Pierre-Joseph Proudhon
Critica della proprietà e dello Stato
a cura di Giampietro N. Berti
elèuthera
© antologico 2009 elèuthera
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Progetto grafico di Riccardo Falcinelli
Indice
Introduzione
Nota bio-bibliografica
capitolo primo
Critica della proprietà
capitolo secondo
Critica dello Stato
capitolo terzo
Critica del comunismo
capitolo quarto
La giustizia come equilibrio
capitolo quinto
Autorità e libertà
capitolo sesto
L’associazione degli uguali
capitolo settimo
Il nuovo contratto sociale
capitolo ottavo
Il federalismo
Introduzione
La chiave del pensiero proudhoniano, ciò che ne costituisce al tempo
stesso l’originalità e l’unità, non si trova in un apriorismo
intellettuale o in un dogma metafisico, ma scaturisce dall’analisi
dell’esistente inteso nella sua evidenza primordiale, dalla
constatazione sociologica del suo palese pluralismo: il mondo
morale, come il mondo fisico, riposano su una pluralità di elementi
irriducibili e antagonisti. E del pluralismo occorre tener conto in
ogni costruzione economica, in ogni concezione filosofica, in ogni
metodo pedagogico, perché questa è la dinamica incessante, di
composizione e scomposizione, della realtà, questa è la sua tensione
permanente e la linfa vitale della libertà. Solo riconoscendo questo
pluralismo organico nella realtà dei fatti e della società, sarà
possibile passare a un pluralismo organizzatore come metodo di
pensiero e tecnica di azione, come fattore di equilibrio delle
forze.
Si delinea così in modo inequivocabile il fondamento teorico del suo
anarchismo, ossia un relativismo pluralistico che può essere
considerato senza alcun dubbio la chiave interpretativa di tutto il
suo pensiero, di tutta la sua dottrina. Questo relativismo
pluralistico poggia anch’esso sull’idea centrale che la scienza e la
libertà sono infinite, per cui ogni pretesa di conoscenza integrale
come ogni pretesa di risoluzione definitiva si mostrano fasulle sul
piano scientifico e totalitarie sul piano politico. Occorre invece
un grande realismo alimentato dalla consapevolezza della precarietà,
della provvisorietà e della relatività di ogni conoscenza umana*.
Per Proudhon il problema fondamentale della conoscenza risiede nella
difficoltà che l’uomo ha di abbracciare e di comprendere la
simultaneità degli innumerevoli fattori che intervengono nello
svolgimento della realtà. Per progredire, la scienza ha bisogno di
concettualizzazioni, di schematizzazioni, di ordine, di precisione,
ma nello stesso tempo ogni fissità pregiudica l’avanzata stessa del
sapere, convertendolo da una ricerca «aperta» a una forma chiusa.
La scienza rappresenta di fatto una lotta contro ogni forma di
arbitrio e, in quanto tale, non può che essere fondata
obiettivamente; tuttavia questa razionalità, che deve essere il
fondamento costante della ricerca, non può pretendere di essere
esaustiva perché non esiste la possibilità di una totale
razionalizzazione della realtà. Proudhon riconosce dei limiti alla
conoscenza umana, nel senso che essa può spiegare il rapporto tra le
cose, ma non può dare ragione e spiegazione della natura ultima dei
fenomeni. Si precisa così il senso del suo problematicismo, tutto
centrato sull’idea che il progresso scientifico si identifichi con
la consapevolezza dell’impossibilità di pervenire a soluzioni
integrali. L’esperienza umana non può risolversi in dati elementari
prestabiliti. Bisogna dunque riconoscere fino in fondo la
limitatezza dell’uomo e perciò la sua impossibilità a risolvere
definitivamente ogni problema.
Questa consapevolezza fa di Proudhon un teorico avvertito e
disincantato del socialismo, perché lo pone lontano da ogni sogno
utopistico di rigenerazione totale e di metamorfosi antropologica.
Diventa dunque comprensibile la sua critica alla dialettica di
Hegel. Mentre questi definisce la realtà nella forma triadica di una
tesi e di un’antitesi, che si risolvono in una sintesi superiore,
Proudhon afferma che proprio le opposizioni e le antinomie sono la
struttura stessa del reale e che l’antinomia non si risolve. Il
sistema hegeliano, secondo Proudhon, è un sistema precostituito,
perché invece di attendere i fatti li anticipa; di conseguenza, la
sua sintesi è del tutto fantastica e arbitraria. Insomma la sintesi,
afferma Proudhon, non distrugge realmente ma solo formalmente la
tesi e l’antitesi ed essa può farsi valere solo trasformandosi in
una volontà egemonica di potere. Rispetto alla dialettica hegeliana,
quella di Proudhon si specifica come un metodo di analisi dei
rapporti, una ricerca estremamente sottile e sfumata delle leggi di
composizione e combinazione dei fattori della realtà. In questo
senso, essa tende a essere un pluralismo sociologico sempre più
realistico; occorre non tanto inventare una logica, una idea sia
pure rivoluzionaria e libertaria da imporre con forza alla realtà,
ma scoprire le leggi proprie della società in modo da restituire a
questa la sua autonomia, persa con la fissazione istituzionale della
ripetitività autoritaria.
Si tratta dunque di un metodo fortemente empirico che consente
all’osservatore di seguire le infinite composizioni e scomposizioni
della realtà, di aderire al movimento reale delle cose e del loro
svolgimento. L’ostilità di Proudhon verso tutti gli a priori lo
spinge sempre più a cercare una metodologia capace di intendere
specificamente il movimento stesso della realtà nel suo farsi,
«colto, per così dire, sul fatto», in una ricerca incessante,
essendo indefinito lo sviluppo stesso della società. Ecco perché la
ricerca proudhoniana è costituzionalmente una ricerca «aperta», per
sua struttura rivedibile e correggibile, non dogmatica,
intrinsecamente libertaria. Non si tratta, beninteso, di una
filosofia eclettica, ma di una concezione sociale che si prefigge di
essere scientifica perché tende a riflettere l’infinita complessità
della società per liberarla da ogni soffocante sintesi unitaria;
perché si sostanzia di un metodo che non esita a cercare e
accogliere la diversità in tutti i suoi dettagli. In conclusione, la
struttura antinomica della società, essendo espressione
dell’opposizione reale delle cose concrete, dimostra di per sé
l’impossibilità di ogni sintesi a priori e di conseguenza
l’impotenza oggettiva di ogni regime volto alla loro forzata
mediazione. E qui infatti sta tutto lo sforzo teorico di Proudhon:
nel ricercare l’equilibrio dei contrari senza far scomparire la
contraddizione, linfa vitale della società e della libertà.
Si spiega quindi perché non vi è in Proudhon un’assolutizzazione del
suo stesso metodo. In coerenza con i propri presupposti, il metodo
di Proudhon è nei suoi principi anti-assolutistico, in quanto la
filosofia viene concepita soltanto come metodologia, cioè come
logica delle scienze. Secondo Proudhon è necessario vedere quale
«struttura» sia sottesa alla legge delle antinomie, quale
interazione reciproca le colleghi, quale totalità le comprenda.
Alla base della sociologia elaborata dal pensatore francese sta il
concetto del lavoro come azione intelligente dell’uomo sulla materia
e come forza plastica della società. Questo concetto è formulato da
Proudhon in modo assai preciso: il lavoro – campo di osservazione
dell’economia politica considerato: 1. soggettivamente nei
lavoratori; 2. obiettivamente nella produzione; 3. sinteticamente
nella distribuzione degli impieghi e nella ripartizione dei salari;
4. storicamente nelle sue determinazioni scientifiche – è la forza
plastica della società, l’idea tipo che determina le diverse fasi
della sua crescita e, di seguito, di tutto il suo organismo sia
interno sia esterno. Così inteso, il concetto di lavoro è il
concetto tipo della «serie», ciò che, in un certo senso, unifica
tutte le serie perché è proprio il lavoro che si esprime nelle forme
infinite del materialismo, dell’umanesimo, dello spiritualismo, del
volontarismo e del personalismo, sia individuale sia collettivo. Il
lavoro è dunque l’energia sociale per eccellenza, la forza specifica
che crea e regge la società. Realtà né materiale né spirituale, esso
è una forza «ideo-realista» che comprende indissolubilmente, nel suo
processo creativo, idea e fatto, materia e spirito, uomo e società.
Tutta la socio-economia proudhoniana, dunque, vuol fondarsi come
scienza del lavoro umano, quale che sia la sua determinazione
concreta. Il lavoro si sviluppa attraverso la duplice legge della
comunità d’azione e della sua divisione produttiva, perché si
esplicita da un lato come processo di integrazione sociale, dando
così alla società la sua unità e la sua coerenza collettiva,
dall’altro come processo di differenziazione sociale, in quanto
implica la diversificazione dei produttori e la specificazione delle
funzioni. Per Proudhon, quindi, l’economia politica non è che un
sapere particolare di questa scienza del lavoro.
Ma questo concetto di lavoro non può che rimandare immediatamente al
concetto di lavoro collettivo, il quale rimanda a sua volta a quello
di società, perché se è il lavoro ciò che produce tutti gli elementi
della ricchezza, è la società o l’uomo collettivo che crea tale
possibilità. Il lavoro collettivo risulta dunque non solamente una
semplice somma di lavori individuali, ma l’espressione dell’attività
di un essere sociale avente una sua specifica realtà con proprie
leggi. Secondo Proudhon, per il vero economista la società è un
essere vivente dotato di una intelligenza e di un’attività proprie,
retta da leggi speciali che l’osservazione può scoprire, e la cui
esistenza si manifesta non sotto una forma fisica, ma per l’insieme
armonico dell’intima solidarietà di tutti i suoi membri. Così, nel
seno stesso del lavoro, è la società che si evidenzia in tutte le
azioni del lavoro umano; è questo il motivo per cui il campo di
osservazione della scienza economica deve essere la società.
La scoperta della società come un essere collettivo reale, autonomo
e immanente a tutti i suoi membri comporta la scoperta immediata dei
suoi due attributi fondamentali: la ragione collettiva e la forza
collettiva. Queste due nozioni sociologiche, sebbene non siano
sempre esplicitate in modo chiaro, esauriente e continuativo,
rimandano però sufficientemente a un comune concetto che si può così
riassumere: la riunione delle unità individuali genera una realtà
originale che è qualcosa di più e d’altro rispetto alla loro somma.
La forza collettiva è l’elemento puramente sensibile della società,
la sua manifestazione in movimento, l’atto attraverso cui il sociale
palesa la sua esistenza, mentre la ragione collettiva è al contempo
una comunità di coscienza e di intelligenza, cioè una ragione
rinnovabile nel processo storico.
Alla base di entrambe queste nozioni vi è l’idea fondamentale
che l’uguaglianza e la giustizia sociale non sono solo un dover
essere, ma un fatto oggettivo, sia pur compresso e deformato dalla
società gerarchica e sfruttatrice. La creazione di un ordine sociale
positivo non deve risultare da una costruzione arbitraria imposta
con la forza e giustificata a posteriori dai legislatori, ma deve
essere il prodotto dell’applicazione delle leggi sociologiche che
descrivono l’organizzazione razionale della società intesa come
lavoratore collettivo. L’autentico ordine sociale, dunque, non può
che essere generato dalla presa di coscienza che la società attua di
se stessa, attraverso un rapporto spontaneo e naturale, scoperto e
applicato. L’ordine, in altre parole, non può che prodursi
nell’umanità per mezzo della conoscenza che l’essere collettivo
acquista delle proprie leggi.
Con la nozione di forza collettiva Proudhon precisa che gli
individui, indipendentemente dalle loro capacità e attitudini,
vivendo in società ricevono sempre di più di quanto danno; in altri
termini l’uomo, nel momento in cui si inserisce nell’attività
produttiva e partecipa a un compito comune, diventa immediatamente
debitore verso la società di cui fa parte. Questo perché qualsiasi
impresa produttiva e sociale, che riunisca gli sforzi individuali
altrimenti separati, ha la capacità di generare, proprio attraverso
la coesione dovuta al lavoro collettivo, una potenza economica e
sociale essenzialmente diversa dalla somma, anche infinita, degli
sforzi individuali divisi e non concomitanti.
Con la nozione di ragione collettiva Proudhon aggiunge che gli
individui non possono associarsi veramente che alla sola condizione
che si realizzi tra loro uno scambio fondato sull’uguaglianza.
Infatti lo scambio tra non uguali, generando disuguaglianza, provoca
continui conflitti sociali, rendendo impossibile la piena
realizzazione della socialità umana. La ragione collettiva si
estrinseca dunque in questo principio dello scambio paritario
fondato su una ragione necessaria, pena la fine della società
stessa. Poiché risulta da un gioco complesso della combinazione
sociale, essa si presenta di volta in volta come intelligenza,
giudizio, coscienza e volontà. La ragione collettiva non scaturisce
dalla somma delle ragioni individuali sfocianti in uno stesso
assoluto trascendente, che implica la rinuncia alla propria
autonomia primitiva, ma dai rapporti contraddittori e liberi che
permettono di relativizzare l’assoluto delle ragioni individuali.
Attraverso questo incontro e scontro vengono superate le
soggettività rispettive delle ragioni individuali e nasce allora
questa ragione obiettiva che è la ragione sociale. Così la ragione
collettiva risulta dall’antagonismo delle ragioni particolari e
dalla loro composizione attraverso le opposizioni, allo stesso modo
in cui la potenza pubblica risulta dal concorso delle forze
individuali concorrenti fra loro. Essa deve procedere per
«equazioni», negando ogni sistema precostituito.
Ora, se la forza collettiva e la ragione collettiva sono gli
attributi della società intesa come essere collettivo, come
lavoratore collettivo, le leggi di questa stessa società devono
essere enucleate considerando tali attributi. Precisamente, la forza
collettiva e la ragione collettiva rimandano al concetto di
divisione e di composizione del lavoro. La divisione del lavoro è
alla base della forza collettiva, la composizione del lavoro sta a
fondamento della ragione collettiva. Da questo punto di vista, la
divisione del lavoro si rivela nell’antagonismo competitivo, che è
il segno della libertà del lavoratore, mentre la legge di
composizione del lavoro si manifesta nella «serie», vale a dire
nell’equilibrio dinamico degli elementi irriducibili, e al tempo
stesso solidali, che la compongono. In altri termini la legge di
divisione, o specificazione della funzione, rivela la legge di
competizione e antagonismo che anima ogni essere individuale o
collettivo, mentre la legge di composizione o di «serie» è la legge
che sta alla base dell’associazione, cioè la legge della solidarietà
che innerva ogni essere individuale e collettivo spingendolo
all’unione e all’interdipendenza. Perciò antagonismo e solidarietà,
divisione e composizione formano una coppia antinomica irriducibile.
Così la divisione delle funzioni e la composizione della società si
deducono naturalmente, implicando una immediata e irreversibile
interpretazione ideologica libertaria. Infatti Proudhon,
considerando contemporaneamente divisione e composizione come una
coppia antinomica e indissolubile, si pone oltre l’individualismo
classico del liberalismo e oltre l’universo tradizionale del
comunismo, per arrivare a una fondazione della società che non è
l’assoggettamento dell’individuo alla collettività, né la
subordinazione della collettività all’individuo. Il primo, infatti,
pretende di liberare l’uomo isolandolo e astraendolo dalla società,
il secondo considera l’uomo come una semplice unità sottomessa a una
collettività superiore, la quale, schiacciando la personalità,
sfocia nel dispotismo. Contro la logica del comunismo, che è la
logica dell’universalismo, e contro la logica del liberalismo, che è
la logica del nominalismo, Proudhon pone la logica del pluralismo
che contempla un ordine autonomo e immanente, al quale partecipano
tutte le persone individualmente come elementi indispensabili e
irriducibili di questo insieme.
Si delinea così il suo tentativo sintetizzatore volto a superare
l’astratta contrapposizione fra individuo e società. La sua analisi,
focalizzandosi sulle connessioni oggettive che legano l’individuo
alla società, vuol sottolineare la peculiarità dell’uno e
dell’altra, pur nella loro indissolubile interdipendenza. Essa
afferma da una parte che l’individuo è il criterio dell’ordine
sociale, mentre dall’altra ribadisce la specificità del sociale
costituito da regole molto diverse da quelle che si ha l’abitudine
di chiamare senso comune. Questa dialettica fra individuo e società
è perciò circolare, nel senso che per conoscere l’uomo bisogna
studiare la società, per conoscere la società bisogna studiare
l’uomo, vale a dire che l’uomo e la società si servono
reciprocamente da soggetto e da oggetto. In tal modo si sfugge
all’unicismo comunista e liberale, che tende ad assorbire l’uno
nell’altro a seconda del proprio punto di vista.
Nel riconoscimento dell’impossibilità da parte della società di
assorbire l’individuo e da parte dell’individuo di assorbire la
società, deve risiedere per Proudhon tutta la ricerca della libertà.
Ecco perché la forza collettiva non deve essere considerata come una
potenza obiettiva che si impone agli individui, né la ragione
collettiva come una ragione definitivamente costituita, come un
dogma. Sono le classi dominanti, invece, che utilizzano a proprio
vantaggio l’insieme di questa energia sociale, trasformando la forza
collettiva in forza coercitiva, e la ragione collettiva in ragione
assolutistica. Il monopolio economico e il monopolio politico, il
capitalismo e lo Stato, nascono appunto da questa generale
alienazione.
Questo realismo, teso a cogliere l’infinita pluralità della vita
comunitaria, ha il compito di evidenziare la realtà obiettiva delle
leggi socio-economiche, affinché da queste leggi il socialismo possa
partire per realizzare i propri scopi. Perché qui sta il punto: il
socialismo può realizzarsi solo mantenendo l’antinomia.
La conservazione dell’antinomia, quale struttura unificante di tutto
il reale, comporta il mantenimento di tutta la realtà sociale intesa
come un insieme multiforme e insopprimibile di forze collettive. In
altri termini, la pluralità delle forze collettive è il segno
tangibile della conservazione antinomica. Pertanto, solo una scienza
sociale capace di cogliere tale insieme può costituire la base
razionalmente scientifica del socialismo. Una scienza sociale che
faccia convergere su di sé filosofia ed economia, storia e
sociologia, politica e morale. Solo così si può cogliere la società
nella sua immanenza, cioè nell’insieme delle sue successive
manifestazioni. Ne deriva, di conseguenza, che la scienza sociale è
in realtà un insieme di conoscenze interdisciplinari che si
prefiggono di superare ogni approccio unilaterale. Occorre dunque
fondere in un unico metro analitico l’economia e la sociologia,
rifiutandosi di stabilire un nesso di causalità tra la struttura
economica e la struttura sociale, per enucleare invece l’immagine di
un sistema economicosociale.
Con questa fondamentale impostazione, volta a darsi una scienza
integrale, Proudhon prende le distanze, ancora una volta, sia dal
liberismo economico che dal socialismo autoritario. Il liberismo
economico afferma infatti che gli antagonismi sono ineluttabili e
che non vi è altra soluzione che la loro accettazione, precludendosi
così la reale comprensione del significato delle antinomie. Il
socialismo autoritario sostiene che in una comunità fraterna tutti i
conflitti scompariranno. L’uno e l’altro concordano nel negare la
formazione di una scienza sociale che abbia come proprio oggetto le
leggi immanenti della società: anche il socialismo autoritario – che
pure dichiara di voler combattere il liberalismo – dimostra di non
essere capace di superare l’orizzonte dell’economia politica, e
questo plagio perpetuo è la condanna irrevocabile di entrambi.
Occorre invece ripensare tutte le forme dell’attività umana secondo
un criterio di equivalenza e di interdipendenza. Ogni manifestazione
dell’uomo risulta infatti allo stesso titolo prodotto e produttrice
della realtà sociale in atto, perché partecipa alla totalità
espressa in ogni forza collettiva e perché, in egual misura, è
creatrice di questo fenomeno.
Nella trasformazione sociale, e più in generale nel divenire
incessante della realtà, tutte le forme dell’attività umana si
presentano quindi in modo simultaneo perché nella pratica sono
inseparabili e autonome, giacché nessuna forma deriva
gerarchicamente da un’altra. Questa possibilità di pensare la realtà
sociale come totalità dialettica, mai completamente risolvibile,
come simultaneità attraversata da antinomie e contraddizioni, e non
da schematismi gerarchici, consente quindi di stringere in un unico
nesso coscienza e azione, idea e fatto, ragione e pratica, realtà e
progettazione. Contro ogni gnoseologia che legga la realtà secondo
una chiave interpretativa di tipo gerarchico, Proudhon sottolinea la
costante mobilità dell’azione sociale che penetra l’insieme dei
livelli materiali e intellettuali prodotti dalla società;
restituisce intera l’immagine della realtà perché colta nella sua
multiformità e pluridimensionalità; consente di ipotizzare, infine,
con questa teoria che egli definisce ideo-realista, l’esistenza di
una forma ordinata, di una idea, espressa dalla totalità delle
relazioni intelligibili del reale, pur nella loro perenne
contraddittorietà.
Proudhon intende ripensare tutta la realtà sociale nella sua
attualità categoriale, in ciò che rimane fisso attraverso il tempo e
lo spazio, e questo è possibile, a suo giudizio, solo pensando
l’azione sociale come una identità fra pratica e teoria. L’esempio
dello scambio, rapporto fondamentale che caratterizza la natura
stessa del sociale, definisce chiaramente tale identità. In esso,
afferma Proudhon, non si può opporre una idea a una realtà, né si
può ricercare un rapporto di successione fra l’una e l’altra perché
lo scambio è al tempo stesso una pratica e un rapporto astratto, una
realtà e una idea. Nello scambio, l’idea è identica al fatto,
l’azione è l’idea.
In questa eccessiva tendenza di Proudhon al razionalismo non
si deve scorgere un suo inconsapevole platonismo (le idee si
esprimono nella realtà), né un suo inconsapevole hegelismo
(l’identità del reale e del razionale). Proudhon ha voluto al
contrario denunciare ogni idealismo, dimostrando come tutti i
sistemi filosofici debbano avere la loro radice e la loro ragion
d’essere nella società stessa, mentre la teoria dell’identità del
reale e dell’ideale non ha per lui lo scopo di giustificare il
presente, ma di scoprirne e denunciarne le contraddizioni.
L’analisi proudhoniana della forza collettiva vuol evidenziare
l’immanenza in ogni azione sociale. In virtù di questo fattore, che
si sprigiona spontaneamente dalla vita associata, il sociale si
rende effettivamente autonomo rispetto a qualsiasi potere esterno:
al di sotto dell’apparato governativo, all’ombra delle istituzioni
politiche, esso tende a produrre lentamente il suo organismo e a
costituire un ordine nuovo, espressione della sua vitalità e della
sua autonomia. La società, per così dire, cammina da sola. Ogni
potere politico, vivendo dell’approvazione di questa forza sociale,
rispetto alla quale è tuttavia superfluo, non può perciò che
instaurare con questa collettività un rapporto di contrapposizione,
e in questo contrasto si ritrova, per Proudhon, lo stesso
antagonismo che lega lo spontaneo e il meccanico, il mobile e
l’immobile, la creazione e la conservazione. Precisamente, si ripete
qui ciò che avviene fra capitale e lavoro perché, se nella società
economica la forza collettiva nasce dai rapporti di cooperazione,
nella società politica sorge dai rapporti di commutazione, di
relazione, di scambio, moltiplicandosi in funzione di questi. Così
come esiste un plusvalore economico, vi è pure un plusvalore
statale, nel senso di una usurpazione permanente della potenza
sociale espressa dall’essere collettivo della società. Si può dire
pertanto che sfruttare e governare sono la stessa cosa. La politica
è dunque, in rapporto alla vita sociale, ciò che il capitale è in
relazione al lavoro: un’alienazione della forza collettiva; lo
Stato, in quanto rappresentazione simbolica esterna della forza
sociale, ne è anche, per ciò stesso, la negazione, una sottrazione
di vita e di esistenza.
Come si può notare, le categorie dell’alienazione e della
trascendenza, già esplicitate da Feuerbach e Marx, tornano qui a
innervare la critica proudhoniana. Specificamente, esse si fondono
in una stretta analogia: se infatti per Feuerbach la trascendenza si
dà nel rapporto esistenziale tra l’uomo e Dio, e se per Marx
l’alienazione si estrinseca nella sola relazione tra l’essere
produttore e la produzione stessa, per Proudhon questi due piani –
dell’esistenza e del sociale nella forma della produzione – slittano
l’uno sull’altro, identificandosi nella comune critica rivolta alla
trascendenza sotto qualunque forma questa si manifesti.
La contrapposizione fra politico e sociale assume senz’altro la
forma dello scontro fra autorità e libertà; date queste radicali
premesse, Proudhon è conseguentemente contrario a qualsiasi
rivoluzione di tipo politico, tale cioè da interessare soltanto il
potere. Questo genere di rivoluzione, ai fini di un vero cambiamento
sociale, è assolutamente fasullo, apparente, proprio perché fittizia
risulta la dimensione stessa del politico, fondata com’è su una
esistenza presa a prestito dal sociale.
Ogni rivoluzione politica non può che essere una rivoluzione
alienante perché ripete la dinamica, sempre identica a se stessa,
del rapporto parassitario fra la società globale e lo Stato, tra la
forza collettiva espressa dalla società e l’appropriazione generale
operata dallo Stato. Inoltre, poiché il politico deriva
dall’alienazione posta in atto a tutti i livelli della vita
collettiva, e non solo quindi dall’alienazione economica, pur se
questa ha una grande importanza, ecco che la rivoluzione politica
finisce per essere proprio la forma massima dell’alienazione umana.
Comprendere la specificità del politico, senza intenderlo come
riducibile a mero riflesso delle contraddizioni economiche,
significa leggere contemporaneamente la logica del potere, sia nella
sua forma generale, sia in quella particolare. Nella sua forma
generale perché lo Stato, espressione suprema della politica,
comprende il complesso più potente delle articolazioni autoritarie
della società gerarchica: magistratura, polizia, finanze,
educazione, esercito, burocrazia, informazione; nella sua forma
particolare, perché il modello del politico si manifesta per
definizione nell’esercizio del potere: l’autorità sta al governo
come il pensiero alla parola, l’idea al fatto, l’anima al corpo. Se
l’autorità è il principio del governo, il governo è l’esercizio
dell’autorità. Abolire l’uno o l’altra, se l’abolizione è reale,
significa distruggerli tutti e due nello stesso tempo; per lo stesso
motivo, conservare l’uno o l’altra, se la conservazione è effettiva,
significa mantenerli entrambi.
Ciò permette a Proudhon di dimostrare che non esiste una scienza
della politica che non sia in realtà una scienza del potere, poiché
le leggi della politica e quelle del potere sono di eguale natura,
sono autonome e non rispondono a volontà ideologiche. Dovunque
vengano applicate si evidenziano come leggi rispondenti a una logica
tutta propria, refrattaria ai contesti socio-economici, anche se ne
assimilano la contestualità storica. Esse travolgono ogni intenzione
positiva di riforma, nel senso che non sono gli uomini a cambiare la
natura del potere, ma questo a cambiare quelli. E ciò perché il
potere è una vera proprietà, un diritto di usare e di abusare, un
mezzo di sfruttamento dell’uomo attraverso la forza. Così il
socialismo statalista pretende di combattere il capitalismo con una
nuova alienazione, quella dello Stato; di lottare contro l’abuso con
un ulteriore abuso; di abbattere un assolutismo con un altro
assolutismo. Paradossalmente, è proprio lo Stato a essere il Dio
adorato dal socialismo autoritario, un feticcio nato con il
dogmatismo giacobino e continuato con il governamentalismo
democratico, radicale e socialista.
Proudhon, approfondendo la sua critica allo Stato, nota perciò con
acume come la classe politica dei democratici, dei socialisti
governativi e dei rivoluzionari si contraddistingua per una volontà
di appropriarsi del potere politico che, pur essendo più sottile e
meno apparente della volontà di arricchirsi, è tuttavia equivalente
e similare al gusto del potere economico e della proprietà tipica
dei capitalisti. Contrariamente dunque a tutte le illusioni dei
partiti e allo spirito giacobino, Proudhon mette in luce il
carattere essenzialmente controrivoluzionario della politica perché
essa si esprime sempre nella logica del potere. Egli segna una
rottura con tutte le teorie politiche del passato e con le
concezioni falsamente rivoluzionarie dei democratici, incapaci,
tutte, di prescindere dal pregiudizio statalistico. Una rottura che
conduce a questa lapidaria definizione della rivoluzione: «Nessuna
autorità, nessun governo, nemmeno popolare: la rivoluzione sta in
questo».
La contrapposizione esistente fra Stato e società, fra il politico e
l’economico si inscrive nella più generale contrapposizione fra
creazione e ripetizione, pluralità e unidimensionalità. Perciò solo
nella società economica dei produttori, che si contrappongono
frontalmente alla società politica dei dominatori, è possibile
rintracciare e svelare quella dimensione creativa, spontanea e
pluralista dell’agire sociale quale segno inconfondibile
dell’emancipazione umana; solo all’interno di una teoria e di una
pratica economica si possono correttamente trovare le ragioni e gli
scopi di una teoria e di una pratica rivoluzionaria. La spontaneità,
la creatività e la pluridimensionalità, proprie dell’azione sociale,
della prassi collettiva dell’emancipazione umana, sono però solo le
condizioni necessarie, ma non esaustive, per il raggiungimento della
libertà. La società economica dei produttori può infatti dimostrare
la propria capacità di autonomia da ogni tutela esterna dello Stato
e del politico, senza per questo abolire il sistema del dominio.
Radicalmente opposta alla visione giacobina del colpo di mano, che
si è dimostrata essere solo una operazione di potere e quindi non ha
prodotto nessun reale cambiamento sul piano antropologico, la
rivoluzione prospettata da Proudhon vuol determinare invece una
trasformazione organica e profonda. In questo senso si precisa il
suo sforzo teorico rispetto al concetto di storia. Questa deve
essere intesa come reale svolgimento progressivo dell’uomo nelle sue
capacità di autonomia rispetto al mondo e alla natura, ma solo nella
misura in cui tale svolgimento comporta la consapevolezza dei limiti
stessi del cambiamento. La concezione realistica di Proudhon non
lascia spazio a nessuna visione millenaristica e provvidenzialistica
del cambiamento concepito come metamorfosi assoluta. La storia non
contiene in sé alcun fine, né è determinata da alcun significato.
Non esiste quindi una soluzione definitiva dei problemi sociali, in
quanto essi si rinnovano sempre proprio perché sempre vi è
incessante mutamento storico.
Con queste puntualizzazioni il pensatore francese elabora il
concetto anarchico di rivoluzione, definibile perciò come il
riconoscimento dello svolgimento incessante e infinito della storia
per il sovvertimento e la distruzione dell’assoluto. Ciò significa,
in altri termini, la consapevolezza della necessità di una duplice
azione rivoluzionaria, tesa da un lato a favorire il mutamento
storico perché questo, nel suo divenire, porta la società a cambiare
perpetuamente di forma e perciò a dissolvere continuamente ogni
fissazione e ripetizione; dall’altro lato a correggere, se occorre,
questo stesso mutamento perché può essere a sua volta portatore di
nuovi assoluti. Il travestimento dell’assoluto è infatti
l’espressione che Proudhon usa per indicare la continua possibilità
che si formi, all’interno di qualsiasi moto riformatore, un nuovo e
più agguerrito assolutismo. Ecco perché ogni dottrina che aspira
segretamente alla prepotenza e alla immutabilità, che tende a
eternizzarsi, che si vanta di dare l’ultima formula della libertà e
della ragione, che nasconde nelle pieghe della sua dialettica
l’esclusione e l’intolleranza; che si afferma come verità in sé,
pura da ogni contaminazione, assoluta, eterna, come una religione, e
senza tollerare considerazioni di altro tipo, nega il movimento
dello spirito e della classificazione delle cose, è falsa e funesta
quanto è incapace di costruire. Contro i travestimenti
dell’assoluto, che comprendono anche le dottrine falsamente
rivoluzionarie, Proudhon propone perciò, da una parte, l’idea di
progresso come processus, movimento innato, essenziale, spontaneo,
incoercibile e indistruttibile, come movimento essenzialmente
storico, soggetto a progressioni, conversioni, evoluzioni e
metamorfosi. Dall’altra parte, propone una idea di progresso come
scopo, ideale, per tracciare in questa direzione la marcia della
libertà, affinché esso diventi la giustificazione dell’umanità da se
stessa sotto lo stimolo dell’ideale. In conclusione, la rivoluzione
non è la deduzione necessaria di una realtà oggettiva, ma è la
realizzazione della volontà umana, una impresa voluta dalla
coscienza emancipatrice dell’uomo: la libertà, secondo la
definizione rivoluzionaria, non è per niente la coscienza della
necessità, non è neppure la necessità dello spirito che si sviluppa,
che si conserva con la necessità della natura. È una forza
collettiva che comprende insieme la natura e lo spirito e che si
possiede, capace come tale di negare lo spirito, di opporsi alla
natura, di sottometterla, di disfarla e di disfarsi essa stessa. È
una forza che si crea, mediante l’ideale della giustizia, una
esistenza divina, il cui movimento è perciò superiore a quello della
natura e dello spirito e incommensurabile con l’uno e con l’altro.
Una rivoluzione così intesa implica, sul piano dell’azione, una
direttiva di fondo precisa: che vi sia la massima coerenza etica fra
il contenuto dei fini perseguiti e la natura dei mezzi usati. I
mezzi dell’azione devono essere dedotti dai fini che la rivoluzione
si propone, quelli della giustizia. È su questo rapporto di
deduzione tra fini e mezzi, dalla teoria alla prassi, che si fonda
la certezza che la prassi sia, essa stessa, la teoria realizzata.
Naturalmente, poiché i fini della rivoluzione libertaria ed
egualitaria sono la libertà e l’uguaglianza, dovranno essere
libertari ed egualitari anche i mezzi dell’azione. Solo così può
inscriversi l’obiettivo dell’azione nella prassi, l’atto
rivoluzionario annunciare la società futura. Ma qual è la classe
sociale capace di esprimere al contempo la consapevolezza della
propria forza, la volontà di liberazione e la propria capacità
politica di passare dalla spontaneità dell’azione alla libertà della
rivoluzione? Secondo Proudhon, le classi operaie (classi operaie e
non classe operaia perché egli allude, anarchicamente, a tutte le
masse sfruttate) sono le sole che possono effettuare la rivoluzione
sociale. Tuttavia ciò non avviene in virtù della contrapposizione
oggettiva fra capitale e lavoro; infatti questa contrapposizione,
sebbene sia la caratteristica centrale del sistema capitalista, è
pur sempre una delle tante della società gerarchica; inoltre non
esiste una legge deterministica che opponga le masse sfruttate agli
sfruttatori: la pluralità delle contraddizioni mostra infatti che i
cambiamenti storici non hanno e non possono avere esiti univoci
necessitanti, che infiniti fattori dinamici concorrono allo
svolgimento complessivo dell’evoluzione umana.
In realtà, la capacità politica delle classi operaie va cercata là
dove l’idea di emancipazione è da queste classi prodotta e
consapevolmente voluta. A questo proposito occorre che si
verifichino tre condizioni: che il soggetto abbia coscienza di se
stesso, della sua dignità, del suo valore, del posto che occupa
nella società, della funzione che adempie, degli uffici cui ha
diritto di aspirare, degli interessi che rappresenta o personifica;
che, come risultato di questa coscienza di se stesso, affermi la sua
idea, sappia cioè comprendere, esprimere con le parole, spiegare con
il ragionamento la legge della sua esistenza, nel principio suo e
nelle sue conseguenze; che da questa idea, infine, sappia dedurre
sempre conclusioni pratiche secondo le variabili contingenti.
Condizione essenziale della liberazione è dunque che le masse
sfruttate elaborino da se stesse l’idea della società da instaurare
e che pongano consapevolmente tale idea in rapporto alla loro azione
sociale. Diversamente, fino a quando si mostreranno incapaci di
esternare il loro progetto, fino a quando esse prenderanno a
prestito le idee di emancipazione da altri movimenti sociali, la
loro iniziativa storica non passerà mai dalla spontaneità alla
libertà.
Questa autonoma capacità di azione delle classi operaie esige la
loro completa separazione pratica e ideologica da ogni altra classe
sociale non oppressa e da tutto quel sistema di alienazioni che
costituisce la totalità strutturale della società gerarchica. Solo
con questa radicale separazione le masse sfruttate possono uscire da
ogni tutela politica, sociale, economica, culturale, ideologica,
psicologica, impegnandosi in un processo storico senza precedenti:
quello che le vedrà agire spontaneamente e liberamente da se stesse
e per se stesse, senza più niente sperare dalle altre classi sociali
né dai partiti politici costituiti né da qualsiasi setta di
rivoluzionari di professione.
La concezione proudhoniana della coerenza tra i fini e i mezzi, tra
gli obiettivi della libertà e dell’uguaglianza e gli strumenti
libertari ed egualitari della lotta sociale, implica dunque la
massima unità organica fra l’idea e l’azione rivoluzionaria da parte
dei soli lavoratori. Dunque non deve esserci una divisione fra la
coscienza del proletariato, rappresentato paradossalmente da un
corpo politico non proletario e anzi estraneo al proletariato (il
partito) e l’azione di questo stesso proletariato; tale separazione
è invece promossa e teorizzata da tutte le altre correnti
autoritarie che ritengono necessaria una guida politica delle masse
popolari.
Il protagonista rivoluzionario non è dunque un soggetto sociale
specifico o una specifica classe oppressa, ma l’insieme delle classi
sfruttate, che proprio nella contrapposizione tra politico ed
economico, tra Stato e società, si trovano unite organicamente tanto
sul terreno delle trasformazioni immediate, quanto, e
imprescindibilmente, su quello del cambiamento economico-sociale
radicale attraverso l’abolizione del potere politico. L’unica
rivoluzione capace di realizzare la libertà e l’uguaglianza è quella
che si pone come obiettivo primario lo sterminio del potere e della
politica; tale rivoluzione non può che essere una rivoluzione
economica. Ciò può avvenire solo se le masse lavoratrici,
appropriandosi in via diretta dei mezzi di produzione attraverso le
molteplici organizzazioni professionali, avviano e sviluppano una
vita sociale ed economica al di fuori e indipendentemente da quella
politica; se gestiscono e praticano rapporti liberi e diretti senza
alcuna mediazione istituzionale; se assolvono infine, in quanto
società economica, ai compiti precedentemente svolti dalla società
politica, al fine di rendere quest’ultima del tutto superflua.
Si tratta di concepire un sistema economico-sociale che, liberando
le forze del lavoro da ogni sistema di monopolio e di sfruttamento,
possa dare alle masse popolari la possibilità di appropriarsi in
modo egualitario delle ricchezze sociali, dividendole sia
collettivamente, sia individualmente. Così la proprietà sociale si
configura allo stesso tempo come il segno della progressiva
emancipazione acquisita e come il mezzo per attuarla. Perché essa
non degeneri in dispotismo e diventi veramente universale, Proudhon
concepisce una serie di garanzie quali sistemi regolativi e
correttori del suo progetto di società autogestita. Un sistema di
contrappesi, di continui e diversificati equilibri in grado di
attenuare al massimo le tentazioni prevaricatrici, mantenendo
nondimeno viva la forma sociale di una democrazia industriale di
tipo conflittuale e moderno. Tutto ciò, però, sempre sotto il segno
della libertà. L’uguaglianza si farà automaticamente, più
rapidamente e meglio con il lavoro e con l’economia e, soprattutto,
con l’esercizio universale della libertà.
Si delinea qui in modo incontrovertibile il riformismo proudhoniano,
un riformismo che non scade mai a un empirismo eclettico. Esso si
caratterizza altresì in un rifiuto della rivoluzione politica di
tipo violento e insurrezionale (da lui ritenuta assolutamente
inutile ai fini di una vera emancipazione popolare), che non deve
essere inteso come un ripiegamento rispetto agli obiettivi della
trasformazione sociale; questi ultimi, invero, devono rimanere
sempre i più profondi e i più vasti possibili. La fase di
transizione dalla società dello sfruttamento alla società
autogestita deve consistere nella progressiva realizzazione dei fini
nei mezzi di azione: se i fini sono la libertà e l’uguaglianza
allora anche i mezzi dovranno essere libertari ed egualitari.
L’umanità, per Proudhon, procede mediante approssimazioni: 1.
approssimazione all’uguaglianza delle fortune mediante l’educazione,
la divisione del lavoro e il libero sviluppo delle attitudini; 2.
approssimazione all’uguaglianza delle fortune mediante la libertà
commerciale e industriale; 3. approssimazione all’uguaglianza delle
imposte; 4. approssimazione all’anarchia; 5. approssimazione
all’a-religiosità o amisticismo; 6. progresso illimitato nella
scienza, nel diritto, nella libertà, nell’onore, nella giustizia.
I lavoratori devono mirare all’universalizzazione dei privilegi
goduti dalla borghesia; devono, cioè, universalizzare le sue
originarie libertà di classe, sorte inizialmente quali strumento di
dominio della borghesia stessa. Il compito dei lavoratori non è
combattere contro le incompiutezze di classe del liberalismo, per
far sorgere dalla classe proletaria un’altra libertà. Ciò è
semplicemente un non senso, dal momento che il significato autentico
della libertà sta nella sua universalità. Bisogna quindi conferire
un significato universale alla libertà, disgiungendola da ogni
reazionaria collocazione classista. Il socialismo è dunque il
superamento storico del liberalismo. È così che la rivoluzione
sociale realizza il suo compito: portare al suo termine finale
l’evoluzione politica della società risolvendola nella libertà e
nell’anarchia.
Ora, qual è la concezione politica più approssimata dell’anarchia?
Il federalismo, risponde Proudhon, ed è perciò qui che egli
focalizza la sua attenzione e la sua riflessione in modo
particolare. Il federalismo proudhoniano infatti – un federalismo
libertario – sa risolvere in una continua tensione di libertà i
termini, dati prima come teoricamente insopprimibili, della libertà
e dell’autorità. Il federalismo, cioè, è la realizzazione
storicamente possibile della libertà e dell’anarchia perché mantiene
i due principi di libertà e di autorità, risolvendoli in una
transazione che si dà come continua divisione e ricomposizione, come
continuo conflitto e perciò, oggettivamente, come continua tensione
di libertà. La libertà è la realizzazione di questa transazione, che
tende a spostare il peso dell’autorità a favore della libertà,
«essendo nella natura delle cose» che il principio di autorità sia
iniziatore mentre il principio di libertà determinante.
Di qui il concetto proudhoniano di autogestione che ruota attorno
all’idea centrale della sostanziale similitudine che deve esistere
fra società politica e società economica, non solo dal punto di
vista di una ovvia interdipendenza, ma anche e soprattutto nel senso
che le stesse leggi naturali che regolano la prima devono essere
alla base della seconda. In questo senso l’autogestione proudhoniana
si presenta come un insieme di strutture particolarmente coerenti e
complementari. Tale similitudine dei principi organici inerenti alla
costituzione economica e alla costituzione politica sviluppa dunque
quell’interdipendenza e quella complementarità esistenti fra il
mutualismo e il federalismo. Trasportato nella sfera politica,
prende il nome di federalismo e in questa semplice sinonimia si
riassume per intero la rivoluzione politica ed economica, perché il
principio federativo è l’applicazione sulla più alta scala dei
princìpi di mutualità, di divisione del lavoro, di solidarietà
economica. Il mutualismo, edificazione dell’economia sulla
reciprocità dei servizi, e il federalismo, edificazione
dell’ordinamento politico sull’affratellamento dei gruppi, sono in
effetti due applicazioni complementari di uno stesso principio,
quello della giustizia.
La realizzazione della giustizia si attua grazie a quella scienza
del lavoro, intesa come scienza ideo-realista, che abbiamo visto
essere alla base dell’analisi sociologica. Perciò è questo concetto
di lavoro come serie, cioè come infinita crescita e pluralità di
tutte le sue forme – da quelle economiche a quelle culturali, da
quelle politiche a quelle sociali – che sostanzia l’idea del giusto.
Due sono i principi che regolano la legge del lavoro: il principio
di divisione e il principio di composizione, che qui si specificano
come antagonismo competitivo e come equilibrio reciproco. È tra
queste due leggi antinomiche che si sviluppa il movimento dialettico
del lavoro umano in tutte le sue forme. La conoscenza di questa
logica del mondo effettivo permetterà ai produttori di acquistare la
reale padronanza della società e di costruire in tal modo un ordine
autogestionario corrispondente alla reale natura dei rapporti
sociali ed economici. Basato in tal modo sulla consapevolezza
dell’impossibilità di ogni sintesi e sull’irriducibilità delle leggi
antinomiche, l’ordine sociale pluralista della società autogestita
si esprimerà come una tensione dinamica continua che solo la catena
reale del lavoro, cioè la serie-tipo, saprà unificare e fornire di
significato. In tutti i casi, la libertà e l’autonomia degli
individui, dei gruppi e delle società particolari potrà darsi
soltanto mantenendo la coppia antinomica della competizione e della
cooperazione, che significa la presenza della concorrenza e della
commutazione. La competizione o la concorrenza quale legge
elementare della vita (legge di creazione, di produzione e di
ripartizione); la cooperazione e la commutazione, quale legge di
equilibrio, di partecipazione, di scambio e di associazione.
La legge di competizione è basata sulla primordiale constatazione
che il mondo, la società, lo stesso uomo sono composti di elementi
irriducibili, di princìpi antitetici, di forze antagonistiche,
secondo una catena continua che non ha fine. È la vita reale infatti
a esigere pluralità, antagonismo, autonomia, perché chi dice
organismo, dice complicazione, chi dice pluralità dice contrarietà,
indipendenza. La condizione della vita è l’azione, e l’azione è una
lotta, una concorrenza dell’uomo con l’uomo, dei gruppi con i
gruppi. Voler sopprimere questo antagonismo è impossibile perché
ogni vita esige la lotta tra le forze antinomiche, ogni movimento è
la risultante della tensione di tali forze, ogni libertà collettiva
e individuale non è possibile che grazie al gioco di questa
concorrenza. Insomma l’antagonismo è un fenomeno eterno, permanente,
esistenziale, fisico, sociale, umano.
Ciò significa che il socialismo deve realizzarsi non malgrado o
contro la concorrenza, ma grazie a essa. Solo i fanatici dell’unità
e della pianificazione, i socialisti dogmatici e autoritari, non
hanno capito questa realtà elementare. La concorrenza è infatti il
modo in cui si manifesta e si esercita l’attività collettiva,
l’espressione della spontaneità sociale, l’emblema della democrazia
e dell’uguaglianza, lo strumento più energico della costituzione del
valore, il supporto dell’associazione.
Ma l’antagonismo, esprimendosi in tutta la sua potenza, fa emergere
immediatamente e del tutto naturalmente una controforza che si può
definire come equilibrio, cooperazione, mutualità. Così
l’opposizione delle forze è la condizione obiettiva e indispensabile
di un equilibrio reale, di una solidarietà naturale, di una
reciprocità spontanea. Quindi solo un libero antagonismo competitivo
può esprimere un reale equilibrio. La stessa vita che esige
contraddizione esige infatti anche reciprocità, commutazione.
Così la legge comune del pluralismo autogestionario, la legge di
equilibrio e di mutualità, diventa allo stesso tempo legge
organizzatrice del pluralismo sociale di cui l’antagonismo e il
lavoro sono rispettivamente la legge motrice e la legge
integratrice. Riconoscere l’equilibrio a ogni livello sociale è
dunque il compito fondamentale di un socialismo che voglia essere
veramente autogestionario. E questo sarà possibile solo se la
riorganizzazione dell’industria e dell’agricoltura sarà effettuata
sotto la giurisdizione di tutti quelli che la compongono.
Questa proprietà federalista è, rispetto a ogni membro della società
economica, una comproprietà in mano comune. Essa insomma non viene
abolita, ma ripartita. Nel suo carattere di diritto assoluto, nella
società economica essa resta dunque, sotto questo aspetto, indivisa
in ciascuna delle persone individuali e collettive di questa
società. Così nella federazione agricola, in quella industriale e
nelle organizzazioni cooperative dei servizi. Ma questo stesso
diritto assoluto è, dal punto di vista dell’insieme della società
autogestita, un diritto relativo perché nella visione proudhoniana
la proprietà intesa come possesso è semplicemente una
proprietà-funzione.
Questo carattere antinomico della proprietà è dato dal fatto che
essa non è un valore e una realtà assoluta perché si specifica solo
con il mutamento della realtà sociale e storica: la proprietà è
mutevole, e le rivoluzioni dell’umanità non hanno mai avuto che lo
scopo di esprimerne i mutamenti. La storicità della proprietà
dimostra per Proudhon che essa può essere contestualizzata in un
regime socialista e piegata alle esigenze di questo. E ciò perché la
proprietà non è che uno dei termini dell’insieme sociale. Nel caso
specifico la proprietà assolverebbe due funzioni: da un lato,
infatti, essa costituirebbe un argine indispensabile per la difesa
della libertà individuale, minacciata da una possibile invadenza
della sfera pubblica; dall’altro, avrebbe il compito di promuovere
la responsabilità economica e di incentivare l’iniziativa
imprenditoriale. Ecco in quale senso si delinea il socialismo
autogestionario e libertario di Proudhon: nella coniugazione
dell’istanza liberale della difesa della proprietà, quale garanzia
reale e concreta dell’esercizio della libertà individuale, con
l’istanza socialista della responsabilità economica, quale contesto
obiettivo per la realizzazione della generalità dei diritti,
dell’universalità dei doveri.
Il complesso sistema economico della società socialista prefigurata
da Proudhon può essere sinteticamente riassunto nel seguente schema:
mutualismo federativo nell’agricoltura, vale a dire costituzione di
proprietà individuali di sfruttamento associato del suolo in un
insieme di cooperative raggruppate in una federazione agricola;
socialismo federativo nell’industria, vale a dire creazione di un
insieme di proprietà collettive dei mezzi di produzione, concorrenti
fra loro ma associate in una federazione industriale. Questa è la
base della federazione agricolo-industriale comprendente pure le
associazioni di consumatori e le cooperative dei servizi sociali.
Ognuno nella società economica è allo stesso tempo e allo stesso
titolo produttore e consumatore perché esiste l’equivalenza nella
reciprocità dei servizi. Secondo Proudhon, ciò è possibile
applicando la teoria del valore-lavoro e, conseguentemente, del
«valore costituito». Questo si può sinteticamente definire come
equazione tra il lavoro utile (la domanda di prodotti e di servizi)
e il lavoro di scambio (l’offerta in prodotti realizzati e in
servizi), in breve tra il valore d’uso, che ha per base i bisogni
dell’insieme dei consumatori, e il valore di scambio, che ha per
base il lavoro.
Ciò perché il valore – pietra angolare della scienza economica –
indica un rapporto essenzialmente sociale, nel senso che l’idea
contraddittoria di valore, così bene messa in luce dall’inevitabile
distinzione tra il valore d’uso e il valore di scambio, non viene da
una falsa percezione dello spirito, né da una terminologia viziosa,
né da qualsiasi aberrazione pratica, ma è insita alla natura delle
cose e si impone alla ragione come forma generale del pensiero, cioè
come categoria. Non è quindi assolutamente possibile sottrarsi alla
legge generale del valore. Si tratta invece, per Proudhon, di
esplicitarla per intero volgendola a favore dell’uguaglianza
sociale. Di qui l’idea di arrivare a costituire il valore, a
determinarlo equamente grazie a un circuito economico di scambio che
possa – essendo libero da ogni monopolio – far ritornare a ogni
produttore l’integralità del suo prodotto, al fine di realizzare in
ogni individuo la doppia figura di produttore e consumatore.
Per intendere pienamente il significato del progetto proudhoniano
della costituzione del valore occorre tener presente che nelle
intenzioni del suo autore esso va inteso quasi come un modello
normativo, non come un rimedio ai mali, alle deficienze e alle
contraddizioni del regime capitalista. Non si tratta, per Proudhon,
di riformare il capitalismo attraverso la legge della costituzione
egualitaria del valore, ma di costruire una società socialista
partendo dal necessario riconoscimento dell’impossibilità oggettiva
della sua abolizione. Occorre, cioè, cercare la legge generale del
valore: solo così il socialismo passerà veramente dalla fase
utopistica alla fase scientifica. Da questo punto di vista la
polemica di Marx e del posteriore marxismo contro Proudhon appare
infondata, giacché il socialista francese non ha mai affermato che
la costituzione del valore potesse essere determinata lasciando
sussistere il capitalismo.
Ma se la legge generale del valore è ineliminabile, se la
formazione del valore si costituisce in tutti i casi anche in una
futura società socialista, se ne deve dedurre, a questo punto, la
condizione fondamentale e naturale di tale ineliminabilità: il
mercato. Proudhon è il primo pensatore socialista a concepire in
modo profetico la coniugazione del socialismo con il mercato.
Coniugazione necessaria e indissolubile, secondo lui, non solo per
l’oggettiva impossibilità di eliminare il valore, ma anche perché il
luogo della sua formazione – il mercato – è il presidio di ogni
libertà economica, sociale, politica e culturale. Il valore di
scambio – inteso proprio come uno dei due aspetti della forma
generale del pensiero, cioè come categoria – esprime dunque
perfettamente un lessico ideologico preciso: lo scambio crea valore,
deve creare valore; in altri termini, non è possibile concepire il
valore e l’idea del valore senza lo scambio. Ogni forma di valore,
da quella economica a quella sociale, da quella politica a quella
culturale, si costituisce solo attraverso tale atto. Esso assume la
forma sociale suprema della libertà perché quest’ultima si
costituisce attraverso lo scambio, e poiché il valore di scambio
rappresenta la forma sociale e dinamica della libertà, ne consegue
inevitabilmente che l’abolizione del mercato comporta l’eliminazione
della libertà.
Ora, secondo Proudhon, l’obiettivo della costituzione del valore è
raggiungibile attraverso una scienza statistica che esprima
l’insieme delle informazioni sull’organizzazione della produzione,
sull’andamento del mercato, degli investimenti e del consumo; una
scienza, insomma, capace di delineare un quadro del rapporto tra
risorse e impieghi. Si potrà così arrivare a determinare la
costituzione del valore sulla base delle previsioni di un costo del
lavoro inteso in senso lato. A partire da questa contabilità
economica, potrà essere costantemente stabilita una misura della
giornata di lavoro secondo le industrie e le professioni.
Quest’ultima sarà definita come la quantità dei servizi e della
produzione che un uomo di forza e di intelligenza e di età media può
fornire in un intervallo dato. In questo modo ogni forma assunta
dalla circolazione della ricchezza avrà sempre come fonte comune il
lavoro, inteso però non come forza-lavoro, cioè come lavoro
produttivo, ma come processo, per cui in questa ottica anche il
lavoro erogato nello scambio sarà capace di creare valore.
Nella versione proudhoniana il mutualismo non è un sistema
precostituito e dato una volta per tutte. Esso è piuttosto concepito
come un metodo regolativo generale capace di dare piena attuazione
alle potenzialità latenti nelle varie dimensioni dell’economia. In
questo senso è possibile individuare una ulteriore similitudine fra
il mutualismofederalismo e il pluralismo. Infatti l’organizzazione
sociale e istituzionale non segue un unico criterio per tutti i
settori dell’economia: per l’industria Proudhon raccomanda il
socialismo, per l’agricoltura il mutualismo, per i servizi la
cooperazione. Questa diversità deriva dalla convinzione che la
riorganizzazione sociale debba, in un certo senso, piegarsi alle
caratteristiche proprie di ogni settore, pena l’uniformità
mortificante di un piano esterno e autoritario. È possibile anche
osservare a questo punto che le indicazioni proudhoniane riguardo
alla riorganizzazione socialista delle industrie sono diverse dalla
falsa immagine datane da quasi tutta la storiografia marxista e non
marxista: Proudhon, infatti, non ha mai confuso il decentramento e
il federalismo con il mantenimento di una struttura industriale
arretrata e riduttiva. Egli è consapevole che il numero delle
piccole imprese è condannato a diminuire in virtù di quella
divisione del lavoro che è la condizione della forza collettiva.
Infatti, come più individui, combinando i loro sforzi, producono una
forza collettiva che è superiore per qualità e intensità alla somma
delle loro rispettive forze, così più gruppi di lavoratori, posti
fra loro in un rapporto di scambio, danno luogo a una potenza di
ordine più elevato. Il problema per Proudhon è un altro. Si tratta
di non piegarsi a un fatalismo del progresso industriale, che in
realtà non esiste se non nella volontà politica di chi vuol
promuoverlo. Esso infatti non può che risultare al servizio
dell’accentramento economico e perciò dell’accentramento politico.
Così il gigantismo industriale si rivela necessario non
all’economia, ma alla volontà politica di potere. Ecco in quale
senso non vi deve essere fusione fra società politica e società
economica; essa infatti comporterebbe una «orientalizzazione» della
vita civile che verrebbe del tutto identificata con quella politica,
come nel caso della progettata società comunista. La similitudine
fra dimensione politica e dimensione economica non deve perciò
annullare le loro rispettive autonomie. Anzi, essa le deve
maggiormente esaltare, a partire dal principio fondamentale che sta
alla base di entrambe, il decentramento.
Nella pluridimensionalità dell’autogestione proudhoniana – intreccio
organico fra industria e agricoltura, indipendenza dei gruppi
produttivi, coesistenza e differenza fra i gruppi produttivi e i
gruppi professionali, unione trasversale fra consumatori e
produttori in varie e sovrapposte associazioni – non deve essere
ravvisata una tendenza latente e oggettiva all’integralismo sociale,
politico, economico e culturale. Il decentramento e l’autonomia
politica, sociale ed economica dei gruppi e degli individui sono la
garanzia obiettiva della differenza fra piano politico e piano
economico, perché nella concezione proudhoniana la dimensione
territoriale non coincide con quella produttiva, né quella
produttiva con quella politica. In altri termini, Proudhon distingue
chiaramente i due tipi di struttura, quella economica, vale a dire
la federazione agricolo-industriale, e quella politica, vale a dire
il federalismo. Questo sarà basato sul decentramento e sulla
divisione dei poteri, sulla concessione della massima autonomia ai
comuni e alle circoscrizioni regionali, sulla più ampia sostituzione
possibile della burocrazia con una direzione degli affari più
flessibile e immediata derivante dal gruppo naturale. Secondo
Proudhon questo federalismo potrebbe configurarsi e riassumersi in
tre norme fondamentali: 1. formare gruppi di media grandezza,
relativamente sovrani, e riunirli con un atto di federazione; 2. in
ogni Stato federato organizzare il governo in base alla legge della
separazione degli organi, vale a dire: nell’ambito del potere
pubblico separare tutto ciò che si può separare, determinare tutto
ciò che si può determinare, ripartire fra vari organi o funzionari
tutto ciò che si è separato e determinato, non lasciare nulla
indiviso, circondare l’amministrazione pubblica con ogni condizione
di pubblicità e di controllo; 3. invece di far assorbire gli Stati
federati o le autorità provinciali e municipali da un’autorità
centrale, limitare le attribuzioni di questa al semplice compito
dell’iniziativa generale, della garanzia e sorveglianza reciproca.
In tutti i casi questa indicazione di massima non è fine a se
stessa, ma è solo il mezzo più coerente e nello stesso tempo più
concreto e immediato per configurare la tendenza verso una società
dove il centro politico è ovunque, la circonferenza in nessun punto.
L’autogestione proudhoniana, identificando in ogni nucleo economico
e sociale la capacità di propulsione e di iniziativa, riconoscendo
la possibilità di una libera composizione e ricomposizione dei
nuclei sociali, economici, produttivi e professionali, intende porre
le basi di una società libera ed egualitaria.
* Diamo, in questa Introduzione e nella scelta antologica che segue,
una lettura anarchica di Proudhon. Siamo naturalmente consapevoli
che sono possibili (e ci sono state) altre letture interpretative,
libertarie e non. Siamo tuttavia persuasi che questa nostra lettura
sia non solo legittima, ma in realtà più ampiamente esplicativa del
suo pensiero inteso in senso complessivo.
Nota bio-bibliografica
Pierre-Joseph Proudhon nasce a Besançon il 15 gennaio 1809, quinto
figlio di una famiglia poverissima. Il padre, un artigiano-bottaio
poco versato per gli affari, trascina ben presto moglie e figli in
un tracollo economico pur di non vendere la birra a un prezzo da lui
ritenuto ingiusto. La madre, Catherine Simonin, è invece di
tutt’altra indole. Donna energica, influisce decisamente sulla
formazione morale del figlio. Fino all’età di dieci anni Proudhon
non legge che il Vangelo. Entrato grazie a una borsa di studio al
collegio di Besançon come allievo esterno, nel 1827, ormai prossimo
al baccalaureato, interrompe gli studi per aiutare la famiglia.
Impiegatosi come tipografo nel 1829, entra in contatto con Fallot,
che diviene suo amico e direttore spirituale. Dovendo per lavoro
comporre libri e correggere bozze, legge molto, specialmente opere
di carattere teologico. Nel 1838 si reca a Parigi dove resta fino al
1841, allorché perde la borsa di Suard, vinta tre anni prima, a
causa del successo ottenuto dal suo Qu’est-ce que la propriété? In
seguito a questa pubblicazione viene tradotto davanti alla Corte di
Doubs (nel 1842) dove deve rispondere di diversi capi di accusa.
Assolto grazie a una difesa
basata su argomentazioni filosofiche e scientifiche, si indebita
però di lì a poco fino a essere costretto a lavorare presso i
fratelli Gauthier, a Lione.
Nel febbraio 1844 entra nella cerchia degli economisti che fanno
capo all’editore Guillaumin. Nell’autunno dello stesso anno allaccia
rapporti con Marx e Bakunin (Proudhon e Marx però non simpatizzano,
e ciò li porterà alla rottura). Nel 1847 abbandona il suo lavoro a
Lione per un posto come giornalista a Parigi. In quell’anno fonda il
quotidiano «Le Représentant du Peuple».
Nel 1848 difende i ribelli perseguitati, nonostante non approvi la
Rivoluzione di Giugno. Eletto deputato all’Assemblea Nazionale tenta
invano di propugnare riforme economiche. Dominato dall’idea del
credito gratuito, fonda una Banca del Popolo, che però dovrà
liquidare una volta condannato per «delitto di stampa». A causa di
questa condanna ripara provvisoriamente in Belgio, ma al suo rientro
clandestino viene arrestato. In carcere (dal 1849 al 1852) scrive
molto e si sposa con l’operaia Eufrasia Pégard, da cui avrà quattro
figlie.
Del periodo subito successivo alla sua detenzione la critica ha
sottolineato il carattere più pessimista e disilluso. Ma nel 1858 la
vena rivoluzionaria riesplode con la sua opera De la justice dans la
Révolution et dans l’Église, che gli procura una nuova condanna.
Ripara nuovamente in Belgio dove resta fin oltre il condono della
pena (1860): tornerà in Francia solo nel 1862. Gli ultimi anni sono
segnati da una intensa attività intellettuale. Muore a Passy il 19
gennaio 1865.
PRINCIPALI OPERE DI PROUDHON
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Capitolo primo
Secondo Proudhon, lo sfruttamento economico si attua attraverso
l’appropriazione indebita della forza collettiva generata dalla
simultaneità e dalle convergenze degli sforzi individuali uniti in
una impresa comune. Da ciò l’appropriazione di un surplus
collettivo, vale a dire della differenza tra la produttività del
lavoro collettivo e la semplice somma delle forze individuali
considerate singolarmente. Tale plusvalore aumenta e si specifica
all’interno del mercato capitalista del lavoro. Questa analisi
dimostra chiaramente la paternità proudhoniana, nel campo
socialista, della teoria del valore-lavoro: è Proudhon, non Marx, a
denunciare per primo in questi termini il sistema capitalista.
Ma la critica della proprietà non si esplica solo nell’analisi
dell’appropriazione e dello sfruttamento capitalista. Il pensatore
francese prende infatti in esame ogni forma di proprietà, e quindi
ogni teoria che la sottende e la giustifica. Questa analisi lo porta
a concludere che nessuna delle teorie miranti a giustificare tale
processo di appropriazione riesce a essere credibile. Non la teoria
dell’occupazione, secondo la quale è legittima la proprietà di fatto
su ciò di cui la collettività non ha ancora preso possesso; infatti
questa teoria non può spiegare il
passaggio dal fatto al diritto che ricorrendo a una
tautologia: la proprietà è il diritto di proprietà. Dal canto suo la
teoria della proprietà fondata sul lavoro, ossia sul principio che è
proprietà del singolo ciò che è frutto della sua sola iniziativa,
non solo non spiega perché il singolo abbia il diritto di
appropriarsi, a un certo punto, del lavoro altrui, ma neppure dà
ragione della realtà paradossale che proprio chi produce rimane
privo della proprietà. Senza contare che questa teoria è
internamente contraddittoria. Il lavoro, infatti, non ha di per sé
alcun potere di appropriazione sulle cose della natura; e se,
malgrado tutto, si riconoscesse al lavoro un tale potere, si sarebbe
logicamente indotti ad affermare l’uguaglianza della proprietà,
quali che siano il tipo di lavoro, la rarità del prodotto e la
disuguaglianza delle forze collettive.
Non esiste perciò teoria che riesca a dar ragione logica di questo
furto della forza collettiva, che riesca a legittimare
ragionevolmente l’esistenza della proprietà. E tuttavia, in merito a
tale questione, più importante ancora della critica alla concezione
del regime proprietario è la revisione e ridefinizione proudhoniana
del concetto stesso di proprietà, con la distinzione fra questa e il
possesso. Questo, infatti, è l’uso socialmente responsabile di un
bene, al fine di trarne un frutto corrispondente al lavoro
individualmente fornito; si tratta di un uso che non implica il
diritto assoluto di proprietà, né la possibilità di trasformare il
bene di cui si usufruisce in un capitale, a sua volta produttivo di
altri ulteriori beni.
La proprietà vera e propria è dunque il diritto di trarre frutto da
un bene realizzato dal lavoro altrui; è il diritto di usare e di
abusare, in una parola il dispotismo; è il diritto di detenere un
bene senza farne uso, insomma un dominio senza alcuna
giustificazione economico-sociale. Terra, strumenti, macchine hanno
valore solo insieme al lavoro. Ma il puro e semplice proprietario è
proprio colui che dissocia questo qualcosa dal lavoro: e per questa
cosa inerte, che da sé non produce nulla, ottiene un compenso. È su
questa divisione, infine, tra dominio e uso, che si fonda la
separazione tra le classi sociali del proprietario e del lavoratore.
Per converso, secondo Proudhon, l’universalizzazione della proprietà
non è un ostacolo all’uguaglianza sociale e alla libertà, ma la via
più immediata e praticabile dell’emancipazione popolare, la via che
può realizzare subito, per successive approssimazioni, una sempre
maggiore uguaglianza delle fortune. Per realizzare questa
universalizzazione occorre pensare una proprietà che si ponga nel
sistema sociale come «liberale, federativa, decentratrice,
repubblicana, egualitaria, progressista, amante della giustizia».
Critica della proprietà
Se dovessi rispondere alla domanda «che cos’è la schiavitù?» e
rispondessi dicendo «è un assassinio», il mio pensiero sarebbe
subito compreso. Non avrei bisogno di un lungo discorso per
dimostrare che il potere di privare l’uomo del pensiero, della
volontà, della personalità, è un potere di vita e di morte, e che
rendere schiavo un uomo significa assassinarlo. Perché dunque alla
domanda «che cos’è la proprietà?» non posso rispondere «è un furto»,
senza avere la certezza di non essere compreso, benché questa
seconda proposizione non sia che una trasformazione della prima?
[...]
Nel secolo dominato dalla moralità borghese in cui ho avuto la
ventura di nascere, il senso morale è talmente indebolito che non mi
meraviglierei affatto di sentirmi chiedere da più di un onesto
proprietario che cosa trovi di ingiusto e di illegale in tutto ciò.
Anima di fango! cadavere galvanizzato! come si può sperare di
convincerti se il furto in atto non ti sembra evidente? Un uomo, con
dolci e insinuanti parole, trova il modo di far contribuire gli
altri alla propria sistemazione; poi, una volta arricchito grazie
allo sforzo comune, rifiuta di procurare, alle condizioni da lui
stesso stabilite, il benessere di coloro ai quali deve la sua
fortuna; e tu chiedi che cosa ci sia di fraudolento in una simile
condotta! Con il pretesto di aver pagato i suoi operai, di non dover
loro più nulla, di non poter trascurare le proprie occupazioni per
mettersi al servizio altrui, egli rifiuta di aiutare gli altri nella
loro sistemazione, come essi l’hanno aiutato nella sua; e quando,
nell’impotenza del loro isolamento, questi lavoratori derelitti
vengono a trovarsi nella necessità di vendere la loro parte, lui,
questo proprietario ingrato, questo furfante arricchito, è pronto a
consumare la loro spoliazione e la loro rovina. E tu puoi trovare
giusto tutto ciò! Perché bada ch’io leggo nel tuo sguardo sorpreso
ben più il rimprovero di una coscienza colpevole che non l’ingenuo
stupore di una involontaria ignoranza.
Il capitalista, si dice, ha pagato le giornate degli operai; per
l’esattezza, bisognerebbe dire che il capitalista ha pagato tante
volte una giornata quanti sono gli operai impiegati ogni giorno, il
che non è affatto la stessa cosa. Infatti, quella forza immensa che
risulta dall’unione e dall’armonia dei lavoratori, dalla convergenza
e dalla simultaneità dei loro sforzi, egli non l’ha pagata. Duecento
granatieri in poche ore hanno eretto l’obelisco di Luxor sulla sua
base; si può supporre che un solo uomo, in duecento giorni, ci
sarebbe riuscito? E tuttavia, nel conto del capitalista, la somma
dei salari sarebbe stata la stessa. Ebbene, un deserto da mettere a
coltura, una casa da costruire, una manifattura da mantenere in
esercizio, è come l’obelisco da sollevare, come una montagna da
spostare. Il più piccolo patrimonio, il più modesto stabilimento,
l’attivazione della più mediocre industria, esige un concorso di
lavoro e di capacità tanto diverse che un uomo da solo non ci
riuscirebbe mai. È stupefacente che gli economisti non l’abbiano
notato. Facciamo dunque il bilancio di quel che il capitalista ha
ricevuto e di quel che ha pagato.
Al lavoratore occorre un salario che lo faccia vivere mentre lavora,
perché egli non produce che consumando. Chiunque dia lavoro a un
uomo, gli deve nutrimento e mantenimento, oppure un
salario equivalente. È questa la prima parte da fare nella
ripartizione di ogni prodotto. Concedo, per il momento, che a questo
riguardo il capitalista abbia fatto il suo dovere.
Bisogna che il lavoratore, oltre alla sua sussistenza attuale, trovi
nella produzione una garanzia della sua sussistenza futura,
altrimenti vedrà inaridirsi la fonte del prodotto e annullarsi la
sua capacità produttiva; in altri termini bisogna che il lavoro da
fare rinasca continuamente dal lavoro compiuto: tale è la legge
universale della riproduzione. È così che il coltivatore
proprietario trova:
1. nei suoi raccolti, i mezzi non solo per vivere, lui e la sua
famiglia, ma anche per conservare e accrescere il capitale, per
allevare del bestiame, insomma per lavorare ancora e continuare a
produrre;
2. nella proprietà di uno strumento di produzione, la garanzia
permanente di un capitale da sfruttare e che rende possibile il
lavoro.
Quale capitale può sfruttare colui che offre in cambio di una
retribuzione i suoi servizi? Il bisogno presunto che il proprietario
ha di lui e la sua eventuale volontà di dargli lavoro. Come in altri
tempi il plebeo aveva la terra dalla munificenza e dal beneplacito
del signore, così oggi l’operaio ha il suo lavoro dal beneplacito e
dalle necessità del padrone e del proprietario: è quello che si
chiama possesso a titolo precario. Ma questa condizione precaria è
una ingiustizia perché implica disuguaglianza nella transazione. Il
salario del lavoratore non supera di molto il suo consumo corrente e
non gli assicura il salario dell’indomani, mentre il capitalista
trova nello strumento prodotto dal lavoratore una garanzia di
indipendenza e di sicurezza per l’avvenire.
Ora, questo fermento riproduttore, questo germe eterno di vita,
questa preparazione di un fondo e di strumenti di produzione, è
proprio quanto il capitalista deve al produttore e non gli rende
mai: ed è questo diniego fraudolento che provoca l’indigenza del
lavoratore, il lusso dell’ozioso e la disuguaglianza delle
condizioni. È soprattutto in questo che consiste quel che è stato
così ben definito sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
I casi sono tre: o il lavoratore parteciperà alla spartizione della
cosa prodotta insieme all’imprenditore, detratta la somma dei
salari, o l’imprenditore renderà al lavoratore servizi produttivi
equivalenti, oppure si impegnerà a farlo lavorare sempre.
Spartizione del prodotto, reciprocità dei servizi, o garanzia di un
lavoro perpetuo: il capitalista non può sfuggire a questa scelta. Ma
è evidente ch’egli non può soddisfare alla seconda e alla terza di
queste condizioni: non può né mettersi al servizio di quelle
migliaia di operai che direttamente o indirettamente gli hanno
procurato la sua sistemazione, né occuparli tutti e per sempre.
Resta dunque la spartizione della proprietà. Ma, se fosse attuata,
tutte le condizioni risulterebbero uguali; non ci sarebbero più né
grandi capitalisti né grandi proprietari. Quando dunque Comte,
continuando a svolgere la sua ipotesi, ci mostra come il capitalista
acquisti successivamente la proprietà di tutte le cose che paga, non
fa che sprofondare sempre più nel suo deplorevole paralogismo; e
siccome la sua argomentazione non cambia, anche la nostra risposta
resta sempre la stessa. Ovvero, altri operai sono impiegati a
costruire edifici; gli uni estraggono la pietra dalla cava, gli
altri la trasportano, altri ancora la tagliano, altri la mettono in
opera. Ciascuno di loro aggiunge un certo valore alla materia che
gli passa per le mani, e questo valore, prodotto dal suo lavoro, è
di sua proprietà. Egli lo vende, man mano che lo crea, al
capitalista, che gliene paga il prezzo in alimenti e salari.
Divide et impera: dividi e regnerai; dividi e diventerai ricco;
dividi e ingannerai gli uomini, abbaglierai la loro ragione, ti
farai beffe della giustizia. Separate i lavoratori gli uni dagli
altri e può anche darsi che il salario corrisposto a ciascuno superi
il valore del prodotto individuale: ma non è di questo che si
tratta. L’opera compiuta in venti giorni da una forza di mille
uomini è stata pagata quanto lo sarebbe quella compiuta dalla forza
di un singolo in cinquantacinque anni; ma questa forza di mille
uomini ha fatto in venti giorni quel che la forza di uno solo non
riuscirebbe a portare a termine in un milione di secoli: è giusto
questo mercato? Ancora una volta, no: quando voi avete pagato tutte
le forze individuali, non avete pagato la forza collettiva; di
conseguenza resta sempre un diritto di proprietà collettiva che non
avete acquistato e di cui godete ingiustamente.
Ammetto che un salario di venti giorni basti a quella moltitudine
per nutrirsi, alloggiare, vestirsi per venti giorni: ma dato che il
lavoro cessa allo scadere di questo termine, che ne sarà di questa
se, man mano che produce, lascia il frutto del suo lavoro a
proprietari che ben presto l’abbandoneranno? Mentre il proprietario,
che gode di una solida posizione grazie al concorso di tutti i
lavoratori, vive in sicurezza e non teme più che gli manchino né
lavoro né pane, l’operaio può sperare solo nella benevolenza di
quello stesso proprietario al quale ha venduto e infeudato la
propria libertà. Se dunque il proprietario, trincerandosi nella sua
autosufficienza e nel suo diritto, si rifiuta di dar lavoro
all’operaio, come potrà questi sopravvivere? Egli avrà preparato un
terreno eccellente e non vi seminerà; avrà costruito una casa comoda
e splendida e non vi abiterà; avrà prodotto di tutto e non godrà di
nulla.
Il lavoro ci conduce all’uguaglianza; ogni passo che facciamo ce ne
avvicina sempre più, e se la forza, la diligenza, la laboriosità dei
lavoratori fossero uguali, è evidente che lo sarebbero anche i beni.
In effetti, se, come si pretende e come noi stessi abbiamo ammesso,
il lavoratore è proprietario del valore da lui creato, ne consegue
che:
l. Il lavoratore acquista a spese del proprietario ozioso;
2. Essendo ogni produzione necessariamente collettiva, l’operaio ha
diritto, in proporzione al suo lavoro, alla partecipazione ai
prodotti e agli utili;
3. Essendo ogni capitale accumulato una proprietà sociale, nessuno
può averne la proprietà esclusiva.
Queste conseguenze sono irrefragabili; da sole basterebbero a
sconvolgere tutta la nostra economia e a mutare le nostre leggi e
istituzioni. Perché quelli stessi che hanno posto il principio
rifiutano ora di seguirlo nelle sue conseguenze? Perché i Say, i
Comte, gli Hennequin e gli altri, dopo aver detto che la proprietà
deriva dal lavoro, cercano di immobilizzarla con l’occupazione e la
prescrizione?
Ma lasciamo questi sofisti alle loro contraddizioni e alla loro
cecità; il buon senso popolare farà giustizia dei loro equivoci.
Affrettiamoci a illuminarlo e a mostrargli il cammino. L’uguaglianza
si avvicina; ormai ce ne separa solo un breve intervallo, e domani
questo intervallo sarà superato.
[Da Qu’est-ce que la propriété?, trad. it.: Che cos’è la proprietà,
Zero in Condotta, Milano 2000, pp. 25, 106-109].
Che cosa è la proprietà? da dove viene la proprietà? che vuole la
proprietà? Ecco il problema che interessa al più alto grado la
filosofia; il problema logico per eccellenza, il problema dalla cui
soluzione dipendono l’uomo, la società, il mondo. Il problema della
proprietà è, sotto altra forma, il problema della certezza; la
proprietà è l’uomo; la proprietà è Dio; la proprietà è tutto.
Ora, a questa questione formidabile, i giuristi rispondono
balbettando i loro a priori: la proprietà è il diritto di usare e di
abusare, diritto che risulta da un atto della volontà manifestata
con l’occupazione e l’appropriazione; ed è evidente che essi non ci
insegnano assolutamente nulla. Ammettendo che l’appropriazione sia
necessaria al compimento del destino dell’uomo e all’esercizio della
sua industria, tutto ciò che se ne può concludere è che, essendo
l’appropriazione necessaria a tutti gli uomini, la possessione deve
essere uguale ma sempre mutabile e mobile, suscettibile di aumento e
di diminuzione, nonostante il consenso dei possessori; il che è la
negazione stessa della proprietà. Nel sistema dei giuristi, dei
ragionanti a priori, la proprietà, per esser d’accordo con se
stessa, dovrebbe essere come la libertà, reciproca e inalienabile;
in modo che ogni acquisto, cioè ogni esercizio ulteriore del diritto
di appropriazione, si troverebbe a essere, al tempo stesso, per
l’acquirente, il godimento di un diritto naturale e, di fronte ai
suoi simili, una usurpazione; cosa che è contraddittoria,
impossibile.
Che gli economisti appoggiati sulle loro induzioni utilitarie
vengano a loro volta a dirci: l’origine della proprietà è il lavoro.
La proprietà è il diritto di vivere lavorando, di disporre
liberamente e sovranamente dei propri risparmi, del proprio
capitale, del frutto della propria intelligenza e della propria
industria. Il loro sistema non è più solido. Se il lavoro,
l’occupazione effettiva e feconda, è il principio della proprietà,
come spiegare la proprietà presso colui che non lavora? come
giustificare l’affitto? come dedurre dalla formazione della
proprietà mediante il lavoro il diritto di possedere senza lavoro?
come concepire che da un lavoro sostenuto durante trent’anni risulta
una proprietà eterna? Se il lavoro è la sorgente della proprietà,
questo vuol dire che la proprietà è la ricompensa del lavoro. Ora,
qual è il valore del lavoro? qual è la misura comune dei prodotti,
il cui scambio conduce a così mostruose disuguaglianze nella
proprietà?
Si dirà che la proprietà deve essere limitata alla durata
dell’occupazione reale, alla durata del lavoro. Allora la proprietà
cessa di essere personale, inviolabile e trasmissibile: non è più la
proprietà. Non è patente che se la teoria dei giuristi è tutta
arbitraria, quella degli economisti è dettata solo dall’abitudine?
Del resto, essa è apparsa così dannosa per le sue conseguenze che è
stata quasi subito abbandonata appena data alla luce. I giuristi
d’oltre Reno, fra gli altri, sono ritornati quasi tutti al sistema
della prima occupazione; cosa appena credibile nel Paese della
dialettica.
Che dire poi delle divagazioni dei mistici, di quella gente a cui fa
orrore la ragione e per cui il fatto è sempre sufficientemente
spiegato, giustificato, in quanto esiste? La proprietà, dicono, è
una creazione della spontaneità sociale, l’effetto di una legge
della Provvidenza, davanti alla quale dobbiamo umiliarci come
davanti a tutto ciò che viene da Dio. E che cosa potremmo trovare di
più rispettabile, autentico, necessario e sacro di quel che il
genere umano ha voluto spontaneamente e ha compiuto per un permesso
dall’alto?
Così, la religione viene a sua volta a consacrare la proprietà; e da
questo segno si può giudicare la poca solidità di tale principio. Ma
la società, detta anche Provvidenza, non ha consentito alla
proprietà che in vista del bene generale; è permesso, senza mancare
al rispetto dovuto alla Provvidenza, di domandare da dove vengano
allora le esclusioni? Perché se il bene generale non esige
assolutamente l’uguaglianza delle proprietà, per lo meno implica una
certa responsabilità da parte del proprietario; e quando il povero
domanda l’elemosina, è il sovrano che reclama il suo diritto. Donde
viene dunque che il proprietario è padrone di non rendere mai conto,
di non mettere a parte?
Sotto tutti questi punti di vista la proprietà resta
inintelligibile: quelli che l’hanno attaccata potevano essere certi
già prima che non si sarebbe risposto loro, come potevano ugualmente
essere sicuri che le loro critiche non avrebbero sortito il minimo
effetto. La proprietà esiste di fatto ma la ragione la condanna;
come conciliare qui la realtà e l’idea, come far passare la ragione
nel fatto? Ecco ciò che ci resta da fare e che nessuno ancora sembra
avere chiaramente compreso. Fintanto che la proprietà sarà difesa
con così poveri mezzi, sarà in pericolo; e fintanto che un fatto
nuovo e più potente non sarà opposto alla proprietà, gli attacchi
non saranno che insignificanti proteste, buone per aizzare i
pezzenti e irritare i proprietari.
Infine, è arrivato un critico che, procedendo con l’aiuto di
un’argomentazione nuova, ha detto:
La proprietà, di fatto e di diritto, è essenzialmente
contraddittoria ed è per questa stessa ragione che essa è qualche
cosa.
Difatti:
La proprietà è il diritto di occupazione, e nel tempo stesso il
diritto di esclusione.
La proprietà è il premio del lavoro, e la negazione del lavoro.
La proprietà è il prodotto spontaneo della società, e la
dissoluzione della società.
La proprietà è una istituzione di giustizia, la proprietà è un
furto. [...]
Da tutto questo risulta che un giorno la proprietà trasformata sarà
una idea positiva, completa, sociale e vera; una proprietà che
abolirà l’antica proprietà e diventerà per tutti ugualmente
effettiva e benefica. E ciò che lo prova è ancora una volta che la
proprietà è una contraddizione. Da questo momento la proprietà ha
cominciato a essere conosciuta; è stata svelata la sua natura
intima, il suo avvenire è stato previsto. Ma la critica non ha
compiuto che metà del suo compito, poiché, per costruire
definitivamente la proprietà, per toglierle il suo carattere di
esclusione e darle la sua forma sintetica, non basta averla
analizzata in se stessa, conviene ancora ritrovare l’ordine di idee
di cui essa non è che un momento particolare, la serie che
l’avviluppa e fuori della quale non è possibile né comprendere, né
intaccare la proprietà. [...]
La proprietà comincia, o per meglio dire si manifesta, con una
occupazione sovrana, effettiva, che esclude ogni idea di
partecipazione e di comunità; questa occupazione, nella sua forma
legittima e autentica, non è altro che il lavoro: senza questo, come
mai la società avrebbe acconsentito a concedere e a far rispettare
la proprietà? La società ha voluto la proprietà e tutte le
legislazioni del mondo non sono state fatte che per essa.
La proprietà si è stabilita con l’occupazione, cioè con il lavoro:
conviene ricordarlo spesso non per la conservazione della proprietà,
ma per l’istruzione dei lavoratori. Il lavoro conteneva in potenza,
doveva produrre per l’evoluzione delle sue leggi, la proprietà; nel
modo stesso che aveva generato la separazione delle industrie, poi
la gerarchia dei lavoratori, poi la concorrenza, il monopolio, la
politica, ecc. Tutte queste antinomie sono allo stesso titolo
posizioni successive del lavoro, bastoni da livello piantati sulla
sua strada eterna e destinati a formulare, nella loro riunione
sintetica, il vero diritto delle genti. Ma il fatto non è il
diritto; la proprietà, prodotto naturale dell’occupazione e del
lavoro, era un principio di anticipazione e di usurpazione; essa
aveva dunque bisogno di essere riconosciuta e legittimata dalla
società: questi due elementi, l’occupazione del lavoro e la sanzione
legislativa, che i giuristi hanno male a proposito separati nei loro
commentari, si sono riuniti per costituire la proprietà. Ora, si
tratta di conoscere i motivi provvidenziali di questa concessione,
quale parte essa sostenga nel sistema economico: tale sarà l’oggetto
di questo paragrafo.
Proviamo dapprima che per stabilire la proprietà è stato necessario
il consenso sociale.
Fin tanto che la proprietà non è riconosciuta e legittimata dallo
Stato, resta un fatto extra sociale; è nella stessa posizione del
bambino, il quale non è reputato membro della famiglia, della città
e della Chiesa che tramite il riconoscimento del padre, l’iscrizione
al registro dello stato civile e la cerimonia del battesimo.
Nell’essenza di queste formalità il bambino è come la prole degli
animali: è un membro inutile, un’anima vile e serva, indegna di
considerazione; è un bastardo. Parimenti, il riconoscimento sociale
è stato necessario alla proprietà, e ogni proprietà ha implicato una
comunità primitiva. Senza questo riconoscimento, la proprietà resta
semplice occupazione e può essere contestata dal primo venuto.
«Il diritto a una cosa», dice Kant, «è il diritto dell’uso privato
di una cosa riguardo alla quale io sono in comunanza di possesso
(primitiva o susseguente) con tutti gli altri uomini: questo
possesso è l’unica condizione sotto la quale posso interdire a ogni
altro possessore l’uso privato della cosa, perché senza la
supposizione di questo possesso non sarebbe possibile concepire come
io, che non sono attualmente possessore della cosa, possa essere
leso da coloro che la possiedono e che se ne servono». Il mio
arbitrio individuale o unilaterale non può obbligare altri a
interdirsi l’uso di una cosa, se non vi era altrimenti obbligato.
Egli non può essere dunque obbligato se non dagli arbitrii riuniti
in un possesso comune. Se non fosse così, si sarebbe nella necessità
di concepire un diritto in una cosa, come se essa avesse un obbligo
verso di me, e donde deriverebbe in ultima analisi il diritto contro
ogni possessore di questa cosa; concetto veramente assurdo.
Così, secondo Kant, il diritto di proprietà, cioè la legittimità
dell’occupazione, procede dal consenso dello Stato, il quale implica
originariamente possesso comune. E non può, dice Kant, essere
altrimenti. Tutte le volte dunque che il proprietario osa opporre il
suo diritto allo Stato, questi, riconducendo il proprietario alla
convenzione, può sempre terminare la lite con questo ultimatum: o
riconoscete la mia sovranità, e vi sottomettete a quello che
l’interesse pubblico reclama, o io dichiaro che la vostra proprietà
ha cessato di essere collocata sotto la salvaguardia delle leggi e
le tolgo la mia protezione.
Da ciò segue che nello spirito del legislatore l’istituzione della
proprietà, come quella del credito, del commercio e del monopolio, è
stata fatta con un intento di equilibrio; il che colloca senz’altro
la proprietà fra gli elementi dell’organizzazione, e la distingue
come uno dei mezzi generali di costituzione dei valori. «Il diritto
a una cosa», dice Kant, «è il diritto dell’uso privato di una cosa
riguardo alla quale io sono in comunanza di possesso con tutti gli
altri uomini». In virtù di questo principio, ogni uomo privo di
proprietà può dunque e deve richiamarsi alla comunanza, custode dei
diritti di tutti; da che ne risulta, come si è detto, che nelle
vedute della Provvidenza le condizioni devono essere uguali.
Per essenza e destinazione, la rendita è dunque uno strumento di
giustizia distributiva, uno dei mille mezzi che il genio economico
mette in opera per giungere all’uguaglianza. È un immenso catasto
eseguito contraddittoriamente da proprietari e fittavoli, senza
collisione possibile, in un interesse superiore, e il cui risultato
definitivo deve essere di uguagliare il possesso della terra fra i
coltivatori del suolo e gli industriali. La rendita, in una parola,
è quella legge agraria tanto desiderata che deve rendere tutti i
lavoratori, tutti gli uomini, possessori uguali della terra e dei
suoi frutti. Ci bisognava questa magia della proprietà per prendere
al colono l’eccedenza del
prodotto ch’egli non può fare a meno di considerare come suo e di
cui si crede esclusivamente l’autore.
La rendita, o per meglio dire la proprietà, ha schiacciato l’egoismo
agricolo e creato una solidarietà che nessuna potenza, nessuna
divisione della terra mai avrebbe fatto nascere. Con la proprietà,
l’uguaglianza fra tutti gli uomini diventa definitivamente
possibile; operando la rendita fra gli individui come la dogana fra
le nazioni, tutte le cause, tutti i pretesti di disuguaglianza,
scompaiono, e la società non aspetta altro che la leva destinata a
dare l’impulso a questo movimento. Al proprietario mitologico
succederà il proprietario autentico? distruggendo la proprietà, gli
uomini diventeranno tutti proprietari? Tale è d’ora in poi la
questione da risolvere, una questione insolubile senza la rendita.
Il genio sociale non procede come gli ideologi e con sterili
astrazioni; non si dà pensiero né di interessi dinastici, né di
ragion di Stato, né di diritti elettorali, né di teorie
rappresentative, né di sentimenti umanitari o patriottici.
Personifica o realizza sempre le sue idee: il suo sistema si
sviluppa in una sequela di incarnazioni e di fatti, e per costituire
la società si indirizza sempre all’individuo.
Dopo la grande epoca del credito, conveniva riattaccare l’uomo alla
terra; il genio sociale ha istituito la proprietà. Poi si trattava
di eseguire il catasto del globo; invece di pubblicare a suon di
tromba una operazione collettiva, ci si rivolge agli interessi
individuali, e dalla guerra del colono e dell’uomo di rendita
risulta per la società il più imparziale arbitrato. Oggi, ottenuto
l’effetto morale della proprietà, resta da fare la distribuzione
della rendita. Guardatevi dal convocare assemblee primarie, dal
chiamare i vostri oratori e i vostri tribuni, dal rinforzare la
vostra politica e, con questo apparato dittatoriale, spaventare il
mondo. Una semplice mutualità di cambio, aiutata da qualche
combinazione di banca, basterà... Per i grandi effetti i più
semplici mezzi: questa è la legge suprema della società e della
natura.
La proprietà è il monopolio elevato alla seconda potenza; è, come il
monopolio, un fatto spontaneo, necessario, universale. Ma la
proprietà ha il favore dell’opinione pubblica, mentre il monopolio è
guardato con disprezzo; noi possiamo inferire, da questo nuovo
esempio, che come la società si stabilisce con la lotta, nello
stesso modo la scienza non cammina che spinta dalla controversia. È
così che la concorrenza è stata di volta in volta esaltata e
maltrattata; che l’imposta, riconosciuta necessaria dagli
economisti, è sgradita agli economisti; che la bilancia del
commercio, le macchine, la divisione del lavoro, hanno eccitato di
volta in volta l’approvazione e la maledizione pubblica. La
proprietà è sacra, il monopolio è riprovevole: quando vedremo la
fine dei nostri pregiudizi e delle nostre incongruenze?
Con la proprietà, la società ha realizzato un pensiero utile, leale,
per altro fatale: ora voglio provare che, obbedendo a una necessità
invincibile, essa si è gettata in una ipotesi impossibile. Credo di
non aver dimenticato nessuno dei motivi che hanno presieduto allo
stabilirsi della proprietà; oso anzi dire che ho dato a questi
motivi un insieme e una evidenza sino a questo momento sconosciuti.
Che il lettore supplisca, del resto, a ciò che involontariamente
avrò potuto omettere: accetto anticipatamente tutte le sue ragioni e
non mi propongo in alcun modo di contraddirvi.
Ma che in seguito mi dica, con la mano sulla coscienza, ciò che può
replicare alla controprova che intendo portare.
Senza dubbio la ragione collettiva, obbedendo all’ordine del destino
che gli prescriveva, con una serie di istituzioni provvidenziali, di
consolidare il monopolio, ha fatto il suo dovere: la sua condotta è
irreprensibile, e io non l’accuso. È il trionfo dell’umanità saper
riconoscere ciò che c’è in essa di fatale, come il più grande sforzo
della sua virtù è di sapervisi sottomettere. Se dunque la ragione
collettiva, istituendo la proprietà, ha eseguito la sua consegna,
essa non merita biasimo; la sua responsabilità è al coperto. Ma
questa proprietà, che la società, forzata e costretta, se così posso
dire, ha dato alla luce, chi ci garantisce che durerà? Certo la
società non l’ha concepita dall’alto, e non ha potuto aggiungervi,
levare o modificare nulla. Conferendola all’uomo, ha lasciato alla
proprietà le sue qualità e i suoi errori, non ha preso alcuna
precauzione né contro i suoi vizi costitutivi, né contro le forze
superiori che possono distruggerla. Se la proprietà in se stessa è
corruttibile, la società non ne sa niente, e non vi può niente. Se
questa proprietà è esposta ad attacchi di un principio più potente,
la società non può nulla. Come rimedierà, in effetti, la società al
vizio della proprietà, dato che la proprietà è figlia del destino? E
come la proteggerà contro una idea più alta, quando essa stessa non
sussiste che per la proprietà, né conosce niente al disopra della
proprietà? Ecco dunque qual è la teoria proprietaria.
La proprietà è, di necessità, provvidenziale; la ragione collettiva
l’ha ricevuta da Dio e l’ha data all’uomo. E se oltretutto la
proprietà è corruttibile per sua natura, o attaccabile da una forza
maggiore, la società è irresponsabile; e chiunque, armato di questa
forza, si presenterà per combattere la proprietà, la società gli
deve sottomissione e obbedienza.
Si tratta dunque di sapere, primo, se la proprietà sia in sé cosa
corruttibile e che dia presa alla distruzione; secondo, se mai
esiste da qualche parte, nell’arsenale economico, uno strumento che
la possa vincere.
Tratterò la prima questione in questo paragrafo; cercheremo
ulteriormente il nemico che minaccia di inghiottire la proprietà. La
proprietà è il diritto di usare e di abusare; in una parola, il
dispotismo. Non che il despota abbia intenzione di distruggere la
cosa, non è ciò che si deve intendere per diritto di usare e di
abusare. La distruzione per la distruzione non si presuppone da
parte del proprietario, si ammette sempre, qualunque uso faccia del
suo bene, che vi sia un motivo di convenienza e di utilità.
Parlando di abuso, il legislatore ha voluto dire che il proprietario
ha il diritto di sbagliarsi nell’uso dei suoi beni, senza che possa
mai essere molestato per questo cattivo uso, senza che sia
responsabile del suo errore. Il proprietario è sempre tenuto ad
agire nel suo maggiore interesse; e appunto allo scopo di lasciargli
maggiore libertà nel perseguimento di questo interesse, la società
gli ha conferito il diritto di usare e di abusare del suo monopolio.
Sin là dunque il diritto di proprietà è irreprensibile.
Ma ricordiamoci che questo diritto non è stato concesso solo
riguardo all’individuo; nell’esposizione dei motivi della
concessione esistono delle considerazioni tutte sociali; il
contratto è sinallagmatico fra la società e l’uomo. Questo è
talmente vero, talmente dichiarato anche dai proprietari, che
ogniqualvolta si viene ad attaccare il loro privilegio è in nome, e
solamente in nome, della società che essi lo difendono. Ora, il
dispotismo proprietario dà soddisfazione alla società? In caso
contrario, essendo illusoria la reciprocità, il patto sarebbe nullo
e prima o poi la proprietà o la società perirebbero. Reitero dunque
la mia domanda. Il dispotismo proprietario adempie al suo obbligo
verso la società? agisce da buon padre di famiglia? è per sua
essenza giusto, sociale, umano? Ecco le domande. Ed ecco cosa
rispondo senza temere smentita.
Se è indubitabile, dal punto di vista della libertà individuale, che
la concessione della proprietà sia necessaria, dal punto di vista
giuridico la concessione della proprietà è radicalmente nulla,
perché implica dalla parte del concessionario certi obblighi che è
in sua facoltà compiere o non compiere.
Ora, in virtù del principio che ogni convenzione fondata
sull’adempimento di una condizione non obbligatoria non obbliga, il
contratto tacito di proprietà, passato fra il privilegiato e lo
Stato, ai fini che abbiamo precedentemente stabiliti, è
manifestamente illusorio; esso si annulla per la non reciprocità,
per la lesione di una delle parti. E siccome, in fatto di proprietà,
l’adempimento dell’obbligazione non può essere esigibile senza che
la concessione stessa sia per ciò solo revocata, ne segue che c’è
contraddizione nella definizione e incoerenza nel patto. Se i
contraenti si ostinassero a mantenere il trattato, la forza delle
cose si incaricherebbe di provare loro che fanno opera inutile:
malgrado tutto, la fatalità del loro antagonismo riconduce fra essi
la discordia.
Tutti gli economisti segnalano gli inconvenienti che ha per la
produzione agricola lo sminuzzamento del territorio. D’accordo in
questo con i socialisti, essi vedrebbero con gioia una coltivazione
in grande che, operando su larga scala, applicando i processi
potenti dell’arte e facendo importanti economie sul materiale,
raddoppiasse, quadruplicasse forse il prodotto. Ma il proprietario
esclama: veto, io non voglio. E siccome è nel suo diritto, siccome
nessuno al mondo conosce il mezzo di cambiare questo diritto
altrimenti che con l’espropriazione, e l’espropriazione è il niente,
il legislatore, l’economista, il proletario, retrocedono con orrore
davanti all’ignoto e si contentano di salutare da lontano le messi
auspicate. Il proprietario è, per carattere, invidioso del bene
pubblico; non potrebbe purgarsi da questo vizio che perdendo la
proprietà.
La proprietà è dunque un ostacolo al lavoro e alla ricchezza, un
ostacolo all’economia sociale; solo gli economisti e i giuristi si
meravigliano di ciò.
Ma il proprietario: sarei ben stupido, dice, se abbandonassi un
beneficio così netto. Invece di cento giornate di lavoro non ne
pagherò che cinquanta: non è il proletario che approfitterà, ma io.
Allora, osservate voi, il proletario sarà ancora più disgraziato di
prima, poiché gli mancherà il lavoro una volta di più. Questo non mi
riguarda, soggiunge il proprietario, uso del mio diritto. Che gli
altri accantonino dei beni, se possono, che vadano in un’altra parte
del mondo a cercare fortuna, fossero anche migliaia o milioni! Ogni
proprietario nutre, in fondo al cuore, questo pensiero omicida. E
siccome per la concorrenza, il monopolio e il credito l’invasione si
estende sempre più, i lavoratori si trovano continuamente eliminati
dal suolo: la proprietà è lo spopolamento della terra. Così la
rendita del proprietario, combinata con il progresso dell’industria,
cambia in abisso la fossa scavata sotto i piedi del lavoratore dal
monopolio; il male si aggrava coi privilegi. La rendita del
proprietario non è più il patrimonio dei poveri, voglio dire quella
porzione del prodotto agricolo che resta dopo che le spese della
coltura sono state compensate, e che doveva sempre servire come
nuova materia di usufrutto al lavoro, secondo la bella teoria che ci
mostra il capitale accumulato come una terra senza posa offerta alla
produzione, e che più la si lavora, più sembra estendersi. La
rendita è diventata per il proprietario il pegno della sua
lubricità, lo strumento delle sue solitarie gioie. E notate che il
proprietario che abusa, colpevole davanti alla carità e alla morale,
sta senza rimprovero davanti alla legge, è inattaccabile in economia
politica. Consumare la propria rendita: che c’è di più bello, di più
nobile, di più legittimo? Nell’opinione del popolo come in quella
dei potenti il consumo improduttivo è la virtù per eccellenza del
proprietario. Tutti gli imbarazzi della società provengono da questo
egoismo indelebile. [...]
Così la proprietà separa l’uomo dall’uomo cento volte di più del
monopolio. Il legislatore, con un intento eminentemente sociale,
aveva creduto di dare al possesso più forti garanzie; ed ecco si
trova ad aver tolto al lavoratore persino la speranza, garantendo al
monopolista, in perpetuo, il frutto quotidiano delle sue rapine.
Quale grande proprietario non abusa della sua forza per violentare
il piccolo? quale sapiente, costituito in dignità, non ricava un
lucro dalla sua influenza e dal suo patronato? quale filosofo,
accreditato nei consigli, non trova modo, sotto pretesto di
traduzione, revisione o commentario, di trarre partito dalla
filosofia? quale ispettore di scuola non è mercante di sillabari?
L’economia politica è forse scevra da ogni commercio di azioni, e la
religione da ogni simonia? Ho avuto l’onore di essere capo di
stamperia, vendendo una dozzina di catechismi, cinque fogli in 120,
trenta soldi. Dopo, il vescovo del luogo si è assunto il monopolio
dei libri di religione, e il prezzo del catechismo è salito da 15
centesimi a 40: monsignore realizza ogni anno su questo solo
articolo un utile netto di 50.000 franchi. La tale questione è stata
messa a concorso dall’Accademia solo per dare l’occasione di un
trionfo al signor tale; la tale composizione ha ottenuto il premio
perché veniva dal signor tale, che professa le buone dottrine, vale
a dire esercita l’arte della bassa adulazione presso i signori tali,
tali, tali. La scienza titolata sbarra il cammino alla scienza
ignobile; la quercia obbliga la canna a farle riverenza; la
religione e la morale si utilizzano per privilegio, come il gesso e
il carbon fossile; il privilegio giunge sino al premio della virtù,
e le corone decretate nel teatro Mazzarino, per l’incoraggiamento
della gioventù e il progresso della scienza, non sono più che
l’insegna della feudalità accademica.
E tutti questi abusi di autorità, queste concussioni, queste
brutture, provengono non dall’abuso illegale, ma dall’uso legale,
legalissimo, della proprietà. Senza dubbio il funzionario il cui
controllo è necessario per il libero passaggio di una mercanzia, o
l’accettazione di una fornitura, non ha il diritto di trafficare
questo controllo. Non è così ch’essi si comportino. Un simile atto
ripugnerebbe alla virtù degli agenti dell’autorità, cadrebbe sotto
la vendetta del codice penale, e non me ne occuperei. Ma colui il
quale approva, non può niente approvare più volentieri che ciò che
sa fare, poiché la sua approvazione è necessariamente in ragione dei
suoi mezzi. Ora, siccome non è interdetto agli ispettori e
controllori dell’autorità di fare da se stessi ciò che sono
incaricati di approvare presso gli altri, e a più forte ragione di
prendere parte e di interessarsi a ciò che deve essere sottomesso
alla loro approvazione, e siccome in ogni specie di servizio, il
salario e il beneficio sono legittimi, ne segue che la missione
attribuita, per esempio, all’università e ai vescovi, di approvare o
di disapprovare certe opere, costituisce a profitto dei vescovi e
degli universitari un monopolio. E se la legge, contraddicendosi,
pretende di impedirlo, la forza delle cose, più potente della legge,
lo ripropone senza posa, e invece di un governo non abbiamo più che
venalità e finzione. [...]
L’economia politica, dice il Rossi, è in sé buona e utile, ma non è
la morale; essa procede facendo astrazione da qualsiasi moralità;
sta a noi non abusare delle sue teorie, approfittare dei suoi
insegnamenti, secondo le leggi superiori della morale. È come se
dicesse: l’economia politica, l’economia della società, non è la
società; l’economia della società procede facendo astrazione da ogni
società; sta a noi non abusare delle sue teorie, approfittare dei
suoi insegnamenti, secondo le leggi superiori della società. Che
caos!
Io sostengo non solo con gli economisti che la proprietà non è né la
morale, né la società, ma anche che essa è per suo principio
direttamente contraria alla morale e alla società, come l’economia
politica è antisociale perché le sue teorie sono diametralmente
opposte all’interesse sociale.
Stando alla definizione, la proprietà è il diritto di usare e di
abusare, cioè il dominio assoluto, irresponsabile, dell’uomo sulla
sua persona e sui suoi beni. Se la proprietà cessasse di essere il
diritto di abusare, essa cesserebbe di essere la proprietà. Io ho
preso i miei esempi nella categoria degli atti abusivi permessi al
proprietario. Che mai vi si opera che non sia di una legalità, di
una proprietà irreprensibile? il proprietario non ha forse il
diritto di dare il suo bene a chi gli pare e piace, di lasciar
bruciare il suo vicino senza gridare al fuoco, di fare opposizione
al bene pubblico, di scialacquare il suo patrimonio, di usufruire
dell’operaio e di vessarlo, di mal produrre e di mal vendere? il
proprietario può essere giuridicamente costretto a ben usare della
sua proprietà? può essere disturbato nell’abuso? Che dico: la
proprietà, precisamente perché è abusiva, non è forse per il
legislatore tutto ciò che c’è di più sacro? si conosce una proprietà
di cui la polizia determinerebbe l’uso, reprimerebbe l’abuso? e non
è evidente, infine, che se si volesse introdurre la giustizia nella
proprietà si distruggerebbe la proprietà stessa, come la legge,
introducendo l’onestà nel concubinaggio, ha distrutto il
concubinaggio?
La proprietà, per principio e per essenza, è dunque immorale: questa
proposizione è d’ora innanzi indubitabile per la critica. Di
conseguenza, il codice che, determinando i diritti del proprietario,
non ha riservato quelli della morale, è un codice di immoralità; la
giurisprudenza, questa pretesa scienza del diritto, la quale non è
altro che la collezione di rubriche proprietarie, è immorale. E la
giustizia, istituita per proteggere il libero e pacifico abuso della
proprietà, la giustizia, che ordina di prestare manforte contro
coloro che vorrebbero opporsi a questo abuso, che affligge e marchia
di infamia chiunque abbia osato pretendere di riparare gli oltraggi
della proprietà, la giustizia è infame. Se un figlio, soppiantato
nell’affezione paterna da una indegna concubina, distrugge l’atto
che lo diseredita e lo disonora, ne risponderà davanti la giustizia.
Accusato, arrestato, condannato, andrà al Bagno a fare ammenda
onorevole verso la proprietà, mentre la prostituta sarà entrata in
possesso. Dov’è dunque qui l’immoralità? dov’è l’infamia? non è
dalla parte della giustizia? Continuiamo a svolgere questa matassa e
sapremo ben presto tutta la verità che cerchiamo. Non solo la
giustizia, istituita per proteggere la proprietà, anche abusiva,
anche immorale, è infame, ma la sanzione penale è infame, la polizia
è infame, il boia e il patibolo sono infami. E la proprietà che
abbraccia tutta questa serie, la proprietà da cui è uscita questa
odiosa razza, la proprietà è infame.
Giudici armati per difenderla, magistrati il cui zelo è una minaccia
permanente a quelli che l’accusano, vi interrogo. Che cosa avete
visto nella proprietà che abbia potuto in tal modo soggiogare la
vostra coscienza e corrompere il vostro giudizio? quale principio,
superiore senza dubbio alla proprietà, più degno del vostro
rispetto, ve la rende sì preziosa? allorché le sue opere la
dichiarano infame, come mai la proclamate santa e sacra? quale
considerazione, quale pregiudizio vi spinge? è forse l’ordine
maestoso delle società umane, che non conoscete ma di cui supponete
la proprietà esserne il saldissimo fondamento?
No, perché la proprietà, così com’è, è per voi l’ordine stesso,
mentre d’altra parte è provato che la proprietà è di sua natura
abusiva, cioè disordinata, antisociale.
[Da Système des contradictions économiques, trad. it.: Sistema delle
contraddizioni economiche, Anarchismo, Catania 1975, pp. 40-41,
414438, 441-442, 452-453].
capitolo secondo
La concezione proudhoniana del politico definisce lo Stato come
forma dell’alienazione della forza collettiva esplicitata a tutti i
livelli, da quello sociale a quello economico, da quello culturale a
quello psicologico. Per mantenere la propria esistenza, che è
fittizia, esso non può che perpetuare l’espropriazione della società
e quindi conservare la disuguaglianza: solo a condizione che la
società sia e rimanga gerarchica, l’organizzazione statale può
sostituirsi a quella sociale, il politico rispondere alle esigenze
dell’economico e assolvere con autorità ciò che la società dovrebbe
svolgere con autonomia. Per Proudhon il principio dell’antagonismo e
del fatalismo politico porta alla metafisica governativa di una
gerarchia eterna. Questo dogma fondato sulla teologia della forza è
stato ripreso in pieno dalla democrazia giacobina e dal socialismo
autoritario, che lo hanno mutuato dall’aristocrazia e dalla
regalità. Si constata così, attraverso questa analogia simbolica,
una sorta di religione della forza, di mistica della ragione di
Stato, di fascino che ammanta il potere sociale, spingendolo come un
archetipo sacrale fino nel profondo dell’inconscio sociale. In
conclusione, l’idea dello Stato, secondo il pensatore francese, non
può prescindere da una dimensione teistica, neppure nelle sue
articolazioni formali (tanto da assumere perfino una qualche forma
trinitaria di potenza, assistenza e sicurezza). Ne fa esempio la
trasposizione dal piano teistico a quello fideistico operata dal
pensiero giacobino: in esso l’immagine indeterminata e collettiva
del popolo viene vissuta in chiave trascendente e sacrale, a estrema
riconferma del fatto che ogni Stato tende per sua natura a fondare
la propria legittimazione su di una dimensione mitica e mistica.
È proprio dunque della natura dello Stato, di ogni Stato, tendere a
un proprio rafforzamento attraverso un movimento di assorbimento
delle forze collettive e delle forze sociali. E non solo lo Stato è
spinto dalla sua logica intrinseca ad appropriarsi dell’azione
sociale, ma anche a centralizzare e unificare in una sola direzione
la pluralità della vita collettiva. Questo movimento, che comporta
l’aumento continuo delle funzioni statali a spese dell’iniziativa
individuale, corporativa, comunale e sociale, una volta iniziato
tende incessantemente a crescere, a invadere tutta la società,
perché la centralizzazione è per sua natura espansiva, invadente.
La società disegualitaria è dunque la condizione obiettiva
dell’esistenza dello Stato, allo stesso modo in cui l’esistenza di
questo è la condizione del mantenimento della disuguaglianza
sociale. La tendenza irreversibile dello Stato alla concentrazione e
all’appropriazione della forza sociale dipende quindi dal conflitto
delle classi, e più precisamente da ogni forma di gerarchia sociale
che, a sua volta, è la premessa fondamentale per l’estorsione della
forza collettiva.
Critica dello Stato
La stessa cosa non si può dire – anzi, è proprio il contrario – del
problema politico, cioè del significato preciso da assegnare, per
l’avvenire, al governo e allo Stato. Su tale punto la domanda non
viene neppure posta: nella coscienza pubblica, nell’intelligenza
delle masse non esiste. Una volta portata a compimento, nelle forme
che abbiamo appena detto, la rivoluzione economica, può, deve,
sussistere ancora il governo, lo Stato? Ecco ciò che nessuno, né
dentro la democrazia, né fuori della democrazia, osa mettere in
dubbio, e tuttavia si tratta di prendere in esame proprio questo
problema, se si vogliono evitare nuove catastrofi.
Noi dunque affermiamo, e finora siamo i soli a farlo, che con la
rivoluzione economica, da nessuno ormai messa in discussione, lo
Stato deve sparire completamente; che tale scomparsa dello Stato è
la conseguenza necessaria dell’organizzazione del credito e della
riforma dell’imposta; che, in seguito a questa doppia innovazione,
il governo diventa del tutto inutile e impossibile; che, a tal
proposito, il governo è destinato a fare la stessa fine della
proprietà feudale, del prestito a interesse, della monarchia
assoluta o costituzionale, delle istituzioni giudiziarie, ecc.,
tutte cose che sono sì servite all’educazione della libertà, ma che
cadono e svaniscono allorquando la libertà ha raggiunto la sua
pienezza.
Altri, invece, e tra questi Louis Blanc e Pierre Leroux in prima
fila, sostengono che dopo la rivoluzione economica, bisogna
mantenere lo Stato, di cui però fino a questo momento non hanno
fornito né il principio né il piano. Per essi la questione politica,
invece di annullarsi o identificarsi con la questione economica,
continua a sussistere: essi mantengono e allargano ulteriormente lo
Stato, il potere, l’autorità, il governo. In effetti, si divertono a
cambiare i nomi; al posto di Stato-padrone, per esempio, dicono
Stato-servitore, come se bastasse cambiare le parole per trasformare
le cose! Al di sopra di questo sistema di governo, del tutto
misterioso, aleggia un sistema religioso, del quale ogni cosa, il
dogma, il rito, lo scopo, sulla terra e in cielo, rimangono
altrettanto misteriosi.
In un momento come questo, dunque, un momento d’accordo, o quasi,
sul resto delle questioni, la domanda su cui si trova divisa la
democrazia socialista è la seguente: dovrà lo Stato continuare a
esistere una volta risolto il problema del lavoro e del capitale? In
altri termini, continueremo ad avere, così come l’abbiamo avuta fino
a ora, una costituzione politica al di fuori della costituzione
sociale?
Noi rispondiamo di no. Sosteniamo che, una volta identificati il
capitale e il lavoro, la società sussiste da sola e non ha più
bisogno del governo. Noi siamo, di conseguenza, e l’abbiamo
proclamato più di una volta, anarchici. L’anarchia è la condizione
di esistenza delle società adulte, così come la gerarchia è la
condizione di esistenza delle società primitive: nelle società umane
esiste un incessante progresso dalla gerarchia all’anarchia.
Louis Blanc e Pierre Leroux affermano il contrario: oltre alla loro
qualità di socialisti, essi conservano quella di politici; sono
uomini di governo e di autorità, uomini di Stato.
Per risolvere una volta per tutte questo contrasto di opinioni, ci
sembra allora necessario considerare lo Stato non più dal punto di
vista della vecchia società, che lo ha naturalmente e
necessariamente prodotto e che sta per finire, bensì dal punto di
vista della società nuova, così come la fanno o devono farla le due
riforme fondamentali e complementari del credito e dell’imposta.
Ora, se proviamo che da quest’ultimo punto di vista, lo Stato,
considerato nella sua natura, riposa su una ipotesi completamente
falsa; che, in secondo luogo, considerato nel suo oggetto, lo Stato
giustifica la propria esistenza con una seconda ipotesi, ugualmente
falsa; che, infine, considerato nell’ottica di una sua ulteriore
prosecuzione, lo Stato può contare ancora e soltanto su una terza
ipotesi, falsa come le prime due: una volta chiariti questi tre
punti, il nodo della questione sarà sciolto, lo Stato verrà
riconosciuto cosa superflua, quindi nociva e impossibile, il governo
diverrà una contraddizione. Passiamo subito all’analisi.
«Che cos’è lo Stato?» si domanda Louis Blanc. E risponde:
Lo Stato, in un regime monarchico, è il potere di un uomo, la
tirannia di uno solo.
Lo Stato, in un regime oligarchico, è il potere di un numero
ristretto di uomini, la tirannia di pochi.
Lo Stato, in un regime aristocratico, è il potere di una classe, la
tirannia di molti.
Lo Stato, in un regime anarchico, è il potere del primo venuto che è
per caso il più intelligente e il più forte; è la tirannia del caos.
Lo Stato, in un regime democratico, è il potere di tutto il popolo,
servito dai suoi eletti; è il regno della libertà.
Tra i 25.000 o 30.000 lettori di Louis Blanc, forse non ce ne sono
neppure una decina cui questa definizione dello Stato non sia
sembrata dimostrativa, e che non ripetano, seguendo il maestro: lo
Stato è il potere di uno, di pochi, di molti, di tutti o del primo
venuto, a seconda che si aggiunga alla parola Stato uno degli
aggettivi seguenti: monarchico, oligarchico, aristocratico,
democratico o anarchico. I delegati del Luxembourg – che, a quanto
pare, si sentono defraudati se qualcuno si permette di avere una
opinione diversa dalla loro sul significato e le tendenze della
Rivoluzione di Febbraio – in una lettera resa pubblica mi hanno
fatto l’onore di informarmi del fatto che essi giudicavano la
risposta di Louis Blanc decisamente vittoriosa e che io non avevo
altro da ribattere. A quanto pare, tra i cittadini delegati nessuno
ha studiato il greco. Perché altrimenti si sarebbero accorti che il
loro maestro e amico Louis Blanc, al posto di dire che cosa è lo
Stato, non ha fatto altro che tradurre in francese le parole greche
monos, uno; oligoi, alcuni; aristoi, i grandi; demos, il popolo, e a
privativo, che indica la negazione. Servendosi esattamente di questi
termini qualificativi, Aristotele ha potuto distinguere le
differenti forme dello Stato, che si esprime a sua volta con arché,
autorità, governo, Stato. Chiediamo scusa ai nostri lettori, ma non
è affatto colpa nostra se la scienza politica del presidente del
Luxembourg non va più in là dell’etimologia.
E si noti l’artificio! Nella sua traduzione è bastato a Louis Blanc
introdurre prima quattro volte la parola tirannia – tirannia di uno
solo, tirannia di molti, ecc. – e poi sopprimerla una volta – potere
del popolo, servito dai suoi eletti – per riscuotere a primo colpo
gli applausi. È tirannia qualunque tipo di Stato che non sia quello
democratico, nel senso in cui l’intende Louis Blanc. Soprattutto
l’anarchia è trattata in un modo particolare: è il potere del primo
venuto che è per caso il più intelligente e il più forte; è la
tirannia del caos. Che mostro questo primo venuto che, benché sia il
primo venuto, è per caso anche il più intelligente e il più forte ed
esercita la sua tirannia del caos. Se così stanno le cose, chi
potrebbe preferire l’anarchia a questo affabile governo di tutto il
popolo, servito così bene, come si sa, dai suoi eletti? Che grande
vittoria! E noi per terra, fin dal primo colpo. Ah! retore,
ringraziate il cielo di aver creato apposta per voi, nel XIX secolo,
una idiozia come quella dei vostri cosiddetti delegati delle classi
operaie, senza di che sareste morto sotto i fischi la prima volta
che avete preso in mano una penna.
Che cos’è lo Stato? A questa domanda bisogna dare una risposta:
l’enumerazione delle varie specie di Stati che, sulle orme di
Aristotele, ha fatto il cittadino Louis Blanc, non ci ha insegnato
nulla. Quanto a Pierre Leroux, non vale la pena interrogarlo. Ci
risponderebbe che la domanda è indiscreta, che lo Stato è sempre
esistito, che esisterà sempre: è la ragione ultima dei conservatori
e delle bonnes femmes.
Lo Stato è la costituzione esterna della potenza sociale.
A causa di questa costituzione esterna della sua potenza e
sovranità, il popolo non si governa da sé: c’è sempre qualcuno, a
volte un solo individuo, a volte molti, a titolo elettivo o
ereditario, incaricato di governarlo, amministrare i suoi affari,
trattare e fare compromessi in suo nome, fungere insomma da
capofamiglia, tutore gerente o mandatario, munito di procura
generale, assoluta e irrevocabile.
Questa costituzione esterna della potenza collettiva, che i Greci
chiamarono arché, principato, autorità, governo, riposa dunque
sull’ipotesi secondo cui un popolo, quell’essere collettivo che
chiamiamo società, non può governarsi, pensare, agire, esprimersi in
modo autonomo, proprio come fanno gli esseri dotati di personalità
individuale; e perciò ha bisogno di farsi rappresentare da uno o più
individui, i quali, con qualsiasi titolo, sono ritenuti depositari
della volontà del popolo e suoi agenti. Secondo tale ipotesi, è
impossibile che la potenza collettiva, che appartiene essenzialmente
alla massa, si esprima e agisca direttamente, senza la mediazione di
organi fatti apposta e per così dire disposti ad hoc. A quanto pare
– il che spiega la formazione di tutte le varietà e specie dello
Stato – l’essere collettivo, la società, proprio perché è un essere
razionale, non può rendersi sensibile, esteriorizzarsi, se non
tramite l’incarnazione monarchica, l’usurpazione aristocratica o il
mandato democratico; di conseguenza, gli è impedita ogni
manifestazione propria e personale.
Ora, è precisamente questa nozione astratta dell’essere collettivo,
della sua vita, della sua azione, della sua unità, della sua
individualità, della sua personalità – perché, capite, la società è
una
persona come è una persona l’umanità tutt’intera – è questa nozione
dell’essere umano collettivo, come ente di ragione, che noi neghiamo
oggi; e perciò neghiamo anche lo Stato, neghiamo il governo,
respingiamo dalla società trasformata dalla rivoluzione economica
qualsiasi costituzione della potenza popolare che si ponga al di
fuori e al di sopra della massa, assuma essa sembianze di monarchia
ereditaria, istituzione feudale o delegazione democratica.
Affermiamo, invece, che il popolo, la società, la massa, può e deve
governarsi autonomamente, pensare, agire, muoversi e arrestarsi come
un uomo, manifestarsi insomma nella sua individualità fisica,
intellettuale e morale, senza l’aiuto di quella specie di sostituti
che in passato furono i despoti, adesso sono gli aristocratici,
qualche altra volta sono stati i pretesi delegati, devoti o
servitori della folla, che noi chiamiamo puramente e semplicemente
agitatori del popolo, demagoghi.
In due parole, neghiamo il governo e lo Stato perché affermiamo – e
questo i fondatori di Stati non l’hanno mai creduto – la personalità
e l’autonomia delle masse.
Inoltre affermiamo che ogni costituzione di Stato ha il solo scopo
di condurre la società a questo stato di autonomia; che le varie
forme di Stato, dalla monarchia assoluta fino alla democrazia
rappresentativa, sono tutte mezzi termini, posizioni illogiche e
instabili, che hanno di volta in volta una funzione transitoria o di
tappe verso la libertà, nel senso che formano i gradi della scala
politica attraverso cui le società si elevano alla coscienza e al
possesso di se stesse.
Affermiamo, infine, che questa anarchia, che è l’espressione, come
si vede, del più alto grado di libertà e ordine cui possa giungere
l’umanità, è la vera formula della repubblica, lo scopo verso il
quale ci spinge la Rivoluzione di Febbraio; sicché c’è
contraddizione tra repubblica e governo, tra suffragio universale e
Stato.
Noi fondiamo queste affermazioni sistematiche su due procedimenti:
dimostrando in primo luogo, con il metodo storico e negativo, che
qualsiasi costituzione di potere, qualsiasi organizzazione della
forza collettiva che si basi su un processo di esteriorizzazione,
per noi è diventata impossibile. È quanto abbiamo incominciato a
fare nelle Confessioni di un rivoluzionario, con il raccontare la
caduta di tutti i governi che si sono succeduti in Francia da
sessant’anni a questa parte, mettendo in evidenza la causa della
loro abolizione, e insistendo infine sull’esaurimento e la morte del
potere sotto il regno corrotto di Luigi Filippo, durante la
dittatura inerte del governo provvisorio e la presidenza
insignificante del generale Cavaignac e di Luigi Bonaparte.
In secondo luogo, proviamo la nostra tesi spiegando in quale modo,
con la riforma economica, la solidarietà industriale e
l’organizzazione del suffragio universale, il popolo passi dalla
spontaneità alla riflessione e alla coscienza; agisca, non più per
impulso e fanatismo, ma con intenzione; si muova senza padroni e
servi, senza delegati e aristocratici, proprio come farebbe un
individuo. In questo modo, la nozione di persona, l’idea dell’io, si
estende e generalizza: c’è la persona o l’io individuale, e c’è pure
la persona o l’io collettivo; in tutti e due i casi, la volontà,
l’azione, l’anima, lo spirito, la vita – cose del tutto misteriose e
inafferrabili per chi ne rincorra il principio o ne ricerchi
l’essenza – sono inseparabili dalla loro esistenza animale e vitale,
dall’organizzazione. La psicologia delle nazioni e dell’umanità
diventa, come la psicologia dell’uomo, una scienza possibile. Noi
abbiamo annunciato questo tipo di dimostrazione positiva sia nelle
nostre pubblicazioni sulla circolazione e il credito, sia nel
capitolo XIV del manifesto de «La Voix du Peuple» riguardante la
costituzione.
Sicché, quando Louis Blanc e Pierre Leroux si erigono a difensori
dello Stato, cioè di una costituzione esterna della potenza
pubblica, non fanno che riprodurre, a modo loro e in forme che non
ci hanno ancora fatto conoscere, la vecchia finzione del governo
rappresentativo, la cui formula integrale, l’espressione più
completa, è ancora quella della monarchia costituzionale. Perché
abbiamo fatto la Rivoluzione di Febbraio, forse per arrivare a
questa contraddizione retrograda?
A noi sembra – voi che ne dite, lettori? – che la questione si stia
un po’ chiarendo; dopo quello che abbiamo appena detto, i poveri di
spirito saranno in grado di farsi una idea dello Stato, di capire
perché mai dei repubblicani si chiedono se sia davvero
indispensabile, dopo una rivoluzione economica che modifica tutti i
rapporti sociali, mantenere quell’organo parassitario chiamato
governo solo per soddisfare la vanità di pretesi uomini di Stato e
al prezzo di 2 miliardi all’anno. E gli onorevoli delegati del
Luxembourg che, solo perché occupano qualche poltrona, si credono
uomini politici e si aggiudicano risolutamente la comprensione
esclusiva della Rivoluzione, senza dubbio cesseranno di temere che
noi, a titolo di più intelligenti e di più forti, dopo aver
soppresso, perché inutile e troppo costoso, il governo, instaureremo
la tirannia del caos. Noi neghiamo lo Stato e il governo; noi
affermiamo l’autonomia del popolo e sosteniamo al tempo stesso la
sua maggioranza. Potremmo mai essere fautori della tirannia,
aspiranti al ministero, competitori di Louis Blanc e Pierre Leroux?
In verità, non riusciamo a capire la logica dei nostri avversari.
Essi accettano un principio senza preoccuparsi delle conseguenze; si
dichiarano d’accordo, per esempio, sull’uguaglianza dell’imposta che
l’imposta sul capitale realizza; adottano il principio del credito
popolare, reciproco e gratuito, perché tutti questi termini sono
sinonimi; approvano la decadenza del capitale e l’emancipazione del
lavoro. Quando poi arriva il momento di dedurre da tali premesse le
conseguenze antigovernative, protestano, continuano a parlare di
politica e di governo, senza domandarsi se il governo è compatibile
con la libertà e l’uguaglianza industriale; se è possibile una
scienza politica, quando è necessaria una scienza economica! Senza
scrupoli attaccano la proprietà, nonostante la sua antichità
venerabile; ma si inchinano davanti al potere come i sagrestani
davanti al Santo Sacramento. Per loro il governo è l’a priori
necessario e immutabile, il principio dei principi, l’arché eterna.
Certo, non scambiamo per prove le nostre affermazioni, sappiamo,
come chiunque altro, a quali condizioni si dimostra una
proposizione. Diremo soltanto che, prima di passare a una nuova
costituzione dello Stato, bisognerebbe chiedersi se, proprio
per le riforme economiche che la rivoluzione ci impone, non debba
essere abolito lo Stato in quanto tale; se cioè la fine delle
istituzioni politiche non sia implicita già nel senso e nella
portata della riforma economica. Chiediamo se, in realtà, dopo
l’esplosione di febbraio, l’instaurazione del suffragio universale,
la dichiarazione del potere alla volontà popolare, sia ancora
possibile un qualunque tipo di governo; se questo governo non si
ritroverebbe poi di fronte all’eterna alternativa o di obbedire
docilmente alle ingiunzioni cieche e contraddittorie della folla, o
di ingannarla deliberatamente, come ha fatto il governo provvisorio,
come hanno fatto sempre i demagoghi. Per lo meno, vorremmo sapere
quali delle diverse attribuzioni dello Stato debbano essere
conservate e allargate, e quali soppresse. Perché, se per caso, cosa
del tutto prevedibile, neppure una delle attuali attribuzioni dello
Stato sopravvivesse alla riforma economica, si dovrebbe allora
ammettere, in base a tale dimostrazione negativa, che nella nuova
condizione sociale lo Stato non è nulla, non può essere nulla; in
due parole, che il solo modo per organizzare il governo democratico
è la soppressione del governo.
Invece di tentare un’analisi positiva, pratica, realistica, del
movimento rivoluzionario, che fanno i nostri pretesi promotori?
Vanno a consultare Licurgo, Platone, Orfeo e tutta la saggezza
mitologica; interrogano le vecchie leggende; si aspettano dai
classici antichi la soluzione di problemi assolutamente moderni, e
poi per risposta ci propinano le illuminazioni vertiginose del loro
cervello.
E, di nuovo, sarebbe questa la scienza della società e della
rivoluzione che doveva, a prima vista, risolvere tutti i problemi,
la scienza essenzialmente pratica e immediata, senza dubbio una
scienza eminentemente tradizionale, ma sopra ogni cosa progressiva,
e nella quale il progresso si realizza attraverso la negazione
sistematica della tradizione stessa? [...]
Abbiamo appena constatato che la nozione di Stato, visto nella sua
natura, si basa per intero su una ipotesi almeno equivoca, quella
dell’impersonalità e dell’inerzia fisica, intellettuale e morale
delle masse. Ora proveremo che questa stessa nozione di Stato, dal
punto di vista del suo oggetto, riposa su un’altra ipotesi, ancora
più dubbia della prima, quella della permanenza dell’antagonismo in
seno all’umanità, ipotesi che a sua volta è una prosecuzione del
dogma primitivo della caduta e del peccato originale. Citiamo ancora
«Le Nouveau Monde»:
Che cosa succede se si consente al più intelligente o al più forte
di ostacolare lo sviluppo delle facoltà di chi è meno forte o meno
intelligente? Succederà che la libertà andrà distrutta.
Come impedire questo delitto? Intromettendo tra l’oppressore e
l’oppresso tutto il potere del popolo.
Se Jacques opprime Pierre, i 34 milioni di uomini che compongono la
società francese accorreranno tutti in una volta per proteggere
Pierre, per salvaguardare la libertà? Sarebbe ridicolo pretendere
una cosa del genere.
Come dovrebbe intervenire allora la società? Per mezzo di chi essa
avrà scelto a questo fine come suoi rappresentanti.
Ma chi sono questi rappresentanti della società, questi servitori
del popolo? Lo Stato.
Dunque lo Stato non è altro che la società stessa, che agisce come
società, per impedire... cosa? l’oppressione; per mantenere... cosa?
la libertà.
Adesso è chiaro. Lo Stato è una rappresentazione della società,
organizzata esteriormente per proteggere il debole contro il forte;
in altri termini, per mettere pace tra i contendenti e fare ordine!
Come si vede, Louis Blanc non è andato lontano a cercare lo scopo
dello Stato. Esso perdura in tutti gli autori che si sono occupati
di diritto pubblico, fin da Grotius, Giustiniano, Cicerone, ecc. È
la tradizione orfica riportata da Orazio:
Il divino Orfeo, interprete degli dèi, richiamò gli uomini dal fondo
delle foreste e inculcò loro l’orrore degli assassini e della carne
umana. Di lui si dice anche che rese più docili i leoni e le tigri,
come dopo si racconta di Anfione, il fondatore di Tebe, che riusciva
a smuovere le pietre con il suono della sua lira e con l’incantesimo
della sua preghiera le portava dove voleva.
Il socialismo, lo sapevamo, per certuni non richiede grandi sforzi
di immaginazione. Basta imitare piattamente i vecchi mitologi;
copiare il cattolicesimo pur inveendo contro di esso; scimmiottare
il potere che si brama; gridare poi con tutte le proprie forze:
Libertà, Uguaglianza, Fratellanza! e il gioco è fatto. Si diventa
rivelatori, riformatori, riportatori democratici e sociali; si
diventa candidati designati al ministero del progresso, e perfino
alla dittatura della repubblica!
Così, secondo il parere di Louis Blanc, il potere è nato dalla
barbarie; la sua organizzazione attesta l’esistenza di uno stato
primitivo di ferocia e violenza, effetto della totale assenza di
commerci e industria. Lo Stato ha dovuto mettere fine a questa
barbarie, contrapponendo alla forza di ogni individuo una forza
superiore, capace, in mancanza di altri argomenti, di costringere la
sua volontà. La costituzione dello Stato presuppone quindi, lo
dicevamo prima, un antagonismo sociale profondo, homo homini lupus:
è quanto afferma lo stesso Louis Blanc quando, dopo aver distinto
gli uomini in forti e deboli, impegnati come bestie feroci a
contendersi il cibo, fa intervenire tra di essi, in qualità di
mediatore, lo Stato.
Dunque lo Stato sarebbe inutile, lo Stato non avrebbe né scopo né
motivo di esistere, lo Stato dovrebbe abrogarsi da solo se arrivasse
un momento in cui, per una causa qualunque, non ci fossero più nella
società né forti né deboli, in cui cioè la disuguaglianza delle
forze fisiche e intellettuali non potesse essere causa di
spoliazioni e oppressione, indipendentemente dalla protezione, più
fittizia che reale del resto, dello Stato.
Ora, è esattamente questa la tesi che sosteniamo noi oggi.
Ciò che ingentilisce i costumi e che a poco a poco fa regnare il
diritto al posto della forza, ciò che fonda la sicurezza, che crea
progressivamente la libertà e l’uguaglianza, è, più che la religione
e lo Stato, il lavoro; è, in primo luogo, l’industria e il
commercio; poi la scienza, che lo spiritualizza; e infine l’arte,
suo fiore immortale. La religione, con le sue promesse e i suoi
terrori, lo Stato, con i suoi tribunali e i suoi eserciti, hanno
dato al sentimento del diritto, troppo debole nei primi uomini,
l’unica sanzione possibile e comprensibile per degli spiriti
selvaggi. Per noi, corrotti, come diceva Jean-Jacques,
dall’industria, le scienze, le lettere, le arti, questa sanzione
risiede altrove: essa è nella divisione delle proprietà,
nell’ingranaggio delle industrie, nello sviluppo del lusso, nel
bisogno imperioso di benessere, bisogno che rende per tutti
necessario il lavoro. Dopo la rudezza delle prime ere, dopo la
superbia delle caste e la costituzione delle prime società feudali,
rimaneva ancora in piedi un ultimo elemento di servitù: ed era il
capitale. Se il capitale perde il suo predominio, il lavoratore,
cioè il commerciante, l’industriale, l’agricoltore, lo scienziato,
l’artista, non ha più bisogno di protezione; bastano a proteggerlo
il suo talento, la sua scienza, la sua industria. Dopo la decadenza
del capitale, la conservazione dello Stato, invece di proteggere la
libertà, non può che comprometterla.
L’idea della specie umana, della sua essenza, della sua
perfettibilità, della sua sorte, sarebbe veramente triste se venisse
concepita come un’agglomerazione di individui esposti
necessariamente, a causa della disuguaglianza delle forze fisiche e
intellettuali, al pericolo costante di una spoliazione reciproca o
della tirannia di alcuni. Una idea del genere rispecchia la
filosofia più retriva; appartiene a quei tempi di barbarie nei quali
l’assenza dei veri elementi dell’ordine sociale non consentiva al
genio del legislatore l’uso di strumenti diversi dal puro e semplice
ricorso alla forza; nei quali la supremazia di un potere
pacificatore e vendicatore appariva a tutti come la giusta
conseguenza di una degradazione anteriore e di una macchia
originale. Per essere più espliciti, le istituzioni politiche e
giudiziarie per noi rappresentano la formula esoterica e concreta
del mito della caduta, del mistero della redenzione e del sacramento
della penitenza. Ed è curioso vedere dei socialisti, che si dicono
nemici o rivali della Chiesa e dello Stato, recuperare poi tutto
quello che oltraggiano: il sistema rappresentativo in politica, il
dogma della caduta in religione.
Giacché si parla tanto di dottrina, dichiariamo francamente che la
nostra è completamente diversa.
Per noi, lo stato morale della società si modifica e diventa
migliore insieme al suo stato economico. Una cosa è la moralità di
un popolo selvaggio, ignorante e senza industria; altra cosa quella
di un popolo lavoratore e creatore; di conseguenza, nell’uno e
nell’altro caso sono diverse anche le garanzie sociali. In una
società trasformata, quasi a sua insaputa, dallo sviluppo
dell’economia, non ci sono più né forti né deboli; ci sono soltanto
lavoratori, le cui facoltà e mezzi tendono incessantemente a
eguagliarsi con la solidarietà industriale e la garanzia della
circolazione. Per assicurare il diritto e il dovere di ciascuno
risulta vano il ricorso dell’immaginazione all’idea di autorità e di
governo, che se mai è indice della disperazione profonda di anime
per lungo tempo spaventate dalla polizia e dal sacerdozio; basta
l’esame più semplice delle funzioni dello Stato per dimostrare che,
se la disuguaglianza delle fortune, l’oppressione, le spoliazioni e
la miseria non sono affatto l’eterno appannaggio della nostra
natura, il primo cancro da estirpare, dopo lo sfruttamento
capitalistico, la prima piaga da guarire, è proprio lo Stato.
Vediamo concretamente, bilanci alla mano, che cos’è lo Stato.
Lo Stato è l’esercito. Riformatori, avete bisogno di un esercito per
difendervi? In tal caso, voi intendete la sicurezza pubblica alla
maniera di Cesare e Napoleone... Non siete repubblicani, siete dei
despoti.
Lo Stato è la polizia; polizia urbana, polizia rurale, polizia delle
acque e foreste. Riformatori, avete bisogno della polizia? Allora
voi intendete l’ordine come Fouché, Gisquet, Caussidière e Carlier.
Non siete democratici, siete delatori.
Lo Stato è tutto il sistema giudiziario: giudici di pace, preture,
corti d’appello, corte di cassazione, alta corte, tribunali di
probiviri, tribunali di commercio, consigli di prefettura, consiglio
di Stato, consigli di guerra. Riformatori, avete proprio bisogno di
tutti questi apparati? Allora intendete la giustizia come Baroche,
Dupin e Perrin Dandin. Non siete affatto socialisti, siete delle
vecchie volpi. Lo Stato è il fisco, il bilancio. Riformatori, non
volete l’abolizione delle imposte? Allora voi intendete la ricchezza
pubblica come Thiers, secondo il quale i bilanci più grossi sono
quelli migliori. Non siete affatto organizzatori del lavoro, siete
dei gabellieri. Lo Stato è la dogana. Riformatori, avete bisogno di
dazi differenziali e barriere doganali per proteggere il lavoro
nazionale? Allora vi intendete di commercio e di circolazione come
Fould e Rothschild. Non siete affatto apostoli della fratellanza,
siete degli ebrei.
Lo Stato è il debito pubblico, la moneta, l’ammortamento, le casse
di risparmio, ecc. Riformatori, è questa la vostra scienza
fondamentale? Allora voi intendete l’economia sociale alla maniera
di Humann, Lacave-Laplagne, Garnier-Pagès, Passy, Duclerc e
dell’Uomo dei quaranta scudi. Siete come Turcaret.
Lo Stato... ma conviene fermarsi. Non c’è nulla, assolutamente nulla
nello Stato, dalla testa ai piedi della gerarchia, che non sia abuso
da sanare, parassitismo da sopprimere, strumento di tirannia da
distruggere. Voi ci venite a dire che bisogna conservare lo Stato,
moltiplicare le funzioni dello Stato, rendere sempre più forte il
potere dello Stato! Via, non siete per niente rivoluzionari; perché
i veri rivoluzionari sono essenzialmente semplificatori e liberali.
Voi siete mistificatori, illusionisti; siete dei confusionari.
Qui spunta, a favore dello Stato, un’ultima ipotesi. Pur se lo
Stato, affermano gli pseudodemocratici, fino a questo momento ha
svolto solo un ruolo parassitario e tirannico, non per questo
bisogna negargli una destinazione più nobile e umana. Lo Stato è
destinato a diventare il principale organo della produzione, del
consumo e della circolazione; il promotore della libertà e
dell’uguaglianza.
Perché la libertà e l’uguaglianza sono lo Stato.
Il credito è lo Stato.
Il commercio, l’agricoltura e l’industria sono lo Stato.
I canali, le ferrovie, le miniere, le assicurazioni, come pure i ta-
bacchi e le poste, sono lo Stato.
L’istruzione pubblica è lo Stato.
In definitiva, lo Stato, messe da parte le sue funzioni negative,
dovrebbe assumerne altre, positive; da oppressore, improduttivo e
retrivo, qual è stato, dovrebbe diventare organizzatore, produttore
e servitore. Sarebbe, questa, la feudalità rigenerata, la gerarchia
delle associazioni operaie, organizzate e scaglionate secondo una
potente formula di cui Pierre Leroux si riserva di rivelarci il
segreto.
Così, gli organizzatori dello Stato suppongono – giacché, in realtà,
questi non fanno che andar di supposizione in supposizione – che lo
Stato possa cambiar natura e, per così dire, trasformarsi da sé,
tramutarsi da Satana in Arcangelo e, dopo aver vissuto per secoli di
sangue e carneficine come una bestia feroce, brucare il citiso con
le caprette e allattare gli agnelli. Questo ci insegnano Louis Blanc
e Pierre Leroux; ed è tutto qui, noi lo dicevamo da molto tempo, il
segreto del socialismo.
Noi amiamo il potere tutelare, generoso, devoto, che assume come
massima queste profonde parole del Vangelo: «Il primo tra di voi sia
il servitore di tutti gli altri», e odiamo invece il potere
depravato, corruttore, oppressivo, che fa del popolo la sua preda.
Lo ammiriamo quando rappresenta la parte generosa e vivente
dell’umanità; lo aborriamo quando ne rappresenta la parte
cadaverica. Ci ribelliamo contro tutta l’insolenza, l’usurpazione,
il brigantaggio presenti nella nozione di STATO-PADRONE, mentre
applaudiamo a quel che di commovente, fecondo e nobile c’è nella
nozione di STATO-SERVITORE.
Diciamo meglio: c’è una fede alla quale noi teniamo mille volte di
più della vita, e questa è la nostra fede nella prossima e
definitiva TRASFORMAZIONE del potere. Sta qui il passaggio trionfale
dal vecchio al nuovo mondo. Tutti i governi dell’Europa di oggi si
basano sulla nozione di STATO-PADRONE; ma eccoli ormai danzare,
sconvolti, il girotondo dei morti... («Le Nouveau Monde», 15
novembre 1849).
Pierre Leroux è immerso completamente in queste teorie. Ciò che
vuole, insegna, invoca, è una rigenerazione dello Stato – ma non ha
ancora detto come e con chi deve realizzarsi questa rigenerazione –
come pure vuole e invoca una rigenerazione del cristianesimo, senza
aver potuto, finora, formulare il suo dogma e dare il suo credo.
Contrariamente a Pierre Leroux e Louis Blanc, noi pensiamo che la
teoria dello Stato tutelare, generoso, devoto, produttore,
promotore, organizzatore, liberale e progressivo, sia una utopia,
una pura illusione della loro ottica intellettualistica. Pierre
Leroux e Louis Blanc assomigliano, secondo noi, a un uomo che,
stando in piedi su uno specchio e vedendo la sua immagine
rovesciata, è sicuro che tale immagine diventerà una realtà e
sostituirà un giorno, ci sia concessa l’espressione, la sua persona
naturale.
Ecco cosa ci separa da questi due uomini; e checché ne dicano, non
ci siamo mai sognati di negare i loro talenti e servizi, bensì
deploriamo la loro ostinata allucinazione. Noi non crediamo allo
Stato-servitore: per noi esso è semplicemente una contraddizione.
Servitore e padrone, quando si riferiscono allo Stato, sono
sinonimi; come più o meno sono termini identici quando si
riferiscono all’uguaglianza. Il proprietario, con l’interesse del
capitale, chiede più dell’uguaglianza; il comunismo, con la formula:
A ciascuno secondo i suoi bisogni concede meno dell’uguaglianza: si
tratta sempre di disuguaglianza; ed è questa la ragione per la quale
noi non siamo né comunisti né proprietari. Similmente, chi dice
Stato-padrone, dice usurpazione della potenza pubblica; chi dice
Stato-servitore, dice delega della potenza pubblica; è sempre
un’alienazione di questa potenza, sempre una potenza, un’autorità
esterna, arbitraria, al posto dell’autorità immanente, inalienabile,
non trasferibile, dei cittadini: sempre più o meno della libertà.
Per questa ragione noi non vogliamo lo Stato.
D’altronde, tanto per uscire dalla metafisica e rientrare nel
dominio dell’esperienza, abbiamo qualcosa da dire a Louis Blanc e a
Pierre Leroux.
Voi pretendete e affermate che lo Stato, il governo, possa e debba
essere trasformato integralmente nel suo principio, nella sua
essenza, nella sua azione, nei suoi rapporti con i cittadini, nelle
sue realizzazioni concrete; e così, che lo Stato, bancarottiere e
falsario, debba essere la fonte di ogni credito; che a esso, per
tanti secoli avversario dei lumi e ancora oggi ostile
all’insegnamento primario e alla libertà di stampa, proprio a esso
spetti provvedere, d’ufficio, all’istruzione dei cittadini; che,
dopo aver lasciato che il commercio, l’industria, l’agricoltura e
tutti gli strumenti della ricchezza si sviluppassero senza il suo
intervento e, spesso, anche malgrado la sua resistenza, spetti allo
Stato farsi promotore assoluto del lavoro e delle innovazioni; che,
infine, questo eterno avversario della libertà debba, ancora, non
già lasciare in pace la libertà, bensì creare, dirigere la libertà.
In questa meravigliosa trasformazione dello Stato consisterebbe,
secondo voi, la rivoluzione attuale.
Voi dovete, allora, esibire le prove della vostra ipotesi, dedurre
la sua legittimità, i suoi titoli storici, esporne la filosofia; e
al tempo stesso metterla in pratica.
Ora, già è evidente che nella vostra ipotesi teoria e pratica, tutto
insomma, è in contraddizione formale sia con l’idea stessa, sia con
la storia, sia infine con le tendenze più autentiche dell’umanità.
Secondo noi, la vostra teoria è in contraddizione con se stessa,
poiché pretende di fare della libertà una creazione dello Stato,
mentre invece è lo Stato che deve essere una creazione della
libertà. Difatti, se lo Stato si impone alla mia volontà, lo Stato è
padrone; io non sono libero; la teoria cade.
Essa è in contraddizione con i fatti storici, giacché siete voi i
primi a riconoscere che quanto di positivo, di bello e di buono si
sia prodotto nella sfera dell’attività umana, è stato frutto
esclusivo della libertà, la quale ha agito indipendentemente dallo
Stato e quasi sempre in opposizione con lo Stato; il che conduce
direttamente alla conclusione che manda in rovina il vostro sistema:
la libertà basta a se stessa e non ha alcun bisogno dello Stato.
La vostra teoria, infine, è in contraddizione con le tendenze
manifeste della civiltà poiché, anziché arricchire senza posa la
libertà e la dignità individuale, facendo, secondo il precetto di
Kant, di ogni anima umana un esemplare dell’umanità intera, una
delle facce dell’anima collettiva, voi subordinate la persona
privata alla persona pubblica, sottomettete l’individuo al gruppo,
assorbite il cittadino nello Stato.
Tocca a voi superare, con un principio superiore alla libertà e allo
Stato, tutte queste contraddizioni. Quanto a noi, che neghiamo
semplicemente lo Stato, che seguiamo con decisione la linea della
libertà e restiamo fedeli alla pratica rivoluzionaria, non è compito
nostro dimostrare la falsità della vostra ipotesi; le prove le
aspettiamo da voi. Lo Stato-padrone è finito, su questo siete
d’accordo con noi. Quanto allo Stato-servitore, non abbiamo l’idea
di cosa possa essere; ma sospettiamo che si tratti di una grandiosa
ipocrisia. Anzi, a dire il vero, questo Stato-servitore ci fa
pensare a una serva padrona; a noi non piace; preferiamo, fino a
prova contraria, prendere come legittima sposa la libertà.
Spiegateci insomma, se vi è possibile, per quale ragione, dopo che
abbiamo demolito lo Stato per amore di questa adorata libertà,
dovremmo adesso, per effetto dello stesso amore, ripristinare lo
Stato. Fino a quando non avrete risolto questo problema, noi
continueremo a protestare contro qualsiasi governo, qualsiasi
autorità, qualsiasi potere; sosterremo verso e contro tutti la
prerogativa della libertà. Vi diremo: per noi, la libertà è cosa
acquisita; ebbene, voi conoscete la regola giuridica: melior est
conditio possidentis. Presentate i vostri diritti alla
riorganizzazione del governo; altrimenti, niente governo!
Riassumiamo.
Lo Stato è la costituzione esterna della potenza sociale.
Tale costituzione presuppone, per principio, che la società sia
un ente privo di spontaneità, governo, unità, e che, per agire,
abbia bisogno di essere fittiziamente rappresentata da uno o più
mandatari, a titolo elettivo o ereditario: ma lo sviluppo economico
delle società e insieme l’organizzazione del suffragio universale
dimostrano che questo presupposto è falso.
La costituzione dello Stato suppone inoltre, quanto al suo oggetto,
che l’antagonismo o lo stato di guerra sia la condizione essenziale
e indelebile dell’umanità, condizione che rende necessario, tra i
deboli e i forti, l’intervento di una forza coercitiva che,
opprimendo tutti, faccia cessare gli antagonismi. Noi sosteniamo
che, così intesa, la missione dello Stato non ha più ragione di
esistere; che ormai, con la divisione del lavoro, la solidarietà
industriale, il gusto del benessere, l’uguale ripartizione del
capitale e dell’imposta, offrono alla libertà e alla giustizia
garanzie di gran lunga più sicure di quelle che offrivano loro un
tempo la religione e lo Stato.
Per quel che riguarda la trasformazione utilitaria dello Stato, noi
la consideriamo una utopia, contraddetta al tempo stesso e dalla
storia dei governi, e dalla tendenza rivoluzionaria, e dallo spirito
delle riforme economiche ormai accettate. In ogni caso, noi diciamo
che solo alla libertà spetterebbe riorganizzare il potere, il che
oggi vuol dire eliminare del tutto il potere. In conclusione, o
niente rivoluzione sociale, o niente governo; questa è, sul problema
politico, la nostra soluzione.
[Da Les confessions d’un révolutionnaire, trad. it. (estratti): in
P. Ansart, P.-J. Proudhon, La Pietra, Milano 1978, pp. 71-84].
capitolo terzo
Proudhon svolge una doppia analisi critica rispetto al comunismo. Da
un lato vuol dimostrare l’assoluta inconsistenza del suo progetto
positivo, tutto fondato sull’irreale idea di eliminare la proprietà
tout court, dall’altro vuol mettere in luce i suoi esiti dispotici
perché questo ricostituirà, sotto il modo della «proprietà
collettiva», una nuova e più potente forma di proprietà. In altri
termini, Proudhon intende svelare la natura proprietaria dello
stesso comunismo. Infatti, la proprietà è in tutti i casi
ineliminabile e pertanto essa esisterà anche in una società dove è
stata eliminata la proprietà privata. Anzi, in una tale società, gli
effetti negativi della proprietà saranno maggiori perché il
privilegio reale verrà occultato dall’ideologia collettivista; il
fatto concreto, assolutamente ineliminabile, che i mezzi di
produzione sono sotto il controllo di qualcuno (classe, individuo,
ente) verrà mascherato dall’illusione della collettivizzazione.
Credere di cancellare lo sfruttamento e la proprietà attraverso la
semplice abolizione della proprietà privata diventa, appunto, solo
una illusione, perché non abolisce ma semplicemente trasferisce da
un soggetto all’altro, dal dominio privato a quello pubblico, la
proprietà stessa. Tale progetto non può che portare a quella che è
la massima espressione negativa della proprietà: l’essere
connaturata al monopolio di Stato dei mezzi di produzione.
Il comunismo, infatti, abolisce solo il modo di produzione generato
dal capitale, vale a dire lo sfruttamento del lavoro umano come
lavoro astratto generale, come merce, ma non distrugge per nulla la
causa della proprietà, perché questa si ricostituisce sotto le
spoglie di un diverso controllo e sfruttamento della forza
collettiva. Non esplicitando il fatto reale che la proprietà, intesa
come inevitabile attribuzione a qualcuno dei mezzi di produzione, è
in tutti i casi ineliminabile, esso permette che nei fatti questo
qualcuno, mimetizzato dietro il mito della «proprietà collettiva»,
possa veramente controllare e sfruttare il lavoro monopolizzato
dallo Stato. In tal caso la proprietà si ricostituisce non come
proprietà giuridico-privata dei mezzi di produzione, come
riconoscimento ufficiale, ma come reale possesso da parte di chi
detiene e controlla in qualche modo il monopolio del lavoro.
Il comunismo può dunque realizzarsi soltanto violentando le leggi
immanenti e obiettive della società, coartando la struttura
antinomica del sociale, che invece richiede una equazione superiore
intesa come equilibrio degli opposti, piuttosto che come loro
liquidazione in una soffocante sintesi autoritaria. In altri
termini, il comunismo non può che darsi a prezzo della dittatura e
della sua trasformazione in regime poliziesco.
Critica del comunismo
La prima cosa che mi ha messo in guardia contro l’utopia comunista,
ma di cui i partigiani più o meno accusati di questa utopia non si
danno per intesi, è che la comunanza è una delle categorie
dell’economia politica, di questa pretesa scienza che il socialismo
ha per missione di combattere, e che definisco la descrizione delle
consuetudini proprietarie. Come la proprietà è il monopolio elevato
alla sua seconda potenza, così la comunanza non è altra cosa che
l’esaltazione dello Stato, la glorificazione della polizia. E come
lo Stato si è volto, nella quinta epoca, a reazione o monopolio,
così pure, nella fase in cui siamo pervenuti, il comunismo appare
per dare scaccomatto alla proprietà.
Il comunismo riproduce, dunque, ma su un piano inverso, tutte le
contraddizioni dell’economia politica. Il suo segreto consiste nel
sostituire l’uomo collettivo all’individuo in ciascuna delle
funzioni sociali: produzione, scambio, consumo, educazione,
famiglia. E siccome questa nuova evoluzione non concilia e non
risolve niente, essa termina fatalmente, al pari delle precedenti,
con l’iniquità e con la miseria.
Così il destino del socialismo è affatto negativo: l’utopia
comunista, sortita dal lato economico dello Stato, è la controprova
del costume egoistico e proprietario! Da questo punto di vista essa
non manca, è vero, di una certa utilità: serve alla scienza sociale,
come serve alla filologia l’opposizione di niente a qualche cosa.
Il socialismo è una logomachia: sono sorpreso che gli economisti non
se ne siano accorti. La comunione, come la concorrenza, l’imposta,
la dogana, la banca, è di competenza dell’economia politica; la
comunanza è al fondo della teoria della divisione del lavoro, della
forza collettiva, delle spese generali, delle società anonime e in
accomandita, delle casse di risparmio e di assicurazione, delle
banche di circolazione e di credito, ecc.; la comunione, in una
parola, è dappertutto, come lo spazio, ed è nulla.
Tutte le utopie socialiste, dall’Atlantide di Platone sino
all’Icaria di Cabet, nel loro più stretto significato si riducono a
questa sostituzione di un’antinomia con un’altra. Il merito, in
tutte, quanto a invenzione, è zero; l’abbellimento non è che un
insignificante accessorio; e per ciò che riguarda la decadenza della
facoltà utopica segnalata presso gli autori, essa viene unicamente
dalle correzioni che l’esperienza loro impone e che sono altrettante
apostasie da parte loro. Del resto, questi scrittori, di cui non ho
riguardo di disconoscere le intenzioni, sono tutti insipidi plagiari
degli economisti, proprietari travestiti che, mentre l’umanità sale
penosamente la montagna in cui deve trasfigurarsi, si danno
l’originalità di ridiscenderla.
Ed è per questo che diventerei comunista? Ma ciò sarebbe gettarmi
nel chimerico per sfuggire l’impossibile, e per paura di Loyola,
abbracciare Cagliostro. [...]
Il sole, l’aria e il mare sono comuni: il godimento di questi
oggetti presenta il più alto grado di comunismo possibile! Nessuno
può piantarvi confini, dividerli e delimitarli. Si è notato, non
senza ragione, che l’immensità della distanza, la profondità
impenetrabile, l’instabilità perpetua, avevano potuto sottrarli
all’appropriazione. Tale e così grande è la forza di questo istinto
che ci spinge alla divisione e alla guerra! Il risultato dunque di
questa prima osservazione, cosa preziosa per la scienza, è che la
proprietà è tutto ciò che si definisce, la comunanza tutto ciò che
non si definisce! Quale può essere, dopo questo, il punto di
partenza del comunismo?
I grandi lavori dell’umanità partecipano a questo carattere
economico delle potenze della natura. L’uso delle strade, delle
piazze pubbliche, delle chiese, musei, biblioteche, ecc., è comune.
Le spese per la loro costruzione sono fatte in comune, benché la
ripartizione di queste spese sia lungi dall’essere uguale, ciascuno
contribuendovi in ragione precisamente inversa della sua fortuna.
Donde si vede, cosa preziosa a notare, che uguaglianza e comunanza
non sono la stessa cosa! Certi economisti pretendono pure che i
lavori di utilità pubblica dovrebbero essere eseguiti dall’industria
privata, più attiva, secondo loro, più diligente e meno cara;
tuttavia non si è d’accordo su questo punto. Quanto all’uso degli
oggetti, resta invariabilmente comune; non è mai venuta a nessuno
l’idea che questa sorta di cose dovessero essere appropriate. [...]
L’uomo che abbiamo visto nel periodo della sua educazione, nel
compimento dei suoi doveri civili e religiosi e nell’esercizio delle
funzioni pubbliche, semi-comunista, l’uomo diventa nell’industria,
nel commercio, nell’agricoltura, affatto proprietario. Produce,
cambia e consuma in una maniera esclusivamente privata, e non
conserva che rare relazioni con la comunanza. Per effetto di un
istinto irresistibile e di un pregiudizio affascinatore che risale
ai tempi più lontani della storia, ogni operaio aspira a divenire
imprenditore, ogni compagno vuol diventare padrone, ogni giornaliero
sogna di fare fortuna, come un tempo ogni plebeo sognava di
diventare nobile. E notate una cosa che deve eccitare la vostra
impazienza tanto quanto mi stupisce: non c’è alcuno che ignori lo
svantaggio dello smembramento, le gravezze della vita domestica,
l’imperfezione della piccola industria, i danni dell’isolamento. La
personalità è più forte di tutte le considerazioni; l’egoismo
preferisce i rischi della lotteria all’assoggettamento della
comunanza, se la ride dei teoremi dell’economia politica.
Insomma, la comunione ci coglie all’origine e ci si impone
fatalmente di fronte alle grandi potenze della natura.
Quanto alla sua essenza, la comunione ripugna alla definizione; non
è la stessa cosa che l’uguaglianza; non è vincolata in alcun modo
alla materia e dipende tutta dal libero arbitrio; si distingue
dall’associazione e si avvicina all’egoismo. Appena l’industria
comincia a nascere e il lavoro produce i suoi primi abbozzi, la
personalità entra in lotta con la comunione, che ci appare allora,
sulla soglia domestica e persino nel letto coniugale, di già
imperfetta e vacillante. Più tardi la troveremo incompatibile con
una educazione liberale e vigorosa; infine, essa declina rapidamente
nelle funzioni salariate e sparisce tutt’affatto nel lavoro libero.
Tutto questo risulta dalla necessità delle cose tanto quanto dalla
spontaneità della nostra natura: gli economisti lo avevano
riconosciuto da lungo tempo. [...]
La fratellanza! Ecco dunque, secondo Cabet, il fondo, la forma e la
sostanza dell’insegnamento comunista. È giusto riconoscerlo, Cabet,
come Saint-Simon e Fourier, è caposcuola. San Paolo, rispondendo ai
giudici increduli che lo interrogavano sulla sua dottrina, diceva
loro con superba ironia: «Io non so che una cosa, Gesù crocifisso».
Cabet parla come san Paolo e dice ai suoi neofiti: «Io non so che
una cosa, la fratellanza». [...]
Ora, a questa parola fratellanza, che contiene tante cose,
sostituite, con Platone, la repubblica, che non dice meno, oppure
con Fourier l’attrazione, che dice ancora più; oppure con Michelet
l’amore e l’istinto, che comprendono tutto; oppure con altri la
solidarietà, che riunisce tutto; o infine, con Louis Blanc, la
grande forza di iniziativa dello Stato, sinonimo dell’onnipotenza di
Dio. E allora vedrete che tutte queste espressioni sono
perfettamente equivalenti, di modo che Cabet, rispondendo dall’alto
del suo «Populaire» alla domanda che gli era stata fatta, «la mia
scienza è la fratellanza», ha parlato per tutto il socialismo. Noi
proveremo, infatti, che tutte le utopie socialiste, senza eccezione,
si riducono all’enunciato così corto, così categorico, così
esplicito di Cabet: la mia scienza è la fratellanza; sicché chiunque
osasse aggiungervi una sola parola di commento, cadrebbe tosto
nell’apostasia e nell’eresia. Il che vuol dire che né Platone, né
gli Gnostici, né i primi Padri, né i Valdesi, né Moro, né
Campanella, né Babeuf, né Owen, né SaintSimon, né Fourier, né il
loro continuatore Cabet, sono in grado, con l’aiuto del loro
principio, di spiegare la società e ancor meno di imporle delle
leggi.
Ma come mai fra tutte queste espressioni – fratellanza, amore,
attrazione, ecc. – che pretendiamo essere di uguale forza Cabet ha
preferito la prima? Questo merita una spiegazione.
La prima cosa a cui deve lavorare la comunione, come pure la
religione, è di soffocare lo spirito di controversia con il quale
nessuna istituzione è sicura e definitiva. Io consiglio dunque
Cabet, allorché avrà ricevuto dalle mani del popolo le redini dello
Stato, e tutti i partiti si saranno fusi sotto la sua dittatura
paterna, di cambiare il sistema di educazione universitaria, questo
sistema abominevole, dove i giovani apprendono a diventare dotti,
inquisitivi, argomentatori senza pietà e senza misericordia.
Se interrogo i diversi riformatori sui mezzi che si propongono di
usare per la realizzazione delle loro utopie, tutti mi rispondono in
una sintesi unanime: per rigenerare la società e organizzare il
lavoro bisogna rimettere agli uomini che possiedono la scienza di
questa organizzazione la fortuna e l’autorità pubblica. Sopra questo
dogma essenziale sono tutti quanti d’accordo: c’è universalità di
opinioni. Gli interminabili appelli delle sette socialiste alla
borsa dei loro avventori partono da questa idea. Ma perché i
riformatori, divenuti padroni degli affari, usino con efficacia del
potere, conviene dare a questo potere una grande forza di
iniziativa: il sistema di Blanc. Ora, a quale condizione il potere
acquista la sua maggior forza? Alla condizione di essere costituito
democraticamente o in repubblica: sistema di Platone, di Rousseau,
del «National», ecc. La riforma politica è il preliminare obbligato
della riforma sociale. Ma perché la democrazia piuttosto che la
monarchia costituzionale, piuttosto che un senato di aristocratici?
Perché, essendo gli uomini solidali, conviene renderli politicamente
e giuridicamente uguali: il sistema dei solidali-uniti istituito,
credo, da Cherbuliez. Donde viene che gli uomini sono solidali? Dal
fatto che vivono sotto l’impero di una legge comune che avvince l’un
l’altro tutti i loro movimenti: l’attrazione, il sistema di Fourier.
Che cos’è questa attrazione che conosciamo solo da ieri? È
precisamente l’amore, è la carità che conosciamo da lungo tempo: il
sistema di Michelet. Come avviene che gli uomini si amino e si
odino, si attirino e si respingano vicendevolmente come i poli di
una calamita? È che tutti gli uomini sono fratelli: il sistema di
Cabet.
Tale è dunque la fratellanza, il fatto primordiale, il grande fatto
naturale e cosmico, fisiologico e patologico, politico ed economico,
al quale si riattacca, come l’effetto alla sua causa, la comunione.
L’analogia delle parole, ecco il metodo, la teoria, la dialettica
del socialismo. [...]
Come mai dunque, con questa intelligenza meravigliosa delle cause
prime, seconde e finali; come mai, con questa abilità senza pari a
infilare delle frasi, il socialismo non è mai riuscito ad altro che
a inquietare il mondo, senza poter rendere gli uomini né migliori né
più fortunati? Se l’economia politica ha potuto essere giudicata
dalle sue opere, il socialismo corre oggi il grande pericolo di
essere valutato in ragione della sua impotenza; è importante dunque
renderci conto della sterilità dell’utopia, così come abbiamo fatto
per le anomalie della pratica.
Per chiunque abbia riflettuto sul progresso della socialità umana,
la fratellanza effettiva, quella fratellanza del cuore e della
ragione che sola merita le cure del legislatore e l’attenzione del
materialista – e di cui la fratellanza di razza è la semplice
espressioni carnale – questa fratellanza, dico, non è affatto, come
credono i socialisti, il principio dei perfezionamenti della
società, la regola delle sue evoluzioni: essa ne è lo scopo e il
frutto. La questione non è sapere come, essendo fratelli di spirito
e di cuore, riusciremo a vivere senza farci la guerra e divorarci
scambievolmente; non è questa la questione, ma è come, essendo
fratelli per natura, diventeremo tali anche per sentimenti; come mai
i nostri interessi, invece di dividerci, ci uniranno. Ecco ciò che
il semplice buon senso rivela a ogni uomo che l’utopia non ha reso
miope. Come già abbiamo dimostrato con il quadro delle
contraddizioni economiche, avendo lo sviluppo delle istituzioni
civilizzatrici per risultato inevitabile di gettare la discordia
nelle passioni, di infiammare negli uomini l’appetito concupiscente
e l’appetito irascibile, e di fare di questi angeli di Dio tante
bestie feroci, accade che povere creature destinate al piacere,
all’amore, si lacerano in furiosi combattimenti, si infliggono
orribili ferite; e non è cosa facile porre fra loro le basi di un
trattato di pace. Come dunque sarà distribuito il lavoro? qual è la
legge dello scambio? qual è la sanzione della giustizia? dove
comincia il possesso esclusivo, dove finisce? sin dove si stende la
comunione, dove finisce? in quale proporzione questo elemento fa
parte dell’organismo collettivo, sotto quale forma e secondo quale
legge? come mai, in una parola, diventeremo fratelli? Tale è, a un
tempo, la questione prima e lo scopo finale della comunione.
Così la fratellanza, la solidarietà, l’amore, l’uguaglianza, ecc.,
non possono risultare che da una conciliazione degli interessi, cioè
da una organizzazione del lavoro e da una teoria dello scambio. La
fratellanza è il fine, non il principio della comunione, come lo è
di tutte le forme di associazione e di governo; e Platone, Cabet e
quelli che in seguito a queste due sommità del socialismo, invece di
insegnarci le leggi della produzione e dello scambio, ci chiedono
potere e danaro, entrando nell’utopia con la fratellanza, la
solidarietà e l’amore, tutta questa gente, dico, prende l’effetto
per la causa, la conclusione per il principio; essi cominciano, come
dice il proverbio, la loro casa dagli abbaini. Ancora una volta, chi
impedisce ai socialisti di associarsi fra essi se la fratellanza
basta? c’è bisogno per questo di un permesso del ministro, di una
legge delle Camere? Un sì commovente spettacolo edificherebbe il
mondo e non comprometterebbe che l’utopia: questa devozione sarebbe
forse al disopra del coraggio dei comunisti?
Ecco, senza che essi fossero in grado di rendersene conto, ciò che
sentivano in fondo al cuore i cittadini che osarono interrogare
Cabet. Ma fu con una grande superiorità di tattica che il maestro
rispose loro: Il mio principio è la fratellanza; perché senza questo
rovesciamento, non vi era più comunismo. Cabet era sicuro che, dopo
questo colpo decisivo, non gli si sarebbe domandato quale fosse il
principio della fratellanza, poiché sarebbe stato gettarsi in un
seguito infinito di questioni, e ormai conveniva farla finita. [...]
Eccoci dunque giunti ai conti correnti, alle necessità di una regola
di ripartizione e di valutazione dei prodotti, cioè alla
dissoluzione della comunione. Infatti, ogni conto corrente si
bilancia con il dare e avere, in altri termini con il tuo e mio;
ogni ripartizione è sinonimo di individualismo. [...]
Il socialismo non conta, si rifiuta di contare. Né più né meno che
l’economia politica esso afferma l’incommensurabilità del valore.
Senza questo, comprenderebbe che ciò che rintraccia attraverso le
sue utopie è dato dalla legge dello scambio; cercherebbe la formula
di questa legge; e come la teologia dopo che ha scoperto il senso
dei suoi miti, come la filosofia dopo che ha costruito la sua
logica, il socialismo, avendo trovato la legge del valore,
conoscerebbe se stesso e cesserebbe di esistere. Il problema della
ripartizione non è stato, sino a ora, attaccato frontalmente da
alcun scrittore socialista: la prova è che tutti hanno concluso,
come gli economisti, contro la possibilità di una regola di
ripartizione. Gli uni hanno adottato per divisa: a ciascuno secondo
la sua attitudine, a ogni attitudine secondo le sue opere, ma si
sono ben guardati dal dire né quale fosse, secondo loro, la misura
dell’attitudine né quale fosse la misura del lavoro. Gli altri hanno
aggiunto al lavoro e all’attitudine un nuovo elemento di
valutazione: il capitale, altrimenti detto monopolio; e hanno così
provato una volta di più che non erano altro che vili plagiari della
civiltà, benché tanto si facciano notare per le loro aperture
all’imprevisto. Infine, si è formata una terza opinione che, per
sfuggire a queste transazioni arbitrarie, sostituisce alla
ripartizione la razione e prende per epigrafe: a ciascuno secondo i
suoi bisogni nella misura delle risorse sociali. Con ciò il lavoro,
il capitale e il talento si trovano eliminati dalla scienza; nello
stesso tempo, la gerarchia industriale e la concorrenza sono
soppresse; inoltre la distinzione dei lavoratori in produttivi e
improduttivi, essendo tutti pubblici funzionari, si dilegua; la
moneta è definitivamente proscritta, e con essa ogni segno
rappresentativo del valore; il credito, la circolazione, la bilancia
commerciale non sono più che parole prive di senso in questo regno
della fratellanza universale! [...]
Niente di più facile da fare che un piano di comunismo. La
repubblica è padrona di tutto: distribuisce i suoi uomini, dissoda,
lavora, costruisce magazzini, case, laboratori; fabbrica palazzi,
officine, scuole; produce tutte le cose necessarie al vestirsi, al
nutrimento, all’abitazione; dà istruzione e svago del tutto gratis,
a quanto si crede, e nella misura delle sue risorse. Ciascuno è
operaio nazionale e lavora per conto dello Stato che non paga
nessuno, ma che si prende cura di tutti quanti, come un padre di
famiglia fa dei suoi figli. Tale è, più o meno, l’utopia di questo
eccellente Cabet, utopia ripresa, con leggere modifiche, dai
pensatori greci, egizi, siriani, indiani, latini, inglesi, francesi,
americani, riprodotta con alcune varianti da Pecqueur, e verso la
quale gravita, suo malgrado ma nient’affatto contro voglia, il
rappresentante della nostra giovane democrazia, Louis Blanc.
Semplice e perentorio com’è, non si può negare che questo meccanismo
ha per lo meno il vantaggio di essere alla portata di tutti. Da cui
si evince, leggendo gli autori, che essi non si aspettano
opposizione che sulle ore di lavoro, la scelta dei costumi e altri
dettagli di fantasia, che non intaccano, aggiungono, il sistema.
Ma questo sistema, così semplice a dire degli utopisti, diventa
tutto a un tratto di una inestricabile complicazione se si riflette
che l’uomo è un essere libero, refrattario alla polizia e alla
comunanza, e che ogni organizzazione che violi la libertà
individuale perirà per opera della libertà individuale. Così si
vede, nelle utopie socialiste, l’appropriazione ritornare sempre, e,
senza rispetto per la fratellanza, turbare l’ordine comunitario.
[...]
Il primo e più potente espediente dell’organizzazione industriale è
la separazione delle industrie, altrimenti detta divisione del
lavoro. La natura, con la differenza dei climi, ha preceduto questa
divisione e ne ha determinato a priori tutte le conseguenze; il
genio umano ha fatto il resto. L’umanità soddisfa i propri bisogni
applicando questa grande legge di divisione, dalla quale nascono la
circolazione e lo scambio. Di più, è da questa divisione primordiale
che i differenti popoli ricevono la loro originalità e il loro
carattere. La fisionomia delle razze non è, come si potrebbe
credere, un tratto indelebile conservato dalla generazione, è una
impronta della natura, capace solo di sparire per effetto
dell’emigrazione e del cambiamento di abitudini. La divisione del
lavoro non agisce dunque semplicemente come organo di produzione, ma
esercita una influenza essenziale sullo spirito e il corpo; è la
forma della nostra educazione come del nostro lavoro. Per tutti
questi aspetti si può dire che è creatrice dell’uomo come pure della
ricchezza, che è necessaria all’individuo tanto quanto alla società,
e che, a riguardo del primo come della seconda, la divisione del
lavoro deve essere applicata con tutta la potenza e l’intensità di
cui è suscettibile.
Ma applicare la legge di divisione è fomentare l’individualismo,
provocare la dissoluzione della comunità; è impossibile sfuggire a
questa conseguenza. In effetti, poiché in una comunanza ben gestita
la quantità di lavoro da fornire per ogni industria è conosciuta, e
il numero dei lavoratori è parimenti conosciuto, e poiché il lavoro
non si esige da ciascuno se non come condizione di salario e
garanzia per tutti, quale ragione avrebbe la comunanza di resistere
a una legge di natura, di restringerne l’azione, di impedirne
l’effetto? [...]
Si dirà che non si può accordare la libertà del lavoro perché
implica l’appropriazione e, con l’appropriazione, il monopolio,
l’usura, la proprietà, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo?
Replico che, se la libertà genera questi abusi, è per mancanza di
una legge di scambio, di una costituzione del valore e di una teoria
di ripartizione che mantenga fra i consumatori l’uguaglianza, fra le
funzioni l’equilibrio. Ora, chi è che si oppone alla ripartizione? e
chi è che respinge con tutte le sue forze la teoria del valore e la
legge dello scambio? Il comunismo. Così il comunismo respinge la
libertà del lavoro perché gli occorrerebbe una legge di
ripartizione, e rigetta poi la ripartizione al fine di conservare la
comunanza del
lavoro: che discorso sconclusionato! [...]
Ho provato sempre che il lavoro non può essere diviso senza che
il consumo lo sia; in altri termini, che la legge di divisione
implica una legge di ripartizione, e che questa ripartizione,
procedendo per dare e avere, sinonimo di tuo e di mio, distrugge la
comunanza. Così l’individualismo esiste fatalmente in seno alla
comunanza, nella distribuzione dei prodotti e nella divisione del
lavoro: qualsiasi cosa faccia, la comunanza è condannata a perire;
non ha altra scelta che di abdicare nelle mani della giustizia,
risolvendo il problema del valore, oppure di istituire, sotto il
manto della fratellanza, il dispotismo del numero invece del
dispotismo della forza.
Tutto ciò che il socialismo ha esternato, dalla morte di Caino sino
alle fucilate di Rive-de-Gier, su questo grande problema
dell’organizzazione, non è altro che un grido di disperazione e di
impotenza, per non dire una declamazione da ciarlatano. Nessuno,
oggi più di ieri, né nel socialismo, né nella parte proprietaria, ha
risolto le contraddizioni dell’economia sociale; e tutti questi
apostoli dell’organizzazione e della riforma – non faccio che
riferire qui quello su cui abbiamo mille volte convenuto, mio caro
Villegardelle – si approfittano della credulità pubblica, scontando,
a nome della scienza avvenire, il beneficio di una verità vecchia
come il mondo, e di cui non sanno nemmeno articolare il nome.
Il produttore sarà libero o no dal suo lavoro? A questa domanda così
semplice, il socialismo non osa rispondere: da qualunque parte si
volga è perduto. La divisione del lavoro è avvinta con un legame
indissolubile alla ripartizione matematica dei prodotti, la libertà
del produttore all’indipendenza del consumatore. Togliete la
divisione del lavoro, la proporzionalità dei valori, l’uguaglianza
delle fortune, e il globo, capace di nutrire 10 miliardi di uomini
ricchi e forti, basta appena a qualche milione di selvaggi; togliete
la libertà, e l’uomo non è che un miserabile forzato, che trascina
sino alla tomba la catena delle sue speranze deluse; togliete
l’individualismo delle esistenze, e fate dell’umanità un gran
polipaio. Ma affermate la divisione del lavoro, e la comunanza
sparisce con l’uniformità; affermate la libertà, e i misteri della
politica cadono con la religione dello Stato; affermate
l’organizzazione, e la comunanza delle persone non è più che uno
spaventevole incubo.
La comunanza con la divisione del lavoro, la comunanza con la
libertà, la comunanza con l’organizzazione – perbacco! – è il caos
con gli attributi della luce, della vita e dell’intelligenza. E
domandate perché non sono comunista! Consultate, di grazia, il
dizionario degli antinomi, e saprete perché non sono comunista.
Il non-io, diceva un filosofo, è l’io che si obbietta, che si oppone
a se stesso e si prende per un altro; il soggetto e l’oggetto sono
identici: A uguale ad A. Questo principio, che serve di base a tutto
un sistema di filosofia e che nella speculazione si può ancora
considerare come vero, è anche il punto di partenza della scienza
economica, il primo assioma della giustizia distributiva. In questo
ordine di idee A è uguale ad A, cioè il lavoro realizzato è
matematicamente uguale al lavoro pensato; di conseguenza, il salario
dell’operaio è uguale al suo prodotto, il consumo uguale alla
produzione. Ciò è vero tanto dell’individuo che scambia con altri
produttori, come del lavoro collettivo che non scambia che con se
stesso, come dell’uomo sequestrato dai suoi simili e che diventa
allora egli solo tutta l’umanità. Il salario nel lavoratore
collettivo è uguale al prodotto; conseguentemente i prodotti di
tutti i lavoratori sono uguali fra essi, e i loro salari ancora
uguali: là è il principio dell’uguaglianza delle condizioni e delle
fortune.
Così l’uguaglianza, nell’uomo collettivo, non è altro che
l’uguaglianza del tutto alla somma delle parti; si stabilisce in
seguito, a mezzo della libertà, fra le corporazioni industriali e le
classi dei cittadini; si costituisce infine, lentamente e con
oscillazioni infinite, fra gli individui. Ma l’uguaglianza deve
essere alla fine universale, perché ogni individuo rappresenta
l’umanità, ed essendo ogni uomo uguale all’altro, il prodotto deve
diventare, per tutti, uguale al prodotto.
Tale non è il punto di vista della comunanza. La comunanza ha orrore
delle cifre, l’aritmetica le è mortale. Essa non ammette che la
legge dell’universo, omnia in pondere et numero, et mensura, sia
pure la legge della società; la comunanza, in una parola, non
accetta l’uguaglianza e nega la giustizia.
Qual è, dunque, il principio a cui dà la preferenza? Secondo Cabet,
la fratellanza. Bisogna che io confessi: questa scempiaggine conta
fra i suoi apologeti uomini di ben minore innocenza dell’onorevole
Cabet.
L’uguaglianza e la giustizia, a quel che assicurano questi profondi
teorici, non sono che rapporti di proprietà e di antagonismo che
devono sparire sotto la legge dell’amore e della devozione. In
questo nuovo stato, dare è sinonimo di ricevere; la fortuna consiste
nel prodigarsi; all’emulazione degli egoismi succede l’emulazione
delle abnegazioni. Tale è l’idea superiore del socialismo, idea che
è nostro dovere approfondire in quanto, grazie a questa idea
superiore, perdiamo tutte le idee inferiori di giusto e ingiusto, di
diritto e di dovere, di obbligazione e di danno, ecc. Di idea
superiore in idea superiore finiremo per non avere più idee. [...]
Il comunismo impone dei limiti alla varietà della natura. E dice,
come l’Eterno all’Oceano: tu arriverai sin qui, non andrai più
lontano. L’uomo della comunanza, una volta creato, è creato per
sempre... Non è proprio così che il fourierismo ha preteso
immobilizzare la scienza? Ciò che Cabet fa per il costume, Fourier
l’aveva fatto per il progresso: quale dei due merita di più la
riconoscenza dell’umanità? Per arrivare a questi fini con maggior
certezza, l’icariano regola lo spirito pubblico, prende le sue
misure contro le idee nuove. In Icaria c’è un giornale comunale, uno
provinciale e uno nazionale; c’è, come nella Chiesa, un catechismo,
un vangelo, una liturgia. La libertà di pensiero è il diritto di
fare proposte all’assemblea.
L’opinione della maggioranza è reputata opinione pubblica, nello
stesso modo che nelle nostre Camere la ragione si conta, ma non si
discute. Il giornale, stampato a spese dello Stato, è distribuito
gratis, rende conto delle deliberazioni, fa conoscere la cifra della
minoranza, analizza le sue ragioni dopo che tutto è detto. I libri
di scienza e di letteratura sono fatti e pubblicati in base a una
delibera; la pubblicità non è ammessa per niente altro. In effetti,
appartenendo tutto alla comunanza, e non avendo nessuno alcunché di
proprio, la stampa di un libro non autorizzato è impossibile.
D’allora in poi, che si avrebbe a dire? Ogni idea faziosa si trova
dunque arrestata sul nascere, e non avremo più dei reati di stampa:
è l’ideale della politica preventiva. Così il comunismo è condotto
dalla logica all’intolleranza delle idee. Ma, misericordia!
L’intolleranza delle idee come l’intolleranza delle persone, è
l’esclusione, è la proprietà! La comunanza è la proprietà! Non ci si
capisce più niente, ma come vedrete è proprio così.
Di tutti i pregiudizi inintelligenti e retrogradi, quello che i
comunisti accarezzano di più è la dittatura. Dittatura
dell’industria, dittatura del commercio, dittatura del pensiero,
dittatura nella vita sociale e nella vita privata, dittatura
dappertutto, tale è il dogma che si libra, come la nuvola sul Sinai,
sull’utopia icariana. La rivoluzione sociale Cabet non la concepisce
come effetto possibile dello sviluppo delle istituzioni e del
concorso delle intelligenze; questa idea è troppo metafisica per il
suo gran cuore. D’accordo con Platone e tutti i rivelatori,
d’accordo con Robespierre e Napoleone, d’accordo con Fourier –
questo dittatore della scienza sociale, che nulla ha lasciato da
scoprire – e d’accordo infine con Blanc e la democrazia di Luglio,
che vuol procurare la felicità del popolo suo malgrado e dare al
potere la più grande forza di iniziativa possibile, Cabet deriva la
riforma dal consiglio, dalla volontà, dall’alta missione di un
personaggio, eroe, messia e rappresentante degli icariani. Cabet si
guarda bene dal far nascere la legge nuova dalle discussioni di
un’assemblea regolarmente uscita dall’elezione popolare, mezzo
troppo lento e che comprometterebbe tutto. Gli serve un uomo. Dopo
aver soppresso tutte le volontà individuali, le concentra in una
individualità suprema che esprime il pensiero collettivo, e come il
motore immobile di Aristotele dà impulso a tutte le attività
subalterne. Così, dal semplice sviluppo dell’idea si è
invincibilmente condotti a concludere che l’ideale della comunanza è
l’assolutismo. E invano si dirà che questo assolutismo sarà
transitorio, poiché se una cosa è necessaria un solo istante, lo
diventa per sempre: la transizione è eterna.
[Da Système des contradictions économiques, trad. it.: Sistema delle
contraddizioni economiche, Anarchismo, Catania 1975, pp. 468-498].
capitolo quarto
Il grado di giustizia realizzato nella storia è ciò che determina e
specifica il livello qualitativo del progresso umano. La giustizia è
intimamente connessa alla libertà perché la sua realizzazione è
opera del libero arbitrio dell’uomo, della libera volontà, in quanto
è il risultato di una consapevolezza etica, di una cosciente azione
rivoluzionaria. L’ideale proudhoniano della giustizia non è, come
potrebbe apparire superficialmente, l’esito di una visione
idealistica e utopistica della storia, ma, al contrario, il frutto
di una riflessione profondamente rivoluzionaria e realistica.
Proudhon, identificando il socialismo con la sua dimensione etica,
vale a dire con la giustizia, non intende concepire quest’ultima, né
ritiene sia possibile farlo, come una realtà esterna all’uomo,
trascendente rispetto all’empiricità antropologica dell’individuo.
La giustizia, cioè, non è qualcosa di idealistico, ma un attributo
intrinseco dell’uomo, nel senso che essa è intima e omogenea alla
sua costituzione antropologica. Solo da questa intrinseca e
immanente autocoscienza dell’umano può svilupparsi una potenzialità
sovversiva ben maggiore di ogni effetto causato da contingenze
storiche, può farsi concreto il progetto rivoluzionario
dell’uguaglianza. E questo soprattutto dopo la svolta epocale della
secolarizzazione, così ben riassunta dal pensatore francese: lo
scetticismo, dopo aver devastato religione e politica, si è
abbattuto sulla morale, e in ciò consiste la dissoluzione moderna.
Sotto l’azione essiccante del dubbio la virtù più rara è distrutta.
Non c’è più nulla che tenga, la rotta è completa. È sulla base di
questa convinzione che Proudhon critica e respinge ogni idea di
determinismo storico, a suo giudizio falsa sul piano scientifico e
reazionaria sul piano ideologico. Falsa sul piano scientifico perché
tutta l’esperienza storica passata sta a testimoniare la
discontinuità e l’imprevedibilità del processo storico; reazionaria
sul piano ideologico perché il determinismo, anche se risultato di
una prassi immanente alla collettività umana, è nondimeno, rispetto
all’individuo, un puro trascendentalismo, e perciò un’altra ed
ennesima alienazione.
Ma che cos’è la giustizia? È la traduzione sociale e istituzionale
del rapporto di reciprocità e commutazione. La società perde
qualunque senso se non ha questa coscienza. Questa logica di
equilibrio sta alla base del pluralismo, volto a costituirsi come
sistema «aperto» capace di far convivere più tendenze di per sé
contraddittorie, a porsi come estrinsecazione della libertà nel suo
infinito movimento. Con tale metodo si può giungere alla
consapevolezza ideologica dell’uguaglianza sociale perché, scoprendo
l’intima connessione dei fenomeni entro il contesto di una dinamica
complessa di relazioni e di situazioni, si arriva a capire che
questa stessa dialettica esprime la necessità di un principio di
coordinazione, il quale esclude di per sé la gerarchia. Essa,
indicando un rapporto di uguaglianza, annuncia in pari tempo la
legge della reciprocità e dell’equivalenza che è alla base del
mutualismo economico-sociale. La giustizia come equilibrio, come
reciprocità, come equivalenza configura un ordine nel quale tutti i
rapporti sono rapporti di uguaglianza; dove non esiste né primato,
né obbedienza, né centro di gravità, né direzione, dove la sola
legge è che tutto si sottometta alla giustizia, cioè all’equilibrio.
Nello stesso tempo, a partire da questa valenza ideologica
dell’uguaglianza, è possibile arrivare anche a quella della libertà
intesa come pluralismo. Infatti, il concetto di uguaglianza non si
specifica in Proudhon come mero appiattimento e uniformità, ma al
contrario come esaltazione del particolare e dell’individuale.
L’uguaglianza, egli afferma, non è affatto una condizione fissa, ma
la media algebrica di una situazione sempre mobile.
La giustizia come equilibrio
Per stabilire l’equilibrio si fa ricorso a diverse ipotesi. Gli uni,
considerando che l’uomo non ha valore che per la società e che al di
fuori della società esso ricade allo stato bruto, tendono con tutte
le loro forze, in nome degli interessi particolari e sociali, ad
assorbire l’individuo nella collettività. Cioè non riconoscono altri
interessi legittimi che quelli del gruppo sociale, e di conseguenza
non riconoscono altra dignità, altra inviolabilità, che nel gruppo,
da cui gli individui traggono in seguito quelli che vengono
chiamati, ma molto impropriamente, i loro diritti. In questo
sistema, l’individuo non ha esistenza giuridica; non è niente di per
se stesso; non può invocare diritti, non ha che doveri. La società
lo produce come sua espressione, gli conferisce una peculiarità, gli
assegna una funzione, gli accorda la sua parte di felicità e di
gloria: egli le deve tutto, essa non gli deve nulla.
Tale è, in poche parole, il sistema comunista, preconizzato da
Licurgo, Platone, dai fondatori di ordini religiosi e dalla maggior
parte dei socialisti contemporanei. Questo sistema, che si potrebbe
definire la decadenza della personalità in nome della società, si
ri-
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trova, leggermente modificato, nel dispotismo orientale,
nell’autocrazia dei Cesari, e nell’assolutismo di diritto divino. È
il fondo di tutte le religioni. La sua teoria si riduce a questa
proposizione contraddittoria: asservire l’individuo al fine di
rendere libera la massa. Evidentemente la difficoltà non è risolta:
è aggirata. Si tratta di tirannia, di tirannia mistica e anonima;
non di associazione. Così il risultato è stato quello che si poteva
prevedere: avendo privato la persona umana delle sue prerogative, la
società si è trovata sprovvista del suo principio vitale; non c’è un
esempio di comunità che, fondata sull’entusiasmo, non sia finita
nella imbecillità.
Lo spirito va da un estremo all’altro. Resi accorti dall’insuccesso
del comunismo, si è ricaduti nell’ipotesi di una libertà illimitata.
I partigiani di questa opinione sostengono che non c’è, in fondo,
opposizione tra gli interessi; che essendo gli uomini tutti della
stessa natura, avendo tutti bisogno gli uni degli altri, i loro
interessi sono identici, e pertanto facilmente accordabili; che solo
l’ignoranza delle leggi economiche ha causato questo antagonismo,
che sparirà il giorno in cui, più illuminati sui nostri rapporti,
ritorneremo alla libertà e alla natura. In breve, si conclude che se
vi è disarmonia tra gli uomini, ciò deriva soprattutto
dall’ingerenza dell’autorità in cose che non sono di sua competenza,
dalla mania di regolamentare e legiferare; che non resta che lasciar
agire la libertà, illuminata dalla scienza, e tutto rientrerà
infallibilmente nell’ordine. Tale è la teoria dei moderni
economisti, partigiani del libero scambio, del lasciar fare, lasciar
passare, del ciascuno da sé, ciascuno per sé, ecc.
Come si vede, è sempre non risolvere la difficoltà; è negare che
essa esista. Noi non sappiamo che farcene della vostra giustizia,
dicono i liberali, dal momento che non ammettiamo la realtà
dell’antagonismo. Giustizia e utilità sono per noi sinonimi. È
sufficiente che gli interessi, sedicenti opposti, si comprendano
perché essi si rispettino: la virtù, nell’uomo sociale, come
nell’uomo solitario, non è che egoismo beninteso.
Questa teoria, che fa consistere l’organizzazione sociale unicamente
nello sviluppo della libertà individuale, sarebbe forse vera – e si
potrebbe dire che la scienza dei diritti e la scienza degli
interessi sono una sola e identica scienza – se, una volta fatta la
scienza degli interessi, o scienza economica, la sua applicazione
non incontrasse alcuna difficoltà. Questa teoria, dicevo, sarebbe
vera se gli interessi potessero essere fissati una volta per tutte e
rigorosamente definiti; se, essendo stati sin dall’inizio uguali e,
più tardi, nel loro sviluppo, avendo camminato di pari passo,
avessero obbedito a una legge costante; se non fosse necessario,
nella loro disuguaglianza crescente, attribuire una così larga parte
al caso e all’arbitrio; se malgrado tanto numerose e stupefacenti
anomalie, il minimo progetto di regolarizzazione non sollevasse da
parte degli individui interessati proteste così vive; se si potesse
prevedere sin da ora la fine della disuguaglianza, e proprio a causa
dell’antagonismo; se per la loro natura essenzialmente mobile ed
evolutiva, gli interessi non giungessero continuamente a
ostacolarsi, a scavare tra di loro delle disuguaglianze nuove; se
non tendessero malgrado tutto a interferire, a soppiantarsi; se la
missione del legislatore non fosse precisamente, infine, quella di
consacrare per mezzo delle sue leggi, a mano a mano che essa si
sviluppa, questa scienza degli interessi, dei loro rapporti, del
loro equilibrio, della loro solidarietà: scienza che sarebbe la più
alta espressione del diritto se la si potesse credere definitiva, ma
scienza che, venendo sempre dopo il fatto, non prevenendo mai le
difficoltà, essendo costretta a imporre le sue decisioni per mezzo
dell’autorità pubblica, può ben servire da strumento e da ausilio
all’ordine, ma non può affatto essere presa per il principio stesso
dell’ordine.
A causa di queste considerazioni, la teoria liberale, o dell’egoismo
beninteso, inconfutabile se la scienza economica fosse costituita e
fosse dimostrata l’identità degli interessi, si riduce a una
petizione di principio. Essa suppone come realizzate delle cose che
non possono mai esserlo; delle cose la cui realizzazione incessante,
approssimativa, parziale, variabile, costituisce l’opera
interminabile del genere umano. Così, mentre l’utopia comunista ha
ancora i suoi praticanti, l’utopia dei liberali non ha potuto
ricevere il minimo inizio di esecuzione.
Scartate l’ipotesi comunista e l’ipotesi individualistica, la prima
in quanto distruttrice della personalità, la seconda in quanto
chimerica, non resta da prenderne in esame che un’ultima sulla quale
del resto la moltitudine dei popoli e la maggioranza dei legislatori
sono d’accordo: quella della giustizia.
La dignità, nell’uomo, è una qualità altera, assoluta, insofferente
di qualsiasi dipendenza e di qualsiasi legge che tenda alla
dominazione degli altri e all’assorbimento del mondo.
Si ammette a priori che, davanti alla società di cui fanno parte,
tutti gli individui, considerati semplicemente come persone morali,
e fatta astrazione dalle capacità, dai servizi resi, dalle mancanze
commesse, sono di ugual dignità; di conseguenza, essi devono
ottenere per le loro persone la stessa considerazione, partecipare
allo stesso titolo al governo della società, alla elaborazione delle
leggi, all’esercizio delle cariche. [...]
Abbiamo visto che il comunismo parte dall’idea che l’uomo è un
essere fondamentalmente non socievole e cattivo, homo homini lupus;
che non ha nessun diritto da esercitare, nessun dovere da compiere
verso i suoi simili; che la società sola fa tutto in lui, essa sola
gli dà la dignità e fa di lui un essere morale. Non è altro che la
decadenza umana posta come principio: cosa che ripugna alla nozione
dell’essere e implica contraddizione.
Nel sistema della libertà pura, la dignità del soggetto, che si
credeva di salvaguardare con una esagerazione in senso contrario,
non è meno sacrificata. Qui l’uomo non ha più né virtù, né
giustizia, né moralità, né socialità, poiché l’interesse solo fa
tutto in lui, cosa che ripugna alla coscienza che non si lascia
ridurre al puro egoismo.
L’idea giuridica sembra dunque, da quest’ultimo punto di vista,
soddisfare le più nobili aspirazioni della nostra natura: essa ci
proclama degni, socievoli, morali; capaci di amore, di sacrificio,
di virtù; incapaci di conoscere l’odio se non attraverso l’amore,
l’avarizia se non attraverso la devozione, la fellonia se non
attraverso l’eroismo; e ciò perché essa si aspetta solo dalla nostra
coscienza ciò che le altre concezioni impongono alla nostra
sottomissione o sollecitano dal nostro interesse.
Per ciò che riguarda la società, metteremo in evidenza delle
differenze analoghe.
Nel comunismo, la società, lo Stato, esterno e superiore
all’individuo, gode da solo dell’iniziativa; al di fuori di lui
nessuna libertà d’azione; tutto si assorbe in un’autorità anonima,
autocratica, indiscutibile, la cui provvidenza benevola o
vendicativa distribuisce dall’alto, sulle teste prostrate, le
punizioni e le ricompense. Non è una cité, una società; è un gregge
presieduto da un gerarca, al quale solo, per legge, appartengono la
ragione, la libertà e la dignità dell’uomo.
Nel sistema della libertà pura, se fosse possibile ammetterne per un
istante la realizzazione, ci sarebbe ancor meno società che nel
comunismo. Poiché, da un lato, non si riconosce l’esistenza
collettiva e, dall’altro, si pretende che per mantenere la pace non
siano necessarie concessioni reciproche, e che tutto si riduca a un
calcolo di interesse, l’azione politica o sociale diviene superflua:
non vi è realmente società. È un’agglomerazione di individualità
giustapposte, che marciano parallelamente ma senza nulla di
organico, senza forza di collettività, dove la cité non ha nulla da
fare, dove l’associazione, ridotta a una verifica di conti, è non
dico nulla, ma quanto meno illecita.
Perché ci sia società tra creature ragionevoli bisogna che vi sia un
ingranaggio delle libertà, una transazione volontaria, un impegno
reciproco: cosa che non può farsi senza l’aiuto di un altro
principio, il principio mutualista del diritto. La giustizia è
commutativa per sua natura e forma; così la società, ben lungi dal
poter essere concepita come esistente al di sopra e al di fuori
degli individui, come accade nella comunità, deriva solo da essi,
risulta dalla loro azione reciproca e dalla loro comune energia:
essa ne è l’espressione e la sintesi. Grazie a questo organismo, gli
individui, simili per la loro indigenza originale, si specializzano
per i loro talenti, per le loro industriosità, per le loro funzioni;
sviluppano e moltiplicano, a un grado sconosciuto, la loro azione e
la loro libertà. In modo che arriviamo a questo risultato decisivo:
volendo far tutto per mezzo della sola libertà, la si diminuisce;
obbligandola a transigere, la si raddoppia.
Per ciò che riguarda il progresso.
La comunità, una volta costituita, lo è per sempre. Dunque niente
rivoluzioni, niente trasformazioni: l’assoluto è immutabile. Il
cambiamento le ripugna. Perché dovrebbe cambiare? Non consiste
proprio nell’assorbire sempre più nell’autorità anonima ogni vita,
ogni pensiero, ogni azione, nel chiudere gli sbocchi, nell’impedire
il lavoro libero, il commercio libero e il libero esame? Il
progresso qui è un nonsenso.
Con la libertà illimitata è naturale, ovviamente, che il progresso
possa manifestarsi nell’industria, ma esso sarà nullo nella vita
pubblica, nullo nelle istituzioni, perché secondo l’ipotesi, essendo
identici il giusto e l’utile, confondendosi la morale e gli
interessi, non vi è solidarietà sociale, non vi sono interessi
comuni, né istituzioni.
Solo la giustizia, dunque, può essere detta progressista, poiché
essa suppone un emendamento continuo della legislazione, secondo
l’esperienza della vita di tutti i giorni, e pertanto un sistema
sempre più fecondo di garanzie.
Del resto, ciò che costituisce il trionfo dell’idea giuridica sulle
due forme ipotetiche del comunismo e dell’individualismo è che,
mentre il diritto è sufficiente a se stesso, il comunismo e
l’individualismo, incapaci di realizzarsi per la sola virtù del loro
principio, non possono fare a meno delle prescrizioni del diritto.
Entrambi sono costretti a chiamare la giustizia in loro soccorso, e
si condannano così da soli per la loro incongruenza e la loro
contraddizione. Il comunismo, obbligato dalla rivolta delle
individualità oppresse a fare concessioni e ad allontanarsi dal
rigore delle sue massime, perisce presto o tardi, innanzi tutto per
il fermento della libertà che esso introduce nel suo seno, poi per
l’istituzione di una magistratura arbitra delle transazioni.
L’individualismo, incapace di risolvere a priori il suo famoso
problema dell’accordo degli interessi e costretto a stabilire delle
leggi almeno provvisorie, abdica a sua volta davanti a questa forza
nuova, che esclude l’esercizio puro della libertà.
Delle tre ipotesi che abbiamo visto prodursi allo scopo di trionfare
dell’opposizione degli interessi, di creare un ordine nell’umanità e
di convertire la moltitudine delle individualità in associazione,
non ne sussiste dunque realmente che una sola, quella della
giustizia. La giustizia, per il suo principio mutualista e
commutativo, assicura la libertà e ne aumenta la potenza, crea la
società e le dà, con una forza irresistibile, una vita immortale. E
come nello stato giuridico la libertà, elevandosi a un più alto
potere, ha cambiato carattere, così lo Stato, acquistando una forza
straordinaria, non è più lo stesso che nella ipotesi comunista: è la
risultante, non la dominante, degli interessi.
Da ciò ne consegue, cosa che distingue radicalmente la Rivoluzione
dall’Ancien Régime, che sebbene lo Stato, considerato come unità
superiore e persona collettiva, possa anche avere una propria
dignità, propri interessi, proprie azioni, propri diritti, non ha
più, tuttavia, compito maggiore di quello di vegliare a che ciascuno
rispetti la persona, la proprietà e gli interessi di ognuno, in una
parola a che tutti siano fedeli al patto sociale. In ciò consiste la
prerogativa essenziale dello Stato; tutte le sue attribuzioni ne
derivano; cosa che significa che, lungi dal dominare gli interessi,
esso non esiste che per servirli.
L’individuo, essendo tenuto a rispettare il patto se non vuol
perdere l’appoggio della cité e incorrere nel suo biasimo, sembra
subordinato allo Stato, ma avendo il diritto di richiamare gli altri
al rispetto del patto, di richiedere la protezione della comunità, è
superiore allo Stato ed è lui stesso sovrano. Nell’ordine giuridico,
o democratico, l’autorità, di cui oggi si ama tanto abusare, non ha
altro significato.
Se si esaminano le cose dal punto di vista puramente
speculativo, e prima di qualsiasi tentativo di applicazione, è certo
che la giustizia – cioè l’ordine sociale stabilito su di un sistema
di transazioni libere e di garanzie reciproche, che hanno per
interprete l’arbitrato della cité per sanzione il suo potere – è
certo, dico, che questa ipotesi è infinitamente più razionale, più
pratica, più feconda delle due altre, le sole del resto che possano
esserle opposte.
Ma il fatto di aver dimostrato la superiorità di una teoria non è
tutto: bisogna assicurarsi che questa teoria basti al suo oggetto;
che, davanti alle difficoltà di applicazione, alla cattiva volontà
degli uomini, non sia destinata a fallire miseramente e a
trasformare le speranze del legislatore in delusioni.
Qui si sollevano le questioni più scabrose.
L’uomo è libero, egoista per natura, diciamo persino legittimamente
egoista, capace di sacrificarsi per amore e per amicizia, ma ribelle
a ogni costrizione, come conviene a ogni essere ragionevole e degno.
Se ricerca la società, è tuttavia pieno di diffidenza verso i suoi
simili, che giudica meglio quanto più conosce se stesso; ed è pronto
a tornare sui propri impegni, a romperli, a eluderli, appena ne
suppone l’imprudenza, la sincerità o l’utilità.
Si tratta dunque di sapere se l’uomo darà il suo consenso a questo
sistema di transazioni che si vanta del nome di contratto sociale e
di diritti, perché è evidente che, senza consenso, non vi può essere
giustizia; se egli sarà libero di non consentire perché, di fronte
alla necessità di un ordine sociale e all’impraticabilità dei due
sistemi, di cui l’uno gli toglie la libertà e l’altro lo abbandona
all’antagonismo, sembra impossibile che lo possa rifiutare, almeno
in maniera formale; se, quindi, la sua accettazione non sarà
accompagnata da riserve segrete, da reticenze che annullerebbero,
virtualmente, il patto; se, scarsamente soddisfatto della legge, lo
sarà maggiormente dei suoi interpreti; se, di conseguenza, questo
stato giuridico, da cui si attendevano effetti così meravigliosi,
non si risolverà in un sistema di ipocrisia, dal quale ogni uomo
astuto prenderà quello che stimerà a lui conveniente e lascerà il
resto.
Chi formulerà la legge? chi dirà il diritto e il dovere? in nome di
chi e di che cosa si presenterà questa giustizia, sempre cieca,
sempre tardiva, mai interamente riparatrice? chi garantirà la
saggezza dei suoi precetti? Supponiamo una legge giusta: chi
garantirà a ciascuno la fedeltà del vicino, la probità del giudice,
il disinteresse del ministro, la prudenza e l’onestà del
funzionario? In questo sistema specioso, dove si pensa che tutto
derivi dall’iniziativa dell’uomo e del cittadino, dove la legge è
reputata l’espressione della sua volontà, quanta violenza e
arbitrio! Quante truffe!
E se ora, dopo aver visto brillare per un istante questa idea
sublime del diritto, si dovesse ammettere, con la teologia, che la
giustizia integrale non è di questo mondo, che non si può possederne
pienamente la nozione ma soltanto coglierne l’ombra, come proporre
allora alla ragione diffidente dei mortali una legislazione
approssimativa? come incatenare le coscienze? chi si arrogherà il
diritto di accusare coloro che la infrangono? come punire delle
persone che, per non restarne vittime, si saranno decise a
transigere con la legge? che cosa diverrebbero allora il vizio e la
virtù? che cosa la morale?... Non sarebbe meglio, per i poveri
umani, la guerra aperta, accanita, senza tregua, piuttosto che una
pace vergognosa, piena di miseria, di perfidia, di tradimenti, di
assassini, sotto questo preteso regime del diritto? Eh! Bisognava
sfuggire alla tirannide e all’anarchia attraverso la giustizia, ed
ecco che, con il pretesto della giustizia, abbiamo l’assolutismo
dello Stato, l’antagonismo degli interessi, e per sovrappiù il
tradimento!
Da quando l’uomo si è unito all’uomo per la comune difesa e la
ricerca della sussistenza, questo problema formidabile è stato
posto, e la soluzione non sembra più vicina del primo giorno. Le
rivoluzioni si succedono; le religioni, i governi, le leggi
cambiano, e la giustizia è sempre altrettanto equivoca, sempre
altrettanto impotente. Che dico? È questo venir meno della giustizia
che fa l’infelicità generale. Come al tempo della prima iniziazione,
gli spiriti sognano il diritto, l’uguaglianza, la libertà e la pace.
Ma non è mai altro che un sogno: la fede si è spenta e la virtù non
si è mostrata; la massima del proprio interesse, appena addolcita
dal timore degli dèi e dal terrore dei supplizi, governa da sola il
mondo; e se i costumi dell’umanità si sono distinti fino a ora da
quelli delle bestie, è per questa commedia giuridica di cui esse non
sono capaci a causa della loro bestialità. [...]
Una situazione simile è contraria tanto alla ragione delle cose
quanto a quella dell’uomo, ed è soprattutto perché contrasta con la
ragione delle cose che noi non potremo rassegnarvici. È una legge di
natura che l’essere intelligente e libero faccia da sé i suoi
costumi; che li raggruppi secondo una legge di ragione e di libertà;
che, infine, in qualsiasi situazione si trovi, solo o in società,
arrivi alla felicità attraverso la sua moralità.
Ecco ciò che dice la ragione e che esige la natura; ciò che attesta,
in una certa misura, l’esempio degli animali; ciò che cerca l’uomo,
sotto la doppia e irresistibile spinta della sua sensibilità e della
sua coscienza. Restare in questo stato di semi-giustizia è
impossibile: bisogna andare avanti, tanto più che non potremmo
cambiare sistema. Noi siamo legati alla giustizia dagli sforzi
stessi che abbiamo fatto per realizzarla. Qualche riflessione finirà
per convincerci.
Dico innanzi tutto che, meno che mai, possiamo riprendere il giogo
comunista.
La subordinazione dell’individuo al gruppo, che costituisce il
fondamento di questo sistema, si osserva in tutti gli animali
associati; essa appare come una conseguenza del principio
fisiologico che, in qualunque organismo, subordina ogni facoltà alla
finalità generale. Così, nelle api, la comunità risulta
dall’organizzazione degli individui o, per meglio dire, è questa
organizzazione che è determinata dalle esigenze della vita comune.
Poiché la pluralità delle femmine implica la pluralità delle
famiglie, e ciò provoca la dissoluzione della comunità, non vi è,
per tutta la comunità, che una sola femmina, la regina,
rappresentante dell’unità sociale e la cui fecondità è sufficiente a
mantenere la popolazione. Questa regina è servita da sette o otto
re, che sono uccisi subito dopo che la deposizione delle uova li ha
resi inutili. Le operaie non hanno sesso, cioè nulla che le porti
verso lo scisma e la divisione. Tutto il loro amore, tutta la loro
anima, tutta la loro felicità è nell’arnia, nel benessere della
comunità, al di fuori della quale esse periscono come creature senza
ragione di esistenza, come membri dai quali lo stesso centro della
vita si è ritirato.
Ecco la comunità, come è richiesta dalla logica e come è realizzata
dalla natura.
Orbene, facendo gli uomini simili, e se non completamente uguali
almeno pressappoco equivalenti; dando loro un sentimento esaltato
della propria dignità; ponendo nella formazione delle coppie la
distinzione delle famiglie, la natura non sembra aver voluto per
l’uomo una subordinazione altrettanto micidiale. Essa lascia
all’uomo la sua personalità. Essa vuole che, pur associandosi, resti
libero. Quale sarà dunque la forma della società umana, se non è
comunista? Per mezzo di quale virtù, di quale legge, l’uomo,
moltiplicando la sua potenza per mezzo dell’associazione, potrà
conservare cionondimeno la sua azione personale e il suo libero
arbitrio? Ecco ciò che da secoli il genere umano cerca con ardore; è
per questo che ha rovesciato uno dopo l’altro tanti governi diversi,
la cui tendenza assolutista e la cui tirannia lo riportavano al
comunismo animale; è per questo che oggi, affermando più che mai la
sua sociabilità, le mette sempre come prima condizione la libertà.
Ma se la comunità ci è organicamente ripugnante, la libertà, a sua
volta, anche se stimolata dall’interesse, non è sufficiente tuttavia
alla costituzione dell’ordine. La nozione dell’utile, che gioca un
ruolo così importante nella società, è incapace di produrla; ci
vuole anche qualcos’altro; ci vuole quello che tutti intendono
perfettamente con le parole di diritto e di dovere.
Un paragone vi farà capire.
Se il fisiologo deduce dalla considerazione della vita e delle sue
leggi delle regole di condotta per la sussistenza, il vestire,
l’abitazione, il lavoro, il rapporto tra i sessi, l’educazione dei
bambini,
ecc., avrà fatto un codice di igiene; nessuno dirà che ha
fatto un trattato dei doveri e gettato i fondamenti di un ordine
sociale.
Le leggi dell’igiene possono fornire il motivo e l’occasione di un
diritto da citare, di un dovere da adempiere; di per se stesse, non
obbligano nessuno, e invano si pretenderebbe di risolvere in questo
modo il problema dell’associazione. L’insalubrità di un mestiere è
una cosa, l’interesse dell’imprenditore è un’altra. Se questo trova
vantaggio nel sacrificare centinaia di operai per fare più
rapidamente fortuna; se questi ultimi, allettati dal salario,
trovano utile, in cambio di un godimento presente, sacrificare la
loro salute ventura, non è con dei consigli di igiene che si potrà
fermarli. Ma, si dice, lo Stato ha interesse a che la vita dei
cittadini sia rispettata, e questo interesse prevale su tutti gli
altri. A questo io rispondo che se l’interesse dello Stato supera
l’interesse, bene o male inteso, dell’imprenditore e degli operai,
ciò non fa assolutamente sì che questi interessi siano gli stessi,
come dovrebbe invece essere in un sistema dove l’utile è considerato
come l’espressione del giusto, la libertà la stessa cosa della
giustizia. Inoltre, non è possibile invocare l’utilità generale
quando si ragiona nel sistema di una libertà assoluta. Solo il
comunismo, e la giustizia, possono parlare di interessi generali.
Orbene, ciò che abbiamo appena detto in particolare dell’igiene si
applica, in maniera generale, all’economia.
Che l’utilitarista, sull’esempio di Bentham, cerchi anche nei
rapporti naturali che il lavoro, la proprietà, lo scambio e il
credito stabiliscano tra gli uomini delle regole e delle garanzie
per la condotta delle operazioni, la previsione dei rischi, la
sicurezza e il benessere dell’esistenza; che egli giunga fino a
dimostrare che, in parecchi casi, il singolo che comprende il suo
vero interesse trovi vantaggio a sacrificare qualcosa del suo
piuttosto che competere con i suoi simili e con la società: questo
filosofo di nuova specie potrà forse essere un grande economista, ma
non avrà nulla in comune con colui che insegna la giustizia, il
diritto.
L’economia politica e domestica, scienza eminente che non cede in
dignità che alla scienza stessa del diritto, può fornire, come
l’igiene pubblica e privata, ampia materia alle prescrizioni del
legislatore e alle affermazioni della morale. Tuttavia essa non è la
giustizia: non è solamente il senso comune che lo dichiara ma è,
come ho detto, la natura stessa delle cose.
In tutti questi casi, la legge igienica o economica è proposta al
soggetto, ma sotto forma di consiglio, senza ingiunzione della
coscienza, con la probabilità di un beneficio se si impegna a
sottomettervisi, o di una disgrazia se si rifiuta. La giustizia, al
contrario, in virtù della reciprocità che la fonda e del giuramento
che ci lega, si impone, imperativa, sovente onerosa, senza
preoccupazioni di interesse, tenendo conto unicamente del diritto e
del dovere, per quanto poco utile le circostanze possano aver fatto
il primo, per quanto disastroso esse abbiano reso il secondo.
Dunque, niente comunità: abbiamo troppe abitudini di indipendenza,
di personalità, di responsabilità, di senso della famiglia, di
critica, di rivolta.
Dunque, niente libertà illimitata: abbiamo troppi interessi
solidali, troppe cose comuni, troppo bisogno gli uni contro gli
altri del ricorso allo Stato.
La giustizia sola, sempre più esplicita, saggia, severa: ecco ciò
che richiede la situazione, ciò che richiedono tutte le voci
dell’umanità.
Bisognerebbe concludere che la società umana, nel suo dato rigoroso,
è una creazione impossibile; che la nostra specie ambigua non è né
solitaria né socievole; che essa non può sussistere per mezzo del
diritto più di quanto lo possa attraverso la comunanza o l’egoismo,
e che tutta la morale dell’uomo consiste nel salvaguardare il suo
interesse privato contro le incursioni dei suoi simili, pagando un
tributo a una finzione che, sebbene non soddisfi interamente le sue
attese, diminuisce almeno i suoi rischi, dicendo al brigantaggio:
arriverai fino a questo punto, non andrai oltre?
La cosa merita di essere esaminata. Se si trovasse infatti, come
alcuni pretendono, che la nostra giustizia, con le sue formule, non
è che una maschera del nostro antagonismo, sarebbe il caso, bisogna
confessarlo, di ridurre singolarmente la nostra gloria, e la scienza
dovrebbe dire che siamo degli animali ben strani. Andiamo oltre:
l’uomo non osando confessare la sua legge di natura, che è
l’egoismo; non potendo seguire la sua ragione sociale, che esige il
sacrificio; sballottato tra la pace e la guerra, speculando tanto
sull’ipotesi del diritto che sulla realtà del brigantaggio, l’uomo,
dico non avrebbe dei veri costumi: sarebbe una creatura, per essenza
e destino, immorale.
Non è questo ciò che voleva dire l’antico saggio, che comparava le
leggi a tele di ragno? Le mosche vi si impigliano, diceva, i
calabroni l’attraversano. Mentre la giustizia resta obbligatoria per
la moltitudine, tanto più obbligatoria quanto più essa è miserabile,
si vede l’arrivista, a mano a mano che cresce in forza e in
ricchezza, gettare la maschera, liberarsi del pregiudizio,
sprofondare nel suo orgoglio come se, mettendo in mostra il suo
egoismo, rientrasse nella sua dignità. Talento, potere, fortuna
furono, in tutti i tempi, nell’opinione popolare, un motivo di
dispensa dai doveri imposti alla massa. Il più debole autore, il più
oscuro bohémien, se si crede geniale, si mette al di sopra della
legge: che ne è dei principi della letteratura e dei principi
dell’arte? dei principi della Chiesa e dei principi dello Stato?
Come la religione, la morale è riservata alla plebe: guai se la
plebe, a sua volta, giudicasse il gran signore e il borghese... E
chi potrebbe ancora essere ingannato? in settant’anni non abbiamo
forse cambiato venti volte le massime? non siamo, prima di ogni
cosa, adoratori del successo? e pur raddoppiando l’ipocrisia, non ci
picchiamo di pensare e di dire, a chi vuol intendere, che il crimine
e la virtù sono parole, il rimorso una debolezza, la giustizia uno
spauracchio, la morale una bubbola?
Giustizia, morale! Si può dire di esse quello che gli inglesi dicono
oggi del protezionismo, che è un brevetto scaduto, una ricetta
divenuta inutile. Ahimè, tutti posseggono questo fatale segreto e si
comportano di conseguenza. Non vi è giustizia, dicono, lo stato
naturale dell’uomo è l’iniquità, ma l’iniquità limitata,
circoscritta, come la guerra che ne è l’immagine, da armistizi,
tregue, scambi di prigionieri, paci provvisorie, basate sull’astuzia
e la necessità e rotte dal risentimento e la vendetta.
Un pubblicista, de Girardin, con la sua precisione abituale, ha
messo in evidenza questa situazione: «Nego la morale», scriveva in
un opuscolo pubblicato qualche tempo dopo il colpo di Stato, «nego
la giustizia, il diritto, il pudore, la buona fede, la virtù. Tutto
è crimine, naturalmente crimine, necessariamente crimine; e io
propongo contro il crimine – indovinate che cosa, monsignore: una
religione? Oh no, de Girardin è del suo secolo, molto poco mistico e
per nulla teologico – un sistema di assicurazioni». [...]
Applicando questi principi all’uomo che vive in società, io concludo
che la condizione sociale non può essere per l’individuo una
diminuzione della sua dignità, essa non può esserne che un aumento.
Bisogna dunque che la giustizia, nome con il quale designiamo
soprattutto quella parte della morale che caratterizza il soggetto
in società, per divenire efficace sia più di una idea; bisogna che
essa sia contemporaneamente una realtà. Bisogna, diciamo, che essa
agisca non solamente come nozione della conoscenza, rapporto
economico, formula d’ordine, ma anche come forza dell’anima, forma
della volontà, energia interiore, istinto sociale, analogo nell’uomo
a quell’istinto comunista che abbiamo notato nell’ape. È ragionevole
infatti pensare che, se la giustizia è rimasta fino a oggi
impotente, ciò si deve al fatto che come facoltà, forza motrice,
l’abbiamo interamente misconosciuta; che la sua cultura è stata
negletta; che non ha marciato nel suo sviluppo con il medesimo passo
dell’intelligenza; infine che noi l’abbiamo considerata come una
fantasia della nostra immaginazione o l’impressione misteriosa di
una volontà estranea. Bisogna dunque, ancora una volta, che questa
giustizia la si senta in noi, nella coscienza, come una voluttà, un
amore, una gioia, una collera; che noi si sia sicuri della sua
eccellenza sia dal punto di vista della nostra felicità personale
che da quello della conservazione sociale; che con questo zelo sacro
della giustizia e con le sue manchevolezze si spieghino tutti i
fatti della nostra vita collettiva, le sue statuizioni, le sue
utopie, le sue perturbazioni, le sue corruzioni; e che ci appaia
infine come il principio, il mezzo e il fine, la spiegazione e la
sanzione del nostro destino.
In due parole una forza di giustizia, e non semplicemente una
nozione di giustizia, forza che, aumentando per l’individuo la
dignità, la sicurezza e la felicità, assicuri nel contempo l’ordine
sociale contro le incursioni dell’egoismo: ecco ciò che cerca la
filosofia, e al di fuori del quale non può esistere società.
Questa forza di giustizia esiste? ha una sede in qualche luogo,
nell’uomo o al di fuori dell’uomo? Qui si dividono nuovamente le
opinioni.
Da quanto precede risulta già un punto essenziale, che possiamo
considerare come acquisito. E cioè che per regolare i rapporti degli
individui fra di loro, farli vivere insieme l’uno grazie all’altro e
creare così la società, è necessario un principio, una forza, una
entità, qualcosa come ciò che chiamiamo giustizia, che abbia la sua
realtà, la sua sede in qualche luogo, dal quale determini le volontà
e imponga loro le sue regole.
Qual è questo potere? dove coglierlo? come definirlo? In ciò sta ora
la questione.
Si è preteso che la giustizia non sia altro che un rapporto di
equilibrio, concepito dall’intelletto ma liberamente accettato dalla
volontà, come ogni altra speculazione dello spirito, in ragione
dell’utilità che esso vi trova; in modo che la giustizia, ricondotta
alla sua formula, ridotta a una misura di precauzione e di
assicurazione, a un atto di benevolenza, anzi di simpatia, ma sempre
in vista dell’amore di se stesso, non sia, al di fuori di ciò, che
una immaginazione, un nulla.
Ma senza contare che questa opinione è smentita dal sentimento
universale che riconosce e afferma nella giustizia ben altro che un
calcolo di probabilità e una misura di garanzia, si può osservare,
anzitutto, che in questo sistema, che non è altro che quello del
dubbio morale, la società è impossibile: noi lo proviamo oggi come
lo provarono i Greci e i Romani; inoltre, in assenza di una forza di
giustizia, preponderante nelle anime, poiché la violenza e la frode
ridiventerebbero la sola legge, la libertà, malgrado tutte le
polizie e le garanzie, sarebbe distrutta e l’umanità diverrebbe una
finzione. E ciò fa cadere la critica.
Ritorno dunque al mio proposito e dico che qualunque sia la
giustizia, e con qualunque nome la si chiami, la necessità di un
principio che agisca sulla volontà come una forza, e la determini
nel senso del diritto o della reciprocità degli interessi,
indipendentemente da ogni considerazione di egoismo, questa
necessità, dico, è incontestabile. La società non può dipendere dai
calcoli e dalle convenienze dell’egoismo; gli atti dell’umanità
tutta intera nelle sue ascese e nelle sue degradazioni lo
testimoniano. Di questo principio, questa forza, bisogna constatarne
l’esistenza, analizzarne la natura, darne la formula. Constatare la
realtà della giustizia e definirla, indicarne le applicazioni
generali: in questo consiste oggi l’etica; e la filosofia morale,
fino a una maggiore manifestazione della coscienza, non può andare
oltre.
Orbene vi sono due modi di concepire la realtà della giustizia: come
una pressione esercitata dall’esterno sull’io, o come una facoltà
dell’io che, senza uscire dalla sua coscienza, sentirebbe la sua
dignità nella persona del prossimo con la stessa vivacità con cui la
sente nella propria persona; e si troverebbe così, pur conservando
la sua individualità, identico e adeguato allo stesso essere
collettivo.
Nel primo caso, la giustizia è esterna e superiore all’individuo,
sia che risieda nella collettività sociale, considerata come un
essere sui generis la cui dignità prevale su quella di tutti i
membri che la compongono, concezione che rientra nella teoria
comunista già esaminata, sia che si metta la giustizia ancora più in
alto, nell’essere trascendente assoluto che anima e ispira la
società e che viene chiamato Dio.
Nel secondo caso la giustizia è nell’intimo dell’individuo, omogenea
con la sua dignità, uguale a quella stessa dignità moltiplicata per
la somma dei rapporti che la vita sociale comporta. Diamo una idea
dei due sistemi.
Sistema della Rivelazione. Il primo e il più antico di questi
sistemi, quello che raccoglie ancora la massa delle popolazioni del
globo, benché perda di giorno in giorno terreno presso le nazioni
più civili, è il sistema della trascendenza, volgarmente detto della
Rivelazione. Tutte le religioni e quasi-religioni hanno per scopo di
inculcarlo: il cristianesimo ne è, dopo Costantino, l’organo
principale. Ai teologi o ai teorici della teodicea bisogna
aggiungere la moltitudine dei riformatori che, pur separandosi dalla
Chiesa e dallo stesso ateismo, rimangono fedeli al principio di
subordinazione esterna, mettendo al posto di Dio la società,
l’umanità, o qualsiasi altra sovranità, più o meno visibile e
rispettabile.
Secondo la dottrina generalmente seguita, di cui le teorie
dissidenti non sono del resto che delle mutilazioni, il principio
morale, formatore della coscienza, potenza plastica che le
conferisce virtù e dignità, è di origine superiore all’uomo, sul
quale agisce con una influenza che viene dall’alto, gratuita e
misteriosa.
La giustizia, secondo questa genesi, è dunque sovrannaturale e
sovrumana; essa ha per vero soggetto Dio, che la comunica e
l’insuffla nell’anima, fatta a sua immagine, cioè fatta della sua
stessa sostanza, capace per conseguenza di ricevere i modi del suo
divino autore. In che maniera, secondo i trascendentalisti, abbia
luogo questa comunicazione, è una questione sulla quale essi si
dividono, come succede per tutte le cose che oltrepassano
l’esperienza. A seconda che lo scrittore si rifaccia più o meno
strettamente all’idea mistica presa come punto di partenza, o che si
lasci invece andare alle suggestioni dell’empirismo, la sua dottrina
può variare dal cattolicesimo al panteismo, dal catechismo del
concilio di Trento all’etica di Spinoza.
Ma siccome, in una materia simile, un sistema deve essere studiato
nell’integrità del suo sviluppo storico e non in frammentazioni
arbitrarie; e siccome avremo l’occasione di convincerci che le
restrizioni proposte dai moderati del trascendentalismo sono delle
incongruenze palesi, effetto del pudore filosofico, esaminerò
soprattutto il sistema cattolico, il più completo di tutti e il più
logico.
Secondo la teologia ortodossa basta dunque sapere:
Che l’anima umana, vuota e buia, senza altra moralità che quella
dell’egoismo, è incapace di elevarsi da sola alla legge che regge la
società e di conformare a essa i suoi atti; che essa possiede
soltanto una certa attitudine a ricevere la luce la cui trasfusione
è operata in lei dal Rivelatore divino, in altri termini dal Verbo;
Che questo stato di oscurità invincibile, che pur tuttavia, si
assicura, avrebbe potuto non essere, è l’effetto di una corruzione
diabolica, nella quale l’anima è incorsa nei primi giorni della
creazione, corruzione che l’ha fatta ricadere al rango dei bruti, e
dalla quale essa non può essere radicalmente guarita su questa
terra;
Che la rivelazione della legge ha avuto luogo una prima volta in
Adamo, poi successivamente in Noè, Abramo, Mosè, i profeti e Gesù
Cristo, il quale, con la sua Chiesa, ne ha organizzato per sempre la
propagazione fra gli uomini;
Che così la giustizia, cosa essenzialmente divina, ultrafisica,
ultrarazionale, al di sopra di ogni osservazione e conclusione dello
spirito, cosa espressa dalla parola trascendenza che caratterizza il
sistema, non può, nella sua determinazione, avere niente di comune
con le altre branche del sapere, fondate tutte in ugual misura
sull’intelligenza e sull’esperienza; quanto alla pratica, che l’uomo
è del tutto incapace, per natura, di qualsiasi obbedienza, virtù o
sacrificio, che per natura ne rifugge non potendo trovare, in se
stesso e su questa terra, alcun compenso;
Che tutto ciò che l’uomo deve fare di conseguenza è di seguire
l’impulso della grazia, che d’altra parte non gli manca mai, e di
obbedire alla legge, tale quale gli è proposta da Dio per mezzo
della Chiesa, nel qual caso sarà salvato; altrimenti, e nel caso in
cui resistesse all’ordine divino e si mostrasse refrattario, sarà
punito;
Che non si può seriamente filosofare sui decreti del cielo
come sui fenomeni della natura, né penetrare i motivi di chi sta in
alto, e ancor meno pretendere di aggiungervi o togliervi qualcosa,
poiché ciò equivarrebbe ad aspirare a rifare l’opera di Dio e a
veder più lontano della sua provvidenza, il che non si può ammettere
senza empietà.
In conclusione, secondo questa teologia, il principio della
giustizia è in Dio, che ne è nello stesso tempo il soggetto e il
rivelatore, la forza di realizzazione ancora in Dio, la sanzione
sempre in Dio. Di modo che, senza la manifestazione divina,
l’umanità dopo la sua caduta non sarebbe ancora uscita dalla
condizione delle bestie, e che il primo frutto della religione è
questa stessa ragione filosofica che la misconosce e l’oltraggia.
[...]
Stabiliti questi principi, la teologia spiega così il movimento
della storia. Tale movimento, che gli uni concepiscono come un
progresso, mentre gli altri non vi vedono che un’agitazione
irrazionale e sterile, non è altro, assicurano gli ispirati, che
l’effetto della lotta che si stabilisce fin dal principio fra la
natura egoista e recalcitrante dell’uomo e l’azione stimolante e
sempre più vittoriosa della legge, espressione rivelata della
società. Questo è il fondo della filosofia di Bossuet, nel suo
Discorso sulla storia universale. Per questo la Chiesa ha preso il
nome di militante: il suo nemico è l’angelo delle tenebre,
personificazione del male, principale autore della nostra caduta,
che, malgrado tutti gli esorcismi, malgrado il sangue di un Dio
versato per i peccati del mondo, continua a possedere la maggioranza
delle anime.
Ma supporre che analogamente al progresso che si manifesta nelle
scienze e nell’industria, e che è l’effetto dell’accumulazione della
nostra scienza, ce ne possa essere uno simile nella giustizia,
indipendentemente dall’azione efficace della grazia, questa è una
proposizione contro la quale la teologia protesta con tutte le sue
forze, dichiarandola distruttrice della religione e, per
conseguenza, di ogni morale, di ogni società. E, bisogna dirlo, non
soltanto l’immoralità contemporanea sembra dar ragione alla
teologia, ma su questo punto anche la filosofia deista pensa in
fondo come la Chiesa. Essa crede e insegna che la società è, come il
corpo umano, soggetta a corruzione e decadenza; che di tanto in
tanto ha bisogno di rigenerare i suoi costumi; e che questa
rigenerazione morale non può compiersi che grazie a una condizione,
il rinnovamento del dogma. Che cos’è il dogma? La parola interiore,
divina e provvidenziale, che sgorga nelle epoche fatidiche per la
rigenerazione delle società. È per questo che noi vediamo oggi delle
intelligenze elevate, delle anime generose, convinte che la
corruzione è al suo massimo, che il cristianesimo è esaurito, come
una volta il paganesimo, e che il tempo è vicino, rivolgere la loro
richiesta alla divinità, implorare con lacrime e compunzione una
manifestazione del dogma. L’autore di France mistique ha contato più
di trenta di questi concorrenti della Chiesa, il cui motto in un
secolo decisamente razionalista, ma tuttavia agitato sempre dalla
fede, sembra essere questo: ci vuole la rivelazione, ma non troppa!
Tanto è penetrato nella coscienza degli uomini il sistema della
trascendenza, nato dai concetti fondamentali e dalle prime ipotesi
della ragione, formulato in leggende poetiche e meravigliosi
racconti, sostenuto dalla debolezza d’animo dei filosofi! Si sa con
quale salto mortale l’incomparabile Kant, dopo aver confutato con la
sua Critica della Ragion pura tutte le pretese dimostrazioni
dell’esistenza di Dio, l’abbia ritrovata nella Ragion pratica.
Cartesio, prima di lui, era arrivato allo stesso risultato; ed è
stupefacente vedere gli ultimi discepoli di questo acrobatico
metafisico rigettare l’autorità della Chiesa, la rivelazione di
Gesù, quelle di Mosè, dei patriarchi, di Zoroastro, dei Bramani, dei
Druidi, insomma tutto il sistema delle religioni, per poi affermare,
come fatto di psicologia positiva, la rivelazione immediata di Dio
nelle anime.
Secondo questi signori, Dio si manifesta direttamente a noi
attraverso la coscienza; ciò che si chiama senso morale è
l’impressione stessa della divinità. Per il solo fatto che riconosco
l’obbligo
di ubbidire alla giustizia, io sono, a sentir loro, credente
malgrado me stesso, adoratore dell’Essere Supremo, e partigiano
della religione naturale. Il dovere! Basta che io pronunci questa
parola per attestare, contro il mio stesso desiderio, che io sono
doppio: Io, anzitutto, che sono legato dal dovere; e l’Altro, cioè
Dio, che ha formato questo legame, che si è stabilito nella mia
anima, che mi possiede tutto intero, che anche quando mi immagino,
nel seguire la legge morale, di compiere un atto autonomo, mi guida,
senza che io me ne accorga, con la sua imperiosa suggestione. [...]
Sistema della Rivoluzione. L’altro sistema, radicalmente opposto al
primo, e di cui la rivoluzione si è proposta di assicurare il
trionfo, è quello dell’immanenza, o dell’inneità della giustizia
nella coscienza.
Secondo questa teoria, l’uomo, benché partito da uno stato
completamente selvaggio, produce incessantemente, con lo sviluppo
spontaneo della sua natura, la società. È solo per astrazione che
egli può essere considerato allo stato di isolamento e senza altra
legge che l’egoismo. La sua coscienza non è doppia, come insegnano i
trascendentalisti; essa non discende affatto, da una parte,
dall’animalità e, dall’altra, da Dio: essa è soltanto polarizzata.
Parte integrante di una esistenza collettiva, l’uomo sente la sua
dignità nel contempo in se stesso e negli altri, e porta così nel
suo cuore il principio di una moralità superiore alla sua
individualità. E questo principio non lo riceve dal di fuori; gli è
congenito, immanente. Esso costituisce la sua essenza, l’essenza
della società stessa. Ha la forma propria dell’animo umano, forma
che si precisa e si perfeziona sempre più grazie alle relazioni che
la vita sociale fa nascere ogni giorno.
La giustizia, in una parola, è in noi come l’amore, come le nozioni
del bello, dell’utile, del vero, come tutte le nostre forze e le
nostre facoltà. Perciò io nego che, mentre nessuno pensa a riferire
a Dio l’amore, l’ambizione, lo spirito speculativo o
imprenditoriale, si debba fare una eccezione per la giustizia.
La giustizia è umana, del tutto umana, niente altro che umana:
sarebbe farle torto riferirla, poco o tanto, direttamente o
indirettamente, a un principio superiore o anteriore all’umanità. La
filosofia si occupi finché vuole della natura di Dio e dei suoi
attributi, può essere il suo diritto e il suo dovere. Io pretendo
che questa nozione di Dio è inutile nelle nostre costituzioni
giuridiche, come lo sarebbe nei nostri trattati di economia politica
o di algebra. La teoria della Ragion pratica sussiste di per se
stessa; non presuppone né richiede l’esistenza di Dio e
l’immortalità dell’anima, e sarebbe una menzogna se avesse bisogno
di simili sostegni.
Ecco in che senso preciso, purgato da qualsiasi reminiscenza
teologica o sovrannaturale, io mi servo della parola immanenza. La
giustizia ha la sua sede nell’umanità, essa è progressiva e
indefettibile nell’umanità, perché essa appartiene all’umanità:
questo è il mio pensiero, attinto dallo strato più profondo della
coscienza.
E quando aggiungo che il fine della Rivoluzione è stato quello di
esprimere questo pensiero, non voglio dire che la Rivoluzione e la
sua idea sono nate improvvisamente, in un certo luogo e in un certo
momento; in fatto di giustizia non c’è niente di nuovo sotto il
sole. Voglio solo dire che è soltanto a partire dalla Rivoluzione
francese che la teoria della giustizia immanente si è affermata con
coscienza e pienezza, è divenuta preponderante e ha preso
definitivamente possesso della società. Come la nozione di diritto è
eterna e innata nell’umanità, così è innata ed eterna nell’umanità
quella di Rivoluzione. Essa non è cominciata nell’anno di grazia
1789, in una località compresa tra i Pirenei, l’Oceano, il Reno e le
Alpi. Essa appartiene a tutti i tempi e a tutti i Paesi, essa data
dal giorno in cui l’uomo, non fidandosi di se stesso, ha fatto, per
sua sfortuna, appello a un’autorità invisibile, remuneratrice e
vendicativa; ma è alla fine del secolo scorso, e sul suolo glorioso
di Francia, che essa ha avuto la sua esplosione più lampante.
Ciò spiegato, la teoria della giustizia, innata e progressiva, si
deduce da sola.
Prima della sua immersione nella società, o per meglio dire, prima
che la società abbia cominciato a nascere da lui grazie alla
generazione, al lavoro e alle idee, senza dubbio l’uomo, chiuso nel
suo egoismo, limitato alla vita animale, non sa niente della legge
morale. Come la sua intelligenza, prima di venire stimolata dalla
sensibilità, è vuota, senza alcuna nozione dello spazio e del tempo,
così la sua coscienza, prima di essere stimolata dalla società, è
ugualmente vuota, senza conoscenza né del bene né del male.
L’esperienza delle cose, necessaria alla produzione delle idee, non
lo è meno allo sviluppo della coscienza.
Ma come nessuna comunicazione esterna potrebbe da sola creare
l’intelligenza e far sgorgare a miriadi le idee alate senza una
preformazione intellettuale che renda possibile il concetto, così
anche i fatti della vita sociale potranno ben prodursi,
l’intelligenza potrà ben coglierne il rapporto, eppure questo
rapporto non si tradurrà mai per la volontà in legge obbligatoria
senza una preformazione del cuore che faccia scorgere al soggetto,
nei rapporti sociali che lo coinvolgono, non soltanto un’armonia
naturale, ma una specie di comando segreto da se stesso a se stesso.
Così, secondo la teoria dell’immanenza, quand’anche la Rivelazione
fosse provata, essa servirebbe, come l’insegnamento del maestro
serve al discepolo, solo nella misura in cui l’anima possedesse in
sé la facoltà di riconoscere la legge e di farla sua: il che esclude
radicalmente e irrevocabilmente l’ipotesi trascendentale.
Ne segue che la coscienza, quale ci è data dalla natura, è completa
e sana: tutto ciò che avviene in lei è suo; essa basta a se stessa,
non ha bisogno né di medico né di rivelatore; anzi, questo aiuto
celeste, sul quale la si vorrebbe fondare, non può essere che di
ostacolo alla sua dignità, non può che impastoiarla e incepparla.
Dunque, non solo la scienza della giustizia e dei costumi è
possibile perché da una parte è fondata su una facoltà speciale
dell’anima che ha, come l’intelletto, le sue nozioni fondamentali,
le sue forme innate, le sue anticipazioni, i suoi pregiudizi, e
dall’altra sulla esperienza quotidiana con le sue induzioni e le sue
analogie, con le sue gioie e i suoi dolori; ma bisogna anche dire
che questa scienza è possibile solo a condizione che si distacchi
interamente dalla fede, la quale ben lungi dal servirla, la
perverte.
Nel sistema della Rivelazione, la scienza della giustizia e dei
costumi si fonda necessariamente, a priori, sulla parola di Dio,
spiegata e commentata dai sacerdoti. Essa non si aspetta niente
dall’adesione della coscienza, né dalle conferme dell’esperienza. Le
sue formule assolute sono affrancate da qualsiasi considerazione
puramente umana; decretate in anticipo e per sempre, esse sono fatte
per l’uomo, non dall’uomo. Ciò implicherebbe che una dottrina sacra
non possa ricevere un po’ di luce dagli accidenti della vita sociale
e dalla variabilità dei suoi fenomeni: sarebbe come sottomettere
l’ordine di Dio all’apprezzamento dell’uomo, abiurare di fatto la
Rivelazione e riconoscere l’autonomia della coscienza, cosa
incompatibile con la fede.
Tale è il diritto divino, che ha per massima l’autorità: donde tutto
un sistema di amministrazione per gli Stati, di polizia per i
costumi, di economia per i beni, di educazione per la gioventù, di
restrizione per le idee, di disciplina per gli uomini.
Nella teoria dell’immanenza, invece, la conoscenza del giusto e
dell’ingiusto risulta dall’esercizio di una facoltà speciale e dal
giudizio che la ragione porta a posteriori sui suoi atti. Perciò per
determinare la regola dei costumi, è sufficiente osservare la
fenomenalità giuridica a mano a mano che essa si produce nei fatti
della vita sociale. Ne segue che, essendo la giustizia il prodotto
della coscienza, ciascuno si trova a essere, in ultima istanza,
giudice del bene e del male, costituito come un’autorità di fronte a
se stesso e agli altri. Se non affermo io stesso che la tal cosa è
giusta, invano il principe e il prete ne affermeranno la giustizia e
mi ordineranno di farla: essa resta ingiusta e immorale, e il potere
che pretende di obbligarmi è tirannico. Reciprocamente, se io non
affermo nel mio stesso foro interiore che la tal cosa è ingiusta,
invano il principe e il prete pretenderanno di impedirmela: essa
resta giusta e morale, e l’autorità che me la impedisce illegittima.
Tale è il diritto umano, che ha per massima la libertà: donde tutto
un sistema di coordinazioni, di garanzie reciproche, di servizi
mutui, che è il contrario del sistema di autorità.
È necessario aggiungere che in questa teoria, dovendo l’uomo
arrivare da sé, e da sé solo, alla conoscenza della giustizia, la
sua scienza è necessariamente progressiva e gli si manifesta con
l’esperienza, a differenza della scienza rivelata, data una volta
per tutte e alla quale non possiamo né aggiungere né togliere una
lettera? È, del resto, ciò che dimostra la storia delle
legislazioni; e non è stata una piccola causa di imbarazzo il
bisogno di accordare le condizioni di questo progresso con l’idea di
una Rivelazione simultanea e definitiva.
Ma non è tutto. Siccome l’apprendimento della legge è progressivo,
anche la giustificazione è progressiva: fatto anch’esso attestato
dalla storia e anch’esso inconciliabile con la teoria di una grazia
preventiva, concomitante, e con ogni specie di soccorso, provvidenza
e prestazione celeste.
Orbene, ammessa la realtà del progresso, in primo luogo come
condizione della conoscenza, poi come sinonimia della
giustificazione, tutta la storia dell’umanità, delle sue
oscillazioni, delle sue aberrazioni, delle sue cadute, dei suoi
raddrizzamenti, trova spiegazione, fino alla negazione stessa della
virtualità umana che sta al fondo dell’idea religiosa, fino a questa
disperazione nella giustizia che ne è il seguito e che, con il
pretesto di unirci a Dio, finisce con il rovinare la nostra
moralità.
Così, dalla filosofia pratica, o dalla ricerca delle leggi delle
azioni umane, si deduce la filosofia della storia, o ricerca delle
leggi della storia, che potrebbe altrettanto bene essere chiamata
istoriologia, e che sta alla storiografia, descrizione dei fatti
della storia, come l’antropologia sta all’etnografia, l’aritmologia
alla aritmografia, ecc.
Una società nella quale la conoscenza del diritto fosse completa e
il rispetto della giustizia inviolabile, sarebbe perfetta.
Il suo movimento, non obbedendo che a una costante, senza dipendere
più da variabili, sarebbe uniforme e rettilineo; in questo caso la
storia si ridurrebbe a quella del lavoro e degli studi, o per meglio
dire non vi sarebbe più storia.
Tale non è la condizione della vita umana, e tale non potrebbe
essere. Il progresso della giustizia, teorico e pratico, è uno stato
da cui non ci è dato di uscire e di vedere la fine. Noi sappiamo
discernere il bene dal male, ma non conosceremo mai la fine del
diritto, perché non cesseremo mai di creare fra di noi nuovi
rapporti. Siamo nati perfettibili; non saremo mai perfetti: la
perfezione, l’immobilità, sarebbero la morte.
[Da De la justice dans la Révolution et dans l’Église, trad. it.: La
giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa, UTET, Torino 1968, pp.
127-146].
capitolo quinto
Per Proudhon l’ordine politico si fonda su due opposti principi:
l’autorità e la libertà. La loro antinomia è la sicura garanzia del
fatto che un terzo termine è impossibile; dall’altra parte il
rapporto tra queste due polarità non può risolversi in un completo
annullamento della prima a favore della seconda. Vi è invece la
concezione di una complementarità fra i due termini, nel senso che
la libertà è completa solo quando si accorda con la necessità.
Oltre a un riconoscimento del tutto ovvio delle leggi oggettive
della necessità, quale unico modo per dominarne gli effetti, vi è in
queste considerazioni l’idea che la libertà non può farsi soggetto
assoluto. Anch’essa deve rispettare le particolarità e le
determinazioni del reale, deve cioè pluralizzarsi e
contestualizzarsi entro le forme storiche e le situazioni
determinate. Si tratta di una concezione concreta della libertà che
si pone all’opposto della visione astratta di derivazione
illuminista. Questo perché Proudhon avverte una sorta di rischio
assolutistico insito nel concetto di libertà, qualora essa non venga
divisa fra più soggetti politici e sociali. Dare un valore assoluto
alla libertà significa assegnarle lo stesso significato che il
giacobinismo diede alla volontà
generale. Occorre invece una dialettica fra determinismi e
libertà in grado di trasformare l’idea astratta e generale di
libertà in tante idee concrete e particolari di libertà. Infatti, la
divisione della libertà si realizza ripetendo il movimento della
necessità e riconoscendone le connessioni. La necessità è dunque la
condizione della libertà.
La chiara consapevolezza del rapporto fra necessità e libertà non
impedisce comunque a Proudhon di continuare a pensare che solo nella
tendenza al superamento della costrizione fisica e sociale l’uomo si
realizza come libero; un superamento per mezzo del quale l’uomo, al
di là della spontaneità, idealizza ciò che crea, trasfigura il
reale, rifiuta di rassegnarsi al naturale, defatalizza il suo
destino. Si può affermare addirittura che per Proudhon la funzione
della libertà consiste nel portare il soggetto libero al di là di
tutte le manifestazioni, aspetti e leggi, tanto della materia quanto
dello spirito, e dargli un carattere per così dire sovrannaturale.
Dall’insieme di queste considerazioni si ricava la consapevolezza
che per la società possono esistere solo due modelli opposti,
definibili come il regime della libertà e il regime dell’autorità. A
suo giudizio, in tutto il corso della storia umana sono stati
concepiti essenzialmente solo quattro regimi politici. Essi sono
concettualmente insuperabili, nel senso che tutti gli altri modi di
intendere la vita umana associata devono considerarsi delle
variabili riconducibili sempre alla fondamentale quadripartizione
che egli stesso così sintetizza: regime di autorità, nella duplice
forma del governo di tutti da parte di uno (monarchia o patriarcato)
e del governo di tutti da parte di tutti (panarchia o comunismo);
carattere peculiare di questo regime è l’indivisione del potere;
regime di libertà, nella duplice forma del governo di tutti da parte
di ciascuno (democrazia) e del governo di ciascuno per sé (anarchia
o autogoverno); carattere essenziale di questo regime è la divisione
del potere. È tutto qui. Questa classificazione, suggerita a priori
dalla natura delle cose, è razionalmente deducibile, è matematica.
Si vede subito come questa contrapposizione fra il regime di
autorità e il regime di libertà ponga nella stessa famiglia il
principio monarchico con il principio comunista e il principio
anarchico con il principio democratico, in quanto il primo gruppo ha
la sua caratterizzazione nell’indivisione del potere, il secondo
nella divisione. Come l’anarchia è l’estremo svolgimento logico
della democrazia, così il comunismo è l’estremo svolgimento logico
della monarchia.
Autorità e libertà
L’ordine politico poggia le sue basi su due principi contrari:
l’autorità e la libertà, il primo dei quali iniziatore, il secondo
determinante; questo rispondente alla libera ragione, quello alla
fede che persuade all’obbedienza.
Credo che nessuno vorrà infirmare questa prima proposizione.
L’autorità e la libertà sono in questo mondo antiche quanto la razza
umana: nascono con noi e si perpetuano in ciascuno di noi.
Accontentiamoci di osservare una cosa, cui pochi lettori forse
avranno pensato: che questi due principi formano, per così dire, una
coppia, i cui due termini, indissolubilmente legati fra loro, sono
tuttavia irriducibili l’uno all’altro e restano, a dispetto di ogni
nostro sforzo, in lotta perpetua fra loro. L’autorità suppone
invincibilmente una libertà che la riconosca o la neghi; la libertà
a sua volta, nel senso politico della parola, suppone ugualmente
un’autorità che tratti con essa, la tolleri o raffreni. Se
sopprimete l’una, l’altra non ha più senso: l’autorità, senza una
libertà che discuta, resista o si sottometta, non è che una vuota
parola; la libertà, senza un’autorità che le faccia da contrappeso,
è un nonsenso.
Il principio di autorità, principio familiare, patriarcale,
magistrale, monarchico, teocratico, tendente alla gerarchia, alla
centralizzazione, all’assorbimento, è dato dalla natura, perciò
essenzialmente fatale o, se preferite, divino. La sua influenza,
combattuta, ostacolata dal principio contrario, può estendersi
indefinitamente o restringersi, ma mai annullarsi.
Il principio di libertà, personale, individualista, critico, che
porta alla divisione, all’elezione, alla transazione, ci è dato
dallo spirito. Principio essenzialmente arbitrale – di conseguenza
superiore alla natura, che esso fa suo strumento, e alla fatalità,
che esso vuol dominare – illimitato nelle sue aspirazioni e
suscettibile, come il suo contrario, di estendersi e di
restringersi, ma altrettanto incapace di esaurirsi per eccesso di
sviluppo come di venire annientato dalla costrizione.
Consegue da ciò che in ogni società, anche la più autoritaria, una
parte è necessariamente lasciata alla libertà, così come in ogni
società, anche la più liberale, una parte è riservata all’autorità.
E questa condizione è assoluta: nessuna varietà di costituzione
politica vi si sottrae. Malgrado gli sforzi del nostro intelletto,
che tende per natura a risolvere le opposizioni nell’unità, questi
due principi restano l’uno di fronte all’altro, in perpetua
opposizione; e ogni moto politico risulta dalla loro ineluttabile
tendenza diversa e dalle loro mutue reazioni.
Tutto ciò, lo ammettiamo, non è forse cosa molto nuova, e più di un
lettore si domanderà se non ho proprio nient’altro da insegnargli.
Nessuno nega la natura né lo spirito, per quanto oscuri possano
essere tali concetti; e a nessun scrittore è mai venuto in mente di
negare il diritto all’esistenza della libertà o dell’autorità,
sebbene risulti ugualmente impossibile conciliarle, farle vivere
separate, o eliminare una delle due. Quale può essere dunque il mio
scopo ribadendo questo luogo comune?
Lo dirò subito: mostrare che tutte le costituzioni politiche e tutti
i sistemi di governo, compreso il federalismo, possono ricondursi a
questa formula: l’autorità controbilanciata dalla libertà, e
viceversa.
E questo fa sì che tutte le categorie adottate da Aristotele
in poi da tanti autori per classificare le forme di governo,
distinguere i vari tipi di Stato e caratterizzare le singole
nazioni, e cioè monarchia, aristocrazia, democrazia, ecc.
(eccettuando però qui il federalismo) si riducono a costruzioni
puramente ipotetiche ed empiriche a un tempo, nelle quali la ragione
e la giustizia possono trovar soddisfazione solo in modo assai
imperfetto. Perché tutti quei sistemi di governo, fondati su
principi ugualmente incompleti, che differiscono fra loro solo per
la diversità degli interessi, dei pregiudizi e delle abitudini
inveterate, in sostanza si rassomigliano e si equivalgono: al punto
che, se non fosse per il disagio che fatalmente comportano nella
pratica tali falsi sistemi, e per le conseguenti accuse reciproche a
causa delle passioni frustrate e degli interessi misconosciuti e
delle ambizioni deluse, per quanto riguarda i loro fondamenti tutti
gli uomini non sarebbero poi così discordi. E perché infine tutte
quelle divisioni di partiti, tra i quali la nostra immaginazione
scava degli abissi, tutti quei contrasti di opinioni che ci sembrano
insolubili, quegli antagonismi di interessi pratici che ci sembrano
irrimediabili, si avviano a trovare il loro definitivo equilibrio
nelle teorie del governo federativo.
Quante cose volete far nascere, dirà qualcuno, da una semplice
opposizione formale: autorità-libertà! E così è. Perché avendo
osservato che le intelligenze comuni, i bambini, colgono assai
meglio la verità concentrata in una formula astratta che non diluita
in un volume di dissertazioni e di fatti, io ho voluto al contempo
ridurre il mio lavoro all’essenziale per tutti quelli che non
possono stare a leggere tanti libri, e renderlo più perentorio
basandomi su nozioni semplici. L’autorità e la libertà, due idee
opposte fra loro e condannate a vivere in perpetua lotta o a perire
insieme: non è certo un concetto molto difficile. Che l’amico
lettore abbia la pazienza di proseguire, e se ha compreso questo
primo e breve paragrafo, potrà dirmi poi quel che pensa degli altri.
Abbiamo individuato i due principi fondamentali e antitetici di ogni
governo: autorità e libertà. Data la tendenza del nostro spirito a
ricondurre tutte le sue nozioni a un principio unico, e quindi
eliminare quelle che sembrano incompatibili con quel principio, due
differenti tipi di governo si deducono solitamente a priori da
quelle due nozioni basilari, secondo la preminenza o preferenza che
si vuol accordare all’una o all’altra, e sono: il regime di autorità
e il regime di libertà. Essendo inoltre la società composta da
individui, e potendosi classificare i rapporti fra individuo e
società in quattro diversi modi, ne risultano quattro tipi di
governo, due per ciascun regime:
1. regime di autorità: a) governo di tutti da parte di uno:
monarchia o patriarcato; b) governo di tutti da parte di tutti:
panarchia o comunismo; e il carattere essenziale di questo regime di
autorità, in ambedue le specie, è l’indivisione del potere;
2. regime di libertà: a) governo di tutti da parte di ciascuno:
democrazia; b) governo di ciascuno per sé: anarchia o autogoverno; e
il carattere essenziale di questo regime di libertà, in ambedue le
specie, è la divisione del potere.
Questa classificazione a priori, logicamente dedotta dai dati di
fatto, è assoluta e matematica. Se si vuol far dipendere la politica
da un ragionamento di tipo sillogistico, come tesero a supporre
tutti gli antichi legislatori, essa non può uscire da questi schemi.
E tale semplicismo originario è degno di tutta la nostra attenzione:
ci fa vedere che fin dalle origini, e sotto tutti i regimi, gli
ordinamenti statali hanno cercato di dedurre le loro costituzioni
partendo da un solo elemento, ma che questo modo di ragionare
nell’arte politica è primordiale. Ebbene, in ciò sta precisamente
l’errore.
1. Noi sappiamo qual è la base del governo monarchico, espressione
primitiva del principio di autorità (mi basti rimandarvi a de
Bonald): è l’autorità paterna. La famiglia è l’embrione della
monarchia: i primi Stati furono in genere famiglie o tribù governate
dal loro capo naturale, marito, padre, patriarca e, finalmente, re.
In tal regime, lo Stato si sviluppa in due modi: o per
generazione e moltiplicazione naturale della famiglia, tribù o
razza; o per adozione, cioè incorporazione volontaria o forzata
delle famiglie e tribù circostanti, ma in modo tale che queste nuove
tribù vadano a comporre con la tribù madre una sola famiglia,
restando come questa sottoposta allo stesso capo domestico. Questo
secondo sviluppo dello Stato-famiglia può arrivare a proporzioni
immense, fino a centinaia di milioni di uomini sparsi su centinaia
di migliaia di leghe.
La panarchia poi, o pantocrazia, o comunità, si produce naturalmente
per la morte del monarca o capo famiglia e la dichiarazione dei
sudditi, fratelli, figli o associati, di restare indivisi senza
tuttavia scegliersi un nuovo capo. Questa forma politica è rara per
non dire praticamente inesistente, poiché l’autorità dello Stato è
in essa più pesante e l’individualità più oppressa che con qualunque
altro regime. Non la possiamo vedere adottata se non dalle
associazioni religiose, le quali, in tutti i Paesi e con qualunque
culto, hanno mirato sempre all’annientamento della libertà. Tuttavia
il suo principio è naturalmente dedotto dall’idea di autorità, come
il regime monarchico, e si può trovarlo applicato in certi governi
«di fatto»; cosicché ci era pur necessario farne menzione.
Così la monarchia, fondata sul fatto naturale della famiglia e
giustificata dal naturale principio di autorità, ha una sua
legittimità e una sua moralità; e lo stesso si può dire del
comunismo. Ma vedremo ben presto come queste due varietà del regime
di autorità non possano, benché si fondino su un fatto di natura e
sulle sue conseguenze logiche, mantenersi rigorosamente costrette
nel rigoroso ossequio al loro principio e nella purezza della loro
essenza, e che esse sono di conseguenza condannate a restare sempre
allo stato di ipotesi. E infatti, malgrado la loro origine
patriarcale, il loro ideale pacifico, il fascino dell’assolutismo e
del diritto divino, in nessuna parte del mondo possiamo trovare
monarchia o comunismo che siano rimasti fedeli al loro archetipo.
2. Come nasce d’altra parte il regime democratico, spontanea
espressione del principio di libertà? Rousseau e la Rivoluzione ce
l’hanno insegnato: in base a una convenzione. Qui la filosofia non
c’entra più, lo stato di libertà ci appare non più come il prodotto
della natura organica, della carne, ma della natura intelligibile,
cioè lo spirito.
Sotto quest’altro regime, lo sviluppo dello Stato si ha per
accessione o libera adesione. Come si presuppone che tutti i
cittadini abbiano aderito al contratto-base, così lo straniero che
si fa cittadino si suppone abbia dato la stessa adesione; e solo a
questa condizione egli ottiene i diritti e le prerogative degli
altri. Se lo Stato si troverà a far guerra e si farà conquistatore,
il suo principio lo porterà ad accordare alle popolazioni
conquistate gli stessi diritti di cui godono i propri cittadini: è
quel che si indica con il termine isonomia. Così procedevano i
Romani quando concedevano il diritto di cittadinanza. E i fanciulli
stessi, quando giungono alla maggiore età, è come se avessero
giurato lo stesso patto: essi non diventano cittadini, in realtà,
perché sono figli di cittadini, come accade nella monarchia dove i
figli del suddito sono anch’essi sudditi per nascita, o nelle
comunità di Licurgo e di Platone dove, nascendo, essi sono dello
Stato; per essere membro di una democrazia, indipendentemente dalla
propria qualità di ingenuus, bisogna, in teoria, aver liberamente
accettato quel sistema di governo.
La stessa cosa accadrà per l’accessione di una famiglia, di una
città, di una provincia: la libertà è sempre la base del fatto e lo
giustifica.
Così allo sviluppo dello Stato autoritario, patriarcale, monarchico
o comunista, si oppone lo sviluppo dello Stato liberale,
contrattuale e democratico. E come non ci sono limiti naturali per
l’estensione della monarchia (e ciò in tutti i tempi e in tutti i
popoli ha suggerito l’idea di una monarchia universale o
messianica), non ci sono neppure limiti naturali per l’estensione
dello Stato democratico (e ciò suggerisce ugualmente l’idea di una
democrazia o repubblica universale).
Come varietà del regime liberale, ho segnalato l’anarchia, o
governo del singolo da parte del singolo, cioè autogoverno. Poiché
l’espressione «governo anarchico» implica una specie di
contraddizione, la cosa sembra impossibile e l’idea assurda.
Tuttavia il difetto è qui soltanto nell’espressione: la nozione di
anarchia, in politica, è altrettanto razionale e positiva quanto le
altre. Essa consiste nel fatto che, qualora si riducessero le
funzioni politiche alle funzioni dell’umana industria, l’ordine
sociale risulterebbe dal solo fatto delle transazioni e degli
scambi; e ciascuno allora potrebbe chiamarsi autocrate di se stesso,
che è l’estremo opposto dell’assolutismo monarchico*.
E ancora: come la monarchia e il comunismo, fondati su un fatto di
natura e sulla logica, hanno la loro legittimità e la loro moralità,
senza che tuttavia possano mai realizzarsi in tutto il rigore e la
purezza della loro idea, così la democrazia e l’anarchia, fondate
sul principio della libertà e sui suoi diritti, e perseguendo un
ideale logicamente dedotto da tal principio, hanno la loro
legittimità e la loro moralità. Ma vedremo altresì come, malgrado la
loro origine giuridica e razionalista, neppure questi regimi
possano, accrescendo e sviluppandosi in popolazione e territorio,
mantenersi rigorosamente e limpidamente coerenti con la loro
primitiva idea, e restino perciò condannati a uno stato di
desiderata perpetuo: malgrado il potente fascino della libertà, né
la democrazia né l’anarchia si sono mai in alcun luogo costituite
nella pienezza e integrità della loro idea.
* Proudhon, in una lettera del 20 agosto 1864 a «l’éditeur du
Dictionnaire Larousse», specifica ulteriormente: «[Quanto
all’anarchia], ho inteso indicare con questo termine il limite
estremo del progresso politico. L’anarchia è, se così posso
esprimermi, una forma di governo o di costituzione in cui la
coscienza pubblica e privata, formata dallo sviluppo della scienza e
del diritto, è di per sé sufficiente a mantenere l’ordine e a
garantire tutte le libertà; di conseguenza il principio di autorità,
le istituzioni preventive e repressive e la burocrazia sono ridotte
alla loro forma più semplice, e a maggior ragione sono scomparse le
forme monarchiche e la forte centralizzazione, sostituite dalle
istituzioni federative e dai costumi comunali. Quando la vita
politica e l’esistenza domestica saranno identificate, quando, con
la soluzione dei problemi economici, gli interessi sociali e
individuali saranno equilibrati e solidali, è evidente che
scomparirà ogni costituzione e saremo in piena libertà, cioè in
anarchia. La legge sociale si compirà da se stessa, senza bisogno di
ordine e sorveglianza, grazie alla spontaneità universale» [N.d.C.].
[Da Du principe fédératif, trad. it. (estratti): in P. Ansart, P.-J.
Proudhon, La Pietra, Milano 1978, pp. 260-265].
capitolo sesto
Il principio proudhoniano di associazione riprende implicitamente il
concetto di forza collettiva per applicarlo alla libertà: come
l’unione degli sforzi individuali genera nel gruppo sociale una
forza superiore alle individualità, altrettanto la sintesi delle
autentiche facoltà umane genera una forza d’azione superiore alle
singole facoltà. Attraverso questa forza superiore l’uomo si
sperimenta come libero e può opporsi al mondo e trasformarlo. La
nuova associazione umana dovrà quindi emergere da complesse e
molteplici esperienze culturali e spirituali, dall’uso contemporaneo
e libero di ogni talento, dalla messa in opera di tutte quelle
condizioni atte a favorire la capacità da parte dell’uomo di
riprogettarsi continuamente. Di qui la concezione di una naturale
confluenza fra sviluppo intellettuale e sviluppo fisico, quello
sviluppo in grado di comporre sinteticamente l’unità dello
studio-lavoro che, nell’equilibrio fra teoria e prassi, caratterizza
l’uomo completo ed emancipato. Ciò che sta alla base dell’obiettivo
proudhoniano dell’integrazione, per ogni individuo, del lavoro
manuale con quello intellettuale, è quindi la convinzione teorica
che solo l’unità sintetica di idea e fatto, di teoria e prassi,
possa esprimere e realizzare la naturale completezza psico-fisica
dell’uomo, cioè quella forza collettiva che è propria delle sue
possibilità e che può renderlo libero.
Questa integrazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale in
ogni individuo comporta l’abolizione della divisione gerarchica tra
funzioni intellettuali e funzioni manuali nell’organizzazione
produttiva e sociale, e contemporaneamente l’abolizione della
divisione verticale fra idea e azione, teoria e prassi, nel processo
generale di liberazione. Infatti, come la funzione politica separata
dall’azione sociale delle masse si concreta nella tutela della
società da parte dello Stato, così le funzioni intellettuali
separate da quelle manuali si concretano socialmente in classi
dominanti all’interno della produzione sociale.
Alla divisione della società gerarchica, Proudhon oppone la
concezione libertaria ed egualitaria di una società economica
autogestita e composta da produttori autonomi e uguali; al principio
statale, quello dei partigiani della libertà, secondo i quali la
società deve essere considerata non come una gerarchia di funzioni e
di facoltà, ma come un sistema di equilibri fra forme libere, in cui
ognuno ha garanzia di conseguire i medesimi diritti purché sottostia
agli stessi doveri, di ottenere gli stessi vantaggi in compenso dei
medesimi servizi, sistema questo essenzialmente egualitario.
Si precisa così la concezione proudhoniana dell’autogestione:
libertà di movimento e di rotazione degli incarichi per tutti,
capacità di controllo da parte dei produttori in virtù di una
conoscenza che da individuale si è fatta collettiva, gestione
dell’intera serie dei processi produttivi attraverso una conoscenza
integrale fattasi equilibrio fra scienza e lavoro, teoria e prassi,
idea e azione.
L’organizzazione policentrica e federalista di ogni nucleo
produttivo, sotto il governo di tutti quelli che la compongono, è
l’obiettivo del tutto logico e naturale della visione proudhoniana
della rivoluzione economica, che si contrappone in modo frontale
alla rivoluzione politica. Questa rivoluzione non può coinvolgere
solo la classe operaia, ma deve investire più classi, ceti, gruppi,
individui, posti sotto il segno dello sfruttamento e
dell’oppressione, e tutti aggregati attorno a un progetto di
trasformazione dal basso delle strutture produttive e sociali.
L’associazione degli uguali
L’unione delle forze, da non confondere con l’associazione, come
mostreremo fra poco, è anch’essa, allo stesso titolo del lavoro e
dello scambio, produttrice di ricchezza. È una potenza economica di
cui io per primo, credo, ho fatto notare l’importanza, nella mia
prima tesi sulla proprietà. Cento uomini, che uniscono o combinano i
loro sforzi, producono, in certi casi, non cento volte come uno, ma
duecento volte, trecento volte, mille volte. A ciò ho dato il nome
di forza collettiva.
Da questo fatto ho anche tratto un argomento, rimasto come tanti
altri senza risposta, contro un certo tipo di appropriazione: perché
non basta più allora pagare semplicemente il salario a un dato
numero di operai per acquistare legittimamente il loro prodotto, ma
bisognerebbe pagare questo salario due, tre, dieci volte di più,
oppure render a ciascuno di essi, di volta in volta, un servizio
analogo.
La forza collettiva: ecco dunque un altro principio che, pur nella
sua nudità metafisica, è però produttore di ricchezza. Lo si trova
ugualmente applicato in tutti quei casi in cui il lavoro
individuale, per quante volte lo si ripeta, è destinato a rimanere
importante. Eppure, non esiste una legge che prescriva tale
applicazione. Anzi, c’è da osservare che gli utopisti societari non
ne hanno mai fatto un loro cavallo di battaglia. La verità è che la
forza collettiva è un atto impersonale, mentre l’associazione è un
impegno volontario; tra l’una e l’altra ci può essere un punto di
incontro, ma non identità.
Supponiamo ancora, come nell’esempio precedente, che la società che
lavora sia composta solo di operai isolati che non sanno né
combinare né cumulare i loro strumenti: l’industriale che
improvvisamente svelasse questo segreto farebbe da solo per il
progresso delle ricchezze più di quanto non abbiano fatto il vapore
e le macchine, poiché l’impiego stesso delle macchine e del lavoro
non sarebbe possibile senza di lui. Costui sarebbe uno dei più
grandi benefattori dell’umanità, un rivoluzionario veramente fuori
dell’ordinario.
Sorvolo su altri fatti dello stesso genere, che pure potrei citare,
come la concorrenza, la divisione del lavoro, la proprietà, ecc., e
che insieme costituiscono ciò che io definisco forze economiche,
principi produttori di realtà. Una descrizione più dettagliata di
tali forze si può trovare nelle opere degli economisti, i quali,
proprio con il loro assurdo disdegno della metafisica, hanno
dimostrato, senza volerlo, per mezzo della teoria delle forze
industriali, il dogma fondamentale della teoria cristiana, la
creazione de nihilo.
Si tratta adesso di sapere se l’associazione è una di quelle forze
essenzialmente immateriali, le quali, agendo, diventano produttrici
di effetti utili e fonti di benessere; perché è evidente che
soltanto a questa condizione il principio societario – e non faccio
qui distinzioni tra una scuola e l’altra – può presentarsi come
soluzione del problema del proletariato.
L’associazione, in una parola, è una potenza economica? È da
vent’anni ormai che viene raccomandata, che se ne aspettano gli
effetti miracolosi. Com’è possibile che nessuno riesca a dimostrarne
l’efficacia? l’efficacia dell’associazione sarebbe, per caso, più
difficile da dimostrare di quella del commercio, del credito o della
divisione del lavoro?
Per quanto mi riguarda, la mia risposta è categorica: no,
l’associazione non è una forza economica. L’associazione è sterile
per natura, perfino nociva, perché è un impedimento alla libertà del
lavoratore. Gli autori responsabili delle utopie fraternali, da cui
tanta gente si lascia ancora sedurre, hanno attribuito senza
ragione, senza prove, al contratto di associazione una virtù e una
efficacia proprie soltanto alla forza collettiva, alla divisione del
lavoro o allo scambio. Il pubblico non si è accorto della
confusione: di qui la costituzione di associazioni affidate al caso,
i loro destini così diversi e le incertezze dell’opinione.
Quando un’associazione, industriale o commerciale, ha per scopo di
mettere in opera una delle grandi forze economiche, oppure di
sfruttare un fondo la cui natura esige che resti indiviso, un
monopolio, una clientela, l’associazione formata a tale scopo può
prosperare; ma tale risultato essa non lo raggiunge in virtù del suo
principio, essa lo deve ai suoi mezzi. Il che del resto è dimostrato
dal fatto che tutte le volte che lo stesso risultato può essere
ottenuto senza associazione, si preferisce non associarsi.
L’associazione è un vincolo per natura contrario alla libertà; e noi
acconsentiamo a sottometterci a esso soltanto alla condizione di
ricevere una indennità sufficiente. Sicché è possibile contrapporre
a tutti gli utopisti societari la seguente regola pratica: l’uomo si
associa sempre suo malgrado e perché non può fare diversamente.
Bisogna distinguere dunque tra il principio di associazione e i
mezzi, variabili all’infinito, di cui una società, per effetto di
circostanze esterne estranee alla sua natura, dispone, e tra i quali
colloco al primo posto le forze economiche. Il principio è qualcosa
che, in assenza di altri motivi, non incoraggerebbe nessuno a
imbarcarsi in una qualunque impresa; i mezzi sono ciò per cui alla
fine, nella speranza di ottenere un certo utile, ci si rassegna a
sacrificare l’indipendenza. Esaminiamo, in effetti, questo
principio; ritorneremo dopo sui mezzi.
Chi dice associazione dice necessariamente solidarietà,
responsabilità comune, fusione, nei confronti di terzi, dei diritti
e dei doveri. Proprio così l’intendono tutte le società fondate sul
principio fraternale e su quello dell’armonia, anche se parlano poi
di concorrenza emulativa.
Nell’associazione, chi fa ciò che può fa ciò che deve: solo per il
socio debole o pigro, e per lui soltanto, si può dire che
l’associazione produca profitto. Di qui l’uguaglianza dei salari,
legge suprema dell’associazione.
Nell’associazione, tutti rispondono di tutti: il più piccolo vale
quanto il più grande; l’ultimo arrivato ha gli stessi diritti del
più anziano. L’associazione cancella tutte le colpe, livella tutte
le disuguaglianze: di qui la solidarietà della cialtroneria e
dell’incapacità.
La formula dell’associazione è dunque questa, ed è Louis Blanc che
ce l’ha data:
Da ognuno secondo le sue capacità, A ognuno secondo i suoi bisogni.
Il codice, nelle sue diverse definizioni della società civile e
commerciale, è d’accordo con l’oratore del Luxembourg: qualsiasi
allontanamento da tale principio costituisce un ritorno
all’individualismo.
Così spiegata da socialisti e giuristi, può l’associazione
generalizzarsi, diventare la legge universale e superiore, il
diritto pubblico e civile di tutta una nazione, dell’intera umanità?
Questa è la domanda posta dalle varie scuole societarie, le quali,
pur variando la loro regolamentazione, si pronunciano tutte,
all’unanimità, in modo affermativo.
Invece a questo io rispondo: no, il contratto di associazione, quale
che sia la sua forma, non può mai diventare la legge universale,
perché essendo per natura improduttivo e fastidioso, applicabile
soltanto in casi del tutto speciali, e crescendo i suoi
inconvenienti molto più in fretta dei suoi vantaggi, esso è al tempo
stesso contrario sia all’economia del lavoro, sia alla libertà del
lavoratore. Donde arrivo alla conclusione che una società del genere
non potrà mai abbracciare né tutti gli operai di una stessa
industria, né tutte le corporazioni industriali, né a maggior
ragione una nazione di 36 milioni di uomini; e perciò il principio
societario non contiene la soluzione richiesta.
Aggiungo che l’associazione non solo non è una forza economica, ma
che è applicabile soltanto in casi speciali, che dipendono dai mezzi
a disposizione. È facile rendersi conto oggi, con i fatti, di questa
seconda affermazione e quindi determinare il ruolo dell’associazione
nel XIX secolo.
Il carattere fondamentale dell’associazione, l’abbiamo detto, è la
solidarietà. Ora, quale ragione può spingere gli operai a farsi
solidali gli uni con gli altri, ad alienare la loro indipendenza, a
sottomettersi alla legge assoluta di un contratto e, quel che è
peggio, di un gestore?
La ragione può essere molto diversa, ma sempre obiettiva, esterna
alla società.
Ci si associa, talvolta per conservare una clientela, messa insieme
originariamente dall’opera di un unico imprenditore, ma che gli
eredi separandosi rischierebbero di disperdere; talvolta per
sfruttare in comune una industria, un brevetto, un privilegio, ecc.,
che non è possibile far valere altrimenti, o che renderebbe di meno
a ognuno di essi se entrassero in concorrenza; talvolta per
l’impossibilità di ottenere altrimenti il capitale necessario;
talvolta infine per livellare e ripartire i rischi di perdite
causate da naufragio, incendio, servizi ripugnanti e penosi, ecc.
Andate fino in fondo e scoprirete che, se una qualunque società
prospera, essa lo deve a una causa obiettiva, estranea, che non
dipende affatto dalla sua essenza e senza la quale, lo ripeto, tale
società, per quanto sapientemente organizzata, non vivrebbe.
Infatti, nel primo dei casi che abbiamo appena segnalato, la società
ha lo scopo di sfruttare una vecchia reputazione, che da sola
procura la maggior parte dei profitti; nel secondo, essa si fonda su
un monopolio, cioè su quanto di più esclusivo e antisociale possa
esserci; nel terzo, la società in accomandita, quello che la società
mette in atto è una forza economica, sia la forza collettiva, sia la
divisione del lavoro; nel quarto, la società si confonde con
l’assicurazione: è un contratto aleatorio, inventato appunto per
supplire all’assenza o all’inerzia della fratellanza.
È evidente che in nessuno di questi casi la società sussiste in
virtù del suo principio; essa dipende dai mezzi che ha, cioè da una
causa esterna. Ora, quello che ci è stato promesso, e di cui abbiamo
bisogno, è invece un principio primo, vivificante, efficace.
Ci si associa ancora per l’economia di consumo, al fine di evitare
il danno delle compere al minuto. Questo è il mezzo che si consiglia
ai nuclei familiari modesti, a chi non dispone di risorse
sufficienti per comprare all’ingrosso. Ma questo tipo di
associazione, che poi è quella dei compratori di carne all’asta,
testimonia contro il principio. Consentite a ogni produttore di
commerciare all’ingrosso, o, che poi è lo stesso, organizzate il
commercio al minuto in modo tale che, per quanto riguarda i prezzi,
offra gli stessi vantaggi della vendita all’ingrosso, e
l’associazione diventa inutile. D’altronde, le persone agiate non
hanno bisogno di entrare in questi gruppi: vi troverebbero più
fastidi che vantaggi.
E si noti ancora che in ogni società così costituita su una base
positiva, la solidarietà del contratto non si estende mai al di là
dello stretto necessario. Gli associati rispondono l’uno dell’altro
di fronte a terzi e di fronte alla giustizia, certo, ma soltanto per
quel che riguarda gli affari della società; al di fuori, cessa la
solidarietà. In seguito a questa norma diverse associazioni operaie
di Parigi, che prima avevano voluto, per eccesso di dedizione,
superare le regole abituali e costituirsi secondo il principio
dell’uguaglianza dei salari, sono state costrette a desistere.
Dappertutto oggi i soci lavorano a cottimo, di modo che là dove la
quota sociale consiste soprattutto in lavoro, nel senso che ogni
socio viene remunerato, in salario e profitto, proporzionalmente al
suo prodotto, la società operaia non è altro che la contropartita
della società in accomandita; cioè una società in accomandita in cui
il fondo iniziale, anziché consistere in denaro, è fatto di lavoro,
il che poi è la negazione della fratellanza stessa. In ogni
associazione, insomma, i soci, cercando attraverso l’unione delle
forze e dei capitali dei vantaggi che non potrebbero ottenere
altrimenti, si danno da fare per ricevere la minore solidarietà e la
maggiore indipendenza possibili. Chiaro? Non è forse il caso di
esclamare, come san Tommaso, «conclusum est adversus manichaeos»?
Sì, l’associazione formata specificamente in vista del legame di
famiglia e della legge della dedizione, al di là di ogni
considerazione economica esterna, di ogni interesse preponderante,
l’associazione fine a se stessa, insomma, è un atto di pura
religione, un vincolo soprannaturale senza valore positivo, un mito.
È quello che colpisce di più quando si passa all’esame delle diverse
teorie dell’associazione proposte all’accettazione degli adepti.
Fourier, per esempio, e dopo di lui Pierre Leroux, danno per certo
che se i lavoratori si raggruppano secondo determinate affinità
organiche e mentali, delle quali forniscono le caratteristiche,
soltanto per questo fatto essi possono far aumentare le loro energie
e le loro capacità; che lo slancio del lavoratore, ordinariamente
tanto penoso, può diventare allegro e gioioso; che il prodotto,
tanto quello individuale che quello collettivo, può aumentare di
molto; che in questo consiste la virtù produttrice
dell’associazione, che potrebbe quindi essere considerata una forza
economica. Il lavoro piacevole è la formula convenzionale per
designare questo meraviglioso risultato dell’associazione. Come si
vede, è una cosa ben diversa dalla dedizione alla quale si fermano
così pietosamente le teorie di Louis Blanc e di Cabet.
Oserei dire che i due eminenti socialisti, Fourier e Pierre Le-
roux, hanno scambiato i loro simboli con la realtà. Innanzi tutto,
nessuno ha mai visto in azione da nessuna parte questa forza
societaria, questa specie di analogo della forza collettiva e della
divisione del lavoro; gli inventori stessi, e i loro discepoli che
tanto ne hanno parlato, ancora non hanno fatto la loro prima
esperienza. D’altra parte, la più superficiale conoscenza dei
principi dell’economia politica e della psicologia basta a far
comprendere che non può esserci nulla in comune tra un eccitamento
dell’anima, quali la gaiezza del lavoro artigianale, il canto di
manovra dei vogatori, ecc., e una forza industriale. Anzi, tali
manifestazioni spesso sono contrarie alla gravità, alla
concentrazione taciturna propria del lavoro. Il lavoro è, insieme
con l’amore, la funzione più segreta, più sacra dell’uomo: si
irrobustisce con la solitudine, si decompone con la prostituzione.
Ma a prescindere da queste considerazioni psicologiche e
dall’assenza di qualsiasi dato sperimentale, chi può non accorgersi
che quello che i due autori hanno creduto di scoprire dopo tante
profonde ricerche, l’uno nella Serie di gruppi contrastati, l’altro
nella Triade, altro non è che l’espressione mistica e apocalittica
di ciò che da sempre è esistito nella pratica industriale, ovvero la
divisione del lavoro, la forza collettiva, la concorrenza, lo
scambio, il credito, la proprietà stessa e la libertà? chi non si
accorge che degli utopisti antichi e moderni si può dire la stessa
cosa dei teologi di tutte le religioni? Mentre questi ultimi, nei
loro misteri, non facevano altro che descrivere le leggi della
filosofia e del progresso umanitario, quelli, nelle loro tesi
filantropiche, sognano senza saperlo le grandi leggi dell’economia
sociale. Ora, queste leggi, le potenze della produzione che devono
salvare l’uomo dalla povertà e dal vizio, sono più o meno quelle che
ho citato prima. Ecco le vere forze economiche, principi immateriali
di ogni ricchezza che, senza incatenare l’uomo all’uomo, lasciano al
produttore la libertà più completa, alleviano il lavoro, lo
appassionano, raddoppiano il suo prodotto, creano tra gli uomini una
solidarietà che non ha nulla di personale, e li uniscono con dei
legami più forti di tutte le combinazioni simpatiche e di tutti i
contratti.
I miracoli annunciati dai due profeti sono noti da secoli. Di quella
grazia efficace prefigurata dall’organizzazione della serie, di quel
dono del divino amore promesso dal discepolo di Saint-Simon ai suoi
ternari, possiamo osservarne l’influenza, per quanto corrotta sia,
per quanto anarchica ce l’abbiano trasmessa i rivoluzionari
dell’89-93, possiamo seguirne l’oscillazione in Borsa e sui nostri
mercati. Si risveglino una buona volta gli utopisti dalle loro
estasi sentimentali, si degnino di gettare uno sguardo su ciò che
accade intorno a loro; leggano, ascoltino, facciano delle
esperienze: si accorgeranno allora che quello che essi attribuiscono
con tanto entusiasmo, l’uno alla serie, l’altro alla trinità, un
altro ancora alla dedizione, non è altro che il prodotto delle forze
economiche analizzate da Adam Smith e dai suoi successori.
Dato che mi sono impegnato in questa discussione soprattutto
nell’interesse della classe lavoratrice, prima di finire vorrei dire
ancora qualcosa sulle associazioni operaie, i risultati da esse
ottenuti, il ruolo che devono svolgere nella rivoluzione. Queste
società sono state formate, in maggioranza, da uomini imbevuti di
teorie fraternali e convinti, pur senza rendersene conto,
dell’efficacia economica del principio. In generale, sono state
accolte con simpatia; hanno goduto il favore dei repubblicani che,
fin dall’inizio, hanno procurato loro la necessaria clientela di
partenza; non è mancata loro neppure la pubblicità sui giornali:
tutti elementi di successo di cui non si è tenuto abbastanza conto,
ma perfettamente estranei al principio.
Attualmente, come vanno concretamente le cose? Un buon numero di
queste società riescono a stare in piedi e promettono di svilupparsi
ancora: si sa il perché. Alcune sono composte degli operai più abili
del settore; cioè si reggono sul monopolio delle capacità. Altre
hanno attirato e conservano la clientela mantenendo bassi i prezzi;
è la concorrenza che le fa vivere.
Non parlo di quelle che hanno ottenuto commesse e crediti dallo
Stato: incoraggiamento puramente gratuito.
Generalmente, infine, in queste associazioni gli operai, per
sbarazzarsi di tutti gli intermediari, commissionari, imprenditori,
capitalisti, ecc., che secondo la logica del vecchio stato di cose
si interpongono tra il produttore e il consumatore, hanno dovuto
lavorare un po’ di più e accontentarsi di un salario minimo. Tutte
cose abbastanza ordinarie nel campo dell’economia politica, per
ottenere le quali, come dicevo prima, non è affatto necessaria
l’associazione.
Senza dubbio, i membri di queste associazioni, nei rapporti
reciproci e in quelli con il pubblico, sono animati dai più fraterni
sentimenti. Ma sono sicuri che questa fratellanza, ben lontana
dall’essere la causa dei loro successi, non abbia al contrario la
sua origine nella giustizia severa che regna nei loro reciproci
rapporti? si rendono conto di quello che potrebbe accadere se la
garanzia della loro impresa non risiedesse in qualcosa di ben
diverso dalla carità che li anima, e che non è altro che il cemento
dell’edificio del quale il lavoro e le forze che lo moltiplicano
sono le pietre?
Quanto alle società che per sostenersi hanno semplicemente la virtù
problematica dell’associazione, e la cui attività può esercitarsi in
esclusiva, senza riunione di operai, esse stentano moltissimo ad
andare avanti e riescono a scongiurare il vuoto della loro
costituzione solo grazie agli sforzi di dedizione, ai continui
sacrifici, a un illimitato spirito di rassegnazione.
Si citano, come esempio di un rapido successo, le associazioni per
la macelleria, che oggi vanno tanto di moda. Questo esempio, meglio
di ogni altro, mostra fin dove arriva la disattenzione del pubblico
e l’erroneità delle idee.
Le macellerie cosiddette societarie di societario hanno soltanto
l’insegna; si tratta della concorrenza organizzata in comune da
cittadini di ogni ceto contro il monopolio dei macellai. Non è altro
che l’applicazione di un nuovo principio, per non dire di una nuova
forza economica, la reciprocità, che consiste nel fatto che quelli
che partecipano allo scambio si garantiscono a vicenda, e
irrevocabilmente, i loro prodotti a prezzo di costo.
Ora, questo principio sul quale si basano essenzialmente le
cosiddette macellerie societarie ha così poco a che fare con
l’associazione che in molte di queste macellerie il servizio è
assicurato da operai salariati, comandati da un direttore, il quale
rappresenta gli accomandanti. Per svolgere questa funzione bastava
un macellaio qualsiasi estratto a sorte dalla coalizione, senza
bisogno di aggiungere spese di nuovo personale e attrezzature.
Il principio di reciprocità sul quale si fondano le macellerie e le
drogherie societarie tende ora a sostituirsi, come elemento
organico, a quello della fratellanza nelle associazioni operaie.
Ecco il resoconto della «République» del 20 aprile 1851 su una nuova
società formata da lavoratori delle sartorie:
Ecco degli operai che mettono in discussione questa sentenza della
vecchia economia: senza capitali, niente lavoro, la quale, se avesse
un valido fondamento, condannerebbe a una servitù, a una miseria
disperata e senza fine, l’innumerevole classe dei lavoratori che,
assolutamente sprovvista di capitali, è costretta a vivere alla
giornata. Rifiutandosi di accettare questa desolante conclusione
della scienza ufficiale, e interrogando le leggi razionali della
produzione delle ricchezze e del consumo, questi operai hanno
scoperto che il capitale, normalmente considerato come l’elemento
generatore del lavoro, in realtà ha solo una utilità convenzionale;
che i soli veri agenti della produzione sono l’intelligenza e le
braccia dell’uomo, e che quindi è possibile organizzare la
produzione, assicurare la circolazione dei prodotti e il loro
normale consumo, attraverso la semplice comunicazione diretta dei
produttori e dei consumatori, chiamati, dopo la soppressione di un
intermediario oneroso e l’instaurazione di rapporti nuovi, a
raccogliere quei profitti che vanno attualmente a ingrossare il
capitale, questo sovrano dominatore del lavoro, della vita e dei
bisogni di tutti.
Secondo questa teoria l’emancipazione dei lavoratori è dunque
possibile con la riunione in fascio delle forze individuali e dei
bisogni; in altri termini, con l’associazione dei produttori e dei
consumatori, che, non avendo più interessi contrapposti, sfuggono
irrimediabilmente al dominio del capitale.
In realtà, siccome i bisogni del consumo sono permanenti, se
produttori e consumatori entrano in relazione direttamente, se si
associano, se si fanno credito, è chiaro che il rialzo o il ribasso,
l’aumento artificioso o il deprezzamento arbitrario, che la
speculazione fa subire al lavoro e alla produzione, non hanno più
ragion d’essere.
Questo è l’ideale della reciprocità e quanto i suoi fondatori hanno
già realizzato, nei limiti della loro esperienza, con la creazione
di buoni detti di consumo, scambiabili in qualsiasi momento con
prodotti dell’associazione. Così, finanziata da quelli che la fanno
lavorare, l’associazione consegna i suoi prodotti a prezzo di costo,
prelevando per la remunerazione del suo lavoro soltanto il prezzo
medio della manodopera. Questa è la soluzione razionale che i soci
fondatori hanno voluto dare a tutte le grandi questioni di economia
sollevate in questi ultimi tempi e particolarmente alle seguenti:
Abolizione di qualunque forma di sfruttamento;
Annientamento graduale e pacifico dell’azione del capitale;
creazione del credito gratuito;
Garanzia ed equa retribuzione del lavoro; emancipazione del
proletariato.
L’associazione dei sarti è la prima che sia stata fondata
ufficialmente e per così dire scientificamente su una forza
economica rimasta fino a oggi oscura e inapplicata nella routine
commerciale. Ora, è evidente che l’impiego di questa forza non
costituisce affatto un contratto di associazione, ma tutt’al più un
contratto di scambio, nel quale la prestazione corrispettiva o il
rapporto di reciprocità tra il commerciante e la clientela, se non è
formalmente espresso, è almeno sottinteso. E quando l’autore
dell’articolo, un vecchio comunista, usa la parola associazione per
designare i rapporti nuovi che la reciprocità si propone di
sviluppare tra i produttori e i consumatori, è evidente che egli fa
qualche concessione a vecchie preoccupazioni mentali, oppure si
lascia prender la mano dall’abitudine.
Perciò, pur riconoscendo ai fondatori della reciprocità il merito di
aver applicato questo grande principio, il collaboratore della
«République» avrebbe dovuto ricordare loro certe nozioni elementari
della loro stessa teoria; e cioè che l’obbligo, essenzialmente
commutativo e bilaterale da parte del produttore rispetto al
consumatore, di consegnare i propri prodotti a prezzo di costo, e
che costituisce la nuova potenza economica, non sarebbe più
sufficiente a motivare un’associazione di lavoratori se la legge
della reciprocità fosse universalmente adottata e praticata; che una
società formata su questa unica base, per sostenersi ha bisogno del
vantaggio che le deriva dal mancato riconoscimento da parte della
maggioranza; e che il giorno in cui, con il consenso di tutti i
cittadini, la reciprocità diventasse una legge dell’economia
sociale, e un qualunque non associato potesse offrire al pubblico
gli stessi vantaggi della società, anzi vantaggi ancora maggiori
dato che non avrebbe spese generali da sostenere, la società non
avrebbe più alcun motivo di esistere.
Un’altra associazione del genere, il cui meccanismo si avvicina
maggiormente alla formula elementare della reciprocità, è la
Massaia, della quale lo stesso giornale, la «République», ha parlato
nel numero dell’8 maggio. Essa ha lo scopo di fornire ai
consumatori, a prezzi ridotti, con garanzie di qualità e senza frode
alcuna, tutti gli oggetti di consumo. Per farne parte basta versare
la somma di 5 franchi, a titolo di capitale sociale, più 50
centesimi per le spese generali di amministrazione. I soci, si noti
bene, non accettano incarichi, né assumono impegni, ma hanno
soltanto l’obbligo di pagare gli oggetti che su ordinazione vengono
loro forniti a domicilio. Solo l’agente generale è responsabile.
Il principio è sempre lo stesso. Nelle macellerie societarie, la
garanzia del basso prezzo, della qualità e del peso è ottenuta
tramite una società in accomandita, da cui risulta la fondazione di
una macelleria speciale, diretta ad hoc da un agente apposito,
facente funzione di padrone e imprenditore. Nella Massaia, un
imprenditore generale, rappresentante di tutti i possibili generi
commerciali, si incarica, sfruttando 5 franchi di sottoscrizione e
50 centesimi per le spese, di fornire tutti gli oggetti di consumo.
Nel caso dei sarti, c’è in più il meccanismo del buono di consumo,
abbastanza importante, ma allo stato attuale delle cose non si può
dire che li avvantaggi di molto. Supponiamo che tutti i
commercianti, fabbricanti e industriali della capitale assumano
rispetto al pubblico, e tra di loro, un impegno simile a quello che
le macellerie societarie, il fondatore della Massaia, i sarti della
reciprocità assumono nei confronti dei loro clienti: l’associazione
sarebbe allora universale. Ma è anche chiaro che un’associazione del
genere non sarebbe più un’associazione. Si modificherebbero i
costumi commerciali, ecco tutto; la reciprocità diventerebbe una
legge, e tutti sarebbero liberi, esattamente come prima.
Benché io sia lontano dal pretendere che l’associazione debba
scomparire per sempre dal sistema delle transazioni umane, e
riconosca anzi che in alcuni casi essa è indispensabile, posso
constatare, senza paura di sbagliarmi, che il principio societario
si autodistrugge giorno dopo giorno con la sua stessa pratica; e
mentre appena tre anni fa gli operai propendevano tutti per
l’associazione fraternale, oggi convergono verso un sistema di
garanzie che, una volta realizzate, renderà in una miriade di casi
superflua l’associazione, mentre, si noti bene, in altri casi la
renderà necessaria. In fondo, le associazioni esistenti, con il
formare una massa ineluttabile di produttori e di consumatori
direttamente in rapporto tra di loro, non possono far altro che
portare a quel risultato.
Se poi l’associazione non è affatto una forza produttiva, se al
contrario essa è un peso del quale il lavoro tende naturalmente a
liberarsi, è chiaro che l’associazione non può più essere
considerata come una legge organica; ben lontana dall’assicurare
l’equilibrio, essa tende piuttosto a distruggere l’armonia,
imponendo a tutti, al posto della giustizia, al posto della
responsabilità individuale, la solidarietà. E allora essa non può
più sussistere dal punto di vista del diritto e come elemento
scientifico, bensì come sentimento, come precetto mistico, divino.
Perciò i promotori a oltranza dell’associazione, sentendo quanto il
loro principio sia sterile, contrario alla libertà, e di conseguenza
quanto poco possa essere accettato come formula sovrana della
rivoluzione, fanno gli sforzi più incredibili per mantenere il fuoco
fatuo della fratellanza. Louis Blanc ha rivoltato perfino la parola
d’ordine repubblicana, come se avesse voluto rivoluzionare la
rivoluzione. Non dice più come tutti, e secondo la tradizione,
Libertà, Uguaglianza, Fratellanza, ma dice: Uguaglianza,
Fratellanza, Libertà! Oggi noi partiamo dall’uguaglianza, è
l’uguaglianza che dobbiamo prendere come primo termine, ed è su di
essa che dobbiamo costruire l’edificio nuovo della rivoluzione.
Quanto alla libertà, essa si dedurrà dalla fratellanza. Louis Blanc
la promette dopo l’associazione, come i preti promettono il paradiso
dopo la morte.
Lascio immaginare che cosa può essere un socialismo che si diverte
tanto a trasporre le parole.
L’uguaglianza! Avevo sempre creduto che essa fosse il frutto
naturale della libertà, la quale almeno non ha bisogno né di teoria
né di costrizione. Avevo creduto, dico, che spettasse
all’organizzazione delle forze economiche, alla divisione del
lavoro, alla concorrenza, al credito, alla reciprocità, e
soprattutto all’educazione, far nascere l’uguaglianza. Louis Blanc
ha cambiato tutto. Nuovo Sganarello, egli mette l’uguaglianza a
sinistra, la libertà a destra, la fratellanza in mezzo, come Gesù
Cristo tra il buono e il cattivo ladrone. Noi cessiamo di essere
liberi così come ci fa la natura, per divenire in primo luogo
uguali: cioè, quello che dovrebbe essere il risultato del lavoro,
qui si realizza con un colpo di Stato; dopo di che, ridiventeremo
più o meno liberi, come e quanto converrà al governo.
Da ognuno secondo le sue capacità, A ognuno secondo i suoi bisogni.
Così vuole l’uguaglianza secondo Louis Blanc.
Bisogna compiangere le persone la cui capacità rivoluzionaria si
riduce, se così posso dire, a questa casistica! Il fatto, però, che
appartengano al regno degli innocenti non ci deve impedire di
confutarli.
Ricordiamo ancora una volta il principio. L’associazione, così come
la definisce Louis Blanc, è un contratto che, totalmente o
parzialmente (Società universali e società particolari, Codice
civile, art. 1835), mette allo stesso livello i contraenti,
subordina le loro libertà al dovere sociale, li spersonalizza, li
tratta quasi come Humann trattava i contribuenti quando poneva
l’assioma: far rendere all’imposta tutto quello che essa può
rendere! Quanto può produrre l’uomo? quanto si spende per nutrirlo?
Questa è la domanda suprema che risulta dalla formula – come potrei
dire? – declinatoria Da ognuno... A ognuno... con la quale Louis
Blanc riassume i diritti e i doveri del socio.
Chi, dunque, valuterà le capacità? chi deciderà i bisogni?
Voi dite che la mia capacità è 100; io invece sostengo che è solo
90. Voi aggiungete che il mio bisogno è 90; e io affermo che è 100.
Tra me e voi c’è una differenza di 20, sia sul bisogno sia sulla
capacità. Si tratta, in altri termini, del dibattito famoso che si
svolge tra l’offerta e la domanda. Chi giudicherà tra me e la
società?
Se la società vuol far prevalere, nonostante la mia protesta, il suo
parere, io la lascio, punto e basta. La società finisce per mancanza
di soci.
Se, con il ricorso alla forza, essa pretende di costringermi, se mi
impone il sacrificio e la dedizione, io le dico: ipocrita! mi avete
promesso di liberarmi dallo sfruttamento del capitale e del potere,
ed ecco che nel nome dell’uguaglianza e della fratellanza siete voi
a sfruttarmi. Anche prima, per derubarmi, si esaltava al massimo la
mia capacità, e viceversa si attenuavano i miei bisogni. Mi si
diceva che i prodotti mi costavano così poco! che per vivere mi
bastavano pochissime cose! Voi agite allo stesso modo. Che
differenza c’è allora tra la fratellanza e la condizione del
salariato?
Delle due l’una: o l’associazione sarà obbligatoria, forzata, e
allora è come la schiavitù; oppure sarà libera, e allora ci si
chiede: quale garanzia avrà la società che il socio lavori secondo
la sua capacità, quale garanzia avrà il socio che l’associazione lo
remuneri secondo i suoi bisogni? non è evidente che un dibattito del
genere non può che avere una sola soluzione? E questa è che il
prodotto e i bisogni si adeguino reciprocamente: il che ci riporta
puramente e semplicemente al regime della libertà.
Si rifletta dunque. L’associazione non è una forza economica: è
esclusivamente un legame di coscienza, obbligatorio di fronte al
tribunale interiore, ma privo di effetto, o piuttosto nocivo,
rispetto al lavoro e alla ricchezza. E questo io non lo provo con
l’aiuto di un’argomentazione più o meno abile: è il risultato della
pratica industriale fin da quando esiste la società. La posterità
non comprenderà come sia stato possibile che, in un secolo
innovatore, degli scrittori ritenuti all’avanguardia per quanto
riguarda la comprensione dei fatti sociali abbiano fatto tanto
chiasso intorno a un principio del tutto soggettivo, e per di più
già esplorato da tutte le parti e da tutte le generazioni del globo.
Su una popolazione di 36 milioni di uomini, ce ne sono 24 milioni
almeno occupati in agricoltura. Questi, non li assocerete mai. A che
pro? Il lavoro dei campi non ha bisogno della coreografia
societaria, verso la quale il contadino prova una certa ripugnanza.
Il contadino, è bene ricordarselo, ha applaudito alla repressione
del giugno 1848, perché in tale repressione egli ha visto un atto di
libertà contro il comunismo.
Dei 12 milioni di cittadini rimanenti, 6 almeno – fabbricanti,
artigiani, impiegati, funzionari, per i quali l’associazione non
rappresenta nessuno scopo, nessun profitto o attrattiva –
preferiranno sempre rimanere liberi. Ci sono dunque 6 milioni di
persone, che compongono in buona parte la classe salariata, le
quali, spinte dalla loro attuale condizione, potrebbero accettare di
far parte delle società operaie senza pensarci due volte e in buona
fede. A questi 6 milioni di persone, padri, madri, fanciulli e
vecchi, mi permetto di dire in anticipo che non tarderebbero a
liberarsi dal loro giogo volontario se la rivoluzione non desse loro
dei motivi per associarsi più seri, più reali di quelli che essi
credono di scorgere nel principio, e del quale io ho mostrato la
nullità.
Certo, l’associazione ha una sua funzione nell’economia dei popoli;
sì, le società operaie, come protesta contro la condizione
salariale, come affermazione della reciprocità, e già per questi due
motivi così cariche di speranza, sono chiamate a svolgere un ruolo
considerevole nel nostro prossimo futuro. Questo ruolo consisterà
soprattutto nella gestione dei grandi strumenti del lavoro e
nell’esecuzione di certe opere che, per il fatto di richiedere al
tempo stesso una grande divisione delle funzioni e una grande forza
collettiva, sarebbero dei veri e propri vivai del proletariato se
non si applicasse l’associazione, o, per meglio dire, la
partecipazione. Per esempio, opere come la costruzione delle
ferrovie.
Ma l’associazione in quanto tale non risolve affatto il problema
rivoluzionario. Anzi, già di per sé rappresenta un problema la cui
soluzione implica che i soci non perdano nulla della loro
indipendenza e conservino tutti i vantaggi dell’unione: il che vuol
dire che la migliore delle associazioni è quella in cui, grazie a
una organizzazione superiore, ci sia il massimo di libertà e il
minimo di dedizione.
Perciò le società operaie, oggi quasi del tutto trasformate per
quanto riguarda i principi che le guidano, non devono essere
giudicate in base ai risultati più o meno felici che ottengono, ma
unicamente in base alla loro tendenza occulta, che è quella di
affermare e realizzare la repubblica sociale. Che gli operai lo
sappiano o l’ignorino, non è nei loro piccoli interessi di società
che risiede l’importanza della loro opera; essa è nella negazione
del regime capitalista, speculatore e governativo che abbiamo
ereditato dalla prima rivoluzione. Più tardi, quando la menzogna
politica, l’anarchia mercantile e la feudalità finanziaria saranno
state sconfitte, le società dei lavoratori dalle chincaglierie e dai
bilboquets dovranno passare ai grandi settori dell’industria, come è
loro naturale prerogativa.
Ma come diceva un grande rivoluzionario, san Paolo, bisogna che
l’errore faccia il suo corso: «Oportet haereses esse». C’è da temere
che non è ancora finita l’epoca delle utopie societarie.
L’associazione, per una certa classe di predicatori perdigiorno, per
molto tempo ancora sarà un pretesto di agitazione e un veicolo di
ciarlatanismo. Con le ambizioni che essa può far nascere, l’invidia
che si maschera dietro la sua pretesa dedizione, gli istinti di
dominio che risveglia, essa sarà per molto tempo ancora una di
quelle incresciose preoccupazioni che ritardano nel popolo la
comprensione della rivoluzione. Le stesse società operaie,
giustamente orgogliose dei loro primi successi, trasportate dalla
concorrenza che esse fanno ai vecchi padroni, inebriate dai segni
che già prefigurano la loro futura potenza, pronte come tutte le
società a battersi per il loro predominio, avide di potere,
difficilmente potranno astenersi da ogni tipo di esagerazione e
restare nei limiti della loro funzione. Potranno allora esserci
pretese esorbitanti, coalizioni gigantesche, irrazionali,
fluttuazioni disastrose, che un’approfondita conoscenza delle leggi
dell’economia sociale sarebbe stata invece in grado di prevenire.
A questo proposito, una grande responsabilità storica graverà su
Louis Blanc. Proprio lui, al Luxembourg, con il suo gioco di parole
Uguaglianza-Fratellanza-Libertà; con le sue incisioni mistiche Da
ognuno..., A ognuno..., ha incominciato quell’opposizione miserabile
dell’ideologia contro le idee e sollevato contro il socialismo il
senso comune. Si è creduto l’ape della rivoluzione, e invece non ne
era che la cicala. Possa alla fine, dopo aver avvelenato gli operai
con le sue formule assurde, portare alla causa del proletariato,
caduta un giorno per sbaglio nelle sue deboli mani, l’obolo della
sua astensione e del suo silenzio!
[Da Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, trad. it.
(estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon, La Pietra, Milano 1978,
pp. 136-150].
capitolo settimo
La critica di Proudhon alle teorie contrattualiste si svolge in
analogia alla critica dello Stato. Le teorie contrattualiste
affermano che il potere politico è stato generato contemporaneamente
alla società civile attraverso un contratto sociale sottoscritto
consensualmente da tutti gli individui. Proudhon osserva giustamente
come sia assurdo credere che il sociale, fenomeno spontaneo e
naturale, sia stato creato dal politico, dimensione artificiosa e
culturale. Vi è invece una società permanente, indistruttibile, che
sostiene tutte le forme ufficiali comunicando a loro una parte di
sé. La società reale è il «noumeno», la società ufficiale è il
«fenomeno», la prima è l’essenza, la seconda è lo Stato. Occorre
quindi pensare il politico attraverso il sociale, pur nella
consapevolezza della distinzione dei due piani. Questa critica
investe chiaramente la nozione rousseauiana del contratto sociale,
dove esso è appunto per Rousseau l’accordo politico, e per Proudhon
invece sinonimo di alienazione della libertà e di sottomissione
coatta. Il contratto rousseauiano si presenta ai suoi occhi quale
ipotesi troppo irreale perché non fa riferimento alle forze concrete
dell’esperienza sociale ed economica. Alla base del contratto
sociale di Rousseau, come di tutta la tradizione giacobina, vi è una
fondamentale ambiguità dovuta proprio all’indeterminatezza del ruolo
del potere, il quale, venendo concepito come indiviso perché nato
dal popolo, non può che risolversi in un puro dispotismo: tutto ciò
che la storia e l’immaginazione possono suggerire di estrema licenza
e di estrema servitù si deduce con facilità e rigore di logica dalla
teoria societaria di Rousseau.
La critica proudhoniana si estende comunque a tutte le forme
contrattualiste, da quella assolutistica a quella democratica,
perché tutte fondate sull’idea che gli uomini debbano cedere la loro
autonomia e delegare il loro potere al fine di costruire una
sovranità che, volenti o nolenti, dovranno poi rispettare. La teoria
della democrazia rappresentativa e del suffragio universale vengono
considerate da Proudhon sotto questa luce, e perciò valutate una
grande illusione mistificatoria. A suo giudizio è assurdo sperare
che la democrazia rappresentativa esprima le idee e gli interessi
generali. Un delegato, eletto al fine di conciliare le idee e i
problemi di tutti o almeno di una parte dei suoi mandanti,
rappresenterà sempre invece una sola idea e un solo interesse;
un’assemblea, per quanto voglia rappresentare la pluralità degli
elettori, non potrà alla fine che esprimere la sola opinione della
sua maggioranza. Così, dichiarando l’opinione di metà del parlamento
espressione della volontà popolare, si perverrà inevitabilmente a
una tirannia maggioritaria. La rivoluzione politica voluta dai
democratici non ha perciò come obiettivo quello di restituire al
popolo la sua sovranità per mezzo della distruzione dell’autorità,
ma al contrario quello di fare della democrazia una nuova autorità,
un nuovo potere più forte e più solido perché fondato questa volta
su un consenso popolare allargato ottenuto tramite una
mistificazione.
Il rifiuto della democrazia rappresentativa indica qual è
l’atteggiamento e il giudizio di Proudhon verso ogni forma di
rappresentanza e di delega, specialmente per quanto riguarda
l’emancipazione delle classi inferiori. Si può dire senz’altro che
la teoria proudhoniana della separazione fra società politica e
società economica, fra Stato e società, sta alla base del principio
fondamentale secondo il quale l’emancipazione dei lavoratori deve
essere opera dei lavoratori stessi.
Più estesamente, questa idea, che ha il suo fondamento nel concetto
di autonomia delle masse, afferma che l’emancipazione umana può
avvenire solo senza l’aiuto del governo e senza l’aiuto di qualsiasi
consorteria o fazione rivoluzionaria separata dal popolo.
Il nuovo contratto sociale
La forma sotto la quale i primi uomini hanno concepito l’ordine
nella società è la forma patriarcale o gerarchica, cioè, in teoria
l’autorità, in pratica il governo. La giustizia, che più tardi è
stata distinta in distributiva e commutativa, dapprima è apparsa
loro solo sotto il primo aspetto: un superiore che dà agli inferiori
ciò che a ognuno di essi spetta.
L’idea di governo nacque dunque dai costumi della famiglia e
dall’esperienza domestica: allora non ci fu alcuna protesta perché
alla società l’esistenza del governo pareva un fatto naturale come
il rapporto di subordinazione che nella famiglia si stabilisce tra
padre e figli. Sicché de Bonald ha potuto affermare, a ragione, che
la famiglia è l’embrione dello Stato, del quale riproduce le
categorie essenziali: il re nel padre, il ministro nella madre, il
suddito nel figlio. Anche per questo i socialisti della fratellanza,
che considerano la famiglia come un elemento della società, arrivano
tutti alla dittatura, la forma più esagerata di governo.
L’amministrazione di Cabet, nei suoi Stati di Nauvoo, ne è un
bell’esempio. Quanto tempo ancora ci occorrerà per comprendere
questa filiazione di idee?
La concezione primitiva dell’ordine che discende dal governo
appartiene a tutti i popoli. E se, fin dall’origine, gli sforzi che
sono stati compiuti per organizzare, limitare, modificare l’azione
del potere, per adeguarla ai bisogni generali e alle circostanze,
pure dimostrano che c’era una negazione implicita nell’affermazione,
è certo però che nessuna ipotesi antagonistica è stata espressa; lo
spirito è ovunque rimasto lo stesso. A mano a mano che le nazioni
sono uscite dallo stato selvaggio e dalla barbarie, hanno imboccato
immediatamente la strada del governo e seguito tutte lo stesso ciclo
istituzionale: sono passate, tanto per usare categorie ormai comuni
a tutti gli storici e ai pubblicisti, dalla monarchia,
all’aristocrazia, alla democrazia.
Ma c’è qualcosa di più grave ancora.
Il pregiudizio del governo è penetrato fin nel più profondo delle
coscienze, ha modellato la ragione a sua immagine e somiglianza,
tanto che qualsiasi concezione diversa si è resa per lungo tempo
impossibile; e i pensatori più audaci sono arrivati alla conclusione
che il governo era una calamità, senza dubbio, un castigo per
l’umanità, e però un male necessario!
Ecco perché, fino ai nostri giorni, le rivoluzioni più
emancipatrici, e tutti i fermenti di libertà, sono sbocciati
costantemente in un atto di fede e di sottomissione al potere; e
perché tutte le rivoluzioni non sono servite che a ripristinare la
tirannia: io qui non faccio eccezioni né per la costituzione del
1793 né per quella del 1848, che pure sono le due espressioni più
avanzate della democrazia francese. Ciò che ha mantenuto questa
predisposizione mentale e reso così a lungo invincibile l’incanto è
il fatto che, in seguito alla supposta analogia tra la società e la
famiglia, il governo si è sempre presentato come l’organo naturale
della giustizia, il protettore del debole, il preservatore della
pace. Considerato come un ente provvidenziale e altamente garante,
il governo è riuscito a radicarsi sia nei cuori sia nelle menti! Ha
partecipato dell’anima universale; è stato la fede, la superstizione
segreta, invincibile, dei cittadini. Se per caso si è mostrato
debole, di lui si è detto, come della religione e della proprietà:
non è l’istituzione che è cattiva, è l’abuso. Non è il re che è
cattivo, sono i suoi ministri. Ah! se venisse a saperlo il re!
Così al dato della gerarchia, dell’assolutismo, dell’autorità
governante, si è aggiunto un ideale intimo e in costante
contraddizione con l’istinto di uguaglianza e di indipendenza; e se
il popolo, a ogni rivoluzione, seguendo le ispirazioni del suo
cuore, ha creduto di correggere i vizi del suo governo, è stato
invece tradito dalle sue stesse idee: credendo di ripristinare il
potere a suo favore, in realtà se lo è ritrovato sempre contro;
invece che a un protettore, esso si è consegnato a un tiranno.
L’esperienza mostra, in realtà, che per quanto popolare possa essere
stata la sua origine il governo si è schierato sempre e ovunque
dalla parte della classe più colta e più ricca contro quella più
povera e più numerosa; che, dopo essersi mostrato per un po’ di
tempo liberale, a poco a poco è diventato governo d’eccezione,
esclusivo; che infine, invece di sostenere la libertà e
l’uguaglianza fra tutti, ha fatto di tutto per distruggerle, in
virtù della sua inclinazione naturale al privilegio.
Abbiamo mostrato, in un altro studio, come dal 1789 la Rivoluzione
non abbia fondato nulla; la società, secondo l’espressione di
Royer-Collard, sia stata ridotta in polvere; la distribuzione delle
fortune affidata al caso; e come, di conseguenza, il governo, che ha
la missione di proteggere sia le proprietà sia le persone, di fatto
sia stato istituito per i ricchi contro i poveri. Chi può negare
adesso che questa anomalia, che pure si è pensato fosse specifica
della costituzione politica del nostro Paese, è comune a tutti i
governi? Mai si è vista la proprietà dipendere esclusivamente dal
lavoro; in nessuna epoca il lavoro è stato garantito dall’equilibrio
delle forze economiche: da questo punto di vista, la civiltà del XIX
secolo non è più avanzata della barbarie delle prime ere.
L’autorità, difendendo i diritti di fatto stabiliti, proteggendo gli
interessi acquisiti, si è schierata sempre dalla parte della
ricchezza e contro la povertà: la storia dei governi è il
martirologio del proletariato.
Questa inevitabile defezione del potere dalla causa popolare
va analizzata soprattutto nel caso della democrazia, ultimo termine
dell’evoluzione del principio di governo.
Cosa fa il popolo quando, stanco dei suoi aristocratici, indignato
per la corruzione dei suoi principi, proclama la propria sovranità,
ovvero l’autorità dei propri suffragi?
Esso si dice: innanzi tutto, nella società ci vuole ordine. Custode
di questo ordine, che deve essere per noi la libertà e
l’uguaglianza, è il governo.
Ebbene, si controlli il governo; la costituzione e le leggi
diventino l’espressione della nostra volontà; si faccia in modo che
funzionari e magistrati, eletti da noi al nostro servizio e
revocabili in qualunque momento, non possano mai intraprendere
qualcosa di diverso da quello che la volontà del popolo avrà
stabilito. Si può allora essere sicuri, a condizione che la nostra
sorveglianza non si allenti mai, che il governo curerà i nostri
interessi, non servirà soltanto ai ricchi e non sarà più preda di
ambiziosi e intriganti; e le cose andranno avanti a nostro
piacimento e a nostro vantaggio.
Così ragiona la massa in tutte le epoche di oppressione.
Ragionamento semplice, di una logica elementarissima, e che riesce
sempre a produrre il suo risultato. Anche se questa massa, d’accordo
con Considérant e Rittinghausen, arrivasse ad affermare: i nostri
nemici sono quelli stessi che noi mandiamo al governo, quindi
governiamoci da noi e saremo liberi, la logica non cambierebbe. Se
non cambia il principio, cioè il governo, non può cambiare neppure
la conclusione.
Sono ormai mille anni che questa teoria risarcisce le classi
oppresse e gli oratori che le difendono. Il governo diretto non
risale né a Francoforte, né alla Convenzione, né a Rousseau: ha la
stessa età del governo indiretto, risale alla fondazione delle
società.
Niente monarchia ereditaria, Niente presidenza,
Niente rappresentanza,
Niente delega,
Niente alienazione del potere,
Governo diretto,
Il POPOLO nell’esercizio permanente della sua sovranità.
Che c’è dunque alla base di questo ritornello che si è ripreso come
se fosse una tesi nuova e rivoluzionaria, e che Ateniesi, Beoti,
Lacedemoni, Romani, ecc., non abbiano già conosciuto, praticato,
molto prima della nostra era? Non si tratta sempre dello stesso
circolo vizioso, sempre dello stesso precipitare verso l’assurdo,
che dopo aver esaurito, eliminato una dopo l’altra monarchie
assolute, monarchie aristocratiche o rappresentative, democrazie,
giunge a toccare il limite del governo diretto, per ricominciare
daccapo con la dittatura a vita e la monarchia ereditaria? Presso
tutte le nazioni, quella del governo diretto è stata l’epoca
palingenetica delle aristocrazie distrutte e dei troni spezzati:
questo tipo di governo non ha potuto reggersi neppure presso popoli,
come quelli di Atene e Sparta, che avevano il vantaggio di una
popolazione minima e del servizio degli schiavi. Da noi sarebbe il
preludio del cesarismo, nonostante le nostre ferrovie, le poste, i
telegrafi; nonostante la semplificazione delle leggi, la
revocabilità dei funzionari, la forma imperativa del mandato. Ci
farebbe precipitare verso la tirannia imperiale tanto più in fretta
in quanto i nostri proletari non vogliono più essere salariati, i
proprietari non sopporterebbero di essere spossessati, e i fautori
del governo diretto, ponendo ogni cosa sul piano della politica,
sembrano non avere alcuna idea dell’organizzazione economica. Un
altro passo in questa direzione e rispunta l’aurora dell’era dei
Cesari: a una democrazia inestricabile succederà, senza altri
passaggi, l’impero, con o senza Napoleone.
Occorre uscire da questo cerchio infernale. Occorre traversare, da
parte a parte, l’idea politica, la vecchia nozione di giustizia
distributiva e giungere a quella di giustizia commutativa, che,
nella logica della storia come in quella del diritto, le fa seguito.
Eh! voi che volete non vedere, che cercate tra le nuvole qualcosa
che già avete sottomano, rileggete i vostri autori, guardatevi
intorno, analizzate le vostre stesse formule, e troverete la
soluzione, che si trascina da tempo immemorabile attraverso i
secoli, e che voi, insieme con i vostri corifei, non avete mai
degnato di uno sguardo.
Nella ragione generale, tutte le idee sono coeterne: esse appaiono
una dopo l’altra soltanto nella storia, dove, a mano a mano, esse si
vengono a mettere alla testa delle cose e in prima fila.
L’operazione con la quale una idea viene espulsa dal potere, nella
logica, si chiama negazione; quella con la quale un’altra idea si
insedia, si chiama affermazione. Ogni negazione rivoluzionaria
implica dunque un’affermazione susseguente; questo principio, che la
pratica delle rivoluzioni dimostra, riceverà a questo punto una
stupefacente conferma.
La prima negazione autentica che sia stata fatta dell’idea di
autorità è quella di Lutero. Questa negazione, tuttavia, non è
andata al di là dalla sfera religiosa: Lutero, come Leibniz, Kant,
Hegel, era uno spirito essenzialmente di governo. La sua negazione
ha preso il nome di libero esame.
Ora, che cosa nega il libero esame? L’autorità della Chiesa. Che
cosa lo suppone? L’autorità della ragione. Che cos’è la ragione? Un
patto tra l’intuizione e l’esperienza.
L’autorità della ragione: questa è dunque l’idea positiva, eterna,
che la Riforma ha sostituito all’autorità della fede. Se un tempo la
filosofia dipendeva dalla Rivelazione, sarà ormai la Rivelazione a
essere subordinata alla filosofia. Sono invertite le parti, il
governo della società non è più lo stesso, la morale è cambiata, il
destino stesso sembra modificarsi. Già si può scorgere, al punto in
cui siamo, la vera portata di quel rinnovamento di sogno
caratterizzato dalla successione del verbo dell’uomo alla parola di
Dio.
Lo stesso movimento sta per prodursi nella sfera delle idee
politiche.
Dopo Lutero, il principio del libero esame fu trasportato,
soprattutto da Jurieu, dallo spirituale al temporale. Alla sovranità
del diritto divino, l’avversario di Bossuet oppose la sovranità del
popolo; cosa che egli espresse con grandissima precisione, forza,
profondità, nell’idea di patto o contratto sociale, ponendola
manifestamente in contraddizione con quelle di potere, autorità,
governo, imperium, arché.
Che cos’è in realtà il contratto sociale? l’accordo del cittadino
con il governo? No, sarebbe come girarsi e rigirarsi nella stessa
idea. Il contratto sociale è l’accordo dell’uomo con l’uomo, accordo
dal quale deve derivare ciò che noi chiamiamo società. Qui la
nozione di giustizia commutativa, posta dal fatto primitivo dello
scambio e definita dal diritto romano, soppianta quella di giustizia
distributiva, definitivamente liquidata dalla critica repubblicana.
Traducete le parole contratto e giustizia commutativa, che
appartengono alla lingua giuridica, nella lingua degli affari e
avrete il commercio, cioè, nel significato più elevato, l’atto
attraverso il quale gli uomini, in quanto si dichiarano
essenzialmente produttori, rinunciano l’uno nei confronti dell’altro
a ogni aspirazione al governo.
La giustizia commutativa, il dominio dei contratti, in altri termini
il dominio economico o industriale, sono i vari sinonimi dell’idea
che, con il suo avvento, deve sopprimere il vecchio sistema della
giustizia distributiva, del dominio delle leggi, o in termini più
concreti, il regime feudale, governativo e militare. L’avvenire
dell’umanità sta in questa sostituzione.
Ma prima che questa rivoluzione dottrinaria possa definirsi, prima
che sia compresa, e prima, soprattutto, che si impadronisca delle
popolazioni, le uniche che possono renderla esecutiva, quanti
dibattiti sterili! che sonnolenza di idee! che tempi per agitatori e
sofisti! Dal tempo della controversia tra Jurieu e Bossuet fino alla
pubblicazione del Contratto sociale di Rousseau, c’è quasi un secolo
di distanza; e quando quest’ultimo arriva, prende la parola non per
rivendicare l’idea, bensì per soffocarla.
Rousseau, la cui autorità ci governa da circa un secolo, non ha
capito niente del contratto sociale. A lui soprattutto occorre
risalire se si vuol rintracciare la causa della grande deviazione
del 1793, già espiata con cinquantasette anni di sterili
rivolgimenti, e che alcuni temperamenti più focosi che riflessivi
vorrebbero ancora farci riprendere come una tradizione sacra.
L’idea di contratto non è compatibile con l’idea di governo: su
questo punto richiamo l’attenzione di Ledru-Rollin, il quale, da
giureconsulto, dovrebbe conoscere il problema. Ciò che caratterizza
il contratto, la convenzione commutativa, è il fatto che proprio in
virtù di tale convenzione la libertà e il benessere dell’uomo
aumentano, mentre con l’istituzione di un’autorità diminuiscono
necessariamente sia l’una sia l’altro. La cosa apparirà in tutta la
sua evidenza se si riflette che il contratto è l’atto attraverso il
quale due o più individui decidono di predisporre tra di loro, in
una misura e per un tempo determinati, quella potenza industriale
che noi chiamiamo scambio; e di conseguenza si obbligano e si
garantiscono reciprocamente una certa somma di servizi, prodotti,
diritti, doveri, ecc., che possono procurarsi e rendersi,
riconoscendosi del resto perfettamente indipendenti, sia per il loro
consumo, sia per la loro produzione.
Fra contraenti, il rapporto è tale che deve esistere per ognuno un
interesse reale e personale, il quale implica che un uomo tratti
allo scopo di ridurre nello stesso tempo la sua libertà e il suo
reddito. Tra governanti e governati, al contrario, qualunque forma
assuma la rappresentanza, la delega o la funzione di governo, c’è
necessariamente alienazione di una parte della libertà e della
fortuna del cittadino: in cambio di che? L’abbiamo spiegato prima.
Nel contratto dunque le prestazioni sono essenzialmente
corrispettive: l’unica obbligazione che esso impone ai contraenti è
quella che risulta dalla loro reciproca promessa personale; non è
sottoposto ad alcuna autorità esterna; detta soltanto la legge
comune alle parti, dall’iniziativa delle quali dipende anche la sua
esecuzione.
Se il contratto allora è questo, nella sua accezione più generale e
nella pratica quotidiana, che cosa sarà il contratto sociale, che
dovrebbe riunire tutti i membri di una nazione in uno stesso
interesse?
Il contratto sociale è l’atto supremo con il quale ogni cittadino
cede alla società il suo amore, la sua intelligenza, il suo lavoro,
i suoi servizi, i suoi prodotti, i suoi beni; in cambio
dell’affetto, delle idee, dei lavori, prodotti, servizi e beni dei
suoi simili: la misura del diritto di ciascuno è determinata sempre
dalla misura del suo apporto, cioè quello che è possibile ottenere
dipende sempre da quanto si cede.
Così, il contratto sociale deve abbracciare l’universalità dei
cittadini, dei loro interessi e dei loro rapporti. Se anche un solo
uomo fosse escluso dal contratto, se uno solo degli interessi sui
quali i membri della nazione, esseri intelligenti, industriosi,
sensibili, sono chiamati a trattare, fosse omesso, il contratto
sarebbe più o meno relativo e particolare; non sarebbe sociale.
Il contratto sociale deve far aumentare il benessere e la libertà
per ogni cittadino. Se vi si introducesse surrettiziamente una
qualche ingiustizia; se una parte dei cittadini si trovasse, in
virtù del contratto, in posizione subalterna e fosse sfruttata
dall’altra, non si tratterebbe più di un contratto ma di una frode;
di conseguenza, si potrebbe invocare in qualsiasi momento e con
pieno diritto la rescissione del contratto.
Il contratto sociale deve essere liberamente deciso, individualmente
accettato, firmato manu propria da tutti coloro i quali vi
partecipano. Se la discussione fosse impedita, troncata, elusa; se
il consenso fosse estorto con l’inganno; se la firma fosse apposta
in bianco, oppure a occhi chiusi, senza la lettura degli articoli e
senza alcuna spiegazione preliminare; o se addirittura, come per il
giuramento militare, essa fosse pregiudicata e forzata, il contratto
sociale non sarebbe altro allora che una cospirazione contro la
libertà e il benessere degli individui più ignoranti, deboli e
numerosi, una spoliazione sistematica contro la quale ogni mezzo di
resistenza e anche di rappresaglia potrebbe diventare un diritto e
un dovere.
Aggiungiamo che il contratto sociale, di cui si sta qui parlando,
non ha nulla in comune con il contratto di associazione, con il
quale, come abbiamo mostrato in un precedente studio, il contraente
aliena una parte della sua libertà e si sottomette a una solidarietà
imbarazzante, spesso rischiosa, nella speranza più o meno fondata di
un beneficio. Il contratto sociale appartiene per essenza al
contratto commutativo: non soltanto lascia libero il contraente, ma
accresce la sua libertà; non soltanto lascia intatti i suoi beni, ma
fa aumentare la sua proprietà; non prescrive nulla al suo lavoro; si
basa esclusivamente sui suoi scambi: tutti elementi, questi, che non
si ritrovano nel contratto di associazione, anzi sono in
contraddizione con esso.
Così deve essere, secondo le definizioni del diritto e la pratica
universale, il contratto sociale. Occorre dire ora che, di questa
molteplicità di rapporti che il patto sociale è chiamato a definire
e a regolare, Rousseau non ha visto che i rapporti politici, così
sopprimendo dal contratto i punti fondamentali per occuparsi
solamente di quelli secondari? Occorre dire che di queste condizioni
essenziali, indispensabili – la libertà assoluta del contraente, il
suo intervento diretto, personale, la firma apposta con cognizione
di causa, l’accrescimento di libertà e benessere che vi deve trovare
– Rousseau non ne ha capita e rispettata alcuna?
Per lui, il contratto sociale non è né un atto commutativo né un
atto di associazione: Rousseau si guarda bene dall’invischiarsi in
considerazioni del genere. È un atto con il quale si istituiscono
degli arbitri, scelti dai cittadini, al di fuori di ogni convenzione
preliminare, per tutti i casi di contestazione, lite, frode o
violenza che possono presentarsi nei rapporti che a loro piacerà in
seguito intrecciare; e vengono investiti, questi arbitri, di una
forza sufficiente per dare esecuzione alle loro sentenze e farsi
pagare le vacazioni.
Nel libro di Rousseau non c’è traccia di un contratto positivo,
reale, o basato su qualche interesse concreto. Per dare una idea
esatta della sua teoria, non posso far di meglio che paragonarla a
un trattato commerciale, nel quale però fossero stati soppressi i
nomi delle parti, lo scopo della convenzione, la natura e
l’importanza dei valori, prodotti e servizi per i quali si doveva
trattare, le condizioni di qualità, consegna, prezzo, rimborso, in
una parola tutto ciò che costituisce la materia dei contratti... e
ci si fosse invece occupati esclusivamente di pene e tribunali.
In verità, cittadino di Ginevra, voi dite cose giustissime. Ma
prima di parlarmi del sovrano e del principe, delle guardie e del
giudice, mi dite almeno per che cosa dovrei partecipare al
contratto? Come! Voi mi fate firmare un atto in virtù del quale io
posso essere perseguito per mille contravvenzioni dalla polizia
urbana, rurale, fluviale, forestale, ecc.; vedermi tradotto davanti
ai tribunali, giudicato, condannato per danno, truffa, razzia,
rapina, bancarotta, devastazione, disobbedienza alle leggi dello
Stato, offesa alla morale pubblica, vagabondaggio; e in questo atto
non trovo una parola né sui miei diritti, né sui miei obblighi: vedo
solo pene!
Ma ogni pena presuppone un dovere, senza dubbio, e a ogni dovere
corrisponde un diritto. Ebbene, dove sono, nel vostro contratto, i
miei diritti e i miei doveri? che cosa ho promesso ai miei
concittadini? ed essi, a me, che cosa hanno promesso? Bisogna che lo
diciate: altrimenti il vostro sistema delle pene è un eccesso di
potere; il vostro Stato di diritto, una flagrante usurpazione; la
vostra polizia, le vostre sentenze e le vostre esecuzioni,
altrettanti atti abusivi. Voi che avete così ben negato la
proprietà, che avete messo sotto accusa con magniloquenza la
disuguaglianza delle condizioni tra gli uomini, quale condizione,
quale posto mi avete destinato nella vostra repubblica per sentirvi
in diritto di giudicarmi, di mettermi in carcere, di togliermi la
vita e l’onore? Perfido retore, avete gridato tanto contro gli
sfruttatori e i tiranni solo per consegnarmi a essi indifeso.
Così Rousseau definisce il contratto sociale:
Trovate una forma di associazione che difenda e protegga, con tutta
la forza comune, la persona e i beni di ogni socio, e attraverso la
quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca che a se stesso, e
resti libero come prima.
Sono queste, certo, le condizioni del patto sociale per quanto
riguarda la protezione e la difesa dei beni e delle persone. Ma sul
modo di acquistare, di trasferire dei beni, sul lavoro, lo scambio,
il
valore e il prezzo dei prodotti, sull’educazione, su
quell’insieme di rapporti in base ai quali, volente o nolente,
l’uomo entra in società con i suoi simili, Rousseau non dice nulla,
e la sua teoria è veramente futile. Ora, chi non ammette che, senza
una definizione dei diritti e dei doveri, non è possibile alcun tipo
di transazione; che dove non ci sono clausole contrattuali, non
possono esserci neppure infrazioni, né di conseguenza colpevoli; e
per concludere nel pieno rispetto del rigore filosofico, che una
società che punisce e che uccide in virtù di un simile titolo, dopo
aver provocato la rivolta, commette essa stessa un assassinio
premeditato?
Rousseau è tanto lontano dal volere che si faccia menzione, nel
contratto sociale, dei principi e delle leggi che governano la
fortuna delle nazioni e dei singoli individui, che egli, nel suo
programma demagogico, come nel Trattato sull’educazione, parte
dall’ipotesi menzognera, spogliatrice, omicida, che solo l’individuo
è buono e che è la società a renderlo depravato; che all’uomo, di
conseguenza, conviene astenersi il più possibile da ogni relazione
con i suoi simili, e che tutto quanto ci resta da fare in questo
basso mondo, rimanendo nel nostro isolamento sistematico, consiste
nello stabilire tra di noi una reciproca assicurazione per la
protezione delle nostre persone e dei nostri beni; il sovrappiù, e
cioè la cosa economica, la sola essenziale, viene abbandonato al
capriccio della nascita e della speculazione, e sottomesso, in caso
di contestazione, all’arbitrato di esperti elettivi, che giudicano
ricorrendo ai loro manuali di diritto o appellandosi all’equità
naturale della ragione. In due parole, il contratto sociale, secondo
Rousseau, non è altro che l’alleanza offensiva e difensiva fra
quelli che possiedono contro quelli che non possiedono, e la parte
che vi prende ogni cittadino è la polizza che egli è tenuto a
saldare, proporzionalmente alla sua fortuna e secondo la gravità dei
rischi che il pauperismo gli fa correre.
È questo patto di odio, monumento di insanabile misantropia; questa
coalizione fra i baroni della proprietà, del commercio e
dell’industria contro le esigenze del proletariato; questa promessa
di
guerra sociale; è questo, insomma, ciò che Rousseau chiama
contratto sociale, con una tracotanza che non esiterei a definire
scellerata se solo credessi nel genio di quest’uomo!
Ma quand’anche il virtuoso e sensibile Jean-Jacques si fosse
proposto di eternare la discordia tra gli uomini, avrebbe potuto far
altro di meglio che offrire loro, come contratto di unione, la carta
del loro eterno antagonismo? Basta guardarlo all’opera: nella sua
teoria del governo riconoscerete lo stesso spirito che ha ispirato
la sua teoria dell’educazione. Come è l’insegnante, tale è l’uomo di
Stato. Se il pedagogo predica l’isolamento, il funzionario semina la
divisione.
Dopo aver posto per principio che il popolo è l’unico sovrano, che
esso non può che rappresentarsi da solo, che la legge deve essere
l’espressione della volontà di tutti, e altre magnifiche banalità
che tutti i tribuni utilizzano, Rousseau abbandona surrettiziamente
la sua tesi e si mette da parte. Per cominciare, alla volontà
generale, collettiva, individuale, sostituisce la volontà della
maggioranza; poi, con il pretesto che non è possibile per una
nazione occuparsi della cosa pubblica dalla mattina alla sera,
avanza la tesi della nomina, attraverso le elezioni, dei
rappresentanti o dei mandatari che dovranno legiferare in nome del
popolo e i cui decreti avranno forza di leggi. Al posto di una
transazione diretta, personale sui suoi interessi, al cittadino non
resta altro che la facoltà di scegliersi gli arbitri a maggioranza.
Dopo di che, Rousseau può sentirsi a proprio agio. La tirannia, che
si appellava al diritto divino, era odiosa; allora egli la
riorganizza e la rende rispettabile, facendola, dice lui, derivare
dal popolo. Invece del patto universale, integrale, che deve
assicurare tutti i diritti, favorire tutte le facoltà, provvedere a
tutti i bisogni, prevenire tutte le difficoltà, che tutti devono
conoscere, approvare, firmare, egli ci offre, che cosa?, esattamente
quello che oggi viene chiamato governo diretto, una ricetta, per
mezzo della quale, proprio in assenza di ogni monarchia,
aristocrazia, corpo ecclesiastico, è sempre possibile giustificare
il parassitismo della minoranza e l’oppressione della maggioranza
con il richiamo alla collettività astratta del popolo. È in una
parola la legalizzazione del caos sociale, ricavata con l’aiuto di
un sotterfugio intellettuale; la consacrazione della miseria,
dedotta dalla sovranità del popolo. Del resto, non una parola sul
lavoro, sulla proprietà, o sulle forze industriali, che pure il
contratto sociale ha lo scopo di organizzare. Rousseau non sa che
cos’è l’economia. Il suo programma parla esclusivamente di diritti
politici; non riconosce diritti economici.
Rousseau ci insegna che il popolo, ente collettivo, non ha esistenza
unitaria; che è una persona astratta, una individualità morale, e
come tale incapace di pensare, agire, muoversi: il che vuol dire che
non c’è nulla che distingua la ragione generale dalla ragione
individuale, e perciò rappresenta meglio la prima colui il quale
sviluppa maggiormente in sé la seconda. Affermazione falsa che
conduce direttamente al dispotismo.
Poi Rousseau da questo primo errore deduce e traduce nei seguenti
aforismi i punti salienti della sua teoria liberticida, e così ci
insegna:
Che il governo popolare o diretto deriva essenzialmente
dall’alienazione della libertà di ognuno a vantaggio di tutti;
Che la separazione dei poteri è la prima condizione di un governo
libero;
Che in una repubblica ben costituita non può essere permessa alcuna
associazione o riunione particolare di cittadini, perché
costituirebbe uno Stato nello Stato, un governo nel governo;
Che sovrano e principe non sono affatto la stessa cosa, e anzi il
primo non esclude il secondo, di modo che il governo più diretto può
benissimo coesistere con una monarchia ereditaria: una combinazione
che abbiamo già visto sotto Luigi Filippo, e che certuni vorrebbero
rivedere;
Che il sovrano, cioè il popolo, in quanto entità fittizia, persona
morale, concetto puro dell’intelletto, ha come suo rappresentante
naturale e visibile il principe, il quale più tende a essere uno
solo, più conta;
Che il governo non è qualcosa che sta dentro la società, ma
qualcosa di esterno a essa;
Che, sempre secondo questa catena di considerazioni che in Rousseau
si susseguono con una logica geometrica, una vera democrazia non è
mai esistita, e non esisterà mai, perché, se nella democrazia è la
maggioranza che deve votare le leggi ed esercitare il potere, è però
contrario all’ordine naturale il fatto che la maggioranza governi e
la minoranza sia governata;
Che il governo diretto è in particolare impraticabile in un Paese
come la Francia, perché bisognerebbe per prima cosa livellare le
fortune, e l’uguaglianza delle fortune è impossibile;
Che del resto, e precisamente a causa dell’impossibilità di
mantenere l’uguaglianza, il governo diretto è quello più instabile,
più pericoloso, quello che più degli altri può generare catastrofi e
guerre civili;
Che siccome le democrazie antiche, pur essendo piccole e mantenute
dalla schiavitù, non sono riuscite a sopravvivere, sarebbe vano
introdurre da noi questa forma di governo;
Che essa va bene per degli esseri divini, non per gli uomini.
Dopo aver in tal modo e a lungo preso in giro i suoi lettori, dopo
aver scritto sotto il titolo deludente, in verità, di Contratto
sociale, il codice della tirannia capitalistica e mercantile, il
ciarlatano ginevrino conclude che il proletariato, la subordinazione
del lavoratore, la dittatura e l’inquisizione sono cose necessarie.
È privilegio dei letterati, a quanto pare, rimpiazzare la ragione e
la moralità con le loro capacità stilistiche.
Mai uomo aveva assommato a tal punto l’orgoglio dello spirito,
l’aridità dell’animo, la bassezza delle inclinazioni, la
depravazione dei costumi, l’ingratitudine del cuore; mai l’eloquenza
delle passioni, l’ostentazione della sensibilità, l’impudenza del
paradosso, avevano provocato una simile infatuazione. Dopo Rousseau,
e proprio in base al suo insegnamento, è sorta da noi la scuola, o
meglio, l’industria filantropica e sentimentale che, pur coltivando
il più perfetto egoismo, è capace di raccogliere gli onori della
carità e della dedizione. Diffidate di questa filosofia, di questa
politica, di questo socialismo alla Rousseau. La sua filosofia è
fatta di belle parole che servono solo a coprirne il vuoto; la sua
politica si costituisce essenzialmente sul dominio; quanto alle sue
idee sulla società, esse riescono appena a mascherare la loro
profonda ipocrisia. Quelli che leggono Rousseau e l’ammirano possono
semplicemente essersi lasciati abbindolare, e io li scuso: ma a
quelli che lo seguono e lo copiano dico che farebbero bene a badare
alla propria reputazione. Si avvicina il tempo in cui basterà una
citazione di Rousseau per rendere sospetto uno scrittore.
Diciamo per finire che, a onta del XVIII secolo e del nostro, il
Contratto sociale di Rousseau, capolavoro di destrezza oratoria, è
stato ammirato, portato alle stelle, ritenuto la tavola delle
libertà pubbliche; che costituenti, girondini, giacobini, cordelieri
vi andarono tutti a cercare l’oracolo; che ha fatto da testo alla
costituzione del 1793, dichiarata assurda dai suoi autori; e che a
questo libro ancora oggi si ispirano i più zelanti riformatori della
scienza politica e sociale. Il cadavere dell’autore, che il popolo
trascinerà a Montfaucon il giorno in cui avrà capito il senso delle
parole libertà, giustizia, morale, ragione, società, ordine, riposa
glorioso e venerato sotto le catacombe del Pantheon, dove non
entrerà mai nessuno di quegli onesti lavoratori che nutrono con
sangue e sudore la loro povera famiglia, mentre i grandi geni che
vengono esposti alla loro adorazione mandano, nel loro osceno
furore, i loro bastardi all’ospedale.
Ogni aberrazione della coscienza pubblica porta con sé la sua pena.
Il successo di Rousseau è costato alla Francia più oro, sangue e
disonore di quanto non gliene avesse fatto spargere il regno
detestato delle tre famose cortigiane, Cotillon I, Cotillon II,
Cotillon III (la Châteauroux, la Pompadour e la Dubarry). La nostra
patria, che ha dovuto patire sempre a causa dell’influenza
straniera, deve a Rousseau le lotte sanguinose e le delusioni del
1793.
E così, mentre la tradizione rivoluzionaria del XVIII secolo ci
consegnava come antitesi dell’idea di governo quella di contratto
sociale, che il genio gallico, così giuridico, avrebbe sicuramente
approfondito, è bastato l’artificio di un retore per distoglierci
dalla vera strada e far differire l’interpretazione. La negazione
del governo, che sta al fondo dell’utopia di Morelly; che gettò un
barlume, subito spento, attraverso le manifestazioni sinistre degli
Arrabbiati e degli Hebertisti; che sarebbe emersa dalle dottrine di
Babeuf, se Babeuf avesse saputo ragionare e dedurre il principio che
lo ispirava: questa grande e decisiva negazione traversò,
incompresa, tutto il XVIII secolo.
Ma una idea non può perire: essa rinasce sempre dalla sua idea
contraddittoria. Il trionfo di Rousseau significa solo che un giorno
egli sarà detestato di più. In attesa della deduzione teorica e
pratica dell’idea contrattuale, l’esperienza completa del principio
di autorità servirà a educare l’umanità. Dal compimento stesso di
questa evoluzione politica emergerà, alla fine, l’ipotesi opposta:
il governo, consumandosi da solo, partorirà, come un suo postulato
storico, il socialismo.
Fu Saint-Simon il primo a riprendere le fila, sia pure con un
linguaggio incerto e una coscienza ancora poco chiara. «La specie
umana», scriveva fin dal 1818, «ha dovuto prima vivere sotto il
regime governativo e feudale. Essa è stata destinata a passare dal
regime governativo o militare sotto il regime amministrativo o
industriale, dopo aver fatto abbastanza progressi nelle scienze
positive e nell’industria. Infine, a causa della sua stessa
organizzazione, essa è stata costretta a sopportare una crisi lunga
e violenta, nella fase del suo passaggio dal sistema militare al
sistema pacifico. L’epoca attuale è un’epoca di transizione. La
crisi di transizione è incominciata con la predicazione di Lutero:
da allora, la direzione degli spiriti è stata essenzialmente critica
e rivoluzionaria».
Poi, a sostegno delle sue idee, Saint-Simon cita una serie di uomini
di Stato che avrebbero avuto l’idea più o meno vaga di questa
grandiosa metamorfosi: Sully, Colbert, Turgot, Necker, lo stesso
Villèle; e una serie di filosofi: Bacone, Montesquieu, Condorcet,
Comte, Constant, Cousin, de Laborde, Fiévée, Dunoyer, ecc.
Saint-Simon è tutto qui, in queste poche righe, scritte con uno
stile profetico, ma non troppo digeribili per l’epoca in cui vennero
scritte, troppo condensate per i giovani che per primi si legarono
al nobile innovatore. Qui non si parla, si noti bene, né della
comunità dei beni e delle donne, né della riabilitazione della
carne, né dell’androgino, né del Padre Supremo, né del Circulus, né
della Triade. Nulla di quanto è stato volgarizzato dai discepoli
appartiene al maestro: anzi, i sansimoniani hanno misconosciuto
proprio l’idea di Saint-Simon.
Cosa ha voluto dire Saint-Simon?
Dal momento in cui, da una parte, la filosofia succede alla fede e
sostituisce la vecchia nozione di governo con quella di contratto;
e, dall’altra parte, in seguito a una rivoluzione che abolisce il
regime feudale, la società chiede di poter sviluppare, armonizzare
le sue potenze economiche: da questo momento in poi è inevitabile
che il governo, negato in teoria, si distrugga progressivamente
nella pratica. E quando Saint-Simon, per designare questo nuovo
ordine di cose, in conformità con il vecchio stile, usa il termine
governo unito con l’attributo amministrativo o industriale, è
evidente che la parola in questione assume nel suo contesto un
significato metaforico, o piuttosto analogico, che poteva ingannare
soltanto i profani. Non è possibile ingannarsi sul pensiero di
Saint-Simon se si legge il brano, ancora più esplicito, che cito qui
di seguito:
Se si osserva l’andamento che segue l’educazione degli individui, si
nota, nelle scuole primarie, che l’azione del governare è la più
forte; e a mano a mano che si sale ai gradi più elevati, si vede che
l’azione del governare tende a diminuire la sua intensità, mentre
l’insegnamento svolge un ruolo sempre più importante. La stessa cosa
si può dire a proposito dell’educazione della società. L’azione
militare, cioè feudale (di governo), all’origine è stata
necessariamente preponderante e ha dovuto acquistare sempre più
importanza; a sua volta il potere amministrativo deve
necessariamente finire con il dominare il potere militare.
A questi passaggi di Saint-Simon bisognerebbe aggiungere la
sua famosa Parabola che, nel 1819, cadde sul mondo ufficiale come
una scure, e a causa della quale l’autore fu tradotto davanti alla
Corte d’assise il 20 febbraio 1820 e assolto. Questo brano è troppo
esteso, e del resto abbastanza conosciuto, per poterlo qui
riportare.
La negazione di Saint-Simon, come si vede, non è dedotta dall’idea
di contratto, che Rousseau e i suoi seguaci avevano da ottant’anni
corrotto e disonorato; essa deriva da una intuizione diversa,
completamente sperimentale e a posteriori, come si addice a un
osservatore dei fatti. Quello che la teoria del contratto,
ispirazione della logica provvidenziale, avrebbe fin dal tempo di
Jurieu fatto intravedere nell’avvenire della società è la fine dei
governi; questo, appunto, constata Saint-Simon in base alla legge
dell’evoluzione dell’umanità, e quando ormai la mischia fra i
sostenitori del parlamento è giunta al colmo. Così, la teoria del
diritto e la filosofia della storia, come due punti fermi posti
l’uno davanti all’altro, hanno instradato lo spirito verso una
rivoluzione sconosciuta: ancora un passo, e arriviamo al fatto.
Tutte le strade portano a Roma, dice il proverbio. Tutte le indagini
portano anche alla verità.
Il XVIII secolo, credo di averlo dimostrato con abbondanza di
particolari, se non fosse stato messo fuori strada dal
repubblicanesimo classico di Rousseau, retrogrado e declamatorio,
sarebbe giunto, attraverso lo sviluppo dell’idea di contratto, cioè
per via giuridica, alla negazione del governo.
Saint-Simon ha dedotto questa negazione dall’osservazione storica e
dall’educazione dell’umanità. A mia volta, io l’ho dedotta, se mi è
consentito citarmi in questo momento in cui sono il solo a
rappresentare il dato rivoluzionario, dall’analisi delle funzioni
economiche e dalla teoria del credito o dello scambio. Non ho
bisogno, credo, per dimostrarlo, di richiamare le diverse opere e
articoli nei quali mi sono occupato dell’argomento: da tre anni essi
hanno suscitato abbastanza scalpore.
Così, l’Idea, germe incorruttibile, traversa i tempi, illuminando di
quando in quando qualche uomo di buona volontà, fino al giorno in
cui una intelligenza che non si lascia intimidire la raccoglie, la
lascia covare, poi la lancia come una meteora sulle masse
elettrizzate.
L’idea di contratto, nata dalla Riforma in opposizione con quella di
governo, ha traversato il XVII e XVIII secolo senza che alcun
pubblicista la rilevasse, senza che un solo rivoluzionario la
vedesse. Anzi, le più illustri figure della Chiesa, della filosofia,
della politica, si misero insieme per combatterla. Rousseau, Sieyès,
Robespierre, Guizot, tutta la scuola dei sostenitori del parlamento
sono stati gli alfieri della reazione. Un uomo, messo in guardia,
anche se abbastanza tardi, dalla degradazione del principio
conduttore della storia, riporta alla luce l’idea giovane e feconda:
disgraziatamente l’aspetto più appariscente della sua dottrina
inganna i suoi stessi discepoli; essi non si accorgono che il
produttore è la negazione del governante, che l’organizzazione è
incompatibile con l’autorità; così, per altri trent’anni si perde di
vista la formula. Finalmente, essa si impadronisce dell’opinione
pubblica a forza di proteste e di scandali; ma allora, o vanas
hominum mentes, o pectora cœca! Le reazioni determinano le
rivoluzioni! L’idea anarchica è appena impiantata nel suolo popolare
che subito dei sedicenti conservatori vengono a innaffiarla con le
loro calunnie, a ingrassarla con le loro violenze, a riscaldarla
sotto le vetrate del loro odio, a soccorrerla in tutti i modi con le
loro stupide reazioni. Grazie a loro, oggi dall’idea anarchica sono
spuntate l’idea antigovernativa, l’idea del lavoro, l’idea del
contratto; e cresce, sale, si arrampica sulle società operaie; e fra
non molto, come il minuscolo seme del Vangelo, sarà un albero
immenso che con i suoi rami coprirà tutta la terra.
Dato che alla sovranità della Rivelazione si è sostituita quella
della Ragione; che la nozione di contratto succede a quella di
governo; che l’evoluzione storica conduce fatalmente l’umanità a una
nuova pratica; che la critica economica già constata che sotto il
nuovo regime l’istituzione politica deve essere assorbita
dall’organismo industriale, concludiamo tranquillamente che la
formula rivoluzionaria non può più essere né quella della
legislazione diretta, né quella del governo diretto, e neppure
quella del governo semplificato, bensì quella dell’abolizione del
governo.
Né monarchia, né aristocrazia e neppure democrazia, in quanto
quest’ultima implicherebbe comunque un governo che agisce in nome
del popolo e si sostituisce al popolo. Nessuna autorità, nessun
governo, anche se popolare: ecco la rivoluzione.
Legislazione diretta, governo diretto, governo semplificato, vecchie
menzogne che sarebbe vano tentare di ringiovanire. Diretto o
indiretto, semplice o composto, il governo del popolo farà sempre
sparire il popolo. È sempre il dominio dell’uomo sull’uomo; la
finzione che fa violenza alla libertà; la forza brutale che pone
fine alle questioni, che invece solo la giustizia può risolvere;
l’ambizione perversa che si fa sgabello della dedizione e della
credulità. No, non prevarrà l’antica serpe: a furia di
attorcigliarsi sulla questione del governo diretto, questa volta si
è strangolata da sola. Ora che possediamo, in una stessa antitesi,
l’idea politica e l’idea economica, la produzione e il governo, che
possiamo reciprocamente dedurle l’una dall’altra, provarle,
confrontarle, non c’è più da temere la reazione del neogiacobinismo.
Quelli ancora affascinati dallo scisma di Robespierre saranno domani
gli ortodossi della rivoluzione.
[Da Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, trad. it.
(estratti): in P. Ansart, P.-J. Proudhon , La Pietra, Milano 1978,
pp. 155-170].
capitolo ottavo
Secondo Proudhon, la dialettica sociale non può risolvere in una
sintesi superiore le opposizioni della vita socio-economica. Tale
concezione, che vede nel continuo svolgimento delle antinomie la
struttura stessa del sociale, lo porta a formulare la dottrina del
federalismo pluralista, considerata l’unica realistica perché le
contraddizioni, costituendo la linfa vitale della società, sono
insopprimibili. Il federalismo pluralista si definisce da una parte
come critica di tutte le dottrine stataliste, uniciste,
assolutistiche, in quanto utopistiche e reazionarie, e dall’altra
come metodo regolativo, più che costitutivo, dei rapporti
socio-economici. Esso infatti deve garantire, con la sua dimensione
aperta, l’uguale possibilità di espressione di ogni individuo o
gruppo, in armonia con le proprie esigenze geografiche e le proprie
tradizioni storiche. Il sistema federativo deve essere insomma il
risultato degli equilibri da ricercarsi nel rapporto fra gruppi e
individui, fra unità e molteplicità, fra società globale e
raggruppamenti particolari, fra coesione e libertà. Tuttavia, ciò
che costituisce l’essenza e il carattere del contratto federativo –
egli precisa – è che in un tale sistema i contraenti si riservano
più diritto, autorità e proprietà di quanto non ne abbandonino. Per
sorreggere questo disegno fondamentalmente libertario ed
egualitario, Proudhon ha concepito il mutualismo economico, il solo
in grado di rendere operante tale impianto strutturale. Il
mutualismo in senso economico è un socialismo pluralista,
decentralizzato, fondato sull’autogestione, da parte dei produttori,
della proprietà federale degli strumenti di produzione. Esso
realizza contemporaneamente la democrazia industriale, sotto il
diretto controllo dei lavoratori, e una democrazia politica il cui
unico scopo è di essere al servizio di quella industriale.
La proprietà nel regime autogestionario e federalistico diventa una
funzione definitivamente sottomessa alla regolamentazione interna
del nuovo diritto economico e della giustizia sociale. Su questa
proprietà federalizzata, che cambia non solo di soggetto ma di
natura, Proudhon fa poggiare la federazione agricolo-industriale, la
quale attribuisce gli strumenti di produzione contemporaneamente
all’insieme della società economica, a ogni regione, a ogni gruppo
di lavoratori, a ogni operaio e contadino considerati
individualmente. Essa organizza una proprietà federativa e
mutualista dei mezzi di produzione i cui possessori sono
simultaneamente l’intera organizzazione economica, centrale e
regionale, le diverse branche dell’industria, ogni fabbrica e infine
ogni lavoratore. Il possesso universalizzato non comporta però la
spartizione della proprietà, che resta una e indivisa. In altri
termini, gli individui possono richiedere il riscatto della loro
parte, prodotta dal proprio lavoro, al fine di realizzare un’altra
ulteriore unità produttiva o sociale, senza pretendere tuttavia la
divisione della proprietà precedente. Così, considerata in se
stessa, l’idea di una federazione industriale serve di compimento e
di sanzione alla federazione politica, perché riceve la conferma più
schiacciante dai principi dell’economia.
Il federalismo
Se il lettore ha seguito con un po’ di attenzione quanto abbiamo
esposto fin qui, la società umana deve apparirgli come una creazione
fantastica, piena di cause di stupore e di misteri. Ne riassumeremo
brevemente i termini:
1. l’ordine politico riposa su due principi strettamente connessi,
opposti e irriducibili: l’autorità e la libertà;
2. da questi due principi, si deducono parallelamente due regimi
contrari: il regime assolutista o autoritario, e il regime liberale;
3. le forme di questi due regimi sono altrettanto differenti fra di
loro, incompatibili e logicamente inconciliabili, quanto le loro
nature; le abbiamo definite con due parole: indivisione e
separazione
(del potere);
4. la ragione ci dice che ogni dottrina deve svilupparsi secondo
i suoi principi, ogni essere secondo la sua legge: la coerenza è la
condizione della vita come del pensiero. Ma in politica si verifica
esattamente il contrario: né l’autorità né la libertà possono
costituirsi per conto loro, creare un sistema che sia esclusivamente
loro proprio; anzi, sono precisamente condannate, quando vogliono
stabilire ciascuna il proprio regime, a ricorrere reciprocamente e
perpetuamente al principio opposto;
5. la conseguenza che ne risulta è che, siccome la fedeltà ai
principi è possibile solo nella politica teorica ma la pratica è
obbligata a transazioni di ogni sorta, ogni governo si riduce, a
guardar bene, malgrado la miglior volontà e la più gran virtù
possibile, a una creazione ibrida, equivoca, a una promiscuità di
regimi che la logica ripudia e davanti alla quale la buona fede
arretra spaventata; nessun governo sfugge a tale contraddizione;
6. in conclusione: la pratica politica divenendo sempre più e
fatalmente preda dell’arbitrario, la corruzione si impadronisce
presto del potere, e la società è trascinata, senza posa e senza
risorsa, sul piano inclinato delle rivoluzioni continue. [...]
Dovremo osservare dapprima come i due principi, autorità e libertà,
dai quali vengono tutte le difficoltà, si mostrano nella storia in
una successione logica e cronologica. L’autorità, come la famiglia,
come il padre, genitor, compare per prima: essa ha l’iniziativa, è
un’affermazione. La libertà, coi suoi ragionamenti, viene dopo: è la
critica, la protesta, la libera decisione. Le ragioni di questo
ordine successivo risultano dai concetti stessi di tali principi e
dalla natura delle cose, e la storia conferma questo ragionamento.
In ciò non è possibile il dubbio e nessuna arbitraria inversione.
Un’altra osservazione, non meno importante, è che il regime
autoritario, paternalistico e monarchico, si allontana tanto più dal
proprio ideale quanto più numerosa diviene la famiglia, tribù o
città, e quanto più lo Stato cresce in popolazione e territorio:
cosicché più l’autorità si estende, più diventa intollerabile. Donde
le concessioni che essa è obbligata a fare all’opposto principio di
libertà. Inversamente, il regime di libertà, quanto più lo Stato
cresce in popolazione ed estensione, quanto più si moltiplicano i
rapporti fra gli uomini e progredisce la scienza, tanto più si
accosta al proprio ideale e acquista probabilità di successo. Prima
si comincerà a reclamare da ogni parte la costituzione, più tardi si
arriverà alla decentralizzazione. Pazientando un po’, si potrà veder
sorgere l’idea di federazione. In conclusione, si potrà applicare
alla libertà e all’autorità quello che diceva Giovanni Battista di
sé e di Gesù: «Illam oportet crescere, hanc autem minui».
Questo duplice moto, l’uno retrogrado e l’altro progressivo, che si
risolve in un fenomeno unico, risulta tanto dalla definizione
concettuale dei principi, quanto dalla loro posizione reciproca e
dalla loro azione. E anche qui non è possibile l’equivoco, e non c’è
posto per nessuna interpretazione arbitraria: la cosa si impone per
evidenza intuitiva e certezza matematica. Siamo in presenza di una
legge.
La conseguenza di questa legge, che si può chiamare necessaria, è
necessaria a sua volta: il principio di autorità, che compare per
primo ed è come la materia o il dato da elaborare della libertà,
della ragione e del diritto, viene a poco a poco subordinato dal
principio giuridico, razionalista e liberale; come il capo di Stato,
che dapprima inviolabile, irresponsabile, assoluto, vero pater
familias, diventa poi giudicabile dalla ragione, primo soggetto di
legge, e infine semplice agente, strumento o servitore della
libertà.
Questa terza proposizione è altrettanto certa delle prime due,
esente da ogni equivoco e contraddizione, e chiaramente confermata
dalla storia. Nella lotta eterna fra i due principi, la Rivoluzione
francese, al pari della Riforma, rappresenta un’era di critica: essa
ci fa vedere, nell’ordine politico, la libertà che toglie
ufficialmente il primato all’autorità, così come la Riforma,
nell’ordine religioso, contrassegnò il momento in cui il libero
esame è venuto a prevalere sulla semplice fede. Dopo Lutero infatti
ogni credenza religiosa si è fatta ragionatrice: l’ortodossia, non
meno dell’eresia, ha assunto la pretesa di condurre l’uomo alla fede
per mezzo della ragione. Il precetto di san Paolo, Rationabile sit
obsequium vestrum, è stato sempre più largamente commentato e messo
in pratica, Roma si è messa a discutere come Ginevra, e la religione
tende a imporsi come una scienza.
La sottomissione alla Chiesa si è complicata di tante
condizioni e riserve che, salvo la differenza degli articoli di
fede, non c’è più stata differenza di mentalità fra il cristiano e
il non credente: essi non hanno la stessa opinione, questo è certo,
ma per il resto, quanto a modo di pensare, di ragionare, quanto a
coscienza, tutti e due si comportano allo stesso modo. Similmente,
dopo la Rivoluzione francese, il prestigio dell’autorità è
diminuito: la deferenza agli ordini di un principio è divenuta
condizionale, si esige dal sovrano una specie di reciprocità, delle
garanzie. La mentalità politica è cambiata: anche i monarchici più
ferventi hanno voluto avere delle carte costituzionali come i vecchi
baroni di Giovanni Senzaterra, e i Berryer, i Falloux, i
Montalembert possono dichiararsi altrettanto liberali dei nostri
democratici. Châteaubriand, il bardo della Restaurazione, si vantava
di essere filosofo repubblicano: con un semplice atto del suo libero
arbitrio si nominò difensore dell’altare e del trono. E sono note le
vicende del cattolicesimo spinto di Lamennais.
Così, mentre l’autorità è pericolante, diventando di giorno in
giorno più precaria, il sentimento del diritto si afferma e la
libertà, sempre sospetta, diviene tuttavia sempre più reale e più
forte. L’assolutismo resiste quanto può, ma batte in ritirata:
sembra che la repubblica, sempre combattuta, calunniata, tradita,
bandita, avanzi tuttavia a passi di gigante. Qual partito trarremo
noi da un fatto così capitale per la costituzione dei governi?
Considerato che, nell’ordine teorico come nella realtà storica,
l’autorità e la libertà si succedono come per una specie di
polarizzazione; che la prima cala insensibilmente e si ritira,
mentre la seconda cresce e si impone; che risulta da questo duplice
moto una specie di subalternizzazione dell’autorità, la quale si
rimette sempre più alle leggi della libertà; che, in altri termini,
il regime liberale o contrattuale guadagna ogni dì sul regime
autoritario, risulta che dovremo riferirci al concetto di contratto,
come all’idea attualmente dominante nella politica. [...]
Il contratto politico non acquista tutta la sua dignità e
moralità se non a condizione:
1. di essere sinallagmatico e commutativo;
2. di essere circoscritto, riguardo al suo oggetto, entro certi
limiti; due condizioni che si presuppongono esistenti sotto il
regime democratico, ma che anche in esso troppo sovente non sono che
una finzione. Possiamo forse dire che in una democrazia
rappresentativa e centralizzatrice, in una monarchia costituzionale
e censitaria, e tanto meno poi in una repubblica comunistica sul
tipo di Platone, il contratto politico che lega il cittadino allo
Stato sia perfetto e reciproco? Possiamo forse dire che questo
contratto, che toglie ai cittadini la metà o i due terzi della loro
sovranità e il quarto del loro prodotto, sia circoscritto entro
giusti limiti? Sarebbe più esatto dire, come l’esperienza troppo
spesso ci insegna, che il contratto in tutti questi sistemi è
esorbitante, oneroso, essendo, per una parte più o meno
considerevole dei cittadini, un impegno senza giusta contropartita;
e anche aleatorio, poiché il vantaggio promesso in cambio, già
insufficiente, non è neppur sicuro.
Affinché il contratto politico risponda alla condizione
sinallagmatica e commutativa che l’idea stessa di democrazia esige,
affinché, contenuto in giusti limiti, resti vantaggioso e comodo per
tutti, bisogna che il cittadino, entrando in questa società:
1. abbia a ricevere dallo Stato tanto quanto egli sacrifica allo
Stato;
2. che conservi tutta la propria libertà, la propria sovranità e il
diritto di iniziativa, salvo per la parte relativa allo speciale
oggetto per il quale si è fatto il contratto e si è chiesta la
garanzia allo Stato. Così regolato e inteso in tal senso, il
contratto politico diventa quello che io chiamo una federazione.
Federazione, dal latino foedus, genitivo foederis, vale a dire
patto, 194
contratto, trattato, convenzione, alleanza, ecc., è una
convenzione in virtù della quale uno o più capi di famiglia, uno o
più comuni, uno o più gruppi di comuni e Stati, si obbligano
reciprocamente e su un piede di uguaglianza gli uni verso gli altri,
per uno o più scopi particolari che diventano da quel momento
particolare ed esclusiva incombenza dei delegati della federazione*.
Esaminiamo bene questa definizione.
Quello che fa l’essenza e il carattere del contratto federale, sul
quale richiamo l’attenzione del lettore, è che in tale sistema i
contraenti, capi di famiglia o comuni, cantoni, province o Stati,
non solo si impegnano bilateralmente e commutativamente gli uni
verso gli altri, ma si riservano singolarmente, nel formare il
patto, una quantità di diritti, di libertà, di autorità, di
proprietà, maggiore di quella che essi sacrificano.
Così non è, per esempio, nella società universale di beni e profitti
autorizzata dal codice civile, detta solitamente «società in
comunanza», che è l’immagine in miniatura di tutti gli Stati
assoluti. Colui che si impegna in un’associazione di tale specie,
soprattutto se essa è perpetua, è limitato da legami, è soggetto a
impegni, per una parte maggiore dell’iniziativa che conserva. Ed è
questo che rende un tale contratto così raro e che in ogni tempo ha
reso generalmente insopportabile la vita cenobitica. Qualsiasi
impegno, anche sinallagmatico e commutativo, che, chiedendo agli
associati la totalità dei loro sforzi, non lascia nulla alla loro
indipendenza e li rende completamente votati all’associazione, è un
impegno eccessivo, che ripugna tanto al cittadino come al privato
individuo.
In base a tali principi, il contratto di federazione, avendo per
scopo, in linea generale, di garantire agli Stati confederati la
loro sovranità, l’integrità del territorio, la libertà dei
cittadini; di regolare pacificamente le loro controversie; di
attuare quei provvedimenti di carattere generale che riguardano la
sicurezza e la prosperità comune; un tale contratto, dico, malgrado
l’importanza degli interessi in gioco, è essenzialmente limitato.
L’autorità che ha il compito di metterlo in esecuzione non potrà mai
opprimere le parti associate: vale a dire che le attribuzioni delle
autorità federali non potranno mai prevalere in numero e peso su
quelle delle autorità comunali e provinciali, così come queste non
potranno condizionare eccessivamente i diritti e le prerogative
dell’uomo e del cittadino. Perché se così non fosse, il comune
diventerebbe una circoscrizione, la federazione tornerebbe a essere
uno Stato centralizzato di tipo monarchico, e l’autorità federale,
da semplice mandataria subordinata alla volontà dei contraenti, come
deve essere, si presenterebbe come preponderante: invece di essere
limitata a un servizio speciale, sarebbe intesa a occuparsi di tutte
le attività e le iniziative, e gli Stati confederati si troverebbero
ridotti a prefetture, intendenze o succursali. Tutto il corpo
politico così ridotto, potrebbe allora chiamarsi repubblica, o
democrazia, o con qualunque altro nome, ma non sarebbe più uno Stato
costituito nella pienezza delle sue autonomie, non sarebbe più una
confederazione. E la stessa cosa accadrebbe, a maggior ragione, se,
per qualche errato calcolo di economia, per deferenze particolari, o
per qualunque altra causa, comuni, cantoni o Stati confederati
incaricassero uno di loro dell’amministrazione e del governo di
tutti. La repubblica da federativa diventerebbe unitaria e sarebbe
sulla via del dispotismo.
In conclusione, il sistema federativo è esattamente il
contrario della gerarchia o centralizzazione amministrativa e
governativa, che è il contrassegno, indistintamente, delle
democrazie imperiali, delle monarchie costituzionali e delle
repubbliche unitarie. La sua legge fondamentale, caratteristica, è
la seguente: «Nella federazione, le attribuzioni dell’autorità
centrale si restringono, diminuiscono, man mano che la
confederazione si sviluppa con l’accesso di nuovi Stati». Nei
governi centralizzati, invece, le attribuzioni del potere supremo si
moltiplicano, si estendono, si fanno più dirette e immediate,
accrescono le loro competenze sugli affari di province, comuni,
corporazioni, e su quelli dei cittadini, in ragione diretta della
superficie territoriale e della massa della popolazione. E ne viene
quella schiacciante pressione sotto la quale sparisce ogni libertà,
non solamente comunale e provinciale, ma anche individuale e
nazionale.
Una conseguenza di questo patto, con la quale chiuderemo il
capitolo, è che, essendo il sistema unitario l’inverso del sistema
federativo, una confederazione tra grandi monarchie costituzionali,
e a maggior ragione tra democrazie imperiali, è una cosa
impossibile. Stati come la Francia, l’Austria, l’Inghilterra, la
Russia, la Prussia, possono stringere fra loro trattati di alleanza
e di commercio, ma non possono confederarsi: prima di tutto perché
il principio sul quale si sono costituiti, essendo di natura
contrario a ciò, li metterebbe in opposizione con il patto federale;
il quale, dal canto suo, li obbligherebbe a rinunciare in parte alla
loro sovranità e a riconoscere al di sopra di sé, almeno in certi
casi, un’autorità arbitrale. Viceversa, la natura di questi Stati è
di comandare, non di transigere o di obbedire. I principi che nel
1813, sostenuti dalla ribellione delle masse, combattevano per la
libertà dell’Europa contro il dispotismo napoleonico, e più tardi
formarono la Santa Alleanza, non erano dei «confederati»:
l’assolutismo dei loro Stati non permetteva loro di assumere quel
titolo. Essi erano, come nel 1792, dei coalizzati; e la storia non
darà loro altro nome. Diverso è il caso della Confederazione
germanica, che è entrata in un periodo di riforme, e nella quale
l’affermarsi della libertà e della nazionalità rischia di far
sparire a un certo momento le dinastie che vi fanno ostacolo. [...]
L’idea di federazione è antica nella storia quanto quelle di
monarchia e democrazia, anzi quanto l’autorità e la libertà. Come
potrebbe essere altrimenti? Tutto ciò cui la legge del progresso dà
vita affonda le sue radici nella natura. La civiltà cammina,
condizionata dai suoi principi, preceduta, seguita e avviluppata dal
suo corteo di idee; e la federazione, fondata sul contratto,
espressione solenne della libertà, non poteva non essere presente.
[...]
Per lunghi secoli l’idea di federazione sembra velata e tenuta in
riserva: ciò è da spiegarsi con l’iniziale incapacità delle nazioni
e con la conseguente necessità di formarle con una rigida
disciplina. Tale è il ruolo che, per una certa qual superiore
determinazione, pare sia stato affidato al sistema unitario. Era
necessario infatti domare, fissare le moltitudini erranti, rozze e
disorganizzate, riunire in gruppi le città isolate e ostili, fondare
a poco a poco, di autorità, un diritto comune e imporre, in forma
categorica, le leggi generali dell’umanità. Non si potrebbe
attribuire altro significato a queste grandi creazioni politiche
dell’antichità, cui succedettero in seguito, mano a mano, gli imperi
dei Greci, dei Romani, poi dei francesi, la Chiesa cristiana, la
rivolta di Lutero, e finalmente la Rivoluzione francese.
La federazione non avrebbe potuto adempiere a questa missione
educatrice in primo luogo perché, essendo basata sulla libertà,
rifiuta l’idea di costrizione e riposa sulla nozione di contratto
sinallagmatico, commutativo e limitato; in secondo luogo perché suo
compito è garantire la sovranità dell’autonomia ai popoli che
unisce: agli stessi che inizialmente si trattava di tenere sotto il
giogo nell’attesa che fossero in grado di governarsi da sé, con la
ragione. In breve, essendo la civiltà per sua natura progressiva,
una forma di governo federativo che si fosse instaurata sin dagli
inizi avrebbe implicato una contraddizione.
Un altro motivo di esclusione provvisoria per il principio
federativo è da ricercarsi nella ridotta capacità di espansione
degli Stati riuniti in federazioni. Abbiamo detto nel II capitolo
che la monarchia, per sé e in virtù del suo principio, non conosce
limiti al proprio sviluppo e che lo stesso vale per la democrazia.
Questa facoltà di espansione è passata dai governi semplici, o a
priori, ai governi misti, o di fatto, aristocrazie e democrazie,
imperi democratici e monarchie costituzionali che, indistintamente,
sotto questo profilo hanno fedelmente obbedito al loro principio. Da
lì sono nati i sogni messianici e tutti i tentativi di monarchia o
repubblica universale.
In questi sistemi la tendenza all’inglobamento non ha fine: si può
tranquillamente affermare che in essi l’idea di «frontiera naturale»
è una finzione, o per meglio dire una soperchieria politica; i
fiumi, le montagne e i mari sono considerati non più come limiti
territoriali, ma come ostacoli che il sovrano e la nazione hanno
quasi il dovere di superare. Ciò è nella logica del principio: la
facoltà di possedere, di accumulare, di comandare e di sfruttare è
infinita, non ha che l’universo come confini. L’esempio più famoso
di questo accaparramento di territori e di popolazioni, a dispetto
di montagne, fiumi, foreste, mari e deserti, è stato l’impero
romano, che aveva il suo centro e la sua capitale in una penisola,
in seno a un vasto mare, e le sue province tutte intorno,
raggiungibili, anche se lontane, dai suoi eserciti e dai suoi
funzionari.
Ogni Stato è per sua natura annessionista. Nulla arresta il suo
cammino invasore, tranne l’incontro con un altro Stato, invasore
anch’esso e in grado di fronteggiarlo. I propugnatori più accesi del
principio di nazionalità non mancano, all’occasione, dal
contraddirsi quando ne va dell’interesse e, a maggior ragione, della
sicurezza del loro Paese: chi nella democrazia francese avrebbe
osato reclamare contro l’annessione della Savoia e di Nizza? Non è
neppure tanto raro vedere le annessioni favorite dagli stessi
annessi, che mercanteggiano la loro indipendenza e la loro
autonomia. Diverso è quanto accade nel sistema federativo. In grado
di difendersi egregiamente se attaccata – gli svizzeri l’hanno più
volte dimostrato – una confederazione è invece molto debole quando
si tratta di conquistare. Eccettuato il caso, molto raro, in cui uno
Stato vicino chieda di essere accolto nel patto, si può dire che,
proprio per una questione vitale, di sopravvivenza, essa si preclude
ogni possibilità di ampliamento. Infatti, in virtù del principio che
limitando l’oggetto del patto di federazione alla mutua difesa e a
qualche fine di comune utilità, essa garantisce a ogni Stato il suo
territorio, la sua sovranità, la sua costituzione, la libertà dei
suoi cittadini, riservandogli in più autorità, iniziativa, potenza,
in misura maggiore di quel che esso sacrifica, la confederazione si
autoimpone dei limiti; limiti tanto più rigorosi quanto più le
località ammesse nell’alleanza sono distanti tra loro, così che si
arriva a un punto in cui il patto si trova a non avere più logica
giustificativa.
Supponiamo che uno degli Stati confederati formuli il progetto di
una conquista particolare, che desideri annettere una città vicina,
una provincia confinante, che voglia intromettersi negli affari di
un altro Stato; non solo non potrà contare sull’appoggio della
confederazione, la quale risponderà che il patto è stato stipulato
nell’ottica della mutua difesa e non dell’espansione di un singolo,
ma si vedrà anche ostacolato nella sua impresa dalla solidarietà
federale che non consente che tutti si espongano alla guerra per le
ambizioni di uno solo. In tal modo una confederazione è allo stesso
tempo una garanzia per i suoi membri e per i suoi vicini.
Così, contrariamente a ciò che accade per altre forme di governo,
l’idea di una confederazione universale è contraddittoria. In questo
si manifesta una volta di più la superiorità morale del sistema
federativo sul sistema unitario, esposto a tutti gli inconvenienti e
a tutti i vizi dell’indefinito, dell’illimitato, dell’assoluto e
dell’ideale.
L’Europa stessa sarebbe troppo grande per una confederazione unica:
essa potrebbe formare soltanto una confederazione di confederazioni.
È in base a questo concetto che, nella mia ultima pubblicazione,
indicavo come primo passo da fare nella riforma del diritto pubblico
europeo il ristabilimento delle confederazioni italiana, greca,
batava, scandinava e danubiana, come preludio alla
decentralizzazione dei grandi Stati e, in seguito, al disarmo
generale.
Ogni nazionalità tornerebbe allora alla libertà e prenderebbe corpo,
in tal caso, l’idea di un equilibrio europeo, auspicato da tutti i
pubblicisti e gli uomini di Stato, ma irrealizzabile finché
sussisteranno grandi potenze unitarie.
Non meraviglia quindi che l’idea di federazione, condannata a una
esistenza quieta e modesta, a vivere sulla scena politica il ruolo
più negletto, sia rimasta sino ai nostri giorni offuscata dallo
splendore dei grandi Stati. Avendo sempre i pregiudizi e gli abusi
di ogni genere pullulato e infierito con la stessa intensità sia
negli Stati federativi che nelle monarchie feudali o unitarie –
pregiudizio di nobiltà, privilegio di borghesia, autorità della
Chiesa, con la conseguente totale oppressione del popolo e servitù
dello spirito – la libertà è rimasta imprigionata in una camicia di
forza e la civiltà impantanata in un invincibile status quo.
Nel sistema federativo, simili motivi di apprensione non esistono.
L’autorità centrale, promotrice più che esecutrice, non dispone che
di una parte assai limitata della pubblica amministrazione, quella
che concerne i soli servizi federali; essa è posta sotto il
controllo degli Stati, padroni assoluti di se stessi, che godono,
per quanto rispettivamente li concerne, dell’autorità più completa,
legislativa, esecutiva e giudiziaria. Il potere centrale è meglio
subordinato in quanto è affidato a un’assemblea formata dai delegati
degli Stati, membri anch’essi, molto spesso, dei relativi governi,
che per questa ragione esercitano sugli atti dell’assemblea federale
una sorveglianza tanto più accurata e severa.
Come dal punto di vista politico due o più Stati indipendenti
possono confederarsi per garantire reciprocamente l’integrità dei
rispettivi territori o per proteggere le proprie libertà, così dal
punto di vista economico possono confederarsi per la protezione
reciproca del commercio e dell’industria, realizzando quel che si
chiama «unione doganale». Si possono confederare, inoltre, per la
costruzione e la manutenzione delle vie di comunicazione, strade,
canali, ferrovie, per l’organizzazione del credito e
dell’assicurazione, ecc.
Lo scopo di queste particolari federazioni è di sottrarre i
cittadini degli Stati contraenti allo sfruttamento capitalista e
burocratico tanto all’interno che all’esterno; esse costituiscono
nel loro insieme, in opposizione al feudalesimo finanziario oggi
dominante, ciò che chiamerò «federazione agricolo-industriale». Non
entrerò al riguardo in una specifica trattazione. Chi da quindici
anni ha più o meno seguito i miei lavori sa cosa intendo dire. Il
feudalesimo finanziario e industriale ha come scopo di consacrare,
attraverso la monopolizzazione dei servizi pubblici, il privilegio
dell’istruzione, la parcellizzazione del lavoro, la remunerazione
del capitale, la disuguaglianza delle imposte, ecc., la fragilità
politica delle masse, il servaggio economico o salariato, in una
parola, la disuguaglianza delle condizioni sociali e delle
ricchezze. La federazione agricolo-industriale, al contrario, tende
a raggiungere per approssimazioni successive l’uguaglianza,
organizzando al minor costo possibile, e in altre mani che quelle
dello Stato, tutti i servizi pubblici, mediante la liberalizzazione
del credito e dell’assicurazione, con la perequazione dell’imposta,
garantendo il lavoro e l’istruzione, per mezzo di una combinazione
del lavoro che permetta a ogni lavoratore di divenire da operaio
semplice operaio specializzato, e da salariato impiegato. Una simile
rivoluzione non potrebbe evidentemente essere opera di una monarchia
borghese né di una democrazia unitaria: è compito della federazione.
Essa non rientra nel contratto unilaterale o di «beneficenza», né
nelle istituzioni di carità; rientra invece nel contratto
sinallagmatico e commutativo. Considerata in sé, l’idea di una
federazione industriale che serva di complemento e ratifica alla
federazione politica riceve la conferma più evidente dai principi
dell’economia. È l’applicazione sulla più alta scala dei principi di
mutualità, della divisione del lavoro e della solidarietà economica
che la volontà del popolo trasformerebbe in leggi dello Stato.
Che il lavoro resti libero, che il potere, più letale per il lavoro
dello stesso sistema comunista, si astenga dall’intervenire in
questo campo: e sarebbe ora! Ma le industrie sono sorelle, sono
legate tra loro: l’una non può soffrire senza che le altre ne
risentano. Che si federino dunque, non per assorbirsi e fondersi, ma
per garantirsi mutualmente le condizioni di prosperità a loro comuni
e di cui nessuno può arrogarsi il monopolio. Formando un patto di
tal genere non porteranno alcun attacco alla loro libertà, non
faranno che imprimerle, anzi, più certezza e più forza. Accadrà di
esse ciò che si verifica per i poteri dello Stato o per i vari
organi di un animale, in cui la potenza e l’armonia sono il
risultato della suddivisione.
Così, fatto mirabile, la zoologia, l’economia politica e la politica
si trovano qui d’accordo per dimostrarci, la prima, che l’animale
più perfetto, con gli organi più efficienti e quindi più attivo, più
intelligente e meglio costituito per dominare, è quello nel quale le
facoltà e gli organi sono più specializzati, suddivisi, coordinati;
la seconda, che la società più produttiva, più ricca, più
salvaguardata dall’ipertrofia e dal pauperismo, è quella in cui il
lavoro è meglio diviso, la concorrenza più aperta, lo scambio più
leale, la circolazione più regolare, il salario più giusto, la
proprietà più legale, tutte le industrie, infine, reciprocamente
garantite; la terza, infine, che il governo più libero e più morale
è quello in cui i poteri sono meglio divisi, l’amministrazione
meglio ripartita, l’indipendenza dei gruppi più rispettata, le
autorità provinciali, cantonali, municipali meglio servite da quella
centrale: in una parola, il governo federativo.
Riassumendo, così come il principio monarchico o di autorità ha come
primo corollario l’assimilazione o incorporazione dei gruppi che si
annette, in altri termini la centralizzazione amministrativa, ovvero
ciò che si potrebbe ulteriormente definire la messa in comune di
tutte le funzioni; come secondo corollario, l’indivisione del
potere, altrimenti detto assolutismo; come terzo corollario, il
feudalesimo terriero e industriale; allo stesso modo il principio
federativo ha come primo corollario l’indipendenza amministrativa
dei gruppi aggregati; come secondo corollario, la separazione dei
poteri in ogni Stato sovrano; e infine, come terzo corollario, la
federazione agricolo-industriale.
* Nella dottrina di Jean-Jacques Rousseau, che è quella di
Robespierre e dei giacobini, il contratto sociale è in verità una
finzione dei giuristi immaginata per render ragione, senza ricorrere
al diritto divino o all’autorità paterna o alla necessità sociale,
della formazione dello Stato e dei rapporti tra il governo e gli
individui. Tale teoria, mutuata dai calvinisti, era nel 1762 un
progresso, poiché mirava a ridurre a un principio razionale quanto
fino ad allora era stato considerato come una semplice conseguenza
della legge di natura e del sentimento religioso. Nel sistema
federativo, invece, il contratto sociale è più che una finzione: è
un patto positivo, effettivo, che è stato realmente proposto,
discusso, votato, adottato, e che si può modificare regolarmente a
volontà dei contraenti. Fra il contratto federativo e quello di
Rousseau e del 1793 c’è tutta la distanza che passa fra la realtà e
l’ipotesi [nota di Proudhon].
[Da Du principe fédératif, trad. it.: La questione sociale,
Veronelli, Milano 1957, pp. 91-103].
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