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Felice Orsini
Memorie Politiche
A fare l'Italia bisogna disfare le sêtte.
UGO FOSCOLO, Discorso Primo sulla Servitù dell'Italia
GIOVANI!
A voi dedico la succinta narrazione dei fatti e rivolgimenti, dei
quali fin dal 1833 fui testimone e parte; perché conosciate
la ragione dell'odio profondo, che deve nutrire il patriota
italiano contro il papato, il dispotismo interno, e la dominazione
straniera; - perché conosciate gli uomini, ch'ebbero in
mano le sorti patrie nel 1848, e che pretendono dare oggi la
direzione al moto nazionale; - e conosciate infine gli errori, che
di rovescio in rovescio hanno condotto gli Italiani nella presente
schiavitù, ed i repubblicani nella discordia, nella
sfiducia, e nell'impotenza.
Dalla esposizione delle quali cose verrà in luce:
Che le norme direttrici di chi ha cuore italiano esser debbono la
Cospirazione e l'Azione; costanti, efficaci, potenti; e non cieche
o pazze o meschine, siccome furono sino ad ora;
Che dovete voi stessi fare la rivoluzione, e non aspettare inerti
che vi venga da noi; i quali, nella maggior parte, per l'esiglio
di molti anni, siamo ignari delle reali condizioni dell'Italia;
Che siete tratti in inganno, quando vi si dice aver noi,
fuorusciti, potenza di mezzi in armi, in danaro e uomini, atti a
porre in rivoluzione gli Stati Italiani;
Che, non mettendo a calcolo i soccorsi che noi medesimi possiamo
recarvi, avete incessantemente a spiare gli andari tutti del
nemico; organizzarvi in segreto e con attività, onde
conoscervi l'un l'altro, e alla prima occasione levarvi tutti come
un sol uomo;
Che la Indipendenza può bensì esservi data da una
Monarchia costituzionale, ma che la vera libertà politica e
religiosa non può aversi se non se quando le altre nazioni
insorgeranno contro il dispotismo, e le une delle altre si
renderanno solidali;
Che le sorti della causa della libertà italiana ed europea
sono riposte in voi, nella generazione che sta crescendo, e non
già nei rivoluzionari del 1848, i quali, per gli errori, le
sconfitte, e gl'inganni dei principi e delle fazioni, caduti sono
nello scetticismo e nella corruzione dell'animo.
Se i miei scritti saranno valevoli a persuadervi col fatto delle
verità accennate, mi terrò soddisfatto pienamente
per quel qualunque pericolo che io possa incontrare nello averle
date francamente al pubblico.
Londra. ottobre 1857.
FELICE ORSINI
PARTE PRIMA
CAPITOLO PRIMO
Nacqui in Meldola, piccola città dello Stato Romano, nel
dicembre del 1819; ed ebbi a genitori Andrea Orsini di Lugo e
Francesca Ricci di Firenze. A nove anni fui affidato alle cure di
mio zio paterno Orso Orsini, dimorante in Imola, il quale
risguardommi come figlio. Da lui m'ebbi educazione severa, attiva,
studiosa, soverchiamente religiosa, ma onesta.
Nel 1831 scoppiò la rivoluzione a Modena, Parma, Bologna,
ed a guisa di lampo si estese nelle Romagne e nelle Marche.
Gli Austriaci, ne' quali dopo il 1815 risiedette la tutela dei
governi italiani, invasero le provincie insorte per ischiacciarle.
Alcuni combattimenti ebbero luogo: i liberali mostrarono molto
valore, ma alla fine fu forza cedessero alla sproporzione del
numero ed alla disciplina delle soldatesche imperiali.
Le dottrine repubblicane serpeggiavano di già tra qualche
studente e letterato, ma doveansi considerare un frutto degli
studî dell'antichità e delle società segrete,
anziché una tendenza generale degli animi colti, i quali a
quell'epoca ebbero a scopo soltanto franchigie costituzionali.
Quanto alle masse popolari, parte mostrossi favorevole ai moti,
per desiderio - come sempre - di novità; parte per
avversione ai governi esistenti, da cui non aveva avuto che
miseria e prigioni; e parte infine per gli eccitamenti dei
carbonari.
Il sentimento di Una Italia indipendente non esisteva nella classe
infima della società; e tra la media ed istrutta era, se
abbiamo a parlar vero, ben poca cosa. Gli avvenimenti della
rivoluzione francese, l'impero di Napoleone, e il genio di
quest'uomo, avevano elettrizzato gl'Italiani, scosse le loro
immaginazioni, dato un febbrile impulso alle passioni tutte del
cuore, comunicato il moto, la vita, l'attività; e
ridestarono il sentimento di libertà e d'indipendenza ad
una nazione, che per secoli sembrava addormentata tra gli amori,
le dolcezze del clima, e corruttele di ogni sorta.
Ma il cambiamento sopravvenuto nelle idee e ne' sentimenti quasi
del tutto disparve al cader dell'astro, che n'era stato cagione;
tanto perché non avevano avuto campo di mettere salde
radici, quanto perché la rivoluzione era stata passiva e
non attiva.
E questa fu la ragione che nelle sommosse o insurrezioni
posteriori, invece di agire per profondo sentimento nazionale, si
diedero gli Italiani a scimiottare le forme costituzionali, che
venivano inaugurate oltremonti, volendo che a quelle fossero
discesi i piccoli governi italiani.
Ne nacque che i rivolgimenti del 1831 s'ebbero l'impronta della
parzialità e della meschinità; furono dislegati;
pochi accorsero all'armi, e mancò l'entusiasmo. Per colmo
di ridicolezza, i reggitori di Bologna richiamavano a vita le
tradizioni municipali, ed a' soldati modenesi facevano deporre le
armi al passo del confine, pretestando che rispettar dovevasi il
principio del non intervento.
Così il pensiero della comune e reciproca difesa tra
popoli, aventi a comune e cielo, e lingua, e religione, e
fisionomia, e origine, e sangue, e nome, si rimase nei nudi
termini dell'astratto.
Alla indipendenza italiana non pensarono che pochi, e parve che
fosse poi causa o delle sêtte, o della fiacchezza
universale, che si avesse fatto un passo retrivo.
Che che ne sia, a eccitare gl'Italiani non erano mancate le
speranze, o per meglio dire, le promesse di appoggio dei liberali
francesi e dello stesso Luigi Filippo, il quale per conto proprio
avea d'uopo di creare ostacoli all'Austria, e di tenerla occupata
in Italia. Anche il duca di Modena, non vi era estraneo; e nella
cospirazione, che precedette i moti, accennava ad esser fatto re
d'Italia. Le promesse dei Francesi e dei principi finirono, come
d'ordinario, con tradimento e lutto delle popolazioni.
La Francia aveva dichiarato dall'alto della tribuna la
inviolabilità del principio di non intervento: indi con
gesuitiche frasi lo calpestava; e i suoi soldati, dopo la commedia
della presa di Ancona, venivano a tutelare gl'interessi del papa,
e a fare l'ufficio di sbirri. Dal canto suo, il duca di Modena
diè mano agli impiccamenti, ed immolò alcuni dei
più distinti Italiani per ingegno, amor patrio e stima
universale. Negli stati in rivoluzione, e in quelli stessi ove
soltanto era apparso qualche indizio di riscossa, furonvi
prigioni, esigli, confische, e buon numero di famiglie travolte
nel pianto e nella miseria.
Agli andazzi di furibonda e presta reazione tenne dietro lo
spionaggio, ridotto a sistema, e s'inaugurò il regno delle
corruttele e degli assassinî governativi.
Non pago il papa al dispotismo esercitato sotto gli auspici delle
baionette francesi e austriache, pensò d'instituire un
corpo di milizie irregolari, cui diede nome di Centurioni.
A questo, i più assennati tra i liberali consigliavano
dovere ognuno indistintamente inscriversi ne' ruoli. Dicevano, e
non senza fondamento, che si presentava occasione di esercitarsi
alle armi, di convenire assieme, di farsi padroni del campo non
appena gli stranieri avessero lasciato lo stato, di avere
tacitamente una guardia nazionale, ossia un piccolo esercito
costituito.
Gli sciocchi e coloro che guardano alla corteccia, anziché
al midollo delle cose, derisero gli avvisi salutari, dicendo che
non volevano né manco per apparenza essere soldati del
papa. Si preferì adunque di starsene inermi; che ne
avvenne? Mi accingo a dirlo.
Le nuove milizie si raggranellarono tra' contadini nelle campagne,
e tra' facchini nelle città. I primi si esonerarono
dall'obbligo di portare la ghiaia per mantenimento delle pubbliche
strade e di alcuni altri pesi; si diede ai secondi un sussidio
quotidiano. A tutti poi due paoli romani al giorno, quando
trovavansi in attività di servizio. Non mancarono,
com'è naturale, gli eccitamenti del parroco, del
confessore, delle donne bigotte, e le promesse di avanzamenti,
ecc., cosicché la nuova soldatesca papale contò
nelle sue file in breve tempo ben meglio di 50.000 teste. Quanto
agli uffiziali, si tolsero dai nobili, o da chi s'era distinto per
zelo di persecuzione contro i liberali e prima e dopo i
rivolgimenti politici.
I centurioni non furono acquartierati: s'ebbero facoltà di
tenere l'armamento nelle rispettive abitazioni, e solo ne'
dì festivi e di solennità si distinguevano per
divisa militare a loro speciale.
Per essi nulla v'aveva di sacro; dal loro fanatismo non si
risparmiava né sesso, né età, né
ingegno, né distinzione di natali. L'astenersi
dall'ascoltar messa, il portare peli sul mento si tenevano per
sufficiente indizio di liberalismo; e chiunque era in voce di
liberale, veniva pugnalato o crudelmente bastonato; talché
la gioventù un po' civile od usciva poco, o sul far di
notte si ritraeva alle proprie abitazioni, quello essendo appunto
l'istante in che i centurioni mettevano mano alle infamie loro.
Tale uno stato di cose dava nascimento e vigore alle sêtte,
che furono mai sempre una delle principali piaghe italiane, e si
originavano gli odî, i quali finivano colle sanguinose e
proditorie vendette, che toglievano la sicurezza individuale, e la
persona ora del padre, ora del figlio, ed ora del fratello di una
stessa famiglia. Le rappresaglie, che tratto tratto facevano i
liberali contro i centurioni, conturbavano ciò non ostante
i sonni dei sanfedisti; onde si avvisò di creare un corpo
di truppe estere, che rimanessero al servigio papale, quand'anche
gli Austriaci e i Francesi se ne fossero andati.
Si volse dapprima la mente ai cattolici d'Irlanda; ma, dopo breve
disamina, ne fu deposto il pensiero. Si ricorse allora agli
Svizzeri, la cui antica rinomanza di fedelissimi mercenari dava a
bene sperare. A tal fine furono aperti i ruoli ed ai primi
uffiziali, che avevano servito sotto Carlo X in Francia, e che
n'erano stati cacciati per la rivoluzione del 1830, venne affidata
la nuova organizzazione. Scesero ben presto dalle elvetiche
montagne, ove la libertà è un nome santo, degli
sciami di montanari, i quali traevano ad offrire le loro persone
al dispotismo papale, perché desse loro un vilissimo soldo.
Si ordinarono in due reggimenti di fanteria, ed in una batteria di
cannoni da campo. L'odio e lo sprezzo delle popolazioni per
costoro fu senza pari: si preferivano Austriaci e Francesi; e
ciò bene a ragione: che questi erano trascinati al servizio
per legge di coscrizione, di disciplina e di bastone; mentre
quelli facevansi vile strumento della tirannide per propria
scelta, e lasciavano la loro sede libera per tenere schiavi dei
popoli, che aspiravano a libertà.
D'allora in poi il governo papale ebbe a sua disposizione truppe
indigene regolari, vale a dire papalini e gendarmi; milizie
irregolari, ossia Centurioni; truppe regolari estere, ossia
Svizzeri; infine, i soldati che Austria e Francia avevano spedito.
Tutta questa amalgama faceva di puntello alla pericolante
navicella di San Pietro!
L'avere opposto i cittadini tra di loro diede nascimento a due
fazioni bene distinte: l'una detta dei briganti, e l'altra dei
liberali.
I primi, partigiani del governo papale e degli Austriaci, si
chiamavano del Due, perché la bandiera di questi era di due
colori. I secondi, aderenti alla causa nazionale, si dicevano del
Tre, perché seguitavano l'insegna italiana. La rabbia
cittadina giunse a tale, che i giovani, incontrandosi, si
fermavano l'un l'altro, chiedendosi: Sei del Due o del Tre? Ove
avessero combinato, tutto procedeva quietamente; ove no, si
uccidevano a colpi di coltello.
Per aggiungere lo scherno alla infamia, il pontefice volle che i
gesuiti percorressero le Romagne a far le missioni. Vennero;
profondevano indulgenze plenarie; piantavano croci nelle pubbliche
piazze; accendevano le menti degli ignoranti con ogni specie di
falsità; proclamavano aperto il paradiso solo a chi
difendeva il papa dalle male intenzioni dei liberali: ciò
essere, predicavano, decreto di Cristo, della Vergine, e di tutta
la sequela dei santi.
Alle costoro insinuazioni il fanatismo toccava gli estremi; le
vendette e le atrocità crescevano; i contadini ricusavano
di lavorare le terre; i domestici, di più oltre prestare
servigio ai padroni in voce di liberali; e le infelici popolazioni
delle Romagne avvolte erano nel lutto e nella miseria.
Lo infierire delle fazioni andava sempre perdurando, e le
società segrete, tanto quelle che servivano di puntello al
fanatismo papale, come quelle dei liberali, dispiegavano la
più grande attività.
Si chiamavano le prime Sanfedismo, e Società Ferdinandina;
le seconde Massoneria, Carboneria riformata, e Associazione dei
Muratori. Alle quali è d'uopo aggiungere quella della
Giovine Italia, istituita da Giuseppe Mazzini nel 1831. La quale,
quantunque non popolare, e non repubblicana, tendeva più
delle altre due a uno scopo positivo, di guerra, di unità e
d'indipendenza patria.
Avvicinandosi l'anno 1838, le truppe francesi ed austriache
lasciarono lo stato: e i liberali cominciarono a concepire nuove
speranze.
A quest'epoca appunto mi trovava a compiere gli studî nella
Università di Bologna, e veniva in grande dimestichezza con
alcuni giovani, che si dicevano capi-sezione delle varie
società segrete liberali. La Carboneria, la Massoneria, e
l'Associazione dei Muratori non erano in generale in grande
concetto; i loro membri sembravano fiacchi e quasi stanchi. Invece
gli affiliati della Giovine Italia, come avviene di qualunque
instituzione che sia sul nascere, mostravano grande ardore e
personale abnegazione. Virtù, moralità,
libertà patria, aspirazioni e pensieri di nuova religione -
non formulata però - erano le parole che ad ogni istante si
udivano da loro.
Ma questo fare cessò ben presto; e nel 1842, degli adepti a
questa associazione, alcuni se n'erano distaccati, dicendo che non
faceva mestieri di società segrete per redimere l'Italia;
ed altri, abbandonando tutto ciò che sapeva di poesia e di
sentimentalismo religioso, ne seguivano soltanto i precetti che
accennavano all'azione: i soli pratici, logici, e degni veramente
degl'Italiani. Tutti però senza astio e invidia davansi la
mano, onde atterrare il governo papale, e creare moti che avessero
potuto iniziare la guerra della indipendenza nazionale: sentimento
che il bastone, le galere, gli assassinî governativi, e gli
esigli di 20 anni avevano omai potentemente rafforzato.
Si approssimava intanto l'estate del 1843, e le voci di
rivolgimenti nel reame di Napoli, che avevano ad essere seguitati
da altri nello Stato Romano, andavano per ogni dove. La
gioventù della Università faceva piani sopra piani,
e si accordava coi giovani più ardenti della città;
ed io stesso ebbi campo di trovarmi vincolato in amicizia con
alcuni, che figuravano come capi nei moti che di lì a poco
scoppiarono.
Alcuni agenti del partito liberale, tornati da Napoli, riferirono
tutto essere ivi in pronto per la rivoluzione; grandi e potenti i
preparativi; accesi gli animi; l'esercito, se non tutto, gran
parte dalla loro; la riuscita non dubbia.
Le quali novelle, sia detto tra parentesi, non erano altro che un
bel parto della immaginazione del conte Livio Zambeccari. Le
stesse cose poi si narravano a Napoli e nelle Calabrie intorno
alla prontezza di Bologna e delle Romagne. Ciò avveniva nei
più impazienti del partito liberale; ché questo si
divideva già in caldi e freddi, ossia esaltati e moderati.
I secondi avevano pure inviati i loro agenti; ma le nuove, che
apportavano, erano contrarie alle prime, e, a dir vero, più
conformi allo stato reale delle cose. Ma che che ne fosse, i primi
vollero tentare; e prendendo sempre le mosse dal falso giudizio,
che gli Italiani fossero pronti a levarsi come un sol uomo al
primo cenno, stimarono che un pugno di giovani potesse dare
l'impulso a tutta la nazione.
S'ingannarono dunque a vicenda; e parte, a bello studio.
Prima però d'incominciare, sorsero voci di differire, nel
seno stesso del partito: ma no, avanti; da cosa nasce cosa. Alcuni
ardenti giovani, di Bologna, si gettarono ai monti; una mano dei
più animosi popolani li seguitò, e si venne
così formando una banda d'insorti. A Napoli nulla, nelle
Romagne nulla.
Il governo papale prese le più rigorose disposizioni;
pattuglie, sentinelle in ogni parte; cannoni nelle piazze;
assembramenti di popolo proibiti; tutte le truppe in moto. Nelle
circostanti colline furonvi de' parziali conflitti tra i liberali
da un lato, gli Svizzeri e i gendarmi dall'altro: si mostrò
valore da tutte le parti, ma più dai popolani non abituati
alla guerra, alla disciplina, e al maneggio delle armi.
Le Romagne mostravansi agitate, e nell'interno stesso di Bologna
avevano luogo degli scontri armati.
La gioventù delle varie città dava mostra di volersi
levare; essa spiava i movimenti delle truppe assai attentamente, e
li comunicava con rapidità da un luogo all'altro:
attività, costanza e audacia in ogni impresa. Ma tentato un
moto per impadronirsi della città d'Imola dal colonnello
Ribotti, e riuscito a male, gli animi si sconfortarono, le bande
della montagna vennero disperse, e si diè mano ad
innumerevoli arresti.
I capi, tanto quelli che combatterono, come coloro che, per una
saggia prudenza (e furono i più), non s'erano mostri, si
ridussero in salvo; il governo infierì. Da tutto questo
venne in luce un fatto, cioè che il debolissimo governo
papale valeva di per sé a sopprimere i moti
rivoluzionarî ed a tenere in freno le popolazioni.
Questo l'effetto della disunione del partito liberale, e della
sventatezza di chi volle incominciare senza avere una
probabilità, che gli altri stati italiani potrebbero
seguitare il movimento.
I colonnelli Freddi e Cavana, il primo come capo della generale
polizia dello stato e della commissione militare, il secondo come
direttore delle spedizioni militari contro le bande, si distinsero
sopra ogni altro in favore del dispotismo papale, per crudezza e
animo vendicativo.
Sopravvenne l'inverno: lo stesso sistema in vigore. I liberali
proseguivano costanti nel cospirare, e il governo tuttodì
arrestava gente: tra i prigionieri fuvvi certo Eusebio Barbetti di
Russi; gli si rinvennero alcuni brani di un piano rivoluzionario,
spedito a Nicola Fabrizi a Malta, e ch'ei non ebbe campo di
abbruciare.
Erano di mia scrittura e senza alcun nome: stetti in forse di
esulare; ma, dopo alcuni giorni di precauzione, ebbi pel meglio di
non lasciare il mio paese.
Intanto tale era l'ardore de' giovani, che non appena alcuni
venivano arrestati, altri in loro vece subito sorgevano, pari in
audacia e in amor patrio.
A quei giorni si mostrò un ardire senza esempî, e
tale effervescenza popolare durò fino al momento in che
spirò Gregorio XVI.
Ognuno agiva da per sé allo scopo comune di rovesciare il
governo; trovavasi il danaro per la rivoluzione dai cittadini
stessi, e non si aveva d'uopo di mendicare, con onta nazionale,
presso lo straniero. Se si eccettua l'alta aristocrazia, la quale
in Italia è generalmente ignorante, amica all'Austria, al
papa, o a qualunque straniero, purché dispotico, molti
nobili e proprietari piccoli e grandi non si mostravano certamente
avari. Esisteva una nobile emulazione fra tutte le classi della
popolazione, e la setta sanfedistica e i centurioni erano scemati
in numero, potenza e forza.
Può dirsi che i pretesi capi, dimoranti in estranee
contrade, non avevano parte diretta in questi moti: li
assecondarono, soffiarono per entro al fuoco che covava, ma non li
crearono né coi discorsi o proclami, né coi mezzi di
armi o di pecunia. Egli è però vero, che la Giovine
Italia non se ne stava inerte; e quantunque non in gran pregio,
spediva genti tanto nelle provincie romagnole, come all'estero,
per far tesoro di qualunque elemento d'azione. Ma la sorda e
profonda agitazione era cagionata dai bisogni delle popolazioni e
dal dispotismo papale ogni dì più crescente.
Una setta, o pochi fuorusciti strettisi in segreta associazione o
in comitato, possono muovere bensì una mano di malcontenti,
od anche di giovani bravi ed ardenti, ché in ogni regione
ve n'hanno sempre; ma essere cagione di una rivoluzione generale,
se gli spiriti non sono propizi a ricevere i cambiamenti, no. Le
rivoluzioni sono conseguenza di un bisogno universalmente sentito,
e non soddisfatto dai governi; nascono spesso per casi impensati,
come si è veduto a Genova pel trasporto del mortaio nel
1746, e a Parigi più volte. Ma perché l'occasione
dia moto alle passioni, e faccia che il popolo insorga, è
mestieri che la rivoluzione morale sia compiuta, la oppressione
universalmente sentita, l'odio contro il dispotismo straniero o
interno profondo e inveterato nei visceri della società.
A quei momenti di universale eccitamento, alcuni dei più
caldi miei amici architettarono de' piani, e li mandarono a Nicola
Fabrizi a Malta e a Lovatelli a Ravenna. Ma per quanta prudenza
s'avesse, tutti questi andari non isfuggirono all'occhio vigilante
delle polizie: i nostri passi furono notati, e il 1° maggio
del 1844, alle ore tre del mattino, quindici gendarmi col
colonnello Stanislao Freddi recaronsi alla mia stessa abitazione,
posero sossopra ogni cosa, e dopo otto ore di minutissime
ricerche, arrestarono mio padre. Di lì a poco fu forza a me
medesimo di seguitarlo assai bene incatenato. Venni messo nelle
carceri di San Giovanni in Monte.
CAPITOLO SECONDO
Nonostante che fossi stato perquisito rigorosamente, il custode
Campari mi denudò. Era la prima volta che vedeva le
prigioni: al passare i lunghi corridoi sentii offeso l'odorato dal
tanfo tutto proprio di que' luoghi di tristezza; puzza orribile, a
cui era ben lungi dal credere di dovermi abituare in modo da
più non distinguerne la dispiacevole influenza. Nella
segreta destinatami mi trovai con tre prigionieri a me incogniti,
uno dei quali condannato a morte pei moti del 1843.
Non appena i secondini mi lasciarono con essi, che un di loro
percosse con le pugna nel muro, e in un attimo si seppe da un lato
all'altro delle carceri che ero stato arrestato.
Con gli stessi segni venne risposto: Coraggio, allegri. Il primo
dì me la passai tristemente: la segreta era piccola, e a
mala pena capace di quattro individui: una fitta grata nella parte
esterna della finestra ci toglieva di poter respirare liberamente;
e il caldo, che già facevasi sentire, rendeva anche
più molesta la nostra condizione, tanto che sembravami di
non poterla durare a lungo. Di giorno come di notte, di due in due
ore, si aveva visita carceraria.
Si venne sul parlare degl'interrogatorî, e ne ebbi le
più minute istruzioni dai compagni, già fatti
esperti in simili materie.
Il secondo giorno seppi dai muri, che il mio amico Eusebio
Barbetti era in quelle stesse carceri, e potemmo metterci in
comunicazione.
Il terzo giorno, sul far di sera, fui improvvisamente condotto
nelle camere del custode: chiuso in una di esse, m'ebbi a fronte
due persone del tutto nuove per me. La debole luce di una candela
rischiarava appena la oscurità che v'era tutto all'intorno;
l'apparato aveva qualche cosa di tristo e di lugubre. Una di esse
stava scrivendo, e abbassava molto il capo, come chi non ci vede
molto; l'altra mi guardava in volto e giacevasi a guisa di essere
immobile. Questi era Attilio Fontana, giudice processante della
Commissione militare; l'altra il segretario. Aveva faccia pallida
e magra, occhi neri, incavati e scrutatori.
Fissatomi un istante, mi invitò freddamente a sedere al
cospetto di lui: ciò feci, e per quanta forza mi avessi,
dava segni di non dubbio timor panico.
Descritti i connotati, incominciò in questi termini:
"Sapete voi per qual motivo siete stato arrestato?"
"No, signore."
"Avete udito parlare de' movimenti della state scorsa?"
"Sì, signore."
"Vi avete dato mano?"
"No."
"Conoscete il marchese Pietramellara, il conte Zambeccari,
Biancoli, Lovatelli, Turri, Muratori?"
"No, signore."
"Conoscete Eusebio Barbetti?"
"Sì, signore."
"Qual relazione vi lega a lui?"
"Superficiale."
"Voi negate tutto" ei prese a dire con tuono di crescente
severità e asprezza. "Voi volete rovinarvi, povero giovane:
io vi compiango; siete sul fiore dell'età. Ventuno de'
vostri compagni sono stati condannati a morte, a giorni si ha da
eseguirne la sentenza: e voi, voi sarete il ventesimo secondo. Ma
seguitiamo innanzi. Conoscete voi questo carattere?" E posemi
davanti i brani scritti da me, e rinvenuti a Barbetti.
"Sì, signore" risposi.
"Spiegatevi su di ciò, e subito."
"Un giorno" soggiunsi io "trovai per istrada un foglio mezzo
cancellato: mosso da curiosità, il volli copiare; lo
lacerai poscia, e mi avvidi di averlo perduto di tasca."
A questo egli atteggiò la bocca ad un sorriso beffardo, e
disse:
"Menzogne e poi menzogne. Questi fogli aveva in possesso l'amico
vostro Barbetti, e sono appunto la parte di un piano
rivoluzionario. Non volete confessare? ebbene, finirete male".
Dopo di che suonò il campanello, e fui riconsegnato ai
secondini.
Esposi tutto ai miei compagni di segreta, i quali meco si
rallegrarono pel contegno tenuto.
La notte dormii pochissimo, diedi in alcuni sospiri; mi stavano
dinanzi que' fogli ritrovati e prevedeva una ben trista sorte.
Prima del mio arresto conosceva già de' ventuno dannati a
morte; la voce ne era pubblica: cattivo principio davvero.
La domenica, quinto giorno di prigionia, alle due del mattino, fui
desto e fatto levare dal mio sacco; seguii due secondini, che
tenevano una fiaccola in mano, e discendemmo insieme le lunghe
scale.
"Dove si va?" domandai.
"Non sappiamo" fu la risposta.
Giunti a basso, mi trovai in faccia di parecchi carabinieri: mi
frugarono le tasche, le vesti, e m'incatenarono con un giovane
(Rizzoli, amanuense del dottor Galletti); indi, fattici salire in
una carrozza, partimmo, senza sapere per qual direzione.
Nell'interno avemmo due gendarmi, un altro a lato del vetturino, e
due a cavallo facevano da avanguardia e retroguardia; gli
sportelli chiusi.
Come pervenimmo a Imola, ci fermammo un istante fuori delle porte
a cambiar cavalli. Si aprirono gli sportelli, e conobbi
ov'eravamo: ivi avea passati gli anni di mia giovinezza. Quante e
quali reminiscenze mi assalirono! Mio zio, il fratello, i comuni
amici piangevano forse sulla mia sorte: era vicino a loro, e non
poteva, non che abbracciarli, vederli!
In brevi istanti ci rimettemmo in viaggio; a Forlì
prendemmo qualche cibo nella caserma dei gendarmi; ivi conobbi il
capitano Freddi(1), figlio del colonnello, il quale usò
verso noi molta asprezza e disprezzo. Per mangiare non ci venne
disciolta che una sola mano; rimanemmo così incatenati
sempre l'uno all'altro.
All'alba del lunedì giugnemmo a Pesaro, vale a dire che
percorremmo da settanta miglia in ventisei ore.
Fui separato dal compagno, e chiuso in una prigione del Palazzo
governativo, detta Segretina, la peggiore di tutte. In linea
diagonale era lunga tre passi, e la sua ristrettezza tale che vi
sarebbero appena stati due sacchi di paglia disposti pel lungo.
Due grosse porte ne chiudevano l'ingresso, e per entrarvi faceva
d'uopo chinarsi a mezza vita. Fatto appena un passo incontravisi
un muro, che si alzava sino alla metà dell'altezza della
porta interna; questo formava il piano della segreta. La finestra
era alta un sette metri incirca, ed i secondini entravano alla
sera con una scala per chiuderne a chiave le imposte. Non potendo
respirare liberamente, una sera percossi la porta assai forte; ma
spossato mi gettai prosteso sul paglione. I secondini vennero, e
mi trovarono svenuto; mi soccorsero di aceto; parlai, addussi la
ragione di ciò, e fu permesso che la finestra sarebbe stata
d'allora in poi aperta. Del resto, visite di due ore in due ore,
sacco di paglia, una sola coperta di grossa lana, e per
soprappiù insetti di ogni sorta.
Passati da quattro o cinque giorni, udii un rumore insolito, uno
stridere di catenacci, un suonar forte di catene; urli e canti da
prigioniero in dialetto bolognese; potei udire alcune
conversazioni; conobbi che dei ventuno condannati a morte,
quattordici erano di passaggio per alla volta delle galere di
Civitavecchia, e sette stati fucilati alle spalle. Questi appunto
erano coloro, che rispondevano a' miei compagni nella segreta di
Bologna e che mi avevano fatto animo.
La morte di quei sette popolani mi ebbe ricolmo di dolore:
l'esordio della mia prigionia non era consolante: galera e
fucilazione; incominciava io stesso a prepararmi.
Intanto passavano i giorni assai lentamente. Al mattino
cantarellava un poco, e talvolta provava di passeggiare; ma, per
l'angustia della segreta, mi girava talmente il capo, che m'era
forza starmene quasi sempre coricato.
Di questa maniera trascorsero quindici giorni e più; allora
ebbi un nuovo interrogatorio dal giudice Piselli, e tranne di
nuovi incidenti di poca importanza tanto dal canto suo che dal
mio, fu conforme a quello di Bologna.
Dopo non molto il custode Corvini mi pose in compagnia di Enrico
Serpieri e di certo Borzatti, riminesi, e di mio padre; questi,
alquanto sparuto, usciva di fresca e grave malattia.
Il mattino dopo, incatenati a due a due, fummo condotti nelle
carceri di Urbino. Stemmo ivi da sei giorni; dopo di che posti a
cavallo e bene incatenati ci avviammo verso la fortezza di San
Leo: ventiquattro soldati formavano la scorta. Era il principio di
giugno, e il sole scottava soprammodo.
A Macerata Feltria riuscimmo ad avere comunicazione con Renzi di
Rimini, amico di Serpieri. Egli e un quaranta de' suoi compagni
erano pronti a liberarci nel tragitto, che dovevamo fare per
giugnere a San Leo, loro mente essendo di assaltare la scorta,
quando si attraversavano de' monti ricoperti da folti boschi.
Serpieri, col quale il Renzi s'intertenne, rifiutò la
proposta, dicendo che nell'improvviso assalto le persone di due
padri di famiglia (il mio ed il Borzatti) correvano pericolo;
mentre che, per avere nulla fatto contro il governo papale,
sarebbero stati in breve posti in libertà. Se il Serpieri
fu mosso al rifiuto da tale pensiero, come ho per fermo, non vi
sono certo parole bastevoli di encomio.
Egli fu sempre un ardente patriota, in grande estimazione appo i
Romagnoli, e lo si ebbe per uno de' capi di molta influenza,
attività e coraggio.
Sul far del dì riprendemmo il nostro cammino; la campagna,
le castella e le boschive montagne per le quali si passava, ci
ricreavano alcun poco; e tale sensazione ne veniva maggiormente
accresciuta dal pensiero, che in breve si aveva di nuovo ad essere
racchiusi tra quattro muri. Assai di lontano vedemmo sorgere San
Leo; ed io andava ripetendo l'antico adagio degli abitanti delle
vicinanze:
Sol un Pepa,
Sol un De',
Sol un forte di San Le'.
Quando l'orizzonte è chiaro, si vedono le montagne della
Dalmazia; e le bianche vele, e i presti e sottili legni che
solcano il seno dell'Adriatico, e le azzurre onde di questo, e le
verdeggianti campagne che si distendono dal forte alla marina,
fanno una vista ricca di svariate bellezze.
A settentrione evvi la piccola città di San Leo: essa giace
al piè del forte, col quale comunica per mezzo di un
cammino assai erto e fatto di svolte. La città, che novera
un 500 abitanti o a quell'intorno, è fortificata e recinta
di alte mura. Ha una sola porta d'ingresso, e un ponte levatoio.
Il forte di San Leo venne edificato nei secoli che precedettero il
mille, dai signori di Montefeltro; ivi prese ricovero Giovanni
XII, papa, con Berengario, quando Ottone il Grande vi pose
assedio. Esso sorge maestosamente sul picco di altissimo monte di
macigno, ed ha forma triangolare. Nei tempi di mezzo, e quando le
artiglierie non erano ancora in usanza, si aveva per imprendibile:
signoreggia i monti e le castella circostanti: ed all'intorno, se
si eccettua la parte settentrionale, non ha che dirupi. Al sud-est
di esso siede l'antica Repubblica di San Marino, lasciata vivere
dalla diplomazia estera, quasi a derisione degli Italiani.
Spenti i duchi di Urbino, il territorio di San Leo passò
sotto la dipendenza dei papi, i quali vi tennero costantemente un
presidio di alcuni fanti e artiglieri, ne migliorarono le
fortificazioni, ne armarono il lato settentrionale con sei od otto
cannoni di ferro, e i rimanenti con alcune spingarde. Fu da essi
destinato a racchiudere i condannati incorreggibili, e i rei di
delitti politici durante la compilazione del processo. Per andarvi
dalla parte di Urbino non vi era, almeno a' miei tempi, alcuna
strada carreggiabile, ed i prigionieri venivano là tratti a
cavallo. L'aria vi è purissima; ma il freddo si fa sentire
assai per tempo; e l'acqua potabile, essendo di cisterna, è
cattiva. Le segrete orribili, anguste, con mura spesse più
di un metro, e con finestre su tre decimetri di lato. Il celebre
Cagliostro terminò i suoi giorni in una di esse, che prese
il nome di Cagliostra.
Alle quattro pomeridiane del giorno che partimmo da Macerata
Feltria, pervenimmo a San Leo. Al ponte levatoio della
città e del forte eravi una compagnia di papalini,
schierata in ordine di battaglia. Tratti alla presenza del
comandante, dopo una rigorosa perquisizione, ci pronunziò
le seguenti parole:
"Signori, eglino sono prigionieri di Stato: è dunque a
supporsi che avrò a fare con persone distinte e bene
educate; indipendentemente da questa mia credenza, so di fatto
ch'e' sono tali. Io mi sto certo ch'essi faranno il loro dovere
rassegnandosi alla sorte; dove no, procedo alla militare: piombo e
baionette".
Com'ebbe così terminato, ci fece mettere tutti assieme in
una segreta detta Spicco, la quale per aver servito da caserma,
era una delle migliori. Le famiglie ci mandavano denari per vivere
del nostro; ma il governo non permise mai che si spendesse
giornalmente più di sei baiocchi a testa(2). Del rimanente,
un sacco di paglia, una coperta di lana, ecc. Il comandante era il
maggiore Debanni, che aveva militato sotto Napoleone: uomo
piuttosto leale, sui cinquant'anni o poco più, esattissimo
nel suo dovere, ma umano. Ci prestava dei libri da leggere e
studiavasi di alleggerire la nostra condizione. Soleva dire: "Ho
prestato giuramento ai preti, e sinché avvi un cappello di
loro, mi batterò per essi: rispetto le opinioni di ognuno,
e so quali riguardi debbono essere usati ai prigionieri di Stato".
Il tempo, come si può di leggieri immaginare, era lungo:
lungo, non ostante che fossimo insieme ed avessimo qualche libro.
Un dì tra gli altri, il comandante, che ben di sovente ci
veniva a visitare, disse: essere stata tentata una spedizione
armata nelle Calabrie; presi ed arrestati i condottieri,
moschettati i fratelli Bandiera ed alcuni altri Italiani. Tale una
notizia ci riempì di tristezza: nuovo sangue italiano
versato pel conquisto della libertà; nuovi martiri, e
inutilmente! Oh! come pungente è l'annunzio di arresti e di
vittime fatte pel principio, pel quale noi stessi siamo prigioni!
Si richiese per noi il comandante di qualche particolare intorno
la spedizione; ma, o fosse ignoranza, o piuttosto mal volere,
asseverò non saperne più oltre. Dal canto nostro,
tentammo una delle vie segrete, e riuscimmo a venire in chiaro
della verità.
Una mano di venti valorosi giovani coi Bandiera e Ricciotti e Moro
avevano sbarcato il sedici di giugno nelle Calabrie, presso la
foce del Neto. Chiamati a libertà gli abitanti, non
rinvennero eco; nessun convegno prestabilito, nessun preparativo
vi aveva; ingannati da falsi rapporti, e dalle esagerazioni del
partito della Giovine Italia, anziché in seguaci si
abbatterono in palle nemiche e traditori(3); e il venticinque
luglio vennero miseramente fucilati gridando: "Viva l'Italia!"
Così finirono quei giovani eroi, degni d'una miglior sorte.
Ma tornando donde mi partii, è a sapersi che durante la
nostra prigionia potemmo combinare una evasione, di concerto coi
soldati di presidio. Si scuoprì, sopravvennero rigori
insoliti, alcuni soldati vennero arrestati, e poscia condannati a
qualche anno di galera.
Gli amici di Serpieri si mostrarono disposti più volte a
farci evadere: erano giunti perfino a poter introdurre tutto che
fosse stato necessario, ma Serpieri stette sempre fermo sul niego.
Del come andasse il nostro processo, s'ignorava: si teneva
però certo, che saremmo stati giudicati dalla Commissione
militare residente a Bologna. Vedendo che le cose procedevano
assai per le lunghe, un dì mi feci annunziare al
comandante. Come fui ad esso, chiesi un foglio di carta dicendo di
voler scrivere alla Commissione: mi si concesse. Alla sua presenza
distesi di mia mano una protesta, il cui sunto è il
seguente:
Domandava il sollecito disbrigo della causa; confermava il deposto
nei miei due interrogatorî; diceva essere innocente;
dichiarava però, che ove avessi operato alcunché,
non avrei fatto che seguitare i doveri che ha ogni Italiano verso
la sua patria; che sapeva assai bene la mia sorte futura; che
l'innocenza non trema; che essa spira sul palco della morte colla
serenità dei Pagano e dei Cirillo, da ogni stilla di loro
sangue migliaia di proseliti rigenerando.
Il comandante sigillò il foglio, e lo spedì al
colonnello Freddi, presidente della Commissione.
Qual cosa m'indusse a far ciò? Il disprezzo per coloro che
mi tenevano in catene; l'amore della mia patria; la brama di far
conoscere ai nostri nemici, che anche al cospetto della morte, che
si apprestano a darci, noi ci ridiamo dei loro tormenti. Alcuni
dei miei compagni dissero, che io aveva agito follemente: qualche
anno dopo n'ebbi invece le congratulazioni da tutti coloro, che la
trovarono nel processo.
Come furono passati sei mesi all'incirca, ci venne comunicato che
la sentenza sarebbe stata pronunziata dal tribunale della Sacra
Consulta in Roma, in seguito alle premure delle rispettive nostre
famiglie. Invece del militare fu adunque il civile che ci
giudicò, o, per parlare più chiaramente, un consesso
di preti, poiché il tribunale eccezionale della Sacra
Consulta è composto quasi tutto di monsignori.
Ci fu chiesto se volevamo essere presenti alla discussione della
causa: si disse che sì; a due a due venimmo tradotti a
Roma.
Il mio compagno di viaggio fu certo Presepi di Rimini. Stemmo un
giorno a Pesaro nelle carceri del palazzo governativo; quando ne
uscimmo, di molta gente trasse da ogni lato a vederci; eravamo su
di un carretto, incatenati con dei ladri, e posti in modo che il
dorso rimaneva rivolto verso i cavalli; si andava all'indietro;
così si traducono tutti i prigionieri.
Il mio compagno chinò la testa, si fece rosso, e avrebbe
voluto togliersi alla vista dei circostanti. A questo gli dissi:
"Perché tieni basso il capo?"
"Mi vergogno; ci prenderanno per ladri" rispose egli.
"Che ladri e non ladri?" aggiunsi; "alza la tua fronte: le nostre
figure non dànno indizio di malfattori; ma poi ci tengano
per quello che ei vogliono, a me non monta; la nostra coscienza
non ci rimorde; noi sappiamo quel che abbiamo fatto, e ognuno
è figlio delle proprie azioni."
Tali parole lo rinfrancarono; da indi in poi stette sollevato
della persona, e lungo tutto lo stradale non ci demmo pensiero
dell'apparenza. A Sinigaglia soggiornammo poco più di
ventiquattr'ore; nel qual tempo fummo a contatto con assassini, la
cui presenza fecemi, a dir vero, paura. Costoro, in numero di
cinque o sei, entrarono armata mano in una casa agricola,
derubarono tutto che aveva qualche valore; uccisero il padre di
una giovine che v'era, e la violarono allato al cadavere. Inaudita
barbarie! Due di questi si trovavano appunto nella mia prigione,
parlavano del fatto come di nulla. Erano contadini, di pel
rossiccio, di aspetto deforme, e quasi bestiale. In altre prigioni
seppi ch'eglino e i loro compagni furono mandati a morte. Veda il
lettore con qual razza di gente il governo papale accomuni i
detenuti politici.
Il viaggio durò diciassette giorni, lungo e penoso, sempre
con ladri ed assassini; ad ogni ora il carro sostava, ed i
gendarmi, messo piede a terra, davano delle strappate alla lunga
catena che passava per l'anella delle manette di tutti i
prigionieri, a fine di vedere se erano intatte: cosa che recava ai
polsi un dolore acutissimo.
Da Nebi a Roma fummo soli: autorizzammo i carabinieri a ritenere
alcun che del nostro denaro che avevano in deposito a titolo di
beveraggio, affinché in luogo di un carretto di paglia
avessimo un calesse, e fossimo rivolti secondo il corso naturale
del cavallo: si ottenne.
Vastissime campagne incolte, colli ora spogli ed ora vestiti di
arboscelli o di boschi, ruderi di sepolcri, rottami di ponti e di
antichi acquedotti mi si offrivano tutto all'intorno. Si era nel
cuore d'inverno; l'aspetto sterile della campagna, le antiche
pietre, di niun pregio per l'uomo insensibile, ma eloquenti e atte
a destare sublimi immagini nell'Italiano, il cui cuore palpita
ardentemente di amor patrio, m'infondevano una tristezza
inesprimibile. Volgeva attonito lo sguardo intorno, ed ogni zolla
ed ogni antichità mi parlava all'animo.
Infine vidi spuntare la cupola di San Pietro; mi studiai di
discernere i sette colli; mi vennero indicati e la Mole Adriana, e
il Colosseo, e altri monumenti. Chiedeva e poi richiedeva, sempre
spinto da crescente curiosità; dimenticava per un istante
la mia sorte, e sembravami perfino di non aver più le
manette.
In fine pervenimmo a Porta Angelica, ed entrammo per questa,
perché gli è proibito ai prigionieri l'ingresso di
quella del Popolo. Scendemmo in via Giulia alle Carceri Nuove.
Queste, edificate, credo, ad oggetto speciale di prigioni, hanno
un aspetto lugubre e nericcio; il fabbricato è altissimo, e
tutto all'intorno vedonsi finestre con grosse sbarre di ferro, e
sentinelle che proibiscono l'avvicinarsi. Vi possono stare
più di quattrocento prigionieri.
Tanto io che il mio compagno fummo rinchiusi in una segreta,
denominata San Mattia, se non erro. Vi trovai Serpieri e i
compagni di San Leo, sparuti e mesti; sui loro volti stavano
simboleggiate le privazioni sofferte; alcuni indossavano un
cappotto da galera di due colori, bianco-scuro; e ciò ne
faceva la vista anche più trista. La segreta, piena
d'insetti, è capace appena di contenere dieci persone. Il
sole non vi batteva mai; vi era alquanta umidità;
sicché si respirava un'aria assai fetida ed insalubre.
Quanto al vitto, dodici oncie di cattivo pane e quattro di
minestraccia nell'acqua calda ad ogni ventiquattr'ore.
Tal vitto non bastava: e coloro de' miei compagni che toccavano
appena i diciassette e diciott'anni soffrivano assaissimo. In
sulle prime ci furono rattenuti i denari che le famiglie
spedivano; e solo dopo qualche mese, senza conoscerne la ragione,
fu permesso di farne uso.
Alcuni giorni dopo il mio arrivo ci venne annunziato, che
s'avrebbe avuto la visita dei direttori della Congregazione del
Sacro Cuore di Gesù, i quali ad ogni anno, per la
ricorrenza del Natale, sogliono dare, per usanza d'instituto,
dieci baiocchi ed un pane di due o tre oncie ai prigionieri di
Roma. Ciò saputo, si pose a partito se avevasi ad
accettare: la fame fece decidere pel sì. Il mattino
seguente uscimmo ad uno ad uno nel vicino corridoio, e colla
berretta in mano passammo dinanzi al cancelliere delle carceri,
per nome Neri, e ad alcuni preti che ci diedero due pagnottine e
un paolo romano; si disse grazie, e rientrammo nella segreta.
Quale umiliazione! eppure la necessità ci forzò ad
assoggettarcisi.
Sulla nostra segreta rispondeva la conforteria, ossia quella
camera in cui il paziente, che va ad essere decapitato, passa le
ultime ore di sua vita. A quell'epoca furonvi due sentenze
capitali: dalle nostre finestre vedevasi trasportare la
ghigliottina con tutti gl'instrumenti necessari per la terribile
funzione; pensi il lettore qual vista fosse mai questa per noi!
Dei due decapitati l'uno era vile assassino che proditoriamente
avea ucciso una pellegrina. L'altro un povero giovane diciottenne,
nominato Percossi: per cagioni di rissa lo si aveva condannato a
tre anni di galera che stava già espiando. Egli usciva nel
giorno cogli strumenti da lavoro; un secondino l'avea preso a
perseguitare, perché era in voce di liberale, ed amato in
Roma dai suoi compagni. Egli fu talmente molestato che un
dì, irritatosi, percosse il secondino nel capo
coll'instrumento; e lo ferì gravemente. Per questo fu
sentenziato a morte.
L'uccisore della pellegrina morì da vigliacco; e la notte
che precedette l'esecuzione non udimmo che urli lamentevoli.
Percossi invece se la passeggiò risolutamente, come persona
che nulla teme; e solo al mattino si piegò alla confessione
voluta dal cattolicismo: andò alla morte con
serenità, e fu compianto dal popolo romano. Tutti questi
fatti lasciavano su di noi una ben trista impressione, tanto
più amara in quanto che eravamo nell'incertezza del fato
che ci aspettava. Non molto dopo ci venne annunziato che il
processo volgea verso il suo termine. Passato qualche dì,
fui condotto nella cancelleria a intertenermi coll'avvocato
Dionisi, scelto a difensore dai miei. Venuti sul parlare della
causa, egli disse: "Il suo processo è assai intricato; se
non confessa, non vi ha rimedio per lei". Risposi: nulla sapere;
essere innocente; ignorare qual cosa avessi dovuto confessare. A
queste parole mi lasciò bruscamente.
Stupefatto di tale procedimento, mi ricondussero nella prigione, e
narrai tutto ai compagni che rimasero di gelo: ci accorgemmo
allora che la difesa era una parola vuota di senso; che i nostri
difensori la facevano da giudici processanti; che il tutto si
restringeva a formalità di apparenza. Che farci? Vae
victis!
Dionisi tornò di nuovo: stetti fermo. Il giorno della
decisione della causa fummo ad uno ad uno tradotti incatenati al
Palazzo Madama. Toltemi per un istante le manette, mi trovai al
cospetto dei giudici della Sacra Consulta; monsignor Matteucci
n'era il presidente. Vedevasi da un lato il segretario
Evangelisti, che fu in seguito pugnalato, e da un altro l'avvocato
Dionisi. Tutti composti con aria grave e serena. Il presidente mi
chiese, se nulla avessi ad aggiungere al mio processo. "Nulla,
nulla" risposi. Volli però difendermi; incominciai, ma egli
suonò il campanello, comparvero i gendarmi, fui ammanettato
e condotto di nuovo alle carceri. Le stesse formalità si
usarono ai miei compagni di sventura.
Trascorso poco più di un mese, fummo all'improvviso
chiamati nella cancelleria. Al passare vicino ai cancelli della
porta principale, vedemmo sotto le armi una compagnia di papalini;
non ne sapemmo spiegare la ragione. Ci trovammo indi di faccia al
cursore governativo Felci, il quale lesse la sentenza che
condannava ciascuno alla galera in vita.
Alcuni Romani, tra i quali Mattia Montecchi, che stavano racchiusi
nella segreta di contro alla nostra, furono sentenziati colla
stessa pena.
Questa la mitezza della Sacra Consulta. Le sentenze non motivate
parlavano solamente di cospirazione contro tutti i governi
d'Italia: le difese, semplici formalità per acciecare i
gonzi. E così rimasero inutili le sollecitudini delle
nostre famiglie, perché fossimo giudicati da un tribunale
non militare; e così le persone dei giovani italiani
venivano mietute sul patibolo o tra gli stenti di orride prigioni.
Ora egli è mestieri che mi soffermi alquanto onde rendere
un tributo di amicizia ad Eusebio Barbetti.
Tra coloro che dal 1840 al 1843 ebbero in mano le fila della
cospirazione nelle Romagne, alcuni, anziché viversene
intenti allo scopo della redenzione patria, si davano all'intrigo
ed a soddisfare interessi personali ed ambizioni. Costoro, tra i
quali Anselmo Carpi e O[reste] B[iancoli], gelosi della
preponderanza che Barbetti acquistava ogni dì nelle
faccende di cospirazione, diedersi a dir male di lui ed a spargere
sotto voce delle calunnie. E così bene seppero maneggiare
la bisogna, che trassero alcuni patrioti a ripeterle in buona fede
ed a prestarvi credenza. La cosa andò tant'oltre, che poco
prima ch'io gli divenissi amico s'era perfino tentato di
assassinarlo, siccome spia del governo. Queste infamie hanno pur
troppo luogo tra le sêtte, dove bene spesso, anziché
la ragione, la rettitudine, l'amor patrio e l'onestà,
prevalgono l'ingiustizia, l'acciecamento, la menzogna, l'invidia,
ed ogni sorta di basse e abbiette passioni. Il fingere, il mentire
continuo, il mistero ed i raggiri, in cui sono costretti di
ravvolgersi i settarî, finiscono per divenire un abito, gli
animi si corrompono; e non vi è atto, per quanto sia
spregevole, dinanzi al quale si indietreggi.
Per nascente gelosia s'incomincia a parlare freddamente di un
amico; se ciò piglia radice, si discende più basso,
e si mettono avanti delle voci di diffidenza; dagl'ignoranti, dai
malevoli, dai ciechi instrumenti queste si accolgono senza esame;
corrono di bocca in bocca; i nemici di ogni sorta ne approfittano;
l'ombra cresce e prende aspetto di corpo; i timidi schivano il
calunniato, e non osano difenderlo. Da ultimo vedesi sovente
perduto un uomo, che poteva rendere grandi servigi al suo paese,
non per altro che per gelosie e private inimicizie.
Così avvenne di Eusebio Barbetti, e così di tanti
altri, per l'infamia di gente che si predicano virtuosi, e non
sono nel fatto che vigliacchi, peggiori dei nostri nemici stessi,
e degni di essere reietti dal civile consorzio degli uomini
dabbene.
Scampato il mio amico al pugnale del vile assassino, serbassi
nonostante puro, e continuò ad operare, per quanto ei
poteva, a benefizio della sua patria, coprendo del più
amaro disprezzo i suoi nemici.
Falliti i movimenti del 1843, la maggior parte dei capi della
cospirazione esulò nella vicina Toscana, e i principali
accusatori con essi. A questo la calunnia prese un aspetto di
moderazione; ma quando ei fu arrestato, quando trovossi
nell'impossibilità di farsi temere, gli occulti nemici
levarono la testa. Si disse perfino ch'ei s'era fatto arrestare a
bello studio, a fine di dar colore alla consegna di una lista di
congiurati. Né giovarono le mie difese; né il dire
ch'ei giacevasi incatenato nelle prigioni; che lo si guardava col
massimo dei rigori; che tanto avea in mano da mandar me ed altri
al patibolo. Tutto fu inutile.
Alcuni mesi dopo venni alla mia volta arrestato; perduto
così l'unico suo difensore, il nome di Barbetti nelle
Romagne suonò spia, traditore.
Ma s'andò ancora più innanzi: si disse esser egli
l'autore del mio arresto.
Or bene, sappiasi da ognuno che nel processo ei non compromise
alcuno; che rispose sempre negativamente e con fierezza ai suoi
giudici; che il governo pontificio era irritato oltremodo della
sua condotta(4).
Chiuso il processo a noi relativo, egli fu messo nella mia
prigione. Venuto il dì della seduta, voleva salvarmi; e
disse che avrebbe asserito costantemente di essere egli l'autore
dei fogli trovati, di avermi sedotto, ecc., affinché dei
due uno fosse salvo, e che la morte dovesse toccare a lui solo.
Non permisi ciò: non valse, ché alla seduta diede
corso a quanto avea ideato.
I giudici nulladimeno ci condannarono entrambi alla galera in
vita, dicendo che le sue asserzioni erano conseguenza di concerto
prestabilito.
Come adunque ben si vede dai fatti, Barbetti era puro. Più
tardi la verità si conobbe da ognuno; e quando fu
restituito a libertà, gli vennero fatte le scuse dai suoi
stessi calunniatori. Sì, fate le scuse dopo che avete
assassinato un uomo civilmente, gente dappoco!
Egli continuò, nonostante questo cambiamento, a
disprezzarli; ma il suo animo aveva sofferto profondamente: e non
andò molto dopo l'amnistia, che, amareggiato di questa
vita, diede l'ultimo respiro in terra straniera.
Esseri come lui sono assai rari; e per chi conosce bene addentro
questa umana natura, sembrerebbe che non ve ne potessero essere.
Ma egli è pure un fatto che ve n'hanno, quasi mandati da
Dio a consolarci in mezzo alle piaghe sociali, in mezzo alla
malignità che generalmente s'incontra quaggiù.
Barbetti era di Russi, di coraggio indomito; la sincerità e
la franchezza erano le sue prime qualità; compassionevole
verso i poveri, inflessibile nelle vendette, quando e' n'aveva
giusto motivo. Sentiva profondamente l'amor di patria e di
amicizia. Era maestro nella Carboneria, affiliato alla Massoneria
e alla Giovine Italia. Strinsi dimestichezza con lui nella state
del 1843: mi amava siccome fratello, e fino al suo arresto
cospirammo insieme contro il governo papale. Ma ripigliamo il filo
della narrazione.
Comunicateci le sentenze di galera in vita, ci cadde in animo di
tentare un'evasione. La finestra della prigione dava in un vicolo
che metteva al Tevere, donde ci saremmo potuti condurre al mare.
Le sentinelle circondavano per ogni lato le prigioni: ma essendo
le finestre non più alte di quattro o cinque metri dal
piano della strada, ci fu agevole parlare con esse. Alcuni amici
del di fuori fecero altrettanto, e s'intesero con loro:
corrispondemmo col comitato liberale esistente in Roma, e si
ebbero chiavi per aprire ai Romani, posti di rincontro, e seghe da
tagliare le inferriate.
Un bastimento fu noleggiato a Livorno, e si recò nelle
acque di Fiumicino per attenderci.
Tutto fu in pronto e con grande esattezza: se non che il calcolo
mal fatto per tagliare i ferri fu cagione che non si fosse a tempo
nella notte fissata, e che ogni cosa riuscisse a monte. I soldati
ebbero il cambio come è di usanza, e più non
tornarono. Tutto inutile, ma nulla scopertosi. Si depose tuttavia
per noi ogni pensiero di evadere.
Approssimandosi la solennità pasquale, fummo costretti di
confessarci e comunicarci; e prima, a titolo quasi di
purificazione, si mandarono i gesuiti a prepararci cogli esercizi
spirituali. Per otto giorni dovemmo assistere alle lunghe e noiose
prediche dei Loiolisti, accomunati coi ladri e con ogni specie di
malfattori.
Venuto il dì della confessione, avemmo libera scelta tra i
padri gesuiti ed i cappuccini: prendemmo questi. Le prime parole
del confessore furono: "Ringraziate, figlio, il Santo Padre, che
per un tratto di sua infinita clemenza vi ha riammesso dopo un
anno al santo tribunale della penitenza, ecc.". Con quale animo si
accogliessero le venerande frasi, ognuno se l'immagina di
già, in pensando che il Santo Padre ci aveva privati di
libertà, perché si amava per noi la libertà
della patria e l'uguaglianza predicata da Gesù Cristo.
Nullameno convenne piegarsi alla confessione, a questa
instituzione volta dal dispotismo ad uso di spiare perfino i
pensieri; a questa instituzione che costituisce il più
forte anello della catena che tiene in ischiavitù
l'umanità, e che fu cagione dei roghi del fanatismo.
Purificati coi sacramenti cattolici, venimmo non molto dipoi
incatenati a due a due, e spediti provvisoriamente nella fortezza
di Civita-Castellana.
Questa fu edificata regnante Alessandro VI, papa di ben trista
memoria, ad uso di villa di piaceri e d'orgie; si pensò
nullameno di renderla forte col mezzo di qualche opera militare.
Nel mezzo sorge un fortino, detto maschio della fortezza, di forma
circolare; che comunica col rimanente del fabbricato mediante uno
o due ponti levatoi. I contorni sono disposti secondo le linee di
fortificazione di quei tempi, ed hanno a difesa alcune
artiglierie.
Dacché le circostanti campagne rimasero incolte, l'aria si
fe' pestilente; i papi pensarono di non più tenervi
soggiorno di delizia, e l'abbandonarono.
Essa giace nel mezzo di vasta pianura, appena qua e là
ondeggiata da qualche poggio e collina: nell'estate vi sono acque
stagnanti, in cui si putrefanno le piante, che colle loro
esalazioni ammorbano l'aria. Gli abitanti della città, che
porta lo stesso nome della fortezza, e che vi è allato,
sono d'aspetto giallognolo ed infermiccio; le erbe crescono sopra
i tetti; e nei tempi di caldo, la maggior parte di essi giacesi
nel letto per febbri intermittenti e maligne.
Il governo papale stabilì che nella fortezza di
Civita-Castellana fossero rinchiusi i prigionieri di Stato ad
espiarvi la pena. A tempo mio il maggiore Latini n'era il
comandante; uomo severo, sospettoso, ed affezionatissimo al
pontefice. Vi si trovavano da centoventi prigionieri: quaranta
appartenevano alla causa di Viterbo del 1837, e la condanna loro
di galera era stata commutata in quella di reclusione, e venivano
loro concessi instrumenti da suonare e da lavorare. Il rimanente
facevano parte degli arrestati per le cause di Bologna e delle
Romagne del 1843 e 1845.
Quantunque fossimo stati ivi posti temporariamente, avemmo cura di
creare tra di noi una deputazione eleggibile ogni tre mesi, ad
oggetto di vegliare alla tranquillità interna, di
rappresentare i bisogni dei reclusi al comandante, e di esaminare
che i cibi fossero sani. Rivolgemmo perciò il pensiero alla
istruzione; e tra il giorno si insegnava a leggere e scrivere, il
disegno, l'aritmetica, la geografia, ecc. In tal foggia si veniva
per noi ad addolcire la sventura, e a trarne partito in vantaggio
dell'umanità.
Per quanto sicuri fossimo, non avevamo però l'animo sgombro
da diffidenze per parte del governo; e ciascuno di noi andava
armato degli instrumenti di legnaiuolo e di calzolaio ridotti a
pugnali. Il comandante sapeva un tal fatto, ma non se ne dava
pensiero.
Avevamo tra di noi degli elementi eterogenei; noi rappresentavamo
una società in piccolo, con questa differenza che la
privazione della libertà ci faceva melanconici, tristi,
brontoloni, irosi e accattabrighe.
A buon diritto suolsi dire che le prigioni sono la pietra del
paragone: ivi non entusiasmo, non slancio momentaneo, ma fame,
schiavitù, reminiscenze di famiglia, e perdita di salute.
In quei luoghi di miseria ogni piccolo difetto dei nostri compagni
comparisce assai grande, e ci facciamo intolleranti.
Le passioni si manifestano in tutta la loro nudità; e col
lungo contatto non v'è corteccia che tenga, non raffinata
ipocrisia che possa durare; il cuore vedesi qual è: e
grande scuola per conoscere gli uomini sono le prigioni.
Questi fatti non potevansi, per quanta forza ci facessimo,
evitare; ma ciò non era tutto: ben altri ve n'aveano, che
peggioravano la nostra infelice posizione.
La perfidia del governo papale avea posto con noi alcuni esseri
irrequieti e cattivi per indole, ed altri conosciuti per delatori.
Il principale di questi secondi, per tacere dei primi, era certo
Achille Castagnoli, condannato come membro della setta
Ferdinandina.
Si pensi da ciò a quali conseguenze sinistre ci vedevamo
talvolta esposti.
Si promovevano a bello studio delle scissure e delle liti; bene
spesso riusciva la deputazione a sedarle, ma non sì che
talvolta non si trascorresse alle mani e al sangue.
Il governo lasciava fare; anzi soffiava per entro il fuoco.
Un dì tra gli altri i soldati del presidio tirarono a
più riprese delle fucilate contro i reclusi, perché
alcuni di questi s'eran fatti lecito d'insultare un custode. Bella
giustizia!
Si trascinava così la esistenza fra continui dissapori,
malattie, e tra l'odio che ne divorava internamente contro gli
sgherri papali.
Intanto ci mettemmo in alcuni seriamente a studiare i mezzi di
effettuare una evasione. Potemmo corrispondere col comitato di
Ancona, e la cosa andò tant'oltre, che alla morte di
Gregorio poco mancava ad effettuarsi. Se fosse riuscita, non si
può dire; dal lato nostro s'era preveduto ogni evento
possibile, e tenuta così segreta, che niuno dei
prigionieri, tranne cinque dei più audaci, poté
subodorare alcun che.
Ad un tratto ogni nostro preparativo fu interrotto dalla notizia
avuta per mezzi segreti, che Gregorio giacevasi gravemente
infermo. Passarono due giorni, e se n'ebbe la conferma. A questo i
malati incominciarono, per così dire, a tornare in salute;
i vecchi e i cronici a prendere novello vigore; nessuno più
lavorava. Era un continuo girare, un cantare, un incontrarsi, uno
stringersi la mano, un bucinar segreto, un far progetti. In questo
agitarsi si conobbe: i posti essere rafforzati, il presidio
aumentato, e i soldati consegnati nella fortezza. Si disse temersi
una sollevazione per parte nostra. Allora la dubbia novella
divenne certezza; e per la reclusione udissi il risuonare di lungo
e universale canto funebre. Si andava su e giù pei loggiati
cantando il requiem al vecchio papa, e sogghignando ai caporali
che si recavano alle visite quieti e mogi.
Alla fine, il comandante stesso non poté più celare
l'annunzio; e s'incominciò d'altra parte a sentire il
rimbombo delle artiglierie, che tuonavano al passaggio dei
cardinali recantisi al conclave.
Mastai Ferretti fu eletto papa, e si disse prossimo un perdono.
Dopo giorni di nuove dubbiezze, di speranze, e di avvilimento, il
comandante gettò una copia dell'amnistia nel cortile della
reclusione. Si udirono degli evviva dappertutto; il comandante si
commosse, e ordinò che fossero aperti i cancelli. I reclusi
si diedero allora al massimo della gioia, e alle feste in
comunanza coi custodi e coi soldati: in un istante furono obliate
le offese, dimentichi che gli uni erano i carcerieri, gli altri i
dannati. Un abbraccio, un'allegria universale! Alla sera
rientrammo nelle prigioni, e il mattino seguente si chiese di
uscire di nuovo. Fu negato: l'amnistia essere pei delitti puri
politici, e non pei misti. E così per questa assurda
distinzione, propria appunto della raffinatezza pretina, quaranta
incirca de' nostri migliori dovevano rimanersene prigioni. Si
pensò a salvarli, ma indarno. A dieci e a quindici per
volta venimmo lasciati liberi, ma la libertà fu nei buoni
amareggiata dal dolore, che lasciavamo dei nostri compagni, degli
ardenti patrioti nei luoghi di miseria e di schiavitù.
Al nostro uscire ci fu forza sottoscrivere un foglio, in cui si
dichiarava sul nostro onore, che d'ora innanzi non s'avrebbe per
noi disturbato l'ordine pubblico, né operato contro il
legittimo governo.
Su questa dichiarazione, uno storico, il signor dottor Carlo Luigi
Farini, la cui prima dote non è certo quella della
imparzialità, ha menato grande chiasso, traendo vili
conseguenze a danno degli amnistiati.
Potevamo noi in coscienza dare tal parola? E rispondo del
sì. Noi uscivamo pigliando a considerare legittimo il nuovo
governo o sovrano, appunto perché iniziava la sua
amministrazione col promettere riforme e soddisfazione ai bisogni
delle popolazioni; col riputare uomini di onore quelli che avevano
preso parte alle rivoluzioni antecedenti; col dare loro
un'amnistia; col riconoscere in fatto, che il cessato ordine di
cose suonava dispotismo. Or bene, nelle nuove rivoluzioni, nei
movimenti posteriori a un tale atto, abbiamo noi attentato
all'ordine pubblico? Abbiamo noi operato contro la
legittimità del governo?
No! Noi prendemmo le armi contro Pio IX, perché ci voltava
le spalle; perché tornava sulle orme de' suoi predecessori;
perché tradiva l'Italia, la patria, i suoi sudditi;
perché si collegava col dispotismo straniero; perché
fuggiva; perché cessava infine di essere un sovrano
legittimo!
Conchiudiamo: nei tentativi di rivoluzioni, nelle prigioni,
dinanzi ai giudici, alla morte, i patrioti mostrarono ardire,
costanza e abnegazione non comuni.
CAPITOLO TERZO
Innanzi di toccare degli eventi che succedettero alla amnistia,
egli è mestieri che risalga un po' addietro, e che accenni
ciò che accadde nelle Romagne durante la mia prigionia.
Ne' tentativi rivoluzionarî del 1843 prevaleva in gran parte
il principio repubblicano; ma in appresso, a questo carattere
venne sostituito il costituzionale e moderato; e si volle perfino
che v'andassero mischiate le insinuazioni russe.
Quantunque il principale scopo dell'agitazione fossero le riforme
e la secolarizzazione del governo, non però si era
dimentico, che l'oggetto ultimo avrebbe dovuto essere quello della
indipendenza nazionale.
I moderati e i repubblicani, tutti uniti per portare allora un
cambiamento nel sistema governativo, differivano nullameno nei
mezzi di azione.
Li volevano i primi, legali, lenti, progressivi; i secondi,
istantanei, colle armi alla mano, ed a modo di rivoluzione. Quelli
erravano grandemente, perché sotto il dispotismo la
legalità è una parola; e questi, non pel principio
stabilito dell'azione, ma perché contavano di soverchio
sull'efficacia dei mezzi che avevano, e riposavano tranquilli
sulla credenza, che pochi uomini gettatisi ai monti valessero a
far levare in armi la nazione.
Comunque sia, la necessità di portare un rimedio contro il
cieco dispotismo papale persuase gli stessi moderati a tentare un
moto di concerto coi repubblicani. La cosa cambiò adunque
di aspetto; e per la unione di tutte le volontà e di tutti
gli sforzi potevasi sperare un buon risultamento.
I principali fuorusciti delle Romagne avevano preso ricovero nella
limitrofa Toscana; tenevano convegni coi capi al confine;
s'indettavano intorno ai preparativi e intorno al piano
d'insurrezione.
Ne' quali maneggi il dottor Carlo Luigi Farini si distingueva
soprammodo per zelo e attività: stendeva anzi un manifesto
da pubblicarsi all'atto della rivoluzione, che doveva presentare
ai Potentati esteri i bisogni di urgenti riforme negli Stati
Romani.
Dopo molto andare e venire di Toscana in Romagna e viceversa, si
stabilì di prendere le mosse da Rimini - duce Pietro Renzi.
E così fu nel settembre del 1845; gli tennero dietro il
conte Beltrami e Pasi, due animosi giovani, nella bassa Romagna,
con una mano di patrioti. Ma tutti questi moti finirono
tristamente perché isolati, e senza seguito delle
popolazioni, che pure avrebbero dovuto levarsi.
Del che varie furono le cagioni, e primissime, l'essersi alla
vigilia della progettata insurrezione la maggior parte dei
moderati perduti d'animo; l'avere incominciato a spargere sfiducia
e sconforto; e da ultimo l'infiammarsi di semi di discordie, messi
innanzi con molta arte da Mazzini, per mezzo de' suoi agenti, onde
screditare i movimenti, a cui egli non aveva parte diretta.
Dirò di più: ei pose in dileggio i cospiratori
d'allora, chiamandoli partito neoguelfo, o gli uomini della
primavera. L'unità, che appariva nei preparativi della
insurrezione, mancò adunque al momento di azione; e tutto
terminò con esilî, e prigioni, e atti
arbitrarî.
Quanto al manifesto del Farini, di cui tanto rumore si menò
e allora e poi, era una moderatissima esposizione de' bisogni
amministrativi dello Stato, e un richiamo, per così dire, a
quanto si volle dai Potentati nel Memorandum del 1831. Solite
imbecillità, moderanza a lato della rivoluzione; si voleva
e disvoleva nello stesso tempo. Pei nuovi tentativi non fu
più permesso ai fuorusciti di dimorare in Toscana:
costretti di andare altrove, presero rifugio in Francia, e alcuni
in Isvizzera. Renzi, per oggetti di cospirazione, tornò in
Firenze: scoperto ed arrestato, venne consegnato alle
autorità papali; e in faccia alla morte, con atto non
comune di codardia, prese l'impunità comunicando al governo
tutto quanto risguardava la insurrezione, e i nuovi piani che
s'aveva in vista di eseguire.
Il governo francese, tanto pei moti del 43, come per quelli del
45, relegò molti degli esuli a Châteauroux; e di qui
e da Parigi e da Marsiglia, dove erano altri, continuarono a far
progetti, e a mantenere corrispondenza colle Romagne, a fine di
tentare nuovi rivolgimenti. Ma la inesperienza, la facilità
di parlare, la imprudenza nello scrivere agli amici, ai parenti e
alle belle, davano agio al governo papale di conoscere perfino
ogni loro pensiero.
Ma ciò non bastava; ché avevano spie segrete nel
loro seno, stimate ed accreditate come persone dabbene dagli
stessi capi della Giovine Italia.
Fra queste figuravano come principali(5) il dott. Paolini di
Ferrara e Anselmo Carpi di Bologna. Quello poi che le polizie non
potevano discuoprire con questi mezzi, l'ottenevano dai consolati,
tra i quali si distinguevano Ferrari a Marsiglia, il marchese
Romagnoli in Livorno, il conte Marzucco a Oneglia, il cav. Pisoni
a Genova, ecc. Prevedendosi nulladimeno dagli uomini di stato, che
la profonda agitazione dello Stato Romano avrebbe finito in una
esplosione; e temendosi dai principi italiani, che ciò
potesse essere cagione di turbamenti generali in Italia, si
avvisò di dare una nuova direzione alla pubblica opinione e
di volgerla a profitto di qualche governo.
Fu allora che il cav. Massimo d'Azeglio ed altri agenti del
governo sardo si diedero a percorrere lo Stato Romano. Tenevano
sveglie le menti; convenivano colla parte più colta della
società; s'indettavano coi giovani entusiasti; tiravano
alle loro speranze l'aristocrazia; promettevano armi, danaro,
uffiziali, aiuto dell'esercito, e davano a credere che Carlo
Alberto si sarebbe messo alla testa del movimento nazionale.
D'Azeglio, oltre di ciò, prese la difesa dei popoli delle
Romagne, e scrisse il libretto: Sugli ultimi casi, il quale gli
acquistò amore e generale simpatia.
E le mene albertine furono sì astutamente condotte, che
l'opinione quasi universale delle classi medie e istrutte pendeva
per quel lato.
Ma le più belle speranze concette furono tronche alla
vigilia quasi di vedersi soddisfatte. Sopravvenuta le morte di
Gregorio XVI, e vedutosi dalla corte romana il nembo, che stava
per isciogliersele addosso, s'ebbe per il meglio di scendere alle
buone colle popolazioni, e di mettere così un argine alle
velleità della Casa di Savoia.
Pervenuto a questo punto della narrazione, restringo le mie
considerazioni a pochi fatti generali, dimostranti lo stato degli
animi al momento in cui Mastai Ferretti fu eletto al pontificato:
1°) fermento universale e tendenza ad una rivoluzione;
2°) il partito repubblicano ridotto ai minimi termini, stretto
in amicizia e in lega coi moderati;
3°) la Giovine Italia del tutto posta a parte e in discredito;
4°) per la propaganda di Carlo Alberto, le speranze rivolte a
lui e alla sua armata;
5°) per gli scritti di Balbo e di Gioberti, allora in voga, lo
spirito nazionale esteso universalmente tra la gioventù
delle Università, tra i letterati, e perfino tra alcuni
dell'aristocrazia: ma non più in là d'indipendenza
nazionale.
CAPITOLO QUARTO
All'annunzio dell'amnistia, quasi tutti coloro, che avevano
esulato dal 1821 al 1845, rientrarono nello Stato papale, e furono
accolti dalla gioventù, che li ebbe per eroi, con
dimostrazioni non comuni di gioia e di entusiasmo. Vi era del
buono tra di essi, ma la maggior parte aveva contratto costumi e
pensamenti stranieri; deposto il giovanile ardore per l'età
ed il sopravvenire di miserie, di disinganni; dimentica la patria
per nuovi interessi, amici e parentadi; acquistato un fare di
moderazione, e sì distinto dall'indole che avevano mostro
al sorgere de' moti italiani, che davano di che maravigliare
all'assennato politico. A vedere quali risultati avesse la venuta
di essi, quali le loro opere letterarie, a procedere con
chiarezza, semplicità e brevità, esporrò i
dati generali, che porgono idea dello stato morale degl'Italiani
sino alla fine della prima campagna del 48(6).
CLASSI AGRICOLE E BASSO POPOLO
I. Abbrutimento e superstizione nel regno delle Due Sicilie. La
patria e l'indipendenza erano nomi ignoti per loro.
L'odio tuttavia, che in alcune famiglie serpeggiava contro la
tirannide, era conseguenza della Carboneria, che ivi più
che altrove aveva esteso le sue fila.
II. Le classi infime e agricole dello Stato Romano un po'
più avanzate, ma non di molto. Le popolazioni delle
città invece, abituate ad udire la parola indipendenza, a
tenerne proposito nelle loro quistioni, a prender parte alle
fazioni, a difendere i loro padroni liberali contro le infamie de'
centurioni e dei sanfedisti. Vi era adunque odio profondo contro
il governo, e qualche spirito di nazionalità. Nei ducati di
Modena e Parma si può dire lo stesso.
III. Svegliatezza di mente, e una certa civiltà in quelle
della Toscana, i cui abitanti furono sempre i primi ad eccellere
nella gentilezza dei modi, nella tolleranza delle opinioni, e in
tutto che accenna al viver civile tanto interno che esterno delle
famiglie. Però di animo mite, e affezionate al granduca,
che le aveva rette con moderanza anzi che no, e ripetenti: Fuori
lo straniero! per moda più che per sentimento di odio e
d'indipendenza.
IV. Avversione e odio agli stranieri nella Lombardia e nel Veneto
nelle classi agricole, conseguenza più della coscrizione e
del bastone che dello spirito nazionale sentito.
Quanto al popolo delle città, buono e pronto alle mani
contro gli Austriaci.
V. Nel Piemonte, agricoltori, operai, basso popolo, bigotti,
ignoranti, affezionati al re, pronti a seguirlo.
Di Genova lo stesso, se si eccettua l'avversione al Piemonte per
ispirito profondamente sentito di municipalismo.
CLASSI COLTE E CIVILI
VI. L'unità morale, riconosciuta dalla maggioranza civile
degl'Italiani. V'era il sentimento della nazionalità, di
avere similitudine di maniere, d'idee, di lingua, di religione,
d'interessi, ecc. Ed è sì vero, che al sorgere di un
papa, inaugurante un regno di riforme, corsero alla mente
degl'Italiani i tempi andati di Giulio II, che gridò: fuori
i barbari! e da un punto all'altro della penisola non si
udì che: fuori lo straniero!
VII. Sentimento d'indipendenza profondamente sentito nella
gioventù delle Università, la quale in parte nudriva
principî repubblicani, effetto dello studio dei classici,
delle tradizioni patrie, delle società segrete, della
lettura di Alfieri.
VIII. Coltura intellettuale nella classe media degl'Italiani, e un
certo buon senso tutto proprio della nazione. Nel regno delle Due
Sicilie, liberale, avversa al governo per convinzione, ma
inchinevole a' principî costituzionali. Nello Stato Romano e
nella Toscana, tranne di pochi che avevano principî
repubblicani, tendente pure alle forme politiche rappresentative.
Nelle provincie Lombardo-Venete, repubblicana in gran parte.
IX. L'aristocrazia di danaro, di titoli vecchi e freschi, in
genere avversa alle novità. Nel regno delle Due Sicilie
istruita e liberale più che in qualunque altra parte
d'Italia.
X. Le armate, operanti come macchine, messe in moto dalla
monarchia e dal dispotismo.
XI. Del clero è a distinguersi: quello delle campagne, in
genere, buono; delle città, cattivo; del resto, molto
istruito. Dei frati, sporchi, ignoranti, e codardi nella
generalità. Per sentimenti nazionali si sarebbe trovato
qualcuno in Lombardia e nel reame di Napoli.
XII. Quanto a costumi e perfino a vizî, bastardume nella
massa degli abitanti; il dolce far niente acquistato dagli
Spagnoli e la loro boria, la leggerezza e la loquacità
francese, mista alle abitudini tedesche. E questo andare si
verificava a oltranza nel reame di Napoli, ove gli Spagnoli non si
sarebbero distinti dagl'indigeni.
Del resto, prontezza alla parola, ad entusiasmarsi e avvilirsi
subito dopo, ad accusarsi l'un l'altro, a diffidare, a calunniare,
a prendere partito cieco per un uomo, a seguitar l'individuo
anziché il principio. Frutti di tre secoli di
servitù, di scorrerie straniere, delle corruttele a bella
posta mantenute dalla viltà dei nostri governi, e dalle
dottrine ed abitudini del cattolicismo.
XIII. Pervertimento della opinione nazionale e repubblicana per le
opere di Gioberti, di Azeglio, di Balbo. I loro scritti, coi
discorsi di Mamiani e di altri distinti fuorusciti, avevano
paralizzato il vigore della parte buona delle popolazioni, sviate
le menti immergendole in una confusione di dottrine
pelasghe-cattoliche-italiane-papali-romane, e di tanti altri
rancidumi sistematicamente accozzati insieme. La gioventù,
vaga di novità, lasciava i forti accenti di Alfieri, e
dimenticava i virili sensi di Foscolo(7). Presa all'esca
dell'eloquenza giobertiana e alle sue filippiche contro i gesuiti,
ammaliata dalle generose frasi del romanziere d'Azeglio contro gli
errori papali, e dalle enfatiche parole del giornalismo, che a
guisa di torrente irrompeva d'ogni lato; si dava a leggerne con
grande ardore le opere; sorbiva così lentamente le dottrine
di una moderazione stolida ed inopportuna, di franchigie
costituzionali, o meglio di eunuca redenzione; e s'ingannava per
sé medesima intorno ai mezzi ed ai principî atti a
rigenerare l'Italia.
XIV. In qualche provincia tuttavia questi scritti erano talvolta
messi da lato; davasi di piglio invece alle opere di Mazzini, le
quali se, a dir vero, ridestavano principî nazionali, e
miravano alla unità ed indipendenza, insinuavano dall'altro
un sentimentalismo, un misticismo, un non so che di religioso, che
faceva andare le menti fra le nubi, e tra le incertezze delle
religioni, di cui Mazzini afferma la necessità pel governo
degli uomini, e non sa formularne alcuna.
XV. Da questa folla di opere letterarie e di dottrine, confusione
di idee sempre più crescente portata poi al colmo dalla
lettera di Mazzini al papa.
XVI. La Giovine Italia, che al suo apparire aveva attratto i
giovani delle Università, delle accademie letterarie, delle
scuole di filosofia e di teologia, era caduta nel discredito. Al
che avevano dato grande impulso la cattiva applicazione della sua
norma direttrice - l'azione costante - la meschinità dei
mezzi, la mancanza, non più in dubbio, di rettitudine di
giudizio intorno alle condizioni reali di tutte le classi sociali
dell'Italia.
Non essendo adunque più vincolati i giovani a guisa di
settari, s'incomiciò ad agire allo scoperto tanto in
Lombardia quanto altrove: maniera di azione, a cui si appigliarono
altresì molti degli ex-affiliati della Giovine Italia.
Quantunque non si pensasse più a questa, il capo, Mazzini,
conservava però sempre un certo prestigio. Ciò
nasceva da' suoi scritti, esposti in istile
poetico-biblico-profetico; dall'ardire nelle imprese
rivoluzionarie; e da quel non so che di misterioso, onde si
riveste l'uomo ricordato per molti anni ad ogni momento, non mai
veduto, dimorante nell'esilio ed in lontane contrade.
Per questo fatto Mazzini poteva mettere un qualche peso nella
bilancia delle opinioni. Fu quel che fece colla sua lettera al
papa. Alcuni non credevano in questo, o se pur gli davano fede,
egli era per non andare a ritroso della pubblica opinione, che
tutto trascinava in favore di Pio IX.
Se tuttavia versavano nella incertezza, cambiarono consiglio
quando Mazzini ebbe parlato: sì, quando l'uomo che si
rideva della pubblica opinione, che gridava contro il dispotismo
da dieciotto anni; quando colui, che mostravasi il più
forte propugnatore delle idee nazionali, si rivolse al Beatissimo
Padre dicendogli: "Noi vi faremo sorgere intorno una nazione, al
cui sviluppo libero, popolare, voi vivendo presiederete; noi
fonderemo un governo unico in Europa che distruggerà
l'assurdo divorzio fra il potere spirituale ed il temporale,
ecc.", da quell'istante non fuvvi più dubbio. Machiavelli,
il profondo conoscitore degli uomini, il saggio e sottile
segretario fiorentino, avea sognato nel dire: "'La ragione che
l'Italia non sia in quel medesimo termine (cioè, ridotta a
unità come Francia e Spagna), né abbia anch'ella o
una repubblica o un principe che la governi è solamente la
Chiesa, che tiene questa nostra provincia divisa, ed è
cagione della rovina nostra".
Uomini di maggior senno pratico, di maggiore scienza politica,
Gioberti e Mazzini, volevano distruggere l'assurdo divorzio dello
spirituale dal temporale; volevano il Papa e la Chiesa a capo
della redenzione italiana; sì, quella Chiesa, che dopo
avere protette le repubbliche italiane nel loro nascimento, le
abbandonava, le tradiva, si confederava cogli stranieri, ed era
sino ad oggi il maggiore e primo ostacolo alla libertà e
indipendenza italiana; pretendevano, dico, fare indietreggiare
Italia ed Europa, ricacciandole sotto il giogo della Chiesa
romana, sotto il simbolo del dispotismo spirituale e temporale, di
chi distribuisce le corone regali e imperiali per un preteso
diritto divino; pretendevano che i salutari effetti delle
rivoluzioni religiose, suggellate dal sangue di tanti martiri,
scomparissero; che l'eroismo e gli sforzi dei più belli
ingegni dei mezzi tempi, dal secolo XIII cioè infino ad
oggi, pel conquisto della libertà intellettuale foriera
della libertà politica, fossero o dimenticati o derisi
dalla teocrazia papale.
Bel regalo davvero s'avrebbe avuto l'umanità da questi due
uomini, i quali incominciarono a pensare in benefizio di essa sino
da che la balia li ravvolgeva nelle fascie!
Dall'istante che a Gioberti si unì Mazzini, si vide nel
papa un angelo, un Dio, un padre celeste disceso dal cielo a
tôrre gli uomini dalla schiavitù. Si dissotterrarono
le più viete e rancide tradizioni; si scimiottarono gli
antichi in ciò che non era più applicabile ai tempi
odierni, e s'invocò la mano di Pio IX, il quale
nascostamente e coerente alla sua missione, armava i sicarî
di Faenza, implorava l'aiuto di Metternich, e cercava di
fuggirsene. Da ultimo si faceva un ridicolo miscuglio colle frasi:
Barbari, Crociate, Papa, Dio, Popolo, Repubblica, Costituzione,
Unità, Indipendenza; frasi, parole, contraddizioni, che
valsero a farci discordi ed a ribadire le nostre catene.
XVII. In mezzo a tutto questo, gli agenti della propaganda
piemontese, che dopo l'amnistia avevano alquanto rimesso della
loro attività, non si perdevano totalmente di animo.
Mostravano la necessità di buoni uffiziali per l'armata
papale e toscana, e riuscivano a far accettare dovunque degli
uffiziali piemontesi.
Le milizie nazionali si armavano, si addestravano. La stampa
clandestina lavorava dovunque con ardore, con audacia, e
manifestazione di idee liberali: l'Austria preparavasi ad una
lotta, che oramai prevedeva certa: la diplomazia estera
consigliava ai principi mitezza verso i popoli servi, moderazione
a questi nelle loro pretese, rallentamento di rigore all'Austria.
Non mancavano, come sempre, dall'estero speranze, benché
lontane, di appoggio alla nazionalità italiana, ed alcuni
personaggi altolocati facevano causa comune coi patrioti.
Menzogne; tutta biacca ingannatrice per nascondere le bruttezze di
loro anima, la quale ben presto scomparve alla più lieve
brezza, che nell'orizzonte politico insorse a favore del vecchio
dispotismo.
XVIII. Nelle provincie Lombardo-Venete, il primo pensiero di
ognuno era la cacciata dello straniero; nel rimanente dell'Italia,
invece, le riforme; e dopo queste la causa dell'indipendenza. Ma
con chi la guerra? d'accordo coi principi riformatori: strana
imbecillità!
Questo l'effetto degli scritti dei moderati; dell'avere, chi
dicevasi repubblicano, Mazzini, transatto col papa; delle dottrine
umano-religiose della Giovine Italia. Da ciò nacque, che il
popolo italiano non si scosse fino nelle viscere; che la
rivoluzione rimase parziale e costituzionale, che non furono messi
in moto gl'interessi tutti della società; che il contadino
si stette muto e inerte alla guerra, che non intendeva; che dopo
un primo slancio, l'entusiasmo si spense anche tra le popolazioni
della città.
XIX. Ma a lato di questo fatto quasi universale ve ne aveva uno di
ben altra natura: fatto grande che dimostrò non essere in
noi spento il genio dell'azione: fatto indipendente da qualunque
artifiziale influenza; scaturito dal fondo del cuore di un popolo
gemente sotto la oppressione della verga; che rammenta essere
gl'Italiani i discendenti(8) veri di coloro, che nel secolo
dodicesimo improvvisavano mura e città, volavano in massa a
sostenere i fratelli; calpestavano gli odî municipali, le
intestine discordie, e trasportati da grandezza e
profondità di passioni, cacciavano in fuga lo straniero
potente per numero, valore e volontà di vincere.
Questo fatto, che poneva un velo sulle viltà e sulle
bassezze di trecento anni di servitù, sorse in Lombardia.
Là l'elemento popolare si ridestava; là non riforme,
non papa, non misticismo, ma guerra allo straniero, ma
libertà e indipendenza. Là insomma gridavasi Pio IX
e riforme, come mezzo a mostrare l'opposizione all'Austriaco, e
non già come fine. E quando gli Austriaci ebbero pronte le
riforme, quando e' discendevano portatori di una carta
costituzionale, per ottenere la quale tanto gracidare s'era fatto
negli altri Stati Italiani, il popolo lombardo, quella carta
lacerando, dava di piglio alle armi, ai sassi, a tutto che gli si
parava dinanzi per combattere l'oppressore, e vendetta e morte -
unico patto tra l'oppressore e l'oppresso - gridava contro lo
straniero. Seguivano cinque giornate di combattimento e di
eroismo.
I popoli dello Stato Romano avrebbero dovuto seguire l'esempio dei
Milanesi al sopravvenire delle riforme del nuovo pontefice; e
questo i Toscani, e questo i Napoletani; ma no: lo spirito essendo
viziato sino dal principio, dovevasi seguitare lo sdrucciolo
generale fino a rompersi il collo.
Gli Italiani dieronsi alle ciarle, ai proclami, ai banchetti, alle
feste: quando sorse il momento della lotta, volavano sì
alle armi, ma pochi, ma sotto le bandiere dei loro traditori
stessi.
XX. Quantunque la propaganda albertina avesse da principio colto
scarsi frutti nelle provincie LombardoVenete, i suoi effetti si
fecero nullameno sentire; e mentre che il popolo eroicamente
versava il sangue sull'altare della patria, alcuni moderati
s'indicavano a vicenda per costituirsi in governo provvisorio. E
così all'alba del quinto dì del combattimento, gli
aderenti di Carlo Alberto giacevansi in seggio governativo, e le
persone del popolano e dell'ardente giovane mietute a pro di una
causa, che finiva per essere quella della moderazione e della
monarchia.
Il popolo, che non sapea d'intrighi, li accettò di buona
fede; ma d'allora in poi ei fu messo da lato: i suoi capi non
ebbero che una ben secondaria parte; ei venne tradito, i suoi
interessi sprezzati, e il suo valore si rimase senza fregio.
XXI. La rivoluzione italiana e popolare si rimase tale nella sua
essenza e nel suo principio durante le cinque memorabili giornate.
Cacciato l'Austriaco, assunse un nuovo aspetto: fu guerra di
monarchia; guerra di un monarca, che minava nello stesso tempo il
trono degli alleati per farsi re d'Italia; guerra di un monarca,
che per logica voleva escluso ogni elemento repubblicano; che
sarebbe venuto a patti col nemico, ove per rovesci fosse stato in
pericolo il diadema regale; guerra infine di un monarca, che
gl'Italiani, lasciatasi fuggire l'occasione di stabilire un
governo popolare là ove il popolo aveva colto le prime
palme della vittoria, dovevano sostenere con tutte le loro forze;
e seguendo i consigli del grande Machiavelli, dare la mano al
despota, che voleva l'unità e l'indipendenza italiana a
soddisfazione dei propri interessi e dell'ambizione, per quindi
agire come si fa di una veste, che quando è usata, la si
getta.
Ma niente di tutto ciò: gl'Italiani, nuovi alla vita
politica, mancanti di personaggi pratici, corsero di errore in
errore.
XXII. Mentre tutti questi eventi si svolgevano con una
rapidità incredibile, che faceva Mazzini, il preteso
rappresentante della rivoluzione(9)? Partì di Londra con
sette dei suoi amici; e il 5 marzo, temendo che l'Italia avesse
fatto senza di lui, si avvicinò a quelli ch'ei chiamava
moderati, cambiò il nome alla Giovine Italia, che
già suonava male, e istituì l'Associazione Nazionale
Italiana.
Era scopo di essa: "Nazionalità una, libera, indipendente;
guerra all'Austria; affratellamento colle libere nazioni, e coi
popoli che allor combattevano per divenir tali". Il programma
diceva di più: "L'Associazione non prefigge ai suoi sforzi
il trionfo determinato d'una o d'altra forma governativa". Il che
a chiare note significava essere la sua professione puramente
d'indipendenza nazionale.
Dopo la rivoluzione milanese si conduceva in Italia, ponendo la
sua sede in Milano: indi cominciava subito a far guerra sorda a
Carlo Alberto, stabiliva un centro repubblicano, ed anziché
volare ov'erano i combattimenti per animare la gioventù col
gesto, colla voce, colla presenza, e coll'esempio, inviava
emissarî a Curtatone, a Vicenza, e dovunque fossero
volontari; disconosceva le sue stesse parole dell'Associazione;
calpestava le promesse, e si teneva pago di mettere anch'egli il
suo obolo nella guerra del risorgimento italiano: la divisione,
cioè, e la diffidenza. E tanto è vero questo fatto,
che il popolo milanese reagì pure per un istante, e stette
a un pelo di non fare man bassa su di lui e su di alcuni suoi
seguaci.
XXIII. Carlo Alberto, a sua volta, ponendo cieca fiducia
sull'esercito, composto di un 20.000 soldati, e nel restante di
contadini armati di fucile, rifiutava i volontarî per mezzo
dei governi provvisorî, a lui aderenti, che rimandavano alle
lor case coloro che si offerivano di prendere le armi; diceva con
più millanteria che senno: l'Italia fa da sé; prima
di attaccare una posizione, ordinava che i suoi soldati
ascoltassero la messa, e lasciava che il nemico profittasse di
quel tempo per le sue disposizioni militari. Non volgeva poi
l'occhio alla amministrazione militare; non alle spie, che
s'introducevano nel campo; non al soldato, che nel paese
più fertile dell'Europa, stava 48 ore senza pane, e sen
moriva di stenti, s'indeboliva, si demoralizzava; insomma egli,
che aveva il ticchio di essere il più gran generale di que'
tempi, conduceva la guerra con una incapacità che toccava
il ridicolo. Eppur non mancava di buoni generali, ma volle far da
sé.
XXIV. Per tutte queste cose l'entusiasmo, che s'era pur fatto
sentire dovunque, scomparve; vennero in sua vece la diffidenza
reciproca, la universale sfiducia, le recriminazioni, le calunnie
dei partiti. La reazione trionfò colle stragi a Napoli, i
volontarî vinti a Curtatone, a Vicenza, a Treviso; il papa
rinnegò la guerra, e scomunicò chi spargeva il
sangue dei Croati; il re Ferdinando richiamò i suoi
soldati: defezioni dovunque. A questo, grandi ciarle dei liberali,
per ogni dove, proclami e leve in massa: parole e poi parole, che
non valsero a ridestare l'entusiasmo sfumato.
XXV. Da ultimo, non potendo più Carlo Alberto tener la
campagna cogli avanzi del suo disorganizzato esercito, venne il 4
agosto a capitolazione collo straniero.
Si fece reo di tradimento?
Sel pensino i ciarlatani(10) e tutti coloro che non seguono la
logica nei giudizî. Non era egli un re? Or bene, egli andava
dietro a quello, che gli dettavano imperiosamente le leggi di sua
casa regale, di sua esistenza: Anziché perdere la corona.
pattuiva.
Le enormezze e gli errori commessi e prima e durante la campagna
tornarono a profitto dell'Austria, la cui armata compatta
marciò dritto al suo fine, fucilando spie, chi le faceva
ostacolo, chi non soccorreva di viveri il soldato; mettendo fuoco
alle case, e portando lo spavento ove trovava resistenza.
Cosicché gli agricoltori, le cui braccia si ricusarono da
Carlo Alberto, il cui interesse non s'ebbe né manco un
pensiero da lato dei rivoluzionari, fecero i ponti d'oro ai
soldati di Radetzky per non vedere abbruciate o la capanna o la
casa o le messi, che ricoveravano e nutrivano le tenere membra dei
loro bimbi.
Così traditi segretamente e palesemente dai principi, ai
quali avevano strappate le riforme, perduti dalla ipocrisia del re
sabaudo, divisi e indeboliti da alcuni repubblicani, abbandonati
dai popoli, che in rivoluzione, al par di noi, calpestavano i
principî di solidarietà nazionale fino allora
predicati; in poco più di quattro mesi vedemmo le falangi
nemiche rientrare orgogliose, superbe, e a suon di banda, tra le
mura di Milano, tra quelle mura sacre, donde una mano di uomini,
coll'Italia nel cuore, li aveva cacciati facendone grande scempio.
XXVI. Logica, unione, tradimenti, inflessibilità di
proposito nei tiranni; sragionare, parole, disunione, leggerezze,
discordie, tradimento reciproco tra i liberali e tra le nazioni; e
per giunta, disprezzo degl'interessi vitali del povero: ecco i
fatti, che distinsero le parti combattenti nella prima epoca della
rivoluzione italiana ed europea del 1848.
Un popolo non isprofondato per anco nel fango della corruzione; un
popolo avente tradizioni di gloria, che stannogli davanti
eternamente scolpite, può ad ogni tratto scuotersi,
risorgere e farsi grande. Perché ciò accada, egli
è mestieri che il dispotismo, che stagli sul collo, non sia
di natura addormentatrice, siccome quello dei Medici e successori
in Toscana, e quello più recente di Luigi Filippo re di
Francia; ma sibbene che rassembri all'altro d'Austria esercitato
dopo il 1815 sino ad oggi, a quello dei governi italiani, e di
Napoleone attuale.
Le crudeltà, gli atti arbitrarî, il munger danaro ad
ogni tratto per feste e balli di corte, pel mantenimento di
numerose soldatesche, e pel sistema di spionaggio; la coscrizione,
il bastone, la deportazione, gli assassinî governativi,
sogliono commuovere gli uomini, e tenere sveglie le menti e le
passioni di una nazione.
Da questo, per natural legge, insorge una sorda ed accanita lotta
tra la nazione e il dispotismo: lotta, ora coperta ed or nascosta,
che tratto tratto dà moti e lampi forieri della tempesta, e
infine, a guisa di nubi pregne di elettricità incontrantisi
tra di loro, scoppia e produce il fulmine delle rivoluzioni.
Ma guai se l'opera del dispotismo, che in questo caso è a
dirsi benefica, all'appressarsi del turbine cessa per un istante
di essere violenta, cieca, e scende alla moderazione, e si ammanta
di giustizia, di legalità, di umanità. La nazione,
anziché reagire, allora si quieta; e per quella
bonarietà, che purtroppo fa talvolta rassembrare il genere
umano a branchi di pecore, applaude e prorompe in entusiasmo. Le
concessioni del despota, strappategli dalla necessità di
esistenza, anziché soddisfazione data ai propri diritti,
vengono considerate siccome favori, grazie, clemenze del coronato
oppressore. Si dimenticano le antiche tradizioni di potenza e di
forza; e la fierezza, propria dei caratteri forti e offesi,
dà luogo alla mitezza e al perdono. Non che sbalzare dal
trono l'usurpatore, lo straniero, il tiranno, gli si tende la
mano, si porge credenza alle sue parole, e per ultimo si cade in
uno stato d'indifferenza, sinché a lui piaccia di stringere
di nuovo le catene, e di tradire i voti che i popoli stoltamente
avevano riposto in lui.
Così avvenne sotto Napoleone il Grande. Egli destò
lo spirito di libertà e d'indipendenza; ma ben presto
addormentò questi sentimenti, perché gli facevano
paura, e diede all'attività italiana una nuova direzione.
Si tennero in pregio le arti, le lettere, gl'ingegni,
purché non di libertà si favellasse, purché
cortigianeschi e' fossero, purché profumassero d'incenso il
novello Giove. Vi si aggiunse la gloria militare, e le battaglie e
le croci di onore; talché la nazione, non appena scossasi
dal profondo letargo in cui era immersa da tanti anni, ricadde
nell'apatismo nazionale; dimenticò o non sentì di
essere in balìa di mani straniere, che tendevano a
corrompere e costumi, e lettere, e idee; non si accorse che
Italia, che Roma divenute erano una provincia francese. Della
seconda maniera poi di procedimento del dispotismo, di quando
cioè dà mano al tradimento, gli esempî freschi
si hanno appunto nel 1848 e 1849. Che non fecero i nostri
principi?
Quando un popolo si leva come un sol uomo a qualche incomportabile
atto del dispotismo, segno è che la virtù non
è in lui spenta; segno è che quel popolo ha vita e
sangue e potenza di volere. Così fu in Milano. Ma dove si
leva in entusiasmo per qualche sorriso dell'oppressore, che l'ha
calpestato durante secoli di sciagure e d'infamie; dove gli stende
la destra e gli offre le persone per combattere sotto di lui nella
guerra che questi chiama, ridendo, di redenzione; ove si scuote a
un'amnistia, ei dà mostra, non già di virtù e
di senno, ma di rilassatezza, di meschinità. A tale popolo
la conocchia, anziché la spada, si addice.
I sentimenti che hanno mosso le anime popolari nel primo caso,
porteranno a lungo andare il trionfo della causa; laddove, nel
secondo, il progresso nazionale sarà fiacco, sonnolento, e
si convertirà alla fine in regresso.
Una nazione pesta, tradita, umiliata dai suoi tiranni, stranieri o
interni, poco monta, giammai deve deporre l'odio contro di essi:
la distruzione o di lei o di loro, ecco quali hanno a essere i
termini di conciliazione reciproca. Dove ciò non si faccia,
essa cade nel ridicolo, nel dileggio degli uomini forti: le si
addice il basto.
L'Italia nel 1848 seguì il primo esempio nel centro
soltanto di Lombardia: nel resto, corse bamboleggiando dietro ai
principi riformatori. Che ne avemmo? il nostro stato presente ne
porga ragione!
Di tutte le occasioni che ci si presentarono per la rigenerazione
italiana, dopo la caduta delle nostre libertà nel XVI
secolo, nessuna ve n'ebbe che si potesse paragonare a quella del
1848. Lo spirito repubblicano dovunque in moto; i despoti fuggenti
qua e là, non per forza di un conquistatore, ma per rabbia
dei popoli oppressi che si risvegliavano; sì, per vendetta
di popoli che riconoscevano di avere diritti e potenza, e di
essere un aggregato di uomini ragionevoli. A Parigi, a Milano, a
Vienna, a Berlino, a Praga, a Dresda, a Baden, insurrezione. La
rivoluzione, non che italiana, era europea.
Or bene, in quattro mesi tutto fu finito; e quest'epoca che
sembravaci porta dalla Provvidenza a farci redenti, terminò
col restringere le vecchie catene, e col gettarci in nuovi ceppi.
Gli eventi miserandi di quell'epoca debbono tenerci ammaestrati
per l'avvenire, e farci capaci una volta per sempre, che dove non
sono unità, virtù, sapere nei reggitori di una
nazione, gli sforzi di un popolo sono inutili; l'eroismo delle
masse rimansi sprecato; ed è forza morire o cadere nella
servitù peggiore della morte.
CAPITOLO QUINTO
Cade qui in acconcio narrare i fatti, dei quali fui io stesso
testimone sino al principio della guerra.
Uscito di prigione e ristabilito in salute, mi condussi in
Toscana, dove contrassi dimestichezza coi giovani, che s'erano
scossi agli eventi dello Stato Romano.
Con essi diedi mano alla stampa clandestina e alle rimostranze
pubbliche e segrete, tendenti a far discendere il governo toscano
alle riforme di Pio IX. L'attività, che spiegavasi in
questa bisogna, era veramente sorprendente. I miei andari furono
osservati dalla polizia; venni esigliato, da ultimo arrestato e
tradotto ai confini.
Come Leopoldo II discese alle riforme, tornai in Toscana: vi si
trovavano il colonnello Ribotti e Nicola Fabrizi; mi posi in
contatto con loro, e feci da segretario al secondo nella sua
corrispondenza con Mazzini.
L'argomento poi di questa volgeva sui fatti, che accadevano in
Livorno e Firenze; sull'andamento dell'opinione pubblica; su
quello che v'era da sperare; sul modo di spingere sempre
più il governo a misure popolari.
I moti di Calabria, con Romeo e Mazzoni alla testa (settembre
1847), avevano eccitato di molto gli animi; e benché
terminati, si rammentavano come esempio a seguirsi: in Livorno si
avrebbe voluto fare, ma credendo intempestiva una riscossa in
Toscana, se ne depose il pensiero; a Firenze si tenne un congresso
nazionale, presieduto da Montanelli: vi assistettero Ribotti,
Fabrizi, uno Spagnuolo, l'avvocato Mordini, io stesso in
qualità di rappresentante dell'avvocato Galletti, ed alcuni
altri. Lo Spagnuolo rappresentava un comitato repubblicano della
Spagna, ed offrì i soccorsi del suo partito per la causa
italiana. Fu accettato, ed ebbero luogo da ambe le parti dei
discorsi eloquenti. Il congresso non aveva colore repubblicano.
Nell'inverno del 1847 partì per la Sicilia Giuseppe La-Masa
coll'intento di dare indirizzo alla insurrezione: da Palermo
scrisse che la "merce" sarebbe stata venduta il 12 gennaio; e lo
fu. La rivoluzione scoppiò nel giorno indicato.
Da un Comitato esistente in Roma, e col quale corrispondevano i
giovani più ardenti della Toscana, e Ribotti, e Fabrizi, si
pensò di fare una spedizione negli Abruzzi, onde portare
diversione alle forze del re di Napoli. Ribotti fu scelto a capo;
e Durando, allora in Roma, avrebbe dovuto coadiuvarvi per
ciò che spettava piani militari, ecc. Io partii con Ribotti
per questa spedizione tenendo la via delle Romagne, e Fabrizi
quella di Siena. Giunti in Ancona, sapemmo del re di Napoli e
della Costituzione data il 29 di gennaio. Ciò ebbe
sconcertato ogni cosa: tuttavia seguitammo il nostro cammino per
alla volta di Roma, dove giunti ci mettemmo in comunicazione col
Comitato.
Ai primi di febbraio fuvvi una grande dimostrazione promossa da
Ciceruacchio di concerto col Comitato stesso: si chiesero
uffiziali piemontesi, riordinamento dell'esercito papale, e
secolarizzazione totale del governo. Ne venne di conseguenza che
monsignor Savelli ed altri si dimisero dagli impieghi che avevano.
Il governo credette che in tale dimostrazione v'avesse presa parte
Ribotti, Fabrizi, ed io stesso; ne ordinò l'arresto. Al che
Ribotti si sottrasse recandosi a Messina per comandarvi la
insurrezione.
Di Fabrizi nulla più seppi; e quanto a me, recaimi per le
poste nelle provincie d'ordine del Comitato, di cui facevano parte
Mattia Montecchi e Vincenzo Caldesi, onde spiegare l'oggetto della
dimostrazione popolare.
Sebbene il Comitato di Roma avesse a membri alcuni repubblicani,
pure la sua missione non era di spingere il popolo alla
repubblica. Sedeva come centro per dare una direzione segreta agli
uomini di azione; influenzare la pubblica opinione; spingere il
governo sempre più innanzi; fare che si venisse alla guerra
coll'Austria; paralizzare gli sforzi della reazione; distruggerne,
se pur fosse stato possibile, ogni elemento.
La sua missione era nazionale. Mazzini non vi avea che fare, e il
suo nome suonava malissimo agli orecchi dei membri stessi, che per
lo addietro erano stati in lega con lui. Il Comitato romano
comunicava con altri stabiliti al medesimo oggetto nella Toscana e
nel reame di Napoli.
Stava viaggiando in Toscana, quando venne la notizia della
rivoluzione di Francia; gli tenne dietro quella di Vienna, e
quindi le cinque giornate di Milano.
Tutta l'Italia in moto: le truppe del re di Napoli, del papa, di
Leopoldo II, e di Carlo Alberto si avviavano alla guerra
dell'indipendenza italiana. Con qual animo dal lato dei principi
si vedrà più sotto. Ma dovendo seguire la
verità, è mestieri pur confessare, che la nazione
non rispose come doveva all'appello dei Milanesi. Sicilia diede un
cinquecento volontari, Toscana un quattromila, lo Stato Romano
quattordicimila, Lombardia e Venezia quattordicimila. Questo dal
lato dei popoli. Da quello dei governi: un sessantamila
Piemontesi, un reggimento napoletano, un tre o quattromila
Toscani, da ottomila papali compresi gli Svizzeri.
Or bene, non è ella una meschinità la cifra
risultante da queste frazioni, per una nazione di venticinque
milioni, che si muove alla guerra della sua redenzione?
Per formarsi poi un giusto criterio della prontezza della nazione
a insorgere, non deve tenersi conto delle armate che davano i
governi, le quali sono macchine, ma sibbene della cifra risultante
dai volontari e dai patrioti. Or bene, che sono eglino da trenta a
quarantamila in una guerra santa e di nazionalità? Vergogna
agli Italiani, che diedero solo quel meschinissimo numero! E
vorremo poi dire che gli stranieri non hanno ragione, quando ci
dicono che siamo pronti soltante alle parole?
E cosa fu di tutto quell'entusiasmo pei principi riformatori? Se
non si voleva seguitare il principio repubblicano, perché
non volare, ciò nulla ostante, in massa alla guerra di
riscatto nazionale? perché i costituzionali non diedero
moto a tutte le molle sociali? Ma il ripeto: nel 1848 fuvvi
meschinità nell'universale degl'Italiani. Milano sola
grande. E dove il popolo venne lasciato solo, l'eroismo comparve
di nuovo: così fecero Bologna, Brescia, Venezia, Roma,
Sicilia.
A voi, giovani italiani, cui sono dirette queste pagine
dimostranti gli sbagli di allora dei nostri capi, il lato erroneo
delle opinioni e dei mezzi atti a farci risorgere; a voi sta il
cancellare le onte del 1848. Richiamate alla vostra mente
ciò che fecero i vostri padri nelle epoche delle glorie
italiane; pensate che l'indipendenza non si acquista su pei trivi
o nei caffè, nei teatri, fra le braccia delle belle.
Riguardate alle guerre nazionali di tutti i popoli d'Europa;
riguardate alle guerre della rivoluzione americana e francese del
secolo scorso; alla costante insurrezione spagnuola contro
Napoleone il Grande; prendete esempio dagli stessi barbari, dai
moderni Circassi, e scuotetevi.
Perduta la prima campagna, disperse o ridotte all'inazione le
forze nazionali, tutto rientrava nell'ordine.
Toscana, Roma, e Piemonte avevano tuttavia un regime
costituzionale; e i vagheggiatori di questo speravano già
di continuarsela a ciarlare nelle Assemblee, e a sedersi con
doviziosi impieghi, che a larga mano si erano dai governi
riformatori loro concessi. Gli uomini di cuore invece, il popolo
di Milano, piegavano il collo al prepotente destino; ma altieri,
puri nella loro coscienza, e pronti, non ostante le perdite avute,
a risorgere non appena un raggio di luce per la causa popolare
fosse apparso sull'orizzonte.
Abbandonata Venezia dalle armi sarde, anziché deporre
animo, rinasceva a novella vita, costituivasi a repubblica, e
chiamava a capo del governo Manin, che aveva deposto ogni ufficio
pubblico alla decretata fusione col Piemonte.
In quella città, che ricordava tante glorie italiane, il
vessillo della libertà sventolava di nuovo; ed era bello
vedere, come i giovani più ardenti dell'Italia là
traessero, quasi a convegno di onore, per fare resistenza allo
straniero. Dove non vi avevano elementi di vecchi governi, dove i
cittadini venivano lasciati a loro stessi, dove riscontravasi
possibilità di far testa anche momentaneamente alle armi
straniere, il popolo si riordinava a repubblica, la sola forma di
reggimento adatta agl'Italiani per tradizioni, e necessità
sociali.
Essendo convenuto in Venezia il fiore degli uffiziali napoletani,
che italianamente avevano ricusato di andare là ove il re
voleva, fu da loro dato assetto all'ordinamento militare con rara
saggezza e prudenza; le fortificazioni si migliorarono e si
accrebbero, e all'amministrazione e a tutta la macchina militare
si diede quella impronta di unità, senza di cui è
vano sperare buoni risultamenti. Gli uffiziali veneti ebbero il
governo della marina, e non vennero meno, tanto nell'ordinamento
di essa, come nei conflitti col nemico, a quell'alta riputazione
militare, che rimarrà sempre eterna negli annali italiani.
Al potere civile e politico pose direzione il Manin, facendo con
mano ferma che tutti gli ordini, e di lui, e del comando militare,
fossero rispettati e obbediti; che non s'introducessero disordini
di alcuna sorta nell'amministrazione; che la sicurezza personale
fosse dovunque in vigore; che i circoli popolari, i quali altrove
avevano creato un nuovo stato nello stato, si tacessero, o le loro
mene paralizzate fossero; infine, che venisse impedito il segreto
e tenebroso maneggio delle società segrete, delle
sêtte, che pure non si sa con quale scopo osavano alzare la
testa.
In que' supremi momenti tutto dovea concorrere alla salvezza della
patria, a rivendicare l'onore nazionale oscurato nella prima
campagna, a combattere l'inimico: così fu, e gli eventi
posteriori stanno ad incancellabile esempio di quel che possano la
saviezza italiana, il valore e la fermezza di un popolo, che non
s'è lasciato andare alle intemperanze ciarliere o
fantastiche.
Se da questo lato sorgeva una speranza per la libertà
italiana, in quasi tutto il rimanente d'Italia era il contrario:
la reazione, trionfante a Napoli, vinceva nel settembre anche a
Messina; nello Stato Romano si disarmavano i volontari e
s'indietreggiava in tutta fretta; in Toscana facevasi sordamente
altrettanto; in Piemonte l'aristocrazia e le gesuitiche influenze
si studiavano di volgere la testa del re, acciocché gli
passassero le velleità di nuova guerra.
In mezzo a tutto questo, chi stava al potere? i moderati, i
ciarlieri, vecchi rinnegati, i poeti. Vedevansi però i
Farini, i Lovatelli, capi delle cospirazioni del 1843 e dei moti
del 45, or deputati, ora governatori ed intimi segretari dei
cardinali; vedevansi alle Camere gli avvocati, che andavano in
voce di liberali, e non erano nel fondo dell'anima che retrivi, i
quali se la passavano lietamente, perché dischiuso il campo
alla loro eloquenza.
Quanto a Firenze, Guerrazzi, Montanelli, ed altri poeti, recavano
a poco a poco la somma delle cose governative nelle loro mani.
Così si andava addietro, poiché i moderati, non
dandosi cura delle quistioni vitali, e avendo dismesso il
principio della causa italiana, lasciavano le masse nella
indifferenza; e quando volgevano le cure verso di queste, egli era
per molestarle a cagione dei principî repubblicani, che
levavano alto la testa.
E questa piega di sorda reazione aveva preso radice nel rimanente
di Europa. Trucidati i repubblicani in Parigi a migliaia,
l'influenza di Montalembert ebbe il potere: il gesuitismo e la
reazione la vinsero sull'inettitudine degli uomini del governo
provvisorio, sulla incapacità del poeta Lamartine.
A Praga, a Vienna, a Berlino, disarmati i cittadini, moschettati i
principali liberali, il dispotismo in trionfo.
Ma sul Tevere nuovi casi. Rossi pugnalato; rimostranze popolari
armata mano; gli avvocati, i moderati dell'Assemblea, con inaudito
esempio di viltà, non si dànno pensiero della cosa
pubblica; se ne tornano repente alle lor case in provincia. Il
papa, realizzando il progetto meditato sino dai primi mesi delle
riforme, fugge in braccio al re di Napoli, e un governo
provvisorio si costituisce, onde non dar luogo all'anarchia. Tutti
questi fatti rafforzavano in Italia il partito repubblicano, nel
quale omai si pongono le speranze per nuova riscossa nazionale.
Il governo provvisorio di Roma procedeva in questo mentre con una
saggezza non comune; e tenendo lungi ogni elemento di disordine,
metteva fuori il decreto per la elezione di una Costituente, che
avesse manifestato il suo volere intorno alla forma di governo.
Da ogni parte dello Stato s'incominciò adunque a por mano
alle elezioni; e tutto dava argomento, che i deputati sarebbero
stati quasi tutti di colore repubblicano.
Mentre che in alcune parti d'Italia stavasi raccozzando degli
elementi, che potevano dar luogo alla lotta repubblicana, un fatto
assai importante sorgeva sulle sponde del Danubio. Incominciava la
guerra d'Ungheria contro l'Austria; ma troppo tardi: l'egoismo
mostrato dai capi magiari al principio della nostra rivoluzione,
lor costò caro; l'aver promesso di dare fino all'ultimo
soldato contro gl'Italiani, purché fossero loro serbate
certe garanzie nazionali, fece sì che l'Austria
temporeggiò durante la lotta italiana; e, vinta questa,
negò le pretese magiare. Vennesi a guerra; ma nulla
più potendo gl'Italiani, e la rivoluzione essendo
schiacciata in Europa, i Magiari non potevano sperare soccorso
dagli altri popoli. Ma come finissero i Magiari si vedrà in
appresso.
Essendo nello Stato Romano compiute le elezioni, i deputati si
riunirono legalmente in assemblea il di 5 di febbraio a Roma, e
nella notte dall'8 al 9 proclamarono la repubblica(11).
I deputati alla Costituente, se non di grande ingegno od
erudizione, avevano in gran parte delle doti assai migliori:
bontà di cuore ed amor patrio.
Il potere esecutivo venne affidato ad un comitato composto di
uomini coscienziosi ed onesti. L'amministrazione dello stato,
basata sul sistema vecchio, presentava ogni dove disordine e
corruzione burocratica. Le truppe erano disorganizzate; gli
Svizzeri quasi tutti avevano lasciato le insegne; e gli uffiziali
piemontesi, che presiedevano all'organizzazione dell'armata
papale, davano la loro dimissione al sorgere della repubblica. Le
operazioni dei governanti dovevano trovare i più grandi
ostacoli ed inciampi ad ogni piè sospinto.
Da ciò la necessità di un potere veramente energico,
che avesse dato moto a tutte le molle rivoluzionarie, agli
interessi dei più, e si fosse lanciato innanzi senza temere
e vacillare. Ma né Armellini, né Saliceti, né
Montecchi possedevano o la forza di volontà, o l'istinto
rivoluzionario, necessari nei casi supremi; né da tanto
erano i ministri loro, che potevansi avere per la personificazione
della dolcezza e moderanza civile.
Ma che avveniva dell'uomo della rivoluzione, predicato almeno come
tale dagl'Italiani? di Mazzini? del grande agitatore genovese?
Dopo la perdita della prima campagna, seguì per la propria
salvezza la colonna dei volontari comandata dal generale
Garibaldi: stette con essa armato di carabina, e dopo un dieci
miglia di insolite fatiche, sentendosi assai indisposto, ebbe per
meglio di condursi nella pacifica Lugano. Ivi prese a scrivere i
Ricordi ai giovani, in cui sviluppava l'argomento della guerra
regia, dimostrando a chi si dovessero apporre i rovesci toccati, e
dicendo che unica speme di salvezza era la repubblica. Mentre che
egli stava dettando le sue parole, il popolo italiano, per
necessità di fatti, non influenzato dalle opinioni di alcun
uomo, per quel sentimento che fermentava in ogni cuore
patriottico, il popolo italiano proclamava la repubblica a
Venezia, a Roma, e altrettanto si apprestava di fare nella
pacifica Toscana.
Scosso il capo della Giovine Italia agli impensati rivolgimenti,
alla perfine si muoveva recandosi dalla Svizzera in Toscana; ed
ivi si studiava di persuadere i governanti a decretare
l'unificazione con Roma. Non potendovi riuscire, lasciò
Firenze; e il 5 di marzo faceva il suo ingresso a Roma, dove il 12
di febbraio era stato fatto cittadino romano, ed il 25 eletto a
deputato.
Vediamo ora quali eventi si svolgessero in Piemonte.
Nonostante le mene dei retrogradi, Carlo Alberto pensava di
tornare in campagna: radunava un centomila soldati, e li metteva -
nuova onta nazionale - sotto un generale estero ed incapace.
La maggior parte dei soldati piemontesi lasciava numerose
famiglie, sprovviste dei sussidi del loro capo; sicché,
come ben diceva il general Bava, anziché guardare al nemico
si volgeano addietro. Gli uffiziali superiori dicevano di andare a
far una passeggiata militare, poiché era follia il voler
sostenere una guerra contro tutta Europa.
I repubblicani, dal canto loro, insinuavano al soldato di non
battersi, perché trattavasi di una campagna a favore del
dispotismo, perché Carlo Alberto era un traditore.
I gesuiti e retrogradi consigliavano invece di non andare alla
guerra, perché mentre eglino spargevano il sangue pel Re, i
repubblicani avrebbero saccheggiato i palazzi regali, abbruciato
gli altari, scannati i loro figli.
Si aggiunga a queste infamie la inettitudine del generale in capo,
il niuno accordo dei generali subalterni, i semi di discordia
sparsi dagli emissarî austriaci, la poca perizia nelle armi
di gran parte dei vecchi contadini, cui si era dato il fucile; e
si vedrà che la disfatta di Novara doveva essere una
conseguenza necessaria di un tale stato di cose.
All'annunzio della seconda campagna, il governo romano, lasciando
le incertezze imperdonabili intorno alla organizzazione delle
truppe, decise di voler partecipare alla guerra dell'indipendenza;
e il 21 marzo, due giorni prima, cioè, che la battaglia di
Novara avesse luogo, prendeva le disposizioni necessarie per la
mobilitazione di diecimila uomini, disseminati in tutto lo Stato,
che affidava al comando del generale Mezzacapo.
Venezia, dal lato suo, di gran lunga più sobria in
proclami, mandava alle spalle del nemico da sedici a
diciassettemila soldati perfettamente organizzati.
Toscana perdentesi in ciarle ed in manifesti, che d'altronde
possono servire come esempio di eloquenza, non un soldato spediva.
Sicilia aveva di che pensare contro le armi del re di Napoli, e
non poteva disporre di un soldato.
Talché se alla prima campagna s'incontrarono sui campi dei
corpi di volontarî di tutte parti dell'Italia, nella seconda
non fu lo stesso: la nuova guerra venne sostenuta dai
Lombardo-Veneti e dai Piemontesi soltanto. A chi la colpa? al
disaccordo generale; alla mancanza di un uomo, che avesse, con
superiorità d'ingegno, forza di carattere e d'influenza,
potuto impadronirsi delle menti, e dare un moto a tutte le parti
sconnesse e dislegate degli stati liberi.
E queste sono le ragioni che mettono innanzi i moderati contro i
repubblicani.
Ma che che ne sia, il 23 di marzo le pianure novaresi furono
testimoni della disfatta dei Lombardo-Piemontesi, del disastro che
la diede vinta alla reazione di tutta Europa. I deputati romani si
commossero al fatale annunzio; il pallore comparve sul volto
dell'universale degl'Italiani: solenne prova, che da un punto
all'altro della penisola sentivasi di essere Italiani. Ma a che
valgono i pianti al momento dell'infortunio?
Avemmo concordia di lutto nel dì della perdita; e
perché non la mostrammo alla vigilia della battaglia?
perché tutti non volammo là, ove il dover nostro ci
chiamava? là dove un ceffo tedesco stava calpestando il
suolo italiano?
Perdemmo: ben ci sta. Dopo la battaglia di Novara, la reazione non
ebbe più ritegno.
Sicilia vinta, Toscana in mano di furibonda plebaglia, eccitata
dagli aristocratici e dai reazionarî.
Nuovi tentativi di rivoluzione in Germania, ma vinti non appena
apparsi; la guerra ungarese ardita, audace, di trionfo in trionfo.
Tutto per niente. Parigi, Austria, Russia, Prussia, e papa in un
viluppo contro la rivoluzione! E l'Inghilterra? che faceva la
regina dei mari? Essendosene rimasta colle mani alla cintola
quando egli era tempo di soccorrere la libertà dei popoli,
bisognava bene che ora seguitasse nella stessa via d'indifferenza.
Ma forse ella faceva di più; e pensava a scoprir forse
nello scompiglio generale qualche nuovo sbocco, dove mandare le
sue mercanzie.
Tornando ora alle cose di Roma, sedevano i deputati in comitato
segreto, quando pervenne la notizia di Novara. In quel momento
supremo non si perdettero già di animo; ché anzi
decretarono di voler fino all'ultimo sostener l'onore italiano; e
prevedendo la piena che era per venire loro addosso, vollero
creato un Triumvirato, a cui con illimitati poteri fu commessa la
somma delle cose governative. Tale provvedimento avrebbe dovuto
prendersi al proclamare stesso della repubblica; sin d'allora si
richiedevano misure energiche e unità di potere, ma il
tempo nei rivoluzionari del 48 e 49 fu mai sempre un elemento
secondario.
I membri del Triunvirato furono Mazzini, Saffi, ed Armellini. Il
primo portò costanza e attività non comuni; gli
altri due, se buoni forse di navigare col compasso quando il tempo
è in bonaccia, riuscivano del tutto incapaci di stare al
timone, allorché la tempesta si approssimava. Si può
adunque dire che il Triumvirato era Mazzini: e fu a desiderarsi,
che alla sua attività avesse accoppiato profondo
conoscimento degli uomini, senno pratico e cognizioni militari.
Roma era il solo punto, in cui il concetto nazionale della
libertà e della unità ampiamente si svolgesse.
Ogni Italiano poteva essere cittadino romano, o deputato
all'assemblea, o posto agl'impieghi; ivi non traccia di
municipalismo offuscava la mente dei reggitori, mentre che il
contrario avveniva nei capi del governo veneto, toscano e siculo.
Sin dacché la repubblica fu proclamata, noi sentimmo di
essere Italiani senza distinzione di dialetto, di foggie, d'idee,
di provincia, e all'ombra della maestà del Campidoglio
fratelli ci dicemmo, e come tali ci abbracciammo.
Durante il Triumvirato, tutta la macchina governativa s'ebbe nuovo
impulso di moto; una commissione di guerra fu istituita per
ciò che concerne il dipartimento militare, e si presero
forti misure contro gli assassinî politici, che infestavano
alcune provincie.
Ma quanto a' soldati, se ne poté a mala pena mettere
assieme un quattordicimila per fare fronte alle invasioni estere,
che si annunziavano prossime; meschinissimo numero, se si
considerano i quasi tre milioni dello Stato Romano.
Quantunque il Triunvirato dispiegasse nuovo e potente vigore, era
ben lungi a' sua volta dal possedere il genio rivoluzionario.
Avrebbe dovuto interessare con grandi provvedimenti le classi
agricole e povere dello stato; recare la face della repubblica
negli stati vicini: nulla di questo. Mazzini, padrone del campo,
di mezzi finanziari, di quattordicimila soldati; egli che aveva in
mano tutte le risorse di uno stato in rivoluzione, generali e
ardenti uffiziali; egli, il propugnatore della guerra per bande,
che aveva tentato spedizioni senza probabilità di riuscita,
con venti, cinquanta, cento uomini malamente armati e pagati:
egli, dico, non dovea spingere soldatesche negli Appennini
abruzzesi? E prevedendo, anzi sapendo della invasione francese,
cui era impossibile resistere(12), non doveva egli accendere la
guerra nella vicina Napoli? porre sossopra questo reame potente e
forte per armi, popolazione, danaro, soldati, posizioni
strategiche? spedirvi Garibaldi, il cui nome infiammava le menti
del soldato, dell'agricoltore, del montanaro? Non doveva far
insorgere le regioni del Garigliano? E da ultimo, non aveva egli a
trasportare la sede della rappresentanza nazionale in un punto,
dal quale, come da sicura base di operazione, dar principio alla
nuova guerra italiana? alla guerra di esterminio? Niente di tutto
ciò: racchiuse la difesa a Roma, la quale dovea far prove
di eroismo, sì, ma cadere; e quando non vi era più
tempo, quando i Francesi stavano per calpestare la città
de' Cesari, quando gran parte dei suoi difensori caduti erano per
ferro nemico: allora, sì, egli avrebbe voluto uscire
coll'assemblea, e portare nelle vicine montagne la fiamma della
rivoluzione. Ma e' non era più tempo: forza voleva che si
piegasse il collo.
Ma se questo dimostra la sua inettitudine rivoluzionaria, altro
errore massimo, imperdonabile, ei commise quando i Francesi
sbarcarono in Civitavecchia.
Al costoro arrivo egli spedì al comandante Oudinot il
ministro degli esteri e il deputato Pescantini, per chiarirsi
della volontà del generale; questi, dal canto suo,
mandò in Roma il colonnello Le Blanc, acciocché
esaminasse le disposizioni della popolazione romana. Il colonnello
niun mandato aveva di intertenersi officialmente col governo
romano; egli era un particolare, e non altro.
Mentre adunque il Triumvirato dovea meditare profondamente sugli
eventi prossimi, onde determinare un criterio di pace e di guerra;
mentre che a tal criterio dovevano concorrere, come elementi
necessarî e indispensabili, le risposte dei due inviati al
campo francese: Mazzini ricevette invece il colonnello a stretto
colloquio; e questi, a proposito della spedizione, lasciò
francamente intendere che si voleva ristabilire il papa. Irritato
a ciò il Triumviro, recossi subito alla Camera, fece palesi
le parole del colonnello, persuase alla resistenza armata; e
l'Assemblea, di mezzo agli applausi e all'entusiasmo,
decretò le ostilità contro i Francesi. Il dado era
gittato: gli inviati spediti al campo rimasero inutili; la pace
non più possibile; guerra e poi guerra.
Questa adottata, dovevasi almeno spingere innanzi con ogni mezzo
possibile; ma no: il difetto stesso di senno pratico, che aveva
fatto precipitare Mazzini nel dichiararla, lo ebbe spinto ad altro
errore. Venne Lessèps: il generale francese voleva tempo;
qui stava l'inganno del governo di Francia; e l'illustre
Triumviro, caduto nella rete, incominciò trattative per un
accordo pacifico quando era ridicolo il pensarvi; quando la pace
doveasi per logica politica risguardare come un sogno; quando
l'onor delle armi francesi non avrebbe mai permesso all'armata di
dipartirsi senza una battaglia vinta. E così si perdettero
i giorni in note diplomatiche(13), e fu dato agio a Oudinot di
ricominciare le ostilità con frutto.
Riassumiamo: errori del Triumvirato, ossia di Mazzini:
1°) difetto di misure radicali e rivoluzionarie;
2") non avere portata la rivoluzione nel reame di Napoli;
3°) precipitazione nel dichiarare la resistenza ai Francesi;
4°) il 30 aprile non aver dato ordine a Garibaldi di
ricacciare i Francesi in fuga sulle rive e al di là di
Civitavecchia;
5°) essersi lasciato ingannare dal colonnello Le Blanc;
6°) perdita di tempo prezioso in venti giorni di note
diplomatiche, che non potevano logicamente riuscire ad alcun che:
- fatti, che hanno mostro a chiare note essere vera l'accusa
datagli di non aver senno pratico politico.
E questo è l'uomo, da cui spera l'Italia la sua redenzione?
Quanto a me, dopo i combattimenti di Vicenza e di Treviso,
seguitai il battaglione comandato da Zambeccari, di cui ero
capitano, che si portò a Venezia. Posti in presidio nel
forte di Marghera, mi venne affidato il comando della lunetta n.
12, ove stetti fino alla sortita, che ebbe luogo la notte dal 27
al 28 ottobre 1848.
In questo fatto d'armi, che finì colla presa di Mestre,
ebbi il comando dell'avanguardia dell'ala destra; e dal nostro
lato s'incominciò coll'assalto alla baionetta di un dente
difeso da due pezzi di artiglieria: lo prendemmo di sbalzo, e su
quaranta uomini che l'attaccarono quindici caddero fra morti e
feriti. Fra i secondi fu il capitano Giuseppe Fontana, che cadde
ai miei fianchi, ed a cui venne amputato il braccio destro.
Dopo l'uccisione del Rossi e la fuga del papa, il battaglione a
cui apparteneva s'ebbe il cambio. Rientrati in Bologna, e proposto
a candidato per la Costituente Romana dai collegi elettorali di
Bologna e Forlì, fui eletto per questa seconda provincia,
ed accettai l'incarico. Nel marzo fui inviato come commissario
straordinario a Terracina dal Comitato esecutivo, e nell'aprile
colla stessa veste nella provincia di Ancona per ordine del
Triumvirato.
Gli omicidî politici nello Stato Romano avevano origini
antiche: gli odî rimontavano alla instituzione dei
centurioni e sanfedisti. Sotto il pontificato di Pio IX molte
vendette ebbero luogo contro gli ex-centurioni e i satelliti di
Gregorio: né il governo poté mettervi un argine.
Venne la repubblica, e si proseguiva nelle uccisioni colla stessa
furia. Questo male si estese anche di più; prese
proporzioni gigantesche: da vendette politiche trascorse ad
oggetti più ignobili: talché in alcune provincie non
vi aveva più sicurezza personale. Il governo repubblicano,
che, per togliere adito allo sfogo di vendette politiche, avrebbe
per legge dovuto prendere delle misure severe contro i
reazionarî, e coloro che macchinavano a danno del nuovo
ordine di cose, lasciò fare: e volle dar mano ai
rimedî, quando era assai difficile. Spedì due
commissari per reprimere i delitti: questi vennero a transazione
cogli autori degli omicidî. Si credette allora di dover
mandare me: così fu, e nelle istruzioni di Mazzini si ebbe
ricorso allo stato d'assedio; formole del vecchio dispotismo, che
non si sarebbero mai dovute usare. Accettato l'incarico, data la
mia parola d'onore di eseguire gli ordini del Triumvirato, lo
feci, e i miei sforzi furono coronati di felice successo.
Compiuta la missione di Ancona, che mi portò disturbi non
piccoli, giacché si tentò di togliermi
proditoriamente la vita, per la energia dimostrata, il Triumvirato
mi volle spedito nella provincia di Ascoli, dove era necessario di
poteri illimitati e di forza non comune per reprimere il
brigantaggio, suscitato alle frontiere napolitane da preti e
monsignori. Assunsi il comando civile e militare della provincia,
e dopo vari combattimenti, fu forza, caduta Ancona, di cedere e
capitolare.
Era mia intenzione di ritirarmi e condurre le truppe a Roma:
questo progetto, che richiedeva certo audacia e fatiche, non volle
seguitarsi dagli uffiziali sotto i miei ordini. Vennero
perciò a capitolazione cogli Austriaci nella piccola
città di Fara: ed io, non avendone voluto far parte, men
dipartii incognito dopo l'entrata del nemico, e potei, superate
alcune difficoltà, entrare in Roma.
Alla fine, dopo tratti di un eroismo che ricordava i tempi
antichi, dopo aver perduto il fiore della gioventù italiana
mitragliata sugli spalti dell'eterna città, dopo prodezze
inaudite dei generali Garibaldi, Roselli, dei colonnelli Manara,
Medici, Calandrelli, e di molti altri uffiziali superiori, il 3
luglio fu decretata impossibile la resistenza. Mazzini
rassegnò il suo potere; i suoi due colleghi fecero
altrettanto. Garibaldi gettossi ai monti con quattro o cinquemila
soldati che il vollero seguire; i Francesi entrarono; l'Assemblea
romana dispersa; i patrioti disarmati; i migliori e i più
compromessi in esiglio; Roma in lutto.
Noi perdemmo: ma sotto la nostra caduta sta celato un gran fatto
morale, le cui conseguenze si faranno ben presto sentire: voglio
dire del papato, di questo vieto carcame, che osa ancora
pretendere di aver a sua disposizione le chiavi del paradiso; di
questo essere, che ha seminato la discordia, la diffidenza, e lo
scandalo dovunque s'è intromesso; di questa istituzione,
che ha acceso i roghi dell'Inquisizione, sparso il sangue degli
Ugonotti a Parigi, dato mano ad ogni specie di dispotismo; di
questo vilissimo dispensatore d'imperiali e regali corone,
portatoci sul collo e tenutoci dall'armi del traditore che regge
oggi la Francia.
Sì, il papato è caduto moralmente, e per sempre! Se
Roma sturbava i sonni del dispotismo, non così fu dopo
l'entrata dei Francesi: in tutta Europa, a passi giganteschi, si
avanzò verso il suo trionfo.
La rivoluzione terminò a Vilagos col tradimento di
Görgey, e in Germania colla caduta di Rastadt. Infine,
Venezia, dopo avere sostenuto un assedio che fa epoca negli annali
dell'arte militare, venne ridotta a dedizione il giorno 22 agosto
1849.
Italia, che a Palermo aveva impugnato le armi per la prima, era
altresì l'ultima a deporle; e dava a vedere al mondo
intero, che pochi Italiani veri vi furono, ma che quei pochi
armati valsero a fare impallidire i loro tiranni, ad accendere la
rivoluzione in tutta Europa, ad affrontare le armate di Francia,
Austria, e Spagna!
Che non sarebbe stato se invece di un pugno d'Italiani ne avesse
racchiusi nel suo seno un centomila? Che, se i reggitori di lei
avessero avuto capacità e ingegno?
CAPITOLO SESTO
La Repubblica Romana lasciava un addentellato: il 4 luglio del
1849, alcuni deputati dell'Assemblea nominavano un Comitato
Nazionale Italiano, composto di Mazzini, Saffi e Montecchi:
davangli mandato di contrarre un prestito nazionale in nome del
popolo romano, e per la salute dell'Italia; di accrescere a
talento il numero dei membri di esso; di fare un appello ai veri
Italiani, onde averne soccorso morale e materiale.
Il Comitato si costituì regolarmente all'estero, e nel
settembre del 1850 emise delle cartelle per contrarre il prestito
nazionale; i membri accresciuti nelle persone di A. Saliceti, e G.
Sirtori: il segretario, Cesare Agostini. Durante le sue
operazioni, un altro Comitato prese vita col nome di "Europeo".
Mazzini vi rappresentava l'Italia, Ledru-Rollin la Francia,
Darasaz la Polonia, Ruge la Germania.
L'oggetto: repubblica universale, fratellanza, solidarietà
delle nazioni.
Ambi i Comitati si considerarono di già come governi,
tennero sedute, e, a foggia di atti pubblici, mandavano fuori
periodicamente i loro proclami ai popoli dell'Europa.
S'ebbero pure degli emissarî, quantunque scarsi, che
percorrevano le provincie.
Così i governi potevano più agevolmente conoscere le
trame dei loro nemici; la cospirazione era in piazza.
Quanto al Comitato Italiano, ognuno ben conosce quali fossero i
suoi primi frutti: appiccamenti in Mantova di molti Lombardi, e
galera per parecchie centinaia.
I suoi agenti erano riusciti a stabilire centri repubblicani negli
stati romano e toscano, nei ducati, e perfino, benché in
minimi termini, nel Napoletano. Quanto alla Lombardia, si
rinveniva reluttanza e freddezza a cagione del processo del 1852.
Tuttavia il partito repubblicano era moralizzato, forte,
rispettato in Italia e fuori, temuto dai governi italiani e dal
Piemonte stesso; Mazzini, a torto o a ragione, godeva della
fiducia quasi universale degli Italiani, e si pensava fosse l'uomo
della rivoluzione, l'uomo che avrebbe decise le sorti della nostra
patria. Egli era pure il capo del Comitato Nazionale Italiano, e
nessuno osava opporsi ai suoi cenni. E questo fu il momento, in
cui toccò l'apice di sua potenza.
Quel suo fare però di assolutismo alienò Sirtori,
Saliceti, e Montecchi: i primi due si ritirarono dal Comitato;
Agostini, bisognoso del soldo per vivere, stette con lui; Saffi si
mantenne saldo, e sacrificando sempre la ragione e la
verità all'amicizia, ne fu uno strumento cieco.
Approssimandosi il 1853, Mazzini avvisò di torsi
dall'inerzia; credendo che ad un suo cenno l'Italia sarebbe
insorta in massa, volle tentare la rivoluzione, che doveva portare
la riforma civilizzatrice, unitaria e religiosa a tutta Europa.
Più gigantesco progetto di questo non poteva per
verità concepirsi!
Nelle discussioni, se pur ve n'ebbero, del Comitato composto di
Mazzini, Saffi, Agostini e Montecchi, quest'ultimo si opponeva al
tentativo. Ma la sua voce in tutti i casi era zero rimpetto agli
altri. Dunque silenzio.
Il movimento doveva incominciare a Milano; e Bologna, Ancona, e le
principali città d'Italia avrebbero dovuto seguirlo, alla
notizia che fosse riuscito. Quanto alle armi, pugnali e coltelli,
poiché era stato quasi impossibile l'introdurre fucili; sen
trovava nullameno un piccolo numero unitamente a qualche granata,
ma sì meschina la quantità, che non valeva la pena
di parlarne. Certo B..., ex-maggiore dei volontari, e F..., ambi
non lombardi, ignari delle località, del fare del popolo e
senza influenza, furono incaricati dell'esecuzione del progetto in
Milano. Il primo, giovane di qualche ingegno militare, di ottima
volontà, di moltissimo coraggio. Il secondo, di qualche
ardire e nulla più. B[rizi] stette alcuni mesi in Milano, e
si associò ad un certo numero di popolani, cui giornalmente
faceva correre la paga. Oltre a ciò, col mezzo di un
ex-caporale ungarese, manteneva intelligenze con dei
sotto-uffiziali, estendendole perfino tra alcuni distinti
uffiziali, che per buona sorte non vennero mai scoperti. La massa
della popolazione nulla sapeva di quanto tramavasi; la classe
media non ne sospettava nemmanco, e pochi giovani civili soltanto
avevano qualche segreta pratica col B[rizi], e coi popolani
insieme. Uno dei capi del popolo che aveva in custodia un 10.000
franchi, se ne fuggì a recandosi in Ispagna: nulla ostante
si procedette avanti. Messo il partito di assaltare gli uffiziali
mentre stavansi raccolti nel tripudio di una grande festa da
ballo, B[rizi] vi si oppose mancando così alla prima legge
delle cospirazioni, la quale vuole che dove mancano armi, dove
sono proibiti i bastoni, egli è lecito di ricorrere ad ogni
mezzo che valga a distruggere il nemico. Lasciata sfuggire tale
occasione, venne invece stabilito di doversi assaltare il
Castello, le principali caserme, mentre che in altri punti il
popolo avrebbe fatto un vespro siciliano dei soldati, che
s'incontravano per istrada. Per l'esecuzione di tal disegno si
colse il momento, in cui eglino erano di libertà e inermi.
Mazzini in questo mentre stavasi a Lugano, donde non si mosse
mai(14).
Saffi e Pigozzi passavano contemporaneamente da Genova,
internandosi nello Stato Romano; Franceschi recavasi in Ancona; io
men partiva alla volta del ducato di Modena per raggiungere i due
primi in Bologna, dove doveva formarsi un comitato provvisorio di
governo, di cui Giuseppe Fontana, ex-maggiore, avrebbe dovuto
essere il segretario.
L... trovavasi in Piemonte a dare istruzioni a destra e a
sinistra: vari agenti percorrevano le provincie romane, toscane e
lombarde. L'emigrazione stavasi all'erta e pronta a varcare i
confini, ove una mossa, un fatto si fosse udito: grandi speranze
dappertutto, uno stringersi la mano furtivo, un far voti, un
volare colla mente nel paese natio, un pensare alla vendetta
contro l'Austriaco e il papa. All'estero gli stessi voti.
Qua e là sacrifizî di persone, di affetto, di danaro:
tutto in moto. Ad onta di questo, alcuni de' più influenti
fuorusciti, residenti in Genova, disperavano e mancavano di fede:
non sapevano i particolari del piano, né chi lo avesse
discusso: si diceva essere escito dalla testa di Mazzini, che non
aveva mai voluto sottomettere i suoi progetti alla disamina
degl'intelligenti; e ciò recava sconforto.
Da un'altra parte, le voci del prossimo tentativo erano in bocca
d'ognuno; e il signor Buffa, intendente di Genova, chiamava a
sé alcuni fuorusciti, ammonendoli a mantenersi quieti.
Stando così le cose, seppesi a un tratto essersi
schiacciato il principio di una insurrezione a Milano, messo mano
agli arresti, legge marziale, impiccamenti, ecc.
Ed ecco come procedette il caso.
Pochi giovani eroi, nel dì 6 febbraio, si avvicinarono
sotto specie di curiosità all'ingresso del Castello ed in
un attimo slanciaronsi sulle sentinelle, penetrando nell'interno;
ma invece di dare di piglio ai moschetti, che loro stavano sotto
mano, s'impadronirono di un cannone, e si avviavano a trarlo
fuori. Riavutisi i soldati dal primo sbigottimento, loro furono
addosso, e li arrestarono, mentre stavano giocolandosi intorno al
pezzo, che in quell'istante serviva di impaccio anzi che no.
Entrati, avrebbero dovuto coi fucili del corpo di guardia correre
nel quartiere, e a colpi di baionetta assaltare il rimanente de'
militi ivi stanziati. Mancato a questo, e' furono perduti. Mentre
compievasi un fatto sì eroico, niun altro moto sorgeva
contro le caserme: e tutto limitavasi a pugnalare alcuni soldati
che trovavansi tra via(15). Sicché in un lampo ogni cosa
sfumata.
Se l'ardimentosa impresa destò da un lato la meraviglia e
lo spavento nel comando militare, pose dall'altro in commozione
gli abitanti di Milano, e s'ingenerò in un subito quel
sordo agitarsi e bucinare di popolo, che è foriero di
rivoluzioni: un accidente solo avrebbe bastato a dar fuoco
all'incendio. Ma gli Austriaci, prevedendo la burrasca, usarono di
una prudenza straordinaria: non un soldato ebbro di vino, non
un'ingiuria a chicchessia. Ma passati quei primi istanti di
bufera, s'incrudelì poscia e senza fine: nessuno fu
più sicuro, né fuori, né nelle private
abitazioni: il dispotismo militare in pieno vigore.
Andato in fallo il tentativo di Milano, nulla fu possibile di
effettuare nelle altre città d'Italia, e gli agenti spediti
tornaronsene, dopo aver superati non pochi ostacoli, pericoli e
fatiche. Gli emigrati non se n'erano stati nell'inerzia, ed ai
confini del Piemonte alcuni di loro aveano tentato di sboccare con
armi e munizioni sul territorio lombardo: la polizia sarda seppe
ciò per tempo e mandò soldati che impedirono la
riuscita del piano(16).
Conseguenze dell'accaduto:
1°) il partito repubblicano, sino allora potentemente
organizzato, a guisa di nobile vascello urtato in uno scoglio,
andò in piccolissimi frantumi;
2°) recriminazioni tra i varî partiti e nel seno stesso
dei repubblicani;
3°) calunnie basse dei moderati, dei costituzionali, dei
monarchici, dei reazionari contro i repubblicani;
4°) trionfo del partito costituzionale;
5°) Mazzini perduto nella opinione, e abbandonato dai migliori
patrioti;
6°) accuse contro di lui d'incapacità pratica; evocate
le spedizioni di Savoia, dei Bandiera, ecc. e tutte le sue utopie;
7°) scioglimento del Comitato Nazionale Italiano: le sue
operazioni, incominciate bene, avevano finito con una disfatta
senza esempio, dando a vedere tenuità di mezzi, difetto di
tatto politico nello scegliere la opportunità del moto;
ché una nazione, e dopo le stragi e le fucilazioni del 1848
e 1849, dopo tale rivoluzione perduta, rimansi spossata, e non
può in uno o due anni tornare da capo;
8°) il repubblicanismo rimasto un nome; perdita di
rappresentanza nazionale, e di prestigio morale;
9°) impiccamento e galere in Lombardia; prigioni nello Stato
Romano, in Toscana e ne' Ducati; arresti e trasporti in massa dei
fuorusciti dal Piemonte;
10°) divisioni; sfiducia universale.
Mazzini, che dal 1831 sino al 5 marzo del 1848 era stato capo
della Giovine Italia, indi dell'Associazione Nazionale Italiana,
istituita a Parigi, e presidente del Comitato Nazionale Italiano,
allo scioglimento di questo rientrò nei termini di un
privato, o, tutt'al più, di un capo settario.
A questo e' venne consigliato da alcuni amici, fra i quali Nicola
Fabrizi e Montecchi, di deporre ogni maneggio di cospirazione; e
dalle lettere che egli medesimo scrisse al secondo, sembrava non
gli fosse discaro l'avviso.
Poco dopo cambiò talento, riscrisse: altri amici
confortarlo a star saldo, ciò voler fare. Mandò
fuori un libricciuolo di giustificazione, e pose mano a nuove
operazioni.
Stabilì un centro di operazione, composto di lui solo,
avente a consiglio lui solo; venne a comporre un Dittatorato
cospiratorio.
Il veicolo dei suoi atti pubblici rimase il giornale dell'Italia e
Popolo, nutrito da lui e dalle oblazioni di alcune sue vecchie
amiche di Londra.
Tornato in Inghilterra, egli ardeva di riabilitarsi in faccia al
partito, e di porre un velo agli scacchi toccati costantemente nei
suoi tentativi insurrezionali. Gli parvero acconce le idee da me
emesse di operare negli Apennini dell'Italia centrale, e
stabilì d'incominciare un moto in quelle prossimità.
Se il pensiero era stato il mio, la scelta della
opportunità nol fu certo: questa a lui spetta. E per quanto
ignorante si possa essere in fatto di conoscenze militari, non si
approverà mai l'incominciare una insurrezione di bande
all'approssimarsi dell'inverno, a meno che questa non avesse dato
incendio alla grande rivoluzione italiana: cosa che Mazzini,
quantunque sragionevolmente, ebbe sempre per fermo. Comunque
siasi, egli mi scrisse che avrebbe voluto eseguire il movimento
nelle posizioni accennate, e mi richiese della somma necessaria
per munizioni, trasporto di genti, ecc. Si calcolarono un 8.000
franchi.
Trovandosi in Nizza l'ex-maggiore Giuseppe Fontana(17), uomo
pratico ed esperto, mi consultai con esso intorno al piano
proposto; nel che mostrommi franco la improbabilità di
successo, ove non fossi stato sostenuto contemporaneamente in
altre parti d'Italia. Nulladimeno si associò a me, e
stabilimmo di operare di concerto. Ne scrivemmo a Mazzini.
Fontana, più esigente di me, gli dimandò
informazioni intorno al piano generale, dando a travedere il
desiderio di conoscere quali insurrezioni avrebbero dovuto essere
simultanee alla nostra. Mazzini, rispondendo a me, e non a lui,
diceva: "Deciditi pel sì o pel no; scuotiti, e a posta
corrente invierò il danaro". Riscrissi, accettando di
mettermi alla direzione del moto: e a volo di posta ebbi l'ordine
per 7.000 franchi.
Quali elementi aveva io pel movimento?
Mi accingo a dirlo.
1°) Ricci e Cerretti, due giovani attivi, narravano: il primo,
di avere a disposizione qualche centinaio di uomini di Massa,
Carrara, Fosdinovo, Fivizzano, Sassalbo, e del contado: il che in
parte era vero; il secondo, di poter contare sur un cento guardie
nazionali della Spezia e di Sarzana, oltre a un buon numero di
fucili, che dovevano portare seco; e in ciò s'illudeva: ma
anziché a sua colpa deve attribuirsi a questo, che nelle
cospirazioni, sovra cento giovani che promettono lungi dal
pericolo, cinque o dieci mantengono la parola all'istante dato;
2°) parecchi fuorusciti, dimoranti in Nizza e a Torino, tutti
ex-uffiziali, pratici di guerra e istruiti, che stavano a mia
disposizione; oltre ad alcuni altri che potevano servire come
fedeli, e arditi soldati(18).
Dato il danaro necessario pel viaggio a questi, ne spedii alcuni
alla Spezia per la confezione di ventimila cartucce, e diedi loro
una provvisione di circa quarantamila cappellotti da fucile.
Poscia me ne partii io stesso pel Colle di Tenda coll'ex-maggiore
Ugo Pepoli(19). Toccai Torino, m'abboccai con altri uffiziali, e
mi condussi a Sarzana.
Gli uomini destinati per le munizioni stettero in una campagna
della Spezia; non fu possibile a Cerreti di trovarla nelle
prossimità di Sarzana; il che fu cagione d'inconvenienti.
Sulla fine di agosto m'indettai con Fontana di Carrara,
ex-maggiore di Garibaldi: giovane ardito, buon patriota, e capo
influente de' Carraresi. Tutto fu concertato con lui, con Ricci,
con alcuni del ducato di Modena, ed altri di Sarzana. Ciò
posto, fissai di passare le frontiere alle due del mattino del 2
settembre, se non erro, onde sul far del giorno essere sotto
Carrara; e fin dal mattino del 1° settembre inviai l'ordine
alla Spezia, perché alle undici di sera gli uomini del
Cerretti e le munizioni fossero stati al luogo di riunione, fuori
di Sarzana, dal lato più vicino ai confini modenesi. Sul
far di notte mi avviai a quella volta con Merighi(20), Nisi Ricci,
e Torre Angeli. Trovammo al luogo di convegno cinque giovani
inermi del ducato; e di lì a non molto ci raggiunsero un
venti di Sarzana: portavano in tutto da quattordici fucili colle
rispettive cartucce. Quindi aspetta aspetta, ma invano: niun altro
comparve.
Erano già le due dopo mezzanotte, quando da' posti avanzati
ebbi avviso che si avvicinava una compagnia di bersaglieri
piemontesi. Questa notizia portò qualche agitazione nei
giovani: è ben naturale.
Qual partito mi rimaneva in tal caso?
1°) passare il confine in ventinove, e pochissime munizioni;
essere ricevuti dagli uomini di Fontana come traditori, o almeno
mancatori di fede; sendoché eglino s'erano mossi colla
promessa formale di avere da me armi e munizioni in abbondanza;
2°) affrontare i bersaglieri; iniziare un fatto di guerra
civile con soldati, cui assolutamente non era mente mia di
combattere(21); ed esporsi ad essere noi in ventinove, con
quattordici fucili, trucidati da soldati dei migliori che siano in
Europa;
3°) ritirarmi, e tentare il moto nel giorno o nella notte
prossima: ciò non era effettuabile; al mattino la cosa
sarebbe stata pubblica, e dovunque avremmo trovati soldati sardi e
modenesi; la sorpresa non avrebbe avuto più luogo;
4°) ritirarmi e desistere da ogni ulteriore impresa: al che,
oltre alle suddette ragioni, veniva persuaso dal non avere, per
quante indagini si fossero fatte, saputo nulla dell'avvicinamento
di Cerretti e Pepoli con quei della Spezia.
Fermo questo partito, i giovani di Sarzana nascosero le armi, e si
dispersero.
Que' del Ducato rientrarono, e fu spedito un messo a Fontana,
perché ordinasse senza più ai suoi di tornare alle
rispettive abitazioni. Quanto a me, Merighi, Ricci, Nisi, e Torre
Angeli, prendemmo per le vicine colline. Il mattino seguente
Fontana ci raggiunse; e Nisi e Torre Angeli ci lasciarono,
avviandosi con una guida alla volta di Torino. Rimasti in quattro,
ci ricoverammo in una capanna, e ci mettemmo in comunicazione con
que' di Sarzana e della Spezia, onde trovar modo di noleggiare una
barchetta, e costeggiando recarci a Genova ed a Nizza.
Le intenzioni di un tentativo furono subito pubblicamente palesi a
Sarzana, alla Spezia e nel Ducato.
Da ciò rigori: tutti i gendarmi, doganieri e guardie rurali
in movimento.
Non paghe a questo le autorità sarde diedero voce, che
alcuni malfattori e ladri battevano i campi e i monti. Circondati
per ogni dove dalle insidie di un governo che, ove avessimo
riuscito, si sarebbe impadronito della rivoluzione, fummo
arrestati da sette gendarmi, che col fucile carico scagliaronsi su
di noi inermi, gridando: Chi bugia l'è mort!
All'approssimarsi dei gendarmi, io nascosi in fretta le lettere di
Mazzini, e le ricevute che serbava per mia garenzia, tra il
tessuto di paglia della capanna; incatenati che fummo, i gendarmi
la disfecero in parte, e trovate quelle carte, si chiese da loro:
"Di chi sono?"
"Mie: a me, a me appartengono" risposi francamente.
Dalle lettere di Mazzini si rilevava, ch'ei non poteva disporre di
più di ottomila franchi, sette dei quali erano stati a me
rimessi. Nominava colle prime iniziali alcuni nomi, tra i quali
quello di Pistrucci, che fu poi arrestato in Alessandria. Parmi si
raccomandasse di mettere la formola Dio e Popolo in testa dei
proclami, ecc.: cosa che non troverassi certamente nei manifesti,
che aveva steso io medesimo. Ne' miei scritti dettavo ordini
severi, che i costituzionali vollero interpretati contro di essi;
e di ciò padronissimi: ma il fatto era falso. In un
articolo diceva a un dipresso come segue:
"Chiunque, sotto specie di libertà, o con scritti o con
parole, s'introdurrà tra le file dei combattenti per
disseminarvi la discordia, per ridurli alla dissoluzione,
sarà arrestato e tradotto dinanzi un Consiglio o Giunta di
guerra.
"Dal momento dell'arresto all'esecuzione della sentenza non
debbono passare più di dodici ore".
Erano queste disposizioni dettate contro i costituzionali? No, e
lo dico francamente: se fosse stato il contrario, nol tacerei;
perché non ho mai avuto timore di indossare la
responsabilità di qualunque risoluzione da me presa, e
creduta necessaria.
Con quegli ordini intendeva gli uomini mandati dal nemico, quelli
che si insinuavano arringatori tra le truppe, gridando:
uguaglianza, non uffiziali, libertà, ecc., i quali appunto
come era avvenuto fra i volontarî del 1848, scavavano i
fondamenti dell'ordine, della disciplina e della obbedienza:
elementi necessari in pace, ma molto più in guerra, e fra
truppe collettizie e giovani, dove il germe di dissoluzione
è sin dal principio di loro riunione.
Quanto alla brevità dei giudizî, dirò che gli
esempî in simili circostanze vogliono essere forti, energici
e subitanei; che in una guerra d'insurrezione per bande non si
hanno già disponibili le prigioni militari, e che, atteso
la rapidità delle mosse e la celerità con cui denno
prendere le disposizioni di marcia le bande insurrezionali,
sarebbe ridicolo tirarsi dietro degli uomini coi ceppi o la palla
di ferro al piede. Trovandomi in questi casi, darei di nuovo le
medesime istruzioni per la pena; e questo serva di risposta a
quegli umanitarî, che gridano non già per sentimento
di umanità, ma bensì per amor di parte.
Incatenati, venimmo tradotti nella fortezza e posti insieme: alla
notte tutti separati. Chiamato dinanzi al Commissario politico
Cecchi, che mi trattò inurbanamente,
agl'interrogatorî risposi così: Che sino da che
m'ebbi il conoscimento, aveva cospirato contro gli Austriaci, che
tenevano schiava la mia patria; che fino a che avessi avuto una
goccia di sangue nelle mie vene, avrei fatto altrettanto; che i
miei principî inalterabili, repubblicani erano; che pel
momento, ed ove bisogno ne cadesse, li faceva tacere,
perché tutti i nostri sforzi dovevano essere uniti e
diretti ad un oggetto solo, in prima, la cacciata dello straniero;
che il governo sardo, nel darmi ospitalità, conosceva
appieno questo mio pensare; che nulla aveva tentato contro di lui;
che i tre arrestati in mia compagnia li aveva trovati per
accidentalità, e strada facendo.
Dopo due o tre giorni venni tradotto a Genova nelle carceri di
Sant'Andrea. Fu concessa una vettura a mie spese, e stetti due
giorni in viaggio, sempre incatenato; per giunta ebbi a pagare del
mio i gendarmi. I miei compagni, non trovandosi moneta sufficiente
per le spese, vennero a guisa di assassini trascinati in un
carretto: il lor viaggio durò da otto o dieci giorni, e
dove pernottarono, furono perfino incatenati alle gambe: del
resto, fame e stenti. In Genova, messo di stretta custodia, mi
ebbi nuovo esame dal signor Prasca; confermai l'esposto.
L'intendente Buffa recossi da me, e si mostrò assai
educato; disse rispettare i miei principî, quantunque non
conformi ai suoi: in un secolo forse il principio repubblicano
avrebbe trionfato, nello stato attuale no; il governo sardo
avrebbe trattato l'affar mio col massimo rigore, onde andare a
fondo della cosa, ed impedire nel futuro nuovi conati, ecc.
Dopo due mesi(22) di segreta, mi fu intimato lo sfratto, e posto a
bordo di un vapore che andava a Marsiglia: diedi un addio
all'Italia. Traversai la Francia in sette giorni, e mi condussi a
Londra.
Torniamo addietro.
Perché Cerretti non trovossi al convegno nell'ora indicata?
Sino dalle otto antimeridiane del 1° settembre eragli stato
spedito l'ordine.
Dai compagni s'ebbe le più strane accuse. Certo che il suo
mancare fu cagione che non si passassero le frontiere, e che non
avesse luogo per conseguente l'impresa. Egli vi si recò
invece verso le tre del mattino del 2 settembre, ma questo ritardo
valse appunto come s'egli avesse totalmente mancato.
Qualunque ne fosse il motivo, egli, al mio imbarco per Marsiglia,
recossi pallido a bordo del vapore, e fece mostra di darmi de'
fogli scritti a sua giustificazione. Al che, trattandolo
freddamente, risposi: non ne aver d'uopo.
Del rimanente, non diedi mai fede alle stolte accuse di spia, di
traditore, ecc., che gli si apponevano, le quali sogliono sempre
insorgere quando un fatto riesce a male, e sono proprie de'
settarî e delle fazioni. Cerreti mancò per
incapacità, per non avere ben calcolato il tempo, e forse
anco per certo timor panico. Ei fu nulladimeno la precipua cagione
del rovescio. Se poi fosse venuto, la nostra condizione, a parlar
vero, non cambiava già di molto, perché niuno della
Spezia avendo tenuto la promessa di recarsi alla spedizione, il
numero dei fucili sommava a otto o dieci, con altrettanti giovani
venuti da Nizza. Cosicché in questo tentativo si avrebbero
avute le munizioni, i cappellotti, ma non i fucili. E così
sempre fu: quando sonvi gli uomini, mancano le armi, quando
queste, mancano quelli, e via dicendo.
Le risoluzioni prese al mancarmi il contingente della Spezia, e
all'approssimarsi della compagnia di bersaglieri, spettano a me, e
ne assumo francamente ogni responsabilità. Mi condussi io
male? tale giudizio spetta all'imparziale militare, e non mai a
chi è mosso da spirito di parte o da bassi pensamenti.
Una parola sul governo sardo. Questi, colto il pretesto del
tentativo di Sarzana, arrestò un sessanta fuorusciti, ed
intese così di espurgare l'emigrazione; perciocché,
tranne una quindicina, egli erano, per vero dire, gente non molto
onorata.
E qui sta appunto la perfidia del ministro San Martino, che
volendo egli disonorare il partito, accomunò ai buoni i
cattivi, quelli che non ci avevano da fare; e per colmo d'infamia
diede loro soltanto trenta franchi per testa. Una parte di essi si
diresse a Boston negli Stati Uniti d'America; un'altra prese terra
a Londra.
Cosa siano trenta franchi in questa città per chi non sa
lingua, e non è iniziato a qualche mestiere od arte, lascio
giudicare a coloro che hanno conoscimento dell'Inghilterra.
Udironsi ben presto dei furti nella città di Londra, e si
disse pubblicamente che gli autori di questi erano i soldati della
spedizione di Sarzana, vale a dire, patrioti italiani.
San Martino vedeva così compiuti i suoi voti, e poteva
andarne lieto davvero: ma il disonore ricadeva, non su quegli
individui, sull'Italia; ed egli rendeva un bel servigio al paese,
e al governo di cui era ministro!
CAPITOLO SETTIMO
In Londra mi condussi da Mazzini; m'aspettava dei rimproveri:
nulla. Trattommi da amico, e quanto alle carte, e' disse:
"Che serve di ricevute? Ove si riesca, siamo tutte persone oneste
ed eroi; ove no, ladri e gente dappoco".
Aveva ragione.
Conobbi Kossuth ed alcuni altri uffiziali ungaresi e francesi:
venni poscia invitato al pranzo del console generale degli Stati
Uniti, a cui intervennero Kossuth, Mazzini, Ledru-Rollin,
Garibaldi, Vorcëll, Pulzki, Herzen, S. E. l'ambasciatore
degli Stati Uniti, alcuni del consolato, e i figli del signor
Sander.
Era mia mente di trovare occupazione, perché i miei di
casa, irritati pel nuovo tentativo, mi negavano le solite rimesse
mensili. Al qual proposito ne feci rimostranze a Mazzini: ed egli
mi significò, essere inutile l'occuparmi, dover tornare in
campo; la patria innanzi tutto. Me ne tacqui: egli somministrommi
il necessario per vivere. Ogni dì aspettava l'ordine per la
mia partenza; io era come un uffiziale al soldo di Mazzini: durai
questa vita dal dicembre del 53 fino al 18 marzo del 1854.
In Inghilterra, anziché uniti, trovai i fuorusciti
discordanti tra loro, e odiantisi l'un l'altro; trovai uno spirito
di reazione inesplicabile contro Mazzini: egli, solo; i suoi
aderenti, Saffi, Pianciani, Mazzoleni, Campanella, ed alcuni altri
ottimi popolani. Toccai con mano, come mai si sogni quando credesi
ch'egli abbia in pugno tutta la emigrazione italiana. Quanto ai
mezzi pecuniarî, vidi meschinità!
L'odio a Mazzini era tale, che, avendosi me stesso per uno dei
suoi più caldi parteggianti, cercossi più volte di
insultarmi e perfino di assassinarmi; e fra quelli che avevano
questo nobile ufficio, era il F..., che si disse morto negli
ultimi eventi sulle coste napoletane.
Gl'instrumenti di Mazzini, dal canto loro, spandevano le
più vili accuse contro Caldesi, Montecchi, Medici, e molti
altri patrioti, dimoranti sì all'estero, come in Italia.
Gli uffiziali, che stavano a Genova, si chiamavano il partito
militare, ossia quel partito, che sino a che non abbia centomila
soldati organizzati e disciplinati, non vede speranze di riuscita
nella rivoluzione.
Tutto ciò mi disgustava oltremodo, e davvero che mi
correvano alla mente le fazioni del Due e del Tre delle Romagna.
Non vedeva l'ora d'andarmene: il giorno venne.
Il piano di Mazzini era il seguente:
1°) incominciare il moto nella Lunigiana;
2°) farlo seguitare da altri nella Sicilia e nella Valtellina.
Consultò Medici, onde dargli la direzione del fatto nella
Lunigiana: a detto suo, questi rispose, nulla esservi da fare. A
Garibaldi volle dare il comando in Sicilia: non ne volle sapere.
Chiesto se volessi accettare di rimettermi a capo del moto della
Lunigiana, e mostratemi le lettere di Ricci, che dicevano aversi
fiducia in me, accettai.
Mentre io avrei agito in quelle parti, egli, Mazzini, e forse
Kossuth, avrebbero sboccato per la Valtellina, nel seno di
Lombardia. Queste le intelligenze.
Incognito, men partii per Ostenda il 18 marzo 1854; ebbi da 500
franchi pel viaggio, e 1.000 per consegnare a certo Fissendi,
ex-caporale ungarese, a Ginevra, con istruzioni scritte di Mazzini
e proclami di lui e di Kossuth.
Toccai Parigi, e a Ginevra m'abboccai con Maurizio Quadrio: egli
mi presentò al Fissendi, cui diedi danaro, istruzioni
precise, e proclami: volai a Zurigo, e feci altrettanto con un
Lombardo perché (erano gli ordini di Mazzini) dove uno
fosse stato arrestato, l'altro avesse potuto compiere la missione.
Ambi partirono pel Lombardo-Veneto.
Tornai a Ginevra, rividi Quadrio, e mi condussi a Genova; ivi
stetti celato in una villa. In pochi dì mi raggiunse
Fontana [Ferdinando] il Carrarese; c'intertenemmo con Ricci e con
un ex-uffiziale d'artiglieria ungarese: il primo fu ripetutamente
a Sarzana e nel Ducato, eludendo la vigilanza delle polizie sarda
e ducale, che stavano sopramodo attente. Tutte le trattative
cospiratorie per questo nuovo fatto erano state in potere di
Mazzini.
Le precise istruzioni di Mazzini, date parte a voce e parte in
iscritto, si possono riassumere nelle seguenti:
PEI SUOI AGENTI IN GENOVA:
1°) di mettere insieme quanto più danaro e armi si
fosse potuto;
2°) di noleggiare un battello o tartana per trasportare le
armi e tre persone.
PER GIACOMO RICCI:
1°) di trovare una casa vicino alla spiaggia del ponte di
Valton, onde riporvi le armi;
2°) di fare ivi assembrare gli uomini, che avrebbero dovuto
farne uso.
PER FELICE ORSINI:
1°) che insieme con Fontana e l'uffiziale ungarese dovesse
imbarcarsi nel battello che gli venisse indicato da Nicola Ferrari
e da P[areto Ernesto] in Genova;
2°) che avesse portate le armi al luogo accennatogli dal
Ricci;
3°) che le avesse consegnate agli uomini, che ivi avrebbe
trovati;
4°) che armati, ne avesse preso il comando, facendo quei
movimenti che la sua mente gli avrebbe suggerito opportuni;
5°) che nessun altro avesse preso a bordo del battello di
trasporto, eccetto Fontana e l'ungarese.
Quanto ai giovani di Genova, posero insieme da millecinquecento
franchi, duecento fucili, ventidue carabine americane, qualche
libbra di polvere adatta, trenta palle coniche per ciascuna,
quattro o cinque pacchi di dieci cartucce pei fucili, due paia di
pistole, due cannocchiali, alcune lanterne, una ventina di fischi
da segnali. I danari furono consegnati a me, il rimanente
imbarcato sotto specie di letti di ferro.
Da un mese incirca il mare era così cattivo, che non
avremmo potuto imbarcarci senza il massimo della imprudenza: il
battello noleggiato già da qualche tempo pel trasporto si
arenò alle foci della Magra. Gli agenti genovesi furono
costretti di noleggiarne un altro: da ciò perdita di tempo.
Mazzini in questo mentre perveniva a Ginevra; scriveva con
impazienza: si facesse; e rimproverava il ritardo.
Quanto a Ricci, assicurava essere i fucili una meschinità
di numero; gli uomini pronti di San Terenzo, di Massa e Carrara
sommare a qualche migliaio; versare in dubbio, se si aveva a
tentare con sì scarsa quantità d'armi. Alla fine si
decise pel sì.
Il sabato 3 di maggio, in sul mezzodì, Ferrari,
P[etriccioli Giuseppe] ed altri recaronsi a prendermi; io,
Fontana, e un emigrato di Massa e Carrara, ex-uffiziale, andammo a
bordo del battello che ci attendeva nel porto. L'ungarese
ricevette del danaro e mancò: per questo mi credetti
autorizzato di prendere il Carrarese. Facemmo vela sul far della
sera, ma il mare era sì grosso che ne fu forza rientrare
quasi subito.
Ricci con dieci emigrati, pei quali assunse sopra sé stesso
ogni responsabilità, s'imbarcò sul vapore il
Ferruccio. Le intelligenze erano:
1°) che avesse messo dal canto suo uno o due uomini di
sentinella sulle coste vicino alle bocche della Magra;
2°) che ove noi fossimo giunti di giorno, il capitano avrebbe
preso terra, e fatto capo a San Terenzo;
3°) che ove si giungesse di notte, saremmo andati col battello
lungo le suddette coste, e che il capitano con una lanterna in
mano avrebbe, durante il tragitto, passeggiato su e giù;
4°) che a questo segnale di riconoscimento le scolte o
sentinelle avrebbero risposto con un consimile;
5°) che le munizioni, confezionate alcuni mesi prima per la
spedizione di Sarzana, deposte appunto nelle vicinanze, fossero
state portate nella casa o nel punto in cui si dovevano sbarcare
le armi.
Un po' prima dell'alba 4 maggio, giorno di domenica, facemmo vela;
e dopo un viaggio cattivissimo giungemmo il giovedì notte a
Porto Venere: cosicché impiegammo cinque giorni in un
tragitto, che con tempo buono sarebbesi fatto in dodici o
diciott'ore.
C'indirizzammo verso la punta della Magra, facendo il segnale
stabilito più volte; nessuno rispose. Allora decisi di
mettere a terra i miei due compagni per recarsi dal P[etriccioli]:
erano le undici passate di sera; il capitano si ricusò,
temendo dei guardacoste sardi. Fontana e l'altro volevano allora
gettarsi al nuoto, del che erano molto esperti, quando il capitano
si arrese alle mie rimostranze. Slanciatisi nella barchetta di
seguito presero terra, e noi tornammo a Porto Venere, ove gettammo
l'ancora.
Sull'albeggiare del mattino, compiute le formalità di
pratica, il capitano si condusse a San Terenzo, parlò con
Ricci, e tornò a me dicendo:
1°) Fontana e l'altro essere entrati nel Ducato;
2°) aspettarsi da Fontana l'ordine di muoversi;
3°) essere pronti tre schifi con Ricci, e dieci o dodici
uomini per recarsi a bordo a prendere le armi;
4°) il venerdì notte essere in tutti i casi fissato lo
sbarco e il principio dell'azione.
Il capitano aggiungeva:
1°) dei dieci compagni di Ricci, uno essere gravissimamente
infermo per coliche, gli altri avere ogni notte dovuto cambiare
d'alloggio; tutto questo non essersi potuto fare, senza che le
autorità sarde non se ne siano accorte;
2°) fra gli abitanti di San Terenzo, di Sarzana, di Massa e
Carrara essere pubblica la voce di un prossimo sbarco di emigrati
e di Americani; le truppe ducali tutte all'erta, ma mostrare
qualche timor panico.
Alle dieci e mezzo del venerdì sera salpammo da Porto
Venere: il mare alquanto gonfio; oltrepassato il golfo della
Spezia per ben due volte, vedemmo alfine avvicinarsi due schifi in
luogo di tre; ché uno, quando poté, disertò e
tornossene addietro. L'equipaggio aveva pronte le casse dei
fucili, e all'approssimarsi degli schifi, senza aspettare ordine e
col massimo della precipitazione, le gettò giù di
peso: gli uomini che v'erano dentro corsero pericolo di essere
offesi, e con molta fretta si slanciarono a bordo; a un tratto
ridiscesero. I due schifi erano troppo carichi: si spiegò
una vela; aveva ciascuno quattro rematori; ad onta di ciò
pensossi di farci rimorchiare fin quasi alla prossimità del
ponte di Valton, indicato da Ricci come punto di sbarco.
In mezzo a tutto questo, Ricci cadde nel mare; per un istante lo
si tenne perduto, ma con coraggio poté nuotare e dar di
piglio alla corda di rimorchio: fu salvo.
Varcate le foci della Magra, la cui corrente potentemente si
opponeva all'avanzarsi degli schifi, il capitano lasciò di
rimorchiarci, questi diedero del largo; poi ad un tratto, tanto
allarmati erano i rematori, urtarono l'uno contro dell'altro, e
fummo a un pelo di calare a fondo.
Questo fatto portò al sommo l'agitazione tra genti non
abituate al mare: si dischiodarono in fretta le casse, si
caricarono i fucili, e fu tutta una voce: cartucce, capsoli, ecc.,
come s'avesse il nemico di rincontro.
Procedevasi di questa guisa, quando, ad un tiro di fucile dalla
spiaggia di Valton, una voce levossi dicendo:
"Dove si va?"
"Lo sapete" risposi assai maravigliato; "debbono consegnarsi le
armi ai giovani che ci attendono colle munizioni."
"Né uomini, né armi" soggiunse la stessa voce "sono
ivi pronti."
"Come mai?" diss'io.
"L'ordine di muoverci del Fontana" rispose l'incognito "non
è arrivato; Ricci ha voluto ciò non ostante
muoversi, dicendo ch'e' sapeva bene quel ch'ei faceva."
"Quest'è un compromettere l'onore di un uomo, egli è
un perdere, il partito stesso" ripresi concitato. "Ciò non
monta," aggiunsi "prendiamo terra, si assalti la prima brigata dei
carabinieri, e così andremo avanti."
"Noi non vogliamo fare la morte dei Bandiera" gridò ad alta
voce la stessa persona.
Al che un'eco generale, e a più riprese, rispose: "No, no,
noi non vogliamo fare la morte dei Bandiera!"
Che fare? Anziché io padrone degli uomini e della direzione
dei battelli, da quell'istante lo furono eglino di me: fu
impossibile di trarli a terra.
"Dove porre queste armi?" diss'io.
"Nella punta della Magra" la voce incognita e i rematori ebbero
risposto; "nei nascondigli dei contrabbandieri."
Così fecesi: volgemmo vela, e a grave stento pervenimmo a
tal punto. Nel qual tragitto durai grave fatica, perché non
si facesse fuoco alle ombre degli scogli, giacché ad ogni
tratto si credeva vedere i guardacoste, armati di fucile, venire
all'assalto contro di noi.
Di mezzo a molta confusione si sbarcarono le armi e gli uomini.
Questo fatto, dissi:
"Aspettate i miei ordini, e studiatevi di stare celati tra gli
ulivi".
Quindi me ne avviai con un battello alla volta di San Terenzo.
Com'ebbi preso terra, spedii due messi a Fontana; e nello stesso
momento ne venne uno dei suoi dicendo esseri gli uomini pronti pel
sabato sera. Risuosi che vi contavo immancabilmente, aggiunsi
danaro al già sborsato, e non rimase che un quattrocento
franchi.
Nello stesso momento noleggiai una tartana del capitano
Cal[afatti], ad oggetto che questi si recasse subito a prendere
gli uomini e le armi, e li conducesse un sei miglia lungi dalla
vista delle coste sarde, dove sarebbero stati intangibili. Il
capitano chiedeva per tal ufficio trecento franchi; si convenne
per duecento, che volle anticipati.
Ciò avuto, egli partì fornito altresì di
viveri pe' giovani imbarcati. Quanto a me, non mi mossi dal punto
dov'era per stare in corrispondenza continua con Fontana e per
raggiungerlo, non appena avessi saputo che le armi e gli uomini
fossero in salvo.
In tutto questo, P[etriccioli] e i giovani di San Terenzo
mostrarono ardore, disinteresse ed attività.
Stava attendendo l'esito del battello spedito, quando mi si
annunziò le armi essere prese, i giovani in fuga, incalzati
da gendarmi e da bersaglieri. Ed ecco come fu:
Vicino al luogo dello sbarco delle armi c'era un pescatore.
Costui, credendo fosse un grosso contrabbando, fece la spia, per
avidità di danaro, ai doganieri sardi. Questi, avvisati, si
appressarono con una barchetta alla punta della Magra. A quanto mi
si disse, eglino erano in tre: e vedendo che al loro apparire
alcuni giovani si levavano e correvano via, il caporale o sergente
gridò:
"Bersaglieri, al centro"(23).
Ciò fu bastevole ad intimorirli, ché credettero di
essere sorpresi da una compagnia; si diedero a fuggire gettando
carabine, palle, ed ogni altra cosa che desse indizio di
cospirazione armata. I guardacoste, messo piede a terra, in luogo
di mercanzie trovarono duecento fucili nuovi, bellissime carabine,
ecc.
Il capitano Cal[afatti] giunse appunto sul luogo, mentre questo
avveniva: per il che tornossene addietro pago di ritenersi i
duecento franchi.
Se quando furono promessi e convenuti i duecento franchi, fosse
partito subito, egli sarebbe stato in tempo ad imbarcare i
giovani, e le armi; ma no: egli non si fidò della parola
data; spedì addietro P[etriccioli] (se non erro) a prendere
in anticipanza il danaro; senza di cui non avrebbe fatto un passo.
A mia volta seppi la fatale notizia: pervenne anche a Fontana, il
quale mi fece sapere che i suoi uomini si mordevano le mani di
rabbia.
Anche una volta tutto sfumato!
Da Sarzana corsero bersaglieri e gendarmi: alla domenica la
maggior parte de' giovani erano arrestati, compreso Ricci. Le
menzogne delle autorità della Spezia e di Sarzana non
ebbero ritegno: ci fu dato il nome di stupratori, ladri e
assassini; i contadini facevano a gara ad arrestare, e le donne a
fuggire e a correre a far la spia. Infamie inaudite!
Nello stesso giorno giunse da Genova un vapore da guerra sardo con
bersaglieri, e alcune barche cannoniere furono messe in crociera.
Le truppe modenesi in marcia per Massa e Carrara; i battaglioni
austriaci a Firenze pronti a partire, ed alcuni già in
cammino per Pietrasanta. Il vapore toscano Il Giglio in moto, e
verso la Spezia per indettarsi colle autorità sarde.
Venendo a me, con grande stento potei salvarmi. Stetti in
comunicazione con Fontana, e se avessimo avuto qualche fucile, ci
saremmo forse potuti levare in venti; ma senza danaro, senza armi,
circondati dovunque, si desistette da ogni ulteriore progetto.
Passati alcuni giorni, potei recarmi a Genova; da un battello a
vapore passai in un altro conducente a Marsiglia. Parlai con
alcuni amici, con Cerretti, e con C[arlo] L[efèbvre], che
mi prestò per conto mio proprio franchi trecento. Al mio
arrivo a Genova ero possessore di dieci franchi, e lacero di
vesti.
Ora alcune riflessioni.
1°) degli uomini, su cui Ricci contava, di San Terenzo e di
Sarzana, uno solo apparve; cioè il P[etriccioli], quello
appunto che insorse colla voce: "Dove si va?" che fu causa della
sfiducia sopravvenuta nei giovani all'atto quasi di metter piede a
terra;
2°) qual numero v'era a sperare, che fra Massa e Carrara
sarebbero venuti per pigliar le armi? Un quaranta, se è
vero ciò che asserivano i messi di Fontana;
3°) gli altri capipopolo e le persone civili di qualche
dipendenza di que' paesi, alla vigilia dell'impresa, dissero
francamente non volersi levare perché Massa e Carrara non
avevano niuna importanza, e perché due giorni dopo
sarebbero stati schiacciati. Incalzati col ragionamento,
risposero: "Ci si mandi Garibaldi, e ci leveremo";
4°) questi fatti dimostrano come non vi fosse alcuna
disposizione in que' popoli, e come gli agenti di Mazzini, nel
dare rapporti a Londra, o erano ingannati o cadevano in
esagerazioni;
5°) perché Ricci non aspettò l'ordine di Fontana
per muoversi? Non si poté mai esplicare;
6°) perché P[etriccioli], che disse di averlo
sconsigliato di recarsi a bordo cogli schifi, ammonendolo ad
attendere i cenni del Fontana, lo seguì poscia? E
perché quando faceva d'uopo di silenzio, di accordo, di
unione, venne egli fuori con parole che insinuarono la sfiducia,
la demoralizzazione? Suo dovere era o di non seguire Ricci, o se
accompagnavasi con lui e con gli uomini della spedizione, doveva
tacersi, e aiutare il fatto con tutte le sue forze.
Quanto a Ricci, si venne poscia fuori colla usata leggerezza di
sciocche accuse. Egli precipitò forse il movimento,
perché si fondava sulle promesse, che fino allora gli
abitanti gli avevano fatto, di accorrere in massa; e perché
il capitano minacciava di gettar le armi in mare, se non si faceva
presto. Del rimanente, ei non tradì, ed è ridicolo
il pensarvi.
Questo nuovo fatto, se mi colmò di rabbia da un lato, mi
aprì bene gli occhi intorno a ciò che v'avea da
sperare da vaghe promesse di giovani e di entusiasti, o da
spedizioni di fuorusciti.
Sotto la impressione del momento scrissi un lungo articolo al
Parlamento ed all'Italia e Popolo, in cui bistrattava certo e
gl'Italiani e i repubblicani. Era troppo forte, il confesso, e al
primo giornale non pervenne, perché rattenuto da uno dei
nostri; il secondo lo stampò, ma riflettendovi maturamente,
nol fece pubblico.
Nei movimenti insurrezionali egli è ben difficile il poter
esigere l'obbedienza, che si ha nei regolari. I soldati non si
occupano del da farsi; seguono la voce del comandante: qui sta
tutto. Ma, nelle cospirazioni, tutte le passioni umane sono messe
in moto. Chi agisce per ambizione, chi per voglia di cambiar
fortuna, chi per soddisfare una qualche vendetta, e chi infine per
l'amor puro di patria. Ma questi ultimi pur troppo sono il numero
minore. Tutti poi vogliono ragionare, far piani, ecc. Per lo che,
quegli che si mette al comando di spedizioni, bisogna che lo
faccia o per una rara abnegazione in favore della causa, o per
buona dose di audacia. Di qui non si fugge. Simiglianti spedizioni
hanno in loro stesse il germe della dissoluzione; e per quanto
siano state bene meditate, un piccolissimo accidente, la voce sola
di un uomo, che tenda a sconfortare i compagni all'atto del
pericolo, basta a farla abortire. Il capo non ha in casi tali che
la semplice forza morale, ed è difficilissimo di trovare un
nucleo di uomini, che ciecamente gli si sottomettano. L'uomo si fa
condurre più dal timore che dall'amore; si prendano dunque
gli uomini per quel che sono, e non per quel che avrebbero ad
essere, e si dismettano i sogni.
Dove vedonsi grandi fatti operati da masse disorganizzate, egli
è l'effetto di rivoluzioni impensate, o maturate da lungo
tempo e scoppiate ad una opportunità qualunque. Compiuta la
rivoluzione, questa tocca subito una nuova forma, una nuova fase,
un nuovo carattere. Egli è d'uopo allora sostenerla, e a
questo intendimento si dà norma alle masse e si organizzano
militarmente, e s'introduce l'ordine e la regolarità,
mentre da un altro canto si promuovono gl'interessi popolari, e si
mettono in giuoco le passioni, onde l'entusiasmo, anziché
spegnersi, sia nudrito perennemente. In questa maniera si rendono
utili degli elementi, che dapprima contenevano, a guisa delle
spedizioni, il germe della dissoluzione.
Dal 1843 in poi fui testimone di molte spedizioni tentate, e
sempre fallite; e parmi, a dir vero, effetto di guasti intelletti
quel volere, ad onta di una non interrotta e ben trista
esperienza, farne sempre di nuove. Le rivoluzioni debbono
prepararsi ed eseguirsi dall'interno delle città, dai
cittadini stessi; debbono essere promosse, non dal di fuori, ma da
cagioni interne d'interesse generale, di spirito nazionale, di
amor patrio, di odio all'oppressione tanto straniera che indigena.
Hanno insomma ad essere reali, sentite, e non artificiali.
I fuorusciti possono influire sulla opinione: debbono incoraggiare
con gli scritti i loro connazionali a star forti nell'odio contro
il dispotismo; illuminare le menti cogli esempi delle storie, col
mostrare loro il progresso della civiltà nelle contrade
estere, e i benefizi della libertà e della indipendenza.
Ma il volersi immischiare negli affari interni di un paese, da cui
mancano da molti e molti anni; il dettare ordini di attaccare il
tal caffè, la tal casa, la tale strada, il tal corpo di
guardia, ecc., è stoltezza, per non dire demenza.
Eglino si affidano ad esagerati rapporti di qualche giovane
entusiasta; disconoscono lo stato reale delle cose; architettano
piani su dati falsi, nella solitudine de' loro gabinetti, che poi
all'atto della loro esecuzione falliscono, e sono cagione di
vittime immolate al dispotismo.
E, di grazia, a che ponno riuscire spedizioni di dieci, trenta,
cento fuorusciti? O il popolo è maturo e pronto a
insorgere, e non ha d'uopo di sì meschino aiuto; o non lo
è, e saremmo noi tanto acciecati da credere che un
sì ridicolo numero possa mettere in sollevazione una
nazione intiera? una nazione divisa? i cui governi dispongono di
spie, di danaro e di soldati? i cui eserciti sono presti a volare
con forze centuplicate per ischiacciare qualunque manifestazione
rivoluzionaria?
Si dirà, per avventura, che abbiamo ai nostri tempi
l'esempio della spedizione di Napoleone il Grande a Cannes. Ma dei
Napoleoni fuvvene un solo al mondo dopo Annibale; in lui erano
grandezza, azione, genio, potenza di volontà; egli
possedeva il segreto di far sorgere l'entusiasmo ovunque
presentavasi, segreto acquistato su cento campi di battaglia.
Dal nostro lato, che avemmo e che abbiamo invece? Il genio nelle
parole, la meschinità nei fatti.
La spedizione fallita fu nuovo scacco pel partito di Mazzini: chi
ne fu la cagione? Le circostanze? il caso? o veramente io, che ne
era il capo? - Io, certamente! - per la sola ragione, che ne aveva
assunto la direzione.
CAPITOLO OTTAVO
Fermatomi a Marsiglia e Lione un giorno o due, mi recai subito
dopo a Ginevra, e mi condussi difilato da Maurizio Quadrio.
Mazzini alloggiava con lui: mi si disse essere fuori di
città; feci sembiante di crederlo. Quadrio si mostrò
corrucciato; egli avrebbe voluto che mi fossi gettato ai monti con
quattro o sei o dieci individui. Le quali belle parole mostravano
sempre più, come mai dagli uomini di gabinetto si
disconosca lo stato reale degli elementi e degli uomini. Si
è sempre pensato che in Italia si potesse, come Mina o
Cabrera, incominciare un moto insurrezionale, e farlo prendere
piede con due o tre uomini; e questa credenza è stata fonte
di tutte le sconfitte, di tutti i disinganni tocchi fino ad oggi
dal partito. Quadrio, al pari di Mazzini, è un ottimo
patriota; ma in fatto di pratica, la immaginativa gl'ingrandisce
gli oggetti, e gli fa prendere per corpi materiali ciò che
non è che semplicissima larva.
M'ebbi de' rimproveri, cui, sapendo mossi da amore di patria, e da
passione pel sinistro esito del tentativo, presi in santa pace. Da
lui seppi come i due agenti spediti nell'interno di Lombardia
fossero stati arrestati(24).
Mentre soggiornava in Ginevra, Mazzini mi scrisse, chiedendomi se
voleva partecipare a un fatto brillante verso la Valtellina.
Risposi affermativamente.
Dovea io accettare? Certo sì: i due falliti casi mi
sospingevano a gettarmi di nuovo nell'arena, e fare ogni possibile
di riuscirne trionfante. Mazzini allora mi diede più ampie
spiegazioni, al che Quadrio, valtellinese, aggiunse alcune
riflessioni sulla positura dei luoghi, sull'indole degli abitanti,
e mi fornì della Campagna del duca di Roano, combattuta in
que' luoghi. Indi partii per Coira, dove giunsi l'11 di giugno
1854, vale a dire un mese dopo il colpo di Carrara.
Al mio arrivo nulla rinvenni di preparato: il che fecemi manifesto
come la insurrezione valtellinese, che doveva scoppiare e tener
dietro quasi simultaneamente a quella della Lunigiana, fosse un
sogno. Se riuscivo, mi sarei trovato isolato.
Visitati i punti più adatti al passaggio di armi, e gli
sbocchi opportuni ad operare una discesa nella Valtellina, che
pigliasse all'improvviso e alle spalle gli Austriaci da Poschiavo
a Maloia; dato ordine alle munizioni, le feci convergere ai luoghi
destinati co' fucili, giberne ed altro indispensabile ad una
spedizione. Di tutto, e con molti dettagli e considerazioni,
scrissi a Mazzini.
Fra i varchi stabiliti v'era quello del Muretto, che sta a
sopraccapo del colle di Maloia; quantunque uno dei più
facili, era nulladimeno necessario di camminare per due ore a
traverso di ghiacciaie. Di altri punti non dico, perché non
si scuoprirono mai dalle polizie.
Nel rapporto che dava a Mazzini, aggiungeva:
1°) che faceva d'uopo affrettare la spedizione, e cogliere il
momento in cui gran copia di forestieri, sotto specie di prendere
bagni, di bevere le acque di St-Moritz, di fare studî
geologici e botanici, stava percorrendo il Cantone dei Grigioni;
2°) che la polizia vegliava attentissimamente e che la
presenza prolungata d'Italiani porgeva sospetti;
3°) che non v'era a sperare sul concorso alla spedizione di
montanari svizzeri o di chiavennaschi o bergamaschi, siccome ei mi
aveva dato ordine di fare con coloro, che in quella stagione vanno
ivi con mandre a pascolare o a lavorare;
4°) che i Valtellinesi, a costante asserzione degli uomini
pratici, tra i quali Caprez, a cui egli e Quadrio mi avevano
diretto, non erano per nulla disposti a seguitare un movimento del
di fuori, o ad insorgere per loro stessi; che il volere insistere,
a consiglio sempre dei pratici, indicava pazzia e mania di volere
fare nuove vittime;
5°) che cercasse di raggranellare tra' suoi da 150 a 200
uomini;
6°) da ultimo gli veniva tracciando il modo di farli
pervenire, onde a manipoli fossero convenuti tutti in un punto,
senza recare sospetti.
A questo egli rispondeva:
1°) gli uomini richiesti sarebbero venuti: aver dato gli
ordini opportuni;
2°) non sapersi spiegare la mia impazienza nell'affrettare il
moto;
3°) non doversi tener conto delle indicazioni di Caprez, o di
altri moderati.
Indi a pochi giorni mi raggiunse il giovane Co[nti Alberto] per
darmi di mano negli ultimi preparativi; e poscia apparve il buon
Maurizio Quadrio.
La sorveglianza delle polizie dopo il processo fatto a Clementi e
Cassola, che avevano pur tentato la introduzione di armi nella
Lombardia, eccedette ogni limite. Basti dire, ch'io non trattava
palesemente nemmanco con que' Svizzeri, che erano in voce di
liberali e favorevoli all'Italia; e si pranzava insieme facendo
sembiante di non conoscerci. Praticavo invece con molti
ex-uffiziali del papa, i quali s'erano trovati ai combattimenti di
Vicenza; e questi, tenendomi per un arruolatore segreto del
Governo Pontificio, si dicevano pronti di nuovo a prendere
servizio, e a spandere il sangue sotto le insegne papali. Li
lasciava nella loro credenza, ed eglino mi dicevano aver chi un
figlio nell'armata napolitana, un altro in quella del papa, ecc.,
e ne menavano vanto. Molte volte si beveva insieme alla salute di
Pio IX, e tra una cosa e tra l'altra si finiva in allegria la
nostra conversazione. Quanto a quelli con cui trattava realmente
delle cose nostre, ridevano assai di questi strani casi o meglio
commedie, a cui era pur forza abituarsi. Il mio vero nome poi
veniva taciuto a tutti indistintamente; talché un giorno mi
avvenne il seguente fatto, che mi piace di narrare.
Trovavasi per caso in Coira il giovane ing. I[oni]. Essendo io
italiano e dello stesso stato, venni facilmente in contatto con
lui; e quantunque ottimo e liberal giovane, non m'intertenni mai
nelle nostre conversazioni di materie cospiratorie.
Sapendo ch'io veniva dal Piemonte, cadde col discorso sul fatto
della Spezia, e con certezza disse, che l'Orsini era stato la
cagione che tutto andasse in rovina; che ciò faceva per la
seconda volta; che per la spedizione di Sarzana avevo avuto
danari, ecc. A questo risposi, che mi pareva impossibile; che
avendo parlato con l'Orsini, a cui professavo amicizia, m'ero
accertato del contrario in seguito della esposizione di fatti
chiari, ecc.
"Oh! no, no" soggiunse egli; "la cosa sta come dico, io lo so da
buona fonte: uno della spedizione, che trovasi ora a Parigi, disse
a Franceschi che Orsini aveva proibito perfino di far fuoco contro
i soldati piemontesi, ecc."
"Sta bene" soggiunsi; e volgendo ad altro discorso gli chiesi:
"E l'Orsini dov'è ora?"
"Dicesi" rispose quegli "a Marsiglia, ritirato da ogni cosa
politica."
"Fa molto bene" osservai di passaggio, entrando poscia in altri
argomenti. Mi convenne intanto mandar giù buonamente le
accuse che mi si davano, perché nella posizione o di
giustificarmi a mezzo o di scoprirmi per quello che era, il mio
dovere voleva che tacessi, e il feci, sebbene a malincuore.
I[oni] del resto non faceva che ripetere ciò che aveva
udito: d'altronde, egli è giovane onestissimo e buon
patriota.
Intanto io aveva ricevuta una lettera di Mazzini la quale mi
diceva che avessi posto qualcuno, in sembianza di vedetta, sulla
strada Giulia; che per questa dovevano venire gli uomini della
spedizione; che a tutti coloro che portavano un fiore al cappello,
si fosse chiesto: "Olà, galantuomo, dove andate?" e se
avessero risposto: "Dal signor Francesco o dal signor Giuseppe",
ciò indicava esser loro dei nostri; infine, all'impostare
della lettera ei si metteva in cammino per raggiugnermi. A questo
nuovo metodo di riconoscimento militare, tanto io che il mio amico
Co[nti] ci mettemmo a ridere, ma ei bisognò uniformarvisi,
perché non vi era più tempo da contromandare
l'ordine. Co[nti] si postò adunque sulla via Giulia.
Ora è mestieri che scenda a qualche schiarimento per le
nostre risa alle parole di riconoscimento poste da Mazzini.
I mesi di luglio e di agosto formano la più bella e
dilettevole stagione per gli abitanti del Cantone Grigioni, l'aria
vi è pura, il calore estivo quasi insensibile, le piante e
i fiori proprî di quelle alte montagne in vigore.
Sonvi inoltre stabilimenti per bagni e acque minerali, il che
è cagione, che da ogni dove traggono forestieri. In questa
occasione appunto donne e uomini, vecchi e ragazzi, ricchi e
poveri, vanno superbi di ornare il cappello colla rosa dell'Alpi;
sicché ognuno aveva il fiore accennato da Mazzini. Questo
fatto ci recò subito non lieve imbarazzo. Ed invero, come
distinguere il portatore di fiori per vaghezza di ornamento,
dall'altro, al segnale di riconoscimento? Come il viaggiatore per
diletto, da quello per cospirazione? Come mai l'indifferente, dal
cupo cittadino, che col cuor fremente deve affrontare la morte su
per le ghiacciaie, di rincontro alle palle austriache? Ma, ripeto,
e' fu mestieri acconciarsi al comando dell'ordinatore supremo: e
noi tacemmo.
Il primo uomo che presentossi a Co[nti] col fiore, fu uno di 60
anni: Co[nti] stette in forse d'interrogarlo. Il volle tuttavia
richiedere col segno convenuto; n'ebbe in risposta: Ich weiss
nichts: era uno Svizzero di sangue germanico. Sopraggiunse un
altro, ma questi zoppo, poi un altro. Questo dritto, giovane e
robusto; Co[nti] fecegli la domanda, gli venne bruscamente
risposto: "Vado pei miei affari". Insomma, per due dì
consecutivi egli non fu capace di rinvenire un cospiratore.
La cosa, come vedesi, volgeva a mal termine, anzi che no. Si seppe
infine, che all'albergo di St-Moritz due giovani di aspetto povero
e vestiti da accattoni chiedevano a calde istanze di Tito Celsi.
Mi fu dato d'incontrarli: erano certi Fumagalli e Rudio, due buoni
e ardenti patrioti, facenti parte della spedizione. Avevano dei
proclami, ma non un soldo da mangiare; stanchi, affamati, laceri.
Li spedii subito a Maloia, dicendo che attendessero i miei ordini;
ivi trovarono da riposare e da cibarsi.
Poco di poi Mazzini comparve; egli era il comandante supremo della
spedizione; io un semplice uffiziale di ricognizione. Avendogli
scritto non essere necessario ch'ei si trovasse nelle prime file
della spedizione, perché la sua vita era preziosa di
troppo, ei ricusò l'importuno consiglio; e stavolta si
preparava a smentire col fatto l'accusa stoltamente ripetuta in
tutta Europa, che il coraggio non fosse mai stato una delle sue
prime doti.
Si toccava già il 14 o 15 di agosto: vale a dire che
c'eravamo abbindolati su per quei monti da più di due mesi;
e il tempo dell'azione si approssimava.
Il piano era:
1°) insurrezione a Como il 20 agosto;
2°) presa dei battelli a vapore, che servono per la
navigazione del lago di Como;
3°) spedizione di due o tre colonne dai Grigioni nella
Valtellina alla notizia che a Como fosse riuscito il colpo;
4°) Mazzini comandante in capo.
Nell'aspettativa dei primi moti venne annunzio, che in luogo del
20 la rivoluzione sarebbesi fatta il 24 agosto. Mentre ciò
accadeva, alcuni Valtellinesi s'intertennero con Quadrio e
Mazzini; si entusiasmarono dapprima alla vista dei due vecchi
venerandi, che per vent'anni tenevano in agitazione l'Europa, e
diedero buone speranze. Ma in una lettera spedita un giorno o due
dopo a me, mostravano uno sconforto tale da togliere di capo ogni
pensiero di spedizione.
Mazzini la lesse, e rispose: "Noi entreremo, e i Valtellinesi
coglieranno l'onore di averci lasciati arrestare e fucilare".
Ora una parola sugli uomini della spedizione.
Questi dovevano essere tra Poschiavo, Samaden, St-Moritz, Campter,
Silvaplana e Maloia il giorno 20 almeno di agosto.
Ebbene, di centocinquanta o duecento di già pagati pel
viaggio, quanti ne apparvero?
1°) Federico Cam[panella]; 2°) Nicola Ferrari; 3°)
Fumagalli; 4°) Rudio; 5°) Pas[sega]; 6°) D. B.;
7°) Maurizio Quadrio; 8°) Co[nti]; 9°) io stesso.
Questi formavano il corpo di spedizione comandato
dall'ex-triumviro; tre dei quali, Mazzini, C[ampanella], e
Quadrio, sarebbe stato necessario farli trasportare di peso dai
contrabbandieri, onde valicare la ghiacciaia del Muretto.
Mentre il corpo della spedizione si preparava al periglioso passo,
le polizie non se ne stavano, come suol dirsi, colle mani in mano;
da Como e da Milano sembra venissero avvisi, che alcuni fuorusciti
italiani tramavano qualche cosa nel Cantone Grigioni.
Pare altresì, che certo Fisher di Coira parlasse intorno al
trasporto de' fucili; cosicché Janet, direttore di polizia
del Cantone, esaminati alcuni vetturali, seppe che Tito Celsi ne
era il possessore.
Questo bastò, perché la mattina del 20 fossi
arrestato: subito dopo si fecero delle perquisizioni in molte
direzioni; e mentre in Como tutto era andato in fumo, e si
facevano arresti, verso il Muretto vennero scoperti duecento
fucili, munizioni, ecc.
Il 23, il mio amico Co[nti] fu pure arrestato, e la mattina del 24
ambidue dovevamo essere tradotti nelle carceri di Coira, per
essere sottomessi a regolare processo. Ciò non mi
accomodando, fuggii di mano ai gendarmi verso le cinque
pomeridiane il 23 agosto.
La mattina del 24 Co[nti] fu messo nella diligenza, che conduce a
Coira, e scortato da un gendarme; nella stessa vi era Mazzini
libero. In una stazione di cambio pei cavalli di posta, Co[nti] se
la diede a gambe, prendendo pei monti e pei boschi. Egli da un
lato, io da un altro, ci mettemmo in salvo.
Onde eludere i gendarmi e le polizie, che disponevano dei
telegrafi, invece di condurmi sulla via Giulia o verso l'interno
della Svizzera, presi la direzione di Poschiavo, che mette in
Lombardia. In sul cadere del dì pervenni ad un piccolo
albergo, che trovasi sui monti della Bernina.
M'avvicinai a quello, e v'entrai con molta cautela; ordinai alcun
che da mangiare, e procurai di starmene ivi due o tre ore al
riposo, per la ragione che non vi essendo telegrafo, la notizia
della mia fuga non poteva essere giunta: d'altronde, è la
sola casa di ricovero ai vetturali e passeggieri.
Trascorsi da quindici minuti, comparvero alcuni Svizzeri: erano
giovani che s'apprestavano alla caccia dei camosci pel mattino
seguente: nel fiore dell'età, belli d'aspetto e robusti
della persona. Vedevansi scritte nei loro volti la lietezza
dell'animo e le speranze di buona preda. Entrati, posarono sulla
tavola, che stava lor dinanzi, le carabine, i corni, le bisacce da
caccia, e i cannocchiali che tenevano appesi al collo.
Quindi, colla disinvoltura tutta propria del cacciatore,
ordinarono che loro fosse porto alcun che da cena.
Io rimirava quei giovanotti, allegri, senza pensieri, liberi e
indipendenti nella loro patria; faceva un paragone con noi, cogli
Italiani nella schiavitù! Quali amari pensieri non mi
sorgevano mai!
Uno di loro si sedette vicino a me; sembrava e' fosse sul
diciottesimo anno. All'approssimarsi mi disse:
"Guten Abend" (buona sera).
"Guten Abend" risposi con molta scioltezza.
Questa era la sola frase che mi sapevo di tedesco, e colla quale
salutava, come è di costume, sul far di sera chiunque
m'incontrava dopo la mia fuga. Indi egli cercò di
continuare la conversazione, ma con segni e con qualche parola
francese gli diedi ad intendere che non sapevo di tedesco. Mi
disse allora che intendeva il francese, e mentre allestivano la
tavola, s'incominciò la seguente conversazione:
"Andate voi alla caccia domani?"
"No, perché non sono Svizzero: sto visitando la Bernina ad
oggetto di studî di botanica e di geologia."
"Certo che per questo lato i Grigioni sono assai ricchi e
pregevoli" continuò egli. "Siete voi stato a Poschiavo, ove
si è trovata or ora una nuova sorgente di acque minerali?"
"No," risposi "vengo di St-Moritz, ove già ve ne hanno
delle buone."
"Eh! a proposito, ditemi un poco qualche cosa sulle persone ivi
arrestate."
"In fede mia, che non ne so nulla" risposi.
"Come? venite di là ed ignorate che da quattro giorni sta
arrestato all'albergo della Müller Tito Celsi, che aveva
delle armi per fare una discesa nella Valtellina, che trovansi ivi
Kossuth, Mazzini, ed altri patrioti?"
"Certo" dissi con indifferenza "che ho udito alcuna cosa, ma come
non m'impaccio di materie politiche, così non mi curai di
avere precise o estese informazioni."
A queste parole trasse un sospiro, e atteggiato a tristezza,
rispose:
"Poveri Italiani! Quanti tentativi non fanno eglino mai, e sempre
inutilmente!"
Stette silenzioso alcuni momenti, e riprese così:
"Quanto mai amerei di conoscere Mazzini, Kossuth e Celsi!"
"Davvero?" soggiunsi io.
"Sì, moltissimo" rispose con forza.
A questo mi balenò in mente, che m'avrebbe potuto essere di
non lieve vantaggio nell'indicarmi una guida; e con quella cieca
fiducia, che ebbi sempre negli istanti di pericolo, dissi:
"Desiderate conoscere quei signori per vanità, ovvero per
interesse alla causa che servono?"
"Per la causa" rispose egli; "anch'io sono patriota e
repubblicano."
"Or bene, io sono Tito Celsi, fuggito poche ore fa dai gendarmi in
St-Moritz. Se voi volete farmi arrestare, sta in vostro potere, ma
voi nol farete: il vostro volto è l'espressione
dell'onestà e della generosità; siete giovane e
svizzero; e la gioventù ha raramente durezza di cuore, o
pensieri gretti e traditori. Abbisogno di una guida, e voi potete
procurarmela, se volete."
Il giovane Svizzero mi guardava fisamente, e in atto di molta
sorpresa; alle ultime parole mi prese per la mano, me la strinse
fortemente, e conobbi che aveva in lui un amico.
Prendemmo alcun cibo in fretta, c'intertenemmo sottovoce, e ci
ritirammo in camera: volle che mi coricassi, e disse:
"Domani alle tre verrò a svegliarvi colla guida; voi a
nulla pensate; stanotte vi farò da sentinella".
Indi prese congedo augurandomi la buona notte.
Quantunque io sentissi, che quel giovane non mi avrebbe certamente
tradito, me ne stetti nondimeno sempre all'erta, e non chiusi, per
così dire, un occhio.
All'ora fissata egli batté: io era in piedi, uscimmo, mi
accompagnò per qualche miglio verso Poschiavo. Aveva la
guida: e strada facendo mangiammo alcun che delle sue provvisioni
da caccia. Dopo mi lasciò. Scrissi il suo nome, e di mezzo
a tutte le mie avventure smarrii il foglio in cui stava
registrato. Vorrei pure che si conoscesse chi fu il nobile
Svizzero, che meco si condusse con tanta amorevolezza.
Tenni la scoscesa valle Cavaglia, e giunsi a Poschiavo alle otto
incirca del mattino, parlai con Felice R..., e quindi men ripartii
prendendo la stessa via; pervenuto a Samaden, mi avviai per la
valle dell'Albula, e mi condussi nei boschi vicini di Coira. Come
fossi stanco, ognuno sel può immaginare, in pensando che
durante quaranta ore aveva incessantemente marciato per aspre
montagne: la stessa guida, giovane di ventotto anni, non ne poteva
più.
Mandai per alcuni miei amici svizzeri, ma essendo fuori di Coira,
m'indirizzai all'ingegnere I[oni]. Questi si recò subito da
me, e mi fu cortese di sua amichevole assistenza.
Essendo cessata dal lato mio la necessità di tener nascosto
il mio vero nome, così gli dissi:
"Avete ancora saputo chi io mi sia?"
"Tito Celsi" rispose egli con persuasione di affermare il vero.
"Niente affatto" soggiunsi; "io sono Orsini."
Alle quali parole non fece motto; ma chinò il capo tra la
palma delle mani, pensando forse ai discorsi tenuti altra volta
con me.
"Non vi date pena" continuai allora; "mi so bene che cosa sia il
mondo, ed ho sufficiente esperienza per non tener conto delle
parole che ripeteste, e nelle quali eravate involontariamente
ingannato." Mi strinse la mano, e tutto fu finito: ed ora vo
superbo di noverarlo per uno dei miei migliori e leali amici.
Que' giovani, a cui perverranno questi miei scritti, tengano bene
a mente, che colla massima facilità soglionsi accusare le
persone, che fallirono in una impresa; l'ignorante, l'invidioso,
il millantatore colgono l'occasione di spargere calunnie e di
gettare a terra il capo di un'armata, di una cospirazione, o di
una spedizione per piccola che sia. Bene spesso la reputazione di
un uomo pende da qualche codardo, che, nella sicurezza di non
essere scoperto, mette in moto i mezzi più vili contro
l'oggetto della sua ira. Ma la tempesta cessa, la ragione si fa
strada di mezzo alle tenebre che la ingombravano; gli anni
trascorrono; le passioni si quietano; la luce appare; e la mente
fredda ed imparziale dello storico espone la verità netta e
chiara al cospetto di tutto il mondo.
Che i miei giovani connazionali nulla temano dunque al
sopravvenire di simiglianti circostanze; stiano saldi nella fede
politica; e colla purezza di loro coscienza vadano dritto al loro
scopo arditamente, compassionando il debole, e disprezzando il
vilissimo calunniatore:
For time at last sets all things even.
Byron
Dopo un giorno o due di riposo ripresi il mio cammino per Zurigo,
dove dagli amici mi era stato destinato per luogo di rifugio la
casa della signora Emma Herwegh.
In seguito conobbi che Mazzini s'era espresso in termini di piena
soddisfazione pei preparativi da me fatti in proposito della
spedizione progettata.
Mazzini da Coira si portò a Zurigo, e prese ricovero in un
villaggio vicino. Rudio, Fumagalli, Pas[sega] e C[ampanella],
arrestati: quest'ultimo a cagione della grande somiglianza
cerebrale, che ha col suo concittadino Mazzini. Dopo pochi
dì vennero posti in libertà. Così ebbe
termine questa piuttosto commedia che tragedia.
Se il tentativo de' Grigioni ebbe confermato le considerazioni
generali, emesse alla fine del precedente capitolo, stavolta pose
in luce delle verità di natura tale da far meditare assai
profondamente Mazzini, prima di persuadersi a nuove spedizioni.
Di fatti:
1°) egli, il capo della Giovine Italia; egli, che si riteneva
tale anche del partito nazionale, era l'ordinatore in persona del
moto: se non tutta la nazione, gran parte almeno degli Italiani
avrebbe dovuto correre ad aggrupparsi intorno all'uomo redentore;
intorno a colui, che per 23 anni aveva pianto sulle loro miserie,
e chiamatili al risorgimento. Ma niente di tutto ciò: nove
persone costituirono il suo seguito;
2°) gli uomini che, avendo ricevuto il danaro pel viaggio,
dovevano convenire per stretto debito, non apparvero.
Tutto questo prova che il suo nome non aveva più alcun
prestigio.
A tali verità, pur troppo assai tristi pel capo di un
partito, Mazzini si mostrò sconfortato; e diede voce di
voler deporre per lo avvenire ogni pensiero di cospirazione e di
azione politica. Alcuni amici si riunirono, pregandolo invece a
persistere nella cospirazione; ed egli, lasciandosi piegare,
accettò.
Per la spedizione della Valtellina, e per amarezze domestiche, il
mio scontento salì al colmo.
Che fare? Dove andare? Non aveva un palmo di terra in tutta
Europa, tranne l'Inghilterra, ove potermela vivere sicuro. E a
Londra che avrei trovato? divisioni, recriminazioni tra i partiti;
sbeffeggiamento poi verso di me pei falliti tentativi. Non vi
avrei potuto reggere; temeva di qualche violenza dal canto mio. Ne
scrissi a Mazzini, significandogli: voglio recarmi in Russia, e
sotto finto nome, prendere servizio nell'armata. A ciò due
oggetti mi muovono: l'uno mettere in pratica, presso un grande
esercito, gli studî militari da me fatti; l'altro battermi
contro i Francesi di Napoleone. Mazzini non disapprovava il mio
concetto; ma facendo sentire la voce dell'amico, mi confortava
d'andarmene a Londra, e diceva che le parole dei partiti avversi
non mi avevano da far paura. Chiedevami, oltre a ciò, qual
somma era necessaria per recarmi dove io pensava.
In questo stato di cose l'amico P[ietro] C[ironi] venne dicendomi
un giorno ch'egli aveva il carico di trovare persona adatta che si
recasse a Milano per oggetto politico; la cui missione si poteva
riassumere nei seguenti dati:
1°) ricoverarsi in luogo già pronto, e stare celato
durante un otto o dieci giorni;
2°) interrogare, ciascuno a sua volta, i capi di sezione della
organizzazione popolare, o chiunque dicesse aver uomini per la
rivoluzione;
3°) fare altrettanto coi capi del comitato ivi esistente;
4°) esaminare e prendere nota esatta degli uomini, che
ciascuno dei suddetti avrebbe mostrato di avere pronti, dei mezzi
loro, della capacità pratica, della influenza relativa;
5°) usare le maggiori sottigliezze e risorse intellettuali,
onde poter fare una giusta estimazione delle forze del partito,
della fiducia da riporvisi, delle probabilità di riuscita
in caso fosse deciso di tentare un fatto.
Questa missione, come ognun vede, era semplicemente di scandaglio;
si richiedevano prudenza, conoscimento delle cospirazioni e degli
uomini, in ispecie dei giovani entusiasti, nei quali bene spesso
sotto un apparente entusiasmo e amor patrio, stanno nascosti
ambizione, appetito di danaro, di voler cambiare posizione
sociale, e tante altre piaghe, di cui è soverchio tenere
proposito. Chiesto se avrei avuto difficoltà nell'accettare
l'assunto, risposi che no.
Questa specie di ricognizione delle forze del partito e dei
comitati sarebbesi dovuta stabilire per massima assoluta, e farla
sempre precedere i tentativi concetti; se fossesi così
operato, quanti rovesci non si sarebbero mai cansati, o quante
spedizioni dissuase!
Fatto consapevole Mazzini ch'io accettava l'incarico, ei
m'inviò le seguenti istruzioni, ch'io ritenni a mente onde
non viaggiare con iscritti.
"Fratelli,
"Se nelle circostanze attuali, durando una guerra che limita le
forze disponibili dell'Austria, e quelle che abbiamo sul
territorio, gl'Italiani non fanno, noi siamo un popolo di codardi;
e l'Europa ci chiamerà con questo nome.
"Se voi sentite la verità di questo ch'io dico nel profondo
del vostro core, com'io la sento nel mio, faremo.
"Gl'Italiani faranno tutti, se un fatto grande, splendido
d'audacia e di successo, romperà l'esitazione che oggi
regna, e ridarà al popolo la coscienza delle proprie forze.
"Vi sentite capaci di crear questo fatto? voi lo potete.
"Interrogatevi bene; scrutatevi bene: se non vi sentite capaci di
esser grandi davvero, grandi non dirò di coraggio,
d'azione, ma di prudenza, di segreto, di dissimulazione, di
costanza, non vi cacciate all'impresa; non siate vittime inutili;
pensate alle vostre famiglie; aspettate dal tempo la vita della
nazione, e non aggiungete in me una illusione alle tante della mia
vita.
"Se invece sentite d'amare la patria più che ogni cosa, se
vi sentite fremere dentro di vergogna e d'ira italiana nel leggere
nei giornali d'Austria: 'Gl'Italiani parlano molto, e fanno poco'
e simili oltraggi; se potete farvi per tre mesi serpenti, e leoni
per un giorno: eccovi ciò che dovete fare.
"Oggi v'è troppa agitazione, troppo sospetto. Bisogna
addormentare il nemico.
"Separatevi; non agitate; non corrispondete con anima viva; non
cercate contatti in Piemonte né coll'emigrazione. Fate che
ogni sospetto si allontani da voi. Se tra qui e il tempo
dell'azione voi vi fate arrestare per vostra colpa, tradite il
paese.
"Tre dei migliori fra voi, non sospetti finora, consacrino tre
mesi di lavoro a maturare nei menomi particolari il piano, e a
prepararne i materiali.
"Organizzate una Compagnia della Morte, come i nostri padri della
Lega Lombarda. Ottanta giovani robusti e decisi, scelti tra voi
stessi e tra i popolani più prudenti, si votino con
giuramento terribile a snudare il pugnale a ora fissa contro i
nostri oppressori. Questi ottanta rimangano divisi, organizzati in
gruppi di tre, di cinque al più, sottomessi al cenno dei
sedici capigruppo, noti a voi. Promettano silenzio, prudenza,
dissimulazione; evitino ogni occasione di assembramento, di risse;
si considerino come sacri all'Italia. Pensate ad armarli di
pugnale, non prima del giorno dell'azione; quei che hanno
già l'arme, la depongano fino a quel giorno; un malore
improvviso può coglierli, e rivelare l’arme che basterebbe
a suscitare sospetti. Un sicuro tra voi si consacri tacitamente a
studiare, osservare le abitazioni del generale e dei principali
uffiziali, capo di stato maggiore, comandante d'artiglieria, ecc.,
le loro abitudini, specialmente nelle ore, nelle quali i
più tra gli uffiziali sono spensieratamente fuori, e
l'operazione potrebbe riuscire simultanea.
"Due, tre uomini decisi dovrebbero bastare per ciascuno di questi
uffiziali importanti, venti fra tutti. Trenta pel..., e ove
frequentano gli uffiziali. Trenta..., o per altro punto qualunque
che si sceglierebbe, suggerito dalle circostanze, nel piano.
"L'esercito austriaco, perduti gli uffiziali, è perduto.
"Il popolo dovrebb'essere curato, mantenuto buono e voglioso, e,
per quanto è possibile, organizzato; ma il progetto di
vespro degli uffiziali dovrebbe essere tenuto interamente segreto;
e occorrendo dovrebbe sussurrarglisi un piano totalmente diverso e
falso. Basterebbe che i popolani buoni fossero avvertiti, che a un
tocco di campana o a qualunque altro segnale concertato devono
scendere in piazza con quanti ferri del mestiere o altri possono.
Dovrebb'essere dato ad essi e agli ottanta un punto di
concentramento, nella parte più inviluppata di strade
strette e viottoli nella città. Là dovrebbero
innalzarsi barricate per servire di punto di resistenza in caso di
rovescio.
"Compiuto il vespro, gli ottanta diverrebbero lo stato maggiore
dell'insurrezione, e guiderebbero il popolo, secondo istruzioni
già concertate, e sulle quali avremo tempo di intenderci.
L'essenziale è la possibilità di trovare la cifra di
uomini che v'ho indicata, e rivestiti delle qualità volute.
Potete? Allora, se altri fatti non accadono prima in Europa che
somministrino occasioni, dovrebbe maturarsi il fatto per la fine
di dicembre. Non v'è bisogno di frequente corrispondenza
con me, pericolosa anche quella: una parola che dica, ma
segretamente: 'Possiamo accettare'; un'altra che dica: 'Il lavoro
è compiuto; siam pronti'; non altro. Al cominciamento del
dicembre dovrei ricevere da voi il quadro della guarnigione che
avete, colla distinta dei corpi. Compiendo questo lavoro
preparativo, sospenderete ogni altro colle provincie: penso io a
tenerle preparate a seguire. Col popolo stesso andate a rilento; e
quando anche vi credano scoraggiati, non monta. A ridestar il
popolo, dieci giorni basteranno.
"Io, se un giorno sarete pronti, vi darò qualche uffiziale
per dirigere l'insurrezione successiva al vespro, qualche mezzo
pecuniario pei primi giorni, e me stesso per quel primo giorno in
Milano.
"Posso anche assumermi di darvi i cento fucili che chiedete, ma
credo pressoché impossibile la riuscita dell'introduzione.
Tocca a voi in ogni modo dirmi dove e come dovrei averli pronti
per voi. E se mi direte, calcolando freddamente le
probabilità e i pericoli, che potete introdurli; e mi
promettete inoltre d'impegnare uomini, in quella operazione,
separati dal lavoro degli ottanta, sicché una sezione non
distrugga la compagnia sola essenziale, li avrò pronti per
l'epoca che mi direte.
"Meditate, e rispondetemi una parola. Pensate che molti uomini
possono essere capaci di scendere in piazza quando si ergono le
barricate, e non d'essere certi di farsi iniziatori senza menoma
esitazione nel modo che io dico. Se il fatto riesce, avrete
ritemperato a un tratto l'indole di tutta Italia, e iniziata la
sua libertà. I nomi degli ottanta saranno affidati alla
riconoscenza ed all'affetto di tutte le generazioni che verranno.
"Addio, amate il vostro GIUS.
"Settembre 15, 1854.
"Distruggete, non per me, ma per voi, questa carta."
"Caro Celsi,
"Hai letto e ben capito lo scopo?
"Se un colpo brillante può farsi subito, non ho bisogno di
dirti che lo farai; e per te e per la causa varrebbe tutti i piani
possibili.
"Se non si può, dà non solamente il mio concetto, ma
le idee che un po' d'osservazione ti suggerirà pel colpo
più tardi.
"Mandami per mezzo dell'amico, che vedrai prima, un rapporto
minuto in carta sottile per me. Ma anche prima di quello, concerta
per mandargli una parola, che indichi il sì o il no
dell'immediato. Ho bisogno di andarmene, e appena sapessi che
nulla si fa ora, andrei ad aspettare il rapporto in Londra.
"Coi dissidenti parla unione, ecc.; ma stringili a dichiarare
quali casi costituirebbero anche per essi l'opportunità; in
quali casi coopererebbero. Parla dell'interno e del come il resto
dell'Italia seguirebbe. Discuti un po' la guerra, e come la
vittoria definitiva sia un problema di direzione. Parla
dell'estero, degli aiuti che un moto iniziato avrebbe d'America;
vedi di perorare a migliorarli: addio.
"Tuo GIUS.
"Bada che ho dato avviso, e non bisognerebbe differir più
oltre di domenica." (Senza data, ma del fine settembre 1854.)
Le istruzioni mostrano che la prima missione ideata da C[ironi]
aveva sofferto un cambiamento. Non era di semplice ricognizione,
ma preparativa di un moto, qualora i dati raccolti non avessero
presentato probabilità di riuscita in un fatto brillante,
che avrei dovuto tentare subito.
Per loro stessi i dettami di Mazzini erano acconci e vigorosi; ma
l'esecuzione esatta, se non impossibile, assai difficile sarebbe
certamente riuscita.
Mostravano chiaramente essere il parto di un intelletto, che ha
vissuto sempre nel silenzio del suo gabinetto, di mezzo a qualche
adoratrice, e condotto a giudicare degli uomini a guisa di esseri
non impastati di carne.
Ma comunque elle siano, accettai di recarle a Milano, e di
iniziare il moto, ove lo avessi creduto opportuno. Questo
bastò; tutto poi era rimesso al mio discernimento.
Prima di partire, mi condussi a veder Mazzini; a voce mi svolse
più ampiamente le istruzioni, e ripetemmi l'indirizzo di
uno dei primi capi milanesi. Diemmi mille franchi in oro da
valermene pel viaggio e per il moto, se avesse avuto luogo. Ci
stringemmo la mano, e ci salutammo augurandoci reciproca fortuna.
Ora fermiamoci a brevi considerazioni generali.
Dalla esposizione delle avventure politiche, cui sino a questo
punto io partecipai, si argomenta:
1°) meschinità di mezzi in danaro e armi del partito
mazziniano;
2°) assottigliamento giornaliero del medesimo;
3°) il capo costretto di darsi nelle mani di giovani inesperti
e di qualunque altra specie di uomini, purché atti a tenere
un'arme;
4°) coloro che erangli rimasti affezionati, essere uomini non
d'azione, ma vecchi amici, onesti, ma ciechi adoratori;
5°) ostinatezza di Mazzini nell'idea, che un pugno d'uomini
coi nomi di Dio e del Popolo valga a far insorgere tutta la
penisola; e disconoscimento delle opinioni e dello stato reale
degli animi in Italia;
6°) per ultimo, difetto di capacità ordinatrice nella
mente di lui, e mancanza totale di senno pratico.
CAPITOLO NONO
Come mi ebbi procurato un nuovo passaporto, sotto il nome di
George Hernagh, la sera del 1° di ottobre del 1854,
accompagnato dalla signora Emma Herwegh e da alcuni amici, mi posi
in viaggio alla volta d'Italia.
Toccai Lucerna, il San Gottardo, Novara, e mi condussi a Torino.
Presi questa via, acciocché la provenienza diretta dalla
Svizzera non fosse stata cagione di sospetti. Ivi m'imbattei con
alcuni amici; tremavano al vedermi; dissero che essendo io
mazziniano(25), tutta la emigrazione, tranne pochissima, mi era
contro; che il governo sardo avrebbe arrestato chiunque fosse
stato in contatto meco; che la pubblica opinione era per la
indipendenza, e per il Piemonte, che si aveva fondamento di
credere favorevole a questa; che il partito di Mazzini riducevasi
ormai alla meschinità, ecc.
A dire il vero, non diedi gran peso a queste parole, ma dal
conversare che feci con persone, che avrebbero dovuto essere
assolutamente dal nostro lato, m'avvidi pur troppo che, non che
menzogne o esagerazioni, elle contenevano una solenne
verità.
A togliere però ogni benché minimo sospetto sulla
mia presenza in Italia, feci sembiante di essere diretto ad Ancona
per imbarcarmi alla volta della guerra d'Oriente.
Quindi me ne partii per Milano. Alla stazione di Mortara, se non
erro, incontrai il mio amico marchese Trotti di Como: mi
fissò un istante, ma parve non riconoscermi. Allora andai a
lui franco, e lo presi per mano. Fece le meraviglie al vedermi, e
mi domandò se si era in procinto di tentare alcun'altra
impresa. Risposi del no, lo richiesi della sua parola d'onore di
non parlare a chicchessia di me, e l'ebbi. Venendo indi sul
discorrere delle cose italiane, mi fece intendere, che le speranze
di tutta l'emigrazione erano nel Piemonte; che gli alleati, e
ciò sapevasi dall'alto, davano promesse d'assistenza, che
faceva d'uopo starne quieti, che se Mazzini ne avesse commessa una
delle sue solite, si sarebbe tirato il biasimo di tutti i
patrioti. Lo ascoltai; pervenuti a Vigevano, ci separammo.
La stessa mattina, che giunsi a Milano, feci le mie indagini; e
alla sera parlai con due del Comitato: diedi a voce le istruzioni,
le ripetei più volte, e presi informazioni sullo stato
degli uomini, ecc. Ci rivedemmo nei giorni successivi, e tornai a
spiegare più chiaramente ciò che si avea da fare;
chiestomi, a calde e reiterate istanze, che lasciassi le
istruzioni per iscritto, dopo qualche esitare mi vi piegai e
n'ebbi in ricambio la parola d'onore, che si sarebbero abbruciate,
non appena fisse bene nella mente(26). Solenne imprudenza dal lato
mio!
Risultanze de' miei intertenimenti col Comitato, e con alcuni de'
più influenti popolani:
1°) essere tutti bene animati, e sembrare veramente buoni e
ardenti;
2°) poca fiducia in Mazzini: dicevasi, aversi da alcuni per un
agente austriaco; non comparire mai sul luogo del pericolo; data
promessa che il 20 agosto un commissario di lui sarebbe stato in
Milano con danari pel moto, che doveva farsi contemporaneamente a
quei della Svizzera, ed essere mancato; avere eglino speso un 200
franchi, rotti i telegrafi, e dati sospetti e allarme al governo,
senza un vantaggio qualunque, ecc.;
3°) non essere eglino in contatto con alcuno della classe
culta della società, o dei proprietarî e ricchi
Milanesi;
4°) essermi per conseguente stato impossibile di trattare coi
così detti dissenzienti, dei quali dovevano essi darmi
l'indirizzo, giacché questi appartenevano ad una classe
più elevata;
5°) a lor detto, sommare gli uomini, che dicevansi presti ad
un moto, a cinque o seicento.
In seguito di che scrissi un rapporto alla signora Matilde Herder,
nome fittizio della signora E...tte..., che fu spedito a Mazzini.
Gli esponeva le cose più necessarie a sapersi, dicendogli
che quei giovani avrebbero preparato il movimento pel dicembre:
non gli taceva, che v'era scoraggiamento, e che dal lato suo
avrebbe dovuto tenere le promesse, e nel dì dell'azione
trovarsi assolutamente in Milano. Pel quale oggetto gli
significava qual modo fosse a tenersi per entrare in Lombardia.
Il Comitato dal suo lato accettò tutte le condizioni
esposte nelle istruzioni, e mi lesse la risposta che inviava a
Mazzini; quanto al danaro pei preparativi, chiedevansi 6.000
franchi, somma ben limitata. In tutte queste trattative mi si
riconobbe come Tito Celsi, e giammai lasciai sospettare chi mi
fossi, o dove abitassi, o con qual nome viaggiassi.
Allo scoraggiamento in cui erano i popolani, pel mal esito del
tentativo del 6 di febbraio, e per gl'impiccamenti avvenuti,
risposi dando buone strette di mano, facendo loro animo, e dicendo
che non sempre egli n'è dato vincere; ma che stavolta
avremmo fatto, ne stessero certi. Aggiunsi che partivo per la
Polonia per affari di maggior rilievo(27), ma che dovendomi
trovare nel dicembre alla esecuzione del fatto, si sarebbe allora
saputo il mio nome, e veduto se fossi uomo da fare o no il mio
dovere nei combattimenti.
Compiuta la mia missione, stimai di andarmene verso Vienna: in
Milano sarebbe stato imprudenza il rimanere; riconosciuto, era per
me finita.
Durante il mio soggiorno, non passava dì che non mi recassi
agli esercizî in piazza del Castello e fui veramente
sorpreso della precisione e celerità insieme nella
esecuzione delle manovre: dal 1848 in poi gli Austriaci avevano
fatto un cambiamento notabile.
Visitai poscia Verona e Vicenza, andai a rivedere i luoghi, dove
nel 48 ci eravamo battuti, e dove perdetti un intimo amico,
Liverani, al mio fianco, fuori la porta di Santa Lucia. A Venezia
non fummi permesso di visitare Marghera: quei luoghi mi
rammentavano i bei giorni di combattimento per la libertà,
ed avrei avuto caro di visitarli di nuovo. Infine mi imbarcai per
Trieste. Nel viaggio levossi una burrasca furiosissima, e si
andò quasi a periglio di calare a fondo. Pratico del mare,
me ne stava disteso nella mia cabina, quando ad un tratto mi vidi
accostare da una faccia brutta, e di ben sinistro aspetto. Teneva
un libriccino nelle mani, e si raccomandava l'anima; e per non
ispendere un fiorino, necessario a pagarsi da chi fa uso del
letto, stavasi seduto sulla panca, che gira attorno al salone dei
bastimenti da viaggio, cosicché di tratto in tratto, a
seconda delle forti ondulazioni e scosse del vapore, sbalzava sul
piano e contro la tavola del mezzo. Il vedere costui, il sentirmi
un brivido per la vita e l'avere tristi presentimenti, ei fu
tutt'uno.
Potei fissarlo, e lo riconobbi: egli era certo Moisè
Formiggini, ebreo di Modena, da me conosciuto per caso in Bologna
nel 1848.
Giunti a Trieste, s'ebbe molto a fare per metter piede a terra: ci
trovammo nello stesso battello di trasporto, e si offrì
opportunità di scambiare qualche parola insieme. Nel
prendere i nostri effetti di viaggio, ei si diresse a me
così:
"La sua fisionomia non mi giunge nuova, signore".
"Possibile" risposi.
"Parmi di averla veduta a Bologna" soggiunse l'ebreo.
"Possibile," ripetei "perché ero uffiziale nei reggimenti
svizzeri al servizio del papa."
"Oh! guarda" diss'egli in atto di meraviglia e spalancando la
bocca, che faceva vedere due filari di nerissimi denti. Al che gli
volsi le spalle, e tirai dritto pel mio cammino.
Sulla fine di ottobre mi trovai in Vienna. Ivi feci alcune
conoscenze; recaimi a vedere ciò che vi era di bello nella
città; visitai i monumenti degli scultori, tra' quali uno
bellissimo di Canova nella chiesa degli Agostiniani, se non erro.
Vidi la biblioteca dell'imperatore e l'interno dei suoi palazzi:
una sola cosa mi sorprese, e fu che ad ogni andito e a piccoli
intervalli vedevansi sentinelle; talché avresti detto che
l'imperatore fosse prigione.
Fui più volte al teatro imperiale, e ben da vicino potei
vedere l'imperatore e l'imperatrice. Niente di bello: due tipi
tedeschi, che nulla esprimono: i frenologisti non vi troverebbero
che pura materia, capace di produrre nuova materia. L'imperatore
non veste mai da borghese, ma sibbene da militare; ciò che
offende altamente la classe, che non appartiene alla milizia. Ma
l'imperatore, sapendo ciò, ha ridotto gl'impieghi civili al
militare; e tutti hanno un grado corrispondente alla gerarchia
delle armate, e ne' dì festivi e nelle solennità
denno portare la divisa.
Mi condussi quindi a visitare le tombe della famiglia imperiale.
Stetti alquanto a contemplare quelle casse nei sotterranei. Vidi
quella dell'imperatore Francesco, che ha martoriato Silvio Pellico
e tanti dei nostri migliori Italiani; essa si estolle in alto come
in trionfo, e in segno di grande distinzione. Vidi invece quella
di Giuseppe II, e mi vi curvai sopra: è a terra, spoglia di
ornamenti; è un'umilissima cassa, e non altro. Ma la prima
racchiude le ossa di un tiranno, e la seconda le spoglie mortali
di un principe saggio, e che, anziché despota, si
considerava il padre de' suoi popoli Alla vista del sepolcro di
Francesco non mi potei contenere, e meco stesso andai ripetendo
queste parole: "Tu non farai più male agli Italiani; tu,
una volta imperatore, oggi sei uguale all'infimo de' mortali; la
tua corona, i tuoi tesori, i tuoi soldati, i tuoi sgherri non
hanno potuto arrestare la falce della morte. Che resta di te oggi?
Una fama, sì, una fama contrassegnata dalle maledizioni dei
popoli, che tenesti schiavi; delle famiglie, che volgesti nella
miseria e nel pianto; degl'Italiani, che quando vogliono ricordare
tiranni estinti, evocano le ombre di Eccelino, di Borgia, di
Francesco I".
Quale diversità di sensazioni non si sentono rinascere alla
contemplazione di quei monumenti che racchiudono invece le ceneri
degli uomini grandi! Quale stretta non ti senti al cuore andando a
visitare la chiesa di Santa Croce in Firenze, e l'abbazia di
Westminster in Londra!
La potenza dell'intelletto sfida i secoli; il genio, nascosto
sotto modesti ornamenti, tramanda la sua fama pura attraverso
l'eternità. Il tempo, che abbatte la potenza dei più
grandi conquistatori, che riduce in polvere i troni, che frange le
corone imperiali, che cancella dalla faccia dell'universo ogni
traccia delle più antiche dinastie, che riduce al nulla
ogni cosa terrena; il tempo non vale a far obliare quegli uomini,
che s'ebbero il genio della creazione. Non cambiamento di
opinioni, non di circostanze valgono contro di essi; e dove pur
anco il dispotismo e la superstizione osassero di spargerne le
ceneri al vento, la posterità a capo chino andrà
sempre ad adorare quelle zolle, sotto cui riposarono un Dante, un
Galileo, un Newton, un Macchiavello e un Michelangelo.
La fama dei troni è sorretta da leggi di proscrizioni, di
dispotismo, d'ignoranza; quella del genio, intesa al bene
dell'umanità, ha per fondamento eterno o le leggi fisiche
dell'universo, o quelle del benessere sociale, o del bello
artistico.
Ma, tornando donde mi partii, non dimenticai già il mio
proposito di entrare nell'armata russa; mi recai perciò dal
principe Gortschakoff, ambasciatore. Non potendo, il dì che
mi presentai, darmi udienza, parlai a lungo col segretario
d'ambasciata, il quale, avendogli chiesto se sarei stato accettato
al servizio, mi rispose:
"Durante la pace, sì; ma in tempo di guerra non si accetta
nessuno, nessuno".
Pensai allora di entrare nell'esercito austriaco e di realizzare
così il piano più volte discusso con Mazzini, ed
anche con Kossuth, di fare la propaganda nei reggimenti italiani.
Il consiglio non poteva essere migliore, ma presentava pericoli e
difficoltà straordinarie. Nulladimeno, convinto di servire
la mia patria, mi decisi di tentare il passo. Ne scrissi a Mazzini
significandogli il mio divisamento; ed aggiungendo che, ove non
potessi realizzarlo, nel dicembre mi sarei condotto in Milano a
dar mano alla insurrezione già progettata: ma che, dove
fossi invece in servizio, cercherei di fare delle diversioni nei
reggimenti italiani.
Questo di me.
Quanto agli affari cospiratori in genere, gli veniva dicendo:
badasse bene a quello che stava per fare; che gli Austriaci erano
potentemente organizzati; che, senza di un'armata, mi sembrava
impossibile disfarli; che la rivoluzione in Italia era ben
possibile, ma il dubbio stava, se fossimo poi stati pronti ai
sacrifizî necessarî per sostenerla; che l'Austria
può col bastone trarre quanti soldati essa vuole dalle sue
provincie di razza croata e bulgara, dove sono popoli nello stato
quasi di barbarie; che se in un fatto nuovo ei non fosse riuscito,
non sarebbesi più voluto il suo nome da chicchessia; che
non desse troppo ascolto alle parole dei giovani entusiasti, i
quali promettono cento, e dànno uno: che tutto questo gli
veniva rappresentato per debito di amicizia e di coscienza.
Queste lettere passavano per le mani della signora Luisa Casati,
ora defunta, e della signora D. N... in Zurigo; quindi venivano
spedite a Mazzini o da loro medesime, o da un mio amico
autorizzato di leggerle.
Le stesse cose, tralasciando ciò che riguardava la
cospirazione, scrissi al vivente mio amico in Genova. Carlo
Le[fèbvre].
Tornando sul prendere servizio in Austria, fui presentato per
lettera al feld-maresciallo De Salis, allora in Galizia. Me gli
diressi come Svizzero, tale mostrandomi il nome e il passaporto; e
dicevo avere servito nei reggimenti papali, al tempo che suo padre
n'era il generale. Aggiungeva di essere pronto agli esami di
uffiziale di stato maggiore.
Mi rispose con molta gentilezza e interesse, affermando, che dopo
una legge del 1848 non si accettavano uffiziali al servizio
austriaco, qualunque fossero i loro titoli presso altre armate;
che faceva d'uopo entrare soldato semplice; che, ove ciò
avessi fatto, in meno di otto giorni sarei stato ammesso agli
esami per divenir cadetto; che in un anno avrei potuto toccare il
grado di capitano; che mi lasciava libera scelta, ecc.
Risposi del no; e ciò feci, perché accettando veniva
meno, a mio avviso, lo scopo prefissomi nel prendere servigio in
quell'armata.
Scrissi a Zurigo che partiva per l'Ungheria, e da Pesth spedii
altra lettera alla signora Casati dandole l'indirizzo a cui doveva
far pervenire le lettere: diceva a Mazzini, mi avesse inviato due
linee di presentazione di Kossuth per qualche uffiziale ungarese.
Alli 7 dicembre lasciai Vienna; mi fermai a Arad, fui a vedere la
fortezza in cui si appiccarono i patrioti e generali ungaresi.
Dimandai di entrarvi; mi venne dinegato.
Nell'Ungheria trovai una regione fertilissima, abitata da bella e
robusta gente; essa rammenta con gloria i nomi di Klapka, di Bem,
di Kossuth, e arde che il momento sorga, onde prendere di nuovo le
armi contro i loro oppressori.
Feci il viaggio in compagnia di un giovane ungarese; il quale
nulla sapendo né del nome, né della mia veste
politica, mi trattò gentilmente. Ci fermammo qualche
dì a Szaszvaros; e contrassi qua e là buone
conoscenze. Infine ci avviammo verso Hermanstadt.
PARTE SECONDA
CAPITOLO PRIMO
Battevano le undici antimeridiane del dì di domenica 17
dicembre 1854, quando entrammo in Hermanstadt: lo stato d'assedio
aveva cessato da tre o quattro giorni, gl'impiegati civili riprese
le loro funzioni, e le soldatesche che l'occupavano erano sulle
mosse per recarsi nei Principati Danubiani.
Pranzava in una sala terrena dell'albergo, e me ne stava
intertenendo con alcuni uffiziali austriaci, quando alle due circa
l'albergatore mi chiamò, dicendo che un signore voleva
parlarmi, e che mi aspettava in una camera vicina. Lo seguitai, e
mi trovai a fronte di cinque persone a me incognite, tutte vestite
alla borghese. Una di esse mi chiese in francese, ov'erano i miei
bauli: le indicai la mia stanza, e ci avviammo a quella senza far
motto; gli altri s'impadronirono de' miei effetti, mi
circondarono, e mi condussero all'ufficio generale di polizia.
Conobbi allora che io era in mano di commissarî imperiali.
Per un due ore si sottopose ogni cosa alla più minuta
perquisizione: fui denudato, ma nulla si ebbe che potesse dare
indizio di cospirazione. Mi si prese la lettera del
feld-maresciallo Salis, che recò loro sorpresa. Avendo
chiesto di parlare col principe Schwartzemberg, non si volle.
Seppi poi che la notizia del mio arresto era stata immantinente
trasmessa a Vienna per via telegrafica. Indi mi si diede a
prigione una segreta di polizia, e mi fu permesso il solo semplice
vestiario che aveva indosso, un sacco di paglia per letto, e due
coperte di lana.
Il lunedì sera, dietro domanda da me fatta, andai dinanzi
un commissario di polizia: era con lui un capitano di fanteria
austriaca, che conobbi per italiano. In questa occasione mi venne
saputo che il mio arresto era conseguenza di un ordine dell'alta
polizia di Vienna che aveva preceduto il mio arrivo di dodici ore.
Il commissario dissemi inoltre che nel seguente mattino mi avrebbe
esaminato.
Così fu: un giovane di Hermanstadt, che parlava
correntemente il francese, mi fece da interprete. L'interrogatorio
durò tre ore: risposi con molta calma affermando tutto che
era in coincidenza col mio passaporto, e colle pratiche fatte per
entrare nel servizio austriaco. Quanto al compagno ungarese, dissi
la verità: di averlo, cioè, incontrato a caso a
Vienna, e di essermi accompagnato con esso perché
conoscitore dei paesi, pei quali dovevo transitare.
Dalle mie asserzioni nulla trasse il commissario; dal canto mio
nulla potei sapere intorno alle intenzioni del governo.
Tornato nella segreta, chiesi de' miei libri: mi furono negati.
Per quanto io pensassi nelle lunghe ore di ozio al mio arresto,
non sapeva ove battere il capo per trovarne la vera cagione.
Il quarto giorno fui preso da dolori al basso ventre, che in
quarantott'ore crebbero a tal segno da non potere più
resistere. Invocai il medico: niuna risposta. Incominciai ad avere
le estremità delle membra fredde, e sì forti
divennero le doglie, che credetti di andarmene. I sintomi erano di
colera. Alla fine, vidi comparire sul far di sera un signore, il
quale, appressandosi a me e tenendo il cappello in mano, disse
essere il dottore: si spiegò in latino; mi esaminò
ben bene, e conchiuse che una febbre biliosa aveva attaccato
violentemente gl'intestini. Ordinò che in fretta mi fossero
pôrti dei medicinali, e volle applicarmi un senapismo al
basso ventre: dopo dodici ore la intensità dei dolori
cominciò a scemare.
Il medico continuò a visitarmi tre volte al giorno
mostrandosi gentilissimo. Quando incominciai a star bene,
l'appetito crebbe: ed allora appunto, per ordine del direttor
generale di polizia, venne proibito di spendere del mio per
mantenermi. Fui messo a pane ed acqua: il medico nulla poteva;
recavasi da me, mi toccava i polsi, crollava il capo, se ne andava
tutto mesto. Per soprappiù non ebbi né lenzuoli,
né asciugamani, né catino per lavarmi: nulla e poi
nulla. Divoravo il pane che mi si portava in sul mezzodì;
contavo le ore che dovevo trascorrere sino all'indomani; stentava
a dormire per la soverchia debolezza di stomaco; e il capo mi
girava fortemente.
Quando la guardia carceraria mi comunicò l'ordine di essere
messo a pane ed acqua, fece gli occhi rossi e si commosse: un
dì tra gli altri, chiusa ch'ebbe la porta dietro di
sé, trasse di sotto a' panni una boccetta di vino e del
pane; me l'offrì: stetti muto alcuni secondi, e guardato
bene in viso codest'uomo generoso gli dissi in tedesco:
"Ma io non posso pagarvi; il commissario me lo divieta".
"Das ist nichts, mein Herr" rispose quegli: Ciò non fa
niente.
Mi prese per le mani e se ne uscì.
Il 4 gennaio del 1855 fui condotto dinanzi al solito commissario:
vi trovai un caporale dei gendarmi. Mi si disse che nel mattino
sarei partito per Vienna; si riscontrarono i miei effetti, e se ne
diede la consegna al caporale, che li notò in un foglio
insieme ai miei connotati personali. Quindi il commissario in
cattivo francese mi richiese di scusa pel trattamento usato verso
di me, e disse:
"Vorrei bene ch'ella fosse persuasa, non essere io che un semplice
esecutore dei superiori comandi".
Allora gli domandai quali ordini vi fossero da Vienna.
"Rigorosissimi" soggiunse.
Poscia significò al caporale, che durante il viaggio mi
avesse dato un fiorino da spendere nel vitto.
L'Ungarese, che mi era stato compagno, mi doveva del danaro:
chiesi di vederlo, non fu concesso. Conobbi che lo si avea
arrestato pel solo motivo di essere in mia compagnia. Tutti questi
rigori diedermi fortemente a pensare; incominciai a sospettare,
che alcun che di grave pesasse sul mio capo.
Alle sei antimeridiane del 5 fui consegnato ai gendarmi, e messo
in un carro scoperto con suvvi della paglia: indi mi
s'incatenarono le mani. A tal vista caddero le lagrime alla
guardia carceraria che mi aveva tenuto in custodia.
Ne ignoro il nome: toccava i trent'anni, ed aveva militato nei
reggimenti rimasti fedeli all'imperatore all'epoca della
rivoluzione ungarese.
Strada facendo, dormii talvolta nelle caserme dei gendarmi; ed in
tali occasioni me la passava bene; mi si concedeva un letto a'
piedi del quale facevano la sentinella due gendarmi armati di
tutto punto e con baionetta in canna.
Altre volte invece fui posto nelle carceri comunali insieme ai
Polacchi. Qual fosse la sucidaggine di costoro, tralascio di dire,
perché muove a schifo. In queste me ne stava per terra
incatenato alle gambe, e non poteva dormire per la puzza e
gl'insetti che vi erano.
Quanto io soffersi nel viaggio è indescrivibile: a darne un
cenno basti sapere che si viaggiava tutto il giorno allo scoperto;
i gendarmi indossavano grossi mantelli, e ad ogni stazione di tre
in tre ore avevano il cambio, ma per me nulla di tutto ciò;
inoltre cattivissime notti e faceva un freddo tale che le acque
del Danubio erano gelate.
In alcuni tratti di strada mi giaceva come imbecillito; sapeva,
per così dire, appena di esistere, e rispondeva ai gendarmi
macchinalmente. In tutta la mia vita mai e poi mai mi era trovato
in così fatto stato.
Tra il 16 e il 17 di gennaio giunsi a Vienna stanco e assai male
andato della persona. Fui cacciato nella Polizei-Hause.
I gendarmi, dal semplice soldato al caporale, e talvolta sino al
sergente, si erano mostri verso di me buoni ed educati. Alcuni poi
mi furono assai cortesi, in ispecie quelli che avevano passato
alcun tempo in Italia, di cui parlavano sì
vantaggiosamente.
La Polizei-Hause è un luogo ove sono posti i prigionieri
prima di passare sotto processo regolare. Sinché stanno ivi
sono sotto l'immediata dipendenza della polizia, e segno è
che mancano prove legali di reità contro di essi. Il che
viene ad essere una specie d'arresto preventivo. Egli è per
ciò che il prigioniero dovrebbe essere trattato con
delicatezza e riguardo; ma niente di questo: egli è
considerato un infame, e messo insieme a qualunque sorta di rei.
L'edifizio, che costituisce le prigioni, è un antico
convento, che con molta maestria si adattò al nuovo
ufficio. In tutti gli anditi si trovano sentinelle; e ad ogni
porta delle segrete evvi una grata, per mezzo della quale le
guardie carcerarie possono vedere quello che fa il prigioniero.
Quanto alle altre misure di sicurezza e al trattamento carcerario,
non mi dilungo: rammenti il lettore quello del papa nelle carceri
nuove di Roma.
La segreta dove fui posto era lunga e stretta, con due finestracce
assai alte. Sur un tavolato, che prendeva quasi tutta la stanza,
v'erano alcuni sporchi paglioni con vecchie coperte; il tutto con
buona dose d'insetti. Quattro individui a me del tutto ignoti mi
facevano compagnia.
Verso mezzodì fui condotto alla presenza di un personaggio,
che mostrava sessant'anni d'età: alto assai, di capelli
canuti, olivastro nel viso, di modi assai gentili e signorilmente
vestito.
Io era senza cravatta, scoperto il capo, ed aveva i panni sudici
oltre ogni credere. Al vedermi ei disse:
"Ella non è svizzero, bensì italiano, e pertinente a
buona famiglia: sono vent'anni che sto nella sezione politica
degli stranieri, e conosco a prima vista i tipi delle varie
nazioni. L'impiegato, che le rilasciò la carta di
sicurezza, è buono, fedele ed esatto, ma manca di
esperienza: se vi fossi stato io, ella non mi avrebbe ingannato, e
non si troverebbe forse qui: io conosco il suo casato; è
inutile tacere la verità".
Risposi che l'avrei detta. Quindi guardandomi fisamente, mi chiese
se avevo biancheria, e me ne offerì: lo ringraziai dicendo,
che i miei effetti stavano in mano delle guardie carcerarie. Gli
richiesi di mettermi solo: pel che fece venire a sé
l'ispettore della Polizei-Hause; non potei ottenerlo,
perché contrario agli statuti carcerari. Mi ripeté
che s'aspettava da me la esposizione del vero, e dipartissene.
Egli era il capo della sezione politica degli stranieri.
Il giorno appresso, nello stesso locale, incominciarono
gl'interrogatorî: l'impiegato, che mi aveva dato la carta di
soggiorno in Vienna, faceva da segretario.
N'ebbi tre lunghissimi: non riposando sopra questi la vera
importanza de' fatti che sto narrando, ne riferisco solo la
sostanza, per non andare in lungaggini del tutto inutili.
Affermai non essere mai stato prigione, o a guisa di malfattore
incatenato e trascinato sur un carro; dissi, che per onore de'
miei vecchi genitori e per riguardo dovuto a me stesso, non voleva
manifestare il mio vero nome; che per domestiche amarezze aveva
lasciato la Toscana, mia patria, e m'era condotto con passaporto
svizzero a prendere servizio nell'armata austriaca; che ove fossi
venuto meno alle leggi dell'impero, mi si punisse come meglio
piacesse; ove no, mi si lasciasse libero, o mi si facesse tradurre
ai confini.
Sul qual ultimo punto insistetti con molta forza, pensando, ove
fossi passato per paesi a me noti, di fuggire di mano ai gendarmi.
Dapprima l'ispettore disse, che io era o Garibaldi od Orsini; poi
soggiunse essere me quest'ultimo: negai, e risposi che conosceva
per nome questi signori.
Finiti gl'interrogatorî, si recò nuovamente da me,
scongiurandomi di dire chi mi fossi.
Risposi di accondiscendere, purché mi si desse la parola
d'onore di farmi imbarcare a Trieste.
Se n'andò, promettendomi di far le pratiche necessarie.
Infine mi fece intendere, ch'ei poteva dar la parola, ma che il
governo non l'avrebbe mantenuta; per ciò era inutile.
Soggiunse, sapersi dalle alte autorità governative, che non
avevo contravvenuto alle leggi durante il mio soggiorno in Vienna,
ma che essendo io un pericolosissimo rivoluzionario, mi sarebbe
stata assegnata una fortezza a dimora, donde non sarei uscito che
quando l'orizzonte politico fosse assai chiaro. Mi
consigliò di nuovo a dire il mio nome: stetti saldo sul no.
"Ebbene," allora disse "ella sarà posto nelle mani di un
giudice criminale, nel quale, per essere italiano, avrà
certo maggior fiducia."
Poi crollando il capo, e in atto piuttosto di facezia che di
malignità, disse:
"Ella afferma di non essere mai stato prigione, ed io credo che vi
sia capitato più volte».
"No" risposi.
Soggiunse che mi sarebbe stato fatto il ritratto, e prese congedo.
Il giorno seguente fui condotto a tale oggetto in uno stabilimento
fotografico.
Gl'interrogatorî ebbero luogo in italiano, ed il segretario
li trascriveva in tedesco.
Fui sorpreso della dignità, della gentilezza e
dell'umanità del capo ispettore, conobbi di essere in mano
di un governo che non transige: ma vidi che i suoi impiegati non
erano né fanatici, né ignoranti, né
ineducati, come sono quelli del papa. Mi accorsi pure, che tra le
autorità di polizia e del tribunale criminale esisteva una
grande gelosia. Del resto, negli esami feci come l'uomo che sta
per essere annegato: diedi mano a tutti gli appigli che avrebbero
potuto recarmi a salvamento.
Il 4 di febbraio ebbi il primo interrogatorio dal consigliere
Alborghetti, giudice processante presso il tribunale provinciale e
criminale di Vienna: grande apparato e solennità;
quantunque di giorno, chiuse le imposte delle finestre; quattro
candelieri accesi, due testimoni e due segretari. Tutti italiani.
Le prime parole dell'Alborghetti furono:
"Ella ha preso una via falsa tacendo il suo nome: se continua
così, sarà lasciato prigione sino a tanto che non si
scuopra".
Pensai allora di cambiar sistema, e con franchezza risposi:
"Mi chiamo Felice Orsini".
Questo fare gli piacque; senza più soggiunse:
"La prego di dettare in succinto tutta la sua vita sino al giorno
di suo arresto in Hermanstadt, permettendomi solo di fare tratto
tratto alcune dimande, a cui sono per dovere obbligato".
Incominciai la mia narrazione, e per quel giorno giunsi oltre la
metà. Alborghetti mostrossi assai soddisfatto.
Il dì dopo fui posto in una segreta delle carceri
criminali, al num. 51. Era la migliore; tuttavolta trovai insetti
in tale abbondanza da non poter dormire: venni accompagnato con
quattro Viennesi, tutti incolpati di furto.
Tornato innanzi al consigliere Alborghetti posi fine alla mia
narrazione, protestai di non voler essere consegnato alle
autorità papali, nel qual caso domandavo di essere fucilato
in Austria. Chiestami la ragione di ciò, dissi che il
governo papale avrebbe usato ogni maniera di bassezze e di
crudeltà per vendicarsi di ciò che avevo operato
contro di lui.
Nel mio racconto tacqui dei tentativi rivoluzionarî di
Sarzana, ecc.; mi limitai al necessario, cui eglino stessi
avrebbero potuto verificare. Del rimanente, non si usarono mai
minacce o dimande suggestive. Dettai ad alta voce, e lo dichiarai
nell'apporre la mia firma alla fine de' costituti.
Da tutto l'insieme mi persuasi che nulla e poi nulla sapevasi
intorno alla missione disimpegnata in Lombardia. Pochi giorni dopo
mi presero febbri e reumatismi: chiesi del medico; fu promesso:
non venne mai; finii per non prendere cibo di sorta; contrassi un
continuo tremito, e poteva a mala pena reggermi in piedi. Vedendo
che la cosa andava in lungo pensava già di finire ivi i
miei giorni.
Un bel mattino, ai 20 incirca di marzo, l'ispettore in capo delle
carceri si recò nella segreta e fecemi levare dicendo:
"Siete lasciato in libertà; presto, su via». Mi
alzai, e lo seguii; discendendo le scale dissi:
"Questo è impossibile; dovrei veder prima il consigliere
Alborghetti". Ei non rispose: giunti presso il suo ufficio, eranvi
due commissari di polizia, alla cui presenza venne ripetuta la
cerimonia di denudarmi. Si esaminarono le cuciture perfino degli
abiti e delle calze; poscia mi si ricondusse in segreta: ivi due
commissari di polizia avevano fatto una rigorosissima
perquisizione nel mio paglione. Nel vestirmi, m'accorsi che mi
mancava qualche cosa, e per verità ne sentii molestia.
Quando lasciai Londra per la spedizione della Spezia, aveva meco
della stricnina che ravvolsi fra due pezzetti di pelle da guanti:
m'era di ciò provveduto onde uccidermi nel caso che,
arrestato, fossi stato torturato col bastone od in qualsivoglia
altra maniera.
Nelle molte perquisizioni a cui fui assoggettato, la mia stricnina
andò sempre inosservata; ma stavolta una parte cadde in
potere dei poliziotti. Come il conobbi, pensai meco stesso alle
spiegazioni da dare, e me ne stava pronto.
Il 25 dello stesso mese recossi di nuovo l'ispettore delle carceri
nella segreta e mi fece levare in tutta fretta: richiestolo del
motivo, mormorò tra le labbra queste parole: "Mantova,
Verona". Calai nel suo ufficio, dove mi sedetti.
"Bisogna partire» ei mi disse.
"Non mi reggo, non posso" risposi.
Al che soggiunse:
"Bisogna eseguire gli ordini superiori".
E riprese:
"Mazzini? Kossuth?"
"Non ne so nulla» ripetei più volte.
In breve comparvero due gendarmi ed un commissario superiore di
polizia. Prendemmo i secondi posti nella strada ferrata, e sul
cadere del giorno giungemmo a Leybach: fummi vietato il contatto
con ogni persona; del resto modi gentili e senza catena.
A Leybach una carrozza con cavalli di posta era allestita, e in
tal maniera viaggiammo giorno e notte sino a Treviso, dove
riprendemmo la strada ferrata. Nella nostra conversazione furonvi
le seguenti parole:
"La sua vita è molto interessante" disse il commissario.
"Creda che si esagera" risposi.
"Pel movimento di Milano del 6 febbraio dove si trovava?"
"In Genova."
"Non vi prese parte diretta o indiretta?"
"Signor no."
"E Mazzini dov'era?"
"Non so."
"Egli è l'uomo dall'idea" soggiunse; "noi temiamo
più gli uomini di arme, come Garibaldi, che lui... Ma
perché mai è ella venuto in Austria?"
"Forti spiacenze di famiglia mi hanno persuaso di andarmene assai
lungi, e di recarmi alla guerra d'Oriente, colla speranza di
terminare una vita divenutami di peso."
"Oh!" guardandomi in viso, riprese egli; "avrebbe forse delle idee
di suicidio?"
"Qualche volta ne fui assalito; le dirò, anzi, che aveva
del veleno, che mi è stato tolto in una perquisizione."
A questo, tanto egli che i gendarmi mi fissarono attentamente; poi
si cambiò argomento.
Un'altra volta, parlando dello Spielberg, gli domandai se le
Prigioni di Silvio Pellico erano proibite.
"No di certo" rispose egli; "Silvio Pellico non fa che esporre la
verità."
Indi, toccando dell'Italia, fece intendere essere la causa della
indipendenza ben giusta, ma che era inutile tentare una
rivoluzione contro chi dispone di 600.000 baionette. A tali parole
stetti muto.
A Verona sostammo un due ore pel treno che conduce a Mantova;
questo venuto, ripartimmo.
Pervenuti alla stazione, salimmo una vettura e scendemmo nel
piazzale detto delle Gallette, ossia corte del palazzo Gonzaga.
Essendomisi soprammodo gonfiate nel viaggio le gambe, i gendarmi
mi reggevano per le ascelle.
Scoccavano le undici e mezza di sera; il tempo era cattivo; un
solo lampione mandava pallidissima luce, i cui getti lasciavano
vedere le viete forme del castello: del rimanente, oscurità
e silenzio, interrotto soltanto da qualche buffo di vento, e dalla
pioggia che gocciolava sul lastricato.
Presso ad entrare sotto l'arco che conduce alla porticella delle
prigioni: "Dove si va?" dissi. "Là, nel castello" rispose
freddamente e sommessamente il commissario, indicandolo colla
destra.
Guardai come macchina all'intorno, e alla porta per la quale
doveva entrare.
Mi volarono alla mente le barbarie che erano state commesse tra
quelle mura a' tempi di mezzo: quelle consumate dagli Austriaci:
Tazzoli, Poma, Speri, Grazioli, Grioli, Montanari, ed altri che ne
uscirono nel 1852, per essere consegnati nelle mani del carnefice.
Dissi meco stesso: come ne uscirò?
Salita la interminabile scala, ci trovammo a fronte di un uomo che
dimostrava sui 55 anni; livido in volto, di sguardo sinistro, con
voce rauca e disgustosa. Mi fece perquisire in sua presenza.
Costui era Francesco Casati, milanese, capo custode del castello
di San Giorgio.
Compiute le formalità, i gendarmi e il commissario presero
congedo augurandomi buona sorte; ed io venni posto nella segreta
num. 3.
Il mattino, il signor Bracciabene, medico delle carceri, si
recò a visitarmi. Ordinommi qualche medicinale, e mi
concesse il vitto d'infermo, consistente in una minestra nel
brodo, un pezzetto di carne, una pagnottina bianca, ed un cattivo
bicchiere di vino; m'ebbi pure materasso, lenzuola, e asciugamano.
Cose tutte nuove per me.
A mezzodì circa, Casati entrò nella segreta
annunziandomi il processante: mi volsi a sinistra, e mi apparve
una persona piccola di statura, seguita da un'altra; ambi
s'avvicinarono al letto in cui giaceva: il primo declinò il
capo verso la mia faccia, e disse in dialetto lombardo:
"L'è propri lù"; l'altro si pose a ridere. Mi
salutarono, e se ne andarono.
Poco di poi mi fu annunziato il presidente del tribunale, che si
recava a fare la solita visita mensile.
Teneva il cappello in mano, e cominciò così:
"Come sta di salute?"
"Non molto bene; la pregherei di farmi esaminare presto, onde la
lunga prigionia non finisca per rovinarmi del tutto."
"Pensi prima a guarire," rispose "e poi si darà mano al suo
processo. Quando partì ella da Vienna?"
"Il giorno 25."
"Perbacco," riprese egli "in sessanta ore ha fatto un viaggio, che
alcuni anni sono ci voleva un mese e più." Indi se ne
andò.
Trascorsi dieci giorni incirca, mi andava alzando, l'appetito
cresceva: il vitto d'infermo non era sufficiente. Al mio giungere
in Mantova, possedeva soltanto cinque fiorini di moneta austriaca.
Casati permise che facessi comprare una tazza di terra e una
posata di legno: cosicché poco o nulla mi rimaneva, e
già tornavano alla immaginativa i giorni di Hermanstadt,
ne' quali avevo sofferto tanta fame!
Il trattamento carcerario non è dipendente né dal
tribunale, né dal medico, né dall'ispettore delle
carceri; tutto emana dagli ordini di Vienna. Posto che il medico
stimi necessario di ordinare giornalmente alcun che d'insolito
all'infermo, è mestieri ne dia rapporto al presidente del
tribunale; questi ne scrive a Vienna; donde la risposta viene,
quando più piace alle autorità.
Per soprappiù non si hanno spedali per i prigionieri di
Stato; e soltanto allorché uno è ridotto agli
estremi e lievemente aggravato nelle accuse, è trasferito
in altro locale. Durante la mia prigionia, certo Clementi fu
mandato allo spedale civile; il secondo giorno cessò di
vivere.
Pei prigionieri non malati il vitto consiste in dodici once di
pane nero; pasta o riso nell'acqua per minestra, e niente di vino.
A chi ha mezzi di famiglia, durante il processo si concede
d'ordinario di spendere del suo: il giudice processante si regola
secondo la condotta dell'accusato negli interrogatorî.
Tuttociò che si riceve dalla famiglia, viene depositato
presso l'ispettore, il quale regolarmente tiene registro delle
spese del prigioniero, da rendere ostensibile al presidente.
Coi pochi soldi rimastimi, comperava ad ogni mattina un po' di
pane, e questo bastavami. Venne il giorno che non avea più
un centesimo. La guardia recatasi, secondo l'usato, per tempissimo
per la spesa, mi chiese:
"Che desidera stamane, signor Orsini?"
"Nulla" risposi.
"Come! non vuole le sue solite cioppine?"
"No, vi dico»; e mi voltai dall'altro lato del letto.
Dopo una mezz'ora essa tornò: mi recava del pane.
«Nol voglio" dissi. Allora comparve Casati: mi chiese scusa
per la libertà che si prendeva nel farmi quel meschinissimo
presente: si offerì poscia di farmi altresì lavare
la biancheria propria, e trattommi con molta gentilezza. Accettai,
e dissi entro me stesso: gli uomini non sono poi tanto cattivi
come si pensa.
In appresso, lo pregai di qualche libro, e me ne fornì de'
suoi.
CAPITOLO SECONDO
Mantova è la più forte piazza militare dell'Italia
continentale. Al nord-est s'innalza il castello di San Giorgio,
edificato come ultimo rifugio in caso di rotte toccate dai Gonzaga
nelle perpetue ed accanite lotte, che sorgevano nel medio evo co'
signorotti vicini.
Sino dacché le provincie italiane ricaddero nel 1814 sotto
la dipendenza austriaca, il governo lo ridusse a prigioni,
racchiudendovi i rei di stato più aggravati, e più
gelosi a custodirsi.
Il castello sorge in alto fra la città e le acque del lago,
che la ricingono per ogni verso. È un immenso fabbricato di
forma quadrata, di architettura semplice, ma severa, e quale
appunto si praticava nelle fabbriche del medio evo. A ciascun
angolo vedonsi sorgere quattro torri merlate, la cui altezza
ascende a un cinquanta metri incirca dal piano del fossato. Esse
sporgono alquanto al di fuori, e formano una specie di bastioni,
le cui cortine vengono costituite dal maschio del castello: questo
poi è più basso di esse, e la sua altezza
sommerà ad un quaranta metri. Tutto all'intorno è
recinto da un ampio fossato, largo circa otto metri, e profondo
poco più di cinque: la controscarpa non è a
pendìo, ma a linea verticale; dicasi altrettanto della
scarpa delle cortine. Quando le acque del lago sono abbondevoli,
il fossato si fa pieno mediante un condotto, che vedesi nella sua
parte destra; gli Austriaci hanno poi mezzo di riempirlo a
piacimento. Il prospetto del castello guarda il lago, ed è
diviso da questo per mezzo di una strada, che conduce a sinistra
alla porta di San Giorgio, e a destra al ponte dello stesso nome.
Questo, lungo da più di ottocento metri, è chiuso
sulla parte esterna da una testa di ponte militarmente guardata; e
quasi nel mezzo evvi un largo ponte levatoio che lo divide in due,
rompendone la continuità quando ne cadesse il bisogno.
Alla sinistra del castello, oltre la porta, vi sono caseggiati
abitati, e alla destra magazzini militari. La parte di dietro
guarda un vasto cortile, detto mercato delle Gallette; è la
residenza della Corte Speciale di Giustizia. Per discendere nel
fossato non vi ha che una scala posta alla sinistra del castello,
e precisamente vicino alla porta della città: questa scala
è chiusa, e nissuno può aprirla senza ordine
speciale del governatore di Mantova. Ai lati destro e sinistro del
castello, nelle mura di contro, vi sono dei porticati, alla cui
volta toccano appunto le acque, quando è pieno il fossato.
Sono di aspetto nero, lugubre, e poco o nulla illuminati. Si
vedono alcune cavità assai profonde, ed inferriate che
chiudono antiche prigioni, non più abitabili, perché
l'uomo vi marcirebbe in pochi giorni. Al penetrare in quelle
cavità si sente un tanfo assai disgustoso, e si può
a mala pena respirare; e tutto richiama alla memoria il segreto e
il mistero dei delitti occulti, che si commettevano ne' tempi
andati dai signorotti che reggevano Mantova.
Il castello comunica colla città per mezzo di una scala di
ottanta gradini: essa è posta sul di dietro dello stesso,
passa sopra il vôlto che sta a cavallo del fossato, e
finisce nel mercato delle Gallette: pel vôlto si va anche
nell'archivio di Mantova, posto nell'interno del castello. Il
mercato delle Gallette è ricinto da case, dalla chiesa di
Santa Barbara, da un teatro antico pertinente ai Gonzaga, ed alla
notte è chiuso da un portone.
A mezzo della scala havvene un'altra, che mette nei corridoi del
palazzo, e che conduce alla residenza della Corte Speciale di
Giustizia; e viene a formare un solo mezzo di comunicazione.
Tuttociò riguarda l'esterno del castello; veniamo ora
all'interno.
Vi sono tre piani: nei due primi vi è l'archivio della
città di Mantova; il superiore costituisce le prigioni, e
domina tutti i fabbricati dell'intorno. Il mezzo di comunicazione
coi due è totalmente indipendente dalla scala, che abbiamo
accennata: passa però sotto lo stesso vôlto.
Allorché il piano superiore fu ridotto a prigioni, si
ristrinsero le camere, e se ne cavarono tante segrete, divise da
muri interni di una spessezza di un metro e più: gli
esterni si ingrossarono in modo che vengono a formare una
grossezza di più di due metri. Si rimpicciolirono oltre a
ciò tutte le finestre, e vi si posero due sbarre assai
grosse di ferro e una grata all'esterno.
Ogni segreta è chiusa da due grosse porte con tre catenacci
di ferro ciascuna, e con altri armamenti di ferro.
Gli anditi, che mettono alle segrete, sono divisi da porte e
controporte.
Le finestre non hanno vetro, bensì tela: le imposte assai
grosse, ferrate, con catenaccio e serratura.
Tutte le segrete sono numerate: alcune hanno soltanto una finestra
che guarda il fossato, altre una che guarda il cortile assai
piccolo, di forma quadrata, e posto in mezzo al castello. Quelle
sono le migliori, perché l'aria può scorrere. Vi
sono in tutto dodici segrete: possono contenere un duecento
individui stivati l'uno sopra l'altro; ordinariamente non se ne
tengono mai più di cento, altrimenti in un semestre ne
morirebbe la maggior parte.
I numeri 9, 11, 12 corrispondono sul prospetto del castello; il 5
e il 6 sulla parte sinistra e sul cortile interno; l'8 e l'1 sulla
parte destra; il 2, 3 e 4 sulla parte di dietro soltanto. Il 3 e 4
sono le peggiori; piccole, con finestre alte, con ferriate e grate
assai grosse, hanno una sola porta e ciò perché si
possa udire il più piccolo rumore che si fa dal
prigioniero. Il numero 4 è più alto del 3 di due
gradini, e più stretto: non vi batte il sole che dalle due
pomeridiane fino alle quattro, e all'inverno non si vede lume che
alle nove del mattino.
La custodia dei prigionieri è affidata ad un individuo, che
presso l'Austria chiamasi ispettore: questi è risponsabile
de' prigionieri in faccia al governo, che gliene ha affidata la
cura; fa che i prigionieri non comunichino tra loro, che non si
vedano quando vanno agli esami, che non insorgano risse, e che non
manchi loro nulla di quanto è dovuto loro per diritto
carcerario.
L'ispettore in tutte le carceri ha amplissima facoltà dal
governo austriaco, in ispecie pei delitti politici: può
quindi a suo grado incatenare, dar bastonate, mettere a pane e
acqua un individuo ogni qual volta che gli piace; e ciò si
verificò appunto durante il processo militare del 1852.
L'ispettore ha sotto di lui sei secondini o guardie; questi fanno
tutto il servizio dei detenuti, il quale è diviso come
segue: tre secondini non possono uscire mai dal castello durante
ventiquattro ore; montano alle otto incirca del mattino, e ne
smontano alle otto del giorno seguente, dando la consegna agli
altri tre. Uno di loro è detto portiere; ha l'ufficio di
star sempre alla porta superiore del castello, posta in capo alla
scala, e che mette appunto nelle prigioni: a chiunque batta o
suoni il campanello, egli non apre se prima non ha veduto per la
bocchetta, che è nella porta stessa, chi è quegli
che viene. Un altro si chiama guardia, quello cioè che ha
la risponsabilità speciale dei prigionieri: egli solo entra
nelle segrete; egli solo fa le visite alle mura e ai ferri.
Quando i giudici vogliono un detenuto, mandano una polizza
sottoscritta da loro all'ispettore; questi chiama il secondino di
guardia, gli dà il viglietto o polizza; allora il secondino
consegna alla guardia, che è venuta d'ordine dei giudici,
il prigioniero, e sta in possesso della polizza, sino a che non
gli venga restituito il detenuto: tornato questo, egli restituisce
la polizza.
Il terzo secondino è detto di sussidio o anche di sicura;
suo ufficio è di aiutare nel servizio il secondino di
guardia; e quando questi è dentro le segrete, egli sta
fuori della seconda porta, che tiene chiusa col catenaccio. Se il
prigioniero si acciuffasse col secondino di guardia che sta
dentro, ed anche lo uccidesse, il secondino di sicura non
può muoversi ad aiutarlo, per tema che il prigioniero non
fugga: deve lasciar fare, nel mentre che chiama soccorso.
Ciascuno adunque ha la sua risponsabilità speciale:
però si aiutano tra di loro, perché ad un evento
sinistro quasi tutti vanno a soffrire, avendo, per così
dire, una risponsabilità solidale. Questi tre secondini
dormono nel castello, e stanno in un andito che mette
nell'abitazione dell'ispettore, e vicino alle segrete numero 5, 6,
2, 3, 4.
Dei tre secondini che smontano, uno va a casa sua, ed è
libero da qualunque servizio per tutto quel giorno; l'altro ha
l'obbligo di fare la spesa pei detenuti, e poscia è libero;
il terzo sta nella residenza dei giudici, ed è quello che
reca le polizze per portare agli esami i detenuti, che egli
accompagna. Tutto questo servizio si fa per turno.
Le visite ai prigionieri sono le seguenti: alle sei del mattino,
visita speciale; alle sette si reca il pane; alle otto o poco
più, il primo servizio nelle segrete; alle nove e mezza le
si fanno spazzare; alle dieci e mezza si porta la zuppa; alle
undici visita; a una pomeridiana visita; alle due si reca il
pranzo a chi si mantiene del proprio; alle tre visita speciale;
alle cinque il custode viene a fare i conti; alle sei visita
speciale; alle otto visita; alle nove e mezza visita speciale col
custode; a mezz'ora visita speciale notturna.
L'orario per quelle visite cambia a seconda delle stagioni: i
secondini poi quasi ad ogni ora si recano nelle segrete,
cosicché il povero detenuto non ha un momento di pace. Dopo
la visita delle nove e mezza di sera l'ispettore ritira presso di
sé tutte le chiavi delle segrete, e quando il secondino di
guardia all'una e mezza va per la visita notturna, lo desta
acciocché gliele dia. Nel fare quella visita è
sempre accompagnato da una sentinella col fucile a bandoliera.
La scala, per la quale s'entra nel castello, ha due porte: l'una
al piano del cortile, l'altra alla cima della scala, e che mette
nel piano delle carceri. La prima si chiude soltanto la notte, la
seconda invece lo è sempre ed è quella ove sta il
secondino portiere: ella si chiude internamente.
Nell'interno del castello vi sono dieci soldati e un caporale;
questo distaccamento fornisce tre sentinelle. L'una alla porta
superiore, ed appunto ov'è il secondino portiere: vi sta di
giorno e di notte, la sua consegna è di non lasciar uscire
nessuno vestito alla borghese, se non accompagnato dai secondini
(e questi hanno una divisa particolare).
L'altra guardia è per gli anditi dei numeri 11 e 12, e la
terza per la notte che sorveglia le due segrete numero 3 e 4. I
soldati poi, che smontano di due in due ore, hanno l'obbligo di
girare su e giù per gli anditi delle segrete, e di stare in
ascolto se odono rumore o picchiettare: in ogni caso debbono
subito chiamare i secondini. Tal distaccamento smonta tutte le
mattine al mezzodì.
Se i detenuti politici sono in numero tale da non potere stare
tutti nel castello, si mandano in altre prigioni di Mantova,
cioè alla Mainolda e al Criminale. Alle carceri criminali
evvi una segreta terribile: vi si mettono quelli, che più
volte hanno tentato di fuggire: essa è appena lunga e larga
per contenervi un uomo disteso, alta da otto metri, le mura sono
pregne di acqua, tanto di estate che d'inverno evvi sempre freddo;
le pareti sono grosse più di tre metri, un finestrino alto
e con due ferriate è appena largo e lungo un decimetro. Il
prigioniero può appena resistervi due mesi, bisogna morire.
Le prigioni poi della Mainolda sono più cattive di quelle
del castello, ma meno sicure: ed ecco perché si
preferiscono queste dal governo.
Essendo la città di Mantova la prima piazza fortificata e
importante del Lombardo-Veneto, ne viene per conseguenza ch'ella
è guardata in un modo assai scrupoloso: tutte le porte
della città (l'orario cambia colle stagioni) si chiudono
nell'inverno alle otto di sera; due sole stanno aperte sin verso
le undici: e sono l'una che mette sulla strada che va a Milano, e
l'altra a Verona. Indi anche queste si chiudono e le chiavi si
portano al Comando di piazza.
La porta di San Giorgio, posta a sinistra del castello, si chiude
prima di tutte le altre. In un bastione posto vicino ad essa, evvi
una sentinella: ella ha la consegna di guardare al lato sinistro
dello stesso, ove corrispondono le segrete numero 5 e 6. Rimpetto
al ponte di San Giorgio, anziché esservi una porta, evvi
una batteria di grosso calibro; essa batte i due lati del ponte e
prende quello stesso d'infilata: a guardia di essa evvi un piccolo
distaccamento, e la sentinella notturna, oltre la consegna
speciale, che ha per la guardia della batteria, ha l'altra di
osservare il lato destro del castello, ove sono le segrete numero
8, 7 e 1. Queste due sentinelle però non possono vedere
entro il fossato: alla loro vista si offre soltanto poco
più della metà del castello, ma ciò è
bastevole, perché le segrete non sono che in alto; quanto
al fossato del castello, è guardato dagli stessi soldati
posti nell'interno, perché hanno appunto in quella parte
stabilito il corpo di guardia.
La parte di dietro del castello non è guardata da alcuna
sentinella; ed ove si volesse, sarebbe mestieri metterla in un
qualche campanile, giacché nel fossato havvi quasi sempre
acqua e melma.
All'estremo del ponte di San Giorgio, ov'è la testa di
ponte, havvi un forte presidio; tanto di giorno che di notte; vi
sono più sentinelle, che stanno a guardia delle artiglierie
e delle fortificazioni avanzate; oltre a ciò alle otto di
sera è chiuso, e non si apre che alle cinque del mattino,
al momento stesso della porta di San Giorgio.
Molti battelli si vedono giornalmente nel lago, ma dal cadere del
sole sino al mattino, è proibito il muoversi, sotto
comminatoria di forti pene. Tuttociò risguarda la sicurezza
interna ed esterna del castello.
Diciamo ora una parola sulla insalubrità dell'aria che vi
si respira.
Le acque stagnanti, che per ogni dove ricingono Mantova, ne
rendono l'aria insalubre e quasi pestifera, di modo che nella
estate tutti i cittadini agiati se ne partono ben lungi. Se
ciò avviene della città, che è assai estesa,
pensi il lettore cosa avviene del castello, posto sul limitare
stesso del lago, e circondato dovunque da acque. Nelle epoche di
gran caldo queste si asciugano; le piante e le canne, che sono nel
fondo, si putrefanno insieme ai pesci ed altri animali: le loro
esalazioni ammorbano l'aria e penetrano nelle segrete, ove
già il prigioniero, privo di aria pura, di mezzo alle
immondizie, senza movimento fisico, e cibato pessimamente, cade
ben presto malato.
I poveri detenuti sono i primi ad essere colpiti dalle febbri
mantovane, e finiscono o per morire o per perdere del tutto la
salute.
È provato dai registri delle prigioni, che nella sola
Mantova muoiono da trenta prigionieri su cento ciascun anno;
cosicché l'Austria può ben far grazia di vita: essa
sa che il detenuto, presto o tardi, finisce per spirare nelle
galere.
Sotto Francesco imperatore, i prigionieri di Stato si cacciavano
in Moravia, nello Spielberg, ad espiarvi la pena; dopo la morte di
lui, se ne mandano ivi, a Gratz, a Leybach, a Josephstadt, a
Jerestadt, e nelle galere di Padova e di Mantova: la galera
è carcere duro, il durissimo è stato abolito, ed
è inutile il darne descrizione. Il carcere duro prescrive
che il detenuto vada vestito dei panni dati dal governo: sono
vestiti di lana o di tela, secondo le stagioni, grigi e grossi
oltre ogni credere: alle gambe gli viene ribadita una catena di
ferro, la quale pesa da trenta libbre, e va scemando a seconda
della condanna più tenue. I condannati stanno in un gran
camerone; ciascuno ha un sacco di paglia, che gli viene cambiato
ogni sei mesi, un lenzuolo e una coperta; deve lavorare dal
mattino alla sera in qualche arte, se ne sa, altrimenti lo si
mette a filare: tre ore al giorno vanno i prigionieri in un gran
cortile, ma la catena non si toglie mai. Del ricavato del lavoro
non viene loro concesso che un soldo: quanto al comprar cibi vi ha
grande restrizione; è permesso soltanto il formaggio,
salame, qualche frutto, e null'altro; sono proibiti i sigari e i
libri; quanto al vino, non è concesso che piccolissima
quantità a proprie spese; tutto che si compra, si paga il
doppio, il triplo del suo valore. Chi manca alla più
piccola di quelle leggi, ha delle bastonate e gli vien messo un
ferro alle gambe, che impedisce al condannato di fare un passo:
è costretto così di starsene sul paglione a gambe
aperte, e senza potersi muovere: questa pena si estende fino ai
quindici giorni; tutto dipende dalla volontà
dell'ispettore-capo, che per questo riguardo non è
risponsabile in faccia ad alcuno.
Non si fa distinzione sulla qualità del reato,
cosicché i prigionieri di stato sono accomunati con
aggressori, stupratori e assassini.
Per estrarre la verità dai prigionieri si sogliono
incatenare ad un anello, che è in ogni segreta; talvolta si
usa la fame e la solitudine, infine si dànno le bastonate.
Il metodo di somministrarle è il seguente. Si prende il
paziente, e lo si pone sopra una panca lunga due metri e mezzo per
lo meno; egli è voltato colla faccia e col ventre in
giù. Al punto dove corrispondono i fianchi, evvi un arco di
ferro bene piantato nei due lati della panca, e che si allarga e
si restringe a piacimento: così si adatta alla corporatura
del paziente, che non si può muovere affatto; le mani gli
si fanno distendere al di sopra della testa per tutta la loro
lunghezza, e sono fermate ai polsi con ferri; le gambe distese e
il collo dei piedi chiuso tra due ferri: la pianta rimane fuori
della panca.
Un caporale, scelto a posta per la forza e la
impassibilità, si mette alla sinistra del paziente e con
una verga di avellano incomincia la sua funzione lentamente nel
seguente modo.
Egli sta ritto, alza la mano destra per quanto può, fa
scorrere la verga con alquanta forza a sinistra dicendo: ein;
indi, senza riposarsi, e con forza, la rialza a destra per quanto
può e dice: zwei; e con tutta la forza acquistata dai due
precedenti movimenti la fa cadere sul paziente dicendo: drei.
Questo è un colpo; poi torna da capo: operazione lenta,
dolorosa, e propria di un nemico barbaro.
Assistono alla funzione, e nel più grande silenzio, due
secondini, il medico, l'ispettore, l'uditore militare, e il
giudice che le fa dare: se il paziente parla, si trascrivono
subito le deposizioni.
Terminata l'operazione, il medico procede alla visita del paziente
e gli porge i sussidî della professione; indi viene portato
nella segreta, e sul suo sacco di paglia.
Se l'accusato è stato fermo, e nulla ha voluto manifestare,
il giorno seguente si ripete la funzione.
CAPITOLO TERZO
Descritto il castello, le pene, e il modo usato dai giudici per
estrarre la verità, veniamo a dire del tribunale che mi
aveva a giudicare.
Dopo il processo del 1852, compilato militarmente dall'uditore
militare capitano Straub, che mandò alla forca nove
patrioti, e alla catena parecchie centinaia, si pensò dal
governo di istituire un tribunale civile, onde togliere le
apparenze, se non altro, del dispotismo militare. Straub aveva
forse agito troppo severamente: si dà per certo che l'animo
di Sua Maestà ne fosse commosso, molto più per la
considerazione, che gli abitanti delle provincie italiane gli si
alienavano sempre più. Ma ad onta della nuova
sensibilità, da cui era tocco, il giovane imperatore
confermò le sentenze di morte, che furono eseguite a Porta
Pradella; e molte altre di dieci e venti anni. Non credasi
però che in mezzo a tanta severità o giustizia nel
punire i delitti di alto tradimento, non andasse mista qualche
clemenza; che anzi vi fu. Venne ampia amnistia per tutti quelli,
la cui innocenza era assolutamente provata, e che avevano languito
nelle segrete da venti e più mesi; venne amnistia per
coloro, che avevano svelato ogni cosa, tanto sotto l'impulso delle
bastonate, quanto senza. A tutti questi prigionieri politici
furono un bel mattino aperte le porte: trovaronsi liberi nella
città, ma nello stesso tempo e' dovettero assistere ad un
bello spettacolo; un loro compagno, certo Frattini, se non erro,
veniva tratto direttamente al patibolo.
Ma, come vedrassi meglio in appresso, il governo austriaco
è umano, rispettoso, e se eccede in alcun che, e' si
verifica nella gentilezza dei modi, con cui fa accompagnare il
paziente alla forca.
Il tribunale civile, sostituito al militare, doveva far credere di
voler mettere in pratica tutte le vie possibilmente legali prima
di condannare; ma volevasi nello stesso tempo che non usasse
mitezza; apparenza di dolcezza, ma nel fatto crudeltà: ecco
il grande oggetto del governo austriaco nella istituzione del
tribunale civile. Richiedevansi perciò uomini pratici,
astuti, non guardanti molto pel sottile, ed avvezzi ai cavilli
legali: giudici i quali, deposti i modi brutali del capitano
Straub, assumessero le vie persuasive, le dolci paroline in luogo
del bastone, ecc.
Tutto ciò si conseguì a meraviglia colla scelta dei
personaggi, che mi accingo a descrivere.
Il tribunale, chiamato Corte Speciale di Giustizia, residente in
Mantova pei delitti politici, si componeva di Vicentini
presidente, e dei consiglieri Picker, Schumaker, e Sanchez: ognuno
di essi aveva un aggiunto speciale, che faceva le funzioni di
segretario: eglino percepivano un emolumento doppio di quello che
avrebbero avuto in qualità di semplici consiglieri presso
un tribunale criminale ordinario; e ciò bene a ragione(28).
Vicentini era nativo di Gorizia: sino da giovane avea fatti gli
studî legali, e percorsa la carriera degli impieghi;
all'istituirsi della Corte era consigliere nell'imperiale e reale
tribunale di appello in Milano: uomo di circa 60 anni, piccolo,
brutto, e torto assai nelle gambe: ha moglie giovane, e parecchi
figli. Per quanto concerne il trattamento carcerario, mostrossi
umano, rigoroso poi sino allo scrupolo per ciò che
risguardava i processi, e il suo dovere in qualità di
giudice: affigliato segreto della società di Gesù,
mostrava a perfezione tutte le doti che caratterizzano i
loiolisti.
Picker, di Vienna: celibe, alto della persona, di forme alquanto
pronunziate e vaghe, tipo germanico di pel biondo e calvo,
mostrava sui quarant'anni; la sua gentilezza sapeva
dell'affettato; accompagnava il prigioniero col berretto in mano
sino alla porta. Negl'interrogatorî, a seconda di chi aveva
per le mani, faceva l'aspro o il dolce.
Percorse la carriera militare, e quando gli Austriaci, bombardata
Bologna, se ne impadronirono nel maggio del 1849, egli era
capitano auditore.
Cadute le Romagne sotto il dominio austro-pretino, venne commessa
a lui la compilazione e direzione dei giudizî statarî.
Nella sola Bologna, a suo detto, ne fece moschettare venticinque.
Ma, secondo lui, erano malfattori, popolani, gente da macello.
Durante il suo potere, fu fucilato altresì il padre Bassi;
fece il possibile per avere Garibaldi, e non vi riuscendo, si
diede a rintracciare le spoglie mortali della moglie di lui.
Il suo nome non sarà giammai dimentico dalle popolazioni
delle Romagne: ricorda sangue.
Schumaker, tedesco di origine: di lui non so gran che di
importante: negli esami e in tutto il suo fare rassomiglia al
Picker. È alto della persona, di aspetto militare, e mostra
un cinquanta anni.
Ora al Sanchez, anima del tribunale: chi sia costui si
conoscerà meglio nel processo di questi miei scritti. Per
ora piacemi di dare i particolari che ne risguardano l'esterno, la
origine, la educazione, gli studî.
Figlio d'un colonnello spagnuolo al servizio dell'Austria, che fu
destituito per mala amministrazione militare, sen visse fino da
fanciullo in Lombardia. Fu sotto il professore Arici di Brescia; e
quindi recossi a Vienna a compiere gli studî legali in
quella università.
Essendo piuttosto di vita sregolare e galante, non poté,
per difetto di mezzi, proseguire la carriera dello studente.
Entrò nell'armata, e tuttoché non laureato, fu
addetto alla parte giudiziaria degli eserciti. In breve divenne
auditore.
Dopo alcuni anni lasciò quel servizio, e si condusse a
Sondrio come consigliere criminale, dove seppe così bene
alienarsi l'animo delle popolazioni, che ne' rivolgimenti del 1848
le autorità provvisorie dovettero arrestarlo per toglierlo
alla vendetta popolare. Si tenne segreto il suo arresto, che
durò quindici giorni, e gli furono prodigate le maggiori
cortesie possibili.
In fine, deposta per un istante la caldezza popolare, fu lasciato
libero, ed egli poté recarsi in Mantova ad abbracciare i
suoi confratelli di dispotismo austriaco.
Caduta la rivoluzione italiana, se n'andò in Milano presso
il tribunale criminale.
Pei tentativi del 6 febbraio 1853, il feld-marescialio Giulay
istituì una commissione mista per giudicarne gli autori.
Scelto Sanchez a giudice processante, adempì a meraviglia
il dover suo. Ognuno ben sa che sei o sette furono appiccati, e da
cento e più cacciati nelle galere.
Tanta abnegazione e maestria in un tempo del Sanchez meritavano
bene un compenso: v'era un nuovo guadagno; lo si chiamò a
far parte della Corte Speciale di Giustizia, e gli si affidarono i
processi più importanti e più delicati.
Il barone Sanchez è piccolo e goffo di persona anzi che no,
biondo di pelo, ha due baffetti corti e puntuti, gli occhi
turchinicci e piccoli, il cranio calvo e piuttosto largo, viso
corto, lato ai pomelli, e fronte insignificante: d'ordinario porta
gli occhiali, ed avrà circa quarantaquattro anni.
Parla l'italiano come un nazionale, ed assai bene il dialetto
lombardo; i suoi modi, anziché gentili, sono rozzi e
sgarbati: tutto si fa lecito, e mostra molta condiscendenza alle
signore, colle quali s'intrattiene assai volentieri, in ispecie se
belle. Ha in moglie una signora di Fermo, dalla quale ha parecchi
figli; con essi è sempre in rabbia, perché non
vogliono sapere di lingua tedesca.
Ha grande astuzia, e conoscimento degli uomini e dei cavilli
legali, dei modi d'intimorire gli accusati, di estrarre in
qualunque foggia delle rivelazioni. Non si fa scrupolo di nulla, e
pone in derisione i prigionieri.
Tale è l'uomo a cui venni affidato.
La Corte Speciale di Giustizia non ammetteva difesa: i tre
consiglieri erano nello stesso tempo processanti, difensori,
procuratori fiscali e giudici.
Durante la compilazione del processo, la Corte Speciale inviava
gli interrogatorî al Comando generale militare delle
provincie lombardo-venete, residente in Verona, ad una commissione
di revisione stanziata a Venezia, e al ministro di grazia e
giustizia a Vienna. Le carte andavano e tornavano da più
volte con commenti, e talvolta con indicazioni di maggior rigore:
per siffatta guisa, oltre alle lungaggini usate per venire in
chiaro dei più minuti particolari, facevasi languire il
prigioniero per due o tre anni nelle carceri. Presso al chiudersi
del processo, lo si avvertiva tre giorni prima, dicendogli che
preparasse per sé medesimo le sue difese: quindi il
tribunale si radunava in segreta consulta, e pronunziava la
sentenza definitiva, la quale passava a Venezia, a Verona ed a
Vienna. Veniva di poi rimandata colle modificazioni fattevi,
intimata, e il detenuto spedito all'altro mondo o alle galere.
Allorché si ha ad eseguire una sentenza di morte, il
ministro di giustizia consulta prima il comandante generale
militare delle provincie lombardo-venete. Se queste, politicamente
parlando, son quiete, se ne differisce la esecuzione; se invece
havvi fermento, e che si creda buono un qualche esempio, si manda
subito il prigioniero al capestro.
Onde non venir meno all'alta fiducia del governo, la Corte
Speciale incominciò i suoi atti in una maniera molto
semplice, cioè con cinque sentenze di morte: le quali
tornarono da Vienna colla esecuzione per Calvi, e colla
commutazione di pena alla galera di dodici e venti anni per gli
altri.
Quasi subito dopo ne venne pure rimandata un'altra, che rimetteva
la pena di morte per quella di diciotto anni di galera: era a
danno di certo Grioli, fratello del sacerdote impiccato per titolo
politico nel 1852.
Agl'interrogatorî assistevano sempre due assessori, ossia
testimoni, scelti tra i cittadini affezionati al governo: loro
ufficio era quello che non si dessero bastonate; non s'imponesse
al prigioniero con minacce; non si facessero dimande suggestive.
Nel fatto però nulla operavano di tutto questo; ed ove si
fossero opposti realmente a quanto v'aveva d'ingiusto, sarebbero
ben presto stati messi eglino stessi in una segreta.
Assistevano adunque agli interrogatorî come statue o gente
curiosa; e gli stessi secondini solevano chiamarli
coll'appellativo di teste di legno. Talvolta si perdevano in
osservazioni; tal altra a schernire il prigioniero; bene spesso
confortavano l'inquisito a fare delle rivelazioni; tal fiata
infine sbadigliavano e s'addormivano. Ciò non ostante, i
consiglieri li volevano presenti, per garanzia, per rispondere
della solennità e della legalità degli
interrogatorî.
Dato il caso che l'accusato ricusasse di sottoscrivere l'esame
avuto, bastavano le firme delle due teste di legno, del segretario
e del processante. Modo assai comodo per convalidare gli atti, che
decidono semplicemente della vita e della libertà degli
uomini.
Ma questo non basta. La Corte Speciale di Giustizia non si curava
di postillare, faceva aggiunte, abborracciava frasi a suo talento.
Per quanto mi sappia, questo tribunale non pose mai in opera le
bastonate; ove però avesse trovato necessario un tale
espediente, n'aveva tutto il diritto come tribunale eccezionale.
Sotto l'impero austriaco, debbono aversi in mira due cose:
l'effetto certo, l'apparenza di giustizia.
Per conseguente, in vece delle bastonate, si usava di altri modi
equivalenti a quelle: tenevasi il prigioniero solo, sinché
non calava a qualche rivelazione: si esaminava una volta o due con
dimande suggestive, e si tornava da capo dopo un anno incirca.
Per la solitudine, per l'indebolimento fisico, e dicasi pure anche
intellettuale, cagionato dagli stenti e dalle malattie, l'accusato
si trovava quasi alienato di mente: allora era il buono; lo si
conduceva dinanzi al processante, e si sottometteva a lunghi
interrogatorî.
Questo era il metodo tenuto cogli accusati deboli, e senza mezzi
da casa. Quanto alle persone educate e istrutte, quanto a coloro
che non temevano minaccie di solitudine o di privazione, si
studiava dapprima assai bene il loro carattere, e si procedeva
quindi alle dimande con raggiri di parole, col toccarne l'amor
proprio, coll'irritarli, col mostrar loro essere provato
ciò che mancava, non che di certezza, di
probabilità, ecc.
Quali fossero le conseguenze di un tale procedimento, sel pensi il
lettore.
Ma veniamo senza più ai fatti.
CAPITOLO QUARTO
Casati recavasi da me tutti i giorni: aveva cura di mettermi
contro la luce, e mi cacciava i suoi occhi scrutatori sul volto.
Un dì seppe dirmi che avevo le unghie più corte del
solito; poco mancò non mi venisse fatta una perquisizione.
La mia segreta era lunga un otto passi su quattro di larghezza:
due grosse sbarre di ferro alla finestra con una grata
all'esterno. Quantunque piccola, me l'andava di già
passeggiando alcun poco, e attendeva con molta ansietà il
dì dell'interrogatorio. Venne: Casati, due guardie
carcerarie, e due soldati mi accompagnavano; mi girava il capo, e
poteva appena reggermi; era assai debole, e la voce mi mancava;
tuttavolta potei traversare i lunghi corridoi, che dal castello
conducono nella residenza dei giudici. Giuntovi, fui lasciato in
una stanza terrena a fronte di quattro persone: le guardie
rimasero fuori della porta. Mi sedetti presso una gran tavola; a
destra aveva il barone Sanchez, a sinistra i due testimoni, in
faccia il barone Corasciuti, facente da segretario.
Quando giunsi regnava silenzio(29); con un cenno della mano fui
invitato a sedere; tutti gli occhi erano rivolti su di me con
molta attenzione. Sanchez, dopo alcuni istanti, ruppe il silenzio,
dicendo con gravità:
"Pesano su di lei gravissimi sospetti; io ho le mie convinzioni;
trattasi di tutta la sua futura esistenza".
Mi tacqui.
Descritti, come d'usanza, i miei connotati, venne
sull'interrogarmi: egli era composto a serietà. Chiestomi
intorno al motivo del mio entrare in Lombardia, diedi le
spiegazioni seguendo il sistema adottato presso Alborghetti in
Vienna.
Fummi imposto di tacere.
"Risponda alle domande che le faccio" disse bruscamente il
Sanchez; "è il giudice che deve impadronirsi dell'accusato,
non questi di quello."
A ciò fui sorpreso: conobbi che non vi era da scherzare; mi
conformai per necessità al suo volere. Io rispondeva, ed
egli dettava le mie risposte; cosicché queste non ebbero la
veste particolare del mio stile, siccome era in Vienna, dove alla
fine d'ogni interrogatorio dichiarai di mio pugno di avere dettato
ad alta voce, ecc.
Chiestomi il Sanchez se avessi avuto una perquisizione poco prima
di lasciar Vienna, risposi del sì.
"Le hanno rinvenuto niuna cosa?" soggiunse.
"Della stricnina" risposi.
"A qual oggetto possedeva ella del veleno?"
"Per servirmene in caso di colera, e perché aveva avuto
pensieri di suicidio."
Così si scrisse, mostrando prima la stricnina ai testimoni.
Interrogato dove l'avessi presa, dissi: "In Genova durante il
colera".
Indi si vollero i più minuti dettagli intorno al mio
viaggio negli stati austriaci.
Nel che fui coerente a quanto aveva deposto altre volte, ed
esclusi sempre di aver conosciuto o parlato con persone in
Lombardia, tranne che per accidente.
Dall'insieme delle domande mi avvidi che sapevasi qualche cosa
intorno alla mia missione di Milano, però era ben lungi dal
credere che tutto fosse scoperto.
Interrogatomi se avessi parlato con certi individui pertinenti ad
un comitato insurrezionale in Milano, risposi del no, ripetendo di
non conoscere persona di quella città.
A questo, Sanchez levossi da sedere, ed incrociate le braccia al
seno, e poggiatosi in tal foggia sulla spalliera della sedia,
guardommi fiso e disse:
"Non conosce mica un certo De Giorgi, dimorante in contrada della
Maddalena? giovane torto di gambe, compositore di caratteri
musicali?"
"No, signore."
Allora levò il capo in alto, lo crollò, e traendo un
profondo sospiro, disse con voce grave:
"Ella si vuol perdere".
L'affare diveniva per me sempre più torbido; e raddoppiai
l'attenzione.
Sanchez dal suo lato faceva le domande con molta prestezza; non le
ripeteva, e mi obbligava di rispondere correntemente.
Fra le interrogazioni mi chiese:
"Ha ella lasciato nessuno scritto in qualche casa di propria
volontà?"
"No, signore."
"Si è ella accorto di aver perduto nessun foglio in
Milano?'
"No, signore."
"Durante la sua prigionia di Vienna, ha ella scritto mai al di
fuori?"
"No, signore."
"Come?" riprese egli; e ciò dicendo, recommi innanzi una
lettera che aveva scritto col consenso della polizia alla signora
Herwegh a Zurigo, dandole notizia del mio arresto.
A questo risposi di sì, ma che aveva negato credendo che mi
si chiedesse se aveva scritto clandestinamente. Quanto alla
lettera in discorso, non seppi spiegarmi il motivo che l'aveva
fatta rattenere.
Fui domandato se riconosceva la lettera per mia: risposi
affermativamente.
Dopo di che Sanchez trasse un foglio da una scrivania vicina, e me
lo aprì sotto gli occhi, dicendo assai freddamente:
"Conosce questo carattere?"
Rimasi di gelo: erano le mie istruzioni date al Comitato di
Milano.
Le rivolsi d'ambo i lati, e con calma risposi:
"Sono mie".
Fuvvi silenzio per un istante: indi sentii nascere una forte
reazione interna; gettai le istruzioni sulla tavola, e con isdegno
proruppi dicendo:
"Invece di spirare sur un campo di battaglia, morirò
impiccato. È una volta; che fa? doveva ben terminare
così; non importa: sarà finita per sempre;
saprò far vedere come si muore; se vuolsi altro veleno, si
cerchi nei miei guanti che ho in segreta, e troverassi; non ebbi
idee di suicidio; bensì mel procurai, perché non
avrei voluto le bastonate; trattandosi poi di dover andare alla
morte per la mia patria, io non commetto viltà!"
A tutto questo Sanchez rispose:
"No, no, ella è un uomo, e non un ragazzo; è
sorpresa nel vedere che tutto è scoperto, che ogni cosa
è in mano della giustizia: si quieti, pensi, e dia le
opportune spiegazioni".
Indì suonò il campanello, fece chiamar Casati, e
diegli ordine di prendere i miei guanti: così fu, e
trovossi un'altra dose di veleno. Per alcuni minuti fuvvi nuovo
silenzio.
Quali terribili momenti non furono quelli per me! Quali sensazioni
non si provano in tali casi! Tutto noto; molte persone già
arrestate; anche una volta la rivoluzione italiana in fumo;
qualche traditore aveva certo svelato ogni cosa.
Mi vennero alla mente i patrioti lombardi, che un anno addietro
erano stati esaminati in quella stessa camera; le angosce che
provarono agl'interrogatorî, all'intimazione della sentenza
di morte; mi occorsero all'animo i miei bimbi presso a rimanere
orfani; i miei vecchi parenti, la mia infelice patria, per la
quale ancor adolescente aveva sentito de' palpiti, per la cui
libertà aveva dato tutto che per me si poteva. Questi e
mille altri pensieri trascorrevano dinanzi alla mia mente a guisa
di nubi sospinte da bufera: indi mi sentiva animato da forte odio
e disprezzo pei nemici, al cui cospetto mi stava. Sanchez non mi
toglieva gli occhi di dosso, e intertenendosi cogli assessori,
così andava favellando:
"Bisogna esser fanatici a tentare delle rivoluzioni in Lombardia.
Non si capisce mo', che trentasei milioni di sudditi vogliono
l'imperatore? Che si fece nel 1848? Cosa furono le cinque giornate
di Milano, di cui si è menato tanto rumore?"
E qui diede in un amaro sogghigno, cui fece eco il barone
Corasciuti; indi proseguiva:
"Il maresciallo Radetzky ebbe compassione dei Milanesi;
lasciò la città, che poteva distruggere da capo a
fondo; ma se oggi si fanno dei nuovi tentativi, i generali
austriaci metteranno da lato ogni mite sentire; oh! glielo accerto
io. Ma supponiamo un istante, che stavolta la uccisione degli
uffiziali fosse riuscita: sa ella che sarebbe avvenuto? Inaspriti
i soldati per l'assassinio de' loro uffiziali, avrebbero messo a
sacco e a fuoco la città; fatto macello dei cittadini e dei
fanciulli stessi; e dove non fossero giunti, tutte le forze
disponibili di Venezia, Verona e Mantova sarebbero in un momento
piombate su Milano, e l'avrebbero rasa, né più
né meno, come fece Barbarossa negli antichi tempi".
Dopo ciò, prese delle carte in mano, e disse:
"Or veda un poco se siamo bene informati di ogni cosa"
E prese a leggere un rapporto del comandante di piazza in Bologna
(era un conte e colonnello di cui non rammento il nome), il quale
dava in succinto la mia biografia: era descritta a caratteri neri;
dicevasi aver io sguardo atroce, ecc.
La esagerazione era tale, che ne convenne lo stesso Sanchez.
Del rimanente sapevansi tutti i maneggi politici e i tentativi a
cui avea preso parte. Mancava di esattezza pei fatti del 6
febbraio: diceva essere io partito per Genova; avere ricusato la
missione di Mazzini; averla assunta in vece mia Franceschi, che
andò in Ancona. Quanto al fatto della Spezia, nulla.
Chiesto intorno a ciò, confermai i loro errori.
Terminata questa lettura, pigliò altro foglio proveniente
dalla Svizzera, e seppe dirmi tutto che mi era accaduto nel
cantone Grigioni.
Come ebbe finito di leggere, incominciò a dire che il De
Giorgi ed altri membri del Comitato erano in suo potere, mostrommi
gl'interrogatorî e le loro firme, poscia diede in una
risata, e soggiunse:
"Che ne dice, signor mio?"
"Mi meraviglio" risposi "come que' signori abbiano svelato ogni
cosa, come De Giorgi abbia tutto consegnato."
"De Giorgi? no, di certo; egli è stato forte più di
tutti, ma alfine ha dovuto riconoscere la verità."
"Ma uno" ripresi dicendo "avrà ben fatto da delatore?"
Sanchez si pose l'indice della destra nel mezzo della fronte, e
disse:
"Sta mo' qui il talento del giudice".
Quindi venne ad interrogarmi sulle istruzioni, dicendo:
"È invitato a dare le spiegazioni opportune intorno alle
istruzioni, ecc.».
Risposi che non ce n'era d'uopo, le istruzioni parlar chiaro
dell'oggetto, e di chi le inviava, e di chi le trasmetteva. Dissi
di averle consegnate al De Giorgi, e di non conoscere altri; di
avere parlato con alcuni suoi amici due o tre volte per qualche
minuto, ma che non avrei potuto riconoscerli.
Aggiunsi di avere assunto di portare le istruzioni per deferenza
ad alcuni miei amici, che nulla avevo più a che fare con
Mazzini e compagni, che era mio scopo di andare alla guerra.
Dettomi che De Giorgi e compagni formavano un Comitato nazionale,
risposi ignorarlo. Domandato se le istruzioni furono discusse coi
membri del Comitato, dissi che no, ripetendo averle date al De
Giorgi, e non mi essere fermato che brevissimi istanti.
Indi furono letti ad uno ad uno gli articoli numerati nelle
istruzioni; dissi averle tenute a mente, ma essere del Centro di
azione, siccome appariva dalle stesse. Chiestomi chi fossero i
membri del Centro, risposi ignorarlo; il che mosse le risa al
barone Sanchez.
Finito che ebbi, egli aggiunse che non avevo detto la
verità, ch'ei sapeva tutto, che avendo io trovato i
popolani un po' scoraggiati, li aveva animati a star saldi, a
farsi animo, stretto loro le mani dicendo che men partiva per la
Polonia, dove sarei stato più utile che in Italia, ma che
se dovea trovarmi in Milano, s'avrebbe veduto chi mi fossi, e come
facessi il mio dovere; infine, che le mie istruzioni furono
accettate, e che mi si lesse la risposta del Comitato stesso in
relazione alle medesime da mandarsi a Mazzini. Negai tutto,
dicendo che que' signori potevano inventare ciò che loro
più piaceva.
Terminato l'interrogatorio, apparve il presidente, indi altro
personaggio, alla cui venuta tutti si levarono da sedere. Mi
accorsi dover essere qualche impiegato assai distinto. Parlarono
insieme in tedesco; poscia Sanchez si volse a me, e disse:
"Questi è il signor delegato della città di
Mantova". Al che in atto di rispetto chinai il capo. Sanchez
riprese così:
"Casati mi fece conoscere ch'ella desiderava scrivere al di fuori
per aver danaro. Questo dipende dal signor delegato, ed ei dice di
permetterlo quanto ai suoi genitori".
"In questo caso non amo di scrivere" risposi io.
"Perché mai?" interruppe il delegato in italiano.
"Perché il mio arresto ne' domini austriaci suona morte:
ciò ben conoscono i miei vecchi; ed io voglio piuttosto
morir di fame, che esser cagione della perdita di coloro, a cui
debbo la vita: una volta eseguita la sentenza, il fatto è
compiuto, e non dipende più da me."
"Sentimenti degni di lode!" disse gravemente Sanchez.
Chiesi di scrivere alla signora Herwegh a Zurigo, come quella che
aveva tenuto al battesimo una delle mie bimbe, e conosceva molti
miei amici. Mi si domandarono delle spiegazioni sul conto di lei:
le diedi, dicendo che le fedi battesimali erano in Nizza, dove
avevo vissuto colla mia famiglia. Allora fummi concesso di
scriverle con questi estremi:
1°) che avessi detto di trovarmi in Mantova per affari
particolari;
2°) che non mi sentivo bene, ed aveva bisogno di danaro, pel
quale oggetto la richiedeva s'indirizzasse a qualche mio amico;
3°) che non dessi nemmeno a sospettare di essere arrestato;
4°) che le imponessi d'indirizzare le lettere a Verona, posta
restante, a Giorgio Hernagh.
Così feci(30).
Partitosene il delegato, si venne sul parlare di Calvi: chiesi
dove fosse; Sanchez rispose:
"Qui, è stato giudicato e sentenziato a morte".
"A morte?» ripresi io in segno di meraviglia.
"Certo," soggiunse "egli è reo al pari quasi dei Bandiera:
entrò negli Stati imperiali con armi alla mano, e
coll'intenzione di fare insorgere le popolazioni. La sua sentenza
è a Vienna; si attende ogni dì l'exequatur; temo
molto della di lui sorte."
"Questa sarà la mia" soggiunsi io.
"Oh! non si può mica dire" ripigliò; "dipende dagli
eventi politici; e poi ella ha del tempo innanzi a sé e dal
tempo si può sperare molto: ringrazii la Provvidenza che
non è caduto sotto il potere militare; in dodici ore ella
sarebbe stato spiccio."
Qui finì la nostra conversazione: fui riconsegnato a Casati
e alle guardie. Traversando i corridoi:
"Tutto è scoperto," dissi rivoltomi a Casati "per me non
v'è più rimedio; quando escirò dal castello
sarà per salire al patibolo".
"Oibò," rispose Casati in aria di certezza "il governo
austriaco non fa più eseguire sentenze di morte per affari
meramente politici, se ne accerti."
"Vedremo" soggiunsi.
Giunto nella segreta, vi trovai il presidente, che mi aveva
preceduto; rimasti a tu per tu, discese alle vie più dolci,
e disse:
"Mi raccomando che ella non tenti di suicidarsi".
"Non ne dubiti" risposi.
"Mi dia la sua parola d'onore."
La diedi, affermando non avrei mai commesso viltà.
Si mostrò fiducioso, e riprese così:
"Io credo più alle parole d'onore di loro signori, che a
quelle di tanti altri, i quali, per proverbio, sono in voce di
perle di galantomismo. Domani ella avrà un nuovo
interrogatorio: la prego a dire la verità; non risparmia
queste canaglie, faccia come loro: non l'hanno mica risparmiato...
hanno detto tutto, gettando su di lei la broda. Non abbia adunque
riguardi, che non ne meritano; e così ella avrà una
condanna a tempo".
A tutto risposi:
"Non so nulla, non commetto viltà". Egli mi salutò,
e dipartissene.
Subito dopo entrò Casati e due secondini: fui messo a nudo;
si frugarono gli abiti in una maniera da me non mai veduta; si
volle che aprissi perfino la bocca; si rimosse perfino il
pagliariccio del letto, il materasso, e si scossero le panche,
ecc. A tutto assistette Casati col massimo rigore.
Le istruzioni venute in possesso dell'Austria svelavano il piano
della rivoluzione; e chi ne fosse ritenuto l'autore, o solamente
il trasmettitore, in faccia alle leggi austriache era reo di alto
tradimento.
Appariva oltre a ciò, che avevo fatte pratiche per entrare
nel servizio militare austriaco siccome uffiziale, mentre si
tramava una rivoluzione a Milano.
Qual n'era lo scopo? Tutto questo faceva la mia posizione assai
intricata.
Mi appigliai perciò al partito di tenermi sul niego, in
tutto ciò che non fosse provato ad evidenza; e quanto ai
nomi d'individui, o piani ignoti di rivoluzioni, di dire
francamente che non avrei mai tradito la causa, né il
partito; per ultimo decisi meco stesso di usar grande pazienza e
sangue freddo: estremi indispensabili in tali occorrenze, e che ad
onta del mio fermo proponimento, non fui capace di mettere in uso.
Per norma generale è a sapersi, che i giudizî
politici si riducono a pure formalità; che i prigionieri
importanti si vogliono, a torto o a ragione, puniti dalla parte
avversa. Perciò la saggezza e la devozione alla causa
consigliano di rimanere sempre sulle negative, di non ammettere
che ciò che sarebbe assurdo di escludere; che debba
evitarsi di esser tirato in questioni, che richiedono ulteriori
spiegazioni sugli uomini, progetti, o tentativi; e da ultimo, che
quando si conosce essere tutto in mano dei nemici, debbesi usare
franchezza e dignità.
Riassumendo e tornando a me, tre fatti principali stavanmi contro:
attività non comune a danno di tutti i governi dell'Italia;
trasmettimento d'istruzioni da me scritte per la rivoluzione in
Milano;
viaggio nelle provincie di razza tedesca, e pratiche per prendere
servizio nell'armata austriaca, che doveva considerare come
nemica.
CAPITOLO QUINTO
Fino dal primo giorno ch'io era in Mantova, udii picchiettare alle
pareti del numero 2, dalle prigioni attigue. Al muro del numero 4
poggiavano il letto e il mio capo; a quello del 2 rispondevano i
piedi.
L'essere stato prigione più volte m'aveva fatto assai
pratico ai segni usati; conobbi adunque che si chiedeva di me.
Dapprima diffidai, e feci il sordo; ma il numero 4 si mostrava
così costante e impaziente, che ebbi pel meglio di farmi
vivo.
Posto in ascolto, mi chiese:
"Chi sei?"
"Giorgio Hernagh" risposi.
"Donde vieni?"
"Dall'Ungheria."
"Coraggio, fratello magiaro."
"E tu chi sei?"
"Pozzi."
"Di qual paese?"
"Di Milano, arrestato da poco tempo."
Dopo cessammo: lo lasciai nella credenza che io fossi ungarese, e
al mattino e alla sera ci salutavamo.
Tornato dal primo interrogatorio, bussò di nuovo, e disse:
"Sei stato all'esame?"
"Sì."
"Ebbene, come va?"
"Male, malissimo" ripresi io; "tutto è scoperto:
m'impiccano."
"Caccia i mali pensieri" rispose quegli; "coraggio!"
"Se mi conoscessi, sapresti che ne ho da vendere."
"Bravo! bravo!" replicò egli.
Indi troncammo per tema di essere scoperti.
Io mi trovava in uno stato convulsivo tale che toglievami quiete e
appetito; quantunque debole me la passeggiai tuttodì.
Pensava agli interrogatorî avvenire, a quello che mi
accadeva, e sembravami un sogno. Mille pensieri s'incalzavano con
furia nella mia mente. Volli leggere un libro e non fui capace di
scorrerne quattro linee. "Tutto scoperto!" diceva; "ma come? chi
si è fatto delatore?" Avrei dato della testa nel muro.
"Morirò... stavolta la non si fugge... sì,
spirerò con coraggio, con dignità; ma i nemici mi
scherniranno, e tra i miei connazionali, molti... oh! sì,
molti, tale è, pur troppo la nostra sorte, diranno che sono
morto come un pazzo, come uno stolido." Indi cambiava consiglio, e
diceva: "Ma che mi cale del giudizio dei moderati, di coloro che
non fanno mai nulla pel loro paese? La coscienza non mi rimorde;
feci quello che potei: i miei connazionali nulla, nulla hanno a
rimproverarmi... Ma dunque non farò più nulla per la
libertà d'Italia?... non vedrò più i miei
vecchi?.. e i miei bimbi?... Oh!..." A questi pensieri mi gettava
sul letto, e meditava angosciato.
Fattosi sera, le guardie mi fecero una visita fuor dell'ordine.
"Come sta?" mi chiesero.
"Bene" risposi.
"Ha bisogno di nulla?"
"No" risposi bruscamente.
Alle nove e mezza venne Casati, mi guardò, fu gentile, e mi
diresse la parola: io appena fiatai.
La notte fu lunga, eterna, insonne... Alla visita del mattino era
alzato, il che sorprese il secondino. Interrogato del
perché fossi in piedi, risposi:
"Stamane debbo forse tornare all'esame; ho d'uopo di essere in
forza: e il moto mi giova".
"Si sente ella male?" prese a dire la guardia.
"Sento che non istò bene."
"Vuole il medico?"
"Fatelo venire."
"Sarà servita" rispose: e se ne andò.
Alle otto incirca il signor Bracciabene comparve. Si toccò
il cappello in segno di saluto, e si appressò a me: teneva
aperto il libro delle ricette, colla penna pronta per iscrivere, e
mi guardava senza fiatare. Gli feci conoscere che ero nel massimo
della irritazione, e che avevo d'uopo di un calmante: e lo pregai
mi ordinasse dell'acqua di lauro ceraso; così fece.
Alle dieci antimeridiane incirca fui condotto di nuovo innanzi al
barone Sanchez.
Venuto ad interrogarmi, mi chiese ancora e partitamente sulle
istruzioni: mi contenni come nel giorno antecedente. Poi mi
chiese:
"Quante volte è ella stato arrestato?»
"Cinque con questa, che sarà l'ultima."
"Oh!" rispose egli; "non si può mica sapere."
Quindi m'interrogò su tutte le imprese a cui avevo
partecipato, e disse:
"Perché ha ella tenuto una vita sì attiva e
rivoluzionaria?"
"Perché ho amato sempre la libertà della mia
patria."
A tali parole soggiunse:
"La sua vita è un romanzo; già l'amor patrio
può paragonarsi alla monomania religiosa".
Quanto a me, ingrandii nelle risposte il tentativo di Sarzana,
dicendolo diretto contro il papa, ed esclusi quello della Spezia.
Alle interrogazioni sul fatto dei Grigioni, dissi che non volevo
rispondere. A questo egli alzò la voce dicendo:
"È più da stimarsi Calvi: egli ha detto francamente
di essere entrato in Lombardia per promuovere la rivoluzione,
ecc.".
Mi tacqui alcuni minuti, e ad un tratto dissi forte:
"Vada la vita, ma rimanga intatto l'onore ai miei figli: voglio
che questi possano portare alta la fronte. Aggraverò me
stesso, ma non comprometterò o la causa o gli altri". Indi
proseguii così: "Stavo aspettando che sorgesse un moto
nella Valtellina, nel qual caso n'avrei presa la direzione".
Chiestomi con chi avessi avuto relazione, risposi: "Con nessuno,
io non faccio il delatore". Interrogatomi sullo spirito dei
Valtellinesi, e sulla quantità di armi che avevo, ecc.,
ecc.; quanto al primo punto risposi, essere affezionati al governo
austriaco; quanto al secondo non sapere.
Indi si rivolse intorno al movimento di Como, interrogandomi se
conosceva il piano, ecc.: risposi del no.
"Queste sue risposte hanno dell'assurdo" prese a dire il Sanchez;
"ella essendo capo, doveva conoscere tutto il piano."
Lo lasciai dire, e stetti sempre sul niego, sulle
generalità, e non volli nominare persona. Da ultimo e'
disse: "Per qual motivo il suo arresto non ha avuto conseguenze?"
"Perché fuggii dai gendarmi."
"Bene, ella fugge da un pericolo, si salva, e dopo un mese si reca
in bocca proprio del lupo; qual vita! A Milano l'ostacolo del
passaporto, a Venezia la caduta nella laguna(31), sono stati
ammonimenti della Provvidenza; ed ella si è mostrata sorda:
ora ne sconta il fio."
A tutto ciò mi tacqui. Come bene si può immaginare,
Sanchez rivolse i suoi interrogatorî a mille e mille altre
particolarità, che tralascio, perché inutili e di
pochissima importanza. L'esame terminò alle quattro
pomeridiane incirca.
Il terzo giorno venni chiamato a un nuovo interrogatorio.
L'oggetto di questo fu il mio viaggio in Ungheria: volevasi ch'io
avessi una missione politica per quei paesi. Negai tutte le
supposizioni che si facevano, e protestai più volte,
dicendo:
"Io non sono un delatore".
Alla fine insistendo, su questi propositi, in un modo assai
stucchevole, io perdetti la pazienza, e picchiando col pugno sulla
tavola gridai:
"Si scriva, che dacché ebbi l'uso della ragione partecipai
sino ad oggi a tutte le cospirazioni contro l'Austria; e poi mi si
faccia impiccare: così sarà finita".
"No, non si riscaldi mica" riprese Sanchez; "vede bene che noi non
la forziamo a dire una cosa per un'altra."
"Mi lasci dunque quieto" soggiunsi.
Sanchez fece osservare che le mie affermazioni non meritavano fede
alcuna; che si conoscevano appieno i miei interrogatorî
avuti nel 1844 nello Stato Romano, ecc.; che io mentiva.
Terminato l'esame, e riconsegnato ai secondini, egli disse:
"Non ci vedremo più per lungo tempo, signor Orsini; la
farò chiamare soltanto per le contestazioni; intanto si
faccia coraggio".
Risposi con un sorriso convulsivo e amaro, che non potei
rattenere.
Sulla mia sorte non v'era dubbio alcuno; bisognava dunque
rassegnarsi e dire: "È venuta la mia volta".
Ma come passare il tempo, che suol farsi così lungo nelle
miserie di una segreta? Chiesi altri libri a Casati e me ne diede:
ebbi pure un Shakespeare, e mi ricreò molto. Leggevo tutto
dì: le ore volavano; alla sera, stanco e debole, m'era
facile di prendere sonno; il mattino balzava in piedi per
tempissimo. Le febbri mantovane mi travagliavano di quando in
quando; e non potendo leggere, venivo preso da forti accessi di
malinconia.
Non passava poi dì che il mio amico del numero 4 non si
facesse udire; lo amavo già come un fratello; quell'essere
poi solo al pari di me mi destava un interesse maggiore.
Al picchiettare del numero 2 non avevo mai risposto; tanto che i
prigionieri non bussavano più e mi avevano forse per un
prigioniero rozzo e scortese.
Senza sapere a me stesso spiegare la ritrosia a intrattenermi con
loro, ch'io d'altronde non conosceva, un dì tra gli altri
volli tentar di battere. Poi men ritrassi; diedi un colpo, e mi
pentii; ma non era più tempo, e fu risposto. Ripercossi
allora col segno: attenti! Incominciammo a parlare, e imprendemmo
la seguente conversazione:
"Chi sei?»
'Hernagh" risposi. "E tu?"
"Calvi."
Rimasi, ed arrossii entro me stesso per la diffidenza mostrata.
Picchiai di nuovo, e ripresi:
"No, sono Orsini".
Al che si rispose:
"Alla finestra".
Mi feci a questa, e stetti in ascolto: udii allora una voce, che
con suoni prolungati e fiochi diceva: "Non ho capito bene: chi
sei?"
"Orsini" ripigliai.
"Oh diavolo!" disse con voce sonora e forte in atto di
esclamazione e sorpresa; poscia nulla più.
Continuavo a stare coll'orecchio teso alle sbarre, e nulla, e
nulla; passati dieci minuti all'incirca, sentii di nuovo la stessa
voce che diceva:
"Come e dove sei stato arrestato?"
"In Hermanstadt" risposi discendendo a molti altri particolari,
che già il lettore conosce.
Allora Calvi, perché appunto era la sua voce, si fece sul
parlare dell'Ungheria, e disse:
"Come hai trovato quei paesi? Quale spirito vi regna? Sentono que'
popoli odio profondo contro il dominio austriaco? Si rammentano
eglino, che in Arad furono appiccati i loro migliori patrioti e
generali?"
Quietossi per un istante, e poi riprese così:
"Povera Ungheria! Ecco un'altra brava nazione tenuta in catene
dall'Austria e dalla diplomazia; furonvi commesse atrocità,
che hanno destato l'indegnazione di tutta l'Europa civile; eppure
si lascia fare; altrettanto avviene dell'Italia e della Polonia.
Quando mai queste tre nazioni si leveranno assieme, e piomberanno
unanimi sovra l'Austria, che le tiene soggiogate, e nella
più cruda schiavitù?"
Queste parole furono pronunziate con forza, ma sempre
interrottamente.
Fece alquanto di sosta, e dopo non molto riprese così:
"Da un mio compagno, che è venuto in prigione da due mesi,
sento che in Crimea ferve una guerra accanita; ebbene, migliaia di
bravi Francesi e Inglesi spargono il sangue per un Napoleone;
dànno la loro vita, perché costui e i ministri
inglesi permisero nel 1848 l'intervento russo nell'Ungheria, e
francese in Italia. Senza quella debolezza del ministero inglese e
il tradimento di Napoleone, l'Austria non sarebbe più;
l'Ungheria, la Polonia e l'Italia si sarebbero date la mano; e la
Russia, contro cui oggi si getta a profusione l'oro e il sangue
dei popoli per difendere la civilizzata Turchia" qui diede in
qualche risata "sarebbe stata o annientata o ricacciata entro i
suoi più remoti confini. Ma verrà giorno che
l'Inghilterra si pentirà di aver permesso quel duplice
intervento, e sono certo..."
Giunto a questo, tralasciò di dire e sentii picchiare al
muro. Mi tolsi dalla finestra, e per quel giorno non parlammo
più.
Rientrato in me stesso: quali cambiamenti! Quali eventi accadono
mai col tempo! diceva tra me. Nel settembre del 1853 mi trovava
nelle segrete del Piemonte: a grande stento potei avere un
giornale; vi lessi queste parole:
"Fortunato Calvi è stato veduto incatenato e scortato da
sette gendarmi traversare in pieno mezzodì sopra di un
carro le contrade di Verona".
Egli era lo stesso con cui aveva testé parlato.
Chi avrebbe allora pensato che sarei liberato dalle prigioni sarde
per essere dopo un anno arrestato dagli Austriaci, e messo accanto
dello stesso Calvi che stava per andare alla morte?
La notte veniente dormii assai poco, pensai sempre all'amico. Il
giorno appresso, due ore prima di sera, si picchiò al
numero 2, ed entrammo di nuovo in conversazione. Mi disse allora,
che ruppe il dì prima il colloquio, perché
sentì rumore: che bisognava stare assai attenti,
poiché in caso di scoperta, Casati metteva venti libbre di
ferro alle gambe; che nel dopo pranzo costui soleva uscire dal
castello, e che in tale occasione il servizio interno veniva fatto
con qualche rilassatezza.
Poscia aggiunse:
"Ebbene? che mi rispondi sull'Ungheria?"
"Ho trovato" dissi "delle popolazioni animate da un forte odio
contro gli Austriaci: i fatti del 1848 sono rimasti come tante
piaghe, che sanguinano sempre, e non possono rimarginarsi;
l'Austria non ha più alcun riguardo verso quelle provincie;
ha tolto loro ogni vestigio di libertà o di garanzia, che
avevano nelle assemblee di Pesth; ha messo dazi sopra i vini;
sciolto i corpi militari nazionali, talché nei reggimenti
di fanteria ungarese e nella stessa cavalleria trovi mischiati
Austriaci, Croati, Boemi, Italiani e Rumeni. Tuttociò porta
al colmo la irritazione degli Ungaresi, e il loro amor proprio
è offeso altamente. I nomi di Kossuth e di Klapka, ma
più specialmente di questo, vanno per la bocca di ognuno;
ho più volte cantato le loro marce militari insieme ai
bravi Ungaresi; dappertutto si trovano persone, che hanno
combattuto per la guerra magiara, ed all'udire i nomi dei loro
guerrieri e delle vittime si accendono in viso, prorompono in
esclamazioni e dicono: 'Verrà, verrà il giorno della
vendetta'. Ho trovato gente bella e robusta, energica ed assai
ospitale: mostrano le più grandi simpatie per gl'Italiani,
fanno elogî della legione che combatteva con loro; ed
essendomi incontrato con uffiziali, che al principio della guerra
avevano combattuto in Italia contro gli Italiani del Piemonte, mi
hanno fatte le più grandi lodi dell'armata sarda. Ho poi
trovato un fatto che non mi aspettava: ed è, che non sono
già ciechi veneratori dei loro magnati o nobili; questa
classe si ama assai dai borghesi e dal popolo minuto perché
fu la prima a prendere le armi e a volare sul campo per la guerra
magiara; ma nello stesso tempo si pronunzia la parola democrazia,
e si dice: 'Nella futura lotta sarà questa la parola che ci
farà levare tutti come un sol uomo: indipendenza e
repubblica ci spingerà tutti al trionfo, e l'Austria e la
Russia' - si parla di questa con grande disprezzo -
'scompariranno, e i loro popoli saranno chiamati a libertà
da noi e dai discendenti de' Latini' (intendono con questa frase i
popoli italiani). Sentono la più grande simpatia per noi:
abbiamo parlato delle nostre e delle loro battaglie; mi sono stati
insegnati i luoghi dove accaddero accaniti conflitti, ho pranzato
in una casetta presso il ponte di Ziscka, ove fu battaglia tra il
generale Bem e Puckner, colla peggio di questo: nelle pareti si
vedono ancora scolpite le traccie delle palle. Mi si disse, che a
quel combattimento Bem stesso era stato ferito, ecc."
Dopo alcune altre parole, interrompemmo il discorso.
Potendo un dì riprendere di nuovo la nostra conversazione,
seppi come certo Bideschini di Palmanova, ad insinuazione della
polizia, s'era accostato a qualche giovane amico dei membri del
Comitato di Milano, e come aveva potuto venire in grande
dimestichezza con uno di loro. Essendosi poscia mostrato attivo ed
entusiasta, fu messo alla testa del Comitato stesso, e
portò tant'oltre la cospirazione, che già stava per
iscoppiare; allora, padrone com'egli era di tutte le carte che la
risguardavano, le recasse alla polizia, dove le depositò
tutte, dando nello stesso tempo i nomi dei principali cospiratori.
Ciò fatto, la polizia arrestò in un attimo da
più di cento giovani, che mandò subito in Mantova.
Seppi oltre a ciò che Bideschini avea avuto in premio da
30.000 lire austriache, e che, cambiato nome, sen viaggiava qua e
là in Lombardia con una donna di mal affare.
Questi fatti m'ebbero tolti molti dubbi, che naturalmente mi erano
insorti intorno alla condotta dei miei coinquisiti.
Per quel dì la conversazione fu assai lunga: indi a non
molti giorni facemmo altrettanto. Sapendo che il povero Calvi
doveva ben presto esser mandato a morte, volli venire
sull'argomento del suo processo, e gli dissi:
"Che pensi della tua sentenza? sarà questa molto grave?"
"Mentre" rispose Calvi "men stetti sotto il tribunale militare,
aspettai la morte; ma una volta che fui posto a disposizione della
Corte Speciale di Giustizia, non vi ho più pensato: credo
che sarò dannato a vita o a venti anni di carcere;
così mi dice anche Casati."
"Dio voglia" risposi io.
"Ne sono convinto," egli soggiunse "e per prova di ciò mi
sono fatto fare degli abiti grossolani da portare in fortezza."
"Fortezza?" dissi io "devi dire galera o carcere duro: il carcere
durissimo è stato abolito dopo la pubblicazione delle
Prigioni di Silvio Pellico; ma anche il primo non è cosa
gradita: un paglione, un lenzuolo, una copertaccia, minestra
nell'acqua, con proibizione di mantenersi del proprio, degli abiti
grigi da galera, e delle buone catene; ecco cosa è
riserbato da sua Maestà l'imperatore ai patrioti italiani,
senza alcuna distinzione. Oh! mio caro Calvi, la prova è
ben dura; ci sarebbe da augurarsi la morte: conosco per prova tali
sofferenze; so che cosa sono le prigioni pei politici; ma
ciò non monta; basterebbe che gl'Italiani imparassero e si
mostrassero finalmente stanchi di vedere il fiore della
gioventù morire o sotto la verga o nelle galere, per avere
avuto aspirazioni favorevoli alla liberazione della patria loro."
"Alla fine dei conti, " rispose egli "sono pronto a tutto: io non
farò mai vedere delle umiltà; accetterò ogni
cosa con animo sereno."
"Quanto a me," ripresi io "non mi aspetto condanne a tempo: ne ho
avute altra volta; ora si tratta della vita, e m'impiccano. I
giudici stessi non fanno misteri, e mi dicono non esservi speranza
che in una grazia speciale dell'imperatore: figurati un po' cosa
ho da attendere di buono da costui. Non so se tu sappia ch'egli
era il beniamino di Francesco I, il quale lo teneva sempre sulle
ginocchia, gli dettava i suoi principî, e soleva dire: 'In
questo fanciullo sono riposti il lustro e la grandezza della
nostra casa imperiale e dell'Austria tutta: egli si mostra facile
ai miei precetti, egli mi rassomiglia in tutto e per tutto'. Tali
cose seppi a Vienna, e parmi che in fatto di esecuzioni di morte
l'imperatorino non indietreggi a confermarle. Haynau, Radetzky,
Giulay, Benedeck sono i suoi favoriti; e Arad, e Pesth, e tutta
l'Italia sanno pur troppo quali siano i suoi tratti di clemenza:
corda e poi corda."
Indi diedi in una risata. Calvi rispose dicendo:
"No, no: non si eseguiscono più condanne di morte; ed io
spero di poterti riabbracciare nel luogo, ove saremo cacciati a
scontare la nostra pena".
"Non m'illudo, caro Calvi," seguitavo dicendo "sono pratico di
tali faccende; mi trovo troppo impasticciato: le sole istruzioni
autografe valgono a mandarmi al patibolo; e ne sono così
persuaso, che durante gl'interrogatorî ho consegnato ai
giudici del veleno ch'io possedeva, dicendo che sarei andato alla
morte con fermezza e che non avrei mai commessa la viltà di
uccidermi per isfuggire al capestro austriaco."
"Oh! hai fatto bene, sì, bene" rispose egli con una voce
alquanto roca, e in accento melanconico.
Stati alquanto zitti, egli riprese:
"E tu come te la vivi?"
"Col vitto d'infermo, giacché le febbri non mi lasciano."
'Ma i tuoi parenti non ti mandano nulla?"
"Finito il poco danaro che aveva meco, mi fu vietato di spedir
lettere, e da dieci giorni soltanto mi è stato concesso di
scrivere; bisogna però che non parli d'arresto, e che
faccia conto di essere a Verona; credo poi che le lettere non
vadano, siccome mi è avvenuto un'altra volta."
"Infami! " disse egli con rabbia e forza.
Io seguitai così:
"Dacché egli è lungo tempo che sei qui devi avere
bene studiato i secondini: vi è egli da fidarsi di alcuno
per ispedire soltanto due righe che domandano del danaro onde non
morire di fame?"
"Per tal rapporto," rispose egli "sono la gente più trista
che io mi abbia mai conosciuto; non ti fidare di alcuno. Sappi
ch'e' sono gli stessi, che hanno assistito al celebre processo
militare di due anni or sono. Eglino diedero mano a Casati;
stavano presenti alle bastonate che si davano ai poveri Italiani;
ed in tutto diedero mostra della massima esattezza e del
più grande zelo."
"Alla larga con tal gente» ripigliai io.
Dopo di che finimmo.
Strana cosa! Calvi era certo ch'io doveva andare alla morte, ed io
di lui; ma quanto a lui stesso, ei s'illudeva; e quanto a me, si
studiava di togliermi qualunque idea trista, volendo che anche il
solo dubbio della morte fosse scomparso dalla mia mente. E
ciò era ben naturale: proveniva da animo di amico e di
patriota.
Calvi stava in compagnia di due altri Lombardi: di certo Marco
Chiesa da San Colombano, e Majoli; questo secondo del Comasco, se
non erro.
Sul finire del settembre mi trovai col primo, e potei saper molte
cose intorno allo infelice Calvi; tra le altre, che quando questi
seppe dalla finestra il mio vero nome, impallidì e disse:
"Eccone un altro, che non vedremo mai più; conosco appieno
la sua vita; egli è perduto per sempre". Chinò il
capo tra la palma delle mani, e per un dieci minuti stette zitto;
indi tornò alla finestra, e ripigliò meco la
conversazione, che ho narrata al principio del capitolo. La
vicinanza di Calvi mi tolse quella tranquillità, che mi
dava da principio la continua lettura: il pensiero, che ad ogni
giorno egli poteva essere condannato al patibolo mi addolorava
fuor di misura. Ad ogni sera io diceva: "Domani il mio compagno
sarà forse ucciso; dopo non molto gli terrò io
dietro. In questo frattempo non parlerò più con lui,
non ci consoleremo più a vicenda, non c'interterremo mai
più sulle cose nostre, sulla nostra Italia. Qual notte
terribile sarà per lui quella in cui saprà che deve
spirare il mattino! Ed io? Io lo sentirò forse passeggiare
col passo agitato di chi va alla morte, là, qui, vicino a
me": e toccava la parete che ci divideva da lui. "Oh! quando mai i
miei connazionali cacceranno uno straniero, che manda ad ogni
momento i migliori Italiani sulla forca? Quando mai cesseranno di
tripudiare, mentre i loro compatrioti salgono le scale del
patibolo? Quando sarà mai che indosseranno il lutto per non
deporlo che il giorno, in cui a furia di popolo sarà
cacciato dal suolo natìo?"
Questi e molti altri pensieri ingombravano a folla il mio
intelletto. Tratto tratto me la passeggiava; ora mi gettava sul
letto, e talvolta davo in accessi di furia, vedendomi nella
impotenza di salvarci entrambi.
Una sera, verso le otto, standomi in letto, udii al numero 2 un
picchiar sordo e prolungato; balzai a terra, e tesi l'orecchio al
muro. "Dimani parte mia madre" disse Calvi; poi nulla più.
Queste parole m'immersero in una agitazione terribile; credetti
che all'indomani ei dovesse andare alla morte; e avvisando ch'egli
fosse mantovano: "Sua madre" dissi meco stesso "partirà di
città durante la uccisione del figlio".
Per tutta la notte non chiusi occhio: più volte scesi a
terra e andai alla parete del numero 2, ma non mi venne fatto di
udire il più piccolo rumore. Silenzio profondo, e solo
interrotto dai lenti passi della sentinella, che vegliava alle
nostre porte. Pur tuttavia la immaginazione mi si scaldava
talmente, che parevami di udire dei lamenti, delle esclamazioni,
la voce stessa del Calvi. Oh! quai tristi momenti non sono mai
quelli del prigioniero, che pensa all'amico trascinato al
patibolo!
Alla fine fecesi giorno; picchiai risolutamente al numero 2, e
incominciai così:
"Che intendesti dire iersera? sei tu di Mantova?"
Dopo qualche secondo fummi risposto:
"Stamane mia madre viene a vedermi; poi riparte subito: quando
parlo con essa, lo faccio alla presenza o del giudice o di Casati:
voglio tentare di tutto per farle conoscere che tu sei arrestato e
che scriva ai tuoi parenti, acciocché ti mandino del danaro
per vivere un po' meglio. Ieri sera ti voleva dire tutto questo,
ma non potei, perché mi venne udito che le guardie si
avvicinavano alle nostre porte. Del resto io non sono di Mantova,
ma di Padova".
Tutto questo m'ebbe tranquillato.
Sul cadere del giorno mi disse poi, che a nulla aveva potuto
riuscire, poiché Casati stette sorvegliando il colloquio in
un modo affatto insolito.
Il suo pensiero era veramente da amico: mentre ne rivela l'animo,
pone in chiaro come i patrioti pensino l'uno al benessere
dell'altro, e si soccorrano a guisa di fratelli.
Nel luglio ebbi risposta ad una delle mie lettere e ricevetti
cinquecento franchi, che rimasero in deposito presso Casati: volli
rimborsarlo pel pane che mi aveva fornito; ricusò
costantemente. Pregai di avere carta da scrivere in
quantità, giacché pensava di comporre un libro;
chiesi di comperare tutte le opere di Byron, i quattro poeti
italiani e molti altri libri di letteratura; ne volli pure di
chimica e di fisica; tutto ciò mi fu concesso, tranne gli
ultimi due, adducendosi per iscusa che non si trovavano. Questo
era falso, perché, cambiatosi custode, li potei avere. Del
resto, non seppi mai se fosse disposizione del presidente del
tribunale o del custode.
Discorrendo un giorno con Casati della Héloïse di
Rousseau, egli si espresse così:
"Anche questo autore è uno di quelli, che hanno fatto la
rivoluzione francese del 1789".
Io mi posi a ridere e dissi:
"Non sono i filosofi che fanno le rivoluzioni, ma i bisogni del
popolo; se questi non vengono soddisfatti, nascono le
rivoluzioni".
"Ma i filosofi li fanno conoscere al pubblico" egli rispose.
Al che soggiunsi:
"I bisogni si sentono prima; indi si domanda che venga a quelli
posto riparo; e se non si fa, i filosofi dànno ascolto al
popolo, che non sa scrivere, e li mettono in luce, e li discutono,
e ne dimostrano la giustizia e la ragionevolezza, onde evitare
appunto le rivoluzioni, che sono sempre pubbliche calamità.
Certo che se quelli in cui risiede il governo dei popoli, si
mostrano poi sordi alle esigenze e domande di tai filosofi,
finiscono questi per lasciar fare al popolo, trovando giusto che,
ove le parole non valgono, si metta mano ai fatti".
Questa teoria, esposta con tanta semplicità, scosse Casati,
il quale mi guardò fissamente; indi proruppe così:
"Ma che ne pensa di questo spirito rivoluzionario?"
"È un disconoscere la quistione" risposi io: "deve dirsi:
come andranno a finire le esigenze volute dalla civiltà del
secolo, dal progresso delle idee democratiche, dallo sviluppo
intellettuale delle popolazioni? Nel qual caso risponderò:
che a lungo andare bisogna per necessità assoluta che
abbiano un componimento; che per noi Italiani si agita la stessa
quistione, ma che le va unita altresì quella d'indipendenza
e di religione; che la dominazione austriaca sopra una nazione
delle più civilizzate è un'anomalia, un assurdo; che
gl'Italiani non la vogliono; che finirà ben presto; che,
convinto di tal fatto com'io era, a me non importava di perdere la
testa sul patibolo, ecc."
Casati si fece verde, e troncando il discorso disse:
"Se i Piemontesi verranno in possesso del Lombardo-Veneto, io me
ne vo a Vienna".
Indi, passando ad altri discorsi, mi fece intendere che avrebbe
amato di prendere qualche lezione di lingua francese: io assentii,
e quasi tutti i giorni si recava da me per un'ora.
Come è ben naturale a credersi, mi studiavo in tali
occorrenze di sapere qualche cosa intorno al processo: tutto
invano; era un sasso. Un dì gli dissi:
"Che crede della mia sentenza? si eseguirà?"
"No, signore" rispose egli.
"E come mai," soggiunsi "se non sono ancora due anni che
s'impiccavano i patrioti italiani senza misericordia? Stavolta poi
trattasi di uno che è recidivo, ecc."
"Ma nel 1852" replicò "trattavasi di dare degli
esempî."
"E così si proseguirà a fare" ripresi io; "oh! ne
stia certo, l'Austria è logica, non perdona, no."
A queste parole si alzò prestamente, mi diede la mano, e se
ne andò.
Come furono passati alcuni giorni dopo tale colloquio, picchiai al
numero 2, domandando come stavano i miei compagni e Calvi: chiesi
altresì se vi era alcuna cosa di nuovo. Si rispose:
"Stiamo benissimo; tutto di vecchio". Notai qualche alterazione
nella maniera di picchiare, ma non ne feci caso.
Il dì dopo fui chiamato dal Sanchez: traversai le solite
scale e anditi; vidi un giardino che dava nell'appartamento del
delegato, tutto pieno di fiori e di frutti. Quali sensazioni
gradevoli mi cagionò una tal vista! Il togliersi da quattro
mura, il respirare un po' d'aria pura, l'olezzo dei fiori, il
cielo sereno che poteva vedere, il sole in tutto il suo splendore,
tutto, tutto mi venne infondendo una nuova vita; mi sentii
rinascere, la forza mi crebbe, sarei fuggito; e poi dove andare?
La mia immaginativa dava in sogni.
Venuto al cospetto del Sanchez, gli chiesi: "Che havvi di nuovo,
signore?»
"Si tratta" rispose "di cosa da nulla: un disertore ungarese, che
porta il nome fittizio di Fissendi, arrestato nell'aprile 1854 a
Brescia, e trovato con documenti di Mazzini e Kossuth, depone che
a Ginevra Maurizio Quadrio valtellinese lo presentò a Tito
Celsi; che questi gli diede mille franchi, comunicandogli nello
stesso tempo delle istruzioni per una missione politica. Chiesto
intorno ai connotati di Tito Celsi, egli ci ha descritto appunto
quelli della sua persona. La sua posizione si peggiora, se
è pur possibile, sempre più; ma ciò non
importa: ella è invitato a rispondere su questo argomento,
e a dire la verità."
Stetti costantemente sul niego, non per evitare un'accusa di
più, ma perché avrei dovuto discendere a
spiegazioni, che voleva del tutto escluse. Al che Sanchez
soggiunse:
"Faccia quel che crede; verremo alla riconoscenza personale, e
così sarà finita".
Due giorni dopo ciò appunto ebbe luogo. L'ungarese mi
guardò a traverso del buco fatto in una porta, ma non ne
conobbi il risultato.
Prima di uscire dalla residenza del Sanchez, gli chiesi di Calvi;
rispose con molta gravità:
"Non si sa ancora nulla, cosa che ci meraviglia grandemente: le
sentenze per le esecuzioni non sogliono giammai tardare più
di due o tre mesi e ne sono già trascorsi sei".
Gli domandai poscia notizie della guerra di Crimea; al che
soggiunse:
"Il colera fa stragi; non si è potuto ancora condurre i
Piemontesi al combattimento; Sebastopoli non si piglierà
nemmeno in trenta anni; gl'Inglesi non hanno più un
soldato; la Francia non può sprovvedere l'interno".
Indi mi ebbe congedato.
Tornatomene in segreta, picchiai al muro dei numeri 2 e 4, e
narrai tutto. Quindi mi diedi a studiare e a scrivere. Pensando
poi al ritardo dell'exequatur per Calvi, mi nascevano delle
speranze, ch'egli avesse ad essere salvo. Un giorno verso sera
udii delle voci alla finestra del numero 2; mi appressai subito
alla mia, e dissi:
"Come va, amici?"
"Bene" si disse.
"E tu, Calvi, come te la passi?"
"Calvi?" riprese una voce che non distinsi appieno. "Calvi non
c'è più."
"Dov'è andato?" soggiunsi allora.
"Al suo destino."
"Ma a qual destino?"
"Alla morte; lo hanno impiccato il mattino del 4 luglio a sinistra
del ponte di San Giorgio."
A quell'annunzio inaspettato il sangue mi rifluì al cuore,
e me lo sentii palpitare fortemente, e dissi: "Già è
la mia fine". E togliendomi dalla finestra, mi prostesi sul letto
colle mani agli occhi, e stetti come immobile per più di
un'ora. Piansi l'amico estinto, col quale pochi dì prima
aveva creduto di parlare; imprecai ai nostri carnefici, e diedi
subito la triste notizia al mio compagno del numero 4. Questi mi
rispose che il sapeva. Dopo alcuni giorni sentii del rumore al
numero 4; mi accorsi che si facevano de' cambiamenti; ma cessato
che fu lo scalpitare di persone, non volli picchiare, per tema che
vi fossero altri. Il dì appresso seppi, che il prigioniero
di prima era stato messo in compagnia, e che il numero 4 veniva
destinato ad un malato assai grave. Ebbi piacere pel mio amico, ma
io rimaneva senza la sua amichevole voce nel momento appunto in
cui egli mi sarebbe stato di un conforto inesprimibile.
CAPITOLO SESTO
La notizia della morte di Calvi era venuta dai compagni di
prigione; volli nonostante verificarla meglio, e più volte
ne interrogai i secondini. Ma eglino rispondevano sempre:
«Non si sa ancor niente del signor Calvi". Casati si
recò da me per la solita lezione di francese; feci a questo
la stessa dimanda: non mi disse né più né
meno. Allora insistetti coi secondini; e dopo alquanto esitare, un
di loro discese al sì, e poi a poco a poco tutti gli altri.
Non si avea più dubbio: Calvi era stato strozzato. Quel
segreto, quel mistero, che si voleva usato intorno alla sua morte,
mi facevano sempre più convinto ch'io pure sarei uscito un
dì dalla mia prigione per essere dato nelle mani del
carnefice: cosa per vero non molto grata.
"Con qual silenzio," io diceva "con qual freddezza si è
mandato ad uccidere un uomo! con quale semplicità di
apparato invia l'Austria al capestro i nostri fratelli! Qui, a
contatto di questo muro, ha passate l'amico mio quarantotto ore di
agonia; qui l'ha assistito il sacerdote; di qui è uscito
incatenato un bel mattino per lasciare questo mondo, per dare un
addio eterno agli amici, alla infelice sua madre, all'Italia, per
la cui salvezza ei cadeva. Qui forse una lagrima di dolore gli
è scorsa sulle guance, in pensando che moriva per la sua
patria, ma che la lasciava nella schiavitù. Egli ha forse
rivolto un pensiero anche a me, pel quale il suo cuore aveva
palpitato, e non gli ha retto l'animo di picchiare, e di
annunziarmi ch'ei s'incamminava pel luogo, verso cui io stesso
l'aveva presto a seguire.
"Il sacrifizio è compiuto: nulla mi seppi o immaginai nel
giorno della esecuzione; niun segno di tristezza o di abbattimento
o di commozione nei secondini mi fece sospettare alcun che;
credetti per molti giorni d'intertenermi con Calvi, ed era invece
coi suoi compagni, i quali, mossi da pietà, fingevano di
esser lui. Eccone un altro dei nostri migliori, che non è
più: l'Austria, quando le piglia talento, va così
spigolando, e mietendo colla falce della morte i nostri giovani
più distinti per virtù, per devozione, per ardore,
per istruzione. Se i miei giovani connazionali, nei quali solo
riposta è la speme della nostra patria, non si scuotono, e
presto, ella farà sempre di più: coglierà i
migliori frutti, e li getterà come cadaveri immondi a
marcire nelle casematte delle sue fortezze, e colla letizia sul
volto dirà: 'Ecco prolungata la mia vita di cinquanta anni!
Intanto men vivo quieta per questo spazio di tempo. I giovani
entusiasti, che hanno cuore, che potrebbero minare le fondamenta
della mia potenza, o sono estinti, o stanno per esserlo; quando si
toccherà per me la fine dei cinquanta anni, si
penserà ad altri mezzi: di qui allora ci è tempo;
intanto io me la passo di mezzo alle feste ed ai balli di corte; i
pianti dei popoli non disturbano i miei sonni, i loro lamenti non
giungono fino alle mie sale dorate, i cui vestiboli sono guardati
da innumerevoli sentinelle. Ma poi, che pianti e non pianti?
Falsità! I negozianti, gente avida solo di guadagno, non
pensano alla patria; la nobiltà è per me, dei
proprietarî molto ricchi è lo stesso; chi costituisce
adunque questo popolo, che mi vorrebbe imporre, e togliere le
belle provincie italiane? Pochi entusiasti o pazzi, che io mando
al patibolo, e la gente pezzente ch'io bastono, e faccio morire di
fame'. È questo il discorso che tiene a sé medesima
l'Austria; ma la si sbaglia di gran lunga: morirò ancor io,
moriranno altri, ma sorgeranno dal nostro sangue proseliti
più ardenti; il suo governo è verso la fine, essa
è acciecata, disconosce lo spirito nazionale italiano, il
quale, se non ora, ben presto farà levare tutti i miei
compatrioti, che ricacceranno di là dall'Alpi i suoi
soldati, e porteranno vendetta giusta delle tante vittime immolate
al suo dispotismo."
Per portare qualche sollievo al mio animo attristato, per
interrompere la folla dei pensieri che mi assalivano, leggeva i
virili accenti di Dante: dopo non molto il lasciava, e prendeva il
Tasso; e le sue note di melanconia racquetavano e facevano miti i
miei affanni. Un dì tra gli altri, l'ora del prigioniero,
che è quella in cui occorrono alla mente gli amici, i
parenti, le delizie della libertà, tutto ciò che si
ha di più caro a questo mondo, mi assalì, e si fece
sentire in un modo insopportabile. Aprii più libri per
divagarmi: nessuno valse a ciò. Presi Byron e mi cadde
sott'occhio una semplice poesia, ma commovente, scritta quando era
giovane sulla morte di una a lui cara fanciulla. Lessi: mi vennero
le lagrime. Dopo alcune ore pensai alla morte, pensai a me: lessi
la Parisina di Byron, e il Prigioniero di Chillon; quella lettura
mi diede alcun conforto: passò quel giorno lungo, lungo,
tristo, e profondamente per me doloroso. Nel successivo non feci
che leggere il canto di Ugolino, quello di Francesca da Rimini, e
qualche poesia del Petrarca. Presi poi I Sepolcri di Ugo Foscolo,
e non mi distaccai da questi per tutta la giornata. Nelle visite i
secondini mi osservavano, e vedendomi tristo, mi chiedevano che
avessi: risposi sempre che mi sentiva male. Venne il medico; gli
dissi ch'ero sfinito e debole; mi rispose: "Si nutrisca e
passeggi". "Quanto al primo," ripigliai "vedrò di comandare
al mio stomaco; ma quanto al secondo, mi gira il capo: la prigione
è troppo angusta; e se faccio alcuni passi attorno, vado in
sudore, e mi vengono delle vertigini alla testa." Egli mi
guardò, chinò il capo, e se ne uscì.
Ad accrescere la mia melanconia venne un fatto assai singolare. Mi
giaceva sul letto: il tempo era stato in quel dì pieno di
nubi, che per vento si cacciavano l'una dietro l'altra con gran
furia; s'era fatto udire qualche tuono e vedere qualche lampo;
tutto minacciava un temporale. Non ne fu niente; ma il cielo
rimase annuvolato, e di aspetto fosco e sinistro. Suonavano le
otto di sera; e stanco delle ambasce del giorno, incominciava a
chiudere gli occhi, come chi è per pigliar sonno: ad un
tratto odo suoni musicali, e vedo una luce rossastra, che, passata
a traverso la tela della mia finestra, si riverberava pallidamente
contro il muro, stampandovi l'impronta delle sbarre di ferro.
Volsi uno sguardo rapido da questo lato; poi ratto balzando a
terra, aprii con forza le imposte, e mi trassi a mezzo la finestra
appigliandomi ai ferri. A un cento passi e più di distanza
e precisamente nella direzione della cattedrale, vidi una gran
luce, che mandavano senza dubbio innumerevoli torce, e vennero
nello stesso tempo a percuotere il mio orecchio le commoventi
melodie di una marcia funebre. Pensai subito che fosse
l'accompagnamento di qualche personaggio distinto: era
così. Ascoltava colla più grande attenzione le note
musicali, che infondevano mestizia e sensi di pietà e di
dolore: mi sentiva commosso all'estremo, il cuore mi piangeva, e
le lagrime mi scorrevano sul volto. La musica tratto tratto
tralasciava di far udire i suoi accenti melanconici, ed
echeggiavano allora le voci di molte genti, e i sacri bronzi
facevano sentire dei rintocchi di duolo e di morte. Quale
spettacolo non fu egli mai per me! quali sentimenti non provai in
quella circostanza! Sembravami di vedere Calvi, prosteso sul carro
funebre, ondeggiare pel moto di chi lo portava; pareami di vedere
i suoi amici, i suoi parenti, composti il viso e le vestimenta a
lutto, che lo accompagnavano al sepolcro cogli accenti del dolore,
coi lamentevoli suoni di chi piange l'infortunio. Poi ricominciava
la musica a farsi udire, ed io mi struggeva di nuovo in lagrime, e
ricorrendo colla mente a tutto quanto avevo di più caro al
di fuori, diceva: "Non rivedrò più alcuno: no; ben
presto, sì, ben presto sarà finita anche per me!"
Indi mi staccai dalle sbarre.
Terminata quella scena lugubre, mi gettai sul letto: passai la
notte quasi del tutto insonne, e nelle poche ore di quiete non
ebbi dinanzi all'immaginazione che morti, la marcia, il mio amico
Calvi, il patibolo che mi si apprestava.
Nel mattino seppi dai secondini, che si era accompagnato alla
cattedrale un ricco banchiere di Mantova, morto il giorno innanzi:
questa idea di banchiere offuscò tutto il bello e
commovente, che aveva mosso la immaginativa la sera antecedente.
In quel giorno tentai di passeggiare, mi si destò un poco
di convulsione: chiesi dei caffè, ne presi due; ciò
m'irritò di più, ma tolsemi dalla ipocondria. Per un
giorno o due le morali sofferenze fecero qualche sosta, ma poi
tornarono da capo, malinconia mista ad accessi di rabbia e di
impazienza. Volgeva l'animo agli amici, e diceva: "Penseranno
eglino a me? Sì, di certo qualcuno; gran numero, no: e qual
diritto ho io mai alla loro rimembranza? chi sono io? E poi, tra
quelli, che chiamansi amici, quanti mai non ve ne sono de' falsi,
bugiardi e vigliacchi? Quanti mai, che un dì strisciavansi
dinanzi a me, gioiranno forse adesso nel sapermi vicino a morire,
in fondo di una segreta o sul patibolo? ma ne ho alcuni tuttavia,
pochi giovani, che me l'hanno provato: questi mi compensano
dell'immensa turba de' tristi. E i miei parenti? verseranno eglino
una lagrima all'annunzio della mia morte?... Forse sì,
forse no...; al mio vecchio zio però debbo tutto:
educazione... onestà... non mollezza...; ma durante le mie
prigionie mi dimenticò alcun poco... perdono... io gli
perdono: egli mi tenne luogo di padre; gliene feci troppe, non mi
stetti mai quieto. Povero vecchio settuagenario! se lo potessi
baciare!... egli piangerà di certo... mio fratello
anche...; e non perdette la salute per me, allorquando fui
condannato a vita?... E le mie bimbe? povere creature!... presso a
rimanere orfane... ad essere allevate da chi non è loro
genitore... Oh! se fosse almeno viva la mia povera madre!... le
terrebbe come sue figlie... Adesso... mentre io soffro,
scherzeranno forse, e il giorno, in cui l'infelice lor padre
darà l'ultimo respiro, elle staranno saltellando... Se non
fosse il dolore di lasciare le mie fanciulle senza appoggio
paterno, che mi fa di morire? Che cosa è mai la morte? Per
l'uomo che sente, altro non è che la quiete del cuore. Che
mi ebbi mai in vita mia? quali felicità ornarono la mia
giovinezza? Oh! sen parta questa vita: cessino i disinganni...
fuggano le rimembranze dei tradimenti, che m'ebbi dall'amicizia".
Dopo qualche istante cadeva spossato, e poggiati i gomiti sulla
tavola, mi copriva il volto colle mani, e stava per lunghi tratti
in quella attitudine, gridando: «Maledizione!" Allora tutti
i fatti, dei quali ero stato testimonio sino al dì della
mia ultima prigionia, mi accorrevano dinanzi, siccome dipinti in
una gran tela: li esaminava, li confrontava, ne traeva giudizio, e
cadeva nel delirio, diveniva scettico, non credeva più ad
alcuno; l'uomo dabbene, il virtuoso mi appariva sempre in
balìa della sventura, laddove il vile, e l'infame, e il
corrotto, sempre benveduto dagli altri, e col propizio sorriso
della fortuna. A certi tratti io dubitava di Dio, m'era
impossibile di concepirlo senza gli attributi della giustizia: lo
si vuol giusto, e dove mai questa dote si verifica sulla terra?
Non vedete voi dunque la violenza e il tradimento, or nascosti,
ora scoperti, ma bene spesso trionfanti?
Poi ripensava, e sbalzava in piedi: il sangue mi saliva alla
testa; me la bagnava a più riprese con acqua, e mi calmava
alcun poco. Mi piantavo ritto dinanzi alla finestra, ed osservava
quei brani di cielo, che poteva ammirare traverso le sbarre. Dopo
brevi secondi di estatica contemplazione, mi ricredeva di quanto
aveva potuto pensare e diceva: "Sì che vi è un Dio:
quel cielo non è opera dell'uomo miserabile, o del cieco
caso. Giustizia su questa terra? ve n'ha: l'infame presto o tardi
paga il fio delle sue male azioni; io me ne muoio quieto, e col
cuore tranquillo. Quando andrò al patibolo, griderò:
Viva l'Italia! La serenità si leggerà sul mio volto;
darò l'ultimo respiro vitale colla mente rivolta a Dio,
alla patria, ai miei bimbi".
Confortato dai pensieri, che giustizia sarebbe fatta o
quaggiù o in una vita futura, passava ad altri oggetti di
meditazione: prendevo Dante, indi Byron; i loro forti accenti mi
scuotevano; leggevo il Corsaro, divoravo Mazeppa.
"Oh! se potessi" io diceva "salvarmi dai miei nemici, e come lui
raccozzar gente pel loro esterminio! Chi sa? Sono ancor vivo; il
mio cuore palpita ancora, come nei giorni di combattimento e di
patrio ardore; morto non sono per anco: coraggio, volontà
ferma e costanza; ed uscirò, sì, lo voglio, lo
giuro'"
Indi guardavo alle sbarre, e mi pareva già prossimo ad
essere libero, ed esclamava:
"Mi batterò ancora per l'Italia; e se morrò
sarà almeno con un ferro alla mano".
Tra questi pensamenti volavo colla immaginativa al modo di
eseguire una evasione: in quel momento tutto mi pareva facile, la
mia mente si esaltava ognora più: in un attimo mi
arrampicai sino alla vetta delle sbarre della finestra, misurai il
taglio che avrei dovuto fare, la distanza dall'una inferriata
all'altra, e discendendo a terra, mi strofinava le mani, e credeva
già la mia evasione come un fatto compiuto. Volli misurare
l'altezza della finestra dal piano della fossa, giacché mi
si diceva esserne ricinto il castello: ma come fare? Corsi al
letto, sfilai le lenzuola dall'un dei lati, ed ebbi in un attimo
rannodato un filo lungo a mio piacimento: ruppi il vaso con cui
bevea, ed appiccatone un pezzetto all'estremo del filo, lo spinsi
fuori della finestra. Ad un tratto non scorse più il filo,
né sentii il peso. "È al fondo" dissi meco stesso.
Indi, trattolo su di nuovo, lo rinvenni bagnato. "Vi è
acqua, e molta" ripresi; "le difficoltà si accrescono."
La mente cominciava a deporre il primo bollore; pensai ai ferri.
Come tagliarli? La sfiducia succedette in un attimo alla speranza,
che mi era balenata innanzi. Stetti pensoso per alcuni minuti; poi
ripresi esclamando:
"E via! quando l'uomo vuole, riesce a tutto".
Da quell'istante fermai meco stesso di assumere il contegno
più dolce e mansueto che per me si fosse potuto, in faccia
ai secondini, al custode e ai giudici; pensai di spiare ogni
località, quando mi si conduceva agli esami, d'incominciare
per tempo a fare domande per ottenere informazioni necessarie, ma
disparate, e tali che non inducessero sospetto alcuno di quanto
stava meditando; assunsi le sembianze del coniglio, dell'essere
più innocuo e timido; scriveva sempre per la composizione
di un'opera storica, e mi mostrava di un carattere dolce e lieto.
Nell'interno del mio animo mi armava di una pazienza e di una
costanza senza pari, e quando queste mi lasciavano per un istante,
volgevo subito la mente alla patria, ai figli, e ad una vendetta.
Allora mi sentivo rafforzato: che sono mai alcuni mesi di dura
prigione e di stenti? Uscirò, sì; non vi sono
ostacoli per me! ...
Il tempo... oh! il tempo matura di grandi cose: se l'uomo ha cuore
e sente il bisogno della vendetta, il vile che insulta può
star certo di non fuggire quandochessia la pena condegna.
Vi sono degli insulti tali, che la sola morte dell'insultante
può dare giusta riparazione.
E coloro che insultano, siano poi grandi, potenti, pretesi
virtuosi, o raffinatissimi intriganti, stiano ben certi, che la
burrasca li coglie, se chi è stato offeso ha buon cuore.
Passino pur gli anni in apparente bonaccia, tutto sia calmo, ma
l'uomo indipendente deve punire per se stesso colui, che la legge
o l'opinione anche momentanea non punisce, colui che ha osato
toccarvi nell'onore.
Questi i miei pensieri, e li manifesto come essi sono.
CAPITOLO SETTIMO
Vengo a Calvi, e dirò tutto che ho potuto raccogliere da
fonti sicure intorno alla sua morte.
Fortunato Calvi, di Padova, fece gli studî militari nel
collegio di Gratz, altri vuole a Vienna, ed ai rivolgimenti del
1848 era tenente d'infanteria austriaca. Chiese in quell'occasione
la sua demissione dal servizio: gli fu concessa. Si recò
nel Veneto, combatté, diede molto che fare agli Austriaci
nelle montagne del Cadore, e col grado di colonnello si distinse
assai nell'assedio di Venezia. Caduta questa, si recò in
Piemonte, dove si mostrò sempre pronto a prendere le armi
per la indipendenza e libertà italiana.
Nel settembre del 1853 ei doveva promuovere l'insurrezione nelle
montagne del Cadore. Insinuatosi in queste con quattro de' suoi
compagni, fu tradito da una guida. Alcuni gendarmi sorpresero di
notte tempo, e mentre dormivano, i cinque giovani: arrestati, li
tradussero a Insbruk, donde Calvi venne tradotto a Verona. Portato
a Mantova, e messo al numero 2, stette lungo tempo solo: indi gli
si diedero due compagni. Tratto tratto vedeva i suoi di casa, dai
quali aveva di che vivere. Casati se gli era affezionato, davagli
libri, e gli permetteva il sigaro. Ei non ebbe mai bastonate,
bensì la catena durante il tempo che stette sotto la
giurisdizione militare. Fu sempre dolcissimo, dignitoso, e pieno
di coraggio; dinanzi ai giudici mostrò fierezza,
nobiltà d'animo.
Quindici giorni prima di andare alla morte, gli accadde un fatto
strano. Ei dormiva; ma il suo sonno era agitato, inquieto: tratto
tratto dava in forti smanie, si contorceva nel letto, e faceva
lamenti; i suoi compagni lo destarono dicendo:
"Calvi... Calvi...: hai male?"
Si destò dicendo che nulla aveva.
Al mattino era triste. Stette così per due o tre giorni;
infine aprì l'animo ai compagni, e disse:
"Sognavo che il carnefice mi metteva il capestro al collo, e, a
dire il vero, la morte mi faceva paura".
Gli amici lo persuasero a cacciare tali pensieri, e lo tennero
allegro più che poterono.
Per quanto coraggio si abbia, la morte impone sempre: e chi dice
di non temerla, o è pazzo, o è ciarlatano! Io stesso
ho tremato al pensarvi.
Venuto il mattino del 2 luglio 1855, Casati si recò da
Calvi verso le sei e mezza, e lo pregò di levarsi.
"Che havvi di nuovo?" disse il prigioniero; "è venuta forse
la sentenza?"
"Non so" rispose il custode.
Si levò, e fu condotto nella residenza della Corte Speciale
di Giustizia; Casati lo accompagnò coi secondini e due
soldati di linea. Eravi il presidente. Gli fu letta la sentenza di
morte da eseguirsi il mattino del 4. Calvi ascoltò tutto
col più grande sangue freddo. Finita quella lettura, disse:
"Bene, benissimo".
Gli fu chiesto, se voleva ricorrere alla clemenza sovrana per
grazia; rispose:
"No, odierò gli Austriaci sino all'estremo di mia vita".
Dopo di che venne condotto nella sua segreta, dove, invece de'
suoi compagni, trovò un sacerdote, e due guardie, che nol
lasciarono mai.
Mi si è accertato da persone, che potevano saperlo, che il
rescritto di grazia era già pronto, qualora Calvi l'avesse
chiesta. Posto ciò per vero, egli è un nuovo modo
inventato dall'Austria, per umiliare e perdere gli uomini di
carattere in faccia al partito, e per far mostra nello stesso
tempo di clemenza; essa fa la grazia, ma vuole che si domandi: se
il prigioniero cade nel laccio, salva sì la vita, ma essa
lo deride, lo insulta, lo umilia, tanto nella sentenza e nel
rescritto che si pubblica, come nei commenti che si fanno fare
dalle gazzette officiali. Se il sentenziato invece non domanda la
grazia, l'Austria dice: "Il governo è clemente; la grazia
era pronta; ma l'accusato volle fare da pazzo, da ostinato; volle
la morte: se l'ebbe; non merita compassione".
Questi discorsi si tennero in seguito da Sanchez, dai giudici e
dai secondini in faccia mia.
Quando Calvi fu in segreta, domandò due cose: prima di
vedere e pranzare con suo fratello, che dimorava a Padova, seconda
di abbracciare e baciare i due compagni di prigione. Gli fu tutto
concesso: il fratello venne fatto chiamare per dispaccio
telegrafico. I suoi amici gli parlarono alla presenza di Casati e
del presidente; i due giovani piangevano, il presidente faceva
altrettanto; Casati incominciava. Calvi disse loro qualche parola
di conforto; diede a Marco Chiesa un libro in ricordo con alcune
sue parole; e sentendo le lagrime raccogliersi nelle palpebre, e
presso che ad uscire, li abbracciò e baciò
reiteratamente senza far parole, si volse addietro, e silenzioso e
muto si avviò verso la segreta. Dopo questa scena, i due
giovani furono condotti dalla camera del custode nella rispettiva
prigione!
Monsignor Martini, quello stesso che aveva amministrati i conforti
della religione agl'impiccati del 1852, lo assistette. Calvi
mostrò sempre grande serenità d'animo e
rassegnazione; vuolsi che soddisfacesse a tutte le pratiche del
cattolicismo: non posso accertarlo. Dal muro vicino non mi accorsi
di nulla; ma d'altronde tutto si fa nel silenzio e nel segreto, e
se il paziente vuole l'ostia consacrata, gliela porta il sacerdote
nelle tasche. Il cattolicismo concilia tutto.
Scrisse lettere commoventissime alla famiglia, dispose di tutti i
suoi abiti in favore de' secondini, pregò che lo
accompagnassero al patibolo, come quelli che era usato vedere da
un anno. Gli venne concesso: cavarono a sorte, e toccò ai
secondini Sartori e Bettini.
La notte che precedette l'esecuzione, per cinque ore di seguito
dormì tranquillamente. Finite le quarantott'ore d'agonia,
vestito di nero e con guanti di color simile, uscì di
segreta: Casati, invece delle manette, cosa troppo umiliante, gli
fece mettere la catena militare fermata alla mano destra e alla
gamba sinistra. Indi Calvi baciò la moglie di Casati e la
madre di essa. Tutti piangevano: egli solo rimanevasi sereno.
Lasciato il castello, salì in una carrozza che lo
aspettava: eravi alla sua sinistra monsignor Martini, e in faccia
il barone Corasciuti, coi due secondini; molta folla di gente
ingombrava il piazzale cupa e mesta; buon numero di gendarmi e di
guardie di polizia facevano largo; lo seguitava una compagnia di
soldati. Uscita la carrozza di porta San Giorgio, nessun cittadino
gli tenne dietro. Giunta a metà del ponte San Giorgio,
Calvi si tolse il sigaro di bocca, e messo il capo fuori dello
sportello, volle vedere Mantova, poi rientrò; alla fine del
ponte, e precisamente a sinistra, la carrozza voltò, e
giunse ove era l'apparato funebre. Si vedeva un battaglione di
soldati schierati, molti gendarmi e guardie di polizia, qualcuno
della più infima gentaglia, una colonna di legno a cui
doveva essere appeso il paziente, e una tavola a quella
appoggiata. Toltegli le catene, il carnefice invitò Calvi a
montare sulla tavola: egli salì francamente, ringraziando
in modo assai brusco il barone Corasciuti, che gli offrì il
braccio; indi si tolse il sigaro, dandolo al secondino Bettini,
che se lo mise in bocca. Il carnefice gli passò la corda al
collo, attaccò questa a un rampino di ferro che stava nella
colonna, gliela passò tra le gambe e i piedi, e gli
legò le mani. Questo compiuto, monsignor Martini si
avvicinò al paziente: si baciarono entrambi più
volte, indi si ritrasse, e Calvi disse:
"Sono pronto".
La tavola fuggì tosto di sotto ai piedi del paziente, e la
corda fu tirata dall'aiutante del carnefice. Il colonnello
Fortunato Calvi non era più. Stette esposto sino alla
calata del sole, poi staccato dal patibolo, e gettato come un cane
in una fossa scavata dal boia. Ecco come morì uno dei
nostri migliori patrioti.
Egli era alto della persona e di belle forme: toccava il
trentesimosettimo anno di sua età: ardito, virtuoso e
modesto, di molta istruzione fornito, esperto militare, ottimo
figlio di famiglia, di alti e generosi sentimenti, amantissimo
dell'Italia, per la cui libertà e indipendenza
sacrificò quiete e vita.
Una parola intorno al barone Corasciuti.
All'esecuzione delle sentenze di morte debbe essere presente un
impiegato del governo per farne il processo verbale. Per Calvi
spettava al Madella, segretario del giudice Picker: egli
ricusò costantemente. Allora il Corasciuti si offrì
gentilmente, senza esserne stato richiesto. Costui, di Trieste, se
non erro, mostra avere un ventinove anni: è di statura
media, gracile, e di capelli tendenti al nero; occhi scuri e non
vivaci, due baffi ritti, bene appuntati e unti; il viso ha lungo e
di color olivastro; quando ride, la bocca gli giunge quasi alle
orecchie, e mostra due filari di denti bianchi sì, ma
irregolari. Va vestito molto convenientemente, e porta due orologi
d'oro con catene, uno dei quali nella sottoveste, e l'altro nella
tasca dell'abito.
Costui era il segretario di Sanchez, e si piaceva negli esami a
deridere il prigioniero, e a far dimande suggestive; e costui
avrebbe dovuto stendere il processo verbale della mia esecuzione.
Gli ultimi giorni che il vidi, nel mese di gennaio e febbraio,
quando accompagnava il presidente alla visita, io il guardava, e
diceva entro di me: "Non mi vedrai morire; presto riderò di
te e di Sanchez". Ed ora lo faccio, la Dio mercé, di tutto
cuore.
Alli 10 incirca di agosto, Casati mi disse che aveva chiesto di
lasciare il castello di San Giorgio. Questo annunzio mi afflisse;
egli, quantunque rigoroso, si era mostro con me assai gentile, e,
volere o no, m'aveva somministrato del pane, che mi tenne in vita.
Mi richiese di lasciargli una lettera in testimonianza dei buoni
trattamenti usatimi; lo feci: seppi anche, che ne aveva di Tazzoli
e di altri. Nella lettera io dicevo: "Forse non ci rivedremo mai
più: conosco la mia fine; ma sino a che vivo, non
dimenticherò mai che ella m'ha soccorso di pane e di libri,
i quali sono necessarî al pari del primo per una persona
intelligente". Ora che sono libero, ripeto la stessa cosa,
né dimentico le buone azioni, né chi me le ha fatte.
Però la condotta del Casati durante il processo militare
è indegna e vile; e dovendo parlare di lui non posso, per
amore di giustizia, tacere le cattive sue qualità.
Francesco Casati, di Milano, figlio di un custode carcerario,
andò granatiere nelle truppe austriache; divenuto
sottuffiziale, si pose nella carriera del padre. Mostrossi
zelante, attivo, intelligente, educato, e severo fino all'ultimo
segno. Queste qualità piacquero al governo, e quando nel
1851 si scoprirono le fila d'una cospirazione, lo si volle custode
speciale dei prigionieri, che per un tal fatto si sottomettevano a
processo. I detenuti politici furono messi nel castello: il
processo militare era diretto da Straub, capitano d'infanteria e
auditore militare. Costui simpatizzò moltissimo col
custode, e gli diede pieni poteri sovra i prigionieri. Fra questi
ve n'erano di ricchissimi: tutti però senza alcuna
distinzione venivano messi alle catene e al semplice vitto di
carcere. Durante gl'interrogatorî che si facevano nella sala
in presenza di Straub, il quale interrogava in italiano, e
scriveva ciò che voleva in tedesco, Casati stava alla porta
con due soldati di linea armati. Udiva così
l'interrogatorio dell'accusato. Dopo di ciò, se il
prigioniero si era portato bene, vale a dire, se aveva svelato
qualche cosa, egli incominciava a concedergli il pane bianco
invece del nero; un altro giorno andava più innanzi: gli
permetteva una buona minestra, e così via via, a seconda
delle rivelazioni. Quando invece s'incontrava in giovani fermi, si
accresceva il peso delle catene, si diminuiva il pane e si
mandavano nelle prigioni della Mainolda, peggiori assai di quelle
del castello. Dopo un paio di mesi venivano rimessi nelle mani di
Casati. Se persistevano fermi nel non volere disvelare, si
conducevano a lor volta al numero 12, la qual segreta, per essere
la più alta di tutte, non lasciava udire gli urli del
paziente. Assistevano alle bastonate il capitano Straub, Sanchez,
e i secondini. Dopo qualche colpo, Straub interrogava: ove nulla
si fosse potuto cavare, si tirava avanti.
Mancante Straub, Casati disimpegnava le funzioni di lui, e
riferiva. Ma questo non bastava. Conoscendo egli bene la causa di
ognuno, si recava nelle segrete, e con conversazioni, o con
minacce di morte, o con domande suggestive, o colla promessa di
libertà, faceva cadere i deboli nel laccio: eglino si
manifestavano come ad un uomo, che s'interessava per loro; ma
chiamati dall'uditore, e interrogati, se negavano, compariva
Casati, e riportava quanto in segreta avevano confessato
incautamente.
Durante il processo militare Straub si recò incognito a
Londra: vi stette da quattro mesi per ordine del governo
austriaco, onde vedere di mischiarsi colla emigrazione italiana, e
scoprire le fila di cospirazione che andavano connesse ai
prigionieri. In quel frattempo tutto venne affidato a Casati:
faceva e disfaceva a suo talento. I secondini dinanzi a lui
tremavano; era proibito di fermarsi più di due minuti nelle
segrete; vi dovevano andare sempre in due, dare il buon giorno,
portare il vitto, fare la visita, e non altro; altrimenti pugni e
colpi di bastone: più di un secondino ne ebbe. Il fiero
castellano incuteva terrore a tutti. Tornato l'auditore da Londra,
si compié il processo: il bastone era riuscito a trar fuori
la verità; nove furono impiccati; gli altri, parte alle
catene in Boemia, parte liberi, perché confessi appieno, e
delatori.
Alcuni degli impiccati erano di sentimenti moderatissimi: tra gli
altri si distingueva Tazzoli, sacerdote: fu interrogato dal Culoz
a dire la sua opinione intorno allo stato delle opinioni in
Lombardia, e dei bisogni del popolo; egli lo fece con moltissima
moderazione e saggezza. Or bene, che s'ebbe egli? il capestro.
Prima di terminare le parole concernenti Casati è mestieri
che dia narrazione di un fatto, che seppi dalle guardie.
Si disse che il Casati, riuscito a far dissotterrare il cadavere
del povero Calvi, lo fece mettere in una cassa di legno, e
rimettere come prima nella fossa scavata dal carnefice. Se vero
è, i patrioti sapranno avergli gratitudine per questo
pietoso atto verso di uno dei martiri della causa italiana.
Questo era Casati; quanto al fisico, egli è assai alto;
porta basette e baffi; li tinge di nero insieme ai capelli;
è livido nella faccia, un po' grinzoso, ed ha occhi da
gatto: la sua voce è aspra e nasale, e suole dare degli
urli quando comanda, e vuole che una cosa sia fatta presto; ha
pochi denti, e tocca l'undicesimo lustro di sua età;
è sospettoso fino all'ultimo grado; ha moglie ventenne, cui
bistratta e percuote per gelosia.
Toccando ora del capitano Straub, dirò esser quegli che
l'Austria spedisce ove si manifestano moti d'insurrezione, ed ove
vi ha d'uopo di bastone, crudeltà e fucilazioni. Egli
è quel desso, che fu a Parma nel luglio del 54: dovunque
comparisce, lascia traccie di sangue. Egli è di Praga: ha
un trent'anni, è piuttosto bello di persona, di origine
ebreo, ma giunto al grado di sergente, rinnegò la sua
religione, e si fece cattolico per avanzare nei gradi. Ha voce
sonora, sguardo che indica crudeltà, e di colore tendente
all'olivastro. Per lui nulla vi è di onesto, purché
si ottenga il fine: risiede in Mantova, e quando va nelle
città per recare la morte a qualche patriota italiano, lo
fa con molta prestezza, e sen ritorna indi nella piazza
fortificata.
CAPITOLO OTTAVO
Ai 20 di agosto Casati partì dal castello: mi lasciò
in ricordo Shakespeare, e mi baciò in presenza del
presidente. Gli fu sostituito Stefano Tirelli mantovano. Nel
principio di settembre fui chiamato presso Sanchez:
s'incominciarono a mio riguardo le contestazioni, vale a dire che
si confermano al prevenuto i capi d'accusa e le prove relative.
Egli disse così:
"La Corte Speciale di Giustizia si è riunita in consulta
segreta, e dietro la relazione da me fatta sulla di lei causa, ha
decretato: che ella è reo di alto tradimento in primo
grado, tanto per le deposizioni dei coinquisiti, quanto per
l'esistenza di documenti, e per le confessioni di sue colpe: la
pena che stabilisce il codice per un tale delitto è quella
di morte".
Lo interruppi con forza, e dissi:
"Confessioni? colpe? Ho ammesso e riconosciuto dei fatti, che
sarebbe stato assurdo il rigettare, come, per esempio, delle
istruzioni scritte tutte da me; e non sono venuto a confessare od
accusare: tali ammissioni non le tengo per colpe e la prego di
cancellare queste parole".
"Quello che è scritto non si può cancellare" rispose
egli; "del rimanente, è un giro di parole: ella ha
riconosciuto le istruzioni; poteva negarle; non lo ha fatto, e
ciò non era da dubitarsi in una persona di carattere ed
educata come è. Se poi le negava, era lo stesso; non si
trattava di una firma, ma di paragonare due fogli scritti da lei:
una perizia legale accomodava tutto. Quanto alla parola colpa, non
si riscaldi: ammette lei di avere contravvenuto alle leggi
austriache?"
"Sì, signore."
"Dunque ha delle colpe in faccia al nostro governo."
Mi morsi le labbra, e stetti quieto. Quindi per tre giorni
consecutivi venne esaminandomi di nuovo su tutte le circostanze
più insignificanti di mia vita; mi recò innanzi le
prove di ogni sua affermazione, e ben mi avvidi che non vi avea
scampo.
Tornò quindi sul chiedermi perché voleva prendere
servizio presso l'Austria, e non presso le armate alleate.
Risposi: "Non sotto gl'Inglesi, perché si comprano i gradi,
ed io non aveva allora somme disponibili; non sotto i Francesi
poi, primo perché sarei stato cacciato in una legione
straniera, considerata come carne da macello; secondo
perché non avrei mai servito sotto lo stendardo di
Napoleone, di un uomo che non ha principî di amicizia, di
onore, di moralità; di un traditore, come lo ha dimostrato
in Francia nella sua condotta politica, e nella uccisione della
Repubblica Romana".
Aggiunsi, ch'io conosceva appieno la propaganda da lui fatta in
Italia, ma che non metteva radice.
A queste parole Sanchez m'interruppe dicendo:
"Conosce ella alcune famiglie mischiate in simili pratiche?"
Risposi netto: "Non faccio il delatore".
Infine così seguitai:
"Se la Francia spedisse di nuovo contro Italia un'armata per
conquistarla e derubarla una seconda volta, io mi batterei per
l'Austria in tutti i casi; perché il dominio francese tende
a corrompere letteratura e carattere nazionale, il che è
facile per la grande simiglianza tra le due nazioni; laddove tra
noi e i Tedeschi saravvi sempre totale distacco d'indole e di
costumi".
Terminate queste spiegazioni che furono scritte con molta
esattezza, Sanchez, con un giro di parole, voleva farmi cadere
sempre in qualche tranello, e disse:
"Quando ella si recò in Lombardia per la missione di
Milano, i suoi amici, a quanto ella ha affermato, conoscevano lei
dover prendere servizio in un'armata nemica: dovevano dunque
considerarla come un traditore, un apostata, e non le avrebbero al
certo data una missione di tale importanza, ove non fossero stati
in precedenza di pieno concerto".
"Traditore? apostata?" risposi quasi fuori di me.
"Non dico già che lo sia; tutt'altro" soggiunse il
consigliere.
Allora mi calmai, soggiungendo:
"Voleva ben dire, perché cesserò di amare il mio
paese, quando m'impiccheranno".
Al che Sanchez col massimo sangue freddo chinò il capo, e
disse:
"Certamente".
E Corasciuti si pose a ridere.
Quindi fu scritto: ch'ero pronto, sinché viveva, a far
qualunque sacrifizio in pro dell'Italia.
Moltissime altre interrogazioni io m'ebbi, ma di secondaria
importanza. Finito l'esame, disse che in seguito all'ottima
condotta tenuta in segreta, mi si sarebbe messo in compagnia verso
la fine di settembre. Lo ringraziai, protestando di volermene star
solo. Nel dir ciò aveva in vista la mia evasione,
giacché sapevo, per fatto, che, essendo con altri, riescono
tali progetti, se non impossibili, almeno più difficili.
Verso il 20 di settembre mi fu concessa una candela da tenere
accesa fino alle nove di sera, indi il bicchiere, poscia penne di
acciaio per iscrivere.
Quando avvennero questi cambiamenti, vi era di già il nuovo
custode, per nome Tirelli, nativo di Mantova: serviva il governo
da venti anni, e durante il processo militare del 1852 aveva reso
al capitano Straub buoni servigî, intercettando al povero
Tazzoli un vigliettino, nascosto in un pezzo di pane.
Comunque sia, Tirelli era uno dei migliori.
Verso le cinque pomeridiane di un giorno, io me la passeggiava su
e giù per la segreta, in maniche di camicia. Si apre
all'improvviso la porta, e vedo entrare un sacerdote col cappello
in mano; lo accompagnava il custode Tirelli. Rimasi fermo di botto
a tal vista: quella nera comparsa non mi piaceva.
Dopo un breve istante, chiesi con chi aveva l'onore di parlare. Il
sacerdote rispose: "Don Martini". "Male" dissi entro di me: sapeva
dalle guardie ch'era quegli che assisteva gl'impiccandi.
Egli, forse buon conoscitore di uomini, si avvide di ciò, e
soggiunse subito:
«Non pensi mica male; sono solito ad ogni mese di recarmi
presso i detenuti, col permesso del signor presidente, a vedere se
hanno d'uopo dei conforti di religione; e talvolta si soccorre
anche di qualche libro da leggere; mi meraviglio, poi, come da
circa sette mesi ch'ella è qui mi sia stato sempre taciuto
il suo arresto, mentre, a dire il vero, è tale la
confidenza, che si ha in me, che soglio andare dai più
aggravati".
Io lo ascoltava senza parlare; stavamo tutti e tre ritti in piedi.
Don Martini, trattasi di tasca una scatola, mi offrì del
tabacco, ch'io ricusai; e all'avvicinarmi la mano, mi avvidi
dall'anello essere lui un monsignore.
Intanto egli proseguiva così:
"Si figuri, che quasi ogni quindici giorni io andava dal Calvi;
che bella testa ch'egli era mai! che ingegno!"
E in dir ciò levava gli occhi e il capo in alto, si
soffiava il naso, e prendeva tabacco.
Poscia ripigliava:
"Ha ella bisogno di niente?"
"No, signore."
"Vuole dei libri?"
"No, signore."
"Già vedo che ne ha."
"Sì, signore."
"Scrive forse?"
"Sì, signore."
"Dunque è un letterato?"
"No, signore, mi provo di scrivere un libro."
"Bene," rispose egli "uno di questi giorni verrò a sentirne
qualche pagina: scriva pur molto, metta giù tutte le idee
che le vengono, non badi al disordine con cui si offrono alla
mente, ma poi adoperi la lima di Orazio, e verrà un tutto
armonico e bello."
Il custode Tirelli, che s'intendeva più del succo delle
uve, che della lima di Orazio e della letteratura, crollava le
spalle e dimenava la testa in segno d'impazienza, appoggiandosi
con un gomito sul catenaccio della porta: io l'osservava, e rideva
assai entro di me.
Intanto Don Martini seguitava così:
"Io pure sto scrivendo un libricciuolo pei contadini".
"Bene," interruppi io "questa classe ha bisogno d'istruzione."
"Oh! di certo" rispose il prete; "e... me ne... oc ... cupo
molto."
Proferiva queste parole interrottamente, perché si soffiava
nel medesimo tempo il naso, mandando all'intorno un odore di
tabacco non molto soave.
"La si figuri," continuava dicendo "che non mi occupo d'altro."
"Benone," replicai "e quando sarà stampato?"
"Oh! " rispose egli "da qui a un mese."
Tirelli incominciava a battere i piedi, e dava segni manifesti di
grandissima impazienza.
"Me ne favorirà una copia" diss'io; "non è egli
vero?"
"Ma di certo" ripigliò egli mettendomi la sua destra sur
una mano; "che si figuri cosa non farei pel mio signor Orsini."
Dopo di ciò volli toccare del vescovo di Mantova,
personaggio assai tristo, tutto dell'Austria e che fu causa che
nel 1848 i Mantovani non insorgessero; perciò incominciai
così:
"Qui havvi sede vescovile, non è vero?"
"Sì, signore" rispose il prete.
"Mi si dice che il vescovo la pensa bene."
"Certamente," rispose Don Martini chinando il capo "si figuri un
po' che monsignor vescovo el sta semper in bilico colle so spese."
Questa risposta che non avea nulla a che fare colla domanda, mi
mosse quasi al riso; mi avvidi ch'egli non amava intertenersi su
di tale argomento. Egli intanto riprendeva tabacco e stava per
incominciare altro discorso, quando Tirelli disse:
"Monsignor Martini, gli è tardi, bisogna andare".
Al che il sacerdote, prendendomi per le mani mi salutò,
dicendo:
"Addio, anima mia".
Lo rividi più volte, e lo trovai buono: da quanto potei
giudicare e sapere, egli è un ottimo sacerdote, conforta i
deboli, e chi si trova nella sventura; profonde tutte le sue
entrate in opere caritatevoli, e allorché assiste i rei di
Stato che vanno alla morte, non li costringe a compiere le
cerimonie del cattolicismo, e non si studia di estrarre dai deboli
delle rivelazioni, siccome vorrebbe l'Austria.
Venendo a vedermi, ei mi baciava sovente, il che mi richiamava a
mente i baci, che soleva dare agli impiccandi, prima che il boia
stringa il capestro.
Del resto, Don Martini era amato da tutti i prigionieri, ed io non
posso che farne elogi.
Egli è alto di persona, mostra sui 55 anni, disinteressato,
di costumi specchiati, caritatevole e attivo nel soccorrere il
povero, l'infermo, il debole. Dovrebbe essere uno specchio per gli
altri preti cattolici.
Sotto Tirelli tutti i detenuti indistintamente vennero trattati
con maggiore umanità: a me stesso fu permesso di fischiare
o cantarellare in segreta durante le ore del giorno; ciò mi
sollevava, scrivevo, cantavo, e davo qualche salto nella camera
per mettere in esercizio i muscoli; potei comperare qualche buona
bottiglia di vino; e sul finire di settembre io mi sentiva assai
forte: la mia volontà mi avrebbe fatto saltare una finestra
di sei o sette metri di altezza, se non vi fossero state ferriate;
ed ove fossi stato trasportato in qualche luogo mi credeva capace
di sbarazzarmi dalle mani dei gendarmi e dei secondini. Nel che
m'illudevo; dopo lunga prigionia, dopo essere stato malato, la
debolezza è troppo grande, e si possono appena fare due o
tre miglia a piedi. So questo per prova.
Me ne stava pronto nulladimeno a qualunque evenienza, e colle
guardie dava segno di moltissima docilità e umiltà;
solevo dire: "Adesso me la godo con un po' di buon vino,
giacché fra sei mesi mi si allunga il collo. Verrà
il momento senza che me ne accorga: avrò finito il mio
libro, e dopo quarantott'ore di preparazione volerò in
cielo: queste benedette quarantott'ore non saranno poi tanto
lunghe; beviamo". E facevo bere i secondini, i quali
incominciavano a prendersi la libertà di rimanere nelle
segrete anche un quarto d'ora.
Si beveva alla salute reciproca; i secondini dicevano:
"Che uomo educato che è mai lei! noi non ne abbiamo mai
veduto uno simile, né meno Calvi; lei non si lamenta mai e
poi mai".
"Cosa volete?" ripigliavo io "bisogna prendere le cose come
vengono: beviamo un altro bicchiere di vino: allez, alla salute
delle vostre famiglie, alla salute delle vostre donne, e delle
vostre amorose, caro Giatti..." E si toccavano insieme i
bicchieri. Indi con bel modo diceva: "Quante sentinelle vi sono
qui... in giro?"
Ed eglino me lo dicevano.
"Che vi è tutto all'intorno?"
"Una grande fossa" rispondevano.
Poi cambiavo subito proposito, dicendo:
"Prima di essere impiccato io voglio fare testamento;
lascerò tutti i miei abiti a voi altri, ecc.".
Al che rispondevano:
"Che grand'uomo che è lei mai! che peccato che abbia a
morire!"
Un altro giorno li interrogava intorno al lago che circonda
Mantova, ai forti che vi sono, alle porte della città, e
all'ora in cui si chiudevano: poi interrompeva la conversazione, e
domandava di vedere i ricordi, che avevano avuto dagli impiccati
del 1852, e da Calvi: e' possedevano delle sottovesti, degli abiti
e dei fazzoletti.
Un dì volli tentare, ridendo, di corromperne uno: egli era
solo; così gli dissi:
"Perché non andiamo via insieme?"
Divenne pallido e bianco come una pezza lavata di fresco,
guardò all'intorno, e con occhi spalancati e colle labbra
tremanti rispose:
"Impossibile".
"Che impossibile?" diss'io; "quando andiamo agli esami e siamo
fuori del Castello, e tocca a voi, vi mettete un altro vestito...
e via... ed io vi faccio tenere dodicimila franchi."
A questo, e sempre cogli occhi spaventati, egli rispose:
"Sior Orsini, c'impiccano tutti e due".
Quindi se ne fuggì via.
Perché ei non mi compromettesse, feci le stesse
proposizioni a tutti gli altri, e perfino al custode; e dissi, di
voler fare altrettanto coi giudici. Il tutto finiva in risate, e
in bicchierini di acquavite.
Con questo mio fare giunsi a tanto, che nei rapporti che si davano
giornalmente al presidente, si diceva: "Il signore del numero 3
è tanto buono, che se gli si apre la porta, egli non fugge:
dice che è rassegnatissimo, e che non ha mai trovato gente
buona come noi, e i signori giudici".
Una volta tentai un secondino, perché m'impostasse una
lettera: lo dissi scherzando, ed affermando di voler far venire
molto danaro per comperare buoni polli e buon vino: fu
impossibile.
Conducendomi costantemente di questa maniera, giunsi, in quattro
mesi di perseveranza, a sapere tutto ciò, che mi era
necessario, dell'interna ed esterna disposizione di Mantova, in
caso ch'io avessi potuto riuscire ad evadere: e ciò mi fu
bastevole. Verso la fine di settembre, cioè nel giorno 26,
il custode Tirelli si recò da me, e disse:
"Andiamo pure, signor Orsini, si va in compagnia". "In compagnia
di chi?" risposi sorpreso. "D'altri prigionieri" soggiunse lui.
"Ma se ho chiesto di rimaner solo."
"Ciò non vuol dir niente" ripigliò; "è
disposizione del presidente, e bisogna ubbidire: d'altronde, ella
vien messo nella migliore prigione del castello, e con inquisiti,
che sono tutti ottima gente."
"Andiam pure" replicai, crollando il capo, e guardando tutto
all'intorno della mia segreta. "Eppure mi dispiace" proseguiva
dicendo: "mi era affezionato a questa camera; era divenuta un
tutto con me stesso; avrei voluto starvi fino a che debbo andare
alla morte."
Poi me ne uscii.
Quelli che sono stati in prigione, e isolati lungo tempo, possono
solo capire il senso di queste parole. È un fatto, che si
piglia interesse e affezione agli esseri inanimati, che sono stati
testimoni dei nostri pensieri dolori, e patimenti; e che si soffre
non poco nel separarsene. Così avvenne di me. Qual dolore
non provai a lasciare la mia segreta!
Fui messo al numero 9. Eranvi sette prigionieri; tutti ottimi
giovani, e pertinenti a civili famiglie della Lombardia, ma
compromessi leggermente; erano pallidi e macilenti, non già
perché mancassero di comodi, che anzi n'erano provveduti a
dovizia, essendoché durante il processo la Corte Speciale
era assai indulgente colle persone rispettabili e compromesse
lievemente; ma perché le febbri mantovane non risparmiavano
alcuno.
Vi era tal differenza dalla loro alla mia prigione, che parevami
di essere uscito da una stalla, e di andare in libertà.
Quei giovani al vedermi mi accerchiarono, mi strinsero la mano, e
partito il custode, mi chiesero il nome. Io lo dissi, e
francamente esposi tutto che concerneva il mio processo; ed eglino
mi abbracciarono. Venne sera e ci coricammo: l'avere discorso
tanto per la prima volta dopo nove mesi, mi cagionò un poco
di convulsione; non potei dormire in tutta la notte, mi sembrava
di essere in un altro mondo. I miei compagni mi presero molta
affezione, e tenevanmi come un fratello. Fra i nostri discorsi ci
accadeva talvolta di parlare dei processi: e mi si consigliava
che, ove alla intimazione della sentenza mi si fosse chiesto di
ricorrere alla grazia sovrana, lo avessi fatto: ma ciò
più per amore che portavanmi, che per convinzione. Io
diceva che non l'avrei chiesta, ma ripeteva che nulla si poteva
dire intorno alle risoluzioni prese nei momenti supremi; del
resto, aggiungeva, che non avrei mai commesso viltà o
transatto con un nemico, che dobbiamo odiare sino alla morte. Dopo
pochi giorni ci raggiunse un altro giovane, Annibale Feverzani di
Brescia, appartenente a buonissima famiglia, e ottimo patriota.
I nomi degli altri erano i seguenti:
Luigi Bonati di Cremona, e Antonio Banfi di Milano: ambi assai
istruiti e distinti per gentilezza di modi; Zambelli e Correnti,
pur di Milano, ottimi patrioti; Marco Chiesa da San Colombano,
giovane assai allegro, e tutto cuore: era l'amico di Calvi, e al
parlarne gli venivano le lagrime; Geninazzi di Como, artigiano;
per ultimo il conte Ercole Rudio, di Belluno, uomo in età
avanzata; imprigionato, io credo, per semplice sospetto.
Stetti quattro mesi al numero 9; seppi allora che vi erano in
castello tre donne per fatti politici, cioè la signora
Cotica, di anni 45, di Venezia, madre di due o tre figli; giaceva
nelle carceri da più di due anni per l'accusa di non aver
fatto la spia ad un giovane emigrato, che si trovava con altro
nome in Milano: era stata sola nove mesi; la contessa Rudio, di
ventisette anni, per lo stesso titolo di mancata denuncia; e Rosa
Giudici, milanese, albergatrice, perché taluni del popolo
si riunivano nel suo albergo. Pei delitti comuni sono destinate
delle donne a guardia degli esseri dello stesso sesso: pei delitti
di stato è al contrario; e così signore, d'ordinario
educate e di distinte famiglie, sono esposte giorno e notte alle
visite ordinarie e straordinarie dei secondini, gente ubriaca, e
tolta dalla feccia della società.
Prima di giungere alla fine del 1855, fui chiamato a due
interrogatorî presso il consigliere Picker: mi si volle
mischiare nel processo dei Comaschi. Egli si mostrò con me
di una gentilezza non comune: non dimande suggestive, non minacce;
quanto alle risposte, furono sempre negative. In tale occasione
vidi Sanchez; fu assai gentile. Toltone i primi esami, nulla ho da
lamentarmi dei giudici: conobbi che mi rispettavano. Tra di noi
eravamo certo nemici, ma non si lasciava di usare le regole della
civiltà e della educazione: cose che, a dir vero, non vidi
mai nello Stato Romano.
Mentre stetti al numero 9, potei studiare ancora meglio la
località; m'avvidi però ch'egli era un sogno di
voler andarsene da quella segreta, e ciò per ogni rapporto.
Egli fu per questo che andavo sempre dicendo: "Alla buona stagione
voglio chiedere di cambiare segreta: ho bisogno di compiere il mio
libro; in compagnia nol posso".
Avevo poi ideato di domandare, che mi fosse data una segreta, ove
Tazzoli e Speri erano stati; perché avendo una sola e
sottile ferriata, e mettendo oltre di ciò sui tetti, mi
sarebbe stato agevole, tagliati i ferri, discendere nell'interno
di Mantova.
Questo era dunque il mio pensiero.
Si toccava ormai la fine di gennaio, quando il custode Tirelli fu
sbalzato dall'impiego per essersi mostrato un po' più umano
degli altri custodi; gli venne sostituito un Tedesco, che serviva
il governo da quarant'anni. Vecchio avanzo delle guerre contro
Napoleone, ex-caporale di cavalleria, rammentava sempre la
battaglia di Lipsia, a cui s'era trovato.. Si mostrava umano, ma
non si sarebbe distaccato di un pelo dal suo dovere. Al tempo di
Casati e di Tirelli si andava nella camera del custode a fare i
conti delle spese pei viveri; ma sotto di lui niente di tutto
questo; veniva egli stesso nelle segrete.
A questi giorni fu condotto nel castello un altro prigioniero,
cioè Ernesto Galvagni di Ferrara: era sotto processo per
avermi accidentalmente veduto a Trieste.
Infine, chiesi al presidente di essere posto solo: i secondini
avevano parlato assai favorevolmente, onde mi fosse stata concessa
la segreta da me adocchiata; ma invece di quella mi fu decretata
la peggiore e la più sicura, quella che serviva di castigo,
vale a dire il numero 4. Voleva riscrivere per addurre delle
ragioni: mi fu risposto dai custodi secondo l'uso dei militari:
"Obbedisca, e poscia reclami".
Fu forza assoggettarsi al destino; abbracciai e baciai i miei
compagni ad uno ad uno: avevano gli occhi rossi; io era commosso,
mi sentiva le lagrime presso che ad uscire, e non feci che dire
con molta fretta: "Addio, addio" e lasciarli.
Entrato al numero 4, diedi uno sguardo tutto all'intorno, e dissi:
"Addio speranze, addio evasione! uscirò di qui per essere
impiccato".
Dopo due ore fui condotto nella residenza del presidente: egli mi
chiese qual fosse il vero motivo che m'induceva ad andar solo;
confermai quanto aveva scritto. Ma gli feci osservare che, mancato
l'oggetto, quale era quello di aver luce, egli mi poteva lasciare
al numero 9. Poi venni sul pregarlo di mettermi ov'erano stati
Tazzoli e Speri. Mi rispose:
"Quella segreta poteva essere sicura per quei due, ma per lei no:
noi conosciamo bene i suoi antecedenti; e s'ella ci dovesse
fuggire, il governo ci acciufferebbe tutti, incominciando da me;
poiché ci accuserebbe di non averlo racchiuso in una buona
segreta. Dunque la non può muoversi dal n. 4".
Allora gli domandai:
"Che dice della sentenza di morte, che sta per pronunziarsi a
carico mio? Si eseguirà, o no?"
"Ella è uomo," rispose "e non un ragazzo: vedo che sa
prendere le cose da politico; non voglio quindi illuderla; forse
si eseguirà, e forse no; non le posso dire altro."
Quindi me ne tornai in segreta senza pure la speranza di salvarmi.
CAPITOLO NONO
Quantunque i secondini non si mostrassero inchinevoli a favorirmi
per quanto risguardava l'esterno, non mi tolsi già d'animo;
e sino da quando v'era Casati, il cui rigore, siccome vedemmo,
passava ogni confine, si conobbe dai miei amici dimoranti fuori
d'Italia il mio stato, la sostanza del processo, e ciò che
mi faceva d'uopo. Ma come mai avvenne tutto questo? Ho l'orgoglio
di dire che l'Austria nol saprà. La sua polizia conosce
moltissimi mezzi di cospirazione, ma non tutti; però, ove
anche ciò fosse, questa volta sarebbe stata ingannata a
dovere... I mezzi di cospirazione, i principî, diremo
così, che la debbono indirizzare, sono per la loro
semplicità e chiarezza come quei di strategia; ognuno li
può conoscere, che abbia un po' d'intelligenza; ma la gran
cosa sta nell'attuarli, e nel saperli applicare con accortezza.
È questo appunto ciò che dà da sospirare alle
polizie, per quanto astute elle siano.
Senza venire ad esempî lontani, basti il mio per far
conoscere vera l'asserzione; non v'ha polizia, se ne accerti il
lettore, che non si possa ingannare; ma se questo è, si
richiede dal lato nostro una prudenza, una costanza, un'audacia
non comune.
Tutte le notizie che feci pervenire all'estero, si riassumono
nelle seguenti(32): diedi da prima cognizione del processo Calvi,
della sua sorte, e della morte; indi parlai di me. Mostrai che,
intimatami la sentenza di morte, mi sarei ucciso per non avere
sulle spalle il carnefice; ma riavutomi da questo pensiero, feci
conoscere che avevo vinto un tal pregiudizio, e che sarei spirato
sul palco.
Non molto dopo mi cadde nell'animo di voler chiedere di essere
fucilato, in vece di appiccato; dopo alquanto pensare, mi ritrassi
anche da tale opinione spontaneamente, e diedi a sapere che per
ottenere ciò era mestieri chiedere una grazia, cosa che non
avrei mai fatta. Decisi allora fermamente di non tornar più
sopra tali idee, che sapevano di debolezza, e mai più vi
pensai.
Tutto questo dimostra però, che quell'affare d'impiccamento
non m'andava molto a' versi, e che avrei preferito qualunque altra
specie di morte.
Com'ebbi stabilito di voler fuggire, pensai ai mezzi di tagliare i
ferri delle sbarre; dissi delle seghe necessarie, n'ebbi sei della
miglior tempra, e furono fatte a posta.
Come fui posto al numero 4, scrissi all'estero che ero stato messo
in una delle peggiori segrete, e diedi a conoscere di essere sulla
via del disperare.
Dopo di ciò scrissi per esteso le norme di educazione per
le mie bimbe, ed alcuni precetti di moralità che dovevano
essere loro consegnati al toccare gli anni della ragione. Mi
proponevo di mandare questi scritti ai miei parenti, quando
fossemi stata intimata la sentenza di morte.
All'effettuare della mia evasione, essi rimasero nella segreta.
Dopo di ciò incominciai ad esaminare minutissimamente ogni
angolo, ogni pietra della mia segreta; mi arrampicai per la
finestra, e l'osservai ben bene.
Il primo o secondo giorno di febbraio si venne, secondo il solito,
a cambiare i lenzuoli. Invece di uno solo io ne aveva due,
perché andando vestito del proprio, mi si lasciava a titolo
di compensazione.
Un secondino, alle otto incirca del mattino, mi recò i
lenzuoli puliti, e disse:
"Eccole la biancheria, signor Orsini, mi dia la sporca".
"Lasciate" risposi "ch'io finisca di leggere queste poche pagine,
che m'interessano assai; e subito dopo farò il letto, e
metterò in ordine quanto desiderate: tornate, se non vi
spiace."
"Sì, signore" rispose quegli; "a suo comodo."
Partito, in un istante feci il letto, posi le biancherie sporche
su di questo, e le coprii con un mantello che avevo.
Il secondino non venne: in quel mentre si cambiò guardia
tra loro, e i nuovi venuti, recandosi da me, chiesero:
"Ha ella cambiato i lenzuoli?"
"Sì" risposi con molta indifferenza, e non togliendomi
quasi dalla lettura, in cui ero assorto.
Si mostrarono appagati, e se ne andarono. Allora nascosi tra il
paglione i lenzuoli e lo sciugamano sudicio: la biancheria era
grossissima e forte; i lenzuoli e gli sciugamani lunghi due metri
e forse più ciascuno.
Non si faceva poi caso, se ad ogni mese eranvi dei lenzuoli
sporchi di meno o di più, perché appartenevano
all'amministrazione dell'ergastolo o galera di Mantova, dove
stavano un settecento galeotti di cui buona parte ammalati.
Esaminato bene ogni cosa, io m'era tuttavia nell'incertezza di
poter tentare l'evasione, e pensai nulladimeno che il mettere per
tempo da lato i lenzuoli per discendere sarebbe stato saggia
prudenza; e questo spiega il perché incominciai a preparare
quegli elementi, che a prima vista parrebbe avessero dovuto essere
gli ultimi. Così operando, al momento dell'evasione, io
aveva quattro lenzuoli e quattro sciugamani, i quali formavano una
corda lunga molto più del necessario.
Dopo di ciò mi diedi a prendere l'altezza della finestra
dal piano della fossa; e più volte, sul far della sera,
spingeva fuori col manico della granata quattro noci legate
insieme con filo, e in modo che suonassero e facessero rumore tra
loro. Mi ero fatto dare del filo per rassettarmi dei bottoni, e me
ne servii per mandar giù le noci. Salito sulla sedia che mi
si era concessa, posi l'orecchio destro al di sopra del muricciolo
della finestra, e mi veniva così udito il più
piccolo rumore, che avrebbero fatto le noci giunte al basso: se
poi eravi acqua, sarebbero rimaste a galla.
Quando m'accorsi che il filo più non iscorreva, gli dava
delle tirate, e le noci sbalzavano da terra e ricadevano battendo
tra loro: convinto che erano al basso, le tirai su, e misurai il
filo sul tavolino; faceva ventinove volte e mezzo una misura, che
giudicai essere un metro di lunghezza; cosicché questa era
appunto l'altezza della finestra dal piano della fossa. Dopo nuovi
esperimenti, segnai la misura nel tavolino, e distrussi il filo.
L'altezza m'impose. Senza nulla decidere di positivo, mi diedi ad
altre ricognizioni: la mia segreta era lunga sei passi, larga
quattro, e con porta semplice, talché il più lieve
scalpiccio, o tossire, o fregare a terra, si sentiva da me, se
veniva dal lato esterno, e molto più l'avrebbero udito i
secondini, se accadeva entro la mia segreta, ove i suoni non
avevano campo, per ragione fisica, di perdersi celermente al di
fuori. Ciò mi dava molto a pensare.
La porta era rimpetto alla finestra: cosa di gravissimo
inconveniente, perché i secondini venendo dentro davano
un'occhiata alla seconda, e qualunque alterazione o taglio delle
sbarre si sarebbe fatto vedere contro la luce; oltre a questo
avrei potuto esser sorpreso con molta facilità mentre
lavoravo, essendoché di giorno usavano di quando in quando
i secondini di venire in punta di piedi ad ascoltare alle porte, e
tutto a un tratto di aprirle e sorprendere il prigioniero: cosa
che loro riusciva molto di leggieri, perché i catenacci si
tenevano ben unti, e di giorno un solo chiudevasi: nella notte poi
tutti lo erano indistintamente. Alle nove e mezzo di sera, vale a
dire subito dopo la prima visita di notte, montava una sentinella
con fucile a bandoliera, e doveva guardare le due segrete numero 3
e 4. Dalla mia alla porta del numero 3 vi erano circa otto passi:
la sentinella stava in un andito, che mette in altro, ove hanno i
letti i secondini, e girava su e giù per questo, fermandosi
ad ogni quarto d'ora alle due segrete, per sentire se si udisse
rumore.
Dal mio lato stavo assai attento, e udivo distintamente il
tossire, lo sputare, il discorrere sottovoce dei secondini. La
sentinella poi smontava sul far del giorno, vale a dire, quando i
secondini si alzavano.
La mia finestra aveva due metri di altezza dal piano della camera;
v'erano due grosse sbarre di ferro lungi un metro l'una
dall'altra; e un decimetro distante dalla seconda vi aveva
un'assai fitta grata. Il diametro dei ferri della prima sbarra era
di quattro centimetri e mezzo circa.
Per lavorare mi bisognava salire sulla spalliera della sedia;
ciò m'incomodava oltre maniera, poiché all'udire
appressarsi un secondino, avrei dovuto con tutta prestezza,
celerità, e senza far rumore, chiudere il taglio,
discendere, e togliere la sedia di sotto.
Provai a tagliare un ferro: la sega, benché unta d'olio,
faceva rumore. Deposi subito l'idea di lavorare di notte nei due
intervalli delle visite: la sentinella, che costantemente stava
girando nell'andito, e che si metteva in ascolto; il totale
silenzio della notte, che lascia udire il più piccolo moto,
me lo rendevano impossibile. Pensai di farlo nel giorno, ma
sorgeva un nuovo inconveniente. I secondini quasi ad ogni ora, o
per un oggetto o per un altro, venivano nelle segrete dei
prigionieri; sicché non avevo quiete.
Per due o tre giorni stetti sempre coll'orecchio alla porta, onde
abituarmi a udire il più lieve moto, che fosse venuto
dall'andito: feci altrettanto stando ritto sulla spalliera della
sedia, e poggiato col destro orecchio alla sbarra, e il sinistro
dal lato della porta. Incominciai così ad accostumare il
mio organo acustico al massimo grado di sensazione: un sospiro,
per così dire, di un secondino non mi sfuggiva.
Un'altra avvertenza io m'ebbi: dopo che fui messo al numero 9 non
vidi mai visitare i ferri; lo stesso si fece nei primi giorni che
fui messo al numero 4; la fiducia era giunta al colmo: quel mio
far dolce, quel non lamentarmi mai di alcuna cosa, quei bicchieri
di vino dati a tempo, le promesse fatte, che alla intimazione
della sentenza avrei lasciato tutti i miei abiti, e qualche libro
di valore ai secondini, avevano prodotto l'effetto, che m'era
ripromesso.
Poteva starmene, per così dire, nella certezza, che non si
sarebbero visitati i ferri; ma l'esperienza di tante cose m'aveva
insegnato, che non bisogna mai addormentarsi, o fidarsi di troppo.
Venni adunque sull'interrogare i secondini assai destramente, e a
più riprese, del perché fossero meco sì
incuranti.
Un dì fra gli altri parlai col più cattivo, con
Giatti, e gli dissi:
"Che vuol dire, che quando io era al numero 3 ci visitavano ogni
giorno i ferri, e adesso no?"
"Perché allora non si conosceva a fondo la sua persona."
"Sta bene" io risposi; "ma sono gravatissimo nel processo, e
bisogna stare attenti che io non fugga."
"Ah! il signor Orsini è un grand'uomo, egli non fugge, non
ha paura di morire: e poi l'è impossibile, guardi un poco
quei ferri; e poi, e poi lei è una persona educata."
"E cosa fate" ripigliava io "di quella scaletta, che è
lì fuori della porta?"
"L'è appunto per salire a visitare la finestra."
"Ma non lo fate mai?" soggiunsi.
"Lo facciamo coi barabba" (termine che si dà dai Lombardi
alla gente trista), "ma con lei..., ma le pare...; sarebbe un
torto che le faremmo."
"Qua, datemi un bacio, caro Giatti," diss'io "poiché vedo
che mi stimate; portate un bicchierino di acquavite, e beviamo
alla nostra salute, e alla salute di tutti i secondini."
"Mo', sì, signore" rispose egli; mi abbracciò, mi
baciò, e dopo bevemmo.
Com'ebbe egli bevuto, mandò gli altri, e ciascuno a sua
volta trincò con me allegramente, ripetendo sempre:
"Oh che grand'uomo! Oh che grand'uomo!"
Nelle prigioni, per chi ha mezzi, è permesso di bere il
mattino un solo bicchiere di acquavite per rompere l'aria
mefitica, ma i custodi e i secondini sono uomini: fanno pagare il
doppio, e bevono per niente: ecco spiegato tutto.
Ormai certo della trascuranza del servizio, mi armai di una
costanza a tutta prova.
Preparai della cera impastata con polvere di mattone e di carbone,
e imitai così il colore del ferro ossidato: con questa
chiudeva i tagli delle sbarre.
Ebbi oltre a ciò delle altre precauzioni, che sembreranno
ridicole all'apparenza, ma nel fatto, di non lieve giovamento.
Avevo un paletot e una specie di mantello; la notte li teneva
ambidue sul letto, ma di guisa che non se ne vedesse che un solo,
e sempre lo stesso. Mi coricavo un'ora prima di sera, e in un
panchetto, che teneva da canto, metteva il viglietto della spesa
per il mattino seguente: cosicché alla visita delle nove e
mezzo di sera, alla quale assisteva sempre il custode in capo, si
vedeva preparato il viglietto: e dove fossi stato desto, si soleva
dire:
"Oh che uomo! egli prepara tutto alla sera pel mattino, all'alba
è in piedi, mentre gli altri si levano alle 10, alle 11, e
ci fanno sospirare la lista della spesa delle buone mezz'ore".
Alle visite notturne facevo sembianza di dormire: invece cogli
occhi socchiusi guardava quale specie di visita si facesse.
Eglino camminavano in punta di piedi, e una volta vicini mi
spingevano sul volto la lanterna per riconoscere l'identità
personale: indi se ne partivano.
Una notte finsi destarmi al chiarore della luce improvvisa: diedi
in qualche lamento proprio di chi si desta contro sua voglia,
spalancai gli occhi, feci le viste di scuotermi e di esser
sorpreso.
"Siamo noi: che scusi, signor Orsini, povero signore! peccato che
abbia da finir male, sempre tranquillo e in pace; se ne dorme di
buon'ora, e si alza presto. Se non fosse per mancare al dover
nostro, noi non verremmo né meno a disturbarla la notte
colle visite, ma di qui avanti andremo più adagio, e non lo
desteremo: questa volta mo' ci scusi.»
"Niente, niente" dissi io: "felice notte."
"Che dorma bene" risposero gli altri.
I secondini mantennero la parola; in appresso usarono maggiori
riguardi e trascuranza.
Prese tutte queste precauzioni, la cui utilità vedrà
in seguito il lettore, incominciai a segare un ferro. Le seghe
erano eccellenti, ma onde non perdere tempo, conveniva lavorare
con forza e lestezza. Dopo tre ore si facevano assai lente.
Oltre a questo inconveniente, v'era l'altro di dover segare colle
due mani insieme unite, giacché non avevo arco.
Cosicché in breve mi trovai tutto tagliato.
Me ne stava in piedi sulla spalliera, posizione penosissima, come
può bene immaginarsi, collo stomaco mi appoggiavo al
muricciolo della finestra, e facevo forza colle braccia e colle
gambe nello stesso tempo per rimanere in equilibrio; ma molto di
leggieri, particolarmente se discendeva in fretta al sopravvenire
dei secondini, la spalliera si muoveva, e correva pericolo di
trovarmi in terra di botto: fatto che mi accadde per due volte.
Sul finire del primo ferro la sega mi si ruppe in due: non potevo
ire innanzi senza arco. Allora misi a partito il mio cervello.
Aggiustai due pezzetti di legno, e in mezzo posi la sega in
maniera da lasciarne fuora per il lavoro poco più del
diametro del ferro da tagliare. Sugli estremi delle due coste
della sega ne applicai un pezzetto della rotta: quindi con cera e
spago incominciai a fasciare il tutto con forza, e ne ebbi un
eccellente manico.
Dopo tre ore di lavoro, rompeva il pezzo della sega usata, e
spingeva innanzi la nuova. Quasi ad ogni ora lasciavo il lavoro
pel sopravvenire dei secondini, al cui avvicinarsi chiudeva in
fretta il taglio col filo di cera già preparato, sbalzavo a
terra e me la passeggiavo cantarellando.
Ad ogni momento poi facevo sosta, o per origliare, o per
riposarmi, giacché e mani e piedi mi formicolavano oltre
ogni credere, e il gomito sinistro scorticato mi addolorava
profondamente.
Talvolta non ne potevo più: mi toglievo dal lavoro,
affranto dalla fatica, tutto sudore, indebolito e sfiduciato.
Mi gettavo sul letto: trascorsi alcuni minuti, ripigliavo forza, e
gridavo:
"No, non m'impiccheranno".
E volavo al lavoro, e non sentivo, per così dire, il dolore
del gomito e della vita.
"Avanti, avanti" diceva; "ogni cosa ha il suo termine: il ferro
non è legno; pazienza e costanza fanno tutto."
Dava in qualche esclamazione di rabbia; vedevo i giudici nella
loro residenza posta rimpetto alla mia finestra, e meco stesso
profferivo queste parole:
"Me ne andrò, signori: siatene certi".
Procedevo così lavorando, quando all'improvviso i forti
rintocchi delle campane della cattedrale m'interrompevano. Mandava
allora qualche imprecazione: e scendeva di botto; perché
quel rumore mi toglieva di poter udire l'avvicinamento dei
secondini: se mi lasciavo sorprendere, tutto era finito.
Le campane di Mantova suonano quasi ad ogni mezz'ora, e giammai ho
trovato altra città, in cui suonino tanto.
Sul finire di febbraio il presidente si recò alla visita
mensile: io sedevo calmo al tavolino, tutto all'intorno stavano
bene assettati i miei libri, aveva pronti da venti quaderni del
mio manoscritto, e leggevo un'opera di Arago. Alla vista di lui
m'alzai in piedi, e mi tolsi di capo il berretto.
"Come sta, signor Orsini?" egli incominciò dicendo.
"Benissimo, però da prigioniero."
"Sempre studî serî," riprese egli "da filosofo, da
letterato; bravo, bravo."
"Cosa vuole?" soggiunsi; "bisogna ingannare il tempo, ed
acquistare nuove cognizioni; mi spiace che tutto riuscirà
inutile tra pochi mesi."
"Che ci vuol fare?" rispose il presidente; "si richiede pazienza,
bisogna rassegnarsi: ha bisogno di niente? Ha nessun reclamo da
fare delle guardie, del custode e del servizio?"
"Nessuno, nessunissimo" risposi declinando il capo.
Allora se ne andò salutandomi: ed io, uscito che fu, mi
diedi a passeggiare facendo degli scambietti in segno di allegria;
indi sulla sedia, e al lavoro.
Nella prima sbarra tagliai sette ferri, ma li cavava in due volte;
e mi fu forza di fare in tal guisa, perché non avrei
potuto, per la grossezza di essi e per la sottigliezza dei tagli,
riacconciarli per modo che combaciassero perfettamente tra loro.
Quanti accidenti non insorsero mai! Fatto il taglio superiore nei
ferri posti verticalmente, l'estremo loro che rimaneva incastrato
nel marmo superiore delle finestre, si mosse e scese alcun poco.
Per quanto fosse piccola tale alterazione, pure mi fu impossibile
di ricongiungere il ferro segato esattamente. Senza perdermi
d'animo mi arrampicai sino alla cima delle sbarre, e con sottili
liste di legno mi studiai di sorreggere ed alzare il ferro venuto
al basso.
Riuscii per buona sorte ad acconciare il tutto con molta
prestezza.
Com'ebbi fatto il taglio delle prime sbarre, mi provai una notte
di uscire per incominciare a veder di segare qualche ferro delle
seconde. Il varco, specialmente dal lato sinistro, era un po'
stretto, e ne riportai sempre qualche contusione al petto. Per
uscirmene metteva fuori il braccio destro in prima, poi la testa,
e mi tirava così fuori più che poteva; quindi
facendo forza colla spalla sinistra, e prendendo colla destra i
ferri della seconda sbarra, mi traeva innanzi con qualche stento e
dolore fino a mezzo la vita; allora mi rivoltava in modo da poter
vedere, tenendo sempre le gambe penzoloni dal lato interno della
segreta.
In quella posizione ripresi la misura dell'altezza della finestra
dalla fossa, ed esaminai lo stato del muro esterno; nel che mi
accorsi che, dove avessi segato il solo ferro, che verticalmente
si connette nel muro all'angolo destro della seconda ferriata, mi
sarebbe stato facile di scavare dei mattoni, senza aver d'uopo di
tagliare sette ferri.
Ciò verificato, volli rientrare: mi rivoltai di nuovo, ma
quando ebbi ripassati i fianchi, e che fui al torace, non ne potei
più: provai, riprovai, mi volsi e rivolsi, mi scorticai in
più luoghi, mi si riscaldò la mente, e temetti di
dover rimanere in quella posizione sino a che si venisse alla
visita dell'una e mezzo.
Pensi il lettore quali fossero dapprima i miei pensieri! Mi stetti
così un dieci minuti, che mi sembrarono ore: poscia,
calmato alquanto, feci forza su di me, e colla mano destra, e un
po' colla sinistra, alternativamente andava tirando la camicia in
modo che nell'uscire non si agglomerasse; vuotai i polmoni di
aria, tenni il respiro, e potei alla fine cavarmela. Altre volte
mi convenne uscire, ma quel caso non più rinnovossi.
CAPITOLO DECIMO
Essendo assai malagevole di segare di giorno il ferro della
seconda ferriata, avvisai di attendere una notte di vento:
l'occasione non tardò, piovve dirottamente. Dopo la visita
delle nove e mezzo uscii, e men stava tranquillamente lavorando,
quando improvvisamente vidi una lanterna nella piazzetta delle
Gallette, sentii i secondini in moto avvicinantisi alla mia
segreta. Mi credetti scoperto: non fiatai, e men rimasi
rannicchiato tra le due ferriate.
Fu aperta la segreta del numero 3, e mi vennero uditi dei
cambiamenti di prigionieri. Profittando di tale circostanza tornai
dentro, chiusi le imposte della finestra, e mi coricai tenendo i
ferri della sbarra sotto. Dopo una mezz'ora udii nuovo rumore al
numero 3, conobbi la voce di un prigioniero, che vi si metteva,
sentii il trasporto del letto, e poi non altro. Io non riposai
mai: alla visita fingeva di dormire. Quando i secondini furono al
numero 3, percossero i mattoni coi tacchi, e batterono i ferri: vi
si trattennero più di un quarto. Senza potermi spiegare un
tal fatto, rimasi per quella notte nella massima agitazione; non
vedeva l'istante che sorgesse il mattino, e all'alba riacconciai i
ferri colla massima accuratezza.
I secondini vennero il mattino alle solite loro visite, ma nulla
lasciarono subodorare dei cambiamenti sopravvenuti. Quanto a me,
lasciai scorrere le ore mattinali senza far motto: ma alle due
pomeridiane, in cui e' solevano bene spesso perdersi un
quarticello d'ora a bere un sorso di vino coi prigionieri, ordinai
due bottiglie, e incominciai con uno di loro la seguente
conversazione:
"Ebbene, che nuove avete, mio caro amico?»
"Nulla di nuovo» rispose.
"Come mai?" dissi io: "se al numero 3 sento girare un incatenato."
"L'è un cattivo soggetto; e gli abbiamo messo le catene
stamane per ordine del presidente."
"Del presidente? e perché?"
"Perché ha fatto baruffa."
"Non lo credo, via; ma chi è mai costui?"
"Non posso dirlo."
"Via, se lo so" dissi io; "ho sentito iersera la voce: è
Redaelli, quello stesso che ha manifestato tutto nel processo, ed
è venuto a riconoscermi personalmente: ho piacere che
l'abbiano incatenato."
Il secondino mi guardava.
"Intanto beviamo" dissi io, e toccammo il bicchiere insieme.
Proseguivo dicendo:
"Dunque, perché l'hanno incatenato?"
"Purché non dica niente, nemmeno agli altri: e se glielo
dicono, faccia conto di non saper nulla."
"Bene inteso" risposi io: "ma dunque?"
"Dunque ha tentato di fuggire."
"Di fuggire? Redaelli, egli che si salva, perché ha
accusato gli altri! Ma come mai? in qual maniera?"
"Bisogna sapere" rispose il secondino "che nessuno lo voleva in
compagnia, e il presidente era stato costretto di metterlo al
numero 12, dove le porte non sono sicure, e in un momento si
può rompere il palco, salire sui tetti, discendere dalla
torre, venire sui muri del teatro, e andare a finire dove siede la
Corte di Giustizia: ebbene, Redaelli con un grimaldello ha rotto
la bocchetta della porta, messo fuori il braccio, aperto il
catenaccio, che appena si reggeva, e dopo avere sollevati due o
tre mattoni nel soffitto vicino all'ingresso della segreta, e' se
n'è salito sui tetti. Aveva poi con molto giudizio scelto
la notte scorsa, perché il tempo era scuro, piovoso, e
faceva molto vento. Ma la sentinella, udito del rumore, ci ha
fatti levare, e l'abbiamo trovato a sedere sulle tegole, tenendosi
per la catena di un parafulmine."
"Dunque," dissi "non ha fatto a tempo a calarsi giù?"
"Come voleva che facesse? non aveva corda."
"Oh bella! veramente da pazzo» soggiunsi.
"Da parecchi mesi" riprese il secondino "egli ne aveva preparata
una, sfilando le lenzuola, ma tanto corta che non sarebbe giunta a
un terzo. E ciò non basta: era sui tetti, e l'aveva
dimenticata nel paglione."
"Che bestia!" mormorai io.
"Non c'è mica bestia che tenga» rispose; "gli
è che quando si fanno di tali cose, non si ha più la
testa lì, e il cuor batte."
"Verissimo" soggiunsi.
"E poi, dove voleva andare?" continuava dicendo il secondino; "se
dentro Mantova, riuscendo vicino a Santa Barbara, sarebbe stato
ripreso nel giorno; se poi si calava giù dal castello,
qualora avesse preso seco la corda, rimaneva per aria; ma ammesso
anche che fosse disceso nella fossa, dove andava poi? vi è
un muro assai alto.»
"E come fanno dunque a pulire la fossa?" dissi io; "non vi sono
scale?"
"Ve n'è una sola, che mette nella casa del custode del
teatro; la chiave della porta è in potere del governatore
della città, e senza un di lui ordine nessuno può
calare."
"Capperi! che rigore!" dissi io; "si vede proprio che Redaelli,
oltre all'essere birbo, è una vera testa sventata."
"L'è proprio pazzo e cattivo" diss'egli; "in queste cose
bisogna o riuscire o niente: e poi rovinava noi altri. "
«Poveri diavoli!" dissi io; "intanto beviamo."
Si bevette; versai altro vino; e mentre che egli teneva il
bicchiere parlava così:
"Intanto ha venticinque libbre di ferro ai piedi, e se fa il
pazzo, lo metteremo in questa segreta, che è la più
cattiva, e incatenato lì al muro dove c'è l'anello".
"Come? anche un'altra volta mi cambierebbero di segreta?" dissi
io, che mi era fatto di ghiaccio al sentire tal novella.
"Ma lei tornerebbe al numero 3, e migliorerebbe di condizione."
"Non me ne importa" soggiunsi; "ormai mi sono abituato a questa,
ed amo rimanerci."
"Ora poi" riprese egli "abbiamo avuto ordine di fare una
perquisizione a tutti, e di picchiare i ferri una volta il giorno
a tutti indistintamente."
"A me non cale," soggiunsi "e potete farlo quando volete."
"Al nostro signor Orsini" rispose egli carezzandomi "non faremo
mai questo torto, e né meno al numero 9: sono persone
educate loro... signori..."
"Sì, ma vi fuggirò" ripigliai.
"Ah!... ah! ... ah!..." fece il secondino, ridendosela a
più non posso; quindi prese il bicchiere, che io aveva di
nuovo riempito, e se ne andò.
Quanto potei scoprire in questa circostanza, non era certo
indifferente per me. Conobbi il pericolo in cui mi trovava, e come
facesse mestieri tirare innanzi con raddoppiata prudenza e
celerità. Questa scoperta era per me una buona lezione.
"Bisogna riuscire" dissi: "se per Redaelli, benemerito presso i
giudici per avere svelato tutto, vi sono 25 libbre di ferro ai
piedi pel solo tentativo di fuga, che si farà a me che
debbo andare alla morte? sarò incatenato al muro, ed
impiccato più presto, ecco la mia sorte." Mi posi dunque di
nuovo al lavoro, ed era presso a finire il taglio del ferro della
seconda sbarra, quando, sentendo un dì venire i secondini
verso la mia porta, discesi in fretta; si sfondò la sedia,
e caddi disteso a terra. Per buona sorte i secondini non si
recavano da me, ma sibbene al n. 5.
Quella caduta ruinò tutto pel momento. Mi feci talmente
male al piede destro, che per quattro giorni non potei camminare:
invocai il medico, addussi per iscusa, che aveva poggiata la sedia
al muro, e vi era salito per uccidere uno scorpione, di cui si
vedeva abbondanza nella mia segreta: mi furono ordinate delle
frizioni di olio di jusquiamo; ed in capo a otto giorni potei
camminare, se non liberamente, tanto almeno da poter reggermi
assai bene.
Essendo così pronti i casi malavventurati, non volli
più aspettare: posi termine all'ultimo ferro(33).
Dopo di ciò, con due chiodi che aveva potuto estrarre da
una delle imposte delle finestre, feci un istrumento con manico di
legno da scavare il muro e il cemento della parte esterna, e mi vi
applicai con tutta l'assiduità possibile. Il più
difficile fu di togliere il primo strato, tutto di calcina quasi
pura: giunto poi ai mattoni e alle loro commessure, scavai in un
attimo; ne tolsi otto incirca, ed insieme con molto terriccio li
riposi nel paglione.
Il 26 di marzo, il presidente si recò alla visita; venuto
da me, mi fece i soliti complimenti, e disse:
"Sempre allo studio: se ella sta qui ancora qualche tempo
diverrà un gran letterato. E la sua opera non l'ha ancora
terminata?»
"No, signore," risposi "ma in breve lo sarà."
"Bravo, bravo" soggiunse, e se ne partì.
Tutto quel giorno e il 27 me lo passai molto agitato; voleva
tentare la notte del 28 dopo la seconda visita; mi giacqui a letto
assai per tempo, e dissi che mi faceva male la gamba. Dopo
l'ultima visita del giorno tolsi i lenzuoli dal paglione, e in
fretta ne tagliai due insieme con tre sciugamani; feci i primi in
quattro liste ciascuno, e gli sciugamani in due; li congiunsi col
nodo detto alla marinaia, e riposi il tutto nel paglione. Nella
mia segreta ogni cosa era messa come all'ordinario; il viglietto
della spesa sul panchetto a canto a me; e il mantello secondo
l'usato cuopriva il paletot sul letto.
Venuti i secondini alla visita delle nove e mezzo, facevo
sembiante di dormire: mi osservarono, e se ne andarono.
In un attimo discesi, e profittando del rumore che facevano nelle
altre segrete, fatti due involti separati che racchiudevano tre
camicie, scarpe, berretto, paletot. calzoni e due sottovesti fine,
cavai i ferri e recai tutto tra le due sbarre: indi con due chiodi
ruppi la grata esterna, e preso l'un capo della corda, che aveva
già posto sotto la finestra, legai bene i due involti, e li
calai; a due terzi dell'altezza da me misurata si fermarono: misi
fuori la testa dalla grata, e mi accorsi che s'erano attaccati
alle ferriate dell'archivio della città, al primo piano del
castello: col manico della granata poteva rimediare a ciò,
e spingere fuori la corda, ma non l'osai per tema di far rumore:
d'altra parte l'altezza veduta a occhio nudo m'impose grandemente.
Udii bussare la sentinella, e in fretta rientrai lasciando tutto
al di fuori: sul far del giorno, appunto quando questa smontava,
tirai su gl'involti con molta fatica.
Tutto questo feci di mezzo ad una rabbia inesprimibile: non ne
poteva più dalla sete, tanta era l'arsura che mi
tormentava.
Indi riacconciai alla meglio i ferri, ma la grata era rotta, e per
quanto fosse sottile, si poteva discernere. Decisi di starmene in
letto e di fingermi malato, onde i secondini nell'entrare che
facevano, anziché avere occasione di fermarsi rimpetto alla
finestra, fossero venuti difilato al mio letto.
Nel paglione avevo i mattoni e tutta la corda, i cui nodi sentivo
assai bene nella vita.
Per buona sorte due lenzuoli mi erano rimasti intatti, e i
secondini non ebbero occasione di capire alcun che. Il mio letto
era in apparenza come negli altri giorni.
Il 28 non presi cibo di sorta, e mi sentivo debolissimo: non
dormii niente, era la quarta notte che passavo così. Pensai
molto al pericolo di cadere, e di rompermi il collo; stava in
dubbio di tentare, e diceva:
"Dunque morirò impiccato? o se avrò una grazia,
trascinerò i miei giorni nell'abbrutimento, con una catena
tra i piedi, e senza un libro? Dunque me la passerò di
mezzo ai galeotti, sottomesso al potere austriaco? No; è
meglio la morte; se mi uccido, non sarà il carnefice di Sua
Maestà, che mi metta il capestro; d'altronde, io non ho la
pazienza e la rassegnazione di Silvio Pellico, da contentarmi di
ammaestrare un ragno od una mosca: maledizione all'Austria! Voglio
uscire, e farle pagare centuplicatamente i patimenti fisici e
morali, a cui essa mi ha assoggettato: se posso salvarmi, le
farò il maggior danno che mi fia possibile; i colpi che le
porterò saranno mortali".
Indi mi mordeva le dita, e mi asciugava un sudor freddo, che mi
usciva dalla fronte.
Il 29 cercai di prendere cibo, bevetti qualche bicchiere di buon
vino: acquavite, niente; ne diedi invece ai secondini: studiai di
calmarmi, passai in rassegna più volte i nodi dei lenzuoli,
e ne appiccai uno ai ferri; quindi montai sulla sedia, mi vi
attaccai, e feci la prova a lasciarmi penzolone; misurai bene
così le mie forze, e se il lenzuolo resisteva, tutto
sarebbe andato a meraviglia: soltanto, invece di discendere
rivolto colla fronte al muro, era mestieri che calassi di fianco:
in caso contrario, mi sarei malconcio il capo, e rotte le mani;
bisognava allora cadere ammazzato; non vi era rimedio.
Tutto ciò provato, me ne tornai in letto: aveva comperato
degli aranci, e pensava valermene per togliermi la solita arsura.
Alla visita delle nove e mezzo fingeva dormire: usciti i
secondini, feci gl'involti ch'erano già mezzo preparati, e
calai tutto come la sera antecedente; vi aggiunsi il manoscritto
di un romanzo storico, che avea composto, e il Mémorial
d'État-Major di Thiébaut, che avea meco.
Come e' furono alle ferriate dell'archivio, rimasero un po'
intricati; feci forza tirando su e giù, e calarono in
fondo: ma nello stesso tempo si sfasciarono un po', e il libro e
il manoscritto caddero prima che giungessero gl'involti. Fecero
molto rumore; tirai innanzi, come se fosse niente; quella sera ero
risoluto a tutto. Ciò fatto, chiusi le imposte, riposi la
sedia al suo luogo con suvvi i calzoni giornalieri e mi coricai.
Ero sì calmo e tranquillo, che presi sonno: i dodici
rintocchi della mezzanotte del campanone vicino, che suona a
martello un uomo pagato dal governo, e incaricato di vegliare da
un'alta torre agl'incendi, mi scossero.
Maravigliai io stesso a quella freddezza, ma mi diede a bene
sperare. Proposi di serbarla sino alla fine del mio tentativo, e
così feci.
All'una e mezzo, ecco la visita: tutto come all'ordinario: un mio
sacco, ove teneva il vestiario, stava sotto il letto come si
vedeva già da due mesi; ma stavolta era vuoto del tutto.
Fingevo dormire: terminata la visita, scesi, lasciando sul letto
il mantello solito e il berretto.
Perché i lenzuoli trovassero maggior attrito nello
scorrere, e quindi maggiore resistenza, mi posi i calzoni grossi,
che portava giornalmente. Passata con un po' di fatica la prima
sbarra, a motivo dei pantaloni, che m'ingrossavano i fianchi, mi
rivolsi colle gambe verso la seconda sbarra, le cacciai fuora, e
passai il braccio destro e il capo, mentre tenevo colla sinistra
la corda: colla punta dei piedi feci forza contro il muro, e
trovai una specie di muricciuolo dove poggiarmi.
Adattatami con qualche fatica la corda tra le gambe, incominciai
lentissimamente a discendere, tenendo la spalla destra contro il
muro. La notte era oscurissima, ed ogni cinque minuti il telegrafo
militare(34), che corrisponde con Verona, mandava raggi di luce
intorno a sé, e temevo di essere scoperto.
Infine, giunto quasi alla fine, e non più potendo reggermi,
volli riposarmi per un istante; poggiai il piede destro contro il
muro, e mi fuggì subito la corda dalle gambe; diedi
un'occhiata al basso, e riscaldato d'immaginativa giudicai di
essere presso che a terra: allora mi lasciai andare, e caddi da
un'altezza quasi di sei metri. Percossi i ginocchi, e sentii un
dolore acutissimo al piede destro di già offeso. Perdetti
momentaneamente i sensi: riavutomi, mi trassi di sotto l'arancio,
e mi inumidii le fauci; sembrommi di tornare a vita.
I secondini intanto stavano girando per compiere la loro visita,
ed io in fondo della fossa udiva il rumore che facevano.
Trascorsa una buona mezz'ora, mi vestii, e zoppicando voltai a
sinistra del castello, avviandomi verso il prospetto di esso.
Mio primo pensiero fu di prendere per la vôlta, che mette al
lago, donde le acque vengono ad ingrossare la fossa; perché
supponeva di potermene uscire sul margine, donde mi sarebbe stato
facile sul far del giorno sboccare sulla strada, che conduce al
ponte di San Giorgio.
Vi entrai adunque; vi aveva un piede di melma: giunto al termine,
trovai una ferriata, che ne chiudeva l'uscita. Tornai addietro;
salii sulla vôlta, e tra le commessure dei mattoni assai
vecchi potei piantare i due chiodi, che aveva portato meco. Ero
ormai giunto alla vetta del muro, quando la gamba destra
mancò e caddi in addietro: questo capitombolo ebbe ad
ammazzarmi; fuvvi un momento che disperai. Mi riebbi dopo una
buona mezz'ora; portando una corda calata con me, passai
zoppicando dinanzi al prospetto del castello, e mi condussi
all'angolo, che risponde alla porta di San Giorgio.
Ivi è un condotto di pietra, che serve per lo scolo delle
acque della strada.
Gettai la corda, mi studiai di arrampicarmi: tutto impossibile; le
forze non valevano. Tolsi allora la corda, e mi gettai disteso per
terra, aspettando che si facesse giorno. Dormii alcun poco, ma il
freddo e il dolore mi scossero; pensai, e vidi tutto il brutto
della mia posizione: ripreso, sarei stato bistrattato e deriso, e
poscia impiccato ben presto.
Al primo albore mi alzai, e provai a camminare per riscaldare un
po' la gamba che mi doleva oltre maniera: i ginocchi erano
scorticati.
Apertasi la porta alle cinque, chiesi che mi desse aiuto ad un
giovane di circa vent'anni, che passava, dicendo che la sera
antecedente ero caduto per ubriachezza di acquavite. Non ne volle
sapere, e tirò dritto. Passarono altri due: feci la stessa
inchiesta; mi compassionarono, e dissero:
"Povero signore!"
Ed osservata la fossa, soggiunsero:
"Cadiamo in disgrazia anche noi, senza poterlo salvare; passa
troppa gente".
Indi se ne andarono.
Comparvero altri due: fui da capo colla solita domanda: si
fermarono; gettai la corda; la presero; era per attaccarmi;
tutt'ad un tratto la lasciarono: sopravveniva gente.
Quanto a me, senza essere né spaventato, né agitato,
tentava con chiunque passasse, giacché mi era indifferente,
se si fossero chiamate le guardie della porta: osava senza
né manco pensare di riuscire a salvarmi, e andava innanzi
coll'audacia di chi è all'ultimo.
Non appena quei due ultimi se n'andarono, che passò un
giovane assai robusto, un contadino; lo chiamai, dissi:
"Datemi una mano, sono caduto".
Senz'altro aspettare, gittai la corda, la prese e subito
provò a tirarmi:
"Ma non gliela posso" egli disse.
"Chiamate un altro" risposi.
Appunto passavano molti, perché essendo giorno di domenica,
andavano alla città.
In due presero la corda, e dicendo: "Si aiuti" mi trassero su
quasi di peso.
Io feci uno sforzo straordinario: giunte le mie mani all'angolo
delle mura, mi si tagliarono in più luoghi; si vedeva
l'osso, e quei due uomini si chinarono subito a terra, e mi
presero per le braccia: se tardavano un istante, avrei lasciato
per dolore la corda, e mi sarei ammazzato cadendo a rovescioni
nella fossa.
Tuttociò avvenne alle cinque e tre quarti, di pieno giorno,
mentre i secondini si avviavano alla visita delle sei, mentre
scoprivano la mia evasione, e mentre si radunava della gente.
Salito sulla strada, mi rivolsi ai miei due salvatori e dissi:
"Capite bene di che si tratta; sono un prigioniero politico".
Le persone, che facevano corona, se n'andarono subito, ed eglino
dissero:
"Ci venga dietro".
"Ma non posso reggermi."
"Bisogna far di tutto," replicarono "bisogna passare il ponte."
E si avviarono verso quello.
Subito dopo gittarono la corda nel lago; io li seguiva zoppicando:
ad ogni tratto guardavano addietro. Era tutto impolverato e
macchiato; le mani mi facevano sangue; essi mi precedevano di
dieci passi, ma alla fine del ponte mi erano distanti un
cinquanta, tanto io andava a rilento. Come sembrommi lungo un tal
ponte!...
Giunto verso la fine, gettai per un istante un'occhiata a
sinistra, dove ci è un gran cancello di legno giallo-nero,
pel quale passano gl'impiccandi: ivi era passato Calvi; ivi, io
dissi, passerò forse ancor io: non sono ancora fuori di
pericolo. Indi seguitai; mi abbattei in alcuni soldati; mi
guardarono, e tirarono dritto: traversai le sentinelle della testa
di ponte, e raggiunsi i due contadini, che si erano fermati.
Voltai a destra, e presi ricovero tra i canneti e il pantano.
CAPITOLO UNDICESIMO
Durante tutto il giorno stetti tra i canneti; ebbi rasoi da
radermi la barba, e fummi portato pane, acquavite e formaggio,
onde riprendere qualche forza. Godeva nell'aspirare l'aria pura
dopo tanti mesi di puzza e di tanfo; una leggiera brezza faceva
ondeggiare le canne; il sole, che quel dì splendeva assai,
temperava un poco il freddo che mi veniva dallo stare nel pantano.
Meditavo al passato, e mi pareva un sogno trovarmi a due tiri di
fucile dal castello, donde quasi per miracolo era uscito. I miei
salvatori si recarono più volte da me, e mi riferivano, che
in Mantova tutti gli impiegati governativi erano sossopra; la
popolazione in entusiasmo e festa; gli assembramenti vicini al
castello proibiti.
Alle nove di sera mi vennero a prendere; il piede destro era
gonfio, e provandomi di stare ritto, caddi due volte a terra,
siccome canna fragile: allora mi aggrappai con ambe le mani agli
abiti dei due uomini su verso il collo, ed eglino, affondando fino
a mezza gamba, mi trascinarono sin fuori dei canneti a guisa di
cadavere. Nel che andavano dicendo:
"Quanta fatica per farci impiccare!"
Volendo significare, che ove fossero stati scoperti, non vi era
scampo di sorta.
Posto in un carretto, traversate le sentinelle, fui condotto a...;
vi stetti otto giorni, quasi sempre su nuda terra. È
indescrivibile l'assistenza che m'ebbi da quella povera gente: si
posero poi in contatto con alcuni ricchi, e in un attimo fui
portato fuori di pericolo.
I giovani lombardi, il cui nome porto scolpito nel cuore, nel
lasciarmi dissero che quanto avevano fatto era per l'Italia, a cui
sentivano che sarei stato utile ancora.
Io accolsi le loro parole: se dicevano vero o no, sel vedranno.
Sì, io non mi quieterò mai fino a che l'Italia non
sia libera; ma quando dico di ciò fare, non intendo, e lo
dichiaro altamente, di essere il cieco strumento o di un partito o
di un individuo: l'Italia, la sua indipendenza, la sua
libertà: ecco gli oggetti per cui darò il mio
sangue.
Le persone, che fecero tutto per la mia evasione durante i
preparativi, e mostrarono un'amicizia e costanza senza pari,
furono la signora Emma Siegzmond in Herwegh, di Berlino, e Pietro
Cironi, di Prato. Dopo salvatomi dal castello di San Giorgio, due
poveri Mantovani; e quindi alcuni giovani lombardi, che esposero
per me sostanze e sicurezza personale; e un mio amico, che durante
la prigionia mi spedì il danaro per vivere.
So quali allegrie fecero i Mantovani al sapermi salvo: io li
ringrazio di cuore. Ad alcuni loro cittadini debbo la vita; mi
raccolsero impotente, e presto a ricadere nelle mani dei nostri
carnefici; e ricordo Mantova come se fosse la stessa città
che mi diè nascimento.
A tutti quelli poi, che direttamente mi soccorsero prima e dopo,
non offro che gli accenti della gratitudine e del buon volere. Se
verrà un dì, in cui sia mestieri della mia vita a
salvamento loro, non mi terrò addietro: non altro mi
concesse la Provvidenza.
Posto piede in Genova, vi stetti da quindici giorni, ed ebbi
ricovero da alcuni ottimi e generosi Lombardi, i quali mi furono
larghi di ospitalità, e di tutte le sollecitudini
possibili. Gli amici che vidi mi accolsero indistintamente con
segni di gioia, e i loro amichevoli tratti mi compensarono di
quanto seppi aver detto o fatto altri, i quali speravano che fossi
stato strozzato.
Come potei un po' reggermi della gamba, con nome fittizio mi
condussi in Isvizzera; fui a Coira, e di nascosto alcuni del
governo vennero meco a congratularsi; ebbi ospitalità
dall'ottimo Jo[ni], e contrassegni di leale e buona amicizia da
altri Svizzeri.
Pervenuto a Zurigo, stetti dalla signora Herwegh; rividi tutte le
mie lettere scritte dalla segreta. Qual cambiamento! Rividi Pietro
Cironi, e conobbi meglio chi s'era adoprato in mio favore durante
la mia prigionia.
Egli fece viaggi, e scrisse lettere, per aver danari: trovò
alcuni amici pronti, altri noncuranti o lenti; certi milionari
(An...) che negarono un soldo. Moltissimi, tutti costituzionali,
dissero freddamente: Non c'interessa. Cosicché, ove avessi
dovuto aspettare i 5.000 franchi necessari a fuggire(35), sarei
stato impiccato mille volte prima.
Ma io mi salvai nullameno, e ringrazio Dio, e vo superbo di
doverlo, non al danaro, ma alla mia forza di volontà e alle
mie braccia.
Bel patriottismo davvero! So bene di essere un meschinissimo
individuo, ma credo pure di aver fatto alcun che per la mia
patria... Ma che serve parlare di gente cui si fa notte innanzi
sera?
Meglio è rivolgere il discorso ai pochi buoni, che trovansi
dovunque; a quelli che sentono l'amicizia; a quei che, sempre di
alti e liberi sensi, affrontano sacrifizî, e spendono la
vita per la causa della libertà.
Non parliamo più adunque di costituzionali o di gente
eunuca. Siccome poi rispetto le opinioni di ognuno, debbo qui
dichiarare, che non intendo già di toccare tutti quelli,
che tali principî professano, ma sibbene coloro che verso di
me si condussero da giudei; e coloro, che a norma delle azioni
hanno soltanto la grettezza e il dolce far niente.
Perché, dopo superati gli ostacoli del taglio dei ferri e
della discesa, non mi fossi trovato senza un centesimo, Cironi,
col mezzo della signora Emma, mi fece avere da circa ottocento
franchi, ai quali contribuirono Giacomo Medici, Napoleone
F[errari], Giuseppe Mazzini (diede duecento franchi, che gli
furono restituiti), e molti altri, che non mi tengo autorizzato,
per tema di comprometterli, a nominare.
Da Zurigo mi posi in comunicazione con mio zio e fratello, i
quali, ai rimproveri che loro diedi di non aver erogato la somma
di cinquemila franchi, risposero che nessuno aveva loro parlato
mai di ciò; che per salvarmi avrebbero dato il doppio e il
triplo.
Mi spedirono quindi il danaro necessario per ridurmi in
Inghilterra al più presto possibile. Prima di partire ebbi
lettere da Mazzini: in una diceva che rimanessi in Isvizzera, che
poteva darsi di dover entrare in azione. A queste parole mi
entusiasmai. Gli scrissi una lunga lettera, nella quale
spassionandomi diceva a un dipresso le seguenti parole:
"Stavolta m'è ita bene e sono un eroe: se ero scoperto, o
se mi rompevo il collo, mi avrebbero dato dell'imbecille o del
pazzo: così va il mondo. Se avessi mezzi e uomini di
coraggio davvero, farei vedere cosa sarei buono di tentare; ma
senza elementi tutto è inutile".
Mi piace ora di riportare le lettere, che Mazzini scrisse a
Zurigo, quando io incominciai a dar segni di vita nel castello di
Mantova.
Mostrano com'ei non avesse potuto capir nulla. A dare spiegazione
di ciò, egli è mestieri sapere, che prima di essere
arrestato, io avevo stabilito certi segni convenzionali per la
corrispondenza cospiratoria. Una volta in prigione feci uso degli
stessi, ma con grande precauzione, acciocché i giudici, al
cui esame andavano le mie lettere, non avessero sospettato alcun
che.
La qual cosa esplica bastevolmente, come io non abbia mai avuto
d'uopo dei secondini per corrispondere col di fuori.
Era cosa prestabilita e necessaria per fare fronte a qualunque
evenienza.
Brani di lettere di Mazzini, che mi riguardano:
"Non so nulla d'Ors. da mesi in poi: lo credo vivo
nondimeno» (maggio 1855).
"Ho la vostra coll'inesplicabile d'Orsini; dico inesplicabile, a
cagione del punto ov'egli era, dello scopo col quale era andato,
del punto ove egli si trova adesso, della firma che appone
all'altra aggiunta, d'ogni cosa, d'ogni sillaba quasi che egli
scrive" (31 maggio 1855).
"Ricevo una seconda lettera di O. mandata dalla signora Emma:
intendo un po' meno di prima. L'idea della prigione era naturale;
ma o scrive per vie legali, o ha contatto col di fuori: se dalla
prigione e legalmente, non darebbe indizio o linguaggio
misterioso; se per via sicura, perché non dice: 'Sono in
prigione'?" (5 giugno 1855).
"Se avete nuove veramente buone di O... datemele" (27 marzo 1856).
Lettera di Mazzini scritta alla signora E. Herwegh dopo la mia
evasione:
"Madame,
"Merci de coeur de la nouvelle, et pour la sollicitude avec
laquelle vous avez bien voulu me la communiquer. Je ne vous ai pas
répondu de suite, parceque j'espérais une seconde
nouvelle. Est-il non seulement libre, mais en sûreté?
A-t-il dépassé la frontière? Je compte sur
vous et sur Pietro pour un mot qui me rassure, quand vous pourrez
l'envoyer.
"Encore une fois, merci pour tout ce que vous avez fait en faveur
de notre ami. Nous ne l'oublierons jamais.
"17 avril 1856.
"Votre dévoué JOSEPH M."
Lettera scritta a me da Mazzini:
(5 maggio 1856)
"Caro O.,
"Tu sei salvo per un miracolo di audacia, di fortuna. Non ho
bisogno di dirti con che gioia io ne udissi la nuova. È per
me ancora un mistero, come tu sia stato arrestato in Transilvania.
Ma di questo e di cento altre cose che desidero sapere su te e
altrui, avremo campo a parlare. Non so come da Mantova tu abbia
raggiunto il confine. Aspetto con desiderio i particolari, che tu
dici stampare.
"L'affetto col quale la signora Emma s'è adoperata, merita
davvero riconoscenza da te e da noi tutti. Addio; ama sempre il
tuo amico e fratello
"GIUSEPPE".
Mi piace altresì di riportare qui il vigliettino di uno dei
migliori liberali genovesi, che offre un'idea del suo senno ed
amicizia; e una lettera del generale Garibaldi a Cironi, che
chiarisce l'interesse che si prendeva pel mio infortunio.
"Amico,
"Ho avuto il vostro bigliettino, e ve ne ringrazio di cuore. Mi
rallegro con voi del riuscito tentativo. Il compiere e l'attuare
una simile impresa fu tale sforzo di ferma volontà, che
meritava bene fosse coronato da un felice successo, e lo fu: ma
badate a non inorgoglirvene, e ad abusare di questo sorriso della
fortuna; altra volta potrebbe cambiarsi in una derisione.
Conservatemi la vostra amicizia, e non mi parlate di gratitudine:
ciò che ho fatto è nulla: era un dovere altamente
sentito e meschinamente praticato. Addio per ora, sinché la
sorte non ci dia di stringerci la mano più liberamente.
"Amatemi, e credete all'amore e stima del vostro
"14 maggio.
"N. "
Portovecchio (Corsica), 6 dicembre 1855.
"Caro Cironi,
"Al momento della mia partenza per Sardegna, ho ricevuto in Nizza
la vostra del 27 scorso, e non ho potuto occuparmi di quanto
m'incaricavate in quella. Dalla vostra partenza da Nizza non vidi
più il Colombo, ed inutile ho creduto cercarlo; mi duole
massime per quel povero nostro amico, e sono d'opinione dovrete
rivolgervi ad altro espediente per giovarlo. Io verserò il
mio povero obolo, quando mi diciate ove.
"Intanto credetemi
"Vostro G. GARIBALDI."
Da tutto l'esposto egli è chiaro, che se m'incontrai in
nemici e in disgrazie, m'ebbi altresì rari amici, e una
fortuna impareggiabile.
Sino ad ora ho nominato quelli che potevo, senza timore di recar
loro nocumento; ora è bene che si sappiano i nomi di chi
cagionò il mio arresto in Transilvania.
Il lettore deve benissimo rammentare quell'ebreo di faccia
sinistra, Moisè Formiggini di Modena, che mi
avvicinò nel tragitto da Venezia a Trieste. Or bene, costui
mi rivide a Vienna, nel caffè francese, nella piazza di
Santo Stefano. Mi seguitò parecchie volte, ed infine
dissemi che io era Orsini in luogo di Hernagh, che durante il 1848
mi aveva parlato in Bologna, ecc. Così era di fatti. Non
potendo più celarmi, fu forza convenire; egli disse:
"Viaggerete già per le cospirazioni di Mazzini e di
Kossuth; ho veduto il vostro nome nei giornali pei tentativi di
Sarzana e della Spezia, ecc.». Negai dicendo, che viaggiava
per affari di famiglia, e che non potendo attraversare i domini
austriaci col mio nome, ne aveva preso uno fittizio. Lo pregai di
non far motto della mia presenza; e trovandosi egli in bisogno,
gli prestai qualche danaro. Mi diede la sua parola, affermando,
che nemmanco l'aria avrebbe saputo chi io mi fossi.
Aggiunse che avendo titoli di gratitudine verso di mio zio per
affari commerciali, si teneva obbligato di prestarmi tutti que'
servigi che fossero in suo potere.
Partito che fui per l'Ungheria, ei si recò dal signor
Mauroner, direttore del Corriere Italiano, che si, stampava a
Vienna, ed ambidue si condussero a denunziarmi alla polizia. E
subito dopo, per dispaccio telegrafico, venne spedito l'ordine di
arresto in Transilvania.
Eseguito che fu il mio arresto, Formiggini depose ch'io era un
agente di Mazzini e di Kossuth, che viaggiava per loro conto, ecc.
Non so se il governo austriaco lo rimunerasse; in qualunque modo,
egli non ne godé molto: divenne pazzo, e fu messo in un
manicomio di Vienna ove trovavasi ancora al momento della mia
evasione.
Terminata che ebbi una breve cura per togliermi di dosso le febbri
intermittenti, e vedendo ché nulla di nuovo accadeva in
Italia, pensai di lasciare la Svizzera; e verso la metà di
maggio traversai la Francia con nome fittizio, e nel 26 dello
stesso mese posi piede in Inghilterra.
CAPITOLO DODICESIMO
Giunto in Londra mi recai subito da Mazzini: mi accolse con molta
gioia; mi pose a parte di alcuni progetti falliti, e di altri in
procinto di eseguirsi: disse che attendeva di giorno in giorno la
notizia, che in Genova tutto era pronto per tentarvi un movimento;
che, avutala, sarebbe partito immantinente per quella
città. Facendo io qualche meraviglia intorno al luogo
scelto per l'azione, ei mi assicurò che non trattavasi di
combattere il governo costituzionale del Piemonte, ma sibbene
d'impadronirsi degli elementi militari, che sono in Genova, e di
spingerlo alla guerra contro l'Austria.
Nulla risposi dal lato mio alle spiegazioni; notai bensì,
che i combattimenti necessarî per impadronirsi di Genova
portavano il principio di una guerra civile, che a tutti i costi
bisognava evitare.
Egli aggiunse:
«Non andrà né manco un colpo di fucile; le
truppe sono pronte, a quanto mi si scrive, di lasciare i forti
senza resistenza".
Gli feci osservare, che non doveva fidarsi troppo delle relazioni
che gli venivano dal di fuori; ed aggiungevo, che in qualunque
impresa ch'ei pensasse d'effettuare, bisognava riuscire
assolutamente.
Pochi dì dopo mi trovai con esso a pranzo dalla famiglia
dei signori Cranfort. In quest'occasione Mazzini mi diede il primo
l'idea di fare una breve narrazione intorno alla mia evasione,
intitolandola: Quindici mesi di prigione austriaca.
I miei amici di Genova mi avevano suggerito di scrivere delle
memorie; preferii il pensiero tuttavia di lui, perché
più adattato all'opportunità.
Così feci, e somministrai le note necessarie pel libretto:
Austrian dungeons in Italy.
In Londra seppi, che una commissione di consiglieri fu spedita
immantinente da Verona e da Vienna in Mantova, onde esaminare il
come io avessi potuto evadere.
Per ordine di questa furono messi agli arresti i secondini,
compreso il custode. Ella sottomise ad esami regolari i membri
della Corte Speciale di Giustizia, e per ultime risultanze
decretò:
1°) la rimozione del presidente Vicentini (credo fosse anche
destituito da qualunque altro impiego);
2°) la condanna, per mancata denunzia, a tre anni di carcere
duro, di que' due uomini, i quali si rifiutarono di soccorrermi
all'inchiesta che lor feci, quando mi trovava nella fossa.
Per ispiegare il qual fatto è a sapersi, che costoro, dopo
la mia evasione, andarono spacciando per Mantova di avermi veduto
e rifiutato il soccorso. La polizia li arrestò dicendo, che
lor dovere quello era di denunziarmi subito al vicino corpo di
guardia.
3°) la condanna a otto anni di carcere duro di Frizzi
mantovano, guardia carceraria, che serviva in tal qualità
da vent'anni.
Qual n'era il titolo o l'accusa? Di avermi cambiato del danaro: su
di che è mestieri che io venga esponendo la nuda
verità, acciocché veda il governo austriaco, se
merita conto di tenere un padre di famiglia a languire per
semplice imbecillità.
Negli ergastoli è proibito ai carcerati di comperare cose
da mangiare, tranne di formaggio, salame, ecc.; non si può
oltre a ciò fumare. Con tutte queste proibizioni
però i condannati non mancano di quanto desiderano(36). I
parenti e gli amici dànno del danaro alle guardie
carcerarie, e queste lo passano ai condannati, che sanno bene ove
nasconderlo. Serve a comperar del vitto e del vino, che i
secondini fanno pagare il doppio, mentre ne mangiano una buona
parte.
Sapendo io benissimo tutte queste usanze, un dì pregai il
Frizzi a cambiarmi in oro dei fiorini in carta per la somma di sei
o settecento franchi. Per trarlo a questo io aveva preso le mosse
da lungi: "Io ho molto danaro, che giammai si poté trovarmi
nelle perquisizioni di Vienna: se m'impiccano, lo darò a te
subito dopo la intimazione della sentenza; ove no, me lo
mangerò nell'ergastolo, ed in questo caso ne avrai la
metà tu stesso". Costui, a tali parole, fece come avrebbero
operato i suoi compagni, gente tutta avida del danaro, e disse:
"Mi dia il danaro che lo custodirò io stesso,
acciocché la non sia ora tradito da alcuno".
"Niente affatto" risposi io; "me lo devi invece cambiare in oro,
poiché adesso i fiorini sono alti; in compenso di che ti
darò cinque napoleoni d'oro."
Fatte alcune smorfie, prese dei fiorini per trecento franchi, e li
mandò a cambiare per mezzo di un giovane (l'amante di sua
moglie), che andava a pranzo da lui ogni dì; cambiato il
danaro, fu esatto nel portarmi il contante; vedendolo onesto, gli
diedi il rimanente dei fiorini, cui questa volta cambiò
egli medesimo.
La polizia, che sorveglia minutissimamente le azioni di ognuno,
seppe che il giovane da lui incaricato aveva cambiato per trecento
franchi di banconote austriache, e lo arrestò: a torsi
d'impaccio, egli compromise il Frizzi, dicendo che questi gli
aveva manifestato essere danaro di un signore del castello. A
questo il presidente del tribunale interrogò legalmente il
Frizzi, e lo minacciò di galera; ma indettato esattamente
da me rispose così: essere il danaro cambiato dei trecento
franchi il risparmio che aveva fatto in venti anni di servizio;
aver comperato i fiorini da un'ordinanza austriaca, quando erano
deprezzati, cioè nel principio della guerra di Oriente; non
conoscere l'ordinanza, la quale partì di Mantova col
cambiamento della guarnigione; aver detto al giovane che
cambiò il danaro, che apparteneva ad un signore del
castello, perché non amava che si sapesse possedere egli
del danaro in casa; cambiati i fiorini in oro, perché
essendo a quel momento assai alti di valuta, egli faceva un buon
guadagno; infine avere spesi in alcuni oggetti di casa varî
napoleoni d'oro, ma che ne aveva infatti un dodici che poteva
mostrare, ecc. A queste risposte date francamente alle domande
ch'io supponevo gli sarebbero, come furono, state fatte, il
presidente chinò il capo, e non seppe che dirsi.
D'altronde, Frizzi s'era sempre distinto per affezione al governo.
Impaurito il secondino del corso pericolo, si adirò col
giovane che aveva fatto il cambio, e lo cacciò di casa.
Questi incominciò dal canto suo a far ciarle contro di lui;
a dire che sua moglie era una donna d'assai, ecc. Avendomi
ciò detto il Frizzi, gl'imposi di finirla con tutti questi
discorsi, e gli diedi venti franchi, i quali facevano centoventi
cogli altri consegnatigli pel cambio.
Intanto egli mi andava segretamente comprando qualche bottiglia di
buon vino, che noi bevevamo insieme, e credeva sempre che quel
danaro ce lo saremmo mangiato a metà.
Non altro passò tra me e lui. Egli, imbecille - i
cospiratori notino bene questo fatto, che pone in chiaro i
precetti di Machiavelli al capo delle congiure - comunicò
tutto a sua moglie.
Avvenuta la mia evasione, furono perquisite tutte le guardie
carcerarie; e si trovarono al Frizzi alcuni napoleoni d'oro: il
che, unito ai precedenti del cambio scoperto dalla polizia e dal
presidente, bastò perché s'interrogasse di nuovo il
giovane, che portò il danaro al banchiere, e la moglie
stessa. La quale tutto sapendo dal marito, lo accusò
subito, dicendo che egli aveva cambiato per conto dell'Orsini da
seicento franchi. Frizzi non potendo negare, s'ebbe una condanna
di otto anni al carcere duro. Si noti, che la deposizione della
moglie è nulla presso qualunque legislazione.
4°) in ultima risultanza, la Commissione riconobbe per fatto
incontestabile, che io era uscito per un caso di audacia, segando
le sbarre di ferro. Dopo di che il governo pose alla pubblica asta
l'impresa di ricostruire le due ferriate vecchie, e riacconciare
la finestra; vendette i ferri tagliati, alcuni dei quali furono
comperi dai Mantovani, che li conservano come memoria del fatto
accaduto.
Trascorsi alcuni giorni, mi recai da Mazzini: era partito,
lasciando un vigliettino per me, ove diceva: "Conto su te".
In seguito alla conversazione avuta con lui, ritenni che fosse
andato a Genova pel movimento ideato. Tuttodì si aspettava
qualche cosa: sentimmo invece il passaggio nel Ducato di Modena
dal lato di Sarzana di sessanta individui, l'apatia degli abitanti
di Massa e Carrara, le recriminazioni dei varî partiti, e la
spedizione di trenta giovani sulle sponde toscane presso
Orbitello, la quale finì coll'arresto di loro.
Alcune conoscenze, che avevo in Inghilterra, mostrarono non
dubbî segni della loro simpatia ed amicizia pe' miei casi;
lo stesso fu per parte di Kossuth, che trattommi qual si conviene
ad un fratello.
Quanto agli Italiani, amici e nemici, fecero meco le meraviglie.
Furonvi poi i ciarloni e gl'invidiosi, dei quali purtroppo vi
è dovizia tra i fuorusciti. Costoro, se mi erano
indifferenti prima della evasione, divennero nemici poscia, per la
sola ragione, che la stampa inglese parlava con vantaggio delle
mie avventure, e che la pubblica opinione mi mostrava grande
simpatia. E la cosa andò tant'oltre, che alcuni miserabili
osarono fino a dire, ch'io m'era uscito quietamente per la porta
del castello di concerto coll'Austria.
Io non prendevo nota di codesti andari; ma sapendo che eglino pur
si aggiravano tra la emigrazione, bene accolti e stimati come
liberali, diceva meco stesso:
"E voglionsi degni di libertà? Costoro, mossi dalle
più basse passioni, saranno capaci di viversela quieti
sotto un reggimento, che deve prender norma dalla moralità,
dalla pubblica opinione, dal rispetto e amore reciproco? Oh!
quante volte saremmo pur tentati di dubitare, che in mezzo alla
presente corruzione degli animi, un reggimento a forma
repubblicana sia possibile a durare!"
In mezzo a tutto questo mi assalì una forte reazione
interna: agli accessi di febbre, che avevo avuto in Isvizzera, si
aggiungevano forti giramenti di capo, che mi mettevano in uno
stato di tristezza inesplicabile; cercava la solitudine; il rumore
mi dava fastidio, e fui obbligato di far uso di narcotici.
Dopo vita ritirata e assai regolare, incominciai di giorno in
giorno a star meglio.
Venne l'autunno, e quantunque non forte nella lingua inglese,
provai di tenere pubblici discorsi intorno all'Italia. Superate le
prime difficoltà, che s'incontrano nel parlare in pubblico
ed in idioma straniero, potei visitare quasi tutte le prime
città dell'Inghilterra. Dovunque esposi chiaramente lo
stato dell'Italia, e feci conoscere che la questione delle nostre
libertà era riposta nel papato; che bisognava cominciare
dal far cessare l'intervento straniero negli Stati Romani; che la
pubblica opinione degl'Inglesi doveva pronunziarsi contro la
occupazione degli Austriaci e Francesi nello Stato del papa.
In seguito ai miei discorsi, pubblicamente e unanimemente si
protestò contro tale intervento, e in South-Shields, il 29
ottobre del 1856, fu stabilito dagli uditori d'inviare una
petizione al Parlamento, acciocché pregasse Sua
Maestà d'intromettersi presso gli alleati per far cessare
l'intervento straniero negli Stati Romani.
Il presidente del meeting fu il Gonfaloniere, ossia Major della
città, signor Tommaso Stainton. L'esempio venne seguitato
da molte altre riunioni, fra le quali non è a tacersi
quella importante della città di Birmingham.
La stampa si mostrò dovunque favorevolissima, e il pubblico
inglese accolse le mie parole con entusiasmo, addimostrando
simpatia non comune per la causa degli Italiani.
Mentre Mazzini era in Italia, alcuni suoi amici inglesi
costituirono per di lui consiglio un Comitato: oggetto di questo
era di trovar danaro per la emancipazione italiana. Il segretario
del Comitato, un fabbricatore di birra, intimo amico di Mazzini, e
due signore facevano tutto; e, a dir vero, con molta
attività. Quanto al danaro ricevuto dagl'Inglesi, veniva
versato nella cassa di Mazzini, cui segretario e segretarie
risguardarono sempre come il capo della nazione italiana.
Avendo io incominciato a fare dei pubblici discorsi, fui richiesto
dai segretarî di scritturarmi, a guisa di cantante, come
lecturer, coll'obbligo di compartire metà dell'introito al
Comitato, e metà per me.
Rifiutai questo per tre ragioni:
1°) perché volevo essere indipendente;
2°) perché sapevo che il danaro andava a sostegno di
una fazione;
3°) perché si esigeva che io avessi sottoposti i miei
discorsi all'approvazione delle signore, e mi fossi fatto un
istrumento o portavoce delle idee altrui.
Tutto questo spiacque a Mazzini.
Furono scritturati in vece mia altri lecturers, i cui discorsi con
elogî sperticati comparvero nel giornale mazziniano di
Genova. S'incominciò allora a udire per l'Inghilterra: che
le madri italiane benediranno il nome di Mazzini nei tempi
avvenire; che dovrebbero farlo anche oggidì: che Mazzini
è un angelo disceso dal cielo, un nuovo Gesù Cristo,
il più gran genio degli ultimi secoli, e simili altre
stramberie.
Quanto a me, proseguii nell'esporre la vera questione italiana
agl'Inglesi, e non mi curai di questuare.
Vedendosi da Mazzini e compagni che il domandar danaro alla fine
dei discorsi o non incontrava o rapportava delle
meschinità, si pensò d'impadronirsi della mia idea,
cioè di chiedere agl'Inglesi una petizione da inviare al
governo, a fine di far cessare l'intervento straniero: e con
questo intendimento i due lecturers del Comitato fecero
nell'aprile un gran chiasso a New Castle on Thyne. Rinnovarono la
stessa cosa nella piccolissima città di Tombridge; e
poscia, avvicinandosi il momento dell'azione in Italia,
tralasciarono l'impresa.
I tentativi di Genova, Livorno e Sapri spiegano assai bene ove
fosse impiegato il danaro raccolto per l'emancipazione italiana.
D'allora in poi il Comitato cessò di vivere.
Essendo stato richiesto nelle private adunanze inglesi, qual cosa
avrebbero fatto gl'Italiani nel caso che insorgesse guerra tra il
Governo sardo e gli Austriaci, risposi sempre:
"Gl'Italiani sono padroni di fare quello che vogliono; quanto a
me, seguirò sempre quell'armata italiana che
combatterà gli Austriaci; e nel caso concreto, credo che
ogni patriota dovrebbe unirsi all'esercito sardo. I miei
principî inalterabili sono repubblicani; ma un individuo non
ha il diritto d'imporre le proprie opinioni alla nazione, e in
questa sola risiede la facoltà di decretare intorno alla
forma di reggimento politico. Servirò il governo sardo
quanto so e posso per la guerra italiana; e ove, dopo le battaglie
del trionfo, riesca incolume, ove i miei connazionali fossero per
decretare una forma monarchico-costituzionale, per debito di
onestà mi ritrarrei da ogni pubblico ufficio, ripugnandomi,
cessata la necessità patria, di servire un governo
contrario ai miei principî".
Alcuni si fecero un pregio di svisare quelle mie parole, e di
scriverle a Mazzini. E mentre mi stava in Blaydon-Burn, ricevetti
da lui una lettera, che ancor posseggo, e di cui trascrivo alcune
linee.
"...Rimanti dunque puro, e bada che - malgrado tutte le ciarle
possibili - nessuna iniziativa nazionale avrà mai luogo in
Italia fuorché da noi. Abbiti questo per consiglio. Sto in
mezzo a tutti elementi, e parlo fondatamente.
"Addio: siimi amico come io ti sono.
"14 ottobre.
"GIUSEPPE"
Gli risposi, che a nessuno avevo mai dato diritto di dubitare
delle mie opinioni.
Mi esprimeva oltre a ciò con termini di disprezzo intorno
di alcune signore straniere, e fra le altre della signora Emilia
Haw[kes](37), alla quale Mazzini non ebbe riguardo, siccome fece
con molte altre (e parimente col birraio James [Stansfeld](38)),
di comunicare tutti i negozi di congiura: e così le sorti
di tanti patrioti italiani furono mai sempre dipendenti dalla
discrezione di cinque o sei signore, la cui prima dote non fu al
certo quella del segreto. Dicevo infine, che nulla voleva aver che
fare con esse.
Il mio foglio, sigillato colla direzione a Mazzini, fu consegnato
al James [Stansfeld] ; questi disigillò la lettera, la
lesse, me la respinse, ed abusò del segreto contenutovi
manifestandolo alle signore.
Questo fatto, che mi rammentò la violazione delle lettere
dei patrioti italiani nel 1844 per opera di un altro James (voglio
intendere di sir James Graham), mi colmò di sdegno; vidi
che gl'intrighi, gli arbitrî avevano luogo nel seno stesso
della cospirazione, che si chiama liberale; conobbi che i destini
dell'Italia, se pure pendono questi da Mazzini, erano nelle mani
dell'intrigante James e della signora H[awkes]; che l'onore e
gl'interessi dei patrioti stavano in potere di queste due persone,
che ne fanno un mercato.
Volli allora cercare di porre un freno alla petulanza del birraio,
già venuto in uggia ai liberali dabbene, e gli scrissi in
termini forti. Gli dicevo, che ove pur fosse autorizzato da
Mazzini, siccome egli diceva, ad aprire le lettere a questo
dirette, egli non poteva far uso del contenuto delle medesime; che
se non voleva mantenersi nei limiti voluti dal dovere, avremmo ben
presto terminata la quistione nel Belgio; che a tale effetto io mi
recava in Londra, dove sarei stato quarantott'ore a sua
disposizione.
Così feci, ma egli non comparve: ricevetti invece una
lettera del Mazzini, il quale essendo tornato dall'Italia, voleva
che avessi scritto lettere di scusa alle signore e al James
[Stansfeld] che avevo sfidato a duello; si lamentava del
perché io sparlassi di quelle signore; diceva che ove non
mi fossi condotto a tal passo, non ci poteva essere più
contatto tra me e lui; che non poteva separare la politica dal
core; che gli dispiaceva assai, perché voleva proprio
propormi un fatto ardito davvero, ecc.
A tutto ciò risposi: che le opinioni manifestate sul conto
delle signore, le diceva a lui, a lui solo, e non ad altri; che mi
maravigliavo come ci confondesse la politica con esse; e come si
ritenesse in diritto di dar facoltà a un terzo, a uno
straniero, di aprir le lettere de' suoi intimi amici, e di
conoscerne i segreti e gl'interessi; che vedendo com'ei mescolasse
la politica colle personalità, io mi ritirava dalle
cospirazioni; che venendo però il giorno della riscossa
italiana, speravo che, quantunque non avessi stima delle signore
in proposito, i miei connazionali non mi avrebbero negato o
fiducia o un fucile per battermi contro gli Austriaci; e da ultimo
aggiungeva, che senza essere l'agente o di governi o di individui,
io era però sempre pronto a un fatto ardito; ma che questo
doveva essere per me l'ultimo. "Ne debbo uscire trionfante,"
aggiungeva "o ucciso; non ci vogliono per conseguente gli elementi
del fatto della Spezia, o quelli del Cantone Grigioni. Non voglio
diventare ridicolo."
Egli, in data del 17 novembre, rispondeva a quelle mie parole
così:
"Quanto alle allusioni che fai al passato, credo che tu giudichi
male com'essi giudicano: ma ciò non significa. Aiuta il
nostro paese come da coscienza ti detta; fo e farò io lo
stesso dal canto mio.
"Addio. GIUS. MAZZINI".
Le mie ragioni non valsero: il core l'ebbe vinta sulla politica;
non fuvvi più contatto fra me e lui; fui scomunicato. Si
sparsero per ogni dove voci di diffidenza e di calunnia contra di
me. Io me ne risi; e buoni patrioti, se si eccettuano le otto o
dieci gonnelle da cui sono circondati Mazzini, Campanella e Saffi,
se ne risero al pari di me.
Quantunque nella sua del 14 novembre dicesse altresì:
"Nessun moto s'inizierà (in Italia) in senso buono... senza
di me: il solo elemento capace di agire, gli uomini di fatti, il
popolo, non conoscono, a torto o a ragione, che me"; mi mantenni
libero, indipendente e fermo.
Seguitai, come se nulla fosse, a fare i pubblici discorsi
sull'Italia; e il 20 di maggio del 1857 pubblicavo le Mie Memorie,
adattandole al senso inglese, e dando qualche idea della
educazione e vita familiare usata in alcune provincie italiane.
Parlando di politica, dicevo che l'Italia manca oggidì di
un uomo, che per ingegno militare e politico possa, con isperanza
di trionfo, mettersi a capo della sua redenzione; che questi, il
Washington italiano, sorgerà dalle classi vergini della
società, perché l'Italia nelle prolungate e
importanti occasioni non mancò mai di grandi uomini; che
nessuno ha la simpatia universale degli Italiani, sicché al
presentarsi di lui si vogliano essi levare, nella convinzione che
li condurrebbe al trionfo della causa; che chi tiene il contrario,
scenda francamente nell'arena, e dia a vedere col fatto, che le
mie asserzioni sono bugiarde; dicevo che Mazzini, con tutto il suo
buon volere, non ha fatto sino ad ora che sacrificare inutilmente
delle vittime, ed insinuare disunioni tra i patrioti; da ultimo
ripetevo le mie parole di fede politica, di già
superiormente accennate.
Dall'esposto nelle Mie Memorie è chiaro:
1°) che i miei principî inalterabili sono repubblicani;
2°) ch'io distinguo l'uomo - Mazzini - dal principio, e dalla
causa italiana;
3°) che allo scioglimento del Comitato nazionale italiano i
mazziniani rappresentarono una fazione e non già il partito
nazionale;
4°) che seguitai Mazzini, perché ritenni che la nazione
lo risguardasse come capo della rivoluzione, e che possedesse i
mezzi morali e materiali per farla insorgere;
5°) che convinto per prolungata esperienza del contrario, lo
lasciai;
6°) che sono pronto a seguire indistintamente quel governo
(purché non papa o stranieri), o quell'individuo, che con
efficacia e potenza di mezzi imprenda la guerra della
libertà.
Questi sono i pensieri politici delle Mie Memorie; ora li confermo
pienissimamente, ed aggiungo, che quando dico mazziniano, non
intendo già di chi segue il principio dell'azione da lui
predicata (perché è appunto mia opinione di dover
sempre agire), ma sibbene di coloro che ciecamente si fanno di lui
strumenti; di coloro che adottano tutte le formole, e parole, e
massime del suo sistema; che si fanno intolleranti, e maledicono
chiunque nutre in petto opinioni diverse.
Dacché conobbi col fatto, che alla sua volontà
sarebbe capace di posporre la salute del paese; dacché
conobbi in esso il despota dell'idea, del capriccio,
dell'infallibilità; che buono o cattivo, giusto o ingiusto,
eran tutt'uno, purché al suo volere servissero: travidi in
lui un essere paragonabile all'attuale Napoleone.
Mi volsi addietro, ragionai, posi ad esame i suoi scritti, i suoi
principî e le sue azioni considerate sotto il rapporto
politico.
Nel novembre io gli aveva scritto, che men sarei d'ora innanzi
vissuto lungi da qualunque maneggio politico e cospiratorio; ma
dopo l'esame coscienzioso, sentii che potevo e dovevo continuare a
rendere servigî alla nostra causa, là dove le mie
facoltà concedessero; sentii che la sua esclusiva azione
politica era dannosa all'Italia; spiegai a me stesso il come a
poco a poco i migliori patrioti si fossero ritirati da lui; osai
alzare la mia, benché debole, voce; porre in moto le mie
forze; confortare coloro che ragionano a non istarsi più
nella disunione; incominciai a far distinguere un caposetta dalla
nazione, i mazziniani dagl'Italiani.
D'allora in poi sono fatto segno a tutto che si può
inventare di più calunnioso e abbietto, per mezzo de' suoi
satelliti.
Ma a me non monta: la verità si fa già strada di
mezzo ai miei connazionali. Che se mai corressi pericolo della
persona, nell'arringo pel quale io mi son messo, e nel quale ho
giurato persistere; se mai da qualche occulta mano si attentasse
alla mia esistenza, sappiasi che io vi sono pronto.
Considerando Mazzini come privato, facendo astrazione dalla sfera
politica, nutro tuttora sensi di benevolenza pel mio vecchio
camerata di cospirazione; ma quando dico di essergli amico, non
intendo di starmi servo di lui. La natura diemmi intelletto,
libertà e indipendenza di volere; e sino a che rimarrommi
in senno, voglio usarne a piacimento.
Egli dovrebbe tenersi onorato di tali consorti, e coprire invece
del massimo disprezzo coloro che gli sussurrano la parola del
cortigiano, del vile e dell'adoratore. Uomo è, e superiore
a molti per ingegno; ma questa sua dote volga a reale benefizio
dei suoi simili, e non si tenga autorizzato a disprezzarli, a
considerarli come macchine. Nessuno ha diritto di sprezzare
l'umanità.
Io me gli serbo amico, ma quando pronunzio questo sacro nome, non
intendo già di estenderlo egualmente a tutti i suoi
confratelli; tra' quali, se n'ha degli ottimi, e' n'ha pur de'
pessimi, e questi sono i più, degli intriganti, dei
malfattori, dei calunniatori.
Ove egli non la intenda così, io non so che mi fare della
sua amicizia, e la ricuso, come cosa che altamente mi nuoce e mi
pesa.
Quantunque non abbia preso parte agli ultimi eventi di Genova, di
Livorno, di Napoli; quantunque siano stati lì lì per
inaugurare una guerra fraterna; quantunque miserabilmente
incominciati e finiti; quantunque, nonostante ventisei anni di
esperienza, abbia mancato a quella legge, che dice: "Doversi
concentrare i maggiori sforzi contro il solo punto importante"; io
taccio, e non mi lascio sfuggire una parola di biasimo intorno
all'uomo travolto al basso, e giacente sotto il peso di una cieca
reazione. Io mi so bene per fatto proprio, quanti e quali
accidenti facciano dare il rovescio ai meglio concepiti disegni e
progetti, per non lasciarmi ire alla impazzata nei giudizî.
Se mi sono permesso delle osservazioni intorno a' fatti passati, e
alle sue idee, al suo senso pratico, e alla sua disposizione
all'assolutismo, il feci, perché l'amicizia deve cedere al
cospetto della salute della patria, e della causa repubblicana;
perché la verità sola può salvarci;
perché è un delitto trarre in inganno le menti
giovanili dei nostri connazionali, in cui sono riposte le speranze
dell'Italia; perché le adulazioni sono indegne degli uomini
liberi.
Sappia d'ora innanzi, che come non vuolsi dispotismo monarchico o
imperiale, non vuolsi né manco dispotismo cospiratorio, o
sedicente repubblicano.
Sappia, che ove non ci rispettiamo fra noi stessi, e non ci
serbiamo a vicenda nei termini voluti dalla libertà e
indipendenza individuale, saremo mai sempre pronti a curvare la
cervice a un dittatore, a un novello papa, o ad un imperatore;
sappia egli infine, che noi vogliamo la discussione in tutto, e
che non ce ne passeremo mai, se non dove si trovi un genio della
guerra, della cospirazione: la qual cosa, anziché dar segno
di servilismo, sarà una stima giusta del merito, della
capacità, e un omaggio reso alla causa italiana.
CAPITOLO TREDICESIMO
Ora quali sono le speranze degl'Italiani? Quali gli elementi per
la redenzione loro? Che sono eglino, e qual n'è lo stato
morale? Quali uomini ha il partito costituzionale? Quali il
repubblicano? Qual è lo stato dell'Europa, considerato
moralmente e politicamente? Deve l'Italia ripromettersi assistenza
dal lato dei governi interni ed esterni, o lo può solo
dalle nazioni, e dalla parte liberale e repubblicana dei popoli?
La soluzione di questi problemi sta nella esplicazione delle
parole: Indipendenza nazionale - Unità - Libertà -
Governo: termini, a cui dalle menti giovanili degl'Italiani quasi
generalmente si associano idee assai confuse, grazie alle ciarle
di tanti riformatori o capisetta, che abbiamo avuto.
Si ha per indipendente una nazione, quando nel governo di
sé stessa, nello svolgimento delle instituzioni civili e
politiche a lei adatte, nel prefiggere e regolare i rapporti cogli
altri popoli, è pienamente libera; o a parlare più
chiaramente, quando ella è padrona in casa sua, e
può anche volere - senza che uno straniero qualunque possa
influenzarla - libertà o tirannide.
Alla invasione dei popoli settentrionali noi divenimmo servi;
colla cacciata del Barbarossa riacquistammo la indipendenza;
all'incoronamento di Carlo V e alla caduta della repubblica di
Firenze, la riperdemmo.
Sullo scorcio del secolo passato gli stranieri, propriamente
parlando, non possedevano che la Lombardia, e i governi italiani
disimpegnavano indipendenti l'esercizio della sovranità
loro.
Venuta la rivoluzione francese colle promesse di rigenerazione, ci
levammo per farci liberi e indipendenti; ma essendoci la
libertà porta da mani straniere, finimmo per cadere in una
servitù peggiore di prima.
Col trattato di Vienna i principi italiani divennero
indistintamente altrettanti proconsoli dell'Austria; e scomparve
lo stesso nome di libertà, che pur si pronunziava sulle
rive di Venezia e di Genova.
Dal 1849 in poi questo stato di politica interna ha avuto una
modificazione nel Piemonte.
Sonosi cambiati principî e uomini, havvi il regime
costituzionale, e a un vecchio e fedele proconsole dell'Austria -
Carlo Alberto - è succeduto un altro re, non macchiato
però dei delitti del padre, e inaugurante una nuova
êra.
Posto che il governo sardo sia pienamente libero - che non
è, e nol può essere - l'Italia rimane però
sempre dipendente, e più di venti milioni dei suoi figli
sono ridotti a languire nelle miserie della schiavitù.
Sì, finché uno straniero è militarmente
stabilito in Italia, noi siamo servi; i nostri migliori prodotti,
le nostre ricchezze, i nostri soldati convergono a Vienna; le
donne italiane non sono nostre, ma dello straniero e dei suoi
sgherri; il bastone può da questi essere usato a
piacimento; la vergogna, la nullità stanno scritte
sull'alto dei monumenti, che i nostri avi una volta edificavano
per indicare invece la gloria, la grandezza, la potenza, la
indipendenza e la libertà.
La questione italiana è duplice: d'indipendenza, e di
libertà insieme.
Può la prima stare senza la seconda? E rispondo del
sì.
Senza risalire ad esempî antichi, gettiamo uno sguardo alla
Francia di oggi: essa non solo è indipendente, ma la sua
politica serve di norma a tutti gli altri potentati europei. Or
bene, è ella libera internamente? Bisognerebbe essere
ciechi o pazzi per crederlo. Ella si trova in uno stato sì
abbietto, ella è sotto tale un dispotismo, che a pensarvi
si pone in dubbio se siano Russi o Francesi, che popolano le rive
della Senna.
Può egli aversi libertà senza indipendenza? E
rispondo del no. E tanto evidente credo sia questa proposizione,
che stimo inutile di discuterla.
Discorriamo per ora della indipendenza.
Può questa venirci da un governo italiano? Da un monarca,
che abbia in mira soltanto la propria ambizione, e gli interessi
di sua casa regale?
Che un re italiano sia a ciò disposto, non è
impossibile: Carlo Alberto il dimostrò; e l'attuale suo
figlio lascia travedere, che non sarebbe alieno dal ritentarne la
prova.
Ammessa per vera questa supposizione, avrà egli poi i mezzi
di conquistare realmente l'indipendenza alla nazione? Gl'Italiani
accorreranno tutti a dargli mano per sostenerlo? I potentati
europei lo lasceranno eglino fare?
Quanto ai due primi punti, non dubito. Il valore dell'esercito
italiano del Piemonte è stato messo alla prova anche in
Crimea; ed è a ritenersi per certo, che al cospetto degli
Austriaci li metterebbe ben presto in fuga.
E gl'Italiani, dopo le lezioni del 1848, anziché starsene a
discutere sul principio governativo, o sulla città capitale
dell'Italia, si aggrupperebbero tutti all'esercito combattente.
Venendo al terzo punto, io dico, che se dobbiamo formarci un
criterio dalla politica tenuta dal 1815 in poi dai potentati
esteri, siamo autorizzati a credere, ch'eglino non permetteranno
mai che l'Italia si faccia nazione indipendente.
Può nullameno sorgere all'improvviso un fatto che ci dia
facoltà d'incominciare di concerto con un governo italiano
la guerra d'indipendenza; e questo verrebbe appunto a sciogliere
la quistione diplomatica. Ma perché una nuova occasione non
vada perduta, come quella del 1848, egli è necessario di
stare bene preparati.
Ora una domanda: possiamo noi, senza il concorso di un esercito
organizzato e compatto, cacciare gli Austriaci?
No, a meno che i soldati italiani, gettando a terra gli attuali
governi, non facessero causa comune coi cittadini, o che
gl'Italiani tutti fossero pronti di fare quanto operarono gli
Spagnoli contro Napoleone il Grande.
La nazione italiana è essa pronta a ciò?
Io ne dubito; dico anzi, che il crederlo sarebbe un disconoscere
le condizioni reali della penisola.
Ma può darsi che tutti i popoli dell'Europa si levino per
la causa della repubblica e della solidarietà delle
nazioni. Questo appunto avverrà; ed allora soltanto potremo
sperare davvero di essere fatti indipendenti e liberi.
Noi ci avviamo alla grande epoca, che porterà la luce della
libertà a tutti i popoli dell'Europa; che farà
scomparire i tre elementi ereditati dal dispotismo dei Romani, dei
barbari del Medio Evo, e della Chiesa: vale a dire l'impero, la
monarchia, il cattolicismo, per lasciarvi solo quelli che sono
basati sulla perfetta uguaglianza dei diritti dell'uomo; meta a
cui ci approssimiamo celeremente, non ostante l'apparente trionfo
del dispotismo; fine a cui tende la società con tutte le
sue forze, senza che la mano o dei partiti, o dei governi, o dei
profeti, o degli utopisti abbia il potere di porvi ostacolo.
E a tal fatto siamo forse più vicini di quanto non si
crede.
Quando l'assetto politico di uno stato non ha fondamento nelle
instituzioni del popolo; quando non è basato nella
soddisfazione dei bisogni dei più; quando non ha radice
negli animi, la sua vita è precaria. Tutto dipende
dall'uomo, che ne regge il sistema, la macchina, l'edifizio.
Ciò ch'io affermo di uno stato, è applicabile
all'Europa.
Che non avvenne alla caduta di Carlo Magno?
Tutto si sfasciò.
Che, alla caduta di Napoleone il Grande?
E popoli e governi tornarono là, dove le nazionalità
li spingevano; là ove gl'interessi dinastici e monarchici
richiedevano.
Ma oggi nuovi fatti hanno messo radice, che pur vogliono
soddisfazione.
Dal 1815 in poi, letteratura, scienze fisiche e sociali, vapori,
strade ferrate, telegrafi, hanno dato in pochi anni tale un
impulso alla società, che le nazioni si sono riconosciute
sorelle le une con le altre; che nuovi interessi e bisogni si sono
creati.
A questi si tratta oggi di dare pieno svolgimento.
Nel 1848 i popoli già si scuotevano con tale scopo, quando
apparve Luigi Napoleone. Egli, collegatosi colle classi
interessate al vecchio ordine di cose, profittò degli
errori delle nazioni, e arrestò momentaneamente il
progresso della causa.
Egli è quel desso, che oggi appunto sorregge l'attuale
assetto politico dell'Europa, basato sulla forza, sul despotismo,
e tutti i sovrani fanno capo a lui.
Questo sistema è artifiziale; pende dalla vita di un uomo,
che tiene compressa con una mano di ferro l'Europa intiera. Lui
caduto, che avverrà? Le conseguenze debbono al certo
prevedersi terribili; perché, al solo pensiero che tale un
fatto possa accadere, tutti i monarchi tremano, tutti i reazionari
impallidiscono.
Ma quali sono le disposizioni reali dei popoli di Europa? Di
levarsi al cadere di lui; di darsi l'un l'altro la mano; di
mettere in atto ciò che vuole la solidarietà delle
nazioni.
Questi andari sono essi noti a Luigi Napoleone? Certo che
sì, e lo son pure a tutti i despoti, i quali stanno pronti
a schiacciare qualunque moto repubblicano, che insorga o in
Italia, o in qualunque altra parte dell'Europa.
Da queste considerazioni possiamo stabilire i seguenti tre fatti:
1°) essere stupidaggine di tentare in Italia dei meschini moti
repubblicani di cinquanta, di cento, di duecento individui.
Perché fossevi speranza di riuscita, bisognerebbe che
Italia, come un sol uomo (ciò che non è possibile),
si levasse tutta a un tratto; la qual cosa darebbe forse animo ai
Parigini di rovesciare il loro tiranno;
2°) non potere l'Italia aver libertà lata e vera, che
nel rinnovamento sociale di tutta Europa;
3°) la libertà italiana non poter avere stabile
guarentigia, che nella solidarietà delle nazioni.
Ciò posto, debbesi egli attendere che un governo italiano
imprenda la guerra dell'indipendenza, o meglio, che le nazioni si
levino per la libertà europea?
Dobbiamo aspettare operando, prepararci attivamente, profittare
delle modiche libertà del Piemonte, per ispargere nelle
vicine contrade, soggette al dispotismo, i lumi, i mezzi di
propaganda rivoluzionaria; dobbiamo conoscerci e intenderci
all'estero coi principali e più distinti cittadini delle
altre nazioni, onde al momento dato sapere in qual modo ci
dobbiamo aiutare.
E perché voi, giovani italiani, possiate più
agevolmente concepire in che consister deve questo prepararci
attivamente alla rivoluzione, mi faccio a descrivere che cosa noi
siamo oggigiorno, e quale è lo stato dei partiti che
dividono l'Italia.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Che cosa fossero gl'Italiani, prima e durante l'impero romano,
è assai noto; né fia mestieri che mi faccia qui a
dipingerne la virtù civile e militare, la politica
saggezza, e l'eroismo che li fece padroni del mondo conosciuto.
Come la repubblica fu uccisa, la società romana si fece a
poco a poco decrepita; e carca d'oro, e sprofondata nelle
più raffinate lascivie, diè cittadinanza e armi agli
stranieri; sì che questi s'impadronirono della somma delle
cose governative, e coi loro fratelli del settentrione europeo
ricuoprirono di barbarie le provincie italo-romane.
Col procedere dei secoli, il sangue italiano riacquistò
forza e spirito d'individuale indipendenza; il quale, unito
all'elemento municipale, rimasto sempre in vita, diè
nascimento all'ardente amore di libertà, che smosse tutte
le passioni del cuore umano, agitò da un punto all'altro le
città italiane, diede origine alle repubbliche del medio
evo, e fu cagione che si schiudesse una nuova epoca di glorie per
gl'Italiani; epoca a cui l'Europa va debitrice della
civiltà, delle arti, letteratura, industria e commercio.
Ma a que' tempi di nuove grandezze italiane, v'era libertà
vera? No.
L'essenza della libertà consiste nella manifestazione e
simultaneo soddisfacimento ed azione di tutti gli interessi,
diritti e poteri; nel tornaconto generale di tutti gli esseri
ragionevoli, di tutti gli elementi che costituiscono la
società. Vuolsi quindi esclusione della monarchia,
oligarchia, democrazia, teocrazia; parole indicanti governi
parziali, governi di caste o, per meglio dire, di fazioni.
Or bene, che avveniva in quell'epoca? Vedevi disuguaglianza
dovunque: atti dispotici dal lato del popolo e dei nobili;
democrazia in Toscana, oligarchia a Venezia, teocrazia a Roma,
monarchia feudale a Torino, ecc.
La libertà vera mancava; e la sicurezza individuale, uno
dei primi elementi di essa, era un sogno. Da ciò lotte,
uccisioni, guerre civili e tumulti; cose tutte che perpetuarono le
divisioni, indebolirono le repubbliche e fecero strada agli
stranieri, che d'ogni dove allagarono le nostre contrade.
Alla perdita dell'indipendenza tenne dietro un nuovo e ben funesto
fatto; quello cioè dell'imbastardimento dell'indole e del
carattere distintivo della nazione. Se al venire dei barbari del
settentrione la nostra natura venne rattemprata, allo stabilimento
degli stranieri nel 1500 essa cadde nello snervamento. Di attivi
divenimmo indolenti; di modesti, fastosi; di ricchi, poveri. Il
commercio e l'industria se ne andarono nelle regioni straniere.
L'influenza spagnuola spense ogni germe di virtù, ogni lume
di civile sapienza e moderanza. La boria e la inerzia presero
radice, e gli animi s'infiacchirono atteggiandosi a quel dolce far
niente, che ancora oggi serve, a nostra vergogna, per indicare
gl'Italiani.
Ed ora, mentre sto scrivendo, siamo noi sgombri di questi
vizî ereditati dallo straniero? Ci possiamo noi chiamare
davvero Italiani? Quali tratti abbiamo noi che ci dicano
discendenti di coloro, che a Pontida dimenticavano le reciproche
offese, e tutti concordi volavano alla guerra contro lo straniero?
Quali, che facciano manifesto esser noi figli della terra che
diede un Ferruccio?
La lingua e non altro.
"Noi ci leveremo ad un momento dato, noi faremo allora vedere, che
Italiani siamo e di nome e di cuore" sento rispondermi.
Ma ove i vostri petti siano fiacchi e molli, ove non siate
abituati già alla virtù, non potrete metterla ad
effetto tutto ad un tratto.
"Dobbiamo noi dunque disperare?" Certo che no.
La gran massa della nazione - gli agricoltori, il popolo e la
gioventù, che sta crescendo - è pura, e contiene il
germe dell'eroismo e della virtù; ma perché questo
abbia pieno lo svolgimento, perché non venga schiacciato o
dalle fazioni o dal dispotismo, perché possa crescere
rigogliosamente, egli è mestieri che togliate i
pregiudizî e la ignoranza, i quali, a guisa di gelo, ne
comprimono e annientano i primi moti di vegetazione.
Ma ponendo da banda le adulazioni, e parlandoci gli accenti che a
uomini liberi si convengono, siete voi adatti ad educare le masse
popolari?
Per poter ciò fare, incominciate ad essere Italiani voi
stessi.
E che dovete fare per toccar il nobile intento?
Incominciate dall'essere fratelli; incominciate a rispettarvi l'un
l'altro; a deporre la parola, che ad ogni piè sospinto
avete pronta, della maldicenza; a non immischiarvi di ciò
che spetta al santuario domestico, di ciò che costituisce
la libertà e sicurezza individuale dell'uomo; imparate a
rispettare la donna dell'amico, la sorella o la figlia di chi vi
professa sentimenti di amistà; siate onesti. Deponete ogni
elemento, che può dare indizio di fiacchezza e codardia
d'animo; lasciate i convegni di ozio per darvi ad una vita attiva
e studiosa. Sappiate vivere indipendenti l'un dall'altro, e
cancellate ed abborrite la parola di servo. E quando dico questo,
non intendo già solo della servitù, che sul collo vi
è tenuta dai dispotici governi, ma sibbene di quella che si
contrae adorando il nome di un uomo, di un individuo; di quella
servitù, che dà origine o ad una religione, o al
dispotismo, o alle fazioni. Nella vostra condotta abbiate sempre
dinanzi a voi la ragione, adorate un principio, sacrificate il
vostro benessere e la vita pel trionfo di quello; ma non servite
la persona, sotto pena di essere classificati tra coloro che
portano un'insegna del monarca, una divisa o livrea del padrone, o
un appellativo del caposetta o fazione che vi tiene in soldo.
Ne' tempi andati foste lacerati e divisi dai Guelfi e Ghibellini,
dai Bianchi e Neri, dai Palleschi, Sforzeschi, ecc.; negli odierni
da Papisti, Murattiani, Mazziniani, ed altrettali miserie.
Che questa ignominiosa moda segua l'ignorante, il superstizioso, o
l'anima vendereccia, verso de' santi, de' profeti, o verso i
pretendenti al dispotismo, sta bene; ma che lo stesso vedasi in
uomini, che aspirano a libertà e ad indipendenza, in esseri
che diconsi repubblicani, italiani, razionali,
rivoluzionarî, egli è un incomportabile vitupero.
E quando mai verrà tempo, che ci spoglieremo affatto di
ogni traccia lasciataci dalla corruzione servile? Quando mai ci
chiameremo italiani, repubblicani, UOMINI insomma?
Associatevi a chi ha i talenti e mezzi necessari per condurre al
trionfo la causa della libertà, ma serbate intatta la
volontà propria.
Quando obbedite al generale, obbedite alla scienza e al genio,
soddisfate al dovere di cittadino, e non servite l'uomo:
all'indomane siete posti sotto i comandi di un altro. Il primo
muore o ha dato in fallo; e che perciò? La causa
sarà perita? O mossi da spirito di servilismo e di fazione,
correrete dietro al generale in disgrazia, alla incapacità
rimossa, al merito sventurato? E preferirete così, che la
discordia s'introduca tra di voi altri? E diserterete la bandiera
della volontà nazionale?
Se volete essere Italiani e repubblicani, se volete avere
libertà intellettuale, libertà religiosa,
libertà politica, libertà civile, incominciate a
essere indipendenti nell'intimo del vostro cuore; a ripudiare il
dispotismo, sotto cui alcune individualità vorrebbero
aggiogarvi: incominciate ad abituarvi alla libertà e alla
indipendenza negli affetti, tra le famiglie, tra le cospirazioni,
tra voi stessi.
A scorta dei vostri pensieri e delle vostre azioni, abbiate mai
sempre la fierezza e dignità personale, la concordia e
l'unità.
Quelli che tra voi non si sentono capaci di mettersi nella via
richiesta dal dovere, cessino di gracidare; lascino una volta di
rintronare le orecchie a tutta Europa colle parole d'indipendenza
e di libertà, e, si rassegnino al nome di codardi e di
servi.
CAPITOLO QUINDICESIMO
Divenuti che siate Italiani, dovrete stendere la mano al fratello
agricoltore, e all'uomo che si acquista un pane a forza di
costante fatica. Gli insegnerete:
1°) che Dio ci ha creati tutti uguali, e che niuno ha per
conseguenza diritto di soprastare agli altri;
2°) che si hanno doveri verso l'Ente supremo, verso sé
stessi, verso gli altri, verso la patria, che ci dà
protezione e aiuto;
3°) che dobbiamo fare ciò che è buono, pel
sentimento di giustizia, che portiamo nel nostro cuore scolpito,
sino da che veniamo alla luce del mondo, e non già per tema
di pene, che minaccino le leggi umane o divine;
4°) che l'uomo deve procacciarsi col lavoro il modo di vivere
indipendente, e di dare onesta educazione ai suoi figli: la
indipendenza individuale è il principio della
libertà;
5°) che la dignità, l'onoratezza, il fare ciò
che è giusto costituiscono l'uomo dabbene; che l'ozio e il
vizio fanno invece il malvagio;
6°) che l'ozio e i vizî partoriscono la miseria; questa
dà origine all'ignoranza; e l'ignoranza produce i delitti,
e costituisce il più valido fondamento alla tirannide;
7°) che la virtù vera non consiste già solo in
una bella azione operata in un momento dato, ma nell'incessante
soddisfacimento dei proprî doveri, delle piccole e
giornaliere virtù, come avviene dell'uomo, che sotto
modeste vesti lavora da mattina a sera, e stassi contento di poter
procacciare alla sua famigliuola un modico pane e saggi
principî di educazione;
8°) che per esser liberi nelle nostre azioni è
necessario che la patria sia pure indipendente e libera; che
questa è l'Italia; che sino a che avremo Papa, e Francesi,
e Austriaci, o qualunque altro straniero in casa nostra, noi siamo
schiavi, ed eglino i padroni;
9°) che il primo, primissimo dovere degl'Italiani è
quello di farsi indipendenti, di cacciare gli stranieri;
10°) che tra Dio e la creatura umana sonvi dei rapporti, nei
quali non ha diritto d'intromettersi né la società,
né il governo, né un individuo qualunque; che l'uomo
è libero nell'adorare Iddio; che tra sé e lui havvi
la propria coscienza, il cuore e l'intelletto, i quali
direttamente corrispondono con lui;
11°) che la istituzione dei preti non è necessaria per
adorare Iddio, né al benessere della società;
12°) che il governo di una nazione deve ridursi ad una suprema
magistratura amministrativa, ad oggetto:
a) che la sicurezza personale sia in pieno vigore;
b) che i diritti di ognuno abbiano libero e compiuto sviluppo;
c) che a norma degli interessi particolari presieda costantemente
l'equa legge del tornaconto generale;
d) che il commercio, e le scienze, e le istituzioni civili siano
in continua attività e progresso;
13°) che il diritto divino, su cui stanno poggiati i troni,
è una invenzione del dispotismo;
14°) che vi è dispotismo ove havvi servitù; che
siamo servi, quando non siamo liberi di noi stessi;
15°) che le armate stanziali sono i più validi appoggi
del dispotismo;
16°) che ogni cittadino dev'essere all'uopo un soldato, pronto
a difendere la patria e la famiglia;
17°) che le nazioni debbono considerarsi come tante famiglie,
e che nessuna ha diritto di comandare o soprastare alle altre;
18°) che la vera libertà italiana non potrà
conquistarsi, sino a che le altre nazioni non siano nella medesima
via; né avere solida guarentigia, sino a che l'Europa sia
del tutto libera.
CAPITOLO SEDICESIMO
Veniamo ora a dire dei partiti, in cui è divisa l'Italia.
Questi si possono classificare come segue:
PRIMA CATEGORIA
Costituzionali } Vogliono la
indipendenza sotto uno o più principi italiani.
Confederati
Assolutisti
SECONDA CATEGORIA
Costituzionali } Pronti a
darsi a dinastie e principi stranieri.
Confederati
Assolutisti
TERZA CATEGORIA
39
seguaci del nuovo Maometto
Il partito dei costituzionali e confederati con principi italiani
è oggi il più forte; è rappresentato dalla
Monarchia Sarda, che ha uomini assai distinti nella milizia e
nella politica; che mantiene instituzioni libere, compatibili con
un reggimento costituzionale; che ha l'appoggio morale della
maggior parte dei ricchi e colti Italiani(40); che possiede uno
dei meglio organizzati eserciti dell'Europa.
Fra i militari di vaglia si distinguono i generali Lamarmora e
Cialdini, e tra gli uomini di Stato, il conte di Cavour, il quale
eccelle fra i primi non solo dell'Italia, ma dell'Europa stessa.
Quanto agli assolutisti, il loro numero è meschinissimo;
perché quelli che realmente portano tal nome, per la
ragione stessa che vogliono l'assolutismo, hanno necessità
di appoggiarsi sullo straniero. Dunque sono a riporsi coi nemici
della libertà.
I partiti della seconda categoria debbono considerarsi costituiti
da traditori; perché traditore della patria è
appunto chi cospira a introdurre nuovi stranieri in casa propria.
Fra questi i principali sono i Murattisti, i quali grande
propaganda hanno fatto nel reame di Napoli. E qui cade in acconcio
di dire, essere stretto dovere di combatterli, non altrimenti che
si farebbe degli Austriaci.
Ora ai partiti della terza categoria.
Prima del 6 febbraio 1853, costituivano, benché
essenzialmente differenti nel loro principio, un solo partito;
dopo quell'epoca si divisero in due; al che diede cagione il
dispotismo, che volle mai sempre esercitare Mazzini.
I repubblicani puri, i soli logici, partendo dall'uguaglianza di
diritti e doveri dell'uomo, stabiliscono:
1°) che la religione fa parte dell'individuo, e non deve esser
soggetta all'azione del governo o della società;
2°) che il governo deve essere semplice magistratura
amministrativa.
Donde conseguita:
1°) esclusione di qualunque casta;
2°) legislazione semplice, basata sulla soddisfazione
degl'interessi di tutti;
3°) amministrazione governativa saggia, giusta, energica;
4°) educazione civile e morale degli animi, nobile, elevata, e
conforme alla dignità dell'essere pensante;
5°) distruzione delle armate stanziali;
6°) equa distribuzione delle imposte, necessarie a sostenere
le spese per l'andamento della macchina amministrativa, tra coloro
che hanno e che posseggono;
7°) unità di leggi, di moneta, di misure;
8°) l'autorità dei singoli municipî lasciata nel
massimo di latitudine, per ciò che concerne interessi
puramente locali; sottomissione in tutto che spetta al benessere
generale, che rafforza l'unità morale della nazione, che
accresce la potenza e la forza nazionale al di fuori;
9°) l'unità politica rappresentare la possanza, la
grandezza nazionale; il capo, il centro, per così dire, con
cui trattano le altre nazioni intorno alle relazioni
internazionali. Al di fuori essa è tutto: la sua legge di
azione esser debbe basata sulla giustizia, sulla fede nei
trattati, sul far rispettare anche colle armi la dignità,
la indipendenza, la libertà della propria nazione. Quanto
all'interno, dover mischiarsi il meno che può: in sua vece
la unità morale aver ad essere onnipotente; la quale viene
costituita da comunanza e identità nell'origine, nelle
idee, nelle costumanze, nella lingua, nella letteratura, nel genio
particolare della nazione(41).
Quanto alle norme di azione preparativa alla rivoluzione, che deve
attuare questi principî, sono:
1°) d'illuminare le masse popolari, di tenerle preparate per
la lotta della libertà europea, di profittare delle
libertà del Piemonte ad oggetto di conoscersi, intendersi
coi fuorusciti dei varî stati italiani; di spandere nelle
vicine contrade dottrine sulla libertà dell'uomo, sulla
religione, sul governo dei popoli;
2°) di fare la rivoluzione morale prima della materiale, non
intendendo però di sottomettere la prima come estremo
necessario per avere la seconda, perché dov'è
dispotismo, riesce impossibile d'insinuare dottrine riformatrici;
di proseguire adunque in quella via, sino a che od una guerra
d'indipendenza, od una rivoluzione a Parigi, o un evento grande
qualunque, possano chiamare con efficacia alla lotta democratica i
popoli italiani;
3°) di non tentare con trenta o cento uomini delle spedizioni
in regioni, i cui abitanti non conoscono cosa sia indipendenza e
repubblica;
4°) di combattere unanimi contro lo straniero, sotto anche la
bandiera monarchica costituzionale di Sardegna, perché
l'indipendenza è il primo gradino per salire alla
libertà;
5°) per ultimo, di dare appoggio più che si può
alle libertà piemontesi, come quelle che dànno asilo
ai fuorusciti degli altri stati italiani, occasione facile di
stare in rapporto coll'interno delle altre provincie, e che
rappresentano all'estero dignitosamente l'Italia.
Quali sono gli uomini, che costituiscono il partito dei
repubblicani puri? Tutti coloro che hanno volontà propria,
e che seguono la ragione.
E venendo al concreto, non credo di errare, se dovendo nominare
alcuno, metto tra i primi i generali Garibaldi e Roselli; i
colonnelli Ribotti, Cosenz, Boldoni, Carrano, Medici, Pasi; i
maggiori Giuseppe Fontana, Pietro Balzani, Pieri; e Vincenzo
Caldesi, Ausonio Franchi, Mauro Macchi, Enrico Cernuschi,
Montecchi, Dall'Ongaro, Filoppanti, e tantissimi altri, che
sarebbe troppo lungo il noverare.
Ora dei repubblicani Mazziniani.
I principî di questi sono simboleggiati nella formola e nei
pensieri tutti del loro capo.
Dio e popolo, Umanità, Fede, Religione, Concilio, Unione
del potere spirituale e temporale, sono i termini che s'incontrano
ad ogni frase negli scritti della Giovine Italia, dell'Apostolato
popolare, dell'Associazione Nazionale, dell'Italia del Popolo,
della Future Europe, del Comitato Nazionale Italiano, e del Centro
d'Azione.
In mezzo alla confusione delle idee di Mazzini, si può
tuttavia stabilire che egli vuole:
1°) lo stabilimento d'una religione futura(42), che non sia
né cattolicismo, né protestantismo. Egli riconosce
la necessità di una religione, che non sa definire; e si
posa come profeta e riformatore della stessa. Ciò si rivela
da tutti i suoi scritti;
2°) lo stabilimento di un papato, che abbia unito in istretto
connubio il potere spirituale e temporale, che egli chiama
Concilio.
Egli dice: "Il pensiero è lo spirito; la traduzione di
questo pensiero in atti, in opere visibili esterne, costituisce il
fatto sociale. Così il pretendere di separare intieramente,
e per sempre, le cose della terra da quelle del cielo, il
temporale dallo spirituale, non è né morale,
né logico, né possibile"(43). Più avanti
dice: "Costituente e Concilio, ecco il Principe e il Papa
dell'avvenire";
3°) che l'unità è l'idea di Dio, angelo di
morale, e di civiltà progressiva alle nazioni d'Europa; che
l'Italia (nazione che manca dell'unità politica, e che non
ha ancora intimamente e stabilmente costituita la unità
morale) la darà all'Europa, e al mondo intero, vale a dire
che darà agli altri ciò che non ha per sé,
ciò che deve acquistare per sé stessa, mediante una
rivoluzione, che renda omogenei tra loro gli abitanti di ogni
provincia, di ogni comune, di ogni villaggio;
4°) che la formola Dio e Popolo, stampata sur una tela,
porterà la civiltà a tutti i popoli della terra;
5°) che la bandiera, su cui sarà stampata questa
formola, partirà da Roma, la quale possiede virtualmente le
veraci cause della rigenerazione e della iniziativa;
6°) che una di queste egli vide appunto nel 1849 all'occasione
che due carrozze di cardinali vennero abbruciate da una ventina di
persone, allorché egli scrisse: "Dalle fiamme delle
carrozze cardinalizie, arse sulla piazza del Popolo, è
uscita una luce, che rischiarerà la via, sulla quale i
popoli si affratelleranno, un dì o l'altro, in uno sviluppo
religioso, in una fede di opere redentrici e d'amore";
7°) che la formola Dio e Popolo, usata pel primo dal fanatico
riformatore religioso fra Savonarola nel 1489, è la
più degna, la più potente per emancipare l'Italia e
l'Europa, ed è migliore e più progressiva di quella
adottata dalla servile democrazia francese, di libertà,
eguaglianza e fraternità, la quale, a suo parere, non
è altro che formola istorica;
8°) che, come il filosofo Fichte identificò l'uomo con
Dio; Schelling mischiò Dio e la natura; Hegel assunse per
dogma, che la mente umana essendo il criterio della verità,
si avvicina senza posa alla divinità, e finisce per essere
da essa assorta; e i seguaci di questo non vollero ammettere la
divinità, onde non riconoscere altro Dio che l'uomo, o, per
meglio dire, l'umanità: così egli - Mazzini -
interpretando la formola Dio e Popolo, dice che Dio s'incarna
coll'umanità, ovvero l'umanità con Dio, e che
perciò Dio e Popolo sono tutt'uno;
9°) che egli è l'interprete delle leggi di Dio, che fa
parte di sé stesso, che è emanazione dello Spirito
Santo; che ha la santa missione da Dio di rigenerare l'Italia, e
con essa l'universo.
Passando poi dalle teorie ai fatti, egli vuole nei suoi proseliti
cieca obbedienza, vale a dire assolutismo e dittatorato nella sua
persona: quanto al mezzi di giungere alla redenzione italiana,
l'azione costante di due, di cinque, di venti, o di cento
individui.
L'insieme di queste dottrine, non che il suo fare dispotico, ha
portato per conseguenza: 1°) che tutti i migliori si sono
distaccati da lui; 2°) che a nulla di buono riuscì mai;
3°) che portò disunioni nel partito nazionale; 4°)
che dalla universalità degl'Italiani è tenuto in
gran concetto, come uomo costante nelle sue idee, come un profeta,
un essere misterioso, un mito; 5°) che giovani entusiastici,
varie donne fanatiche, e vecchi e ciechi amici lo considerano come
il genio della politica.
Che cosa questo partito abbia fatto di buono per l'Italia, si
è veduto nel decorso di questi scritti; che cosa sia capace
di fare, nol so; ma certo si è, che una fazione non
porterà mai la rigenerazione all'Italia.
Quali uomini ha questo partito? Mazzini.
CONCLUSIONE
Veduto in quanti partiti siano divisi gl'Italiani, quali speranze
possano avere nel soccorso delle monarchie, tanto interne che
esterne, e delle nazioni; riassumiamo in fatti generali quanto si
è narrato di più importante.
1°) dal 1796 al 1815 ridestamento negl'Italiani dello spirito
d'indipendenza e di libertà;
2°) dal 1815 al 1846 progresso dello spirito nazionale nella
parte civile; tentativi di rivoluzione parziali, sconnessi;
oggetto di questi: reggimento costituzionale;
3°) dal 1846 al 1849 scuotimento di tutte le passioni degli
Italiani; guerra d'indipendenza; opportunità di trionfarne:
perduta invece per tradimenti di principi, per discordie degli
uomini che andavano in voce di capi del partito rivoluzionario,
per mancanza del concorso universale delle forze della nazione;
4°) dal 1848 al 1849 nascimento e organizzazione del partito
repubblicano; sua caduta con Roma e Venezia; rimane tuttavia
potente, e il solo capace di ritentare la lotta della
indipendenza;
5°) il 6 febbraio del 1853, dissoluzione del medesimo,
cagionata dal mal governo del suo capo Giuseppe Mazzini, e dalla
disfatta di Milano;
6°) dal 1853 sino ad oggi, organizzazione del partito
costituzionale, forte per capacità di uomini, per potenza
di armi e di danaro;
7°) Mazzini, a causa della stranezza delle sue idee conducenti
al dispotismo anziché no, non più rappresenta l'idea
repubblicana che deve portare, o presto o tardi, la vera
libertà all'Italia;
8°) tendenza generale dei popoli schiavi dell'Europa a farsi
indipendenti;
9°) tendenza di tutte le nazioni a riconoscersi come sorelle,
ed a fare scomparire dalla società gli elementi che
ereditammo dai Romani, dai Tartari settentrionali, e dalla Chiesa:
l'Impero, cioè, la Monarchia, la Teocrazia, e il Potere
Spirituale.
Oggetto primissimo dell'Europa: riconoscimento delle
nazionalità, libertà assoluta, tanto intellettuale
quanto politica e civile;
10°) strettissima lega di tutti i governi europei a fine di
opporsi e di arrestare la corrente, per cui si avviano i popoli;
11°) prontezza loro a schiacciare qualunque tentativo di
movimento liberale, ed insieme solidarietà tra di essi,
esercitata per mezzo delle polizie, dei preti di ogni specie,
della diffidenza e corruzione fomentata, dei tradimenti, degli
omicidî politici e delle armate.
In questo stato di cose che debbono fare i repubblicani
dell'Italia e dell'Europa? Intendersi, unirsi, costituirsi, avere
dei centri, delle rappresentanze, star pronti agli eventi, ad
impadronirsene, a non lasciare che un utopista, un fanatico, un
conquistatore, un governo qualunque, metta a profitto proprio
l'entusiasmo delle masse, e lo svii dal vero oggetto della
rivoluzione.
Passando poi dalle generali alle particolari, e venendo agli
Italiani repubblicani, dirò che eglino debbono, senza
metter tempo di mezzo, ordinarsi in un centro; costituirlo
nell'Italia stessa, dove sono raccolti e convenuti i repubblicani
di ciascuna provincia, e donde con facilità possono, come
dal centro alla circonferenza, spandere dottrine educatrici, e
mezzi preparatori alla gran lotta che deve portare il rinnovamento
sociale. Le norme di condotta del nuovo centro o comitato debbono
essere:
1°) libera discussione dei provvedimenti da farsi; esclusione
di ogni spirito dittatoriale;
2°) azione educatrice, tendente cioè ad illuminare il
popolo intorno alla causa ed all'oggetto di essa;
3°) azione costante operativa, cioè tendente a
raccogliere mezzi per aver pronte armi, ecc.
all'opportunità;
4°) azione sulla pubblica opinione; schiacciare moralmente la
reazione dei preti e dei governi; far convergere lo spirito della
gioventù e del popolo alla causa dell'indipendenza e della
libertà;
5°) rappresentanza all'estero per mezzo di alcuni da loro
scelti, affinché si mettano in piena relazione coi centri
repubblicani delle altre nazioni.
Quanto al programma loro, si dovrebbe intanto stabilire(44):
1°) che nessun governo italiano ha diritto d'imporsi per forza
alla nazione;
2°) che niun particolare cittadino ha diritto d'imporre la
propria opinione alla nazione;
3°) che la universalità di questa ha sola il diritto di
decidere intorno alla questione della forma politica, che ci deve
governare;
4°) che chiunque cospira per introdurre una dinastia straniera
in Italia, col pretesto anche di renderci indipendenti, è
traditore della patria;
5°) che chiunque, durante la guerra della indipendenza
italiana, mette fuori opinioni e questioni intorno alla forma di
governo, è traditore della patria;
6°) che l'azione dei fuorusciti italiani deve aggirarsi nel
predisporre l'opinione pubblica degli stranieri in favore
dell'Italia, e non nel promuovere insurrezioni parziali, o per
private ambizioni, o per finire l'esilio;
7°) che si deve ricevere l'aiuto di qualunque straniero nella
guerra di rigenerazione italiana, ma che nessuno straniero armato
in corpo deve porre il piede in Italia; che gli stranieri, i quali
per solidarietà nazionale ci dànno mano, debbono
essere fatti cittadini italiani, ed ammessi come tali nei corpi
delle truppe nazionali;
8°) da ultimo, che fino a che uno straniero armato ha piede in
Italia, vi debb'essere guerra e cospirazione sorda, costante,
accanita, e che si debbe usare ogni sorta di mezzi, purché
conducenti al trionfo della causa.
Giovani italiani, son queste le norme, che le nostre sventure, la
esperienza e i migliori politici c'insegnano di seguitare. Fuori
di esse non vi ha salute: non vi lasciate illudere da' bei parti
di una inesperta ed orgogliosa immaginativa.
Voi avete perduta la indipendenza, e siete nella nullità:
dacché scomparve la libertà dalle vostre contrade,
siete un popolo di nome, senza storia, senza lustro, senza vita
propria.
La vostra storia, da tre secoli e mezzo, è la narrazione
delle vittorie degli stranieri in Italia, dei tributi pagati ad
essi, delle fucilazioni, del carcere durissimo, e degli
esilî; è la storia delle bassezze nazionali, delle
intestine discordie, delle meschine ambizioni.
Sollevatevi all'altezza dei tempi: siate uomini, vale a dire,
esseri razionali, dignitosi, fieri, liberi, indipendenti; siate
insomma Italiani, e maledite per sempre la parola servaggio e
discordia; abbracciatevi l'un l'altro; amistà, fratellanza
sia decretata con ognuno, che non sia infame; e vendicate le
vittime di tanti eroi, che per più secoli il dispotismo
straniero e interno va mietendo nelle nostre contrade.
I nostri oppressori incominciano di nuovo a profondere perdoni e
amnistie(45): rammentate, che la liberazione di alcuni individui
non è la libertà della nazione italiana; rammentate,
che le concessioni, che eglino vi fanno, sono concessioni
strappate loro dal timore di vedervi insorgere.
Siate dunque calmi; rimanetevi fieri e dignitosi; e state lungi
dalle feste, dai tripudî, e da una intempestiva
generosità.
L'odio allo straniero, che vi opprime; l'odio e la vendetta contro
i principi italiani, che gli porgono mano, debbono essere a capo
di ogni vostro pensamento od azione.
Le glorie dei vostri avi, la magnificenza dei vostri templi, la
sublimità dei vostri capolavori, fanno viemaggiormente
risplendere la vostra pochezza moderna. Anziché menare
vanto di ciò che non è opera vostra, sorgete ad
imitarne gli autori; e colla libertà acquistata, create
nuovi fatti propri del genio, che natura concesse all'Italia.
APPENDICE
I
Il cardinale Lambruschini al Cardinale Legato di Bologna(46).
Lo informa, che i governi esteri sorvegliano i movimenti dei
rifugiati italiani, e dice formalmente, che lord Aberdeen ha
promesso di fare altrettanto in Inghilterra.
Questo documento è della più alta importanza: mette
in chiaro un fatto posto in dubbio dagli stessi Inglesi. Eglino
credono, che noi rifugiati siamo qui totalmente liberi, e che le
nostre azioni passino come le loro inosservate alla polizia. Ma
egli è tutto al contrario. I nostri passi sono contati;
né l'attuale ministero è molto differente da quello
di lord Aberdeen. Così si vede, che, in quanto risguarda la
politica estera, alcuni ministri inglesi non si curano dell'onore
nazionale; che cercano di far scomparire quella opinione, che si
ha dai patrioti di ogni paese intorno alla libertà, che si
gode in Inghilterra; che non abborrono dal dare mano agl'intrighi
di una Corte vile e corrotta, di un governo immorale e dispotico;
governo, che suona disprezzo presso ogni uomo dabbene: di un
potentato, che cercò maisempre di fomentare torbidi contro
gl'Inglesi stessi, vale a dire nell'Irlanda.
Ma vengasi al documento in discorso.
"Ecc.mo e rev.mo signor mio oss.mo.
"Sollecita l'Eminenza Vostra di manifestarmi quanto si va dicendo
in cotesta città, ha voluto specialmente tenermi parola col
pregiato foglio del 23 del corrente, n° 947, P. R., delle
voci, che ora circolano sulla rigorosa perquisizione praticata al
famigerato Mazzini in Malta. Perché ne abbia Ella un pieno
schiarimento, mi affretto di recarle a notizia, che fino dai primi
del corrente, presso comunicazione di ministeriale rapporto, venni
informato, che ora la polizia inglese incomincia ad agire
anch'essa verso i rifugiati italiani e polacchi; che lord James
Graham, ministro dell'interno in Londra, avendo fatto intercettare
le lettere colà dirette al famigerato Mazzini, vi ha
trovato che un anonimo (si suppone il Ricciotti) gli scriveva,
essere tutto pronto nelle Legazioni per fare la rivoluzione, ma
che la Francia l'impediva col suo sistema di opposizione;
aggiugneva di più, che essendo andate a vuoto le due
sommosse di Alicante e di Cartagena, i rivoltosi si sarebbero
riuniti a Valenza per studiare altri piani.
"Lord Aberdeen, ministro degli affari esteri, fatto consapevole di
tal lettera, promise(47), che si sarebbero d'ora innanzi
sorvegliati i passi e le azioni tutte dei rifugiati. Né
tacerò a Vostra Eminenza, che il ministro degli affari
esteri a Parigi, cui fu partecipata la direzione dei rivoltosi a
Valenza, assicurò, che andava a mettersi di concerto col
governo spagnuolo per impedire tutte le riunioni, che vorrebbero
farsi in quel regno, e per ottenere la separazione e la
sorveglianza dei rifugiati.
"Son certo che tali notizie le saranno gradevoli; e
nell'apprendere con piacere, che regni in codesta provincia la
più perfetta tranquillità, mi onoro di ripeterle le
proteste del solito mio profondo ossequio, con cui Le bacio
umilissimamente le mani.
"Di Vostra Eminenza
"Roma, 27 aprile 1844.
"Umil.mo. dev.mo servitor vero
"L. Cardinale LAMBRUSCHINI"
Sull'elenco trovasi n° 1736.
Dalla lettera riportata si conosce, che i fogli intercettati da
sir J. Graham vennero comunicati ai Ministri delle Corti estere, e
tra gli altri al cardinale Lambruschini. Non posso perciò
conciliare un tal fatto colla seguente solenne asserzione di lord
Aberdeen, nella Camera dei Pari, il 4 luglio 1844, vale a dire tre
mesi dopo che la lettera era stata scritta:
"Il marchese di Normanby: 'Desidero sapere, se le lettere del
signor Mazzini siano state sottomesse ai rappresentanti di alcuna
estera corte'.
"Il duca di Wellington: 'Non ne ho alcuna cognizione'.
"Il conte di Aberdeen: 'Io posso rispondere a questa quistione con
assai maggior giustezza, e posso assicurare il nobile Lord, che
non una sillaba della corrispondenza in proposito è stata
comunicata a chicchessia"'.
(Hansard, Vol. 76, Debate in Lords.)
Il lettore si formi da ciò un giusto criterio della buona
fede dei rappresentanti diplomatici.
II
Il Cardinale Legato di Bologna all'eminentissimo Lambruschini.
"Bologna, 10 luglio 1844.
"All'Emin.mo Lambruschini,
"Roma.
"La causa politica del detenuto Eusebio Barbetti, a V. E. ben
noto, tocca ormai il suo termine: egli, il giorno 6 del corrente,
fu sottoposto al finale costituto. Per quanta precauzione si
usasse in questo, onde non lasciargli comprendere i mezzi con cui
la Commissione era venuta in possesso delle sue clandestine e
criminose corrispondenze, durante la sua prigionia, sì col
canonico Brusa, che co' suoi parenti, e con altri, pure egli prese
in sospetto uno dei secondini delle carceri ove era racchiuso, il
quale fu fatto segno delle più atroci invettive di lui.
Assoggettato quindi a maggiore vigilanza, s'ebbe a scoprire, che
questo indomito ed irrequieto carcerato, col favore di altro
secondino, tentava d'intraprendere una nuova corrispondenza con
una sorella, e sorpreso di notte tempo gli furono trovate ed
apprese due lettere già scritte, e preparate per la
spedizione."
Indi s'intertiene intorno alle misure da prendersi a riguardo del
detenuto.
Il cardinale Lambruschini risponde nella seguente maniera:
"Emin.mo e Rev.mo signor mio oss.mo.
"Dopo la scoperta del tentativo fatto dal detenuto politico
Eusebio Barbetti d'intraprendere una nuova corrispondenza al di
fuori, siccome Vostra Eminenza mi partecipa col riservato suo
dispaccio del 10 del corr., N. 1938, P. P., non posso non
approvare la misura da lei ordinata di farlo trasferire o nelle
carceri segrete di Pesaro, o nel Forte di San Leo. Avendo poi la
Eminenza Vostra, da quanto mi aggiugne nel dispaccio medesimo,
raccolti i dati sul secondino infedele, che favoriva i perversi
disegni del Barbetti, non dubito, che provato il delitto, venga il
colpevole sollecitamente assoggettato alla condegna punizione, la
quale servir possa di esempio agli altri, cui è affidata la
gelosa custodia dei detenuti.
"Con sensi di profond'ossequio le bacio umilissimamente le mani, e
mi protesto
"Di Vostra Eminenza
"Roma, li 16 luglio 1844.
"Um.mo. dev.mo servitor vero
"L. Card. LAMBRUSCHINI.
"Signor Cardinal(48)
"Legato di Bologna".
III
Sono presso di me le corrispondenze di Anselmo Carpi, di Oreste
Biancoli, di Colombarini, Pietramellara, Muratori, Turri,
Albertini, ecc., e del dottor Carlo Luigi Farini: la quale ultima
è assai pregevole per le cose dette alla sua amica B. di
Russi. Da tutte le lettere di questi signori le polizie traevano
induzioni e prove intorno ai movimenti che s'intendeva di fare, e
si mettevano all'erta. Ma veniamo a dare qualche esempio sul
sistema dello spionaggio, e sulla maniera con cui il governo
formava le note di sospetto.
Il confidente segreto Lucarelli al governatore di Roma.
Egli dice, che non può più oltre dimorare nelle
Legazioni, perché è stato conosciuto come spia dagli
abitanti delle stesse. Questa lettera è assai interessante:
egli tratta i Romagnoli col titolo di canaglia indistintamente, e
ciò, come chiaro si argomenta, perché avversi al
Pontefice e al governo di lui. Le sue asserzioni sono altrettante
testimonianze dell'odio, che nutresi in quelle provincie contro il
dominio papale. Poi discende a porgere suggerimenti atti ad
estirpare un tanto male: e si mostra un uomo ardente di dare sfogo
alla sua più brutale vendetta. Si vengono altresì a
conoscere i nomi di quelle persone, che più si mostrarono
zelanti nel perseguitare i patrioti durante i rivolgimenti
politici del 1843, 1844, e 1845. Tra i quali risplende il
colonnello dei gendarmi Cavana, che vuolsi ora al servigio attivo
della polizia di Piemonte. Così quegli uomini, che
servivano di fondamento al sistema di terrore e d'inquisizione,
contro cui levossi il cav. Massimo d'Azeglio col suo libretto
sugli ultimi casi di Romagna, sono ora impiegati dal governo
sardo. Ma di tali contraddizioni se ne vedono pur troppo assai
spesso oggidì. Certo però che non fanno onore al
governo, il quale (o per propria scienza o per forza d'intrighi
occulti, che ciò avvenga) si lascia trascinare in esse.
Ma tornando al documento in proposito, vi sono delle rivelazioni,
che smentiscono la pretesa dolcezza del governo toscano. Il
Lucarelli poi muove un continuo lamento intorno al mite procedere
del governo papale, e viene a confessioni, che chiariscono essere
un tal reggimento tutto disordine e demoralizzazione. Mi credo in
debito di dare in esteso questa bella produzione.
"Eccellenza Rev.ma,
"È stata per me una vera consolazione poter baciare la mano
all'Eccellenza Vostra, e riceverne tali parole d'incoraggiamento
da mantenermi sempre più in una religiosa affezione col mio
Sovrano. Nei ventidue anni che un mistero profondo mi tenne celato
agli occhi dei malvagi, potei rendere al Governo servizî
importantissimi; ma dopo che uomini orgogliosi e invidiosi, velati
d'ipocrisia, incominciarono ad esaltare le mie azioni, a far
conoscere al pubblico il zelo mio, mi designarono insomma ai
rivoltosi qual vittima da immolarsi, poco più potei essere
utile, dovetti abbandonare le Legazioni. Ora sono venuto in Roma,
né già come tutti fanno, per chiedere compensi, ma
per condurci una vita tranquilla, per trarre qualche profitto da
quella stessa speculazione libraria, che mi dette i più
belli risultati a vantaggio del Governo stesso, e mettermi
così nella possibilità di educare i figli miei.
Siccome pel mio Sovrano ho sacrificato tutto, ho esposta perfino
la vita, però non ristarò dall'invocare altamente la
protezione di tutti quelli che lo rappresentano, ed in ispecial
modo dell'Eccellenza Vostra, ma protezione di semplici parole, la
quale mi ritorni onorato nella società, mi aiuti a
conseguire lo scopo che desidero. Eccole alcune righe, che la
illumineranno più chiaramente sullo stato di situazione
delle Romagne; e voglia il cielo che l'Eccellenza Vostra possa col
suo ingegno, colla sua energia riuscire a ridurre quei popoli
un'altra volta cristiani, un'altra volta fedeli al nostro Sovrano.
"L'Eccellenza Vostra, allorché anni sono si trattenne nelle
Legazioni, avrà trovato quelle popolazioni in un principio
di disorganizzazione morale, ma non in uno sfacimento assoluto
quale oggi si presentano. Abbisogna considerare come perduta la
generazione presente dai tredici anni in su, fiaccarne l'orgoglio
per toglierla alla possibilità di far peggio, pensare
seriamente alla educazione della generazione futura. I Romagnoli
d'oggi sono tal canaglia, che si maschera del colore di papalino,
o di liberale, secondo crede che possa tornarle a miglior conto,
per cui il male non sta soltanto nelle macchinazioni dei liberali,
ma nella massa, la quale è talmente demoralizzata, sian
pure ecclesiastici o secolari, poveri o ricchi, uomini o donne,
che di umano non le rimane che la semplice figura. Tutti
bestemmiano Gesù Cristo, la SS. Vergine, il Sommo
Pontefice, con espressioni abbiette le più ricercate, e
pare che provino nel cuore una vera consolazione nel calpestare
quei nomi augustissimi. I preti sono un ammasso di eterogeneo
indefinibile, senza che si pensi a renderli migliori. L'ho intesi
io stesso vantarsi delle più obbrobriose sporcizie,
pronunciare eresie le più sacrileghe, aprire la bocca in
politica nel modo il più vituperevole. E chi altri che i
curati di campagna hanno ricoverato i ribelli nella prima
sollevazione di Bologna del 43? So ben io con quali marche
d'infamia stiano registrati nei processi politici i nomi di certi
ecclesiastici. E con sì belli esempî di coloro, a cui
è affidata la spirituale educazione dei popoli, qual
meraviglia se i popoli crescono increduli, orgogliosi, briganti?
Alla dissolutezza sacerdotale si aggiunge la peste degl'impiegati,
per lo più o ignoranti, o perfidi; tutti ingordi,
insaziabili. Non ne ho trovato uno solo, purché sia
romagnolo, che si chiami contento dell'esser suo, che benedica il
Principe che lo governa, che si vanti di servire il suo Sovrano
per principio coscienzioso e disinteressato. Se per caso riescono
in qualche buona operazione, eccoteli petulanti a chiedere
rimunerazioni; e se l'ottengono, pur tuttavia si lamentano,
perché non si credono bastantemente compensati. Pel denaro
si prostituiscono tutti; talché vendita della giustizia,
inosservanza delle leggi, private vendette, sotterfugi per
ingannare, per accecare i poveri Cardinali Legati. Quei poveri
impiegati veramente affezionati al Governo, i quali sono di altre
provincie, vengono tacciati di zelanti, d'indiscreti, di
visionarî; beffati, screditati, tolti alla
possibilità di far bene. I fatti obbrobriosi del 43 e del
45 ce ne dànno le prove. Quando nel 43 il nostro
affezionatissimo Curzi, dietro le notizie dettagliatissime che io
gli detti per primo, come risulta dal processo, e che poscia si
procurò anche più chiare da se stesso, implorava
dall'Eccellentissimo Spinola la permissione di carcerare
Zambeccari e i suoi consorti, per impedire che si sollevassero;
una folla di ipocriti aggirò talmente quel degno porporato,
che usando della sua autorità disse a Curzi: Se voi li
farete carcerare, io li farò dimettere. Vi si dànno
ad intendere dei sogni: noi d'altronde siamo bene informati che
tutto è tranquillo. Quando Cavana, nel luglio o agosto del
45, andò a Fusignano a carcerare il giardiniere Calcagnini,
scrisse con termini i più energici perché gli si
permettesse di carcerare Beltrami e i suoi compagni. Spalazzi,
già circuito, disse con me: Il capitano è un
fanatico, che non sa quello che si dice; va mendicando pretesti
per ingraziarsi col Governo; tutto è tranquillo, ed egli
non sogna che rivoluzioni; d'altronde gli abbiamo ordinato che
ritorni al suo posto. Il cardinale Ugolini fu talmente persuaso
della innocenza di Beltrami, che presentatogli da Feoli, lo tenne
a desinare seco pochi giorni prima che scoppiasse la rivolta. E
Feoli sapeva in quali acque pescasse Beltrami, perché n'era
stato avvisato dal Ghigi di Ravenna; e d'altronde Feoli ebbe
l'imprudenza di dirlo allo stesso Beltrami. Cosa non dissi per
persuadere Spalazzi a disfarsi di certo sartore Antonio Sambi di
Ravenna, rimandato in Italia da Parigi d'ordine di Mazzini e
Cornetti per fare proseliti al comunismo, come aveva confidato a
me? Si contentò di una semplice ammonizione, perché
gli era stato raccomandato dal fratello. Quando il povero Freddi,
Bedini, Zambelli supplicavano, perché s'impedisse la
sollevazione di Rimini, davano al Cardinale Legato i più
minuti dettagli delle macchinazioni dei liberali; chi altri che
quell'infame di Lambertini circuì l'Eccellentissimo Gizzi,
lo persuase della inutilità di qualunque misura in
prevenzione di quello scandalo? E se meriti io taccia di
calunniatore nel dare a Lambertini l'epiteto d'infame,
l'Eccellenza vostra può consultare in via riservata
l'Eccellentissimo Vannicelli, il vescovo Tomba, i governatori
Masioli, Agabiti, Marcelli, e il giudice processante Piselli. Le
sue mangerie, le sue scroccherie sono in Forlì notorie a
tutti: tutti sanno che per quattrini venderebbe le chiavi di S.
Pietro al diavolo. Io lo avvertii che nella sua provincia si
facevano aggregazioni al comunismo, specialmente dal chirurgo
Domenico Amadori; che da un tale locandiere Bendandi avevo
imparato, essere stato commesso certo omicidio nella persona di un
tale, che si rifiutò di commettere un furto in prova della
sua fortezza prima di prestare il giuramento alla società.
Di questo mio avviso ne ha fatto tal conto, come se non gliene
avessi parlato. Quanto non ho mai detto con costui sul proposito
dell'ingegnere del genio, Cerati, perché lo facesse
espellere dal corpo come settario famigeratissimo, sul proposito
di Emilio Zoli, e di tanti altri; e se ne è dato per non
inteso! Non ha potuto far altro di male, ha perfino comunicato a
Ciro Santi le viste di Piselli contro di lui. Fu ucciso il povero
Ravaioli, non si è dato carico (e forse per paura)
d'indagare gli autori di quel delitto, come se non fosse stato
commesso. Oggi proprio è un bel vedere al suo posto questo
direttore di porcheria, che, preso dalla paura, si fa condurre
alla casa e all'uffizio dagli agenti di polizia! Che dirò
poi degli atti scandalosissimi della commissione di Ravenna, dei
quali sono stato testimonio io stesso? So ben io quanto abbia
sofferto e faticato il povero Freddi per tenere in accordo quel
sinedrio di giudici, i quali, o per orgoglio, o per invidia, o per
dabbenaggine, litigavano tutto giorno come la canaglia di piazza,
si rendevano il ridicolo di tutti, non sapevano né
ciò che dicevano, né quello che facevano. Ecco come
il Governo perde la sua forza morale, ecco per quali mezzi i
briganti imbaldanziscono, ecco per chi i veri affezionati restano
beffati, denigrati, avviliti, e qualche volta cadono vittima delle
più infami persecuzioni. E di fatto, cosa non si è
brigato per togliere Curzi dal suo posto? Non potendolo tacciare
di scroccherie, si è data voce al ridicolo, si è
detto cortigiano, gaudente, inetto. Per perdere Freddi, non
potendolo intaccare sul suo attaccamento, sul suo zelo, sul suo
disinteresse, che lo ha ridotto alla miseria per profondere tutto
nello spionaggio, nelle limosine; si è gridato al
dissipatore, sono state segnate colla marca della nefandità
le sue affezioni per un amico. Il povero Bovi, perché non
volle lasciarsi aggirare dagl'imbroglioni, perché teneva
nel più gran segreto la condotta del processo affidatogli,
fu studiosamente fatto cadere in una umana debolezza, fu perduto
con non poco discredito del Governo stesso. I Romagnoli, bisogna
persuadersene, vogliono essere soli, di qualunque partito essi
siano, e guai a chi si intromette fra essi che sia di altra
provincia! Vogliono essere assolutamente indipendenti, e le parole
Legge, Religione, Papa vogliono cancellarle dal loro vocabolario.
E non per altro che per togliersi al dominio ecclesiastico, vanno
inventando contro il Governo pontificale le più insulse
menzogne. Ed è pur lacrimevole vedere che ben riescono nel
loro intento, dacché essi soli hanno saputo e sanno
ispirare in tutti quelli che gli stanno a contatto tale
contrarietà contro il Sommo Pontefice, che in Toscana, in
Lombardia, e in Piemonte nominare il Papa vale lo stesso che
pronunziare un nome obbrobrioso, o per lo meno ridicolo. E non si
dovrà provvedere, non si dovrà riparare, non si
dovrà tentare almeno di togliere a questi empî la
potestà di propagare la loro demoralizzazione, d'instillare
queste massime infernali nella povera gioventù? Il granduca
di Toscana ha conosciuto qual peste attirata si fosse ne' Stati
suoi; ed ha veduto il nembo che lo minacciava, ha rinunziato al
suo sistema di dolcezza, ha discacciato da' Stati suoi tutti gli
esteri intaccati dalla tarma politica; e quelli fra i suoi sudditi
a cui si è riscaldata la testa, in dettaglio li fa
rinchiudere in carceri rigorosissime, dove gli fa apprestare pane,
acqua, e bastonate in proporzione del calore che li ha investiti,
senza impacciarsi della noia dei processi. Coloro, rimessi in
libertà, non parlano dell'accaduto per vergogna, non
compariscono più fra i consorti per paura.
A grandi mali vogliono essere apprestati energici rimedî,
giacché una soverchia dolcezza si prende per debolezza, ed
aumenta la forza del male. Le Legazioni sono strabocchevolmente
ricche, e però possono anche sopportare le spese occorrenti
a tenerli in soggezione: né queste spese, per quanto siano
strabocchevoli, impoveriscono i paesi, perché quel denaro
prendendo un giro fra la popolazione stessa, ne diminuisce anzi la
miseria. Si assoldi una forza estera imponente, che li tenga in
dovere. Si mandino a cuoprire gli impieghi governativi e politici
uomini di specchiata probità e di conosciuta energia. Si
spargano fra essi sacerdoti e religiosi santissimi, i quali si
occupino di una nuova predicazione dell'Evangelio, che si
dedichino esclusivamente all'educazione spirituale della
gioventù, strappandola anche, ove bisogni, dalle mani dei
loro genitori. Si lascino imprendere a spese di quei Comuni
grandiose lavorazioni di fabbricati, di strade, di canali, che li
tengano occupati, si divaghino pure con leciti divertimenti, i
quali li distraggano specialmente nelle ore serali, le più
pericolose alle macchinazioni. E a chi bestemmia Iddio, la
Vergine, il Papa, gli si apprestino, senza riguardo di condizione,
di sesso, di età, carcere con pane, acqua, e bastonate, e
sempre in via politica, sempre nel più gran segreto. Sono
popoli, che bisogna riguardarli come una colonia di barbari, che
abbisognano di una nuova scuola di civilizzazione. Tre o quattro
anni di governo veramente ferreo, modellato sul sistema del
Governo austriaco, li toglierà per sempre alla
possibilità di pensare a macchinazioni politiche.
"Perdoni, Eccellenza, questo sfogo al mio zelo, alla mia maniera
di sentire per un Governo, pel quale ho impiegato volentieri, in
mezzo ai più gran rischi, tutta la mia gioventù: mi
accordi l'onore dei suoi comandi, la sua protezione, e mi permetta
che, baciandole la sacra mano, mi prostri con particolare
devozione e sommissione
"Dell'Eccellenza Vostra Reverendissima,
"Roma, 30 aprile 1846.
"Umil.mo, Dev.mo, Obb.mo suddito
"GIUSEPPE LUCARELLI, Ing."
P° 7 maggio 1846.
IV
Il Lucarelli a Monsignor Governatore di Roma.
La seguente lettera è la migliore lezione per chi sentesi
tentato di farsi delatore o di governi, o di fazioni, o
d'individui.
"Eccellenza,
"Ieri mattina ardevo di desiderio di trovarmi coll'Eccellenza
Vostra, onde potere trovare in lei parole di ristoro a tante mie
afflizioni; ma fui compreso in un subito da un tumulto di
passioni, che mi tolse alla possibilità di qualunque
discorso; non vedevo l'ora di allontanarmi dalla di lei presenza:
mi sentivo morire! L'Eccellenza Vostra ha un cuore pietoso: e se
potesse leggere nel cuor mio; se tutta potesse comprendere
l'infelice mia situazione; se vedere potesse il quadro orribile,
che mi sta innanzi agli occhi sul mio avvenire, forse mi
accorderebbe uno sguardo di compassione.
"Monsignore, sia persuaso, che io non sono una spia, ma un
disgraziato, che un zelo fanatico ha trascinato quasi ad
irreparabile rovina, mentre si credeva degno di sedere sull'altare
della gloria. Tutto quello, che ho fatto pel Governo mio, l'ho
fatto per solo principio di coscienziosità; e per questo ho
rifuggito sempre dal chiedere, dall'accettare un obolo solo di
compenso. Che anzi tutto quanto ho guadagnato colla mia
professione d'ingegnere, con i miei studî, l'ho sempre
profuso in viaggi, in confidenti, in quanto credevo tornar potesse
a buon conto della Causa Santa, che difendevo. Il fanatismo per
questa mi condusse a rinunziare persino al piacere di vivere nel
seno di un padre, di una sposa, di una famiglia reputatissima, che
mi adorano; e me ne chiamavo contento, sperando di rimettermi un
giorno tranquillamente in mezzo a lei, di ritrarre abbastanza dai
miei studî, per goderne con essi. Invece mi vedo precipitato
in una voragine di mali, condannato a lacrimare sul mio zelo. La
mia professione, le mie cognizioni, quel poco d'ingegno che Dio mi
donò, sono divenuti un nulla in un istante, e per essere
stato affezionato, fedele, zelante, sono adesso nella
denigrazione; mentre i sovvertitori della società trovano
gaudio nella empietà loro, sentono oggi persino la
consolazione di riabbracciare le loro famiglie. Designato
coll'infamia a questa corrotta società, per non incappare
sotto il pugnale ho dovuto correre a Roma a rifugiarmi, dove sono
condannato ad una vita infelicissima; costretto a mirare,
né tanto da lungi, una fine miseranda, se pure l'Eccellenza
Vostra con mano pietosa non vorrà ritrarmi a salvamento.
"In quella Scrittura politica, che sta fra le di Lei mani, speravo
trovare il battello di scampo: ma oggi i tempi sono cambiati,
sebbene gli uomini siano gli stessi! Ero quasi persuaso, che il
defunto Pontefice, in compenso delle mie fatiche, mi avrebbe
assegnato di darne due o tre copie a ciascun comune, e così
avrei avuto abbastanza onde provvedere ai miei privati interessi.
Ma adesso posso sperare lo stesso? L'Eccellenza Vostra
vorrà consigliarmi a pubblicarla con certe modificazioni? E
pubblicandola, mi presterà poi una mano pietosa,
perché l'attuale Sommo Pontefice voglia degnarsi di
accoglierla, e premiarla?
"Possa l'Eccellenza Vostra sentire compassione e venire a soccorso
di questo suddito sventuratissimo, che le bacia la mano con
particolare affezione, e sommissione, protestandosi
"Dell'E. V. Rev.ma,
"Roma, 2 luglio 1846.
"Umil.mo. Dev.mo, Aff.mo suddito
"GIUSEPPE LUCARELLI, Ing."
V
Brani di una lettera del colonnello Freddi al dottor Paolini.
"15 maggio 1844.
"Ho ricevuto la vostra di Marsiglia in data 7 del corrente.
Apprezzo le notizie, che mi avete date, e me ne varrò con
uso prudente, ecc. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . .
Levatevi una volta d'idea, e per sempre, che qui vi sia qualcuno,
che ci tradisca: ciò non può essere in ogni modo.
Mentre però compatisco i vostri timori, posso assicurarvi
solennemente, e da uomo di onore, che voi siete sempre stimato, e
protetto da ogni disgrazia, ecc."
VI
Brani di lettere del dottor Paolini al colonnello Freddi. Espone
le tre ragioni, che lo avevano fatto cadere in sospetto dei
liberali.
Da questa lettera ci viene chiarito, ch'egli fu difeso da tale
accusa da Pietro Giannone, distinto fuoruscito politico; ch'ebbe
lettere di altri (tra le quali una del Mazzini), che smentivano
ogni dubbio a suo riguardo; ed infine, ch'egli chiedeva in suo
favore una dichiarazione, siccome poi ebbe, del proprio figlio.
Tutto ciò mostra quale specie d'inviluppo immorale si trova
talvolta nelle sêtte politiche: ora una diffidenza insensata
proveniente da fanatismo; ora una calunnia sollevata sordamente
dall'invidia, dall'odio privato, od alimentata dagli agenti stessi
dei governi colla peggio della innocenza e del merito; ora infine,
ed a sbalzi, una confidenza cieca dal lato anche dei capi, che
giungono a difendere chi è degno del disprezzo e della
maledizione di ogni uomo dabbene. Ma questo è pur troppo
l'andazzo delle sêtte: dalle quali a lungo andare sorgono le
gelosie, i partiti, gli odï, le vendette, l'insania dei
propositi, e per ultimo le uccisioni proditorie, le fazioni, e la
perdita della causa, per cui da principio s'erano costituite.
"Marsiglia, 12 novembre 1843.
"Carissimo amico,
"Vi mando un plico per Guglielmo, e ve lo mando aperto
perché lo leggiate, ecc., ecc. Le accuse, che mi si
dànno, venute d'Italia, sono sopra tre capi: 1°) la
condanna da me sofferta; 2°) l'abbandono della moglie; 3°)
il mio accordo coi nemici della libertà italiana. Spero,
che saprò difendermi da tutti e tre questi capi, e
soprattutto dall'ultimo, e trionfante! non dubitate per questo!
Però ho bisogno di alcuni documenti: tra i quali la
lettera, che chiedo a mio figlio, e per la quale prego voi non
solo a non volervi opporre, ma a voler anzi eccitare mio figlio
stesso a questa dichiarazione, se mio figlio non fosse
bastantemente deciso; del che non dubito però affatto!
"Al terzo capo di accusa non ho per difesa, che il negare! ma
studierò io bene il modo da cavarmene con assai più
facilità dei due primi. E per ciò bisognerà
l'aiuto vostro per alcune lettere, che voi mi farete stendere di
carattere affatto ignoto a qualunque della vostra polizia
costì; e le farete impostare a Senigallia ed in Ancona. Vi
manderò io le minute di queste lettere! ecc. . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .
Dunque assistetemi per quanto potete . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . .
«Tutto vostro
"PAOLINI.
"P.S. Non dimenticate di rimettermi la lettera di Parigi,
perché mi è necessaria per le mie difese. Ve ne
mando anche una di Mazzini, che mi rimetterete nella stessa
maniera. Più: vi mando ancora la dichiarazione. che il mio
difensore Pietro Giannone ha fatta in favor mio: sono tre pezzi
che mi rimetterete insieme."
VII
Il Governatore di Roma, direttore generale di polizia, al
cardinale Gizzi, Segretario di Stato.
Gli spedisce quattro rapporti confidenziali segreti sul Congresso
degli scienziati, ch'ebbe luogo a Genova nel 1846.
Se tale sistema era naturale durante il governo di Gregorio, che
suonava in ogni suo verso corruttela e viltà, si stupisce
come le stesse cose accadessero dopo l'avvenimento di Pio IX; e
per conseguente dopo l'amnistia e l'iniziamento delle riforme.
Ciò è valevole di per sé solo ad illuminarci
sul governo del nuovo pontefice sino dai primi mesi del suo regno,
e vale per tutta risposta a que' fanatici, che vedevano o vedono
in lui un uomo calato dal cielo per spandere il benessere civile,
intellettuale, e morale in mezzo ai popoli oppressi.
Il santuario delle scienze viene profanato dalle spie della corte
romana, ed il sapiente non si vede né meno tranquillo di
mezzo alle speculative meditazioni ed innocenti discussioni
dell'intelletto umano.
Ho quattro lettere su questo proposito, e le riproduco tali quali
sono. Non si vede in esse alcuna sottoscrizione, né si
conosce per noi la scrittura. Noi conserviamo gli autografi, onde
all'opportunità ne sia dato di scoprire l'autore, e si
possa per tal foggia coprire del più alto disprezzo quel
vilissimo sedicente professore, che aveva indossato la veste del
confidente segreto.
"E.mo Sig. Card. Gizzi,
"Segretario di Stato.
"4 ottobre 1846.
"Si rassegna copia di due rapporti segreti sull'attuale Congresso
de' scienziati a Genova.
"Il sotto-governatore, direttore generale di polizia, si fa un
dovere di rassegnare all'E. V. R. le qui accluse copie di due
rapporti, ch'egli ha ricevuti da persona di sua fiducia, la quale
si è recata in Genova per la circostanza del presente
Congresso de' scienziati, sembrando che le cose ivi esposte sieno
meritevoli dalla superiore cognizione.
"E chinato al bacio della S. Porpora ha l'onore sincero di
riprotestarsi col più profondo rispetto."
I seguenti rapporti segreti mostrano però chiaramente, che
il bisogno sentito sino ne' congressi scientifici, quello era
dell'indipendenza nazionale; e tale un fatto valga a risposta di
coloro, Italiani o stranieri poco monta, che dissero essere noi
stati mossi a quell'epoca da intemperanza di desiderî, da
utopie, da principî socialisti (vocabolo che i retrivi
modificano a lor talento), e che affermano anche oggi non avere
noi principî di nazionalità.
LETTERA PRIMA
"Eccellenza Riv.rna,
"In esecuzione ai venerati di lei ordini trasmessimi coll'organo
del sig. cav. Pontini, indirizzo all'E. V. la presente, che fa
seguito ad altre due già da me inviate in questi giorni a
sua Em.a R.ma Segretario di Stato.
"La condotta de' congregati in quest'anno ha continuato ad essere
ben diversa da quella degli scorsi anni. In un paese, ove la
rivoluzione morale è già avvenuta, ove si parla da
tutti e perfino dalle autorità superiori, che non si
attende che un avvenimento per tentare di scacciare gli Austriaci
dall'Italia, ove si parla e dicesi senza alcun riguardo, che se
non avveniva l'esaltazione al trono di Pio IX, che con la sua
amnistia ha tranquillizzato lo Stato pontificio, sicché ora
poco puossi contare pel concorso de' Romagnoli, quando venga
intimata una guerra all'Austria; non facendo d'uopo, dopo
tuttociò, di ritirarsi in particolari e solitarie assemblee
per intendersi, per parlarsi, per fare delle macchinazioni
settarie; si parla quindi, si agisce senza nessun riguardo, e
appena si ha riguardo di abbassare la voce, quando si manifestano
dei dubbî per la fermezza del Re, pel poco conto in che
teneva le sue promesse, li suoi impegni, ecc.
"Appena si abbassa la voce, quando si dice che l'armata tutta arde
d'impazienza di battersi con gli Austriaci, di conquistare il
regno Lombardo-Veneto, ed è più che disposta a
sollevarsi contro il Re, nel caso che non approfitti della prima
favorevole occasione, di quello che rinunciare ai suoi
principî. Né è questo il solo modo di pensare
delle masse militari, ma eziandio dell'ufficialità
superiore; ho sentito parlare di questo tenore uno scudiero del
Re, il governatore, ecc., e mi si assicura, che questo è il
pensiero ed il parlare pur anche delle persone, che più
accostano il Re, non meno che de' ministri tutti, se si esclude il
ministro Della Margarita, che dal Re dicesi temuto, che da tutti
è odiato, e che si assicura che non compierà l'anno
senza che sia dimesso.
"In questo stato di cose, è constatata pienamente la
verità di quanto in altre mie ebbi l'onore di esporre
all'E.mo Segretario di Stato sul conto di questi Stati sardi, che
riuscivano inutili e superflue le consuete e private congreghe, e
ciò tanto più che la politica delle sêtte
italiane, come l'E. V. non dubito che non conosca, è in
oggi del tutto cambiata. Non si vogliono più le masse
istruite negli affari settarî; la somma delle cose si vuole
in oggi trattare dai soli caporioni ignoti della sêtta,
quelli che hanno sempre diretto il tutto, e che appunto, per
essere i veri e più potenti capi, sono sempre stati
nascosti ed al sicuro di qualunque inquisizione; ed a me sembra,
che questo sia il modo di agire il più terribile pei
governi, perché essendo ridotti in pochi, è
più difficile a scoprirsi; e prova ne sia, che ovunque si
sente ripetersi dai congregati, che per carità si dissuada
la gioventù dall'ingerirsi menomamente in ciò che
può essere mena settaria, ed in particolare
dall'inscriversi in nessuna società segreta.
"Altro non sentesi ripetere in tutte le conventicole, essere la
parte istruita dell'Italia abbastanza innanzi per la sua
rigenerazione, ed il frutto maturo; non essere però del
tutto maturo nelle masse del popolo italiano, che quindi tutte le
mire degli Italiani devono esser volte soltanto alla istruzione e
maturità del popolo; quindi tutte le mire dover essere
soltanto rivolte ad ispirare al popolo l'odio il più
accanito contro gli stranieri invasori di una parte d'Italia;
doversegli insegnare ad apprendere quali sono i proprî
diritti, la propria dignità; disporlo a tentare ogni mezzo
per sostenere la propria dignità, per ottenere l'esecuzione
dei proprî diritti; prepararlo infine ad un grande
avvenimento italiano, facendo mettere in giuoco la molla delle
passioni le più forti, l'interesse, l'amor proprio, e la
gloria che acquisteranno nel conquistarsi un giorno la propria
libertà. Questi sono i principî, su cui si è
aggirata la parte politica del Congresso di quest'anno. Queste
massime, questi principî saranno quelli che verranno in
seguito di ogni maniera diffusi, colla voce, con gli scritti, e
con le stampe. I mezzi di facile e sicura comunicazione sono stati
gli argomenti i più interessanti che si sono trattati, ogni
qualvolta sono avvenute delle riunioni pubbliche, o nelle case,
senza convegno e senza mistero.
"La simpatia e le ovazioni al sommo Pontefice Pio IX non hanno
fatto che aumentare ogni giorno, sicché e nel Congresso e
nelle private e pubbliche conversazioni non si sente che a parlare
e fare applausi a Pio IX. Masi è diventato il poeta del
Congresso, ed ogni qualvolta viene a pranzo alle mense comuni, ove
non siamo mai meno di 500, è salutato con vivissimi e
generali applausi, e dopo il pranzo viene costretto ad
improvvisare. L'unione, la fratellanza dell'Italia, l'odio,
l'espulsione degli stranieri, gli elogi e le speranze di Pio IX,
sono i temi ordinarî con cui viene invitato ad improvvisare,
e col suo facile verso, e con li suoi concetti più caldi di
libertà, di unione, di amor fraterno, ecc., riceve applausi
vivissimi, unanimi, generali, non meno che ogni qualvolta fa
intravedere nel Papa il sovrano, che il cielo ci ha mandato per la
liberazione dell'Italia. Sere sono, in casa del marchese
Pallavicini, in casa del governatore, vi sono state delle
accademie di poesia; Masi, non meno che tutti gli altri
improvvisatori e poeti, hanno tutti cantato sullo stesso
argomento, e generale, continuo, vivo è stato l'entusiasmo
ogni qualvolta sono stati recitati versi enfatici, entusiasti
sugli argomenti citati, o lodi e speranze su Pio IX. Né
questa tendenza del giorno è stata solo manifestata con li
privati discorsi, e con le poesie; il Congresso e le sezioni tutte
vi hanno preso parte attivissima. Ovunque si è cercato
incastrarvi delle allusioni, ovunque si è ripetuto con
plauso il nome di Pio IX, e non vi è stata sala che non sia
echeggiata dai suoi evviva. Ho però per cosa certa volersi
ad arte esagerare le speranze che nutrono, di riforme, di
cambiamenti, di concessioni, ecc., affinché non
verificandosi quanto si vuol far credere e concepire dagli animi,
si possa avere un mezzo efficacissimo per generare il malcontento,
il disinganno, ed eccitare nel momento opportuno alla
sollevazione. Il Congresso quest'anno è andato oltre ogni
credere al di là degli argomenti fin qui trattati con un
carattere eminentemente nazionale, trattando punti i più
delicati della più alta economia politica, e fra questi,
della libertà del commercio, della libera concorrenza,
dell'abolizione delle gabelle doganali; e tant'oltre si è
andati, che non vedendo possibile che i governi si adattino ad una
decisione del Congresso, ha istituita una associazione nazionale,
affinché procuri con ogni maniera di scritti e stampati,
affinché pesi una forte responsabilità ai governi
che non la adottassero. Hanno trattato di riforme quarantenarie,
di esposizioni d'industria nazionale nei luoghi ove accadono i
Congressi, con portofranco di tutte le parti d'Italia, e di mille
altre cose di questo genere, che credo utopie nello stato attuale
delle cose, ma che non ponno a meno di piacere, e di generare
malcontento se non vengono concesse.
"Genova, 25 settembre 1846."
LETTERA SECONDA
"Eccellenza R.ma,
"Ieri sera ha avuto luogo l'adunanza generale per la scelta della
città che deve essere sede del decimo Congresso nel 1848, e
la scelta è caduta sopra Bologna.
"Ecco quali sono state le circostanze principali, che hanno
preceduta questa elezione durante la lunga seduta dalle 6
pomeridiane alle 12.
"Li congregati, fin dal loro giungere, hanno manifestata unanime
la volontà di scegliere Roma per acclamazione. Il principe
di Canino, quasi in opposizione delle parole che ha fatte stampare
ed ha recitate alla prima seduta generale, ha sparsa la voce che
il Papa non ci voleva prima del 1849. A queste voci altre ne sono
succedute in pro e contra codesta opinione, che diceva avere Sua
Santità manifestato desiderio di ricevere il Congresso in
provincia e non a Roma, che manifestava una contraria opinione.
Fatto si è che al momento della riunione tutti erano per
Roma.
"Contro ogni uso del Congresso, il presidente generale ci ha,
nell'aprire la seduta, comunicato che, sentite quali erano le
città in predicato, e conosciuto essere Palermo, Roma, e
Bologna, aveva scritto ai due governi, e ne aveva avuto risposte,
negativa per Palermo, volendosi uno spazio maggiore fra un
Congresso e l'altro nello stesso Stato, e molto dubitative, anzi
quasi negative da Roma, cosicché ne consigliava ad andare a
Siena.
"Il marchese Pareto, con un bel discorso, confidando nella
bontà di cuore, mente illuminata, e promessa protezione
alle scienze di Sua Santità, non teneva calcolo delle
parole del presidente, e proponeva Roma; la proposizione fu
ricevuta con tali vivi e prolungati applausi, che se non si
fossero opposti i regolamenti, Roma sarebbe stata proclamata per
acclamazione.
"Se non che, alzatosi il principe di Canino, faceva vedere
l'inconvenienza di violentare la mente di Sua Santità per
non voler prolungare di un anno questa elezione; faceva conoscere,
che Roma ora non ha che un corpo municipale che ci riceva, e che
il Senatore è contrario ad ogni buon ordinamento
scientifico, e ne dava la prova coll'aver egli scacciato dal
Campidoglio l'Accademia dei Lincei, e che Bologna non era
città da scegliersi, perché ancora guernita di
baionette straniere. Terminava coll'invitare ad aspettare un anno
ancora, finché fossero ben ordinate le riforme, che si
aspettavano, e che allora saremmo stati ricevuti come in trionfo.
Il suo discorso fu ricevuto con segni manifesti di
disapprovazione. Al principe successero altri insistenti su Roma e
Bologna. Il principe infine, vedendo che si stava per votare per
una di queste due città, manifestava avere in petto un
mandato di Sua Santità, col quale era autorizzato a
dichiarare che Sua Santità non ci avrebbe ricevuto nel suo
Stato prima del 1849. Questo discorso produsse vive, ma diverse
sensazioni. Molti vi credettero, e non solo si astennero dal
votare, ma sortirono in più di 400 dalla sala, e da circa
970, che erano al momento della iscrizione, furono soli 538 quelli
che rimasero per la votazione. Fattosi lo scrutinio, Bologna ebbe
336 voti, Roma 62, Siena 93, Palermo 8, Modena 4, Pavia 1,
Sinigaglia 1, Verona 1, voti bianchi 31. La maggiorità
assoluta era di 170, per cui Bologna avendo ottenuti 166 voti
più di detta maggiorità, fu proclamata per la
città eletta. Vivi e prolungati applausi accolsero questa
elezione, così che il conte Freschi a gran stento ottenne
il silenzio per fare un elegante discorso, nel quale esponeva a
nome dell'adunanza, che nutriva speranza che il cuore magnanimo ed
illuminato di Sua Santità avrebbe perdonata questa amorosa
violenza, e l'avrebbe attribuita, com'era di fatto, al vivo
desiderio di dargli una prova di vivo rispetto, affezione, ed
ammirazione alle tante sue doti. Fra gli applausi e gli evviva a
Pio IX il presidente generale chiudeva la seduta.
"Genova, 26 settembre 1846."
Nell'esergo di queste due lettere trovansi scritte le seguenti
parole di mano del sotto-governatore, che sembra certo Neri:
"3 ottobre 1846.
"Si faccia copia della presente, e si trasmetta subito all'Em.mo
di Stato, come proveniente da persona di fiducia del sottoscritto.
"NERI".
LETTERA TERZA
"Eccellenza Rev.ma,
"Il Congresso è finito coll'entusiasmo universale per Sua
Santità, come era cominciato, e colle dimostrazioni le
più ostili e generali contro l'Austria; esse sono state in
certo qual modo tollerate, anzi incoraggiate dal Governo sardo,
poiché le ha permesse, e le poesie di cui le unisco copia,
stampate col permesso de' superiori, potranno dargliene una prova
manifesta.
"Io non mi dilungo, perché desidero approfittare
dell'occasione che mi si presenta, e perché questa mia non
mi precederà che di uno o due giorni.
"Genova, li 30 settembre 1846."
LETTERA QUARTA
"Eccellenza Rev.ma,
"Sebbene sicuro di ricapitare in persona la presente, pure mi
affretto a mente fresca a ricapitolare quanto vi è stato di
singolare nel Congresso scientifico or ora terminato. I due astri
del giorno sono la Santità di Pio IX, e la potenza di Carlo
Alberto; attorno a questi oggi si agglomerano gli uomini senza
distinzione né di età, né di opinione; uno
è lo scopo, come espressi nelle altre mie: serrarsi attorno
ai troni che più offrono guarentigie per rovesciare il
potere dell'Austria in Italia. Nel Congresso fatto tutto ha teso a
questo scopo; e siccome a Genova si è goduto di una
libertà, che non ha avuta l'eguale in verun altro luogo,
così le generali e private opinioni si sono manifestate
senz'alcun ritegno. Il nome di Pio IX, e quello di Carlo Alberto
non sono stati mai pronunziati in pubblico, senza che a questi
rispondessero calde e vere acclamazioni.
"Il conte Balbi, nello sciogliersi della sezione di agronomia,
ricordò ai radunati, che l'ottavo anello che ci lega in
fratellevole unione era stato fatto in quelle sale, ove un secolo
prima si era decretata la cacciata del nostro comune nemico. Il
marchese Pareto, nel licenziarsi dalla sezione di geologia, di cui
era presidente, diceva, che non dimenticassimo che la nostra
fratellanza era stata rannodata nella sala, ove cent'anni prima fu
decretata la scacciata de' Tedeschi, assicurando, che gli animi
dei Genovesi sono sempre pronti a fare altrettanto, tosto che si
presenti l'occasione. Il segretario generale, nell'ultima generale
adunanza, additava il seggio del presidente come quello che
cent'anni addietro era stato occupato dal di lui avo, per
decretare in questa stessa sala la cacciata del nemico d'Italia.
Il presidente generale, che non godeva affatto della simpatia dei
congregati, perché tacciato di gesuitismo, se ha voluto,
che il suo discorso fosse applaudito, ha dovuto ricorrere all'idea
del giorno, e terminarlo raccomandando l'amor patrio, e la
fratellanza italiana. Ad ognuna di queste dimostrazioni gli
applausi erano oltre ogni dire vivi, clamorosi, prolungati, ed
unanimi. Non potrà certamente l'Austria rimanersi taciturna
ed immobile all'appalesarsi pubblicamente di una così
grande inimicizia; e tanto ne sono tutti persuasi, che grandemente
si teme che vengano chiuse le porte di Venezia al nono Congresso,
e che, per lo meno, molti ne vengano espulsi. Né sono
bastate le dimostrazioni di odio all'Austria, e di viva simpatia a
Carlo Alberto, ed a Pio IX, addimostrate nelle pubbliche sedute;
ma eguali sensi si sono ripetuti ancora più chiaramente dai
poeti nei pubblici improvvisi, sia alle mense comuni, sia la sera
al casino, sia nelle numerose adunanze presso il marchese
Paolucci, governatore, e presso altri cospicui personaggi della
città.
"Né bisogna darsi a credere, che queste dimostrazioni siano
di poca entità; erano più di mille individui venuti
da tutte le parti d'Italia, e che o bene o male sono pure
rappresentanti della scienza italiana, che applaudivano unanimi
alle ovazioni di Pio IX, e di Carlo Alberto, e che appalesavano il
loro odio all'Austriaco: erano più di due mila accorsi come
amatori della scienza, che facevano coro ed eco agli applausi, ed
alle esagerazioni dei primi mille, e sempre, e dal principio alla
fine del Congresso, e ad ogni circostanza ed ogni allusione anche
lontana, irrompendo poi con maggior fracasso quanto più
l'allusione si faceva vicina e manifesta. Ad onta che quest'anno
il Congresso non abbia avute le sue riunioni segrete, non ha
mancato però del più forte interesse, poiché
più di ogni altra cosa ha dimostrato un fatto già
accompito, alla manifestazione del quale si è dato libero
sfogo senza ritegno; voglio dire la reale e viva fusione delle
opinioni, l'accordo il più completo ad uno scopo solo ed un
solo fine, che non è nato per segrete mene, ma per unanime
consenso: stringersi al trono del potere di Carlo Alberto, a
quello della religione di Pio IX, e con comune intelligenza tentar
di tutto, ed occorrendo ancora compromettere fortemente questi due
monarchi, nella lusinga di vedere per mezzo loro ridotta l'Italia
a quel punto di vista, a cui tentano oggi le masse. E dico le
masse, perché oggi non si tratta di cospirare contro il
proprio sovrano, ma in favore di due regnanti; le masse, sia delle
truppe piemontesi, che delle popolazioni italiane, intendono
facilmente gli ammaestramenti di coloro che oggi, in buona fede,
li tengono raccolti, ed all'unissono, perché essi pure
sperano; ma che domani farebbero servire in sens'opposto, quando
queste dimostrazioni non fossero atte ad attirare i regnanti, e
restassero delusi nelle loro aspettative.
"Livorno, 1° ottobre."
Nell'esergo della presente si vedono scritte le seguenti parole di
mano del sotto-governatore:
"7 ottobre 1846.
"Si trasmette copia del presente all'Em.mo di Stato, perché
veda quale direzione prenda lo spirito pubblico in Italia".
VIII
Venendo da ultimo al modo di compilare le note ed i registri delle
persone in sospetto, riferisco uno o due casi soltanto,
perché troppo lungo sarebbe se volessi pubblicare tutti i
documenti che ho intorno alle polizie.
I libri sono tenuti per ordine di alfabeto; alla lettera L, per
esempio, trovo che intorno a Lovatelli si hanno le seguenti
informazioni: "Vedi Lett. n. 1 del 7 settembre 1843. - Capo
rivoluzionario. - Lett. n. 4 del 19 sett. 43. - Un Romagnolo lo
cerca in Marsiglia per ricondurlo a Ravenna, perché si
metta di nuovo alla testa del movimento, come più influente
nelle Romagne. - Id. - Lovatelli è partito per Parigi, ed
il Romagnolo va ivi a raggiungerlo. - Vedi Lett. n. 7 del 25 sett.
43. - Si vuole far entrare nel nuovo piano di Zaccheroni e
Pirondi. - Vedi Lettera n. 20 del 31 ottobre 1843. È
stato rimesso in grazia dei capi cospiratori, che aveva perduta, e
fatto capo delle Romagne. - Vedi Lett. 16".
Alla lettera D si trova: "Durando Colonnello. - Vedi Lett. n. 36
del 6 febb. 44. - Proviene dalla Spagna. Trovasi ora in Marsiglia,
e sta per intraprendere il viaggio per la Sicilia. Ed ivi va al
suo posto, che gli è destinato per il movimento della
Sicilia. - Vedi Lett. n. 40, 14 febbraio 1844. - Durando non
è ancora partito".
Queste note sono delle più corte; - ve n'hanno delle
lunghissime sopra altre persone, e provano come la polizia fosse
illuminata a meraviglia sulle pratiche dei liberali.
IX
Riporto le lettere ch'io scrissi dalla segreta di Mantova: le
rividi in Zurigo, ma molte cose non sono più decifrabili.
Le riporto dunque quali sono, e taccio tutto ciò che
potrebbe compromettere qualcuno, o mettere in luce il modo con cui
mi pervennero le seghe, ecc., ecc.
"Mantova, 6 agosto 1855.
"Il mio processo s'imbroglia sempre più. Il 20 del p. s.
ebbi un interrogatorio; pervengono rapporti da Modena, che dicono
avermi i gendarmi arrestato, ed io essere fuggito: - risposi, che
non so niente. L'Ungarese di Ginevra ha cantato; ha dato tutti i
particolari della presentazione di Tito Celsi fatta da Quadrio: ho
risposto ch'io era in Inghilterra, e che non poteva essere in due
luoghi contemporaneamente; allora dopo cinque o sei giorni vi
è stato il riconoscimento personale - io fra altri due
detenuti, egli a guardarmi dal buco di una porta; non ne conosco
l'esito. Se ha dato questi particolari, avrà dato anche
altri del febbraio 53 - e l'ho potuto arguire, essendomi stato
chiesto da prima se conoscevo un Fissendi (nome falso), che era
stato a Milano, ecc.; dissi di no. - La cosa va in lungo assai: -
ne chiesi al giudice; - mi disse: per carità non parliamo
di tempo. Quanto all'affare dell'Ungarese, avrei potuto dire di
sì, perché più compromesso di quello che sono
nol posso essere, ma avrei dovuto venire a spiegazioni; cosa che
volli evitare. N.N. non ha parlato: e sta saldo. - Ora mi si usano
dei riguardi; agli esami mi si tratta già, non come un
accusato che si schernisce, ma bensì come un nemico
conosciuto e provato. Dico francamente che conosco la mia sorte,
che vi era pronto; e che dei cospiratori avviene come dei soldati,
che vanno alla guerra, i quali si renderebbero ridicoli se
pretendessero non essere feriti. Del resto, avendo io dichiarato
di non volere compromettere nessuno, di non essere un
denunziatore, di aver sempre amata la libertà del mio
paese, essi sanno a che tenersi - ed io mi considero come un
malato di etisia, che ha da vivere ancora un anno o due; quando
sarà per essere pronunziata la sentenza, ne sarò
avvisato tre giorni prima; allora esporrò con maggior
lealtà i miei principî favorevoli al mio paese,
domandando, senza rendermi umile, di essere fucilato,
perché non vorrei sulle mie spalle le gambe del carnefice;
in questo secondo caso, per precauzione scriverò nella
prossima lettera come si potrebbe farmi avere con sicurezza
dell'oppio; affinché trovino me e gli altri, che avranno la
mia sorte, morti, invece di poterli tradurre alla forca. Io sono
tranquillissimo: ho qualche momento tristissimo per i miei bimbi,
ed ecco tutto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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"L'uomo deve essere disposto a tutto, e la morte è nulla
quando si affronta pel proprio paese; il male è soltanto
che credo inutili tali sacrificî, e non vedo disposizione
nei nostri di alzarsi.
"Quando bene si è sacrificato tutto, o vi chiamano de'
pazzi se siete morti, o vi calunniano se rimanete al mondo: - ma
lasciamo ciò. - Sono sempre solo: però mi è
concessa carta e alcuni libri. L'ispettore me ne presta dei suoi -
così pure agli altri che sono soli: ma credo che non ve ne
sia che uno. Quanto ai libri, non li presta a tutti - sono pochi,
ma buoni. Io scrivo un libro; ogni mese vi è visita del
Presidente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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"Se qualcuno fosse d'accordo .. . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .ma a che
pro? chiedendo denari! niente e poi niente. Quando sarò per
morire, dirò come Voltaire: vo' in campagna. - Del resto,
non si danno bastonate, nemmeno quando vi fu il processo dei 7
impiccati(49)' - e pare certo che non avessero mai luogo,
fuorché solo in momenti precedenti alla rivoluzione del 48.
- Il povero Calvi è sempre vicino a me. Non si sa nulla. La
mia opinione è che aspettino ad eseguire la sentenza quando
hanno altri - benché egli si lusinghi dicendo, che ora, se
le cose son quiete, non si eseguiranno più sentenze di
morte per semplici delitti politici; ma io non credo nei miracoli,
così non mi illudo. Tutto sta quando la sentenza
andrà innanzi a Sua Maestà; ora non concepisco quali
riguardi possa avere per lui o per me, mentre sono qualificato in
processo come attivo rivoluzionario; buona raccomandazione! Un
saluto di cuore a Pietro ed agli altri. Ci rivedremo nel Paradiso
di Dante, perché non credo né all'Inferno, né
al Purgatorio, perché la mia coscienza non mi rimorde. Se
mai non si eseguirà la sentenza, si dice che la pena
sarà rimessa ai 20 anni, non più a vita. Non
è nulladimeno un bello divertimento . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Io spendo qui il puro necessario, tanto da non ammalare - un po'
di formaggio e pane con un po' di latte la mattina, ecco tutto; e
con questo vitto da pastore me la sto bene. Avessi la
possibilità d'un . . . . . . . . . . . . . . Sono in una
torre detta Gonzaga(50); stamane ho fatto il segno solito a Calvi,
e non mi ha risposto; non vorrei che l'avessero messo in un'altra
segreta; ma lo saprò."
"Mantova . . .
"Addio libri: l'ispettore che li aveva ha avuto il cambio, era non
. . . . . . . . . . . . . . ma umano; quello che v'è,
migliore. Le segrete non sono umide, ma si muore pei caldi e per
le zanzare sino . . . . . . . . . . . . . . da 80 gradini. Addio
Calvi - il 4 luglio fu impiccato, e morì benissimo: il
secondo sarò io; né v'è da illudersi. Si dice
che la circostanza assai aggravante fu che era . . . . uffiziale
austriaco, e di essere entrato colle armi . . . .perché i
suoi compagni continuarono a farmi i segni consueti senza dirmi
niente, e ciò per non darmi dispiacere. Io sono mezzo . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . altrimenti
mi dice il medico che non la durerà così; crescono
le spese, ma spero non andrà avanti molti mesi. Nessuno si
rassegna meglio alla morte che nei luoghi di miserie e di
solitudine, e ripeto che meglio è il morire . . . . . . . .
. . . . In tre giorni ho avuto le contestazioni; esiste una
lettera autografa di Mazzini del novembre . . . . lettera
proveniente dal Piemonte; parla di 6.000 franchi; e dice: passate
1.000 franchi a Felice Orsini che sa cosa farne; questo fatto
ch'io non . . . . mi ha dato il tracollo; io ho fatto conoscere
che non . . . . più col . . . . . . . . . . .
giacché . . . . . . . . . . . . . . . . che si facevano dei
tentativi . . . . . . . . . . . . . . ecc.; e da essa appare che
io mentirei; ma le mie ragioni sono tante e incontestabili . . . .
. per dimandare servizio, che convinceranno i giudici,
giacché . . . . . che se si . . . . . . . . . . . . .
assistere ai fatti . . . . . . . . . . . . . . . di Milano, io
avessi altra missione per l'interno della monarchia. Del resto . .
. . le cifre e la chiave . . . . . . . . . . . . Si vede che il
Bideschini . . . . . . . . . . . . . altri tutto, tutto hanno
palesato. Un Ungarese, che mi aveva accusato, sembra che al
confronto abbia detto il vero . . . . . . . . . . . . mia causa
che tutto si ristringe . . . . . . . . . . . . ad una trasmissione
d'istruzioni. . . . . . . . . . . . ma si vorrà dare un
esempio, come si dice; e così d'esempio in esempio si
continua a impiccare quasi tutti gli anni della gente. Io non sono
aggravato come il Calvi, e tanto in Sarzana che in S . . . . . . .
. . . . . . non mi . . . . . . . . . . . . .ma non . . . . . . . .
. . . . .del rimanente, se vi ha qualche miglioramento nelle
carceri, si deve alle Prigioni di Silvio Pellico, vero martire . .
. . . . . . . . . . l'uomo che i liberali hanno calunniato e
deriso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . Ad altro la mia difesa . . . . . La lettera dei 6.000
franchi pare che fosse . . . . . . . di Milano . . . . dal
Bideschini
"13. . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . non dissi mai nulla del passaporto. Mi
fu chiesto a Vienna da chi l'avessi avuto; risposi dalla famiglia
Hernagh; si ebbe per vero, e non mi si è più chiesto
nulla. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Potrebbe essere
che ei volesse una casa sicura ove nascondersi, ed a quello
bisogna che si pensi dal di fuori; ma cercherò
assolutamente di non averne bisogno, perché so cosa vuoi
dire ciò in una piazza come Mantova. Ad ogni modo, non si
deve effettuare che nel cuore dell'inverno, quando le notti sono
lunghe, p. e. nel dicembre. Il giudice mi ha assicurato che prima
della fine di gennaio non si chiude il processo. Dunque v'ha tempo
per non precipitare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . che si scuopra e sia compromesso; e nol voglio
assolutamente. Si pensi bene che su tutto ciò sono
obbligatissimo agli amici; ma la mia vita non deve poi portare il
sagrifizio loro. Poi è sempre un giuocare al lotto; lo
ripeto, la difficoltà sta nel dopo . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . La lettera dei 6.000 franchi contestatami contiene
varî nomi, fra i quali di certo dottor Pini di Piemonte,
Pontida, Ricci, toscano, Trenti, ed altri: sono accennati e
spiegati due caffè, uno di Pistoia e l'altro di Firenze, ed
è nominato il delegato di Mazzini a Malta, Nicola Fabrizi .
. . . . . . . . . . . . . . . . Ho potuto sapere . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . ho avuto comunicazione con . . . . . . .coi segni nel
muro: si sono avute nelle mani . . . . . . .la lettera dei 6.000
fr. era diretta a lui; la polizia ha preso le copie delle lettere
scritte a Piolti, e decifrate chiavi, conosciuti nomi, ecc. . . .
. . . NN. ha tenuto sodo; e non ha ammesso che l'indispensabile .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I miei
punti di difesa sono, che io andavo alla guerra d'Oriente,
com'è provato, lo che mi favorisce assaissimo; e che per
dispiaceri gravi di famiglia, e per vedere che si facevano cose
senza fondamento, io mi era ritirato del tutto dalle congiure, non
avendo più relazione con Mazzini e comp. . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ma rimane il tentativo
della Valtellina, di Sarzana, ecc., ecc., e vi è la mia
dichiarazione, che sarei pronto a sagrificare sempre la vita pel
mio paese, qualunque volta vi fosse probabilità di
riuscita, e poi le altre che io non sono denunziatore, e che non
comprometto alcuno. Mi si riguarda come uno che ha una specie di
monomania patria. Ad onta di tutto ciò, non vi è la
grazia che salvi il collo. Il povero Calvi, più aggravato
certamente, aveva deposto quasi nello stesso modo: andò
alla morte tutto vestito di nero e con guanti simili, col sigaro
in bocca, accompagnato da due guardie soltanto che egli volle di
qui, senza manette o altri legami; v'era molta gente per vederlo
uscire, ma non si vide un borghese al luogo d'esecuzione; si
lasciò appeso fino al cader del sole, ed ivi si
seppellì, fuori della porta che tocca il palazzo dei
Gonzaga, e dove sono io: si confessò prima e mostrò
il massimo d'indifferenza. Ciò è positivo; lo so da
chi lo accompagnò. Se voleva la grazia poteva,
purché avesse fatto una dichiarazione umile; egli disse:
no, voglio morire; non mi abbasserò mai, né
servirò mai costoro che opprimono la patria, e che io odio.
Queste furono a un dipresso le parole. Vero eroe! Se
toccherà a me, essendo così sciolto, vado a rischio
di farne delle belle. Basta, in tutti i casi sarò vestito
di nero, e coi guanti bianchi non ancora portati che mi diede
Madama: - chi lo avrebbe mai detto? . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
"Addio, mille strette di mano a Madama, un bacio come un colpo di
cannone."
"Li. . . . .
". . . . . . . . Ho capito solo alcune parole. Quanto all'oppio,
si avverta di metterne una minima quantità a parte, onde su
questa regolarmi; vale a dire, che quella sia sufficiente per
addormire un solo uomo, ed io su quello regolo le altre dosi;
tutta la quantità sia. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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"Ora un'altra cosa assai importante; si mettano due seghe di
acciaio fino fino, eccellenti, e che facciano il meno rumore
possibile. Non importa dell'arco . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Si uscirebbe pel ponte
di S. Giorgio, e la mia intenzione saria di guadagnare gli
Apennini; vi è di qui al Po sei miglia. Non avendo carte
geo. non posso di qui ben calcolare . . . . . . . . . . . .
S'indichi i villaggi che posso incontrare, e qual via sarebbe
migliore per ridursi in Piemonte. Come ho pensato, o in un modo o
in un altro deve riuscire il mio piano . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . Non si ha idea della sorveglianza della polizia su tutti
gli impiegati dello Stato, e massime su quelli della Corte, e
guardie, ecc. . . . . . . . . Io ne so delle belle, e chi vuole
una vera idea del dispotismo e della polizia, bisogna andare a
Vienna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Però queste furberie si usavano da noi nelle prigioni del
papa, molto più astute che queste. Il nostro affare
è un'infamia della polizia. Bedeschini, che è
libero, e che è stato pagato dal Governo, s'introdusse con
quei di Milano per ordine della polizia, animò,
sperò, ecc. per ingrandire, tirare nella rete il maggior
numero possibile, e fece abortire il movimento . . . . . . . . . .
. . . .Vera vergogna, sì, sotto il civile non si danno
legnate, le barbarie si sono usate sotto il militare; e chi
contava le bastonate coll'orologio alla mano era l'ex-ispettore
Casati, che con noi ha fatto l'umanissimo, e ha desiderate lettere
in attestato quando è partito. Però né
Tazzoli, né Speri le ebbero. Questo è il modo di
avvilire gli uomini di carattere, e di far vedere che il Governo
è mite, perché l'uomo coraggioso non le chiede al
nemico. Io sarei nello stesso caso, non domanderò nemmeno
di aver la fucilazione; sia quel che si vuole; quando ci si
è, è fatta; questo però se per accidenti, che
sopravvenissero, non potessi effettuare il mio piano già
studiato e meditato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . io non
mi umilierò verso chi odio e debbo odiare, finché
vivo - ma questo caso sarà, qualora non si possa
assolutamente far nulla del mio piano per circostanze nuove. Un
bravo giovane, certo N.N., è stato dannato a . . . Ma . . .
. . . . . . . . . . . .andrà meglio, cioè, nelle
fortezze. Si spera anche degli altri; . . . . . . . . . . . . . .
. si è portato benissimo e da coraggioso negli esami; ma
Calvi mi si dà per certo che abbia troppo urtato ed
inveito, come feci io la prima volta della carcerazione a Roma. .
. . . . . . . . . . . . .Un bacio . . . . una stretta buona di
mano a . . . . . . . . . . . . . . . . .che mi conferma che la
nostra amicizia non è delle comuni; un bacio a . . . . . .
. . . . . . . . .e . . . . . . se vi è, e . . . . . . . . .
. . . . e a tutti . . . . . . . . . . . . . . . E i miei piccini
che faranno? dove saranno? Poveri fanciulli! . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . per scrivere di nuovo: nulla
è cambiato, né vi è motivo a cambiare. Mi
raccomando che l'oppio sia in buona quantità . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . L'oppio vale per le sentinelle . . . . . . . . . .
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. . . . . . . La maggior tema io l'ho quando sono fuori,
perché la campagna è rasa; perciò datemi un
itinerario ben giusto. Il mio avviso è, dopo dilungatomi un
cinque miglia, di andare a traverso i campi, ecc., e condurmi o
agli Apennini o verso Pavia. Qui non se ne possono accorgere che
alle otto del mattino, vale a dire tre ore dopo che sono uscito
del ponte, cui si apre alle cinque. Se potessi fare con un mezzo
di trasporto un lungo tratto, andrebbe a meraviglia. Io credo di
dover sollecitare per vedere se sono a tempo che la campagna non
sia spogliata del tutto di fogliame. Del resto ho preveduto il
prevedibile; conosco appuntino la disposizione del Castello, le
fosse, quando vi è acqua e quando no; sono ben guardate, ma
non monta; siatene certi. Mi raccomando delle seghe, che siano
buone e fine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'oppio adunque
sia in buona quantità; potrebbe servire per dieci o per
dodici e tredici - in tutti i casi è meglio averne
d'avanzo. Io calcolo di fare, ecc. - dopo quindici giorni che
avrò ricevuto il tutto, o anche dopo dieci - e se sapessi
ove indirizzarmi per un mezzo di trasporto, per fare in poche ore
un venti o trenta miglia, sarebbe assai meglio. Tuttavolta
farò come mi suggerisce il mio ingegno, meglio che
potrò. Pare che nelle campagne non si faccia una grande
sorveglianza, giacché è stata aggredita la
diligenza, a sei o sette miglia di distanza, da venti persone
armate di fucili nuovi, senza che se ne sia potuto arrestare o
vedere alcuno. Io potrei protrarre la cosa alla primavera, ma non
mi fido: è venuto un ordine da Vienna che si solleciti il
processo, e non vorrei non essere più in tempo. Se sapeste
che procedura vi è per noi, ma . . . . . . . . . . . . . .
. .; io ho saputo tutto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .ed è
compatibile: deve avere le contestazioni finali, e saprò se
persiste nella via del buono: un altro ha fatto come Redaelli;
questa è cosa schifosissima; come si fa mai a mettere in
mezzo a cose politiche degli esseri immorali come il Redaelli . .
. . . . . . . . . . . . . . Non è responsabile Pippo, ma
sibbene quei Lombardi che li mettono a mano. Dovrebbero
conoscerli: essi sono responsabili di tanti arresti,
sagrifizî, ecc. Sono stati arrestati in Milano e condotti a
Mantova anche un dodici Ungaresi, tutto conseguenza. - Addio:
tutto adunque sia esatto: buona quantità del narcotico, due
seghe fine e buonissime . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . il
viglietto colle maggiori indicazioni chiare. Mi sbagliavo . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . È un
mese che non ho febbri, e mi nutrisco meglio, per avere, se non
tutta, almeno buona parte delle mie forze . . no . . . Addio.
Mille strette di mano a Madama, la quale vedo che ha mantenuta la
sua parola datami a Nizza, che la nostra buona e pura amicizia
sarebbe non peritura, quantunque dal lato mio abbia un poco
scantinato: ma mi si compatirà. Se si sapesse cosa ho
sofferto in Ungheria, nel cui passaggio mi hanno persino
incatenato colle gambe alle ferriate, tenendomi disteso giorno e
notte sopra di una panca da sedere, e talvolta sulla terra, coi
geli del gennaio; non si meraviglierà se fui un po'
irascibile: bisognerebbe avermi veduto qui giungere portato dai
gendarmi: sono robustissimo, ma di carne, e non di ferro. - Dunque
addio, e poi addio, Madama, addio, addio a Madama e a Pietro."
"Mantova . . .
"Sto sempre in attenzione. Molte cose si sono appianate, e il
progetto non presenta più dubbî nella sua riuscita.
Però chi ha tempo non aspetti tempo. Si sono offerte delle
occasioni bellissime, ma torneranno, e sono per così dire
in mio potere, finché non avvengano cambiamenti negli
uomini. Non occorre più il cordoncino. Necessita
però sempre l'oppio di ottima qualità e in buona
quantità; deve servire al . . . se almeno per un
quattordici, i quali già più volte l'avrebbero avuto
a quest'ora. Ho d'uopo altresì delle due seghe come mezzo
sussidiario, ma indispensabile in certi casi che si possano dare.
Il processo si tira avanti con una celerità incredibile, e
ciò mi spinge a non mettere tempo di mezzo. Io spendo in
questo mentre per tener vive le occasioni, e sarebbe tutto gettato
se si desistesse dal piano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
"Si fanno sempre dei cambiamenti. Nel caso di esecuzione, è
più facile che tenga altra via che quella indicata. Le
indicazioni, che mi si daranno da costì, possono essere
tuttavia buone.
"Una stretta di mano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
.
"Una stretta di mano e di cuore a Madama, un bacio agli amici,
addio, addio, addio.
"Se si tarda . . . . "
"Mantova . . .
". . . . . . . . . . . .o sia il freddo, io non ho potuto capire
altro che tu aspetti. Chieggo con questa i 100 franchi, non
perché ne abbia d'uopo ora, ma . . . . . . . . . . . ho
ancora 150 svanziche, e ciò perché mi conviene tener
vive le occasioni: spedirai franchi 80 solamente, molto più
che non puoi inviare che alla fine del venturo. Benché non
. . . . . . . . . . . in mie mani forse li potrò riavere e
effettuare così, ecc. In ogni caso per la fine di. . . . .
. .sono necessarî, anche per . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . vedendosi a te . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . ."
"Mantova . . .
"Si . . . . . . . le cose sono ridotte a un punto che sarebbe
follia il non, non fare . . . . . . . si mandi adunque oppio
ottimo e di una quantità da giovare . . . . . . è
meglio averne di più . . . . oppure mille soltanto e anche
meno, giacché per ora ba . . . e solo necessario. Ma
presto, presto, presto, presto, presto e poi presto, non si lasci
passare il mese corrente; alt. . . . altrimenti addio tutto . . .
. . . . . . . . . . . . . Questa è l'ultima che scrivo, se
non si può perfettamente . . . . . . . del resto, come
dissi nell'ultima mia. Addio di vero cuore a Madama e agli amici.
Dunque presto e bene. Si mandino anche li 80 franchi come dissi
nell'ultima, giacché li potrò riavere . . . . . . .
Dunque l'oppio ottimo e molto, cioè più del
necessario pei 14, e di effetto corto . . . . . . . poscia come
disse, nel che potrai avere qualche cosa dagli amici. Ma presto,
presto e poi presto, se no tutto sarà inutile."
"Mantova . . .
"Riscrivo, e do la mia parola che è l'ultima volta per
l'oggetto in trattativa. Non si tratta di somma ingente, ma del
solo necessario: anche solo 500 franchi, anche 200, anche i soli
100 che si spediscano . . . . . . . le probabilità scemano,
ma meglio è morire con un'arme in mano che impiccato o in
carcere . . . . . . .Si scriva subito, se si tarda un quindici
giorni non valgono più, non valgono più né
anco 100.000 franchi . . . . . . . . . . . tutto dimostra la
meschinità . . . . . . . del nostro partito; è un
fatto deplorabile che 500 franchi valgano più della vita
d'un uomo, che pure ha fatto sacrifizî, ecc.; non scrivo
nulla di detta . . . . . . . . . ecc., ecc.,. . . . . ogni volta
che scrivo, corro pericoli non piccoli. Non ho più un
soldo; le occasioni che mi procurano, costano dodici e più
svanziche, e così vivendo . . . . . . . speranza, ho finito
per esaurire i mezzi che . . . . . . . tentando in qualche modo.
Non si esiti adunque a spedire . . . . . . . i 100 franchi, se non
si ha altro; ma subito, subito, subito, se non mi appiglio alle
vie violenti, coûte qui coûte. Io sono risoluto, si
risponda . . . . . . . . . . . . . . Se mi fossi creduto
l'impossibilità di tutto da parte di chi è fuori,
avrei fatto avere col mezzo di . . . . un viglietto a mio
fratello, ed era certo; ora non vi è più tempo:
stanotte ha nevicato ed è alta la neve fino a mezza gamba.
Tuttavolta io non esito . . . . . . . . . . . . . . Addio di cuore
a Madama, a . . . . e agli amici, addio . . . . È ben
deplorabile che dal di fuori non si abbia nemmeno una relazione in
Mantova, mentre se vi fosse, di qui io avrei modo di far pervenire
e di far quanto si vuole. Ad onta di ciò, tutto, tutto,
tutto è pronto, e non si trovano in tre mesi un 500 franchi
. . . . . . . . . . . Insomma si invii quello che si può,
anche niente . . . . . . . . . . . . . . Bel partito che rimane:
sarò . . . . . . . posso aprire a tutte le . . . . . . . .
si scriva a posta corrente . . . . L'oppio sia buono, ecco tutto.
Fido più in Madama che in tanti altri non buoni ad altro
che a ciarlare e a promettere, e lo dico di tutto cuore. . . . . .
. quali disinganni!"
"7 gennaio 1856.
"Il tutto per eccellenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . Il custode non si reggeva quasi più . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Addio di cuore . . .
. . . . aiutami anche in questo."(51)
"1 febbraio 1856.
"Il 20, ad onta di molti ostacoli, diedi il bianco nella dose
indicata, ma niente. Quanto scrivevo si è verificato . . .
. . . . . . . . . . . . a me, se potrò forse aprire un
varco coi mezzi delle seghe . . . però se gli amici
avessero detto che era impossibile trovare la somma, si sarebbe
fatto lo stesso, perché avrei avuto mezzo di averne da . .
. . Non . . . . segno che pensano più a loro stessi che a
chi è nella sventura: non parliamo adunque più di
loro . . . . le occasioni che si sono date non torneranno . . . .
.e se potrò ancora, sarà effetto dell'azzardo, e
cosa realmente individuale. Si ringrazieranno mille e poi mille
volte a nome mio. Che spirito di nazionalità! Per fortuna,
nulla si è scoperto di ciò che avevo preparato, per
cui sulla buona fede . . . . . . . . . . . . . . . Ieri parlai col
presidente della mia causa: gli chiesi se sarebbesi eseguita la
sentenza, ecc., ecc.; mi disse che non mi voleva illudere, ecc.,
ecc. Vada come si vuole . . . . . . . . . . . . . . . .bisogna
rallegrarsi per forza: se dovrò morire . . . . . . . . lo
farò disprezzando chi mi fece del male . . . e i falsi
amici . . . . avrò solo in mente l'amico, che mi è
stato costante anche nella sventura! Quel non sapersi decidere
degli amici è stato causa che ho gettati que' danari, che
mi avrebbero durato ancora un otto mesi . . . . . Io non posso
più dipendere dagli amici(52), cui non voglio . . . . . . .
. . . . . . . . .manderai quindi a posta corrente le poche righe
scritte a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . .Addio mille volte: a rivederci . . . quando? non oso
più fare congetture: se mi si presenta il varco,
farò; se no, correrò la sorte che mi aspetta. In
tutti i casi io ti ringrazio migliaia e poi migliaia di volte.
Addio, addio di cuore."
"Mantova, 10 febbraio 1856.
"Troppo lungo sarebbe il narrarti tutto il fatto: però se
la metà pei 16 faceva, tutto era compiuto. - Per me spero
di essere a tempo e di raccontarti tutto a voce. Io era stato
messo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . possibile il primo, non il secondo che sto
facendo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .per riprendere a
scrivere un libro, che avea incominciato colla speranza di andare
in una segreta da me esplorata a dovere. Aveva fatte per
ciò tutte le pratiche colle guardie; ma il presidente,
annuendo alla mia inchiesta, mi decretò la peggiore segreta
che vi fosse. Avendogli, dopo che io era solo, detto che non si
vedeva luce che tardi, egli mi rispose che quella ove io avrei
desiderato di andare non era molto sicura, perché dava nei
tetti: mi rassegnai. Egli disse anche, in caso di evasione, tutti
i membri della Corte Speciale di Giustizia, e lui pel primo,
sarebbero stati acciuffati per ordine del Governo: fu questa la
espressione; il che fa vedere che si ha molto a caro avermi nelle
mani austriache. Fo però di buona volontà, e pare
che il varco, che ti accennai nell'ultima mia, si vada aprendo. Ho
finestra altissima, due inferriate grosse, l'una dall'altra
distante per modo, che non vi si giunge se non segata la prima, e
poi una ramata, e poi 30 metri da me misurati di altezza, e poi
quasi due uomini d'acqua nel tempo delle grandi pioggie. Appena
sono alla metà dell'opera; tutto mediante le seghe, ma una
mi si è rotta, e potrebbe nel più bello avvenire
così dell'altra; bisogna però che tu a posta
corrente, o un giorno dopo, me ne mandi due almeno; o meglio tre
della stessa qualità . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . Manda subito, perché se
piove e gonfia la fossa, mi converrà aspettare l'estate, e
allora non so se vivrò più: chi ha tempo non aspetti
tempo: non ripeto parola, perché ti conosco. Così
tutto che hai fatto non è invano; per calare ho preparato
il necessario; certo che senza audacia non si sarebbe nemmeno
incominciato il lavoro, di cui già sono alla metà,
ad onta delle visite diurne e notturne di tre in tre ore; ma la
volontà e il disprezzo della vita, e il voler vivere a
dispetto di chi ne vorrebbe morti, siano poi nemici assenti o
celati, fa operare tal cosa che sembra piuttosto da romanzo che
realtà. Ho già tutto calcolato, ormai non temo si
scoprano i preparativi. Tutto sta che i mezzi di calarmi, che ho
ben calcolati, non mi lascino rompere il collo; ebbene se
ciò fosse, segno è che è già suonata
la mia ora. Dunque da un lato ogni triste pensiero. Conto sulle
due o tre seghe inviate subito, ed anche qui mi affido alla tua
sperimentata e non fallace amicizia . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . Addio di cuore a te, a te, e poi a te. Un saluto al .
. . . . . . . . . . . . . . digli che sono al n° 4, nel
castello 777, un saluto . . . . Addio di nuovo, addio, mille cose
affettuose a chi debbo amare e stimare più che mia
madre(53)."
"16 marzo 1856.
"Se le ali d'Icaro non si sciolgono, io sarò salvo: . . ci
rivedremo di certo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . Ora addio, addio, addio di cuore: io spero bene; tutto
è bene calcolato, e pare che il cerchio della mia vita, che
mi veniva rammentato a Nizza, non sia ancora del tutto chiuso.
Vedremo. Addio di cuore: i saluti al marchese e agli amici buoni e
veri, che sono pur troppo pochi . . . . . . . . . . . . . . . ."
FINE
INDICE
DEDICA AI GIOVANI
PARTE PRIMA
CAPITOLO PRIMO - Stato dell'Italia nel 1831 – Reazione negli Stati
Pontificî - Centurioni - Briganti e liberali -
Società segrete - Agitazione delle Romagne nel 43 e 44 -
Arresto dell'Autore
CAPITOLO SECONDO - Prigioni - Interrogatorio - Segretina di Pesaro
- Fortezza di S. Leo - Il comandante Debanni - Vita di prigione -
Viaggio a Roma – Le Carceri Nuove - La Sacra Consulta - Eusebio
Barbetti - Tentativo d'evasione - La Pasqua - La fortezza di
Civita Castellana - Morte di papa Gregorio - Amnistia
CAPITOLO TERZO - I partiti nelle Romagne - La Giovine Italia - Li
agenti piemontesi
CAPITOLO QUARTO - Stato dell'Italia nel 48 – Classi agricole e
basso popolo - Classi colte e civili - Gioberti e Mazzini -
Insurrezione di Milano – Guerra in Lombardia - Cagioni del mal
esito della rivoluzione
CAPITOLO QUINTO - Congiure - Difesa di Venezia - Repubblica a Roma
- Campagna del 49 – Triumvirato romano - Suoi errori - Missione
dell'Autore in Ancona ed in Ascoli - Caduta della Repubblica
CAPITOLO SESTO - Comitato Nazionale Italiano a Londra - Il 6
febbraio del 53 - Sue funeste conseguenze - Tentativo di Sarzana -
Arresto - Sfratto
CAPITOLO SETTIMO - I fuorusciti a Londra - Nuovo tentativo nella
Lunigiana - Istruzioni di Mazzini - Sbarco alle foci della Magra -
Fuga - Riflessioni sulle spedizioni di fuorusciti
CAPITOLO OTTAVO - Tentativo nella Valtellina - Esercito di Mazzini
- Arresto e fuga - Un cacciatore svizzero - Missione a Milano -
Istruzioni di Mazzini
CAPITOLO NONO - Il Comitato di Milano - A Venezia - Un incontro
sinistro - A Vienna - Viaggio in Ungheria
PARTE SECONDA
CAPITOLO PRIMO - Arresto in Hermanstadt - Malattia -Un carceriere
pietoso - La Polizei Hause di Vienna - Interrogatorî -
Conversazione in viaggio - Arrivo al Castello di S. Giorgio in
Mantova - Il custode Casati
CAPITOLO SECONDO - Descrizione del Castello di S. Giorgio -
Governo delle carceri - Le bastonate
CAPITOLO TERZO - La Corte Speciale di Giustizia - Il presidente
Vicentini - I consiglieri Picker, Schumaker e Sanchez - Procedura
della Corte Speciale
CAPITOLO QUARTO - Interrogatorî - La polizia sapeva tutto -
Visite - Capi d'accusa
CAPITOLO QUINTO - Conversazione a segni - Nuovo interrogatorio -
Fortunato Calvi - Il traditore Bideschini - Colloquio con Calvi e
con Casati
CAPITOLO SESTO - Ore di prigione - Letture - Marcia funebre -
Lotte interne
CAPITOLO SETTIMO - Ultimi momenti di Calvi - Il barone Corasciuti
- Meriti del Casati - Il capitano Straub
CAPITOLO OTTAVO - Contestazioni - Il custode Tirelli - Monsignor
Martini - I secondini - Mutamento di prigione - Un custode tedesco
- La segreta n. 4
CAPITOLO NONO - Corrispondenze - Apparecchi all'evasione - Altezza
del muro - Le inferriate - Visite notturne - Segamento delle
sbarre di ferro - Pericoli
CAPITOLO DECIMO - Fuga di Redaelli - Arresto - Una caduta
pericolosa - Risoluzione - Evasione - Soccorso - Ricovero
CAPITOLO UNDICESIMO - Gratitudine - A Genova – A Zurigo - Non fu
opera di Mazzini- La spia
CAPITOLO DODICESIMO - Accoglienze in Londra - Dopo la fuga - Una
guardia carceraria - Meeting - Professione di fede - Le amiche di
Mazzini - Rottura – Le mie Memorie - Dichiarazioni
CAPITOLO TREDICESIMO - Speranze d'Italia - Indipendenza. -
Monarchia e rivoluzione - L'Italia non è pronta - Stato
dell'Europa
CAPITOLO QUATTORDICESIMO - Cenno storico sulla libertà
italiana - Nazionalità - Educatevi per educare il popolo
CAPITOLO QUINDICESIMO - Principî da inculcare al popolo
CAPITOLO SEDICESIMO - Classificazione dei partiti In Italia - Il
Maometto moderno - I costituzionali piemontesi - Murattisti -
Repubblicani - Mazziniani - Sistema teorico e pratico di Mazzini
CONCLUSIONE
APPENDICE
I - Lettera del cardinale Lambruschini al cardinal Legato di
Bologna
II - Lettera del cardinal Legato di Bologna al cardinale
Lambruschini, e risposta di questo a quello
III e IV - Lettere del confidente segreto Lucarelli al Governatore
di Roma
V - Una lettera del colonnello Freddi al dottor Paolini
VI - Lettere del dottor Paolini al colonnello Freddi
VII - Quattro rapporti confidenziali al Governatore di Roma sul
Congresso degli scienziati in Genova
VIII - Documenti intorno alla polizia
IX - Lettere scritte dalla segreta di Mantova
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1 Questo stesso nel 1849 fummi mandato in Ascoli dal Triumvirato
Romano, mentre io vi era come commissario civile e militare.
Doveva egli sussidiarmi in tutto che occorreva per ischiacciare il
brigantaggio. Che bella scelta! Ei s'indettava col nemico, e
creò non pochi ostacoli al disimpegno della mia missione.
(N. d. A.)
2 Equivalgono a circa sei soldi e mezzo di Francia. (N. d. A.)
3 Il Governo inglese intercettò delle lettere a Mazzini;
e sembra certo ch'egli desse avviso ai governi italiani dei nuovi
tentativi. Così dobbiamo a lui lo spargimento di sangue di
venti dei nostri migliori connazionali. Vedi Appendice, I. (N. d.
A.)
4 Vedi Appendice, II. (N. d. A.)
5 Vedi Appendice, III e seguenti. (N.d.A.)
6 Non è mia mente di descrivere la storia dei
rivolgimenti del 1848-49, ma sibbene di mettere in luce i
principali eventi e cagioni, che li fecero in ultimo risultamento
fallire, onde ci servano per l'avvenire di ammaestramento.
(N.d.A.)
7 Ogni giovane italiano dovrebbe aver seco i discorsi di lui
sulla Servitù dell'Italia. Quali ammaestramenti ne
trarrebbe mai! (N. d. A.)
8 A dare un'idea dei nobili e generosi sentimenti, da cui erano
animati i giovani lombardi, or sono dieci anni, riporto qui il
brano d'uno dei loro indirizzi per invitare la gioventù a
sottomettersi a privazioni dannose allo straniero, a non fumare
più. Dopo avere parlato della lega fatta dagli Americani
nello scorso secolo di non più fare uso del tè; dopo
proposto ad esempio la risoluzione presa dai seguaci di Washington
contro gli oppressori, così è detto:
"Non deridete tenui principî, che preparano gli animi a
sacrifizî maggiori e più gravi: sappiate volere; il
vostro popolo, che vi ode parlare di patria, domanda esempi e
sacrifizî, perché egli è uso a fare davvero!
"Cominci a deporre straniere usanze chi vuol fare da sé;
nuoce al corpo, e mal s'addice il fumo del tabacco fra le dolci
aure olezzanti dei fiori d'Italia.
"Chi oserà dire questo costume bisogno degl'Italiani? Per
un popolo che sorge, bisogno vero è amare e giovare, come
meglio si può, alla patria".
E quanto si chiedeva in queste parole, veniva fatto con potenza di
volere, con concordia universale. Quai giorni non furono quelli!
Il sacrificio era dolce in chi voleva cacciare lo straniero, in
chi intendeva redimere l'Italia. - Giovani italiani! Rammentate
quai generosi fatti nascevano dieci anni or sono: infiammatevi di
nuovo dell'entusiasmo, onde quel giovani erano animati; e siate
pronti a insorgere in massa per cacciare gli stranieri e
gl'interni oppressori, che lacerano il seno della vostra infelice
patria. (N.d.A.)
9 Mazzini, a sua propria scelta, si è sempre creduto il
rappresentante della rivoluzione e della repubblica tanto d'Italia
che di Francia: di questo pur l'accusano i principali repubblicani
francesi in uno scritto pubblicato nel 1852 a Bruxelles, e firmato
tra gli altri da Louis Blanc e Pierre Leroux. (N. d. A.)
10 Carlo Alberto non può chiamarsi traditore come gli
altri principi italiani: questi corsero alla guerra col
prestabilito accordo di ritirarsene, non appena loro si
presentasse un'occasione: mentre il primo voleva vincere, e non
cedette che alla forza. Se poi diceva a Milano che resistesse, nel
mentre che trattava cogli Austriaci, seguiva ciò che
avrebbe fatto qualunque re: voleva migliori condizioni, e tempo.
(N.d.A.)
11 In quella stessa sera si conosceva che Leopoldo II era
fuggito di Firenze, e che il governo come a Roma rimaneva in
potere dei cittadini. (N.d.A.)
12 Le speranze di Mazzini si fondavano su un moto promesso dai
liberali francesi a Parigi: ma anche qui l'illustre Triumviro
andava grandemente errato, e dava fede alle parole, anziché
consultare lo stato reale degli animi in Francia.
Dopo le stragi di giugno, che avevano mietuto il fiore dei
repubblicani francesi, era egli a sperarsi che fosse nata una
nuova rivoluzione? o meglio, che la reazione avesse voluto
rimanere a mezzo della sua impresa?
Se queste speranze caddero nella mente del Triunviro e dei
liberali francesi, bisogna ben dir che l'accusa lor data di niuna
pratica politica non poteva essere maggiormente vera.
Le rivoluzioni non si creano l'una dietro l'altra; la disfatta di
giugno aveva fiaccato il popolo, e il nervo della popolazione: si
aggiunga a questo la demoralizzazione del partito repubblicano, e
si vedrà se era possibile un moto. E non erano stati i
repubblicani capi, che avevano dato ordine a Cavaignac di
mitragliare il popolo? E come poteva supporsi, che quello stesso
popolo, qualora ne avesse pure la forza, si sarebbe levato alle
voci loro? (N.d.A.)
13 Nelle discussioni diplomatiche Mazzini mostrò una rara
accortezza, congiunta a bello stile e a precisione di termini. Non
v'ha dubbio che il maneggio della lingua è una delle
più feconde doti di lui. (N.d.A.)
14 In Inghilterra dai suoi amici ed intime amiche si fece sempre
credere, ch'ei fosse in Milano alla direzione del moto: il che
passava come verità incontrastabile, tanto che i liberali
stessi francesi e germani e polacchi e ungaresi sel credevano. Pel
primo io diedi una mentita a questo fatto, non già per
menomare il merito o il coraggio di Mazzini, che può
averne; ma per essere fedele alle leggi del vero; per non dare
un'arma ai nostri nemici; per non oscurare il nome
dell'ex-triumviro con menzogne indegne di un tanto uomo. (N.d.A.)
15 Da un rapporto austriaco si ha, che cinquantasei furono i
soldati tra feriti e morti in quella occasione. (N. d. A.)
16 Facendo il viaggio negli Apennini centrali da Sarzana a
Modena, ebbi campo di esaminarne le posizioni, e giudicai che
delle bande armate e forti, in caso di rivoluzione contemporanea
su di altri punti, avrebbero potuto in que' luoghi tagliare le
comunicazioni all'inimico, che si volesse condurre in Toscana o
nella Romagna. In caso poi di rotta, si sarebbe potuto ritirarsi
verso lo Stato Romano; e seguendo sempre la criniera degli
Apennini, giugnere a cacciarsi negli Abruzzi e nelle Calabrie. Pel
che si richiedevano due estremi: 1°) l'andare incontro alla
buona stagione; 2°) capacità nei capi, e devozione a
tutta prova negli uomini. Come ebbi raggiunto a Sarzana Saffi e
Pigozzi, dissi loro del progetto: ne fu scritto a Mazzini;
rispose: che ove si fosse realizzato contemporaneamente ai fatti
di Milano, sarebbe stato un colpo da maestro; che dopo, tornava
quasi inutile; che tuttavia tentassi. Mi condussi allora di nuovo
sui luoghi; ma nulla fu possibile di effettuare: trovai gli animi
abbattuti fuor di ogni credere. Mazzini tenne a mente il mio
progetto, e lo studiasse o no in seguito, certo è ch'ei
volle effettuarlo pochi mesi dopo. (N. d. A.)
17 Questi era lo stesso, che trovandosi capitano aiutante
maggiore del battaglione Zambeccari, fu ferito da canto a me nella
presa di Mestre. (N.d.A.)
18 Comunicato ad alcuni miei amici di Nizza, che si dicevano
essere sempre pronti per un fatto di arme, l'ordine di partenza
per Sarzana, la notizia n'andò per le bocche d'ognuno. E
questo è uno dei grandi pericoli, che si manifesta nelle
cospirazioni: alla vigilia di un moto è mestieri metterne a
parte moltissimi individui, ed è quasi impossibile che le
cose non si divulghino. Se ciò accade nei moti, che debbono
eseguirsi qualche ora soltanto dopo l'avviso, che non sarà
quando gli uomini per condursi al luogo dell'azione debbono fare
viaggi, ecc.?
Ad onta però di questo, le autorità sarde non
conobbero il tentativo, che quando gli uomini erano già al
posto; e se Cerretti non fosse mancato, avremmo avuto tutto il
campo di eseguire il nostro progetto. (N.d.A.)
19 Io stesso portai meco grande quantità di cappellotti,
de' quali in una guerra di bande è necessario avere in
precedenza forti provvisioni; imperocché egli è
facilissimo poter fabbricare della polvere, ma non così dei
primi, senza di cui d'altronde i fucili riescono inutili
strumenti.
Per la necessità di dovere ingannare i doganieri piemontesi
nell'andare su e giù, furono fatte fare due divise
identiche alle loro. Una fu rinvenuta dalle autorità sarde
dopo i primi arresti accaduti; l'altra portò in salvo il
conte Ugo Pepoli di Bologna. Di tutte poi le munizioni, e fucili,
nulla poté mai venire in mano del governo, ad onta delle
ricerche ch'ei facesse in avvenire. (N.d.A.)
20 Merighi [Cesare] fu portatore di lettere di Mazzini, e di
alcune parole di Kossuth a guisa di proclama: tanto queste come
altre, insieme con le ricevute del danaro, il cui titolo essendo
semplicemente commerciale non poteva compromettere alcuno, tenni
presso di me. (N.d.A.)
21 Lo dico una volta per sempre: il venire a zuffa coi soldati
piemontesi non fu mai mia intenzione. Io abborro da una guerra
civile e fraterna, e combatto solo gl'instrumenti della tirannide.
Ora, per quanto siasi esagerato o fanatico, non si potrà
dire che questa governasse allora o governi oggi il reame sardo.
(N.d.A.)
22 Pochi dì dopo che mi trovavo in Genova, seppi che
Calvi era stato arrestato nelle montagne del Cadore, ove si disse
essersi condotto per una spedizione di Mazzini. Quanto mai era
lungi dal pensare, che tra non molto gli sarei stato vicino di
prigione, e che avrei pianto sulla fine dell'amico estinto, che da
muro a muro mi confortava co' suoi accenti patriotici! (N. d. A.)
23 Quanto dico intorno ai tre guardacoste mi venne riferito dai
giovani di S. Terenzo a nome del capitano Cal[afatti]. (N. d. A.)
24 Il Fissendi e l'altro recaronsi in Lombardia colle istruzioni
di Mazzini, senza che niuna intelligenza vi fosse per parte di chi
doveva eseguirle, ed a cui erano dirette. Per il che in luogo di
aderenti trovarono persone fredde e maravigliantisi della
imprudenza del Mazzini: rimasero isolati, e perfino si tennero per
emissarî inviati dall'Austria. Ciò che dico il seppi
in Mantova da persone compromesse appunto per questo stolido
operare del capo della Giovine Italia: i Bresciani, che furono
compromessi, possono far fede delle parole che vengo qui
affermando. (N.d.A.)
25 Su questo appellativo amo spendere alcune parole. Quando fui
con Mazzini, m'ebbi in animo non di servir lui o il suo nome, ma
la causa di cui stimava fosse il rappresentante; della cui salute
credeva si occupasse per convinzione di avere mezzi, ingegno ed
influenza adatti. Come m'accorsi ch'egli non possedeva le
qualità richieste all'uomo redentore di una nazione, come
ciò seppi per propria esperienza, lo lasciai. E quando feci
questo, me gli mantenni tuttavia amico; e non cessai di essere
mazziniano, per la ragione che non essendolo mai stato, non poteva
nemmeno cessare di esserlo. (N.d.A.)
26 Le istruzioni, scritte a modo di articoli, venivano ad essere
identiche nella sostanza a quelle di Mazzini. Non erano
però sottoscritte da niuno. (N.d.A.)
27 Dissi questo, onde non far conoscere qual direzione prendevo:
in questa nuova missione, se si eccettuano le Istruzioni da me
scritte, non tralasciai di pigliare le migliori precauzioni. (N.
d. A.)
28 Quanto dico di questo tribunale deve formare un concetto di
tutti i tribunali politici ed eccezionali; civili o militari, poco
importa. I loro processi si riducono a formalità. Sono
fazioni, che si disputano il terreno; ed a motori, anzi che la
ragione e la legalità, hanno le passioni, l'astuzia, la
vendetta, l'odio, e la ferma volontà di volere ad ogni
costo scoprire la verità. (N. d. A.)
29 Riferisco per esteso e letteralmente ciò che fuvvi di
importante e di singolare ne' primi interrogatorî: non vi
aggiungo commenti; li faccia il lettore. (N.d.A.)
30 Per due volte non si ebbe mai riscontro: mi fu allora
permesso di scrivere alla signora Casati, dimorante pure in
Zurigo, coll'obbligo di usare le stesse precauzioni: quanto alle
risposte, si concedette che fossero spedite a Mantova
all'accennato nome, e ferme in posta. (N. d. A.)
31 È a sapersi, che per ben due volte mi convenne tornare
a Milano. Il console svizzero di Torino mi aveva vidimato il
passaporto per la Lombardia soltanto, sicché a Venezia non
mi fu permesso di procedere nel mio viaggio, e fu forza rinviare
il passaporto a Torino. (N.d.A.)
32 Vedi le mie lettere scritte alla signora Emma Herwegh.
Appendice alla Parte seconda. (N.d.A.)
33 Tutto calcolato, io compiei il taglio degli otto ferri in 24
o 25 giorni. (N.d.A.)
34 Non s'intende già del telegrafo elettrico, ma sibbene
di uno speciale al comando militare, stabilito in un'altra torre,
e che corrisponde con segnali fatti con aste. (N. d. A.)
35 Una volta usciti per andare agli interrogatorî,
è assai facile fuggire di concerto coi secondini: se invece
di tornare nel castello, fossevi stata pronta una carrozza fuori
piazza delle Gallette, era fatta: certo che il secondino avrebbe
dovuto venir meco, e correre il rischio di raggiungere le
frontiere. Questo era il solo mezzo di fuggire tranquillamente. Un
secondino l'avrebbe fatto: aspettò lungo tempo; indi fu
mandato in altre prigioni. Il governo non seppe mai alcun che.
Quanto all'evadere poi dal castello, altra via non vi era, che
quella tenuta da me stesso. (N.d.A.)
36 Quanto dico è pienamente conosciuto dalle
autorità: ma sono abusi ben difficili ad evitare. (N.d.A.)
37 Tra le varie amiche di Mazzini si distingue per zelo questa
signora, buona pittrice, che gli ha fatto parecchi ritratti in
diversi atteggiamenti. Tanto essa, quanto altre risguardano
Mazzini come un Dio, un Gesù Cristo: del resto, mettono in
ridicolo e l'Italia e i patrioti italiani; calunniano infamemente,
e bistrattano chiunque non vada a verso loro, o chiunque non si
faccia cieco strumento del profeta. La stessa signora Emilia
Haw[kes] sta compilando la biografia di Mazzini: sarà
davvero un capolavoro d'imparzialità! (N.d.A.)
38 Il nominare costui in queste carte sarebbe troppo onore: onde
lo tralascio, e mi sto pago all'indicare solo il prenome. (N. d.
A.)
39

Il partito del moderno Maometto, che arrogantemente si
dà il titolo di nazionale, ha per organizzazione un centro:
questo è costituito da Mazzini stesso; la sua
volontà forma legge assoluta; i suoi consiglieri e
consigliere adorano, ascoltano, ed eseguiscono con occhi bassi i
responsi maomettani. Ecco tutto: e quando si pubblica che in
Londra havvi un Comitato Nazionale per l'Italia costituito da
Mazzini, o un Comitato repubblicano europeo a capo del quale sta
Mazzini, si mente. No, non ne esiste di tal fatta.
Mazzini, Campanella, Saffi, certo Bezzi, l'ex-avvocato, ora
birraio, James S[tansfeld], la signora Emilia Haw[kes], la signora
Gi[bson Aretusa Milner], la signora Bi[ggs Matilde] in Londra;
Maurizio Quadrio altrove, e la signora Fan[ny Di Negro Balbi
Piòvera] in Genova, sono le persone, che dicono avere in
mano le sorti dell'Italia, e forse (almeno se lo credono) quelle
dell'Europa.
L'organo di tutti questi signori è l'Italia del Popolo, che
si regge in piedi per le sovvenzioni delle suaccennate signore.
Questo giornale ha due scatole a sua disposizione: in una tiene il
veleno, nell'altra il patriottismo; e così, a seconda che
un individuo loda o biasima il nuovo Maometto, o l'uno dei
suaccennati signori o signore, sparge il veleno e cerca di
infamare, o crea invece un patriota, un eroe di colui, che ad
occhi chinati obbedisce, e si fa servo del grande agitator ligure.
(N. d. A.)
40 Non parlo degli abitanti delle campagne o agricoltori,
perché in genere i nomi d'indipendenza e costituzione sono
per loro parole arabe: ciò che dissi intorno a queste
classi nel Capitolo IV della prima parte, non ha avuto certo
grandi cambiamenti dopo il 1848. (N.d.A.)
41 La unità morale è la sola, che costituisce
all'interno la forza d'un popolo, di una nazione; senza di essa
l'unità politica suona dispotismo, e scompare alla prima
occasione. E questa fu appunto la ragione, per cui ai primi
attentati dei barbari contro Roma, nessuna provincia si diede cura
o interesse di puntellare l'impero. (N.d.A.)
42 Il celebre Sismondo de' Sismondi, a proposito di Mazzini e
delle sue dottrine, previde questo fatto, ed in una lettera dice:
Et gardons nous surtout de l'imposture d'une religion nouvelle; e
all'occasione della spedizione di Savoia predisse pure, che
Mazzini e la sua setta diverrebbero la rovina d'Italia. (N. d. A.)
43 Vedi Le Pape au dix-neuvième siècle,
édité à Paris, bureau du Nouveau Monde, 102,
rue Richelieu, 1850. (N. d. A.)
44 Non intendo qui di suggerire tutte le idee necessarie per un
programma d'azione, ché non mi ritengo da tanto,
bensì di esporne alcune che sembranmi indispensabili.
(N.d.A.)
45 Si allude all'amnistia, data l'anno scorso dall'imperatore
d'Austria. (N.d.A.)
46 I documenti, che ho in mie mani, formano l'archivio segreto
del colonnello Freddi, e vennero in potere dei liberali durante la
Repubblica Romana nel 1849. Trovansi in essi moltissime lettere di
Lambruschini, e dei principali cardinali tuttora viventi; e
vengono in luce tutti gl'intrighi del governo papale, che
travagliarono specialmente le Romagne dal 1843 fino al dì
dell'amnistia, e le pratiche dei sanfedisti durante il periodo
delle riforme sino allo scomparire del colonnello Freddi dalla
scena politica. Alcuni di questi documenti furono già da me
pubblicati in inglese, e qui mi limito a darne solo quel tanto che
sembrami indispensabile. (N.d.A.)
47 Mentre sto scrivendo queste memorie, si torna in sul parlare,
che il governo inglese, spinto dal suo alleato Napoleone, voglia
prendere severe misure contro i fuorusciti, e spiarne sempre
più gli andamenti: se ciò è vero, non
è un sogno, che l'alleanza con Napoleone dell'Inghilterra
sta per tornarle di danno, per oscurare la dignità
nazionale, per porre le Isole Britanniche a livello del dispotismo
continentale. (N.d.A.)
48 Questi documenti sono stati copiati quali si vedono negli
originali. (N. d. A.)
49 Questo mi veniva assicurato da Casati; dal Sanchez e dal
secondini stessi seppi in appresso che si erano date, e che si
potevano dare a piacimento dei giudici. (N.d.A.)
50 Quando scriveva quelle prime lettere, non ero ancora
informato sulla disposizione del Castello. (N.d.A.)
51 Per intendere queste parole, è mestieri sapere che fu
somministrato l'oppio al custode, ai secondini, e alle sentinelle:
ma non si poté riuscire a fuggire: il narcotico non
produsse l'effetto voluto. (N.d.A.)
52 Gli amici a cui io alludeva erano Mazzini e i suoi intimi. -
Alcuni di questi, a dir vero, si mostrarono amorevoli verso di me
oltre ogni aspettativa; non così Mazzini, il quale s'ebbe
perfino da uno di essi, Pietro C[ironi], qualche lagnanza intorno
alla noncuranza mostrata nel non mandare oggetti richiesti per la
evasione. - Si è parlato d'ingratitudine mia verso Mazzini,
dicendo ch'io era salvo per suo mezzo. Or bene, per amore della
verità, dichiaro che ove avessi riposato sui soccorsi di
lui, durante la mia prigionia, men sarei morto di fame, o avrei
terminato i miei giorni sulla forca. - Io debbo tutto al mio amico
L..., alla signora Emma Herwegh, e a Pietro Cironi. Dopo di questi
son debitore della salvezza a me stesso, alla Provvidenza, e agli
uomini che mi raccolsero dalla fossa, e mi assistettero poscia.
(N.d.A.)
53 Su questa frase un miserabile, Federico Campanella, tutti i
cui sagrifizî patrî si riducono all'aver condotto una
vita agiata fra quattro sottane, nel quartiere di Fulhane in
Londra, osò spargere parole di ridicolo. - Bisogna proprio
essere o vile o infame per porre in ridicolo dei sentimenti avuti
da un uomo, che avea, si può dire, la corda al collo, e che
si esprimeva scrivendo a quella persona che faceva di tutto per
salvarlo. (N.d.A.)