'Italia.
187 Redi, Ricordi biografici su Giuseppe Montanelli, Firenze 1883,
pp. 53-54.
188 Cfr. il carteggio col Visconti-Venosta in B. L., c. 60, i. 781.
189 Lettera del Montanelli al Corsi, 30 maggio 1859, in Biblioteca
Nazionale di Firenze, Nuovi Acquisti, 588.
190 Montanelli, L'Impero, il Papato e la Democrazia in Italia,
Firenze 1859, p. 21. Tra le carte montanelliane in R. R. troviamo
anche l'abbozzo di un'ode Italia all'Alemagna, scritta evidentemente
allo stesso fine e nello stesso tempo. Comincia cosí:
«Lamagna, che temi se sfolgoro in armi, / se rompo la nube che
vieta mostrarmi / con serto di stelle qual fecemi Iddio / signora
del santo terreno natio?» In B. L., c. 40, i. 2221, è
invece l'abbozzo autografo dell'indirizzo I protestanti italiani ai
protestanti inglesi e tedeschi.
191 La minuta della lettera, in data 28 marzo, in B. L., c. 40, i.
2236.
192 Tra l'altro le prove del Poliuto, che egli aveva tradotto in
versi italiani su preghiera della Ristori, sua amicissima, e che
questa si apprestava a mettere in scena.
193 La salute del Montanelli era sempre stata estremamente
cagionevole; fra l'altro egli era tormentato da una grave malattia
oftalmica, peggiorata sui primi del '59.
194 Le tappe di questo suo viaggio resultano dal suo passaporto (B.
L., c. 40, i. 2259). Sulla fermata a Chambéry troviamo
ragguagli in un quinternetto manoscritto di Cenni biografici del
Montanelli, scritti dalla moglie di lui, Laura Cipriani, vedova Di
Lupo Parra (R. R.). Da Chambéry, d'altronde, il Montanelli
datò, il 29 aprile, una patriottica lettera alla
«Gazette de Savoie» (B. L., c. 40, i. 2242).
195 Sul suo arrivo cfr. De La Varenne, Les chasseurs des Alpes et
des Appennins, Firenze 1860, p. 315.
196 Cfr. il biglietto del Cavour al Montanelli, da Parigi, 30 marzo,
in D'Ancona, Ricordi storici del Risorgimento italiano, Firenze
1914, p. 310.
197 Su questo colloquio cfr. Redi, op. cit., p. 54; Cenni
biografici, ms cit. Molti particolari anche in certi appunti di mano
del Montanelli, ora in R. R., e negli Schiarimenti elettorali,
Firenze 1861, p. 14, della stesso Montanelli. Fu il Pallavicino che
presentò il Montanelli al Cavour, il 1° maggio: cfr.
Pallavicino, Memorie, III, Torino 1895, p. 516. Cfr. per contro il
Diario del Massari, Beltrani, Bologna 1931, p. 325, sotto la data
del 4 maggio: al Massari stesso e al Farini che gli parlavano del
Montanelli, il Cavour avrebbe detto: «Fa bene ad andare ad
Acqui. A me pare sia matto». Il lettore tenga presente,
però, che il Massari, già amicissimo del Montanelli,
si era violentemente urtato con lui fino dal 1849, tanto che i due,
scambiatisi lettere quasi di sfida, erano stati lí lí
per battersi a duello. Cfr. «Il Nazionale», Firenze, 13
ottobre 1849; Collezioni di documenti per servire alla storia della
Toscana dei tempi nostri e alla difesa di Guerrazzi, Firenze 1853,
p. 62. Un'altra lettera del Montanelli al Massari, 30 settembre
1849, trovasi in B. L., c. 40, i. 2264. Vedremo anche piú
oltre come il diario Massari formicoli di maligne e non sempre
fondate insinuazioni a carico del Montanelli.
198 Cosí il Perrens, le cui lettere al Montanelli trovansi in
B. L., c. 45, i. 898.
199 Della Toscana gli riapriva le porte, dopo la condanna riportata
nel '53, l'amnistia decretata il 3 maggio 1859 dal governo
provvisorio: quell'amnistia contro la quale un altro esule illustre,
il Guerrazzi, scagliava, com'è risaputo, i suoi strali,
né, a dir vero, ingiustificatamente.
200 Sull'Ulloa, che alla fine d'aprile era stato trasferito in
Toscana, cfr. Doria, La vita e il carteggio di Girolamo Ulloa,
Napoli 1930, p. 33; sul Boldoni e gli altri ufficiali di quel corpo
De La Varenne, op. cit., passim.
201 Il brevetto di nomina a sottotenente nel corpo dei Cacciatori
venne notificato al Montanelli, a Fucecchio, da Edolo, 30 luglio;
sulla busta, di mano del Montanelli stesso, si trova scritto
«Rifiuta la carica». B. L., c. 40, i. 2259. L'esempio di
modestia e di coraggio dato dal Montanelli suscitò larga
ammirazione. Cfr. ad esempio le attestazioni del Verdi, che gli era
personalmente amico, ne I copialettere di Giuseppe Verdi, pubblicati
da Cesari e Luzio, Milano 1913, pp. 443-44.
202 Negli appunti autografi, inediti, già piú sopra
cit.
203 Cfr., ad esempio, Della Torre, L'evoluzione del sentimento
nazionale in Toscana dal 27 aprile 1859 al 15 marzo 1860, Roma 1915,
pp. 94-96.
204 Al Corsi, 30 maggio (lettera cit.): «Sembra che presto
anche noi Cacciatori degli Appennini entreremo in campagna. Questa
gioventú lo desidera con grande ardore. Non ti sto a dire
quanto io goda trovarmi fra amici cosí potentemente
infiammati d'amore di patria». E al Michelet, 1° giugno:
«Per intendere il moto attuale d'Italia bisogna vivere in
mezzo a questa gioventú... L'amore dell'Italia fa di tutti
una sola famiglia, un'anima sola. Io era lontano a Parigi
dall'immaginarmi i progressi che il sentimento nazionale ha fatto in
quest'ultimo decennio» (Tacchini, Michelet et Montanelli,
Carrara 1931, pp. 13-14).
205 Il memoriale del Salvagnoli all'imperatore, in Bianchi, Storia
della diplomazia europea in Italia, vol. VIII, Torino 1872, pp.
15-16.
206 Cfr., ad esempio, Calamari, L. Galeotti e il moderatismo
toscano, Modena 1935, p. 124.
207 Trovasi in R. R.
208 In un altro documento, anch'esso inedito (B. L., c. 40, i.
2220), il Montanelli scrive: «Conferii con l'imperatore in
Alessandria nel 25 maggio, e mentre due toscani, i quali poi hanno
figurato tra i caporioni dell'annessione, gli avevano fatto credere
che il principio unitario repugnava al nostro paese, io distinguendo
unità da unità cercai lasciarlo persuaso del
contrario». Cfr. a riprova Salvagnoli a Ricasoli, 17 maggio
1859: l'imperatore «ha convenuto meco della necessità
di conservare l'autonomia (della Toscana) e della opportunità
d'ingrandirla». Doria, Carteggio inedito Salvagnoli-Ricasoli,
in «Il Risorgimento italiano», luglio-dicembre 1925, p.
658. Il 14 maggio il segretario del ministro Ridolfi aveva scritto
al Cambray-Digny, a Torino, che la grande maggioranza degli uomini
politici conosciuti erano per un regno separato! Carteggio politico
Cambray-Digny, Milano 1913, pp. 26-29.
209 Lettera inedita cit. del Montanelli al «Monitore
Toscano».
210 Ciò resulta da piú carte conservate negl'inserti
montanelliani in B. L.
211 Cfr. Montanelli a Pallavicino, 21 giugno 1859, e Pallavicino a
Cavour, 26 giugno, in Pallavicino, Memorie, Torino 1882 sg., vol.
III, pp. 527-29, 532.
212 Lettera cit. Nella lettera al Corsi, cit., il Montanelli si
mostrava assai lieto dell'ardore guerresco dimostrato
dall'imperatore. Nella lettera 21 giugno al Pallavicino, cit., il
Montanelli, precisando, scriveva che dall'insieme della conferenza
aveva recato questa persuasione: «... Che l'imperatore dei
francesi non sarebbe punto contrario alla unificazione politica
d'Italia, quando l'opinione italiana si dimostrasse decisamente
favorevole a quella... Che noi siamo piú padroni della nostra
politica di quello che non avrei creduto. Questa persuasione mi
venne confermata da persone che hanno il carico di fare a conto
dell'imperatore dei rapporti sulle opinioni italiane».
Senonché è evidente che l'ottimismo qui dimostrato dal
Montanelli deriva piuttosto dagli avvenimenti svoltisi
successivamente al colloquio imperiale che non dalle impressioni che
quello gli aveva lasciato.
213 Redi, op. cit.; lettera inedita, cit., del Montanelli al
«Monitore Toscano».
214 Si conserva in R. R. Quanto allo svolgimento della missione
Pietri-Rapetti, non è qui certo il caso di soffermarvisi,
tanto essa è nota nei suoi particolari agli studiosi del
periodo. Ma forse non è privo d'interesse il notare come lo
stesso Montanelli provvedesse a munire di lettere di raccomandazione
per suoi amici influenti i due messaggeri imperiali. Cfr. su
ciò la cit. lettera al Corsi (il Pietri – gli scriveva –
«è uomo d'ingegno, e di cuore, e ama infinitamente
l'Italia, e ci potrà essere molto utile appresso
l'imperatore... per le opinioni che dovranno prelevare nel periodo
di riordinamento»). È probabile, del resto, che anche
al Guerrazzi, il quale vide il Pietri a due riprese (Lettere,
Carducci, Livorno 1880, II, pp. 445, 452), costui fosse stato
presentato dal Montanelli.
215 Lettera cit. del Montanelli al Corsi.
216 Candidatura contro la quale, come è ben noto, il principe
stesso si dichiarava allora in termini inequivocabili, tanto da
sospingere il governo fiorentino a proclamare senz'altro
l'annessione al Piemonte. Carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861,
Bologna 1926, II, passim, e specialmente pp. 209-16.
217 Memorie di Vittoria Giorgini, in Manzoni intimo, Milano 1923, I,
134; Giannelli, Cenni autobiografici e ricordi politici, Milano
1926, pp. 217, 363. Del principe Napoleone, in realtà, il
Montanelli non sapeva per allora che poco o nulla, e col suo
entourage, a Livorno o a Firenze, non aveva il benché minimo
contatto. Notizie molto generiche intorno a lui e al contegno dei
toscani a suo riguardo non gli pervenivano che da qualche privato
corrispondente, come il Masi (il noto emigrato romano, suo compagno
d'esilio), che da Firenze invidiava la nobile vita del campo scelta
dal Montanelli. (Cfr. la sua lettera al Montanelli, 7 giugno in B.
L., c. 37, i. 1128; «il 1848 – costui gli scriveva in un
accesso di amarezza – non è titolo a noi, ma peccato
originale!»).
218 Lettera cit. a Pallavicino.
219 L'opuscolo, già cit., recava la data di Acqui, 22 maggio,
e si pubblicava «a benefizio dei volontari toscani».
220 Lettera cit. al Michelet.
221 Il reggimento operava il trasferimento in data 2 giugno (De La
Varenne, op. cit. p. 680), il Montanelli lo seguiva il giorno
appresso, come resulta da un foglio di via allora rilasciatogli (B.
L., c. 40, i. 2259)
222 Cit., R. R.
223 Giorgini a Ricasoli, 7 giugno, in Lettere e documenti del barone
Ricasoli, a cura di Tabarrini e Cotti, Firenze 1887 sg., III, p. 90.
Cfr. anche, ivi, la lettera 19 giugno del Lambruschini:
«Qualunque cosa si dica e si faccia, sarà di noi quel
che Napoleone III crederà ben fatto e vorrà».
224 Sulla cui attività politica nel '59 troviamo ben pochi
ragguagli nel vol. di Puccioni, Vincenzo Malenchini nel Risorgimento
Italiano, Firenze 1930.
225 Mariscotti, Il prof. G. Montanelli e gli esclusivi, Firenze
1861, p. 106; Pini, Lettere di un elettore di S. Miniato ad alcuni
suoi amici, San Miniato 1861; Marradi, G. Montanelli e la Toscana
dal 1815 al 1862, Roma 1909, pp. 136-37 (è, quest'ultima,
l'unica biografia che fin qui sia stata scritta del Montanelli;
giacché non si possono onorar di tale titolo precedenti
opericciuole apologetiche. Ma quante lacune anche in questa e come
malamente inquadrata la figura del Montanelli nella storia del suo
tempo! Sulla azione politica da lui svolta nel '59 i dati forniti
sono, in particolare, assolutamente inadeguati).
226 R. R.
227 Cfr. queste istruzioni col programma tracciato dal Montanelli
nella cit. sua lettera 21 giugno al Pallavicino: «Il mio
programma è: a) Regno d'Italia. 2) Vittorio Emanuele capo
costituzionale del regno (non toccando questioni di capitale). 3)
Codice Napoleone. Quand'anche il regno d'Italia non dovesse per ora
comporsi che dell'alta Italia e della Toscana sarebbe un fatto
immenso». Occorrerà comunque dare al nuovo Stato
«tale una prevalenza unitaria da ridurre gli altri Stati a un
satellizio che li costringa a fondersi o piú presto o
piú tardi nel regno d'Italia».
228 Dal colloquio imperiale egli aveva ricavato la netta impressione
che, se Napoleone teneva «molto a lasciare in Italia tracce
delle istituzioni francesi... non aveva tenerezze dinastiche per i
suoi». Lettera cit. al Pallavicino.
229 Cosí il Pini, op. cit. Sostenendo su questo come su molti
altri punti l'inverosimile, il Pini (come anche il Mariscotti)
finí col nuocere positivamente al suo eroe, se non altro
provocando acide repliche da parte dei suoi informatissimi
detrattori.
230 Nei suoi appunti inediti il Montanelli pone in relazione,
infatti, la missione Aquarone col proclama di Milano dell'8 giugno;
d'altra parte, l'Aquarone scrive già una prima relazione al
Plezza, da Firenze, l'11 del mese.
231 Questa lettera (B. L., c. 2, i. 721) reca soltanto la data
«domenica 12»; ma nel '59 una domenica 12 non cadde che
nel mese di giugno. Un breve estratto ne fu pubblicato dal Pini, op.
cit., ma con la data evidentemente erronea 12 luglio.
232 Parecchie lettere del Montanelli al Morandini, intimissimo suo
(nella giornata di Curtatone, egli si era fatto prendere prigioniero
per non abbandonarlo), si trovano nella Biblioteca del Risorgimento,
Firenze.
233 Il «Monitore Toscano», organo ufficiale, recava
d'altronde nel numero del 9 giugno un editoriale, che venne assai
notato, nel quale si accennava alle legittime speranze della
costituzione di una nazione italiana, deplorando per contro le
«chiacchiere» di fusioni e di autonomie.
234 Pini, op. cit., p. 14.
235 Quest'altra lettera del Montanelli al Pallavicino si trova,
inedita, nel Museo del Risorgimento di Torino, 165, n. 188.
236 Appunti inediti cit.
237 Figlio di primo letto della moglie del Montanelli, il Parra,
pressoché coetaneo del Montanelli, gli fu sempre
esemplarmente devoto.
238 Adriano Biscardi, livornese, fu probabilmente il piú
intimo e costante amico del Montanelli, del quale divise sempre le
idealità politiche.
239 Rubieri, Storia intima della Toscana, Prato 1861, pp. 389-90. Il
«Monitore Toscano» dell'8 giugno invitava la
cittadinanza e sottoscriverlo.
240 Della Torre, op. cit., pp. 137 sg.; Zobi, Cronaca degli
avvenimenti d'Italia nel 1859, Firenze 1859, I, pp. 379-82.
241 Nessun accenno in essi al «re d'Italia», ma solo al
magnanimo campione dell'indipendenza, ecc. Cfr. «Monitore
Toscano», 11 giugno.
242 Salvagnoli a Cambray-Dignv, 25 giugno 1859 in Carteggio politico
Cambray-Digny cit., pp. 120-22.
243 Baccini, Carteggio politico del conte e della contessa
Cambray-Digny, Firenze 1910, pp. 58-60.
244 «Non ho bisogno d'avvertirti che per ora la mia mano nel
programma unitario toscano non si deve conoscere», scriveva il
21 giugno il Montanelli al Pallavicino (brano omesso nelle Memorie
del Pallavicino).
245 Baccini, op. cit., pp. 45-46.
246 Ibid., pp. 48-50.
247 Ibid., pp. 50-52.
248 Al Nocchi, 3 giugno e in altre lettere, Carteggio politico cit.,
pp. 90 sg. e Baccini, op. cit., p. 52.
249 Il testo, veramente reca «Mazzini», ma è
evidentemente un errore che noi crediamo di poter correggere con
«Malenchini».
250 Carteggio politico cit., pp. 108-10. Cfr. anche Cambray-Digny a
Corsini, 24 giugno: «Ho avuto la certezza che i vecchi nomi
del '49 incominciano a farsi vivi», p. 124.
251 Baccini, op. cit., pp. 50-52. Su questo punto, del resto, le
citazioni si potrebbero moltiplicare, ma senza pro. Il 18 giugno il
Cambray-Digny scriveva da Torino: «Se la Toscana deve
pronunziarsi per l'unione, qui si vorrebbe che lo facesse legalmente
per mezzo di indirizzi spontanei dei municipi, piuttosto che
tumultuariamente, ma soprattutto non si vorrebbe che la Toscana
venisse a sollevare questioni gravi come quella del papa e di
Napoli», pp. 56-58. Un consiglio, questo, del quale il
Ricasoli, non aveva davvero bisogno.
252 «Non ho veduto l'indirizzo, so che è stato molto
modificato, giacché il primo progetto era avversissimo al
governo attuale», scriveva la contessa Cambray-Digny al marito
fin dal 16 giugno. Ibid., pp. 48-50.
253 L'influenza del Montanelli si potrebbe forse ravvisare nelle
deliberazioni prese dal municipio di Lucca, ostentatamente
improntate a un francofilismo accentuato. Cfr. il «Monitore
Toscano», 29 giugno 1859.
254 Puccioni, L'Unità d'Italia cit., pp. 74-75; Valeggia, G.
Dolfi, Firenze 1913, p 36; Zobi, op. cit., I, pp. 379-81; Rubieri,
op. cit., pp. 390-91; Doria, Carteggio cit., p. 659.
255 Cfr. per tutti il Lambruschini nella lettera 28 giugno al
Cambray-Digny. Carteggio politico cit., p. 137-39.
256 Puccioni, L'Unità d'Italia cit., pp. 78-79; Carletti, La
Fusione, Firenze 1859, pp. 22-24; Rubieri, op. cit., p. 166.
257 Ond'è che lo stesso Montanelli, redigendo, alcuni mesi
piú tardi, per conto, sembra, di quel suo comune, un
indirizzo a re Vittorio (B. L., c. 40, i. 2222), ne sottolineava con
orgoglio il primato patriottico e unitario.
258 A Livorno vennero raccolti oltre 20 000 voti, 6000 a Pisa, ecc.
Sulla autenticità di queste cifre qualcuno sollevò i
suoi dubbi; il Lambruschini, ad esempio, parlò senza ambagi
di firme false (nella cit. lettera al Cambray-Digny).
259 Ricasoli a Ricci, 22 giugno: «Una sola parola non mi piace
(nella formola senese), ed è annessione; convien preferire
l'altra: unione. Le due parole annessione, fusione, non
rappresentano il concetto d'un'Italia una e forte». Puccioni,
L'Unità cit., p. 81. Sulle preferenze unitarie del
Montanelli, cfr. anche Cambray-Digny a Corsini, 20 giugno, in
Carteggio politico cit., p. 99; ivi anche (pp. 120-22) accenni al
Salvagnoli.
260 Occorrerà far luce, comunque, sugl'indubitati contatti
che l'Aquarone ebbe, a Firenze, col Salvagnoli: per ora cfr. Diario
Massari cit., p. 390.
261 Fors'anche perché il Plezza, nel frattempo, era decaduto
dal suo ufficio di commissario regio ad Alessandria.
262 Diario Massari cit., p. 409; Carteggio politico Digny cit., pp.
157-58.
263 Baccini, op. cit., pp. 62, 72. Ulteriori accenni all'Aquarone,
trasferitosi a Torino, ibid., pp. 76, 97.
264 Onestamente il Cambray-Digny aggiungeva però che della
confusione regnante in Toscana tutti erano un poco responsabili
nessuno eccettuato. Da allora in poi non ci si doveva occupare che
della guerra, «e finché parlano di guerra e vanno alla
guerra applaudiamo anche il Montanelli e compagnia». Baccini,
op. cit., pp. 94-95.
265 Lettere e documenti cit., III, p. 140. Di questa disapprovazione
imperiale si era già fatto autorevole interprete il Pietri:
al quale il Salvagnoli aveva «detto che il governo non
c'entrava» (nell'agitazione unitaria). «Menzogna»,
prorompeva il Tabarrini, 21 giugno, nel suo inedito Libro di
ricordi: Puccioni, L'Unità cit., p. 74.
266 Lettera autografa nella Biblioteca Nazionale di Firenze, Nuovi
Acquisti, 588: senza data, ma, dal contesto, sicuramente
attribuibile a questo periodo.
267 Le parole fra parentesi non figurano nel testo, ma è da
supporsi che siano state omesse nella trascrizione.
268 Marradi, op. cit., pp. 242-44.
269 «Chi parla adesso di fusione e d'unità italiana...
è un traditore della patria», scriveva la contessa
Digny il 26 giugno. Baccini, op. cit., p. 87.
270 Il 1° e 2° battaglione dei Cacciatori partirono per
Piacenza l'11 giugno; un secondo scaglione non giunse invece a
Piacenza che il 21. Il Montanelli partí certamente col primo
scaglione unitamente al Malenchini, comandante del 1°
battaglione. Il 18, infatti, il Cambray-Digny, alludendo a lui, lo
diceva a Piacenza; e il 19 lo vide in questa città «un
povero prete» che portò i suoi saluti al Verdi, a
Busseto: Cori, Galeotti, Mari e Montanelli. Commemorazione, Firenze
1913, p. 35.
271 Dieci anni di esilio avevano ridotto allo stremo l'esiguo suo
patrimonio; le vicende processuali di una eredità contestata
avrebbero reso indispensabile e urgente il suo ritorno a Fucecchio.
272 Cfr., ad esempio, Perrens a Montanelli, 11 agosto 1839, in B.
L., c. 45, i. 898.
273 Lettera cit. nel Museo del Risorgimento, Torino. Cfr., della
stessa data, anche l'altra lettera, cit., nelle Memorie del
Pallavicino.
274 Il discorso del Montanelli nella Lente, Firenze, 27 luglio 1859;
cfr. anche (Provenzal), Alla cara memoria di Giuseppe Montanelli,
Livorno 1862, p. 34, e le patetiche informazioni del Bourbon del
Monte, in De La Varenne, op. cit., pp. 682-83.
275 Cosí, il 26 del mese, s'incontra col Kossuth, di
passaggio per Piacenza. Kossuth, Souvenirs et écrits de mon
exil, Paris 1880, p. 285. È verosimile che il Montanelli
s'incontrasse altresí con l'Ulloa, giunto a Reggio, con i
volontari toscani, il 24 e col Pallieri, commissario regio a Parma.
276 I Cacciatori degli Appennini giungevano infatti a Milano il 4
luglio, e a Sondrio l'8.
277 Troviamo questa minuta di lettera, non datata, in B. L., c. 40,
i. 2239. È presumibile però che il Montanelli la
scrivesse appunto da Piacenza.
278 Il quale venne ben presto chiamato, come si sa, a prendere il
comando dei Cacciatori degli Appennini.
279 Cfr. le Memorie di Garibaldi, redazione definitiva, Bologna
1932, p. 387; e De La Varenne, op. cit., p, 666.
280 Cenni biografici cit.
281 Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».
282 Pini, Lettera cit., 15: si trattava di affari concernenti i
Cacciatori.
283 L'Impero, il Papato cit., p. 3.
284 Un brano delle istruzioni impartitegli dal Garibaldi, in Pini,
op. cit., p. 15: «Nelle lamentazioni dirette al governo ed al
quartier generale del re si deve osservare che non vi sia
gesuitismo, tendente a gettare la discordia tra genti che devono
rimanere concordi ad ogni costo... Che vi sia tregua, o che diavolo
si voglia, non tralasciamo di fare l'esercito italico grosso,
grossissimo».
285 Lettera cit., al «Monitore Toscano».
286 Pini, Elogio storico del professor Giuseppe Montanelli, San
Miniato 1862 e Lettera di un elettore cit., passim.
287 Garibaldi a Mordini, 17 luglio: «Io diedi già la
mia adesione al Montanelli circa le idee vostre, che sono le mie.
Aspetto dal suddetto mi dica qualche cosa». Rosi, Il
Risorgimento italiano e l'azione di un patriota cospiratore e
soldato, Roma 1906, p. 176.
288 Anche il Massari partiva per Torino col medesimo convoglio.
Diario cit., p. 419: «Entro nel vagone e veggo Montanelli
(infausto augurio), che entra in un altro. Chi sa cosa va a
rimestare questo imbroglione!» (sic!)
289 Lettera cit. al «Monitore Toscano».
290 Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 156; Bianchi, Storia
della diplomazia cit., VIII, pp. 536-38.
291 Col Bianchi, direttore del «Nazionale», il
Montanelli si era tenuto in assidui rapporti nel primo periodo del
suo esilio.
292 Cfr. il telegramma del Bianchi al Boncompagni, 15 luglio, ore 4
pom., in Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 157.
293 Lettera del Bianchi al direttore del «Monitore
Toscano», 26 gennaio 1861: col Montanelli «non si
parlò se non di armamenti».
294 Chiala, Lettere di Cavour, Torino 1884, III, p. CCXXIII.
295 Kossuth, op. cit., pp. 317-18.
296 «Presentatosi al palazzo reale vestito dell'assisa dei
Cacciatori, si accorse (il Montanelli) esser preso in sospetto, ma
dato ad un uffiziale il suo nome, fu all'Imperatore annunziato. Esso
lo fece tosto passare». Redi, op. cit., p. 62.
297 Cavour a Lamarmora, 16 luglio, in Chiala, op. cit., III, pp.
110-11; Tivaroni, L'Italia degli italiani, 1883, II, pp. 114-15.
298 Lettere e documenti Ricasoli cit., II, p. 158.
299 Al Pepoli l'imperatore aveva detto: «Se l'annessione
valicasse gli Appennini l'unità sarebbe fatta, e io non
voglio l'unità, voglio l'indipendenza soltanto».
300 Redi, op. cit., pp. 62-63.
301 Pini, Elogio cit., pp. 21-22; Lettera cit., pp. 10-11 (qui per
altro il Pini avverte che «le parole dell'augusto personaggio
non possono tutte essere riferite»).
302 Mariscotti, op. cit., pp. 117-18. Diario Massari cit., p. 421:
«Napoleone III ha veduto stasera anche Montanelli! Gli ha
parlato del voto popolare: è proprio l'uomo degno di stare a
paro con quel figuro (sic!) del Montanelli».
303 Tale quella contenuta in una lettera del La Farina al Franchi,
24 settembre '59 (Epistolario La Farina, Franchi, Milano 1869, II,
pp. 209-10), secondo la quale subito dopo il colloquio il Montanelli
avrebbe dichiarato al La Farina «che bisognava insistere per
l'annessione della Toscana al Piemonte, che eravamo tutti d'accordo,
che bisognava fare in modo che la deliberazione dell'assemblea
toscana riuscisse all'unanimità» (ma se l'assemblea
toscana era ancora in mente Dei!) Dunque l'imperatore avrebbe spinto
il Montanelli sulla via delle annessioni?! Il lettore tenga presente
che nel settembre del '59 il La Farina era divenuto fierissimo
avversario del Montanelli.
304 «Monitore Toscano», Firenze, 29 gennaio 1861.
305 «Monitore Toscano», 26 gennaio 1861.
306 Lettera del Mariscotti nel «Monitore Toscano», 29
gennaio 1861.
307 È vero che gli amici francesi del Montanelli, che erano
quasi tutti dei democratici fieramente antinapoleonici, non avevano
mancato di metterlo in guardia contro il pericolo del riporre
eccessiva fiducia nell'imperatore: cosí, ad esempio, il
Perrens; ma non fu se non molti mesi piú tardi che il
Montanelli dovette rimpiangere di non avere prestato loro piú
ascolto!
308 Sulla soddisfazione dimostrata dal Bianchi per questa
assicurazione del non intervento e sulla sua costernazione per il
veto alle annessioni, cfr. le contrapposte asserzioni del Bianchi
stesso e del Montanelli nelle citate lettere pubblicate sul
«Monitore Toscano», 26 e 29 gennaio 1861.
309 Cit. lettera del Bianchi al «Monitore Toscano».
310 Cfr. il Montanelli nella cit. sua lettera inedita al
«Monitore Toscano»: «al governo da lui (dal
Bianchi) rappresentato io non poteva non palesarmi amico, e
desideroso di cooperazione, quando c'incontravamo sulla medesima
via».
311 Vedila in Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 167-68.
312 Lo stesso Massari, tanto severo col Montanelli, si prese di
lí a poco la bella responsabilità di dichiarare allo
Hudson, ministro inglese a Torino, il quale lo aveva interpellato a
nome e per conto del suo ministro degli esteri, che a suo giudizio i
toscani avrebbero accettato sul trono granducale la dinastia
borbonica di Parma! (Diario cit., p. 458).
313 Questo brano di lettera venne dal Montanelli pubblicato – con la
data «lunedí luglio 1859» – nella cit. sua
lettera al «Monitore Toscano», 29 gennaio 1861.
Senonché essa non può essere che di lunedí 18
luglio, giacché il lunedí precedente la missione da
affidarsi al Montanelli era ancora fuor di questione, mentre il
lunedí successivo il Montanelli si trovava già a
Firenze.
314 Lettera cit. del Montanelli al Ricasoli, 18 luglio.
315 Il 17 luglio il Garibaldi era ancora all'oscuro dei resultati di
quelle trattative, come dimostra la citata sua lettera al Mordini.
316 Il Montanelli dovette lasciare Torino il giorno 18 (data della
sua lettera al Ricasoli), giungendo in serata a Bergamo (annotaz.
sul suo foglio di via cit.).
317 Puccioni, Malenchini cit., p. 85. La lettera del Garibaldi reca
invero l'indirizzo del Montanelli a Torino, ma il Montanelli stesso,
nella cit. sua lettera inedita al «Monitore Toscano»,
scrive: «Tornato al q. g. di Garibaldi ebbi da lui una
lettera...»
318 Cfr. le annotazioni delle varie tappe del viaggio, iniziatosi a
Brescia il giorno 20, nel foglio di via cit.
319 Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».
320 Il Pepoli venne sostituito il giorno 23 dal Cipriani, nominato
commissario straordinario per la Romagna; ma il Montanelli che col
Cipriani era in grave urto già da piú anni, non ebbe
contatti che col primo.
321 Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 170-72.
322 Pini, Lettera cit., p. 11.
323 Il 28 luglio Fucecchio lo accoglieva con commoventi
dimostrazioni di affetto. Fra le carte montanelliane in B. L., c.
40, i. 2262, si conservano, fra l'altro, due epigrafi stampate in
quell'occasione in suo onore. L'annunzio di queste onoranze che si
preparavano al Montanelli aveva dato sui nervi al Ricasoli:
«Vedrai pure come, in mezzo ai nostri pensieri, si pensi da
quegli sciocchi di Fucecchio di fare sciocchezze al ritorno di
Montanelli. La risposta del governo non può essere dubbia, ma
dev'essere dignitosa»: cosí il barone al Salvagnoli, il
23 di luglio (Doria, Carteggio cit., p. 687). Sembra dunque che la
comunità di Montanelli avesse richiesto l'adesione del
governo alle onoranze al Montanelli: questo, invero, era troppo
pretendere!
324 Guerrazzi, Proemio all'appendice degli scritti politici, Milano
1861, p. 24. Onde il Guerrazzi al Corsi, 30 luglio: «Sento che
Montanelli comparso riconciliavasi con gli emuli: di ciò non
lo biasimo, anzi lo lodo» (Biblioteca Nazionale di Firenze,
Nuovi Acquisti, 588).
325 Carteggio politico cit., pp. 198-99.
326 Che un movimento napoleonista si fosse dichiarato a Firenze
assai prima del ritorno del Montanelli, sarebbe invero superfluo
attardarsi a dimostrare. Basti qui citare, a riprova, l'opuscolo
anonimo L. Napoleone dopo l'11 luglio 1859 uscito per le stampe, a
Firenze, pochissimi giorni dopo l'armistizio.
327 Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».
328 Op. cit., pp. 67-68; cfr. anche Pini, Lettera cit., p. 11.
329 Lettera cit. al «Monitore Toscano», 26 gennaio 1861.
330 Lettera al «Monitore Toscano» in data 30 gennaio
1861, pubblicata il 2 febbraio seguente.
331 Cfr. Bianchi, Matteucci e l'Italia del suo tempo, Torino 1874,
p. 282 e passim; Diario Massari cit., pp. 445, 451, 466; Della
Torre, op cit., pp. 230-31; Carteggio politico Digny cit., p. 191.
332 Come ben sapeva e, per parte sua, deplorava il Malenchini, che
lo scongiurava a voler ulteriormente riflettere su quell'essenziale
problema: cfr. la sua lettera 30 luglio al Montanelli, in Puccioni,
Malenchini cit., pp. 92-93.
333 Capponi a Matteucci, 29 luglio, in Lettere di G. Capponi e di
altri a lui raccolte e pubblicate da A. Carraresi, Firenze 1882-90,
III, p. 279.
334 Lettera cit,, 6 agosto, al Massari; anche in una successiva
lettera del 23 agosto al Peruzzi, il Cambray-Digny accennava alla
possibile, ma non provata attività plonploniana del
Montanelli. (Carteggio politico cit., p. 206).
335 Secondo il Peruzzi (al Ridolfi, 2 agosto, in Poggi, op. cit.,
III, p. 88) il Walewski, ministro degli esteri francese, gli avrebbe
segnalato l'attività plonploniana svolta dal Montanelli a
Firenze e dal Matteucci a Torino, aggiungendo che il ministro
francese a Firenze non aveva mancato di «richiamare» il
Montanelli e che questi aveva ammesso di «non poter affermare
che tale (cioè favorevole alla nota candidatura) fosse
realmente la volontà imperiale». Ma cosa si può
onestamente desumere da questa apertura del Montanelli, se non che
le voci a carico del Montanelli erano giunte fino all'orecchio del
ministro di Francia? In linea di fatto l'unico dato positivo
riguardante il Montanelli è costituito, ci sembra, dalle sue
dichiarazioni a discarico dell'Imperatore.
336 Lettera cit, del La Farina al Franchi, 24 settembre 1859.
337 Diario cit., pp. 460-61.
338 Lo schema di discorso in R. R.
339 Cfr. del resto anche gli Schiarimenti elettorali del Montanelli
stesso, cit.: dove, riferendosi appunto al periodo successivo a
Villafranca, egli scriveva che gli era parso meglio, allora,
«circoscrivere la rivoluzione ad acquisto di libertà
unificatrice sotto guarentigia della Francia, che aspirare ad unica
monarchia abbandonata alle sole sue forze. E mi pareva che le
autonomie del centro e del mezzogiorno, governate da uomini di parte
nazionale unite col Piemonte in sodalizio militare, politico,
economico, rappresentate in un Parlamento comune, potessero tanto
bene provvedere alle unificazioni necessarie all'indipendenza, per
lo meno quanto l'unità emanuelliana».
340 Redi, op. cit., pp. 69-71. Lo stesso Redi ci assicura che questo
suo progetto venne dal Montanelli trasmesso all'imperatore a mezzo
di uno dei suoi amici, fatto partire espressamente per Parigi.
«Da questa missione, il 20 ottobre, venne fuori la lettera
dell'imperatore al re Vittorio Emanuele». Degno di fede questo
racconto? Chi sa. Certo che in quella lettera l'imperatore, se
affacciava l'idea di una amministrazione separata per il Veneto,
prospettava pur sempre la restaurazione granducale in Toscana e il
riconoscimento di Modena alla duchessa di Parma!
341 Pini, Lettere cit., p. 11.
342 Malenchini a Montanelli, 10 agosto, in D'Ancona, op. cit., p.
312.
343 Nelle sue Memorie il Garibaldi scrive che il Montanelli e il
Malenchini, reduci dal loro giro nell'Italia centrale, sarebbero
venuti a sollecitare la sua accettazione: «Quando io risposi a
Montanelli, che marcerei senza indugio..., egli m'abbracciò
commosso». In realtà il solo Malenchini si recò
in quella occasione dal Generale, il quale, scrivendo, dovette
confondere l'incontro col Malenchini in agosto con quello col
Montanelli il 20 luglio. Secondo il Puccioni, Il Risorgimento cit.,
p. 95, sarebbero stati, invece, il Malenchini e il Cempini a
suggerire al Ricasoli l'idea della lega militare e del comando a
Garibaldi; ma la testimonianza del generale rende al Montanelli quel
che gli spetta.
344 Il De Reiset (Souvenir, Parigi, 1902-903) giungeva a Firenze il
10 agosto; otto giorni piú tardi il Poniatowski.
345 Il Planat de la Faye, che al Montanelli non perdonava d'aver
dissentito dal suo Manin, in una lettera da Parigi, 27 agosto,
all'Ulloa (Doria, op. cit., p. 61), insinuò che il Montanelli
«scontento di non essere nulla e di vedersi screditato in
patria, intrigasse col Poniatowski in favore del granduca
decaduto». Accusa ingiuriosa e gratuita che neanche i
piú fieri nemici del Montanelli osarono pronunziare! Per
quanto avesse avuto, in passato, rapporti con lui (non lo aveva
forse nominato, nel novembre del '48, ministro toscano a Parigi?)
sembra infatti che il Montanelli non vedesse neanche il Poniatowski
durante la sua breve e ingloriosa permanenza a Firenze.
346 Perfino il Bianchi dovette ammettere, sia pure a denti stretti,
che al lusinghiero incarico il Montanelli preferí il posto di
deputato all'assemblea. (Lettera cit. al «Monitore
Toscano»); cfr. anche Mariscotti e Redi, op. cit. Ancora il 29
luglio, del resto lo stesso Peruzzi segnalando, da Parigi, il
contegno ostile al governo toscano di una parte della stampa
francese, scriveva al Ricasoli: «A me pare che adesso un
giornale che propugnasse la causa dell'Italia centrale sarebbe
utilissimo...; consiglierei di profittare delle disposizioni del
Montanelli che dicono desideri di venire qui a lavorare nella stampa
per la causa italiana: e ciò mi scrive anche il Matteucci. Mi
pare che cosí fareste un viaggio e due servizi».
Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 186. Cfr. anche Poggi,
op. cit., III, p. 98. Ma il Ricasoli, come si sa, era sfavorevole a
questo progetto giornalistico: Ibid., p. 94.
347 Cfr. la lettera del Fabrizi, prefetto di Livorno e un tempo
amico e collaboratore del Montanelli, al Ricasoli, 25 luglio, in
Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 182-83. Il Rosso,
Lettere inedite di G. Mazzoni ad A. Vannucci, Torino 1905, p. 27,
scrive addirittura che il Montanelli, nel '59, tentò
«di rimettere fuori la sua proposta di una Costituente»,
ma non sappiamo dove abbia pescato questa notizia del tutto
infondata.
348 Della Torre, op. cit., p. 283; Poggi, op. cit., III, pp. 78 sg.
Del resultato complessivo delle elezioni si rallegrava il Massari:
«Sono tutti liberali; ma mi spiace vederci il Montanelli: lui
che è per Napoleone!». Diario cit., p. 464.
349 Cfr. Malenchini a Montanelli, 10 agosto, cit.; e Garibaldi a
Montanelli, 15 agosto, in D'Ancona, op. cit., p. 314.
350 Pasolini, Memorie, Torino 1887, I, p. 310.
351 Poggi, op. cit., III, pp. 100, 104; Morpurgo-Zanichelli, Lettere
politiche di Ricasoli, Peruzzi, Corsini e Ridolfi, Bologna 1898, pp.
95-96. Il Peruzzi, del resto, doveva buscarsi i rimproveri del suo
governo per non essersi mostrato abbastanza risolutamente contrario
al disegno, attribuito appunto al Montanelli, di una reggenza
napoleonica nell'Italia centrale.
352 Poggi, op. cit., III, pp. 123-24; Morpurgo, op. cit., pp.
141-42.
353 Carteggio inedito Tommaseo-Capponi, Bologna 1911-32, IV (2), pp.
176-78.
354 Mazzini, Scritti editi ed inediti, Edizione nazionale, Imola,
LXIII, p. 317.
355 È noto come il periodo del massimo favore per quel
progetto fosse a Parigi quello che andò dalla metà di
agosto alla fine di settembre del '59. Verso la metà di
ottobre tanto il principe che l'imperatore mostrarono per chiari
segni di aver definitivamente rinunziato ad ogni speranza in
proposito.
356 Diario Massari cit., p. 479, Peruzzi a Galeotti, 24 agosto, in
Morpurgo, op. cit., pp. 97-105, Vincenzo a Bettino Ricasoli, 28 e 30
agosto, in Sapori, Dalla rivoluzione del 27 aprile all'annessione,
Firenze 1926, pp. 39, 42. Che tra il Sarda Garuga e il Montanelli
corressero effettivamente dei rapporti è dimostrato da una
lettera del primo al secondo, in data 10 settembre, inclusa in altra
del Biscardi, che trovasi in B. L., c. 7, i. 1497.
357 Fra le carte del Montanelli abbiamo trovato tracce di cordiali
ma generici suoi rapporti epistolari col Farini; di piú
intimi e seguitati, invece, con 1'Albéri: questi ultimi
meritano di venire esaurientemente chiariti.
358 Un incidente caratteristico: il 13 agosto un giornale
fiorentino, l'«Indipendenza», stampava, desumendolo da
un foglio piemontese, il seguente trafiletto: «L'imperatore
Napoleone fece un gran bene verso all'Italia centrale con
l'ammonizione severa data al Montanelli di cessare da ogni
propaganda in favore del principe figlio di re Girolamo». Il
Montanelli non si lasciò intimidire: «Ricorro al suo
pregiato giornale – scrisse al direttore della «Nazione»
– per dichiarare pretta menzogna quanto sul conto mio fu riferito
dall'«Indipendenza» (cfr. «Nazione», 17
agosto). Dopo di che, l'«Indipendenza» si
affrettò a lasciar presa, gettando la responsabilità
della informazione sul confratello piemontese. A che si riferiva la
smentita del Montanelli: alla pretesa ammonizione imperiale, o
piuttosto alla pretesa propaganda da lui svolta? Non si capisce
bene. Quel che è evidente si è che la tattica del
Montanelli consisteva allora nell'impedire che un'eventuale
candidatura napoleonica potesse venir definitivamente pregiudicata:
bisognava tenere in piedi anche quella possibilità, pur senza
promuoverla attivamente.
359 A questo impegno del Montanelli di fronte all'imperatore fecero
allusione i deputati toscani recatisi in missione a Torino, durante
il loro colloquio col Cavour, 3 settembre '59: poco caritatevolmente
aggiungendo che il Montanelli stesso definiva il Cavour «una
donna isterica». Il Giorgini, anzi, avrebbe specificato
(cosí il Massari nel suo Diario cit., pp. 493-494) avere il
Montanelli «a lui per tre ore spifferato che con Plon-Plon
farebbe in Toscana un esperimento di principato
democratico-sociale». All'onesto Giorgini crederemmo
senz'altro: ma ad un Giorgini raccontato dal Massari siamo proprio
tenuti a prestar fede piena?
360 Per le dichiarazioni da lui fatte in quella occasione (egli
considerava la concorde designazione del principe di Carignano da
parte delle diverse assemblee dell'Italia centrale un passo decisivo
verso la formazione di quel nuovo Stato che avrebbe facilitato
l'ulteriore unificazione della penisola tutta) cfr. Assemblee del
Risorgimento. Toscana, III, Roma 1911, pp. 727 sg.
361 D'altronde il Montanelli era persuaso che Napoleone III sarebbe
stato in ogni caso costretto a rifiutare la corona dell'Italia
centrale per il cugino, né piú né meno come
Luigi Filippo aveva dovuto rifiutare quella belga offerta a suo
figlio. Ma gli sembrava che la semplice offerta della reggenza o del
trono sarebbe bastata ad assicurare la neutralità benevola
della Francia agli ulteriori sviluppi della rivoluzione italiana nel
centro e nel mezzogiorno. «Mi si potranno citare parole
animate da cotali intendimenti – scrisse nella cit. lettera inedita
al «Monitore Toscano» – ma sfido a provare, o che io
spendessi in senso favorevole alla candidatura del principe
Napoleone la parola imperiale, o che muovessi la benché
minima pratica per sostenere che quando pure s'avesse a rinunziare
all'unità fosse da preferire nel regno centrale il principe
Napoleone a un principe della casa di Savoia... Prima che la
reggenza del principe di Carignano fosse proposta mi era stata fatta
parola di reggenza che il principe Napoleone avrebbe accettato...
d'accordo col re Vittorio Emanuele. Certo io non avrei combattuto
cosiffatto partito».
362 Cfr. a questo proposito i particolari datici dal Brofferio di un
colloquio ch'egli ebbe col Montanelli, a Firenze, sui primi di
settembre (Una visita all'Italia centrale, estratto da I miei tempi,
Italia 1860, pp. 75-84). Si tenga presente che il Brofferio, pur
amico e in qualche misura compagno di lotta politica del Montanelli,
dissentí apertamente dal suo atteggiamento nella questione
delle annessioni: ciò che aumenta valore alla sua
testimonianza.
363 Questa proposta venne approvata per alzata e seduta: due soli
deputati, i cui nomi non figurano nei resoconti ufficiali, non si
alzarono: sembra proprio che uno di essi fosse il Montanelli (cfr.
Poggi, op. cit., I, pp. 211-12).
364 Di queste discussioni segrete non sappiamo che ben poco (cfr. in
particolare Carletti, op. cit., 140-46). Ma forse fu in questa
occasione che il Montanelli sottopose ai colleghi due sue proposte
di voto (per un indirizzo all'imperatore Napoleone e per una
riunione plenaria di tutte le assemblee dell'Italia centrale), le
cui minute si trovano fra le carte montanelliane in B. L., c. 40, i.
2248.
365 Cfr. le considerazioni svolte dal Montanelli in una lettera ad
un suo ignoto corrispondente (forse il Farini?), evidentemente del
marzo o aprile 1860, in B. L., c. 40, i. 2234.
366 Sosterranno, sí, gli apologisti del Montanelli
(Mariscotti, op. cit., p. 125; Pini, Lettera cit., p. 12) che il
Ricasoli gli fu personalmente riconoscente per l'astensione dal
voto; tanto che glielo mandò a dire, a nome del governo, a
mezzo del Menichetti. Ma non si può dire davvero che, nel
seguito, il barone adeguasse a riconoscenza il suo atteggiamento
verso il Montanelli.
367 Op. cit., p. 314.
368 Cfr., ad esempio, le allusioni anche troppo scoperte della
«Nazione», 22 agosto.
369 Verso la fine d'agosto, ad esempio, l'agenzia Stefani
comunicò ai giornali (cfr. L'«Indipendenza» del
29) che gli elettori di Fucecchio erano scontentissimi
dell'atteggiamento assunto dal loro deputato. Informazione
notoriamente infondata: a Fucecchio la parola del Montanelli era
vangelo addirittura!
370 Montanelli ad un giornalista francese, il Morin, novembre 1859
(B. L., c. 40, i. 2234): «Quiconque ne partage pas les
illusions des annexionnistes est calomnié somme
réactionnaire... Nous n'avons pas de liberté. Le parti
annexionniste a confisqué à son profit toutes les
armes de la presse... Dans la Toscane ainsi que dans toute l'Italie
centrale nous vivons sous le règne le plus dictatorial...
Dans nos assemblées on a tout organisé d'une
façon à empêcher qu'une parole libre puisse se
faire entendre».
371 Cosí enorme parve quella esclusione che non mancarono
contro di essa veementi proteste. Cfr., ad esempio, Vessillo della
libertà, Vercelli, 11 ottobre 1860; e Unità Italiana,
Firenze, 14 ottobre 1860. Non fu se non nella primavera del '62,
caduto il Ricasoli, che il Montanelli, ormai sull'orlo del sepolcro,
poté ottenere dal Matteucci, ministro dell'Istruzione nel
gabinetto Rattazzi, l'estrema soddisfazione di vedersi reintegrato
nell'insegnamento universitario.
372 A sentire il Menichetti, che fu eletto in sua vece, nel gennaio
del '61, nel suo collegio natío, dopo una lotta d'indicibile
asprezza, lo stesso Cavour, poche settimane prima di morire, avrebbe
testualmente dichiarato: «Alla Camera, meno Montanelli, ci
sono tutti coloro che hanno contribuito a fare l'Italia. Mi disse
anche che ne avrebbe combattuto a oltranza la candidatura»
(Puccioni, Il Risorgimento cit., p. 249). Senonché
converrebbe conoscere a quali confidenze del Menichetti facesse
seguito questo sfogo del gran conte!
373 Memorabile fra tutti la serie di articoli sull'Ordinamento
nazionale, pubblicati sulla «Nuova Europa», Firenze, nel
1861-62: al loro uscire nessuno li notò o parve notarli;
salvo che, morto il Montanelli, pensarono gli amici a raccoglierli
in opuscolo, sotto quel titolo (Firenze 1862): e allora se ne fece
gran caso!
374 Soprattutto 7 debiti pubblici! Legge 4 agosto 1861, presentata
come progetto dal Bastogi il 27 giugno. Scriveva il deputato
Galeotti: «il regno d'Italia ereditò dagli antichi e
dai nuovi governi un disavanzo ordinario di 102 milioni; un debito
pubblico di 22 481 870 000; una quantità cospicua di leggi e
di decreti organici, che dovevano essere posti in esecuzione; un
personale esuberante nei pubblici uffici, oltre a quelli che la
mitezza di una rivoluzione aveva collocato fra i pensionati: i
pubblici introiti dappertutto diminuiti» (La prima
Legislazione del Regno d'Italia da Zoli, Saggio, pp. 279-80).
375 Secondo Petruccelli della Gattina, 2561: Storia d'Italia, p.
476. Nel 1860, su quaranta province, solo sei eran provviste di
ferrovie. Ibid.
376 Giustino Fortunato dice (1928) che si è molto esagerato
sul contegno dei Piemontesi nel mezzogiorno; e anzi vorrebbe
scrivere qualcosa per dimostrare che fecero quanto di meglio era
possibile.
377 «Vero prodigio! quando si pensi che una tanta impresa non
veniva coadiuvata da alcuna riforma amministrativa ispirata al
decentramento amministrativo, la quale sviasse una parte degli
interessi locali dal far ressa e dal far tratta, senza ritegno,
sulle risorse del bilancio nazionale» (Jacini, Pensieri sulla
politica italiana, p. 29).
378 La preoccupazione finanziaria impedí che si provvedesse
alla soluzione di molte altre questioni. Jacini propugnando la sua
riforma politico-amministrativa sostiene che soltanto con la sua
attuazione si può sperare di risolvere definitivamente la
questione finanziaria.
379 Considerazione giustissima sul Congresso di Berlino svolge
Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 76 sg., stigmatizzando
l'indignazione che contro di esso si diffuse in Italia perché
non ci aveva portato nessun ingrandimento territoriale (eppure
l'Italia non aveva mica partecipato alla guerra d'Oriente!)
«Mentre sopra un tale risultato si era fatto assegnamento
sicuro, non per altro titolo che perché ciò sarebbe
stato cosa desiderabile...» Eppure attraverso le discussioni
in parlamento e al senato risultò chiara
l'impossibilità di tale ingrandimento per noi. La frase –
«lo smacco del trattato di Berlino» – diventò
nondimeno tradizionale (e quanto male ci ha fatto!). E non si
pensò che era «già un motivo di grande
compiacenza per l'Italia l'avere seduto, per la prima volta, a
titolo di grande potenza, in un congresso europeo».
380 Inghilterra, 30 marzo 1861; Francia, 15 giugno 1861; Russia, 12
luglio 1862.
381 Uno degli atti piú scaltri fu forse la Convenzione di
settembre, che si riuscí a render cosí poco chiara da
giustificare, per parte italiana, una interpretazione letterale in
aperta contraddizione col suo spirito (int. La Marmora e Dronin de
Lhuis).
382 Jacini, Pensieri sulla politica italiana, svolge il concetto
della neutralizzazione internazionale della Santa Sede.
383 Contro l'accentramento se la prende Jacini – che lo dichiara
ineluttabile fino al '66; ma dopo perniciosissimo.
«L'accentramento amministrativo trae dunque con sé per
necessaria conseguenza l'accentramento delle discussioni in
Parlamento di ogni piú piccolo incidente» (Jacini,
Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 24).
In sostanza Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, vorrebbe
tornare (1870) al progetto delle regioni che forse fu bene rigettare
nel '61, ma che ora s'impone. Dieci anni di rigido accentramento
eran forse necessari date le condizioni del paese; e ora gioveranno
come correttivo del regionalismo. Jacini vince l'obiezione che si
fa, della diversa prosperità delle varie regioni, dicendo che
niente impedirebbe da parte dello Stato un equo calcolo di dare e
avere fra l'erario nazionale e le singole regioni.
Curioso che Jacini, il quale propugna il suffragio universale a
doppio grado per le elezioni politiche, voglia invece il suffragio
ristretto per i corpi regionali «per schivare che il medesimo
collegio racchiuda un contrasto naturale e permanente di interessi
locali»?! (p. 98).
Il progetto di riforma di Jacini è caratterizzato da un
governo piú forte, attraverso il modo di elezione dei
deputati e la limitazione delle loro competenze, e da un grande
discentramento amministrativo, reso possibile appunto dalla
esistenza di un governo forte.
Rattazzi, in una lettera a Vittorio Emanuele, 1860, ricordando le
tradizioni del mezzogiorno raccomanda «pas de hâte
enragée de trop administrer et d'une façon
préconçue, pas de zèle dans l'unification.
Voilà le danger contre lequel nous allons peut-être
nous heurter...» (Rattazzi et son temps, pp. 537 sg.).
Ricasoli (sul principio del '62) operò alcune riforme
amministrative, nel senso del decentramento.
384 Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 39, lamenta che –
dopo il '66 – non si sia voluto parlare di riforma amministrativa
(che tra l'altro avrebbe sanato il Parlamento) perché
incombeva il problema finanziario. E non si capí che quella
avrebbe facilitato la risoluzione di questo.
385 Vedi parafrasata (e smontata) questa accusa in Jacini, Pensieri
sulla politica italiana, p. 70. Molti lamentano che il Piemonte
facesse piú grande politica estera del regno d'Italia e si
domandano: «L'esperienza non ci insegna forse che una politica
intraprendente e inframettente è quella che ci conviene?
Eravamo intraprendenti e inframettenti da piccini, perché
ora, divenuti grandi dovremmo cessare d'esserlo?» La risposta
è contenuta nel capitolo sulla Megalomania politica in Italia
nel citato volume di Jacini (un piccolo Stato può arrischiare
e poi, eventualmente, ritirarsi, cedendo all'intimazione di una o
piú grandi potenze. Una grande potenza non potrebbe senza
gravissimo danno sottoporsi a quest'onta ecc.). Lo stesso, pp. 26
sg., dice che la posizione internazionale d'Italia dopo il '66 era
meravigliosa e che il principale assunto del suo governo in politica
estera avrebbe dovuto essere il mantenimento dello status quo
europeo.
1869, accuse della Sinistra al governo perché ha pagato (in
oro) alla Francia il debito pontificio per le province occupate,
giustificando quel che scrive la stampa cattolica, ossia con quel
pagamento l'Italia riconosce di essersi appropriata dei beni altrui.
Fu debolezza? O necessità? (Rattazzi et son temps, II, pp.
303 sg.).
386 La critica che fa Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp.
28 sg., è che se fu giusto che dal 1860 al 1866 i problemi di
politica interna restassero subordinati a quelli della estera, male
fu che dopo il '66 non si invertissero i rapporti. E che in
sostanza, dopo il '66, auspici la megalomania e lo pseudo
parlamentarismo, si sbagliò l'indirizzo politico.
387 Ancor piú significativa tale guerra quando si pensi alle
condizioni del paese, nel dichiararla. Tali condizioni sono
riassunte (assai pessimisticamente invero) da Rattazzi in un
colloquio col principe di Carignano, giugno 1866: 1) cattiva
situazione all'estero; 2) popolo scontento; 3) amministrazione
incapace; 4) minacce all'unità; 5) clero antipatriottico; 6)
aristocrazia a sé; 7) borghesia piovra dello Stato; 8) scarse
individualità eminenti, anche nel governo; 9) rivalità
del passato risuscitate nel 1864; 10) parlamento povero di
personalità; 11) senato - ricovero di pensionati; 12) stampa
venale e ignorante; 13) regime fiscale insensato (?); 14) ignoranza
diffusa e quel po' di istruzione, pretesca; 15) giovinezza senza
principî e senza fede, un po' mazziniana e un po' loiolesca;
16) nessuna preparazione alla guerra, nessuna fede nei capi; 17)
marina sconnessa, mai trovatasi assieme agli ordini d'un ammiraglio;
18) nel mezzogiorno ignoranza totale dei fini della guerra. Questo
quadro fatto da Rattazzi ha molta importanza (Rattazzi et son temps,
II, pp. 52 sg.).
388 Lo dice benissimo Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p.
71: «Il regno di Sardegna era una creazione del Congresso del
1815 della quale l'Europa non avrebbe mai permesso la distruzione.
Era un cuscinetto indispensabile, posto nell'interesse europeo,
insieme alla Svizzera, tra la Francia e l'Austria. Il Piemonte
poteva permettersi una politica audacissima, colla certezza di
guadagnare immensamente in caso di vittoria, e di restare come prima
in caso di sconfitta, salvo a pagare qualche indennizzo di guerra al
vincitore...»
389 Ancora Jacini, ibid.: «In caso di sconfitta, la certa
prospettiva che si presenterebbe al regno d'Italia sarebbe quella di
andare in frantumi. Parecchi dei grandi stati d'Europa, possono
avere interesse a che il territorio italiano non divenga piú
la preda di alcuno dei popoli vicini; ma è indifferente per
loro che rimanga o non rimanga costituito in un solo Stato».
Solo che Jacini addita questi pericoli all'Italia di dopo il '66,
non prima, quasi dando a credere che l'Europa vedeva volentieri il
suo annettersi la Venezia. Ciò che non mi pare dimostrato.
390 Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 20, dice che noi
rifiutammo il 5 maggio.
391 Lo stesso, loc. cit., sottolinea il contegno cavalleresco
dell'Austria verso di noi dopo la guerra e i «modi leali e
cordiali del suo riconoscimento».
392 Rattazzi et son temps, II, p. 310, accenna, 1867, a 93 milioni
che l'Italia doveva pagare all'Austria per il valore del materiale
bellico nelle fortezze cedute. Ma come? anche quello si pagò?
o non soltanto ci si assunse il debito pubblico di Venezia? Nel
primo caso, sarebbe stata una grande umiliazione.
Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 52, riconosce
l'accasciamento generale che prese dopo la guerra del '66. Ma si
rifiuta di spiegare con esso quel certo rallentamento nell'opera del
governo, quella diminuita adeguatezza di quell'opera alle
necessità negli anni immediatamente seguenti al '66.
«Che un'intera nazione si abbia a dare per perduta,
perché le mancò il prestigio della gloria militare,
tanto piú dopo aver conseguito i medesimi vantaggi materiali
che la gloria militare avrebbe potuto procacciarle, è la cosa
piú inverosimile che si possa immaginare».
393 Nel valutare l'iniziativa per la guerra, tener conto delle
trattative segrete fra Vittorio Emanuele e Mazzini appunto per
promuoverla. Mazzini, quando gli pareva che si rallentasse il fuoco
sacro per il Veneto, agitava la minaccia della repubblica.
394 Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 67, dice in
sostanza che Rattazzi fu rovesciato nel '62 «per aver osato
mantener forza alla legge ad Aspromonte». Mi pare
un'interpretazione un po' futurista.
395 Sviluppare questo punto. Jacini, Pensieri sulla politica
italiana (1889), sviluppa benissimo, in contrapposto a certe pretese
di megalomania, una linea di politica estera misurata attiva e
proficua. In sostanza noi dovremmo convertire il valore virtuale che
ci viene dal possesso della piú splendida posizione nel
Mediterraneo, in valore effettivo. «Non corriamo dietro alle
fantasticherie. Egli è restituendo il manto delle foreste
alle nostre Alpi ed ai nostri Appennini denudati, prosciugando le
sterminate paludi... sviluppando le nostre risorse interne,
migliorando i nostri porti, la nostra navigazione, la nostra
attività, agraria, industriale e commerciale...;
rinforzandoci e consolidandoci in casa nostra, che avremo fatta la
miglior politica estera del Mediterraneo».
396 Il discorso Rattazzi, 18 dicembre 1867, è volto a
dimostrare che il governo fece quanto poté per impedire
l'arruolamento dei volontari, ma che questi andavano spontaneamente,
alla spicciolata alla frontiera, senza armi, ecc. Insomma, il
discorso vuol dimostrare che il governo è incapace di
dominare un movimento cosí vasto e spontaneo e da tutti
appoggiato.
Settembre 1867, Rattazzi fa dire da Nigra a Napoleone che la
popolazione di Roma ha una attività rivoluzionaria e che
l'Italia si troverà forse nella necessità
d'intervenire per salvare l'ordine, il Vaticano, ecc. Risposta di
Napoleone 4 ottobre (attraverso Nigra): non crede allo spirito
rivoluzionario in Roma e si riserva ogni decisione.
Rattazzi è stato mal servito anche dai suoi apologisti.
Rattazzi et son temps, II, p. 184, dice che a un certo punto
Rattazzi lasciò fare Garibaldi nel '67, forse perché
aspettava «de la leçon que Garibaldi allait recevoir de
la main des Français la vengeance de tous les maux que
l'héroïque aventurier lui avait causés».
397 Rattazzi, 18 dicembre 1867, parla dei volontari che alla
frontiera pontificia riescivano a sottrarsi alla vigilanza delle
truppe italiane anche perché favoriti dalle popolazioni.
(?!...)
398 Vedi Rattazzi et son temps, II, p. 172. Ma i romani in fondo si
contentavano del governo bonaccione dei preti e non si muovevano,
col pretesto di non creare imbarazzi al governo italiano. Avevano
una matta paura dei garibaldini!
399 Che fosse terribilmente complicato risulta dalle stesse
imbarazzate dichiarazioni di Rattazzi alla Camera, il 18 dicembre
1867, là dove dice che siccome in Italia non ci sono leggi di
repressione preventiva, cosí nessuno poteva, innanzi Mentana,
impedire ai garibaldini di propagandare l'imminenza della
convenzione di settembre.
400 Contraddizioni del discorso Rattazzi, 18 dicembre 1867.
L'arresto di Garibaldi a Sinalunga fu forse anticostituzionale, ma
una necessità politica. Poco oltre: lo stesso arresto prova
che il governo è uguale di fronte a tutti e non rincula mai
dinanzi alla legge.
401 Fu il deputato Sirtori. Ma in Rattazzi et son temps, pp. 630-31,
si dice che dopo qualche mese si constatò che era pazzo.
Su Rattazzi però bisogna andare a fondo: lettera sua a
Vittorio Emanuele, 1861: «Ce n'est pas non plus le moment, il
me semble, de songer à Venise ni à Rome, même
par allusion, comme le but final de la révolution que nous
venons d'accomplir. A chaque jour sa tâche. Le tour de Venise
et de Rome viendra dans un quart de siècle
peut-être» (Rattazzi et son temps, pp. 187 sg.).
402 Scrive il marchese di Villamarina (ex ambasciatore sardo a
Parigi) al Morelli, autore di uno Studio politico su Rattazzi:
«Nel 1867 Napoleone III aspettava con una certa impazienza
l'annunzio del fatto compiuto rispetto a Roma... fu un momento solo,
ma quel momento non ci è mancato, se avessimo voluto e saputo
approfittarne. Ignoro se Rattazzi fosse consapevole di ciò
quando voleva passare il confine, e trovò opposizione fra gli
stessi suoi colleghi del ministero; ma ripeto, che se egli fosse
stato meno compiacente nell'accettare nel suo gabinetto uomini le
cui idee e le cui aspirazioni non erano in perfetta armonia con le
sue sarebbe riuscito con sua lode e con plauso utile della
patria» (Petruccelli della Gattina, Storia d'Italia, P. 183).
403 La stessa commedia, in certa misura, si giuocò ancora nel
'70, quando – dopo Sédan – il governo italiano non si decide
ad andare a Roma se non in seguito alle petizioni di varie
città papali, che chiedono l'occupazione italiana per
troncare l'anarchia che già infierisce. Il gabinetto voleva
aver l'aria di farsi forzar la mano!
404 Il vero insuccesso di Mentana fu per Napoleone. Al quale Pepoli
scriveva (credo sul principio del '67) incitandolo a facilitare
l'andata dell'Italia a Roma: «L'alleanza italiana poi è
pure di qualche peso. Fra non guari, la spada del nostro esercito
peserà anch'essa sulla bilancia dei destini di Europa. Io non
so immaginare che V. M. respinga il concorso dei suoi piú
fidi amici per appoggiarsi su Roma...»
Il principe Napoleone a Sainte-Beuve, 15 dicembre 1867, deplorando
la politica di Napoleone III: «... restando a Roma noi
perdiamo un alleato devoto ed utile, il frutto della guerra 1859 – e
tutto ciò pel potere temporale del papa!» (ibid., p.
32).
405 Dietro sollecitazioni e assicurazioni di Napoleone – dice
Rattazzi alla Camera. La Russia soprattutto in grazia delle misure
rigorose prese da Rattazzi contro i Polacchi della scuola militare
di Cuneo, che abusavano dell'ospitalità italiana; la Prussia
per mostrar la sua indipendenza dall'Austria e in seguito a una nota
insolente di Rechberg.
406 Circolare cit. alle legazioni. Questa circolare di Durando
urtò Napoleone, che fece scrivere L'Europe et la
Papauté, ripresentando la vecchia sua idea della federazione
in Italia.
Pepoli, ministro, dopo Aspromonte andò a Parigi e vide
Napoleone: «... non gli dissimulai la verità:
disapprovai le parole e gli atti di Garibaldi, formulai la speranza
che avremmo dominato la situazione, ma non dissimulai che ciò
avremmo fatto con grande scapito delle nostre proprie forze... che
vinto Garibaldi, ci saremmo trovati a fronte delle idee di Garibaldi
piú gagliarde di prima e che il governo per tal vittoria
ottenuta avrebbe assunto l'obbligo di sciogliere la questione romana
in breve spazio di tempo; anzi, se avesse mancato a quest'obbligo
egli sarebbe miseramente perito...» (Petruccelli della
Gattina, Storia d'Italia, pp. 8 sg.).
Ibid. (Pepoli all'imperatore). «Ma che debbo dire al
re?» Imperatore: «Che sia forte; che tenga salda in sua
mano l'autorità». Io: «Sí! Ma Egli mi
dirà: che V. M. fece il 2 dicembre per salvare la Francia dal
socialismo, ma che dopo, per consolidarsi, fece del buon
socialismo». Imperatore: «È vero». Io:
«Ebbene, il re, dopo aver domato Garibaldi, è forza
faccia del buon garibaldismo... che vada a Roma contro
chiunque...»
Benedetti, Ma mission en Prusse, pp. 245 sg., suppone che Bismarck
incoraggiasse il partito d'azione italiano nella marcia su Roma per
metter male tra Francia e Italia.
407 Sono i «megalomani» contro i quali strepita Jacini,
Pensieri sulla politica italiana.
408 Lo stesso dice che una frazione della classe dirigente italiana
raggiunta col '66 l'unità disertò la politica,
perché non si era interessata di politica che fin quando essa
coincideva col fine dell'unità! Un'altra frazione
conseguí tanti vantaggi che le mancò ogni stimolo a
occuparsi ulteriormente di cose politiche.
409 Vedi discussione esauriente alla Camera in precedenza della
nuova legge, nel 1872. Un dato: dal 1861 al 1870 non si poterono
eseguite 75 000 mandati di arresto! La Camera discusse lungamente in
comitato segreto. Il deputato Carrara (giurista): «Il n'y a
pas en Europe un peuple civilisé où la
sûreté publique soit dans un état aussi
misérable et aussi grave qu'en Italie!» (Rattazzi et
son temps, II, pp. 508 sg.).
410 Diceva Lanza a Rattazzi, dicembre 1871, dipingendogli le
difficoltà della situazione: «... nous sommes à
Rome, avec le pape qui nous bombarde de front, Naples qui nous mine
par derrière, les Romagnes mazziniennes qui nous mordent aux
flancs...» (Rattazzi et son temps, II, p. 484).
411 Sulla larghezza d'idee della Destra, Jacini, Sulle condizioni
della cosa pubblica, p. 67: «Uno dei capi del partito avanzato
di una repubblica democratica, mi diceva un giorno, 1863: "Diamine!
sono costretto a dichiararmi un codino, in confronto di qualcuno dei
vostri burgravi di estrema Destra della Camera di Torino!"».
412 Ricasoli, durante il suo ministero, permise perfino la raccolta
in tutta Italia dell'obolo di San Pietro! E si sapeva dove andavano
a finire quei denari...
Tipico ultimo rappresentante della mentalità clericale di
fronte all'Italia in cammino, il diplomatico francese d'Ideville (v.
il suo libro Piémontais à Rome).
413 Lanza a Rattazzi (colloquio), dicembre 1871: «... On nous
crie: réforme, réforme! Libertés,
économies, ordre, justice, égalité... et que
sais-je encore? Tout cela est-il possible dans la situation
présente? Franchement, je vous défie de mener à
bien une réforme quelconque avec un parlement tracassier
comme le nôtre, sans discipline, sans principes, sans
programme. Donnez donc de la liberté à une nation que
ne vous en demande point... ce qu'elle veut, c'est du pain à
bon marché, c'est la suppression de l'impôt sur le sel,
du papier-monnaie et des douanes. Faites donc des économies,
quand vous avez un budget qui se salde avec 200 mill. de
déficit... Donnez donc l'égalité et la justice
à une nation qui verrait dans cette concession un aveu de
faiblesse de la part du gouvernement... et essayerait des
échauffourées, comme celles de Palerme... Je suis las;
je deviens tous les jours plus sceptique» (Rattazzi et son
temps, II, p. 487).
414 Jacini lamenta (Sulle condizioni della cosa pubblica) l'estrema
instabilità dei ministeri; tanto che si sente da tutti
ripetere «che, messi insieme nove uomini, scelti per ciascun
ramo della pubblica amministrazione, fra coloro che al governo
già fecero men buona prova e lasciati tre o quattro anni alla
direzione dello Stato, se ne avrebbero risultati assai migliori che
non da un ministero composto da nove geni, ma colla spada di Damocle
sospesa ogni giorno sul capo ed esposti ad ogni pié
sospinto... alle insidie delle chiesuole parlamentari». –
Tant'è vero che fra i deputati si contano ormai una
sessantina di ex ministri. I continui cambiamenti «hanno per
effetto di indebolire vieppiú il potere esecutivo, di ridurlo
incapace a fissare un determinato progresso (che in quanto al
metterne poi in atto uno qualsiasi è inutile parlarne) mentre
hanno alimentato nel pubblico la credenza che la sala dei 500 non
sia altro fuorché una giostra di passioni personali...»
p. 31: «Non essendovi stabilità di governo, avviene che
diventino sempre peggiori la pubblica amministrazione e lo stato
delle finanze. La cattiva amministrazione e il dissesto delle
finanze, rimaste in permanenza e perciò in continuo aumento,
ingenerano il disagio. Il disagio produce il malcontento. Il
malcontento promuove la nomina dei deputati piú idonei a
rendere sempre piú instabile il governo. Quindi, da
capo».
p. 80: «Il problema da risolvere in Italia consiste dunque
nell'assicurarle un governo forte, senza il quale essa
precipiterebbe nell'anarchia: ma conservandole nello stesso tempo la
libertà, senza la quale la nostra nazione suol sempre
degenerare».
Per sanare la piaga dei governi deboli e effimeri, in Italia, molti
sognano la repubblica. Illusione! Altri, un colpo di Stato che
abolisca lo Statuto e instauri la dittatura regia.
Jacini (pp. 79 sg.), trova che ciò tradirebbe gli scopi
assegnati al Risorgimento e darebbe perciò ragione ai
sostenitori dei passati regimi, che sostenevano esser gl'italiani
immaturi a un regime libero.
«Il rimedio del ritorno al dispotismo non è un rimedio
da medico, bensí da maniscalco di campagna, il quale non sa
far altro che recidere il membro ammalato, perché ignora
l'arte di guarirlo, conservandolo intatto. Gli Italiani amano un
governo forte, egli è vero, ma sono abbruttiti (?) dal
dispotismo. E infatti tutte le cose grandi nella storia del nostro
paese furono create dalla libertà; e il dispotismo invece o
spense od avvilí le migliori doti naturali della
nazione...»
415 Jacini (ibid., p. 35), deplora nella sua critica del sistema di
governo, non lo Statuto e le sue conseguenze, fortunatamente
assicurate all'Italia, ma «il modo affatto esotico per
l'Italia» con cui si sono applicati.
416 Jacini (Pensieri sulla politica italiana) critica il sistema
parlamentare italiano (che è poi quello piemontese il quale a
sua volta è quello copiato in furia nel '48 dal francese di
Luigi Filippo) che chiama pseudo-parlamentare.
417 Ma le sedute delle «Società emancipate»
posavano addirittura a controparlamento, o meglio a parlamento di un
partito (Rattazzi et son temps, p. 617).
418 Un re come Vittorio Emanuele II, che troppo spesso faceva il suo
comodo e seguiva una sua politica, attraverso suoi privati emissari
(Rattazzi et son temps, II, pp. 325 sg.). Bismack piú d'una
volta si rifiutò di parlate con questi inviati del re,
negando che un re costituzionale potesse valersi della loro opera.
1871, febbraio, Lanza vorrebbe Rattazzi nel suo ministero; questi
però vorrebbe tre o quattro portafogli per i suoi amici, tra
cui gli esteri. Lanza: «Cela est impossible, aux affaires
étrangères surtout. Le roi est son propre ministre
dans ce département-là, et il s'inspire... des
correspondances directes et secrètes qu'il entretient avec
les ambassadeurs, avec Napoléon (?) et avec dix autres. Cela
n'est pas constitutionnel, certes, mais cela n'en existe pas moins.
– Oui, malheureusement...» (Rattazzi et son temps, II, P.
407).
Ibid., p. 408, si legge che anche il ministro della guerra in quel
tempo era completamente asservito al re, che seguiva i consigli di
La Marmora.
419 Notare, fra il '61 e il '66, l'opposizione netta tra i
piemontesi, e, specialmente, i tosco-emiliani: caso tipico, gli
avvenimenti seguiti alla convenzione di settembre.
420 Jacini (Pensieri sulla politica italiana p. 43) dice che questo
fu lo sfogo del regionalismo compresso e non sfogato nel necessario
decentramento amministrativo.
Il primo esempio di un ministero equilibrato regionalmente lo dette
Cavour, marzo 1861, ricorrendo a ministri d'ogni regione d'Italia.
Per avere un'idea della diffidenza che ancora nel '70 divideva i
nordisti e i sudisti, si veda il colloquio tra Vittorio Emanuele e
Rattazzi, autunno 1870, in cui Rattazzi fa le piú fosche
previsioni basate sulla sua sfiducia per gl'italiani del mezzogiorno
(Rattazzi et son temps, II, pp. 424 sg.).
421 Non mi pare esatto quanto scrive Jacini (Pensieri sulla politica
italiana, p. 15) che «l'indirizzo del governo italiano, fra la
metà del '59 e la fine del 1866, era prestabilito nelle sue
linee principali. L'indole di quel governo doveva consistere in una
specie di dittatura, assunta, con assenso istintivo della
moltitudine, dagli uomini che, nelle diverse classi colte, erano in
grado di formarsi un'idea piú netta della situazione
eccezionale del paese». Non vedo né la dittatura
né l'assenso istintivo. Idee simili nelle sue Condizioni
della cosa pubblica, 1870.
422 Studiare le elezioni del febbraio-marzo 1867, imperniate sul
diritto di riunione, violato da Ricasoli.
423 Rattazzi et son temps, II, pp. 24 sg., si dice veramente che il
ministro dell'interno, Natoli, «se mêla des
élections... en faisant sentir son influence aux
préfets, aux syndics et aux magistrats... La majorité
antipiémontaise de Turin fut battue... En somme, un tiers de
l'ancienne majorité ministérielle resta sur le
carreau...» E ancora (p. 34), a proposito delle dimissioni di
Natoli il quale «avait perdu la partie aux élections
par l'excès de zèle qu'il y avait
apporté».
424 A questa evoluzione costituzionale della Sinistra molto
giovò Rattazzi; glielo riconobbe, dopo morto, lo stesso suo
nemico Bonghi (Nuova Antologia), Riflessioni in Rattazzi et son
temps, II, p. 579: «On lui doit de voir le parti radical le
plus forcené ramené à l'obéissance des
lois et au respect du droit. Lorsqu'il fut au pouvoir, ce parti lui
rendit toujours difficile l'exercice de ce pouvoir; et il ne lui
arriva jamais d'être ministre sans que quelque grave
désordre ne survint...»
425 Lasciamo andare, per carità di patria, quel che diceva
suo padre!
426 2 gennaio 1866, a Firenze, attentato contro Sella.
427 Lo stesso Rattazzi, nel 1871, diceva «disastrosa» la
politica finanziaria di Sella (Rattazzi et son temps, II, p. 408).
A che non arrivò la propaganda di stampa repubblicana sotto
il ministero di quel «reazionario clericale» di Menabrea
(1868). Incitamento all'insurrezione, necessaria per fondar subito
la repubblica in Campidoglio; impulso alle sommosse di Milano,
Palermo, Roma (Petruccelli della Gattina, Storia d'Italia, p. 43).
428 Critiche di Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 44
sg., sulla stampa – che, assodata l'unità, tese a sviare la
pubblica opinione dalle questioni serie e abituò il pubblico
a considerar la politica un teatro di virtuosismi.
429 Fa eccezione il provvedimento di sospensione dello Statuto che
si votò al principio del 1866, al principio della guerra. La
Camera però respinse una legge sui sospetti che si propose
nella stessa occasione e che, mirando ai fautori dei Borboni, era
cosí vaga che poteva colpire chiunque.
430 Contro al progetto Ferrara (1867) sul prestito anticipante il
gettito di vendita dei beni ecclesiastici, si schierano moltissimi
alla Camera: ottanta oratori s'iscrivono a parlare, quasi tutti
contrari. Ferrara dimissiona (Rattazzi et son temps, II, p. 168).
431 Sui deputati che diventano galoppini degli elettori, Jacini,
Sulle condizioni della cosa pubblica. E ancora: «la capitale
accentra nel Parlamento tutte le competenze del paese – e il paese
ne resta cosí privo; tutte le incombenze pubbliche si
appioppano al deputato che si ritiene idoneo a tutto. Gli uomini
d'ingegno anziché darsi seriamente agli studi li disertano
per aspirare alle facili popolarità del Parlamento. Troppa
intelligenza e troppa cultura nel Parlamento, che vengono
completamente sciupate e dovrebbero tesaurizzarsi nella libera
attività».
p. 98: «L'esercizio della deputazione qual è
attualmente è cosí gravoso che molti competenti non
possono occuparsene e preferiscono lasciarlo ai dilettanti.
Diversamente accadrebbe con le regioni e il parlamento centrale
ridotto alle sole grandi attribuzioni».
432 Petruccelli della Gattina, Memorie di un ex deputato, racconta
briosamente di un tale che si guadagna un collegio (1866) con una
bella lotteria a sue spese. Ma il Petruccelli era un famoso
scanzonato e il suo libercolo è uno spiritoso paradosso. A
pp. 58-59: «Bisogna esser resistenti per non diventare idioti
da quel mestiere di deputato! Dalle dieci del mattino alle sette
circa del pomeriggio, vedere le stesse facce, udire le stesse voci;
parlare degli stessi subbietti ogni dí; respirare la stessa
aria mefitica materiale e morale; sorbire le stesse osservazioni sui
ministri, sui partiti, sulle persone, sulle intenzioni; discutere
sempre le stesse questioni; leggere gli stessi giornali, le stesse
relazioni, subire le stesse vanagl. interess...; scorgere sotto la
pelle patriottica di quasi tutti, gli stessi interessi privati,
sorridere ad uomini di cui non si stimano... essere vittima delle
stesse esorbitanze di elettori e di governo...» In complesso,
il libretto tende a mostrare che il deputato è il galoppino
degli elettori.
433 «La vita politica, non pertanto, si concentrava tutta
intera nel Parlamento, il quale, a volta sua, ne aveva poca, o
nessuna coscienza...» (Petruccelli della Gattina, Storia
d'Italia, p. 211).
Al punto, dice Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, che si
era creato un distacco netto tra Italia «legale» e
Italia «reale».
434 Critiche di Jacini, Pensieri sulla politica italiana, al sistema
parlamentare italiano (latino in genere) che chiama
pseudo-parlamentare perché copiato da quello inglese, ma
senza il largo decentramento inglese. Il regime parlamentare per lui
non è concepibile disgiunto dal decentramento perché
falsa la vita pubblica, determina instabilità di governo e
corruzione (tutti gli interessi anche i piú minuti facendo
capo al centro, i deputati diventano agenti d'interessi) e prepotere
del Parlamento. Insomma, o si vuole un regime accentrato, e allora
bisogna svincolare almeno in parte il potere esecutivo dal controllo
minuto del Parlamento; o si vuole il vero regime parlamentare, e
allora bisogna decentrare. Lo pseudo-parlamentarismo stanca e delude
le moltitudini e le porta a desiderare le dittature parlamentari (p.
50).
435 Critica del funzionamento della Camera:
«"Un'interpellanza, una crisi ministeriale e un esercizio
provvisorio; poi da capo, una crisi ministeriale, un esercizio
provvisorio ed un'interpellanza!" Ecco come il "Times", alcuni mesi
fa, definiva argutamente la situazione parlamentare d'Italia»
(Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 21).
Sulla crisi del Parlamento dopo il '66 (e in generale crisi
politica), alcuni pensano che col tempo tutto s'accomoda, basta non
aver fretta, ché tutti i paesi liberi hanno traversato crisi
analoghe. Altri pensano che basterebbero alcune modificazioni nel
regolamento della Camera per accomodare tutto; altri vorrebbero la
costituzione di solidi partiti politici, perno della vita politica
parlamentare. Ma la prima soluzione è evidentemente smentita
dai fatti (quanta furia, Jacini!); la seconda evidentemente
insufficiente; la terza esigerebbe come prima base la formazione di
un partito conservatore, ma questo non può nascere se prima
non si sistemano un po' le faccende della cosa pubblica. Se no, cosa
conservare? Lo Statuto? Ma nella sua orbita si muovono tutti i
partiti (ibid.).
436 Jacini, ibid., propugna il suffragio universale a due gradi e
l'attribuzione al Parlamento delle sole grandi questioni d'interesse
nazionale.
437 Studiare l'interesse degli elettori per le elezioni (frequenza
degli elettori). Nel 1871 ci fu ballottaggio, a Siena, fra due
candidati: uno ebbe 50, l'altro 60 voti. A Firenze il candidato del
governo ebbe 153 voti ed entrò in ballottaggio con uno che
non ne ebbe che 6. A Roma, su 7800 elettori, solo 198 si
presentarono (Rattazzi et son temps, II, p. 455, che però
attribuí questi risultati alla propaganda astensionista
contro Lanza dei partiti di sinistra e clericale).
«Giammai meno della metà, ma spesso i due terzi, e
piú ancora, degli elettori inscritti (come è avvenuto
nelle elezioni parziali le piú recenti) suol astenersi dalle
urne elettorali, cosicché vi è un gran numero di
deputati al Parlamento i quali sebbene rappresentanti di collegi
popolati da 500 000 anime, pure non furono eletti che da 80 o da 100
voti...» (Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p.
16).
438 Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia, spiega
che non ha accettato l'elezione a deputato di Terni perché ha
voluto studiare un po' dalla platea l'effetto di quel che si
è fatto e si fa sul palcoscenico, insomma «mescolarsi a
lungo, spogliandosi d'ogni idea preconcetta, colla folla»;
«verificare quali siano, riguardo alle cose del governo, i
giudizi di essa», conoscere «i gusti della massa».
Se un uomo di governo non si prende ogni tanto questa briga
«anche il suo giudizio sulla cosa pubblica deve riuscire
necessariamente unilaterale e fallace...» (pp. 12-13). E
ancora: «Eccellenti le masse, come fu solennemente dimostrato
dalla facilità con cui si poté introdurre la
coscrizione militare in molte province dove prima era sconosciuta e
dalla pochissima resistenza, relativamente parlando, alla tassa
impopolare del macinato...» (p. 15).
439 Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 23 sg., un po'
sviato dall'intento di dimostrare certe magagne del sistema politico
italiano dopo il '66, dipinge a colori troppo rosei i dati
realistici con i quali esso dové fare i conti. E per esempio,
allude a «un paese docilissimo e che non chiedeva altro se non
di essere assecondato nel suo desiderio di un migliore avvenire da
conseguirsi senza troppo violentarlo...» (1867).
«Partout des émeutes; là, à cause du
choléra, ici pour des motifs religieux, ailleurs pour
protester contre la conscription, contre la cherté du
blé» (Rattazzi et son temps, II, p. 169).
440 Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica. Partiti non ce ne
sono. Le frazioni in cui si divide la Camera non esprimono che il
regionalismo che informa di sé i sedicenti partiti oppure si
fondano su distinzioni che non hanno radice nel paese, ma nella
ristrettissima classe politica. La Destra si formò,
com'è noto, e raccolse, fino al 1866, anche parecchi
rivoluzionari (d'altronde l'opera governativa della Destra fino al
'66 fu squisitamente rivoluzionaria); ora è rimasta
cosí, un amalgama di gente diversa, che si fraziona dietro a
nomi o a indirizzi contingenti. La Sinistra è la minoranza
del primo Parlamento italiano e il risultato del malcontento
espresso dalle elezioni del '65 e del '67, finora senza progresso
positivo. Ora si va un po' costituendo, ma manca di una Destra
oppositrice chiara. Per cui non riesce a distinguer chiaramente il
suo progresso dai molti espressi da Destra e si perde finora in
agguati e scaramucce. Niente di impossibile che, se la Sinistra
riuscisse a esprimere un progresso accettabile, divenisse un giorno
il partito conservatore. I centri sono formazione esclusivamente
parlamentare e contingente. V'è poi l'estrema Sinistra,
composta dagli irreconciliabili di Sinistra e dai prodotti del
malcontento.
441 Fra essi Garibaldi.
442 Bisognerà studiare a fondo la genesi dei partiti politici
in Italia. Jacini (Pensieri sulla politica italiana), distingue due
periodi; uno dal 1860 al 1866 (partiti concordi nel volere il
completamento dell'unità e in esso assorbiti; differenze fra
di loro solo di metodo); l'altro dopo il '66 in cui ogni politica
è possibile e sbocciano i programmi. (Io credo che questo
secondo periodo debba spostarsi a dopo il 1870).
443 Sulla necessità dei partiti, che sian vivi e robusti, per
la prosperità delle istituzioni, vedi le parole di Crispi, in
morte di Rattazzi, alla Camera, 5 giugno 1873.
444 Anzi, eran convinti d'esser nel fango fino agli occhi! Scriveva
bene Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 58, che se gli
italiani viaggiassero di piú, sarebbero stati meno numerosi,
certo, i seguaci del primato giobertiano, «ma è anche
certo che oggi sarebbero assai meno frequenti coloro che si
abbandonano all'avvilimento, supponendo altrove cammini ottimamente
tutto ciò che appare loro inappuntabile, soltanto
perché veduto da lontano...»
A leggere le discussioni alla Camera e le confessioni degli stessi
uomini di governo, pare sempre che le cose vadano male! Rattazzi,
1871 (o 1872?) dice alla Camera che in dieci anni si sono spesi
tredici miliardi «et nous n'avons encore une armée
solide, ni marine, ni sécurité publique, ni
frontières en état de défense, ni surtout
d'écoles... Personne en Europe ne nous considère comme
une grande puissance. Nous n'avons presque pas de chemins de fer.
Nous ne sommes pas au niveau des autres nations européennes,
pas plus qu'au niveau des besoins économiques de la vie
nationale. Notre magistrature est d'une infériorité
intellectuelle et morale déplorable. L'Autriche nous a battus
sur mer et sur terre. Nous n'aurions pas été en
état d'aller au secours de la France...» (Rattazzi et
son temps, II, pp. 506-7).
445 Agli operai italiani, in «Roma del popolo», 13
luglio 1871.
446 Lettera del 9 novembre: Briefe an Sorge, Dietz, Stuttgart 1909,
p. 34.
447 Marx, L'Alleanza della democrazia sociale e l'Associazione
Internazionale dei Lavoratori; sta in Opere di Marx,
«Avanti!», Milano 1901, vol. II, pp. 117-19.
448 Da «L'Alleanza» (Bologna), 6 aprile 1872.
449 G. C. Abba, Cose garibaldine, Società Editrice Nazionale,
Torino 1905.
450 Guillaume, L'Internationale. Documents et souvenirs, 4 voll.,
Paris 1905-907, vol. III, pp. 21-22.
451 «Rivendicazione», Forlí, 4 maggio 1889.
452 Ivi, 25 maggio 1889.
453 Ivi, 28 febbraio 1891.
454 Vita di Mussolini cit., pp. 319-20.
455 Ibid., p. 164.
456 Ibid., p. 102.
457 «Noi non siamo della scuola marxista perché
anarchici sin dal 1871», scrive «La
Rivendicazione» il 12 novembre 1887; per gli articoli del
Malatesta, cfr. ad esempio, i nn. del 21 febbraio, 18 marzo, 11
aprile, 23 maggio 1891.
458 Cfr. «La Plebe», Lodi, 24 dicembre 1882:
«Ammiratori dei forti e generosi caratteri, dinanzi al
cadavere di G. Oberdan ci scopriamo reverenti il capo e pensiamo con
dolore e nausea a quell'Italia redenta...» «La
Rivendicazione», 23 dicembre 1886: «Noi socialisti, noi
gli abolitori della Patria, sapemmo combattere, ancora sedicenni,
per l'intangibilità di essa; noi traditori saremmo al nostro
posto domani, se qualche tiranno volesse conquistare la terra ove
viviamo». Cfr. anche ivi 5 e 19 febbraio 1887, 25 giugno 1887.
459 Il II volume (che conduce la biografia fino a tutto il 1909) mi
giunge mentre correggo le bozze, ma non vi sono che frettolosi cenni
sulle ultime vicende di Alessandro Mussolini.