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ALFREDO ORIANI



GELOSIA



I

Nell'afa del meriggio Mario sollecitava colla frusta il grasso cavallo.

La strada, larga e dritta, in quell'incendio di sole sembrava confondersi col tremolìo dell'aria, entro la quale la polvere, sollevandosi, metteva tratto tratto una nebbia giallognola. Il caldo era soffocante. L'ombra, ritiratasi sotto gli alberi, ne allargava la base dei tronchi, e l'erba appariva sporca sui margini dei fossi, mentre nella strada solitaria il solco dei veicoli e l'orma dei piedi si vedevano sino molto lungi, profondi quanto nel fango.

Non s'incontrava anima viva. Solo il coro delle cicale, nascoste fra le fronde, seguitava a cantare con tale monotonia, che vi si sentiva sotto l'oppressione del silenzio. Poi qualche uccello, staccandosi dalla cima di un albero, sembrava gettare un lieve strido d'impazienza, e passava rapido nel sole.

La vecchia e larga carrettella era già tutta bianca.

Mario, abbandonato sull'alto dossale, cogli abiti scottanti e le redini lente, si era calcata la cappellina di paglia gialla sugli occhi, e ogni tanto li socchiudeva. Al disopra delle siepi spessi lampi gli giungevano, accesi dal sole sulla lucentezza metallica delle foglie; vedeva un nuvolo d'insetti aggirarsi in vortice denso e silenzioso; poi un tafano schizzava rapidissimo intorno al cavallo, gli si librava sul collo, sulle reni, sulla groppa,sfuggendo d'un colpo per ritornare coll'insistenza di una velocità, che nulla poteva stancare.

Il viaggio non era lungo.

La strada, appena fuori della città, s'internava fra le colline separate da una florida distesa di campi. I poderi spesseggiavano; le case coloniche, vecchie e malandate, si travedevano come una macchia dentro la verzura, ma la terra in quel mese di luglio lussureggiava. Le stoppie coi gambi qua e là schiacciati, dello strame sfuggito alla falciatura, parevano immense pezze di un cinereo caldo fra i filari verdi delle viti; le canape alte e cupe alitavano un aroma amaro, mentre i gelsi, sfogliati da poco, sorgevano come scheletri tra quella pompa e quella fiamma solare così intensa, che l'anima stessa si addormiva in fondo alle proprie ombre.

«Ci vorrà ancora mezz'ora» disse la vecchia Teresa, che il moto sobbalzante della carrettella aveva quasi addormentata; quindi si trasse più innanzi sul naso il fazzoletto cremisi di seta, col quale si riparava dal sole.

Non avevano ombrello; Mario annuì senza rispondere.

Il vecchio cavallo trottava pesantemente alzando la polvere, in nuvola, sotto il suo largo ventre; e teneva le orecchie e il collo basso, quasi ad annusare il terreno, senz'altra vivacità che nella coda, colla quale si schermiva da un volo di mosche querulo ed ostinato. Pareva che, conoscendo da lunga pezza la strada, la dimenticasse nella sicurezza di una fatica automatica. I suoi finimenti sotto quel polverio diventavano anche più poveri, la carrettella oscillava con un suono di ferraglia, interrotto a quando a quando dal cigolio di una ruota, o dal tremito argentino dei lampioni. Era quasi sverniciata, coi cuscini e i parafanghi in brandelli.

Mario guardò in alto respirando forte; dalla mano, posata sul pomo ardente della martinicca, gli veniva una sensazione dilettosa. Il cielo abbagliante di serenità s'abbassava dietro i colli come una immensa tenda, attraverso la quale i raggi del sole imbiancavano il proprio oro per cadere in una invisibile pioggia di aghi dritti e continui, che foravano la pelle. Ma quell'azzurro, quasi biancheggiante come la polvere della strada, rendeva il cielo anche più vasto nella scialba uniformità del colore. L'orizzonte era scomparso, sui colli diventati quasi più bassi non si discerneva più che una vampa, e nella solitudine della strada non passava viandante, e dai campi, ove gli alberi lasciavano spiovere stancamente le foglie, non un soffio faceva tremolare l'immobile intensità dell'ora.

Mario si sentiva arroventato.

Quegli abiti in tela leggera, di un color chiaro, gli lasciavano penetrare nel sangue un calore indefinibile; gli pareva di non potersi muovere, come nella prima oppressione del sonno, e nullameno un crescendo irresistibile di vita lo sopraffaceva. I raggi del sole gli percotevano sul ventre.

Aveva la bocca riarsa e gli occhi torbidi.

E il contatto della Teresa, traballante al suo fianco per gli scuotimenti della carrettella, gli raddoppiava quel caldo, nel quale lentamente gli veniva sugli occhi socchiusi un sogno anche più ardente e luminoso.

Erano usciti dalla città nel pomeriggio. Sapendo di essere atteso a pranzo per le due, perché l'avvocato gli aveva precisata l'ora nel lasciargli la moglie del fattore colla vecchia carrettella per il viaggio, Mario era tornato prima a casa per mettersi quell'abito nuovo e quelle scarpette gialle all'ultima moda, calcolando sull'effetto di tale piccola eleganza in campagna. Ma, appena fuori di porta, il caldo l'aveva oppresso; non era possibile spingere il cavallo ad un trotto maggiore, poi sarebbe stata un'imprudenza colla Teresa. Quindi, nell'abbacinamento di quella luce, tutte le idee gli si erano confuse, mentre allungandosi involontariamente sui cuscini, come dentro un bagno, tratto tratto protendeva il ventre con un sorriso sulle labbra secche.

La strada saliva adagio, torcendosi a molte svolte.

Il cavallo solo stava desto; grosse chiazze di sudore gli macchiavano già la groppa, mentre proseguiva in quel trotto cadenzato, imprimendo alla carrettella una oscillazione quasi ritmica. Siccome era domenica, e quella l'ora del pranzo, non avevano ancora incontrato alcuno. Poche ville non ricche interrompevano le siepi coi cancelli verdi di legno; i colli correvano d'ambo i lati della strada con lieve ondulazione, senza spezzare la propria linea: le siepi molto alte e i filari a festoni piantati lungo di esse, li nascondevano sovente.

Al ponte della Torretta, la Teresa si rizzò di soprassalto sulla schiena; erano vicino alla villa.

«Credo che il burro si sarà disfatto nel cassetto, con questo caldo; il signor avvocato si lamenterà.»

«La colpa non è nostra.»

«Non è stata una bella idea di farci venire a quest'ora. La signora Annetta, che è così bianca, ne sarebbe morta; senza ombrellino non osa nemmeno uscire sul prato.»

Allora parlarono di lei. Mario rispondeva appena, ascoltando; la Teresa pareva fare qualche riserva sulla padrona.

«Andiamo dunque, Carlone» si rivolse al cavallo; «se avessi guidato io, saremmo già arrivati.»

«Ecco le redini: avete voluto che le tenessi...»

«In città! Un bel giovanotto,» aggiunse sorridendo sardonicamente «farsi vedere guidato da una vecchia come me!»

Erano arrivati. Si vedeva il cancello rustico con due pioppi a fianco; un battente era aperto.

Sul prato della villa non uscì alcuno. La Teresa smontò, trasse dal cassetto il cartoccio del burro, e tornò poco lungi alla propria casa col cavallo a mano, lasciando Mario entrare solo nel casino. Egli si fermò un istante all'uscio verde. Così in piedi, vestito di chiaro, biondo e roseo sotto i raggi del sole, era un bel giovane; aveva le spalle larghe e le gambe dritte. La freschezza del suo volto, illuminato dal sorriso degli occhi cerulei e delle labbra rosse, perdeva della propria femminilità con quei baffetti, tirati su pretensiosamente alla spagnola; ma in quel momento era velato di malinconia.

Entrando nell'andito, che apriva il casino per tutta la sua profondità, s'incontrò nell'avvocato in manica di camicia e colla pipa in bocca. La sua grossa figura, nella libertà di quello scarso abbigliamento, pareva anche più greve; le bretelle a crociera gli reggevano i calzoni tagliando il bianco della camicia con righe multicolori. Cominciava già ad essere calvo e brizzolato, colla barba tagliata a punta, ma di un pelo così piatto che sembrava di primo tempo un empiastro. Nullameno la fronte alta e due occhi neri, penetranti, davano alla sua fisonomia una specie di nobiltà intelligente, mentre il sorriso della bocca, sotto il naso grosso e sensuale, ne compiva il carattere bonario.

«Ah! Avete il burro, caro Mario; ne faremo dei crostini per l’antipasto. Date qua, lo porto io stesso in cucina.»

Ma la cuoca uscì da una porta laterale.

«Già!» esclamò, vedendo tutto il cartoccio unto: «sarà diventato rancido, e poi daranno la colpa a me.»

L’avvocato sorrise.

«La signora Annetta?» chiese Mario.

«È su. Avete finito quella memoria?»

E attirandolo sopra il vecchio sofà di percalle, poco pulito, gli parlò di cose legali. Mario si era tratta la cappellina, e si asciugava il sudore con un fazzoletto bianco, a larga orlatura fiorata, cercando di non scomporsi la scriminatura; ma rispondeva attento, con molta deferenza, a tutte le sue interrogazioni.

In quell'andito fatto dalla profondità di tre camere, e chiuso da due massicci usci verdi senza controporte o invetriate, la temperatura, arrivando dal di fuori, era quasi troppo fresca. Mario si rimise la cappellina, e si abbottonò la giacca. Nel mezzo sorgeva la tavola, imbandita quasi poveramente, se non fossero state le vecchie posate d'argento a darle un'aria signorile su quella tovaglia grossa e coi piatti di maiolica spaiati. Alcune foglie di vite sotto i bicchieri vi facevano una fresca macchia verde di una semplicità poetica; due bottiglie di vino bianco tramandavano qualche iride aurata.

C'era un altro divano e un tavolino a muro, zoppo da un piede; nessuna pittura alle pareti, delle quali l'intonaco era qua e là caduto; ma alcune chiazze di umidità avevano sporcata la volta con un colore odioso di muffa. Le sedie scompagnate mostravano la paglia rotta.

Quel casino, con un grosso podere, l'unica eredità lasciata all'avvocato dal padre, era in pessime condizioni; ma, sebbene lo studio gli prosperasse, egli aspettava, da buon borghese, di poterlo rimodernare senza inconvenienti per le proprie finanze. Ora non aveva arredato che l'appartamento di città per contentare la vanità della signora Annetta.

Quando l'udirono discendere le scale, Mario si cavò la cappellina alzandosi in piedi.

«Siete arrivato finalmente!» ella gridò con accento allegro prima ancora che potessero vederla, saltando gli ultimi due gradini a piè pari come una bambina.

Infatti ne aveva quasi la fisonomia, ma la statura, il corpo florido col petto e le anche opulenti, un'immensa capellatura bionda scarduffata sulla fronte, e una ricercatezza minuta e stonata qua e là nel vestito, ne facevano una donnina adorabile. La sua fisonomia, d'una regolarità vicina alla perfezione, di primo tempo non impressionava; i suoi occhi troppo grandi, di un verde che talvolta pareva turchino, non avevano abbastanza luce; la sua bocca fresca, coi denti bianchissimi, parlava e rideva colla stessa vivacità; le sue guance avevano la brina delle pesche, mentre la sua fronte liscia, di un bianco più intenso, pareva una benda sotto l'oro ardente dei capelli. Il suo abito di mussolina a righe era di una temerità ignorante. Aveva la vita troppo lunga anche per la moda, gli sbuffi delle maniche troppo salienti sulle spalle, la gonna troppo stretta sui fianchi, la scollatura circolare troppo bassa e mascherata da una bavarina larga, di un bianco rugginoso, cogli orli rosa. S'indovinava subito una pretensione d'eleganza non aiutata dalla fine esperienza del gusto. L'arruffio dei capelli, così voluminoso, faceva pensare ad un turbante, e le calze nere ad un prete, ma invece aveva le scarpette chiare. Nonpertanto la sua giovine bellezza trionfava di tutte quelle stonature; ed era così ilare nella coscienza della propria perfezione, si capiva tanto bene che quella testolina rosea e raggiante non avrebbe mai pensato, la limpidità cristallina de' suoi occhi era talmente piena d'iridi, il sorriso delle sue labbra così inconsapevole di bontà, la sua salute così trionfante e la sua anima così vuota, che una luce di simpatia l'avvolgeva come quei bimbi, dei quali la contentezza è un contagio, e la scempiaggine dei giuochi una ricreazione per tutti.

Venne incontro a Mario, gli strinse la mano, togliendogli dall'altra la cappellina, che andò ella stessa a deporre sul tavolo a muro.

«Raccontatemi tutto. Siete passato per la piazza? Avete visto la baronessa andare in Duomo. Scommetto che aveva l'abito rosso dell'altra domenica! ... E le Falconi? La Ghita, sempre con quel cappellino a sporta ... oh! se si vedesse! No, aspettate, signor Mario: voi già non ci avete badato, ma le Tivaroni, è impossibile che non le abbiate vedute coll'ingegnere dietro. Carino anche lui! Chi sa come la gente avrà riso vedendovi colla Teresa su quella carrettella!»

E, beata del proprio cicaleccio e di tutta quella fantasmagoria di evocazioni, si abbandonava ridendo sulla sedia, coi piedi sporgenti dalle sottane, e col seno troppo stringato, che le tremava voluttuosamente sotto l'onda di quella gioia.

Mario si difendeva alla meglio; diceva di aver sempre dormito durante il viaggio, tanto il vecchio Carlone sapeva bene la strada.

«Se non ci fossi tu, Pippo,» ella si rivolse scoppiando a ridere di nuovo «sai che Carlone sarebbe il più vecchio di tutti noi? lo ho ventidue anni, sono già molti; il signor Mario venticinque, tu ne hai quanti noi due sommati insieme: Carlone ne ha ventinove.»

«Quando tu ne avrai altrettanti, vi ti attaccherai, pazzerella, per molti anni; dopo i trenta la donna non è più giovane.»

«Galba è ancor lontano!» intervenne Mario.

Egli la guardò di sfuggita, come per chiederle un segno di risposta; ma ella finse di non accorgersene.

«Veronica!» strillò «vengo ad aiutarti; farò io i crostini.»

E, prima ancora che la serva rispondesse dalla cucina, balzò in piedi e con un grande svolazzo di sottane sparve, non senza rivolgersi all'uscio con un riso grazioso di birberia.

«Se volete mettervi in libertà, Mario,» disse l'avvocato, mostrandoglisi bonariamente così in maniche di camicia, «Annetta non se ne offende.»

L'altro ricusò.

«Siete un elegante, voi! Non me n'ero ancora accorto; stamane avete un abito nuovo. Fumate dunque; volete bere?»

Ricominciarono i discorsi giuridici, ma l'altro tendeva l'orecchio al chiacchierio della cucina, dalla quale salivano ogni tanto risa perlate fra la voce grossa della Veronica, che brontolava. A poco a poco quella distrazione s'impadronì anche dell'avvocato, così che finirono per andare verso la cucina.

«No» guaì la signora Annetta, slanciandosi verso l'uscio per impedire loro d'entrare: «non voglio che mi vediate.»

«Chi sa in quali intingoli ti sporchi!»

«Sono sempre più pulita di lei, signor avvocato.»

«Allude forse ai processi?» disse Mario con accento, nel quale fremeva già un principio d'irritazione.

«Anche, anche; vadano via, in cucina comandiamo noi.»

Essi tornarono al divano.

Il pranzo era di una grande semplicità. La Veronica cuoceva e serviva a tavola, sudata, col grembiule tutt'altro che pulito, grugnendo ad ogni piatto. Non era contenta dell'opera propria. In quella cucina di campagna, così abbandonata, mancava tutto; gli altri invece trovavano deliziosa ogni pietanza. L'avvocato, robusto mangiatore, sulle prime non parlava, curvo sul piatto della minestra, della quale il fumo grasso gli saliva su per la faccia; la signora Annetta, invece, l'assaggiava a piccole cucchiaiate, mentre Mario, affettando di aspettare che il brodo si agghiacciasse, cercava con prudente insistenza di scambiare con lei qualche occhiata. Negli occhi azzurri gli passava qualche lampo di collera, ma ogni qualvolta ella sorrideva, anche senza guardarlo, Mario, pigliando per sé quel sorriso, si rasserenava.

«Non mangiate, Mario?» gli disse l'avvocato.

«Aspetto: piuttosto, come fa ella a mandar giù una minestra così bollente?»

«Ah!» ribatté con intenzione spiritosa, e riempiendosi nuovamente la piattellina, «ho subìto ben altre prove del fuoco.»

La signora Annetta mangiava con tutte le moine più pretensiose dell'eleganza, quasi facesse una concessione ad una necessaria volgarità, ma con tanta energia di salute finiva col mangiare molto. L'avvocato la berteggiava, ella s'offendeva scherzosamente, il signor Mario diceva solo qualche parola, respinto suo malgrado da quella loro intimità di coniugi. Nullameno la conversazione si legò a poco a poco, il tema ne divenne presto il casino. Assolutamente bisognava restaurarlo, perché così era davvero indecente; impossibile invitarvi qualcuno, tranne il signor Mario quasi di famiglia, senza farsi rider dietro.

La signora Annetta tornava e ritornava sui particolari. L'andito verrebbe trasformato in una specie di salone; qualche trofeo di caccia e qualche panoplia con alcune giardiniere basterebbero. Il pavimento bisognerebbe metterlo a mattonelle lucide, così moderne e così carine; quindi spostare la cucina, e fare la camera da letto su al primo piano; e sotto, dove era adesso, ci verrebbe un salotto di ricevimento. L'appartamento superiore si componeva di cinque stanze, libere sopra un altro andito uguale.

Ella, già presa in quella visione di lusso, sminuzzava le descrizioni; era un cicaleccio, un abbarbaglio pieno di lampi e di sorrisi, colle parole che s'incalzavano sotto i gesti graziosi e petulanti.

«Conclusione!» disse l'avvocato «ci vogliono trentamila franchi.»

«Li guadagnerai.»

«Lo spero bene, poi tu me li butterai tutti in una sol volta.»

«Ma sarò contenta. Quanto tempo ti ci vorrà per guadagnarli?»

«Domandalo al signor Mario.»

Questi si era accigliato; l'allegra curiosità della signora Annetta ne ricevé quasi un urto, ma rivolgendosi da capo al marito.

«Quanto, quanto?»

«Quanto tempo impiegheremo» egli ripeté coll'altro «per vincere la lite della Cartiera?»

«Se si vincerà» rispose Mario freddamente.

«Ne dubitate?»

Ma l'avvocato, rientrando nel tema favorito di quella causa, si rimise a spiegarla. Adesso il suo volto volgare e bonario si era fatto grave, parlava adagio, con forma più eletta, come dettando una memoria. L'altro, costretto ad ascoltarlo, cercava nel fondo della propria scienza legale, ancora troppo scarsa, qualche obbiezione per intorbidare le gaie speranze di quella donnina così spensieratamente egoista. Ma in quel dibattito, del quale non capiva gran cosa, ella aveva cessato di divertirsi e seguitava a mangiare, mentre l'avvocato colla forchetta brandita faceva qualche gesto lento e poderoso.

Ad un argomento falso di Mario sorrise, parando con tale prontezza e con una citazione così irresistibile, che l'altro rimase interdetto.

La signora Annetta sorrise anche lei.

«Non ti affrettare a sorridermi» le disse l'avvocato; «non basta, per vincere una causa, aver ragione e saperla sostenere. Ci sono i signori del tribunale.»

Ma la sconfitta di Mario aveva tolto l'allegria al pranzo. Egli tentava ancora di scusarsi, confessando la propria inferiorità di fronte alla scienza dell'avvocato; però si sentiva fremere nella sua voce il dispetto. L'altro credette a una piccola crisi della vanità umiliata, frequente negli scolari e nei principianti.

La signora Annetta invece cominciò a guardarlo, tratto tratto.

La temperatura dell'andito era deliziosa, il pranzo ordinario, ma buono. Dopo le frutta presero il caffè, poi l'avvocato accese la pipa, andandosi a sdraiare sul divano.

Mario e la signora Annetta rimasero ancora a tavola, in faccia; egli fumava una sigaretta attardandosi nel vuotare la propria tazza, ella si baloccava con una susina. Non si parlavano. Improvvisamente, come spinti da una molla, sorrisero, e quel sorriso illuminò tutto il loro secreto. Egli tornò ilare, ella si alzò per andare verso il marito; lo circondarono sedendogli vicino.

L'avvocato, che aveva la digestione laboriosa, adesso parlava poco; toccava a loro due tenerlo sveglio, e chiacchieravano a caso di pettegolezzi cittadini, di mode, di nonnulla. Pareva che quella intimità a tavola, fra marito e moglie, parlando dei ristauri, si ripetesse ora imprudentemente fra i due giovani. Le parole avevano dei doppi sensi, e il sorriso le commentava, mentre nei loro occhi, quasi egualmente chiari, s'accendevano fosforescenze rapide quanto un baleno, ed intelligibili come un appello.

In quell'aria fresca, col calore del pranzo nel sangue, si allungavano inconsciamente sulla scranna. L'avvocato, dinanzi a loro, era quasi sdraiato sullo schienale del divano, col largo ventre sporgente dai calzoni, appena rattenuto dalla crociera delle bretelle, e di quando in quando sbuffava. La volgarità della sua natura si tradiva in ogni atto. La stessa vecchia pipa di legno finiva per dargli un'aria di carrettiere di fronte alla signora Annetta, guantata da quell'abito di mussolina, sul quale il suo collo sorgeva voluttuosamente bianco, ombrato sotto la nuca dai riccioli biondi.

Mario la divorava cogli occhi; ella si abbandonava coi piedi non molto piccoli, che le si agitavano di quando in quando fuori delle sottane. Qualche parola le moriva sulle labbra, guardando il marito distrattamente.

Questi andava chiudendo gli occhi.

Mario sussurrò a denti stretti:

«Annetta ...»

Ella tremò, mostrandogli il marito; l'altro s'indispetti. Tacquero. L'avvocato abbassava lentamente la mano, nella quale teneva la pipa già spenta, il suo respiro si faceva più grosso. Allora i due si sentirono addosso l'incubo dell'attesa; stavano imbarazzati spiando, temendo quasi di guardarsi per non tradirsi, se aprisse gli occhi. Mario frenava l'anelito, che gli cresceva nel petto, ella soffriva di un'impazienza piena d'irritazioni; non avrebbe voluto essere lì, temeva quanto stava per accadere, provando al tempo stesso dispetto e paura, e nella paura un sottile fremito di piacere.

«Annetta ...» ripeté Mario più distintamente.

Ella titubò, poi facendogli un cenno intraducibile, improvvisamente, leggera, quasi senza fare rumore, fuggì in cucina presso la Veronica, che aveva già finito di mangiare e rimescolava i piatti.

Sul viso di Mario passò una vampa di collera, ma non osò voltarsi per non svegliare l'avvocato, anzi lo guardò con una espressione sprezzante di rancore. Dalla cucina s'udiva l'Annetta ciarlare allegramente colla Veronica. A Mario pareva di essere schernito. Subiti pensieri di violenza gli attraversavano il cervello, mentre un odio assurdo ed irresistibile gli veniva dalla contemplazione di quell'uomo così volgarmente, impudentemente addormentato dopo pranzo, dinanzi a sua moglie adorabile e adorata, che poteva tradirlo impunemente, e lo aveva già tradito, e ora sfuggiva, colla bugiarda viltà della donna, a tutte le promesse balbettate pochi giorni prima con lui, Mario, in un'ora di abbandono. Egli non era venuto al casino se non per questo, nella speranza di trovarla sola qualche minuto.

La passione gli sferzava il cuore. Avrebbe voluto andare in cucina, ma anche là c'era la Veronica, e Annetta l'avrebbe evitato; poi temeva di tradirsi, si sentiva incapace di dominarsi. Sperò che ritornasse. Adesso la Veronica lavava le casseruole, ma l'altra rimaneva in cucina; si udivano scricchiolare le sue scarpette, ella girellava, faceva tintinnare i bicchieri e i tegami. Evidentemente era in lei un proposito deliberato: non tornerebbe. Eppure l'avvocato dormiva, ella avrebbe potuto rientrare nell'andito senza timore, magari solo per il tempo di un bacio.

Fu bussato alla porta. Era la Teresa, che avendo finito di pranzare veniva a visitare i padroni. L'avvocato si destò e riprese la pipa per accenderla.

«Che caldo!» esclamò la Teresa, respirando deliziosamente l'aria fresca dell'andito.

Aveva un mondo di cose da dire; prese famigliarmente una sedia presso l'avvocato. La sua figura corta e tozza, in quell'abito di percalle turchino a fiorami di un colore più pallido, una stoffa quasi da tenda, era ancora piena di vigore; le guance le penzolavano sotto le mascelle, ma la quadratura del viso e la durezza della fronte rivelavano tutta la sua energica natura. Il fattore era lei. Adesso non finiva più colle lagnanze. Bisognava ridare il solfato di rame alle viti; era una dannazione con quella peronospora, una volta sconosciuta, e che adesso distruggeva tutte le foglie della vite, così che i grappoli inariditi cascavano.

La Teresa accettava le spiegazioni scientifiche di quel morbo, ma diceva nullameno che era un castigo di Dio. Poi la vacca di Giacomo, dopo il parto, non aveva potuto liberarsi dalla matrice; c'era pericolo.

«Venga a vederla; sta in piedi, ma si lamenta a quando a quando, come una donna. Le avevo fatto preparare un brodone; non lo ha nemmeno assaggiato. Venga a vederla anche lei, c'è pericolo che muoia.»

«Ma io non me ne intendo.»

La signora Annetta rientrò nell'andito.

«M'avete portato le avellane?»

«Sì! le hanno rubate. Se lo prendo quel birichino di Tonio, il figlio della Nena!»

L'Annetta sorrise. Mario si era avvicinato supplicandola cogli occhi, mentre ella fingeva di non accorgersene. La Teresa era inesauribile; si capiva che, sapendo il fatto suo, se ne vantava, ma dai suoi discorsi traspariva una grande onestà. Accettò dalla signora Annetta un grande bicchiere di vino, ripetendo che era caldo.

«Ho messo a letto Girolamo; cala, cala il buon uomo.»

«L'uomo siete voi» rispose scherzando l'avvocato.

«Infatti non sono mai riuscita a far un figlio» ma nel suo accento non c'era rimpianto.

L'avvocato diede un'occhiata ad Annetta; anch'essi, dopo due anni di matrimonio, erano senza figli, ma se ne rammaricavano.

«Bah!» prosegui la Teresa alzando le spalle: «quando si è giovani, c'è sempre tempo. Perché non vanno un po' a letto con questo caldo?»

E questa domanda diventava così maliziosa, dopo quella osservazione, che tutti si guardarono.

«Già,» disse l'avvocato «che cosa si fa sino alle sette?»

S'alzò, lasciando la pipa sul divano; Mario si accostò all'Annetta imprudentemente, mormorandole tra i denti, cogli occhi sfolgoranti:

«No.»

Ella finse di non capire.

La Veronica veniva a sparecchiare la tavola.

«lo e lei,» disse la Teresa a Mario «mentre i signori padroni vanno un po' a letto, giuocheremo una scopa. Vuole?»

Mario dovette sorridere.

«Vado a far la piega alle lenzuola» esclamò la Veronica passando nella camera da letto, della quale l'uscio era presso quel divano.

Poi ritornò:

«Signor avvocato, non ci sono le sue pianelle: bisogna fare alla meglio.»

«Poco importa» e s'avviava già verso la porta. La signora Annetta sembrava contrariata dalla volgarità impudica di quella scena; Mario, livido, per darsi un contegno si era messo ad accendere un sigaro, rompendone replicatamente la punta coi denti. Tremava.

L'avvocato era già entrato nella camera; ella dovette seguirlo, ma aveva abbassato la testa, vergognosa dei pensieri, che indovinava negli altri, su quanto stava per accaderle in quel pomeriggio così caldo e voluttuoso. Al momento di chiudere l'uscio guardò Mario, che le si rivolse cogli occhi fiammeggianti e la bocca contratta da un sogghigno doloroso. L'uscio si chiuse quasi violentemente.

«Dammi ancora da bere» disse la Teresa alla Veronica.

La tavola era già sparecchiata, le due bottiglie del vino bianco, ancor piene a metà, stavano sul tavolo a muro, dietro il vassoio delle frutta.

Le due donne sedettero. Mario girava su e giù, verso la porta, cercando di rimettersi, coll'orecchio teso a tutti i rumori dell'altra camera; indi a poco il letto scricchiolò. Era l'avvocato, senza dubbio, che vi si sprofondava pesantemente.

Le due donne parlavano di cucina. Mario, colla testa in fiamme e il cuore che gli batteva dolorosamente, avrebbe almeno voluto avventarsi a quell'uscio, scardinarlo, piombare su quel letto, e dividerli. Era una ossessione, che gli cresceva coll'impeto di una pazzia.

«A che cosa giuochiamo, signor Mario?» si volse la Teresa. «Giuochiamo tutti e tre a calabresella, così ci sta anche la Veronica: due centesimi la partita. Il vino ce lo passa l'avvocato. Va a prendere la carte, Veronica; tanto, noi tre, non dormiamo ... Crede lei che dormiranno?» esclamò sopra altro tono accennandogli l'uscio, dietro al quale erano scomparsi l'avvocato e la signora Annetta.

Mario trasalì, ma la Teresa rivoltasi alla porta della cucina, per aspettare che la Veronica tornasse colle carte, non se ne accorse.

«Si metta qui, signor Mario; lei già non ha sonno. Scommetto che nemmeno la signora Annetta ne ha ancora...» E il suo viso largo e grasso di donna vecchia, per la quale l'amore non ha più pudori, rendeva per Mario più opprimenti quelle parole. Per rimettersi tracannò d'un sorso un gran bicchiere di vino. Non avrebbe voluto giuocare per tutto l'oro del mondo, ma la Veronica contava già sulla tavola il mazzo delle carte, per constatare se ve ne mancassero; le carte erano unte.

«Diciamo piano» mormorò la Veronica.

«Adesso,» ribatté maliziosamente l'altra «possiamo parlare ancora. Anche lei piglierà moglie, signor Mario, una bella donnina come la signora Annetta e avrà dei bambini belli. Il signor avvocato ...»

Ma la Veronica, che aveva inteso altre volte quell'accusa, intervenne per difenderlo.

«Non è ancora vecchio, la signora Annetta piuttosto ...»

Mario, colle mani tremanti, prese il mazzo delle carte e, per troncare il discorso, disse ruvidamente:

«A che cosa volete dunque giuocare?»

«A calabresella, un centesimo alla partita.»

«Due»

Si accordarono sui due centesimi.

La partita incominciò. Ma il signor Mario non aveva la testa a segno. Il suo pensiero soffriva dentro l'altra camera, assistendo alla inevitabile scena di quei due, abbandonati l'uno a fianco dell'altro alla suggestione voluttuosa di quel pomeriggio. Le carte gli tremavano nelle mani, mentre gli occhi gli correvano irresistibilmente a quell'uscio chiuso, cui le due donne voltavano le spalle.

«Non sa dunque giuocare?» strillò la Teresa ad un suo svarione, che decideva della partita. «A che cosa pensa?»

L'altro si scosse. L'irritazione gli cresceva come un caldo, che gli salisse sotto la sedia dal pavimento, fra quella blanda frescura dell'andito, nella pace di quella luce filtrante dai vetri sudici delle lunette sopra le due porte. Fuori, il sole doveva avere tutte le vampe del meriggio. Alla terza partita Mario confessò di non saper giuocare, pagò generosamente i sei centesimi, e andò a gettarsi sul divano presso l'uscio, dicendo di voler piuttosto sonnecchiare. Le due donne allora si attaccarono a scopa.

Egli ascoltava, col viso al muro e le labbra strette rabbiosamente.

In quella eccitazione di tutti i sensi gli pareva d'intendere, fra lo scricchiolìo del letto, il soffio faticoso di una forte respirazione; vedeva dentro quella camera buia come se fosse inondata di sole, torcendosi nella gelosia senza che la sua ragione vi trovasse nulla a ridire. Colla ferocia delle passioni, che si dilaniano, la gelosia gli mostrava tutti gli atteggiamenti di quei due, gli sussurrava le loro parole, i sospiri tronchi di lei, gli mostrava le sue moine, e quel pallore ch'egli le conosceva, quando gli occhi le diventavano smorti e le labbra le tremavano in un urlo soffocato.

Egli aspettava angosciosamente quell'urlo, che si sentiva ancora nella memoria, come il grido supremo di tutta la propria felicità.

«Scopa!» strillò trionfalmente la Veronica.

La Teresa si lasciò scappare una esclamazione sguaiata.

Mario ascoltava sempre, dicendosi che non udiva nulla, e non pertanto parendogli di udire, volendo udire quell'urlo, che gli avrebbe dato la sensazione della morte.

Poi la Teresa lo chiamò, perché giudicasse fra loro due il valore della primiera.

«Non so giuocare, ve l'ho pur detto» rispose villanamente, e andò fuori sul prato, sbattendo la porta. Il sole era sempre così ardente, le cicale cantavano instancabili, l'aria bolliva sui campi. Quell'immenso calore gli fece bene; passò dietro il casino, cacciandosi per un sentiero che saliva il colle.

Aveva bisogno di muoversi, di bestemmiare ad alta voce, stancando in qualche violento esercizio la passione, che lo sconvolgeva. Ma un'altra voluttà, un bisogno rovente di amore, gli venivano da quella campagna in fiore, dalle foglie, dagli alberi assorti nel sole, dalle stoppie riarse, dai prati, ove il fieno falciato si essiccava vaporando i più dolci profumi, dai peschi, sui quali i frutti avevano sorrisi sanguigni come quelli del rubino. L'ombra stessa era piena d'inviti. I piccoli soffi del vento parevano un respiro soffocato, che uscisse dal secreto di tutto quel fogliame, ove gli uccelli nascondevano i propri amori.

In cima del colle sedette all'ombra di una quercia.

Le ragazze scendevano già per andare alla funzione dei vespri, vestite a festa, rosse e sudanti, ridendo; qualche giovanotto, colla giacca buttata sopra una spalla e la camicia bianca, le seguiva celiando colle parole e colle mani.

Ma gli uni e le altre gli parevano brutti al confronto della signora Annetta.

Il sole si manteneva alto quasi immobile.

Quanto starebbero in letto? Dormiva ella? Pensava a lui? Sognava?

Egli invece tornava a sognare irresistibilmente di lei in quella camera, vicino a quell'uomo grasso che russava, e che essendo suo marito, aveva il diritto di farlo. Ella gli permetteva, naturalmente, tutto. Ma allora che cosa rimaneva quell'altro amore, così bello di gioventù e così profondo di passione, quel delirio di sensi e di anima, nel quale tutto il mondo spariva? Adesso gli riprendeva la smania di tornare al casino per vedere se fossero alzati, pur sapendo che era ancora troppo presto. La vista della campagna gli divenne improvvisamente odiosa; era una solitudine, nella quale gli bisognava ripiegarsi sopra se stesso. Gli parve inesplicabile che gente di mondo potesse vivere per mesi alla campagna, nella monotonia di una decorazione sempre la medesima, coll'impossibilità di barattare un'idea. Che cosa fare in campagna, se non mettersi a letto per ammazzare il tempo? E l'immagine della signora Annetta gli ricompariva nuovamente al pensiero, con quel sorriso di bimba felice. Ella non immaginava una sola delle sue sofferenze di quell'ora. Tutte così le donne; le più sensibili non oltrepassano le proprie sensazioni.

Quindi si provava ad odiarla per la sua spensieratezza e quell'allegria, che la faceva svolazzare di cosa in cosa, lasciandosi prendere a tutti gli incanti, e sfuggendo subito nell'attrazione di altri fascini.

Guardò l'orologio; non segnava che le cinque. Dovevano essere ancora a letto. Tornò ad alzarsi, si allontanò ancora verso il sole, che cominciava a declinare. La campagna si ammolliva sotto ombre sempre più grandi, s'intendevano meglio cantare gli uccelli, il coro delle cicale s'interrompeva a quando a quando. Le contadine, più frequenti pel sentiero, passavano salutando curiosamente.

Finalmente ritornò. Prima d'arrivare al casino s'imbatté nella Teresa, che trascinava l'avvocato a visitare la vacca, dovette seguirli, ma non volle a nessun patto entrare nella stalla. La Teresa aveva preparato per la signora Annetta il latte rappreso, una ghiottoneria da bambini, impolverato di caffè.

Ella lo mangiò sul prato, entro una scodella verde, tutta felice, col suo bell'appetito di donna sana dopo il sonno. Aveva la carni fresche, riposate, coi grandi occhi chiari, più dolci di prima. Egli guardava con una meraviglia stizzosa quella tranquillità inconsapevole.

Ma ad una sua occhiata ella trasalì. La Teresa e la Veronica le stavano intorno, l'avvocato finiva di fumare l'ultima pipa, sdraiato sull'erba come un contadino. Mario, in piedi, non parlava, quasi dimenticato.

Poi venne l'ora della partenza. La Veronica se ne andò, sopra un biroccino, coll'asino del podere e una ragazza; la signora Annetta sparì nelle stanze del piano superiore. Egli dovette accompagnare l'avvocato nella stalla per aiutare il vecchio Girolamo, che attaccava il cavallo da nolo, col quale erano venuti la mattina.

Ma, profittando di un momento, poté rientrare nel casino e cacciarsi nella camera da letto. Voleva vedere, una curiosità ignobile e violenta lo spingeva: senonché la Teresa vi finiva appunto di fare il letto, e si volse meravigliata.

L'altro s'arrestò interdetto.

«Che cosa cerca?»

«Voi,» rispose dopo un momento d'imbarazzo: «il signor avvocato vi ha nominato.»

Per fortuna la signora Annetta, che non terminava mai d'acconciarsi, trattenne tanto la Teresa da farle dimenticare quella falsa chiamata.

Finalmente partirono fra i saluti della Teresa, di Girolamo e dei contadini accorsi sul prato; guidava l'avvocato, Mario sedeva dirimpetto alla signora Annetta, sul sedile di contro, voltando la schiena al cavallo. Aveva le gambe incrociate colle sue, ma non gliele stringeva. Il vespro scendeva mollemente dai colli con un refrigerio di ombre e un sussurro e una blandizie di vento, che commoveva tutte le piante. Egli sulle prime ingrugnito, cogli occhi bassi, affettava di non guardarla; ella si era abbandonata sullo schienale del carrettino, col volto in alto e gli occhi natanti nell'ombra sotto il grande cappellino di paglia pieno di fiori, e i capelli biondi, a riccioli, che tremavano leggermente come una nebbia dorata. La sua posa era di una eleganza squisitamente voluttuosa; pareva stanca, colle braccia inerti, il seno meno turgido, assopita nella tenerezza della sera imminente. Poi si guardarono. Egli le strinse un ginocchio: ella velò lo sguardo senza chiuderlo, cedendo il corpo al dondolamento del carrettino, come nella prima arrendevolezza del sonno.

Presso alla città la gente vestita a festa riempiva la strada.

Ella si raddrizzò, e gli disse quasi seccamente:

«Signor Mario, ella può scendere qui. In tre sopra un carrettino faremmo ridere.»

L'avvocato sorrise bonariamente di questa vanità, rispondendo al saluto di Mario già disceso, e che si rivolgeva fra un gruppo di passanti fermi a guardare.



II

Il signor Mario Zanetti era entrato da sei mesi nello studio di Filippo Buonconti, avvocato illustre in tutta la provincia per la probità dell'ingegno e l'esattezza laboriosa, colla quale disimpegnava ogni processo. La piccola città cominciava ad inorgoglire di lui, dacché recandosi a Firenze o a Bologna, lottava sovente con vantaggio contro le maggiori celebrità del foro italiano.

Mario, presentandosi da solo, era stato accolto a braccia aperte. Suo padre, mediocre ingegnere, morto anzi tempo lasciando la vedova in dolorose ristrettezze, aveva diviso la vita d'Università col giovane Filippo Buonconti, e gli era poi rimasto legato della più salda amicizia. L'orfanello, cresciuto nella povertà, sotto la sorveglianza avara e meticolosa della mamma, conservatasi vedova malgrado la viva giovinezza del temperamento, era diventato un bel giovane, freddo di costumi, un po' sofferente della propria posizione, abituato allo studio, sebbene scarso d'ingegno; ma una voglia intensa di salire lo sorreggeva fra tutte le debolezze inevitabili nella gioventù. Aveva vissuto modestamente all'Università senza troppo abbandonarsi agli amori e resistendo ai vizi; amava sopra tutti se medesimo, e preferiva ad ogni compiacenza quella di vestire con eleganza, passando agli occhi di coloro, che non lo conoscevano bene, per un signore.

Nella vita di provincia egli recava, con una sufficiente serietà di carattere, la necessaria correttezza di condotta per farsi presto stimare; parlava abbastanza bene, affettando una grande indifferenza per la politica, che occupa l'oziosità di tutte le conversazioni. La mamma, orgogliosa nella sua buona riuscita, lo sorvegliava ancora come da fanciullo con incessanti sollecitazioni, perché si facesse strada nel mondo a guadagnarvi una agiatezza invidiata.

Così egli rese presto nello studio qualche servigio, specialmente per la sua disposizione alla pratica subdola e sottile della procedura, nella quale i grandi avvocati riescono difficilmente. Il signor Filippo lo prediligeva. L'altro giovane di studio entrò nella magistratura per allontanarsi dalla città, dopo una dolorosa delusione di amore; un terzo, che vi capitò, non seppe durarvi per la sbrigliatezza dei costumi e la trascuranza di ogni affare, anche il più urgente.

Mario vi rimase solo. Era già una posizione cospicua per un principiante, dacché l'avvocato, generoso per indole e piuttosto scienziato che professionista, gli abbandonava i guadagni di tutte le piccole cause. Quindi la vita gli scorreva facile fra la benevolenza del pubblico e l'invidia degli amici, che il suo sussiego in quella improvvisa fortuna irritava. Egli invece parlava dell'avvocato come di un uomo già al colmo della gloria, e del quale la scelta di un aiutante, cadendo su lui, aveva naturalmente un valore profetico di avvenire.

L'avvocato, vissuto sino quasi a cinquant'anni nel lavoro, aveva preso moglie per contentare la mamma; ma inesperto dei pericoli di gioventù, e nella forte coscienza della propria virilità, s'era innamorato della signora Annetta, figlia unica di un capitano in ritiro.

Ella sulle prime aveva mostrato di amarlo, presa al fascino della sua parola e all'orgoglio di diventare una delle signore più importanti della città. La sua vita di fanciulla, viziata dalla tenerezza condiscendente di un vecchio padre, si era svolta nella insignificanza delle abitudini domestiche, senza nessun alimento sostanzioso per lo spirito e nessuna prova corroborante pel carattere. Naturalmente dolce ed allegra trovava tutto facile, adorava i vestiti e sorrideva ad ogni momento, intenerendosi fino alle lagrime; mentre il cuore le rimaneva lietamente invulnerabile frammezzo ai dolori, che riempiono la vita e la circondano, irrompendo da quella degli altri.

L'avvocato aveva dovuto ingentilirsi in quel matrimonio, ma lo aveva fatto senza sforzo sotto le festanti civetterie della moglie, pregustando quasi una gioia paterna nell'accontentarla in tutte le fantasie. L'antico appartamento s'era d'un tratto rimodernato con lusso pretensioso e volgare, del quale il suo istinto di uomo d'ingegno si accorgeva, ma sul quale taceva per non intorbidare la gioia esuberante della signora Annetta, per tutto quel primo anno occupata nello studiarne e nel cangiarne le disposizioni. Quando l'arredo fu compiuto, ella diede una serata d'onore, che fu tutta per lei, la prima e più importante della sua vita, perché ne parlava ancora con entusiasmo d'orgoglio. Però, se l'avvocato aveva buttato in quel capriccio giovanile di lei tutti i propri risparmi, un quarantamila lire, aveva saputo bonariamente resistere alle sue pretese di riforme nella villa, che avrebbero dovuto diventare così la conseguenza e il coronamento del loro nuovo lusso. L'Annetta insisté qualche tempo, poi s'arrese, per quella sua facilità ad evitare ogni pena.

Vivevano liberi, senza contrarierà di parenti. Ella faceva molte visite, s'interessava alla beneficenza, frequentava il teatro nell'unica stagione dell'inverno, credeva di essere la signora più elegante della città, mentre non era che una delle più belline e delle più stonate, ma trionfando dei propri difetti col difetto maggiore di una leggerezza incantevole.

La confidenza ottenuta presto dal giovine Mario nella famiglia vi modificò molte abitudini; vi furono più gite in campagna, più serate al teatro, più passeggiate al giardino pubblico, e più lunghe soste al gran caffè della piazza nelle notti di festa quando suonava la banda cittadina. Egli li accompagnava spesso, ma il suo contegno era così misurato che da principio non ne nacquero chiacchiere. Gli amici lo dicevano un avaro vanaglorioso, non d'altro occupato che di far fortuna al più presto. Si sapeva che le donne non avevano mai avuto presa su lui.

La signora Annetta soddisfatta di tali modi, trovando in quella compagnia di un amico altri motivi per passare il tempo, a poco a poco si punse alle asprezze latenti del suo carattere. Qualche volta si sentiva quasi offesa che non la sentisse così bella, come le sembrava di essere e tutti mostravano di credere quando compariva in pubblico. Ella s'ignorava ancora. Nella sua affezione per l'avvocato non aveva ancora provato nessuno di quei trasporti deliranti, che sono quasi sempre per la donna la scoperta di se medesima. Ma qualche cosa dormiva sotto la sua fiorente gioventù, una bramosia di godimenti sconosciuti, un bisogno a grado a grado meno inconsapevole di entrare nella zona torrida della passione, ove le vite si distruggono alla fiamma di un altro sole, o n'escono così temprate che nulla può quindi corroderle. Quel medesimo studio incessante d'eleganza le riusciva senza scopo; l'avvocato o non se ne accorgeva, o ne sorrideva come di una bambineria, che finirebbe collo stancarla, mentre compiacendosene talvolta sensualmente, non poteva ripagargliene tutte le cure e giustificarne le intenzioni recondite.

Mario cominciò col darle piccoli consigli; s'intendeva di mode, aveva un certo buon gusto. Ciò restrinse la loro intimità. Egli la penetrava insensibilmente nella vita, aveva molti secreti delle sue voglie, la consolava di qualche dispetto, mentre rimanendo così indifferente alle seduzioni della sua bellezza, la mortificava nel senso più delicato della vanità femminile. Allora ella prese a civettare con lui, eccitata da un solletico di rappresaglia, ma sorprendendosi talora a pensare che il giuoco andava troppo oltre, perché Mario era tutt'altro uomo dell'avvocato. Egli accettava quel torneo, lasciandosi sfuggire certe occhiate piene di troppe cose, o cedendo a subitanee cortesie, che varcavano i limiti della domestichezza. Poi si guardavano entrambi, egualmente sospesi nel medesimo sentimento dubbioso, e dopo s'accorgevano di essersi più vicino di prima.

Mario infatti cominciava ad innamorarsi davvero, malgrado quei motivi d'interesse scoperti in lui dai compagni. Siccome una passione per la signora Annetta poteva disordinare tutta la sua vita, decise di non spingere agli estremi quella corte, mentre ella non andrebbe forse mai sino in fondo, per la leggerezza stessa della propria natura. Difficoltà morali di riconoscenza verso l'avvocato, Mario non ne sentiva; in quello studio intendeva solo a far carriera, e quanto alla signora Annetta, era persuaso che presto o tardi, forse più tardi che presto, quando l'avvocato comincerebbe a declinare, naturalmente, ella ancor giovane, si rifarebbe del deperimento del marito con qualche amante.

Era una conseguenza dei costumi, una predestinazione di tutti i matrimoni dispari.

Se gli avessero lasciato scegliere, avrebbe preferito ottenere piuttosto la posizione dell'avvocato che la moglie. In fatti la riputazione dello studio si dilatava. Nelle ultime elezioni municipali l'avvocato era stato eletto con votazione quasi unanime a consigliere, poi era entrato in giunta per uscirne, poco dopo, presidente di tutte le opere pie congregate. Una grossa causa sopra una cartiera, costrutta nel secolo passato sul canale Naviglio, ed ora abbandonata, in seguito ad un aggrovigliamento inestricabile di litigi e di successioni, gli era capitata in quei giorni per aumentare la sua influenza. Una potente società inglese era pronta a comprare la cartiera, trasformandola in un grande opificio moderno, nel quale avrebbero potuto lavorare duecento operai. Ma l'intrigo delle liti, che fraudolenza di proprietari falliti e insidie di legulei avevano reso spaventevole ad ogni acquirente, doveva impensierire anche un giurista della sua forza. Però, vincendo quella causa, avrebbe forse guadagnato un cinquantamila lire, e il voto di tutta la città per qualsiasi deputazione.

Nei caffè, nelle farmacie, da per tutto non si parlava più che della gran causa; molti de' suoi clienti e buon numero di ammiratori affermavano già che ne uscirebbe trionfante. Egli invece, chiuso nel suo gabinetto verde, preparava il disegno d'attacco colla pazienza scaltra di un vecchio generale. La signora Annetta, esaltata da questo nuovo fantasma di fortuna, si rifaceva su Mario del silenzio del marito, e andava ripetendo colle amiche spiegazioni giuridiche da scandalizzare un usciere.

Quando entrava nello studio, e il marito non c'era, si fermava in piedi dinanzi a Mario; poi chiacchierava riempiendo quella larga stanza di tutto lo svolazzo dei propri abiti, scrollandone il silenzio colla sonorità delle risa cristalline. Allora, generalmente, in casa era sola; la Veronica cucinava, la cameriera era uscita per qualche commissione. Ella andava nello studio così, senza sapere il perché. Mario ne provava un solletico frizzante di compiacenze vanitose; cominciava a darsi alcune arie di grande avvocato, e quando ella l'interrompeva con qualche sciocchezza, ne ridevano, tornavano a scherzare, infiammandosi reciprocamente.

Ma se udivano il passo pesante dell'avvocato per le scale, ella sfuggiva, dicendo con sorriso più malizioso di quanto forse avrebbe voluto:

«Mi sgriderebbe.»

Gli scrivani dell'anticamera, vecchi ambedue, se ne erano accorti. Andrea, il più anziano, affettava da qualche tempo maggior riserbo col signor Mario, come per fargli sentire la propria disapprovazione.

Mario lo aveva compreso.

Un giorno che la signora Annetta irruppe saltellando nello studio, egli si mise un dito sulla bocca, accennando coll'altra mano alla porta dell'anticamera:

«Sentono.»

Ed alzandosi la respinse verso l'altro gabinetto verde. Ella, confusa quasi da una improvvisa rivelazione di colpa, arrossì, poi volle resistere, ma l'altro incalzava colla voce sommessa, spingendola lievemente per una spalla. All'uscio socchiuso si strinsero, ella traballò scivolando sul tappeto del gabinetto; egli la sostenne tirandosela sul petto. E allora, come se qualche cosa fosse scoppiata in loro, Mario l'aveva abbracciata improvvisamente, senza parlare, senza che ella resistesse, ed afferrandole con una mano il mento, le aveva dato un bacio sulla bocca.

Ella era fuggita.

Quando si rividero, qualche ora dopo nella sala da pranzo, rimasero entrambi imbarazzati, quasi egualmente scontenti di se medesimi: ma ella si rimise presto, mostrandosi più premurosa e carezzevole per il marito. Nei giorni seguenti Mario l'aspettò indarno nello studio; invece la scorse alla finestra sulle quattro, l'ora nella quale era solito ad uscire. La signora Annetta lo salutò amabilmente, come sempre. Egli ne rimase contrariato. La sua vanità soffriva, poi s'accorgeva di essere oramai innamorato. Per due giorni si assentò, ma l'avvocato gli scrisse un biglietto per pregarlo di tornar subito, perché lo studio rigurgitava di affari. Egli venne più presto la mattina, e si tuffò nel lavoro. La signora Annetta comparve nello studio, mentre l'avvocato discorreva con lui di una pratica importante, ma invece di disturbarli, secondo il solito, si mise in un angolo presso la finestra a sfogliare un giornale illustrato.

Mario la guardava di sfuggita.

L'avvocato, che l'aveva quasi dimenticata nel calore di quella spiegazione, esclamò improvvisamente: «Saresti deliziosa, se ti mantenessi sempre così quieta.»

«Allora me ne vado.»

Poi ricominciò, come prima, le visite allo studio, anche quando il marito non c'era. Vi arrivava sempre con qualche nuova raffinatezza di eleganza, ma non alludeva mai a quella scena passata, quasi non fosse avvenuta; invece provava un piacere secreto di monello in contrabbando, sentendosi sorvegliata dal vecchio Andrea, che appena l'udiva nella stanza, moltiplicava i pretesti per venirvi.

Mario mutava d'umore con lei. Si mostrava troppo serio, quasi oppresso dal lavoro, che quel suo cicalìo impediva, poi ingrugnato, offeso della indifferenza, colla quale ella mostrava di togliere ogni valore a quel bacio. Aveva dei silenzi impermaliti, da cui usciva con nuove cortesie galanti, bruscamente interrotte, se ella non ne coglieva le intenzioni.

Una volta ella si lasciò da capo prendere la mano ridendo, ma l'altro non osò spingere oltre.

Quando il vecchio Andrea entrava senza bussare, per chiedere a Mario una spiegazione spesso inutile, il buon uomo con quel berretto ricamato di ciniglia e d'oro, ancora pulito dopo tanti anni, e colle due fodere di mussolina nera sulle maniche del soprabito, faceva uno strano contrasto colla loro gioventù e colla eleganza dei loro vestiti. La signora Annetta gli sorrideva affabilmente, senza impaccio; Mario invece qualche volta tradiva una sorda irritazione, e il vecchio li guardava di sopra agli occhiali tondi a stanghette, che gli cadevano melanconicamente sul naso.

Egli pure era stato infelice nella propria casa, con una donna cattiva e spendereccia, che finalmente era morta dopo averlo rovinato. Quel matrimonio dell'avvocato colla signora Annetta lo aveva quindi giudicato una follia, presto o tardi destinata a qualche sciagura delle solite. Era inevitabile. Il vecchio Andrea non pensava nemmeno lontanamente a intromettersi in quella lotta, ma non poteva assistere impassibile al dramma, che si preparava sotto i suoi occhi; anzi, nella propria esperienza di mondo, credeva già tutto perduto per l'avvocato. A che pro avvisarlo? La signora Annetta andrebbe a cadere con un altro.

Quel giorno ella promise di ricamargli un'altra berretta.

Poi, quando lo intesero risedersi pesantemente sulla larga poltrona di paglia, nell'anticamera, si guardarono; il giudizio che egli faceva di loro, e che essi aveano simultaneamente sentito ne' suoi atti, li riuniva daccapo. Ogni resistenza sarebbe stata inutile; diventarono seri. Qualche cosa di greve, quasi di doloroso, cadde loro sulla coscienza. Discendendo improvvisamente, rapidamente in se stessi, si accorsero di amarsi ancora troppo poco, per essersi così irrevocabilmente compromessi come amanti. Perché dunque? Ma l'avvocato era ben assente dalla loro preoccupazione. Non sapendo più che dirsi, Mario voltò macchinalmente le pagine del libro, che teneva in mano; ella giuocherellava, all'altro scrittoio, con un bastoncino di ceralacca rossa.

Questa volta pure ella fu la più disinvolta; andò alla finestra, guardando nella strada dai vetri qualche momento, poi gli ripassò davanti colla solita fisonomia. Mario si era alzato respingendo la sedia; ella si torse all'uscio con un sorriso inesprimibile degli occhi, significandogli di essere prudente, di non si muovere.

Finalmente accadde quello, che il vecchio Andrea aveva previsto.

L’avvocato era andato a Firenze per discutere una causa di fallimento e a casa perdette la moglie.

Senza che se lo fossero detto, aspettavano entrambi una sua assenza. Mario, quella mattina, arrivò prima del solito allo studio; l'avvocato partì col treno delle nove, la signora Annetta era ancora a letto. Per due giorni Mario resterebbe padrone dello studio, potendovi tornare anche di notte, perché il lavoro vi rigurgitava. Ma, quasi tutto dovesse contrariarlo in quella circostanza fortunata, la fila dei clienti non s'interruppe sino a dopo le tre pomeridiane. Egli li riceveva nel gabinetto verde, seduto sulla medesima poltrona dell'avvocato, provando un'acre voluttà a dare così i propri responsi, come se cadessero dalla medesima altezza. L'altro scrivano era uscito, non rimaneva che il vecchio Andrea, il quale pareva diventato un usciere. Era sul finire dell'inverno, una giornata umida e stanca pel caldo dello scirocco. Quando Mario si sentì finalmente libero, in fondo a quel gabinetto verde, smise di prendere degli appunti e si pose a pensare; era irrequieto. Qualche cosa doveva succedergli d'imminente, forse d'irreparabile nella vita; provava quella malinconia precorritrice dei disastri, una prostrazione inesplicabile, nella quale a quando a quando sorgevano voci liete e lontane fra soffi tepenti, che gli passavano nel sangue. Non poteva seguire un ragionamento, fissarsi in una immagine.

Ma una sicurezza irragionevole gli faceva aspettare di minuto in minuto la signora Annetta.

Infatti ella entrò, vestita di un abito scuro a strascico, appena scollato, e con la scollatura riparata da un'altra frappa già fuori di moda. Lo spaccato interno delle maniche era in velluto granatino, una orlatura a ruchettes del medesimo colore correva in giro sotto la sottana; sui capelli biondi, rialzati violentemente sulle orecchie e attorcigliati sulla nuca, aveva una specie di tocco in merletti bianchi, stravagante e stonato. Due alti stivalini di raso nero le uscivano di sotto a quella gonna pesante, e finivano di renderla quasi ridicola.

Era allegra.

Mario ne fu meravigliato. Ella aveva un mondo di cose da dire. La sera prima era stata ad una seduta del comitato di beneficenza pel resoconto delle cucine economiche; la contessa Letizia aveva voluto parlare, e tutti ne avevano sorriso. Ella ripeté alcune frasi di quel discorso, esagerando nei gesti, ma ridendo di un riso, nel quale l'altro sentiva lo sforzo. Poi Mario diventò così scuro che l'Annetta esclamò improvvisamente:

«Che cosa avete?»

Erano in piedi, presso lo scrittoio.

«Che odore!» disse Mario, fiutandole l'aria al disopra della testa.

«È acqua di miele, non adopero altro.»

Ella aveva abbassata la testa. Mario le prese la mano, l'altra lo lasciò fare, quasi la cosa non avesse significato, ma si riscosse subito sotto la sua pressione. L'uscio del gabinetto era socchiuso. Mario andò bruscamente a chiuderlo, voltandole le spalle, e quello bastò perché tutto fosse già avvenuto. Uno smarrimento la colse: perché era venuta? Perché l'avvocato se n'era andato? Che ora era? Lo studio vuoto le parve immenso nel silenzio; sugli scaffali i fascicoli, colle copertine colorate riposavano tranquillamente sopra una scansia in vecchio noce; sei grandi file di libri rilegati, coi titoli in lettere d'oro, rilucevano quasi gaiamente, malgrado la gravità del loro peso e della loro natura.

Improvvisamente si sentì così sola colla propria gioventù, nella quale nessuno era venuto ad immergersi, che si strinse spaurita dentro l'abito. In ventidue anni non aveva ancora provato una vertigine, nessuno di quegli slanci, che gettano la vita al di là di noi stessi. Mario l'abbracciò; non parlavano, egli tremava. L'ombra della tenda li avvolgeva. Egli le diede un bacio sul collo, stringendola furiosamente.

«No» ella balbettò, sentendosi precipitare come sopra una china; ma egli la spinse, la rovesciò sulla stessa poltrona, nella quale quel giorno si era tenuta cheta sfogliando un giornale illustrato. In quel momento un'altra forza l'investiva e la sommergeva. Invece di resistere, ella non volle più che soccombere bene, per quell'istinto grazioso della femmina, che sa di avere nella propria debolezza il secreto di tutte le rivincite. Non le rimaneva che una torbida preoccupazione del vestito e della pettinatura schiacciata contro la spalliera della poltrona, e una paura di non parere assolutamente bella, perdendo il proprio fascino in quella prova suprema, contro la quale ogni resistenza sarebbe stata indarno, e che la natura serba a tutte le donne.

Poi, fra tutte queste minuscole sensazioni, un'altra si fece largo, un'onda di luce e di caldo, quasi un'improvvisa veemenza dell'estate in quel vespro invernale, che le annegò la coscienza, mentre il suo corpo sopportava una violenza troppo precipite per potervi ancora rispondere, ma nella quale ella sempre più sottomessa sentiva l'avvicinarsi di altre voluttà, cogli occhi socchiusi sotto una pioggia di baci anelanti.

La sua ultima sensazione era stata una grande penna bianca, sorgente dal vecchio calamaio in maiolica sulla scrivania. Quando riaprì gli occhi, vide la mamma dell'avvocato che la guardava al disopra dell'altra poltrona, fra i due scaffali. La fisonomia severa della vecchia sembrava più accigliata. In quel ritratto era vestita quasi monasticamente, con una bavarina al collo e i capelli radi, bipartiti sulla fronte bassa e dura.

L'altro era già tornato alle carezze, portato a volo da un impeto di passione, nel quale riuscì finalmente a travolgerla.

Il vecchio Andrea aspettava Mario nell'anticamera.

«Se lei torna stasera, debbo venire anch'io?» gli domandò scrutando l'animazione della sua fisonomia.

A Mario questa domanda parve ironica.

«Chi ti ha detto che tornerei stasera?»

«Lei stesso stamattina, quando è entrato.»

Mario si ricordò, ma lo sguardo di Andrea diceva ben altro; quasi arrossì e, mutando tono:

«Non tornerò, ti ringrazio, vecchio Andrea.»

L'altro andò lentamente a staccare dall'attaccapanni il pastrano.

«Vuol lasciarmi la chiave dello studio? domani mattina verrò più presto. Ho da copiare l'ultima parte della conclusione nella causa Ciampoli - Rocchi.»

Mario gliela diede.

Ma la sera il vecchio Andrea sulle dieci, uscendo dal piccolo caffè ove si recava a fare la partita, invece di andare dritto a casa, rifece due volte il corso Garibaldi, e vide la finestra del gabinetto illuminata. Capì che erano imprudentemente là dentro.

«Anche lui!» esclamò, pensando tristamente all'avvocato.

Quando questi tornò da Firenze, allegro della causa vinta, recando alla moglie un magnifico orologio con catenella d'oro, questa ne fu così sconvolta dalla gioia, che entrò dal gabinetto nell'altra stanza per mostrare bambinescamente il dono a Mario. Egli impallidì; sopraggiunse l'avvocato. Mario riabbassò il volto sul fascicolo, come uno scolaro colto in flagrante, e la signora Annetta scappò gittando al marito, che dovette riderne, questa strana risposta:

«Non gli piace.»

Ma da quel giorno cominciarono fra loro le scene.

Egli era geloso del marito, sebbene questi non mostrasse per la moglie che un'affezione di padre, necessariamente riscaldata da qualche fiamma sensuale. Quell'uomo l'offendeva in tutto; la sua superiorità d'ingegno e di dottrina era così schiacciante, che a Mario non avveniva quasi mai di aver ragione, e quelle poche volte solamente sopra un particolare di procedura, del quale dovevano entrambi sorridere. Ma più di questa eccellenza professionale, che il lungo esercizio avrebbe potuto spiegare senza troppa lode, gli pesava la stima, onde lo sentiva circondato. L'avvocato, largamente colto, parlava bene di tutto, e dacché aveva preso moglie, forse per una inconsapevole intenzione di rendersi amabile, il suo spirito era diventato più fine, e così condiscendente che la signora Annetta, anche comprendendolo solo a mezzo, lo amava sinceramente, a proprio modo.

Mario non sapeva come lottare contro questi sentimenti di lei. In quella prima passione amava l'Annetta con tutto il trasporto di un temperamento serbatosi incolume negli anni dell'Università, ove la maggior parte si esauriscono; ma avrebbe voluto soprattutto essere amato. Questo bisogno delle anime giovani diventava in lui una necessità di tutto lo spirito. Senza un affetto incondizionato, maggiore di quello stesso che provava per lei, non gli sembrava nulla essere l'amante di quella donna. Una semplice relazione galante con una signora, come tante volte aveva desiderato, non gli bastava più, perché vi sarebbe sempre apparsa la sua inferiorità davanti al marito. Egli voleva l'impero dell'anima e del corpo, il possesso, quasi la proprietà sulla donna per non soffrirvi umiliazioni. V'era dell'avarizia nella sua gelosia, quell'ebbrezza di tirannia proprietaria, che prende spesso ai vecchi rendendoli gelosi dei figli, quando stanno per sostituirsi loro nel governo della casa.

Ma attraverso questa invidia dolorosa si agitavano i reclami del senso.

In sostanza quella donna apparteneva all'altro di giorno e di notte; l'avvocato poteva accarezzarla, ne riceveva le carezze e quel cicalìo confidenziale, la più deliziosa delle sue seduzioni, quegli abbandoni da bambina, che si rifugia ogni tanto sotto la protezione di uno più forte, amandolo col trasporto effimero e soave della paura. L'avvocato era tutto per lei. Ella ne insuperbiva per i complimenti che ne riceveva in pubblico come sua moglie, e per il lusso, col quale la rendeva felice. E se non l'amava appassionatamente, giacché il corpo non le aveva mai vibrato al contatto delle sue mani, né l'anima, pur subordinandosi alla sua più grande, vi si era mai perduta in un'estasi di adorazione, ella non ne sentiva né rimorso, né meraviglia. L'avvocato era per lei un padrino, col quale la legge le permetteva tutte le dimestichezze. Cedendo a Mario non ne aveva ben saputo il perché; forse era stata un'attrazione incosciente delle loro due gioventù, una conseguenza della loro reciproca civetteria, della quale si pentiva fugacemente senza averne la coscienza sconvolta. Era stato così, perché era stato così: non si sa mai come certe cose accadano. Poi amava anche Mario senza preferirlo all'avvocato. Era un altr'uomo e un'altra cosa; vicino a lui, sotto i suoi occhi cilestri, dentro ai quali bollivano delle fiamme, ella si sentiva riscaldare, e nullameno arrendendoglisi rimaneva come fredda.

E lo era; ma invece a lei pareva di trasformarsi tutta.

«Non t'infiammi dunque mai, tu?» le aveva gridato una volta, stringendosela quasi rabbiosamente sul petto.

Ella, che si divertiva di quei trasporti senza poterglieli rendere, lo aveva guardato sorridendo, e quel sorriso lo aveva ferito.

Mario, ingannato dalla sua luminosa floridezza, si irritava per l'equilibrio del suo temperamento così poco sensibile. Perché gli aveva dunque ceduto? Malgrado la morale rilassata di tutti i suoi pari, egli credeva ancora che non si potesse mancare al matrimonio, se non per l'impulso irresistibile di una passione. Gli esempi quotidiani della vita non gli avevano menomato questa latente convinzione, che gli risorgeva più forte in quel bisogno di essere amato. Se l'Annetta non lo amava, egli non era per lei che un divertimento accettato a caso, perché quasi tutte le donne nella nostra moderna corruzione hanno un amante, anche senza essere corrotte. Infatti nessun sentimento malvagio si rivelava nella natura di lei; non odiava, non sparlava d'alcuno, ma felice di se stessa si abbandonava alla gioia della vita. Aveva ceduto al matrimonio come all'amore, senza riflettervi, colla stessa incapacità di comprendere la profonda tenerezza del marito e la foga passionata dell'amante. Per lei l'amore non andava oltre le esigenze del temperamento; solo in qualche convulsione sensuale, le sfuggivano parole come di un altro mondo, mentre una insoddisfatta necessità di adorazione le riempiva improvvisamente il cuore. Allora il suo bel viso si trasformava in un pallore fantastico, cogli occhi senza sguardo e la fronte appannata da un'ombra indefinibile.

Da principio i convegni furono radi. A lei si rendevano più difficili per quella paura di non volervisi compromettere. In casa, col marito, non c'era nemmeno da pensarci; poi le sarebbe ripugnato. Non sapeva dirne il perché, ma le sarebbe stato impossibile, col rispetto affettuoso che sentiva per l'avvocato, ricevere Mario nella camera coniugale. Fuori di casa non avrebbe mai osato di andare; bisognava quindi aspettare le occasioni, che non erano frequenti. Mario ne arrabbiava. Quella prudenza, così sensata, gli pareva talvolta la più raffinata delle corruttele, mentre non era che l'istinto dell'egoismo; ma non aveva nemmeno tempo a lagnarsi. I loro dialoghi erano sempre brevi, violenti da parte di lui, e si chiudevano con un sorriso di lei, solleticata nella vanità della sua passione. Egli le aveva proibito di scherzare col marito, alla sua presenza.

«Ma non capisci,» le urlò «che soffro?»

«Ah, povero Mario!»

L'avvocato era di là nel gabinetto verde. Mario si era allungato, dandole un bacio sulla bocca.

«Domani, aspettami...»

Ma ella era fuggita. Poco dopo l'intese ridere con lui. La collera lo accecò; entrò nel gabinetto. La signora Annetta appollaiata, come un pappagallo, sopra un bracciuolo della larga poltrona, nella quale sedeva il marito, era intenta a sedurlo.

«Uno solo» diceva col più tentatore dei propri sorrisi: «che cosa è mai?»

«Ti pare dunque così facile?»

Ella diede una scrollatina di spalle.

Mario si era arrestato sull'uscio osservando; negli occhi gli passò un baleno d'ironia.

«Potete entrare» gli disse bonariamente l'avvocato. «Sapete che cosa mi domanda questa pazzerella?»

«Mi pare di aver capito» rispose mettendo nella propria voce tutta l'amarezza possibile: «un bacio.»

La signora Annetta balzò in piedi ridendo, anche l'altro sorrise:

«Se non fosse che questo! Invece sapete che cosa vuole? Un cavallo con una carrozza.»

«Un cavallo solo» ella insisté credendo di provare così la modestia del proprio desiderio.

«Col servitore in livrea, quindi una scuderia e una rimessa, nuove occasioni di lusso e di spesa. Mia cara, non siamo ricchi; hai già speso tutto quello che avevo risparmiato.»

«lo!»

«Ma tu, carina mia: non è un rimprovero, sarei desolatissimo che la cosa non fosse andata così. Solamente questo tuo desiderio sorpassa per ora i miei mezzi. Forse non sarà sempre così.»

«Quando, quando?»

Ella, inebriata di quella vaga promessa, se ne sentiva già alla vigilia, e la sua gioia era così viva che il volto dell'avvocato se ne illuminò. Mario, preso dalla malìa innocente di quella scena, si era avanzato di un passo; Annetta sospesa, perduta, guardava il marito.

«Accetti una condizione?»

«Sì.»

«Bada!» e l'avvocato guardò maliziosamente Mario. Questi gli dovette rispondere cogli occhi, ma l'altra batteva i piedi.

«Debbo proportela? Bada, che potresti non saperla adempiere. Certo ti domando una cosa talmente naturale, che quasi quasi dovresti già averla fatta. Ebbene,» e staccò più lentamente le sillabe «quando avrai un bambino, ti pagherò la carrozza.»

La signora Annetta rimase un istante mortificata; evidentemente non si attendeva a questa condizione. Poi alzò il capo, e il suo sguardo incontrò gli occhi di Mario scintillanti di rimprovero; lo deviò, ma risospinta più alto dalla vanità di quella speranza, che l'avrebbe messa a pari colle prime signore della città, tornò presso la poltrona.

«Accetti?» ripeté sorridendo grossolanamente il marito, niente imbarazzato dalla presenza di Mario.

Ella rispose prima con un riso:

«Lo dirò alla befana di portarmi un bambino, e lascerò il mio stivaletto più grande sotto la cappa del camino nel salotto.»

E diedero entrambi in una allegra risata. Mario era già uscito; nell'altra stanza si ricordò che se l'avvocato gli avesse chiesto perché era entrato, non avrebbe saputo rispondergli.

Due mesi dopo quell'ultima gita in campagna, Mario, incontrando l'avvocato sotto i vecchi portici del mercato, fu colpito dalla gioia, che gli brillava nel viso.

«Dove andate, caro Mario?»

«Non lo so, a zonzo.»

«Usciamo fuori di porta S. Bartolo.»

S'avviarono.

«Qualche buona notizia sulla cartiera?»

«Ah! c'è ben altro; ve lo dico subito, perché ella stessa me lo ha detto solamente ora: l'Annetta è incinta.»

L'avvocato in preda ad una ingenua gioia, della quale poco prima non si sarebbe creduto capace, gli raccontò tutti i discorsi bambineschi di lei, i consulti colla Veronica e colla moglie dell'esattore, che abitava al piano superiore. Quell'uomo forte non si accorgeva di ridiventare egli stesso un fanciullo; Mario lo ascoltava, frenando a stento l'amarezza, che gli bolliva dentro. Perché l'Annetta non lo aveva detto prima a lui? Quel bambino sarebbe dunque figlio dell'avvocato?

Ella lo credeva dunque?

Ma il signor Filippo continuava.

«Voi non potete comprenderlo, Mario, perché siete ancora troppo giovane; ma verrà la vostra volta, e allora vi ricorderete questo, che vi dico. È una grande trasformazione, quando si diventa padri; il mondo, la nostra vita, non ci appaiono più quelli. Fino allora tutto finiva in noi, dopo tutto prosegue; entriamo noi stessi nell'infinito misterioso delle generazioni. I nostri vizi, le nostre virtù dureranno in altri, dopo che saremo morti; si riprodurranno forse anche i nostri gesti. Solamente colla paternità l'uomo entra nel possesso pieno della vita. Ma se la vedeste, non sta nella pelle!»

«Infatti...» balbettò Mario.

«Le donne soffrono forse della sterilità quanto noi dell'impotenza.»

Erano già lontani dalla porta, che Mario non aveva ancor parlato; ma l'avvocato, ripreso dal proprio orgasmo, volle tornare a casa.

Il vespero scendeva.

«Venite anche voi, Mario; sarete il primo a farla diventar rossa con un complimento.»

A casa la trovarono abbattuta sopra una poltrona quasi già oppressa dalla gravidanza. La Veronica, la moglie dell'esattore, la Gina, le stavano intorno covandola collo sguardo, allegre di quella sua confusione. Quando entrò l'avvocato, la moglie dell'esattore, donna sulla cinquantina, grossa e volgare, con due occhi bianchi a fior di testa e il labbro inferiore sgradevolmente penzoloni, che le lasciava scoperte le gengive giallastre, si alzò rispettosamente.

La signora Annetta tese languidamente la mano a Mario.

«Ti senti già vicina alle doglie?» le disse il marito con grossolana facezia, indovinando in lei tutto quel male immaginario, mentre il suo viso non era mai stato più florido.

Ella invece mise negli occhi di Mario un'occhiata che vi spense tutti i rimproveri. Non gli era più possibile ingannarsi; quello era lo sguardo, che la femmina dà istintivamente al maschio, del quale ha subito l'impronta della maternità. Un gran rimescolamento gli si fece nel cuore; l'avvocato era andato egli stesso a cercare due vecchie bottiglie preziose, regalo d'un cliente, per berle tutti insieme. S'intendeva la sua voce strepitare con quella della Veronica. L'avvocato tornò raggiante, colle due bottiglie in mano.

«Lei, signora Amalia, vada su ad invitare anche sua cognata, perché suo marito, lo so, non è in casa; poi non vogliamo altri uomini, basta Mario. Ho mandato fuori la Veronica a prendere qualche cosa: ci vuole un po' di festa, non è vero, Annetta? Come ti senti male! Sei già dimagrita!» esclamò canzonatoriamente. Ella sorrideva.

«Tu, Gina, prepara nella camera da pranzo; mettici quello che hai. Vengo anch'io, troveremo bene.»

La Gina, ragazza clorotica, quasi elegante, perché l'Annetta le regalava molti dei propri abiti, lo seguì in silenzio. Era di un'esattezza scrupolosa nel servizio, ma parlava poco; pareva malinconica. Infatti era nata troppo bene per essere ora costretta a fare la cameriera; però l'Annetta la trattava con molta cordialità.

Appena rimasero soli, Mario si sentì riprendere dalla collera. Perché l'Annetta non aveva avvisato prima lui? Le prese una mano, chiedendoglielo concitatamente. Ella, sempre così sottomessa, quasi che la rivelazione della maternità l'avesse trasformata, rispose ingenuamente:

«Ma lui sarà il padre.»

«lo, dunque ... ?»

Ella alzò gli occhi interrogando.

La semplicità di quella risposta lo aveva atterrato.

«Ma è mio, non è vero, è mio?»

Ella annuì.

«Quando?»

«Non lo so.»

«Lo sai, le donne se ne accorgono.»

Ella si era animata, stava per dirgli tutto.

«Tira via, vengono.»

«Quella volta nello studio...»

«Egli era andato a Firenze; mi ricordo, il 25 maggio, presso la finestra.»

Ella scoppiò a ridere, l'avvocato li sorprese in quella ilarità.

«Sentiamo: che nome vorresti mettere al bambino?» egli disse.

«Sarà una bambina» ella ribatté.

L'altro si fe' scuro.

«Sì, sì, lo sento» replicò con ostinazione: «sarà una bambina.»

«Ben venga la bambina; il bambino sarà per un'altra volta. Come la chiamerai?»

«Tu ci hai pensato?»

«Sì.

«Anch'io.»

Ella guardò Mario, alla sfuggita, per fargli comprendere tutta la tenerezza del complimento, che stava per fargli.

«Maria.»

«Quasi il mio nome; basta mutare l'o in a.»

Arrivarono gl'invitati.

Quella sera passò allegramente in famiglia, colle due bottiglie, un punch, del panettone e delle paste. Mario stesso pareva rabbonito, ma le tenerezze troppo confidenziali del marito colla moglie lo abbuiavano tratto tratto.

Quel languore dell'Annetta si dissipò presto. Invece vi successe una vanagloria con un pettegolezzo inesauribile sui bambini, sulle gravidanze e i pericoli che vi si incontravano, ogni sorta di preoccupazioni e di nuove spesucce. L'avvocato si mostrava di una condiscendenza instancabile, lasciando traspirare nella propria contentezza di essersi liberato da un gran peso. Alla sua età, con tanta sproporzione d'anni, gli era preso il timore di lasciare la moglie sterile. Qualche beffa maligna dei colleghi lo aveva già punto. Poi quella nuova vita, che rampollava dalla sua, gli preparava altri modi di meglio consumare l'imminente vecchiezza.

Ora la sua affezione per la moglie si temperava di un nuovo austero senso di rispetto per la madre, mentre ella invece tornava verso Mario. Era quello l'uomo vero, che l'aveva mutata sostanzialmente; l'avvocato diminuiva a grado a grado nella sua anima sino a non essere più che un padrino, l'amico protettore della sua gioventù. Tutto quanto era passato fra loro ai primi giorni delle nozze si scolorava nella inanità del risultato finale, perché ella era istintivamente sicura, con quella inesplicabile sicurezza femminile, che Mario era il padre di Maria. E allora si accorgeva, quasi per la prima volta, che era bello. Si ricordava a uno a uno, riassaporandoli, i suoi trasporti, quegli impeti deliranti, che la scrollavano fino in fondo all'anima, lasciandole nelle membra come la lassitudine di una fatica, mentre tutta la forte virilità del marito non era mai riuscita a darle nessuna di quelle soffocanti sensazioni. Avrebbe voluto Mario sempre vicino per rituffarsi con lui nei godimenti, dai quali la sua maternità era uscita, e per fargli sentire che anch'essa era donna. Tutti i sensi le vibravano. Ma l'avvocato si allontanava adesso più raramente dalla città, e la sera non usciva quasi più di casa, facendosi fin troppo assiduo presso di lei. Quando la gonfiezza del ventre cominciò a designarsi, egli volle invece uscire più spesso con lei a passeggio, orgogliosi entrambi di quella gravidanza, sebbene ella ne provasse talora in fondo all'anima un sottile rammarico come di una deformità. Infatti la sua bella e flessibile figura n'era tutta deturpata; larghe chiazze le macchiavano la pelle, qualche nausea la sorprendeva il dopo pranzo. E in questo accorgersi, quasi spaurita, di una bruttezza progrediente, ella ammirava sempre più Mario.

«Gli uomini! essi rimangono sempre inalterati, mentre noi povere donne...»

Un giorno glielo disse nello studio. Egli, che le aveva chiesto invano un convegno da due settimane, stava imbronciato. Allora ella si arrese, promettendo di venire nel gabinetto verde la prima volta che l'avvocato escirebbe per ragioni di studio.

A Mario parve trasformata, più ardente ed amorosa. La femmina, in quello sbocciare della maternità, sprigionava le proprie energie colla voracità di tutti gli appetiti. Adesso voleva anche lei giungergli sino al fondo dell'anima, soverchiarlo coll'insaziabilità delle brame.

La gelosia di lui, attutita da tutte quelle prove di amore, non rimaneva quasi più che una esagerazione di tenerezza. Nullameno le chiedeva spesso del marito.

«No, no» lo interrompeva: «glielo ho detto, ora no. Voglio te solo, tu sei mio marito.»

Avevano combinato che Mario verrebbe spesso a passare la sera con loro; s'incaricava lei di farvelo costringere dall'avvocato. Era diventata furba; infatti vi riuscì. Mario, che avrebbe dovuto smaltire quelle ore al caffè, aveva accettato; ma nella nuova più frequente intimità correvano pericolo di tradirsi, e le scene di gelosia si rinnovavano. Talora l'avvocato, poco corretto nelle maniere, specialmente in casa propria, si permetteva di farle qualche carezza improvvisa, o lentamente, quasi senza accorgersene, sedendole vicino le passava un braccio intorno alle spalle, scherzandole colle dita fra i ricciolini della nuca. I discorsi non variavano molto. Fra i due uomini erano interessi di studio o discussioni giuridiche, nelle quali l'avvocato s'abbandonava insensibilmente alle sue tendenze di professore; le donne, la moglie dell'esattore e la Gina, cucivano o ricamavano delle cuffie o delle fascette per la nascitura. Era deciso che sarebbe una bambina. La signora Annetta, sdraiata nella poltrona col ventre enorme e la fisonomia molto mutevole, non faceva nulla, come oppressa da quel peso tutti i giorni maggiore. Ma la sua vanità aveva trovato modo di esaltarsi ancora in quel sentirsi al centro di tutte le preoccupazioni della casa.

La sua bella salute resisteva trionfalmente alla fatica della gravidanza, senza dar loro la più piccola apprensione drammatica.

Mario aveva finito col pranzare spesso in casa dell'avvocato. Così poteva profittare di tutti gli istanti propizii coll'Annetta, malgrado la presenza quasi continua degli altri.

Ma qualche cosa n'era trapelato. La moglie dell'esattore talvolta li sorvegliava con occhiate, che a lui lasciavano più di un dubbio, mentre la Gina invece si manteneva nella solita composta impassibilità. Davanti alla sua enigmatica figura Mario restava sovente imbarazzato. Che cosa pensava quella ragazza? V'era della sofferenza nella sua serietà, come un dolore sdegnoso di essere serva, lei nata di una famiglia pari alla loro. Quindi quella sua cura minuta ed incessante nel servizio per evitare ogni rimprovero, che le facesse sentire più duramente la propria condizione. Ma sotto quel bianco spento, che la faceva somigliare ad una figura tagliata in un cero, con quegli abiti regalati dalla signora Annetta, e che sotto le sue mani diventavano più signorilmente eleganti, malgrado la semplicità conveniente ad una cameriera, a Mario pareva inquietante. Era fredda con lui come cogli altri, sembrando non voler capire nulla; eppure egli indovinava che sapeva tutto. Infatti l'Annetta diventava a mano a mano più difficile. Nell'ingrossare della gravidanza le si alterava la gioconda facilità del carattere. Improvvisi capricci la coglievano, lo chiamava vicino, affettava quasi di tradirsi, o peggio ancora palesava improvvise ripugnanze pel marito. E poiché non aveva più la prontezza dei movimenti, quando le si accendevano tali bramosie, si attaccava a Mario, comunque, covandolo collo sguardo, arrischiando tutte le temerità per poterlo premere e brancicare. Una sera che giuocavano a tombola, un altro suo capriccio di ragazzina, ella divideva con lui la cartella sedendogli presso. Mario, già sulle spine, nell'impossibilità di sottrarsi alle carezze nascoste colle quali lo tentava, e preoccupato del marito, che giocava colla Veronica mettendo per lei la posta, si sentì improvvisamente addosso lo sguardo della Gina. Ella lo guardava impassibile, bianca, coi piccoli occhi chiari, che parevano di vetro.

Finalmente la signora Annetta gettò un'allegra risata nel giuoco, mentre Mario impallidiva.

La mamma di Mario, l'Orsolina, come la chiamava l'avvocato, si era insospettita della tresca. Ma se da prima la sua vanità materna ne aveva insuperbito per il figlio, presto temette che la cosa potesse prendere una brutta piega. Glielo disse una mattina nella camera mentre si vestiva; Mario rispose male. Già l'amava poco per tutto quello che gli aveva fatto soffrire da bambino e la sordidezza della economia, per la quale andava mal vestita e si lagnava sempre con tutti della mancanza di denaro. Nel proprio vanaglorioso egoismo Mario non sentiva la profonda passione della vecchia per lui.

Ella insisteva.

«Finitela dunque: mi credete uno sciocco? Faccio quel che mi pare.»

«Non vuol dire che tu faccia bene» rispose, niente sbigottita di quel suo tono aspro.

Ma le sue osservazioni gli erano penetrate nell'animo. Qualche volta si diceva di aver fatto male ad innamorarsi di quella donna; ora che essa ardeva veramente per lui, non avrebbe però saputo staccarsene.

Verso la fine dell'ultimo mese la signora Annetta cominciò a star male. L'avvocato credette a una delle solite paure nell'avvicinarsi del primo parto, ma nullameno chiamò il suo vecchio medico, buon diavolo assolutamente incolto, cui la lunga pratica aveva tuttavia insegnato qualche cosa. Egli visitò la signora Annetta, e se ne andò sorridendo: paura e nient'altro. Apparvero alcune febbriciattole, che la tennero a letto due giorni; il signor Filippo incominciava ad impensierirsi. Mario entrato da lei, in un momento che questi non c'era, aveva appena potuto sottrarsi alla tenerezza delle sue effusioni. Poi ella si alzò, ma volle essere visitata dal dottor Talli, il giovane primario dell'ospedale, del quale in città cominciava a dirsi un gran bene. Mario non lo seppe che dopo, e diede in una grande collera; l'avvocato invece, rassicurato dalle dichiarazioni del dottore, era tutto ilare.

«È un bell'uomo» disse: «farà una gran carriera, perché le donne vanno pazze per lui.»

«Allora perché gli ha ella mostrato la moglie?» proruppe Mario.

«Lo senti, Annetta? Sareste per caso un geloso, mio caro Mario? Allora seguite il mio consiglio, non prendete moglie; fareste due infelici.»

«Certo,» replicò guardandola «non vorrei che mia moglie fosse veduta da altri che da me.»

«Là, siete geloso per temperamento; me n'ero già accorto a certe frasi. Ma sapete quello che accadrà? Piglierete moglie, perché la gelosia non può esercitarsi diversamente, e le passioni vanno sempre dritte al proprio scopo.»

Quando vennero le doglie alla signora Annetta, la casa fu sossopra; era arrivata anche la mamma di Mario. La moglie dell'esattore, sua cognata, più vecchia e più insignificante di lei, che le faceva da serva, la Veronica s'impicciavano reciprocamente. Solo la Gina, più attenta e sollecita di tutte le altre, restava fredda. Si era chiamata la levatrice e il vecchio medico, ma questi aveva dichiarato che tornerebbe; era presto ancora. Già tutto andrebbe bene; in caso diverso bastava una chiamata, e sarebbe accorso.

L'ammalata in preda ad una pazza paura si lagnava dolorosamente. La sua bella testa pallida, un po' dimagrita, entro quella cuffietta bianca di merletti, diventava di una idealità prima non sospettabile. Gli occhi cilestri, umidi di lacrime, le rimanevano come in una fissazione di preghiera, mentre la bocca scolorata le si contraeva sotto le fitte acute dei primi spasimi.

Il medico aveva ordinato di non far chiasso. Al capezzale s'erano installate la mamma di Mario e la moglie dell'esattore sotto l'autorità della levatrice, una donnetta magra e nera, vestita a festa, che parlava lentamente, colla serenità di un gran medico. L'avvocato, troppo commosso per potersi dominare, si era chiuso nel gabinetto verde; Mario gli venne incontro tendendogli la mano.

«Ho paura, Mario; sento che la cosa non andrà bene.»

E vi era una convinzione così seria in queste sue parole, che l'altro s'impensierì.

«Tu stesso lo credi?» prosegui senza accorgersi della irragionevolezza di tale domanda.

L'altro per un attimo sospettò di un agguato, ma l'avvocato era caduto sopra una sedia, stringendosi il capo fra le mani.

Allora Mario capì tutta la profondità dell'amore, che quell'uomo, in apparenza così freddo e positivo, portava alla moglie. La sua gelosia ne fu punta.

«Bisognerà chiamare Talli; del vecchio Giorgi non mi fido.»

«Perché Talli? Aspetti, l'emozione le fa scorgere pericoli dove non ve ne sono.»

Arrivarono dei clienti; l'avvocato non volle riceverli e disse al vecchio Andrea di chiudere lo studio. Rimasero tutti e tre nel gabinetto verde.

«Che cosa ne pensi tu, Andrea?»

«Che andrà bene: diavolo! La signora Annetta è un fior di salute.»

«Tu credi così?»

«Sicuro.»

Quindi parlarono di cause. Benché l'avvocato non s'occupasse molto in criminale, aveva un processo importante alle Assise di Firenze; si trattava di una signora, di una moglie, che aveva ucciso l'amante. La causa doveva discutersi sabato, ed erano al lunedì. Egli ne parlò a lungo, facendo una carica a fondo contro la scuola così detta positiva dei nuovi penalisti. Il vecchio Andrea lo ascoltava con ammirazione; anche Mario si sentiva trascinate da quella eloquenza impetuosa e larga come un gran fiume.

Poi lo scrivano chiese di andarsene.

«No, mio vecchio, anche tu resterai a pranzo con me quest'oggi. Ho bisogno di voi altri,» seguitò stendendo loro affettuosamente le mani «siete i miei soli amici. Ho paura.»

Il vecchio Andrea, commosso fino alle lacrime da quel favore, che lo innalzava ai propri occhi, diede a Mario un'occhiata di rimprovero; ma l'avvocato sorridendo disse ancora:

«Chi sa come pranzeremo con tutta la casa sossopra; tu sai cucinare qualche cosa, Andrea?»

Poi le paure lo ripigliarono. La Veronica entrò per dir loro di chiamare il medico; la signora si lamentava, si lamentava.

«Sì, chiama Giorgi, ma chiama anche Talli, Andrea, va' tu da Talli; la Veronica chi sa quanto impiegherebbe. Tu, Veronica, cerca Giorgi alla farmacia del Redentore: è sempre lì. Andrea, ha capito, Talli! Bisogna andargli a casa, e portarli qui insieme, perché sarebbero capaci di offendersi, senza una spiegazione che io darò loro. I medici! mentre gli altri muoiono, si disputano ancora sulla precedenza.»

La preoccupazione cresceva; Mario stesso se ne sentiva invadere. Andrea e la Veronica tornarono dopo un'ora, senza aver trovato né l'uno né l'altro, ma la levatrice aveva mandato a dire che tutto andava bene. Solamente, essendo quello il primo parto, la signora era in preda ad un grande spavento.

L'avvocato avrebbe voluto entrarle nella camera, ma la signora Orsola lo fermò:

«Non entri, creda a me: la signora Annetta crederebbe di essere davvero in pericolo.»

«Ma c'è pericolo?!»

«Affatto» e il viso freddo e antipatico della vecchia aveva una grande sicurezza. «Pensa lei che, dopo quanto ella fa per il mio Mario, volessi abusare della mia esperienza per ingannarla? Di queste cose, noi donne, ce ne intendiamo.»

«Mi consolate tutto. Mario è un eccellente ragazzo, farà carriera.»

«Ha cominciato bene qui, purché ella gli mantenga la protezione.»

Anche Mario arrivava.

«Via tutti!» concluse l'Orsolina, dando al figlio un'occhiata severa nel chiudere l'uscio.

L'avvocato sorrise con Mario a quell'autorità improvvisa della vecchia signora in casa sua. Nell'altra stanza si udì un gemito.

La Veronica aveva preparato confusamente una specie di pranzo. Andrea, invece di fare l'ospite, s'affaccendava colla solita bonarietà a fare da cameriere, ma nessuno mangiava. Finalmente s'intesero delle voci, e la moglie dell'esattore proruppe nella camera:

«Vengano, vengano, una bambina!»

L'avvocato scappò furiosamente, tutti lo seguirono; ma la signora Orsolina, ritta come un gendarme alla porta del gabinetto, che metteva nella camera dell'ammalata, non lasciò passare che lui. Mamma e figlio si guardarono; ella severa, lui irritato. Il vecchio Andrea li osservava.

«Bisogna non disturbarla ora: torno dentro a mandar via l'avvocato.»

Infatti, dopo pochi secondi, egli usciva cogli occhi pregni di lagrime: aveva baciato per la prima volta sua figlia! Mario ed Andrea lo attendevano al medesimo posto.

L'avvocato si gettò nelle braccia del vecchio scrivano; un groppo di singhiozzi, i più giocondi della sua vita, gli soffocavano la voce. Andrea sentì inumidirsi gli occhi anche lui, poi quando furono un po' rimessi, concluse filosoficamente scrollandosi dentro l'antico soprabito:

«Via, è una bella cosa!»

Questa volta pranzarono allegramente.

Ma nella notte la puerpera tornò a gemere lagnandosi di un caldo insoffribile; si dichiarava la febbre, e con essa un vero pericolo. L'avvocato era rimasto solo in casa colla Gina e colla Veronica non ancora coricate. Mandò questa a cercare Giorgi, che venne subito.

Il vecchio medico esaminò attentamente l'ammalata, che lo guardava come smemorata, coi pomelli infocati e le labbra riarse; l'avvocato lo spiava attendendo. A fianco del letto, in una culla coperta di un drappo bianco merlettato, dormiva la piccola Maria.

Giorgi rimise la mano dell'inferma sotto la coltre.

«Niente, niente, un po' di prostrazione» ma la sua faccia, tutta rossa tra le grandi fedine bianche, era diventata quasi intelligente sotto la grave apprensione. Era la febbre puerperale. L'avvocato sentì stringersi il cuore, e ricusando prontamente le speranze confortatrici, che l'altro gli dava, esclamò:

«Resta qui; non t'offendere, mando a chiamare Talli.»

Lo attesero un'ora nella camera di lei, quasi senza parlare. Ogni tanto Giorgi le metteva il termometro sotto il braccio; la febbre saliva lentamente, ma saliva. La Gina tornata dal caffè della piazza col ghiaccio, lo preparava spezzandolo per la vescica; l'Annetta, cogli occhi chiusi, s'agitava sotto le coperte. Nella camera l'aria si era fatta greve, leggermente nauseabonda.

«Ti par molto grave?» domandò con voce tremula. Giorgi, che aveva il vezzo di giocherellare colla mano sinistra fra i ciondoli della catena, scosse il capo senza rispondere. La Gina, in piedi all'altro capo del letto, aveva posto sulla fronte della signora la prima vescica di ghiaccio, che le produsse una sensazione irritante. Per due o tre volte questa tentò di sottrarre il capo.

La bambina si destò.

«Dio! come si fa adesso? Voleva allattarla da sé, non ha voluto assolutamente udir parlare di balia» esclamò l'avvocato correndo verso la cuna sulla quale la Gina si era già piegata.

La piccola creatura strillava come un animalino.

«Ho io, per fortuna, la donna a proposito. Ora, se viene questo Talli, te la mando subito» e Giorgi pronunciò "questo" con una intonazione di seccatura, che in altra occasione avrebbe fatto ridere l'avvocato.

«Gina mia, cerca di calmarla: per qualche poco.»

S'intese aprire la porta, che dava sulla scala; la Veronica entrò con Talli.

«Ah! siete qui, dottore» questi disse con accento gaio, dopo aver stretta la mano all'avvocato. «Che cos'è? Speriamo niente di serio, la signora è un bel esemplare di donna.»

«Ecco...» fece Giorgi, che dinanzi al giovine medico si era improvvisamente raumiliato, disponendosi ad esporre la diagnosi; ma l'altro era già al capezzale dell'inferma.

«Portate via per un momento la piccina» si volse alla cameriera, che non era riuscita a calmarla; e si chinò sulla signora Annetta, tastandole il polso.

Ella pareva assopita. Poi colla mano armata del termometro le sparì sotto le lenzuola, l'Annetta diede un gemito, passarono alcuni istanti. Quando egli si torse verso di loro, anche la sua faccia di bel giovane era diventata grave; una grossa ruga verticale gli divideva la fronte fino sul naso.

«Siete qui da un'ora, Giorgi? Quanto segnava il termometro la prima volta?»

«Trentotto e sei linee.»

«Ora vedremo.»

«Ma dunque c'è pericolo?» sussurrò angosciosamente l'avvocato.

Talli non rispose. Nell'altro gabinetto si sentiva sempre piangere la piccina; il silenzio in quella camera, così piena di gente, diventava terribile.

Talli estrasse il termometro; segnava quaranta e tre linee.

Era una febbre fulminea, spaventevole. I due medici si consultarono, ma Giorgi non parlava. Talli esigeva l'imbottimento di ghiaccio nell'utero e l'impacco nel ghiaccio di tutto il corpo; non voleva usare antipirina, perché contrario a quel rimedio, malgrado la moda, per le terribili reazioni che provoca dopo gli abbassamenti di temperatura. Si capiva che l'altro non era persuaso della cura troppo arrischiata, ma non osava contraddire; solamente la sua mano sinistra tormentava più vivacemente i ciondoli della catenella. All'avvocato era venuta meno ogni forza.

«Ma dunque, signor Talli, lei crede che ci sia pericolo?»

Il giovine medico, così elegante e con quell'aria di zerbinotto vacuo, era adesso brusco. La sua bella testa, colla barbetta tagliata a punta e la scriminatura di una regolarità volgare, aveva un carattere strano di risolutezza.

«Sì, ma lo combatteremo vigorosamente. Bisogna che la febbre non vinca in un corpo bello e robusto come quello della signora. Voi, caro Giorgi, andate a ordinare il ghiaccio, molto, molto: ricordatevi il sublimato e lo speculum. Non c'è tempo da perdere. Preparate un lenzuolo grande» si volse alla Veronica; «la signora avrà la tinozza in casa, spero. Ma ghiaccio, e presto: non c'è tempo da perdere. Resto qui io, nessuna emorragia, eh?» domandò all'avvocato, quando gli altri due erano già usciti.

Egli, che non l'aveva nemmeno chiesto, non sapeva come rispondere. Era diventato un bambino. Rientrò la Veronica.

«Va bene, è un lenzuolo da letto grande? Voi, che avete assistito al parto, nessuna emorragia, eh? Non ha fatto molto sangue la signora?» seguitò, spiegandosi più brutalmente per farsi meglio intendere.

«Ma no, la levatrice non ha detto niente.»

«Chi è stata?»

«L'Adelaide Cucchi.»

«Una imbecille! scommetto che non si è nemmeno disinfettate le mani prima. Tutte così quelle pettegole; poi vengono le febbri infettive.»

Era nervoso. Tratto tratto le rimetteva il termometro; la bambina strillava sempre.

L'avvocato travolto dalla propria commozione, raddoppiata da tutto quel tramestio notturno, non sapeva più che fare né che pensare. Interrogò il medico sul come nutrire la bambina, dicendogli che Giorgi aveva una bella balia sotto mano.

«Allora gli corra dietro, e la faccia venir qui. Andiamo dunque» seguitò raddolcendo la voce; «non bisogna perdersi, un uomo del suo ingegno!». E lo spinse fuori.

Rimase solo coll'inferma, studiandola. Ella si era fatta più rossa, colle labbra che le si screpolavano, e gli occhi lucenti; alcune chiazze, sotto la pelle delle guance, cominciavano a mostrarsi. Di tanto in tanto si portava la mano al seno gonfio dolorosamente di latte.

«Lei, dottore!» mormorò una volta gemendo, e come riconoscendolo solo allora.

Il tempo passava lento, poi ella cominciò a parlare vaneggiando. Finalmente tornarono tutti, ma per quanto avessero compito un miracolo di prestezza, Talli li sgridò. La balia si era fermata nel gabinetto attaccandosi la piccina alla mammella; l'avvocato ansava.

«Adesso via tutti: lei vada a dormire, se può. Qui resto io solo. Come vi chiamate?»

«Veronica.»

«Bene, state attenta a quello che vi ordinerò. Dunque lei vada», si rivolse daccapo, all'avvocato «assolutamente; vada, qui sarebbe d'incomodo. In questi casi bisogna o non chiamarci, o fidarsi assolutamente.»

E siccome l'avvocato, ammollito da tanti colpi improvvisi, tentava di scusarsi, anch'egli malgrado la vivacità del suo carattere e la pressura del momento s'intenerì.

«Si faccia coraggio; il pericolo non è tale che non si possa combattere. Spero che vinceremo. Vada, vada.»

L'avvocato uscì singhiozzando, ma invece di fermarsi a guardare la balia, seduta sopra una poltrona nell'angolo del gabinetto, colla bambina sospesa alla mammella, corse a chiudersi nello studio. Là, solo, scoppiò a piangere disperatamente, rumorosamente, come un ragazzo. Gli pareva che tutto l'edificio della vita, così faticosamente costrutto, gli rovinasse addosso, seppellendolo sotto le macerie. Un gran buio gli si era fatto nell'anima; si sentiva salir intorno il silenzio della solitudine a soffocarlo, e allora tornava a singhiozzare più fortemente, quasi per reagire contro di esso. Passarono così molte ore; a poco a poco si era assopito in una dormiveglia affannosa.

Poi si destò. La luce del mattino filtrava chiara fra le imposte; spalancò la finestra. Giù nella strada cominciava a passare la gente, più bruna in quel chiarore gelido, sotto il cielo grigio di nuvole. Il freddo sul volto gli fece bene. Allora, come punto da un ricordo, scappò verso la camera della moglie, ma nel gabinetto trovò Giorgi, che sonnecchiava sopra una poltrona e si destò di soprassalto.

«Ah! sei tu: va bene, sono ancora qui.»

«Annetta?!»

«Meglio» seguitò sbadigliando, mentre si stropicciava gli occhi assonnati. «Aspetta dunque, non entrare. Abbiamo fatto tutto quello che egli ha voluto.»

«Ma ora?»

«Non c'è male. Egli tornerà fra poco; ha detto che alle sei sarebbe qui. lo sono rimasto per te: mi sono un po' addormentato su questa poltrona. Piuttosto va a vedere, se trovi una delle tue donne, e che mi facciano un goccio di caffè. Una notte come questa, alla mia età, non è indifferente.»

L'avvocato gli strinse la mano con effusione, dirigendosi alla camera della Veronica. La trovò vestita sul letto, addormentata; la balia dormiva colla piccola Maria nella camera della Gina, rimasta al capezzale della signora. Ma la cuoca udì nel sonno il passo di lui.

«Che cosa c'è? Ah! è lei, mio Dio!»

«Pare che vada meglio, Giorgi vorrebbe il caffè.»

«Sì, sì, se l'è meritato. Ora lo faccio subito.»

Il mattino saliva, sempre così grigio, nel cielo. L'avvocato venne a sbirciare all'uscio della camera, e vide la Gina seduta compostamente sulla poltrona, a capo del letto; il lume da notte la lasciava in una penombra quasi oleosa. Nella camera tutto era sossopra, molte salviette bagnate ed un lenzuolo giacevano ammucchiati presso l'armadio a specchio. L'ammalata si discerneva appena sotto la vescica del ghiaccio, e fra il bianco degli origlieri. Il suo respiro era ancora rantoloso.

L'avvocato si ritirò come un colpevole dinanzi allo sguardo freddo della Gina.

Quando venne Talli, la febbre non accennava a decrescere; mandò via Giorgi, ringraziandolo con molti complimenti, che lo ravvivarono tutto, e si fece aiutare dalle due donne per ripetere la cura della notte. L'avvocato era uscito a cercare altro ghiaccio. Allora, nella strada, la curiosità affettuosa di tutte le persone, che sapevano già la sua disgrazia, lo martoriò. Gli pareva che quelle domande talvolta unite rendessero più imminente il pericolo, dandogli la misura del disastro, che lo minacciava.

Il vecchio Andrea venne due ore prima, entrò nel gabinetto verde senza parlare, e come un cane amoroso si mise a sedere vicino a lui. Stettero così lungamente. A un tratto l'avvocato gridò:

«Come farò dopo, solo?»

«Chi sa che Dio non ci perdoni» l'altro rispose con voce grave, alludendo seco medesimo al peccato della signora Annetta con Mario, perché da molti anni Andrea era stato ripreso dalle idee religiose, e praticava spesso i sacramenti. Ma senza vergognarsi in faccia al mondo di questa sua conversione, non ne parlava e non la nascondeva.

Poi gli disse dolcemente:

«Venga con me a vedere la bambina.»

La balia era ancora a letto, colle imposte aperte, seduta sui cuscini. Quando entrarono i due uomini, fece atto di coprirsi il seno, quindi sorrise. Era una contadina fatta venire un mese prima in città dalla moglie del maggiore del genio, alla quale era morto il bambino la notte antecedente. Pareva giovane e forte. Il colore bronzino della faccia e del collo staccava sul candore niveo delle poppe turgide, sulle quali si distinguevano sottili vene azzurrognole; la bambina succhiava ghiottamente, deglutendo il latte con un gorgoglio di piccolo fiasco capovolto.

L'avvocato si fermò a contemplare quel dolce quadro, risentendone una grande serenità pacificatrice; poi domandò alla contadina dove stesse, e sotto quali padroni. Ella, che lo conosceva di vista e di nome, rispondeva sicuramente. Apparteneva ad una buona famiglia di coloni, mezzadri da molti anni del conte Giglioli sul podere la Rocchetta, nella parrocchia di Trepiano, in una posizione incantevole.

«Bisogna che torniate subito a casa; qui non è sano per la bambina.»

«Si deve battezzarla, prima.»

«C'è tempo: non la voglio qui» proseguì, ripreso dalla paura che non dovesse venire la febbre anche a lei. «Andrea, va a prendere una vettura.»

«Da Pistacchio?» questi rispose, nominando il vetturino di casa.

E l'avvocato prese dolcemente fra le mani, da quelle della balia, la propria figlia.

Per tre giorni la signora Annetta fu tra la vita e la morte; la febbre resisteva malignamente a tutti gli sforzi, ostinandosi contro il suo corpo, che già non pareva più quello. Giorgi e Talli, ammirabili di devozione, non lasciavano più il suo letto, accigliati davanti a quel pericolo sempre rinascente, mentre la casa era tutta sossopra, e lo studio rimaneva chiuso. La signora Orsolina, installandosi silenziosamente nella camera dell'ammalata, non aveva pensato che a Mario, per impedirgli nell'esaltazione di quella morte imminente qualche imprudenza. Infatti il suo contegno per un occhio chiaroveggente avrebbe rivelato anche troppo i suoi rapporti colla signora Annetta; ma l'avvocato, travolto dal proprio dolore, non vi sentiva che una affettuosa concordanza in quella sventura, che lo colpiva improvvisamente nel più profondo della vita. Mario rimaneva nella casa tutto il giorno, senza aver potuto penetrare che una sola volta, fuggevolmente, in quella camera; ma l'immagine di lei, sformata, agonizzante, gli era rimasta spaventosa nella immaginazione. Non poteva scordarsela, non sapeva sperar più. La Gina non lasciava il capezzale della signora; solo il vecchio Andrea lo arrestava qualche volta con certe occhiate, che sembravano ammonirlo severamente di non complicare con più spaventevoli rivelazioni un dramma già superiore alle forze di tutti.

La terza notte erano nel gabinetto verde. L'avvocato, sempre vestito da tre giorni, sonnecchiava qualche mezz'ora qua e là sopra una sedia, avendo ormai egli stesso un'aria d'infermo, cogli occhi lucidi di febbre: in fondo non sperava più e radunava tutte le proprie forze dinanzi a questo nuovo naufragio della vita. Il temperamento sano e l'equilibrio della mente l'aiutavano a dominarsi. Il vecchio Andrea pareva più triste di lui, giacché quella disgrazia inconsolabile dell'uomo, nel quale aveva riposto l'ultima affezione, gli toglieva ogni scopo alla esistenza. Qualche dubbio affannoso gli risorgeva nell'anima contro la provvidenza di Dio.

Mario era grave.

L'avvocato, dopo un lungo silenzio, cercò sulla scrivania un fascicolo, e cominciò a scorrerlo.

«È impossibile... Mi pare che ve ne ho parlato anche l'altro giorno, Mario. Andrete voi a Firenze; forse sarà la vostra fortuna» aggiunse con un sorriso doloroso. «L'avete studiata un poco la causa, non è vero? Quella donna, che ammazza l'amante scoprendolo troppo vile, quasi per vendicare il marito ingannato, è uno dei temi più belli, che possano capitare ad un principiante. Ho piacere di cedervelo, tanto io sono finito.»

La sua voce aveva sonorità lugubri; Mario l'interruppe con un gesto.

«No,» egli proseguì disperatamente «perché tentare di illudermi? È indegno, atroce, sento che non lo meritavo. Eppure è così. Vivrò per la bambina; sarà triste, molto triste per entrambi. Né io né lei avremo più con chi sorridere. Perché dunque la vita è così fatta? Basta un giorno, un'ora e tutto frana; non si può più lottare, non si può più resistere. Bisogna essere travolti come una cosa sotto una rovina, che non si è meritata, che nessuna ragione giustifica.»

Essi non sapevano rispondere.

L'avvocato si mise a passeggiare per il gabinetto. «Nulla, nulla. Siete vissuto cinquant'anni onestamente, senza danneggiare alcuno, lavorando come una bestia da soma, salvando tanti sciagurati! Non avete chiesto niente al mondo, non vi eravate mai lagnati... Eravamo noi due soli, io e lei... Avrei dovuto morire io vent'anni prima, e invece muore lei, lasciandomi una creaturina che non potrò allevare; no, non lo potrò... Le mancherà sempre la mamma. Dio ha torto!»

«Perché disperare?» arrischiò Mario.

«In che cosa sperare? Non avete visto Talli? La sua faccia dice più delle sue parole; ella è perduta, per sempre.»

Il vecchio Andrea, che si era cavato un fazzoletto turchino di tasca, se lo mise sulla bocca per soffocare i singhiozzi. Ma lo scoppio represso delle sue lagrime provocò un altro urlo di pianto nell'avvocato.

Questi si gettò nelle sue braccia.

Mario, seduto all'altro canto, presso la scrivania, li udiva piangere mescendo il loro dolore in un supremo abbandono di amicizia, che in quel momento per lui diventava un rimprovero. Confusamente sentì di aver avuto torto a sedurre quella donna per un godimento sensuale, troppo meschino ed effimero. Quell'uomo, che piangeva disperatamente la morte della mamma della propria figlia non sua, gli parve sublime di innocenza e di miseria. Annetta stessa non meritava tale angoscia di rimpianto, ma la sua maternità si alzava nullameno dal letto di morte, misticamente solenne, nascondendo nella propria luce gli avanzi della femmina, altra volta così belli, e che fra poco avrebbero ripugnato anche alla pietà.

Si vergognò di essere in quel gabinetto. Certo il vecchio Andrea lo doveva disprezzare in tal momento, che l'avvocato, stravolto, soffocato, aveva ancora, in una reazione suprema di tutta la propria coscienza di professionista, potuto offrirgli col più fortunoso dei processi il destro di aprirsi trionfalmente la carriera.

Il suo amore per l'Annetta era escluso da quella tragedia; glie ne resterebbe solo un ricordo galante, insignificante, che i rimorsi potrebbero forse tratto tratto avvivare. Anch'egli s'alzò; non poteva restare in quel gabinetto. Inavvertitamente uscì, dirigendosi alla camera dell'ammalata, ma incontrò Talli, che usciva in fretta per una chiamata urgentissima in casa Giglioli.

Era ilare, tutti lo circondavano con un sorriso di ammirazione.

«Salva!» si rivolse la Veronica a Mario, colle braccia alzate, giubilando.

«Davvero, dottore?»

«Sì, ora credo di poter garantire, ma lasciatemi andare. Addio, salutate l'avvocato; tornerò domani mattina.»

Mario spinto da un impulso irresistibile, rientrò precipitosamente nel gabinetto urlando:

«Salva, salva!»

«Che!» esclamarono ad una voce l'avvocato e il vecchio Andrea come inebetiti.

«Talli è uscito in questo momento, assicurandomelo sul suo onore. Lo hanno mandato a chiamare in casa Giglioli.»

Allora un'altra commozione s'impossessò di quei due, illuminandoli, stirando loro la bocca in un altro scoppio di pianto; si guardavano inebriati, trepidi, senza la forza d'alzarsi, mentre Mario indietreggiava, colto da un rispetto quasi pauroso, e sentendo un'amarezza improvvisa davanti alla legittimità della loro gioia.

L'avvocato s'alzò prendendo per mano il vecchio Andrea.

«Andiamo nella sua camera.»

Mario rimase solo nel gabinetto verde, come un estraneo.



III

Fra Mario e la signora Orsolina accadevano scene frequenti.

Dopo aver assistito al capezzale della signora Annetta, imponendosi a tutti piuttosto per la severità del contegno che per i servigi, la signora Orsolina credeva di aver riconquistato su Mario l'antico ascendente. Ma, sebbene persuaso che la sua presenza gli avesse impedito di commettere allora qualche imprudenza, egli non le era punto grato; anzi il sapersi da lei così compreso e valutato l'irritava. Gli pareva di ricadere daccapo fanciullo sotto la stessa pesante autorità, mentre i suoi consigli, freddamente egoistici, di troncare quella relazione gli diventavano oltraggiosi per la loro medesima giustezza.

Come tutti i genitori, che allevarono i figli in vista di un avvenire economico, ella si sentiva lesa dal suo capriccio nella propria legittima aspettativa, giacché amava Mario meglio per se medesima che per lui. Nessuna condiscendenza muliebre, nessun abbandono passionato, infatti, aveva mai temprato in lei la rigidezza della passione, divenuta di giorno in giorno più permalosa per l'impossibilità di comandargli ancora. E siccome egli non l'amava, colla ingratitudine propria dei figli troppo tiranneggiati nell'inevitabile intimità della vita domestica, la poca e superficiale educazione non bastava a mantenere nei loro rapporti quel rispetto compassato, dietro al quale la gente delle classi superiori ripara le inimicizie.

Mario cominciò a mangiare frequentemente all'albergo, con un gruppo d'ufficiali. Naturalmente ciò gli cresceva il dispendio, e gli forniva l'occasione di scemarle l'assegno per le spese di casa; quindi altre liti, più volgari e stridenti. Oramai fra loro ogni riguardo era cessato.

Un giorno Mario le disse freddamente:

«Giacché mi seccate tanto per farmi abbandonare lo studio dell'avvocato, vi dichiaro bene che, se andrò via, muterò anche paese, ma non vi prenderò con me.»

«Che cosa m'importa?» ella ribatté aspramente, ma ferita a morte da questa minaccia.

«Tanto meglio! Mettetevi però in testa che sopra di me non si comanda più.»

«Tutto per quella...»

Mario le frenò con un gesto violento l'ingiuria.

«Andate al diavolo, avara, spilorcia, che mi avete allevato per speculazione! Adesso finalmente so che cosa sia questo famoso amore materno.»

E uscì di casa sbattendo gli usci per tornare allo studio. Ma lì pure gli crescevano le contrarietà. Dacché la signora Annetta era entrata in convalescenza, non aveva assolutamente voluto riceverlo; pareva tutta mutata. La malattia, indebolendola, le aveva dato una grazia malinconica e signorile. Il suo carattere, prima chiassoso, si era fatto riserbato; quindi si mostrava più affettuosa al marito, e non aveva nemmeno protestato contro il suo desiderio di battezzare la piccina piuttosto col nome di Luigia, la sua vecchia madre, che con quello di Maria. Poi colta da un postumo spavento religioso della morte, ora che rientrava adagio nella vita, aveva voluto confessarsi, in casa, ad un padre cappuccino, popolare nella città per la rude franchezza dei modi. L'avvocato ne aveva sorriso, ma cedendo subito per non vederla rannuvolarsi. Da quella confessione Annetta uscì molle di pianto, col proposito di riconsacrarsi tutta al marito per indennizzarlo della grande offesa fatta alla sua paternità; ma il cuore le restava secco per la piccola Gigina, lontana sul colle arioso di Trepiano, in casa di contadini. In fondo era contenta di non doverla allattare. Ciò le avrebbe rubato troppo tempo e sformato il seno; poi giustificava a se stessa questa ripugnanza colla scusa che la salute non avrebbe resistito a tale fatica, mentre alla bambina profitterebbe maggiormente la vita corroborante dei campi.

Si era fatta mettere una lunga poltrona nel gabinetto attiguo alla camera da letto, e vi passava distesa tutto il giorno, coi capelli pettinati a madonna, coperta di una vestaglia bianca a cordoni vivamente cilestri, colle pianelline bianche ricamate d'oro, le calze cilestri, e qualche bel mazzo di fiori entro un vaso vecchio di porcellana sul tavolino rotondo, che si teneva presso.

Leggiucchiava, ricamava, in sostanza non faceva nulla.

Quando le amiche venivano a trovarla, diventava più languente strascicando le parole per raccontare tutti gli strazi di quel primo parto, poi la febbre, intensa, orribile, delirante: abbondava nei particolari, inventava, finendo in buona fede col credere al proprio racconto a forza di compiacersene. Allora parlava della bambina con profondo rimpianto, perché aveva dovuto metterla in campagna, e si lasciava a stento consolare di tale sventura. Ma il discorso ritornava tosto sopra se medesima, finché le altre se ne andavano stanche a novellare in giro su tutte quelle pose, e ridere dell'avvocato, un uomo di vero ingegno, che vi si lasciava prendere.

Mario le mandò una mattina un bel mazzo di fiori; ella glieli fece restituire dalla Gina, dicendo che odoravano troppo.

La Gina nel compiere l'ambasciata lo guardava freddamente, col mazzo fra le mani. Erano soli nello studio; l'avvocato aveva lasciato allora il gabinetto. Mario, dissimulando a stento il dispetto, appoggiò un gomito sulla scrivania:

«Sta dunque molto male?»

«Chi lo sa? ha mangiato la solita bistecca, e dopo ha voluto anche il caffè col latte.»

Mario sentì il sarcasmo.

«Dove vuole che metta questi fiori?»

«Li vuoi per te?»

La Gina ebbe un sussulto impercettibile:

«Dopo che la padrona li rifiuta, sarebbero un regalo ancora troppo bello per la serva.»

«Ma tu sei la cameriera» ribatté l'altro goffamente, credendo così di farle un complimento.

«Lo so benissimo di essere la cameriera, senza che ci sia bisogno di farmelo pesare addosso.»

Mario invece rimase interdetto; non aveva avuto nessuna intenzione di offenderla.

La piccola ed esile figura della Gina si drizzava dinanzi alla scrivania con un'eleganza così altera e disinvolta, che lo dominava. Egli la esaminò allora, come per la prima volta. Così vestita di scuro, senza che nulla negli abiti tradisse la sua condizione, le si sentiva nel viso scialbo una riserva, un sottinteso, che attirava l'attenzione. La sua bocca, stretta e scolorata, avrebbe stentato a sorridere davvero; poi il resto del sesso le rimaneva quasi incerto, colle spalle aguzze, il petto piallato, le anche sporgenti, senza una curva o una ondulazione, sebbene la gracilità la rendesse donna, e due particolari, le mani e i piedi, tradissero in lei la signora. Piccini arcati questi, sottili affusolate, di un candore inquietante, quelle; e una folta capigliatura castagna, piena di riflessi, le metteva sulla testa come il principio di una bellezza, che il suo corpo non avesse poi ricevuto.

Ma la voce dura e velata prognosticava qualche lontana malattia di petto.

Involontariamente Mario la riconobbe più signora dell'Annetta in quella sua povertà di condizione e di natura; quindi non trovò come domandarle scusa, temendo di sbagliare daccapo il tono.

La Gina che s'accorse della buona impressione prodotta su lui, ne fu lusingata, e con un sorriso indefinibile gli disse:

«Li metterò sulla scrivania del signor avvocato, poiché la signora non li può accettare; egli invece ne sarà tutto contento.»

Quindi gli volse le spalle, allontanandosi con quel suo portamento sciolto e superbo, che la faceva quasi sembrare meno piccola. Ma appena l'intese chiudere l'altra porta del gabinetto, Mario vi entrò livido di dispetto, prese il mazzo, e andò a gettarlo nella latrina. Pochi giorni dopo lo colse un altro disastro. A Firenze, in quella gran causa, fece un tal fiasco che persino sopra un giornale ne fu stampato qualche commento satirico. Naturalmente i suoi amici se ne compiacquero punzecchiandolo coi sarcasmi, mentre l'avvocato, pieno della bonaria indulgenza dei vecchi professionisti pei principianti, si fece raccontare da lui tutta la seduta, e gliene corresse uno per uno gli errori con una lezione, che per essere famigliare diventava anche più bella. Mario ne rimase profondamente avvilito. La signora Orsolina invece, senza toccare neppure da lontano l'argomento, si fece improvvisamente più buona per qualche giorno. Ma quel primo insuccesso del figlio era stato per lei un colpo mortale; ormai lo aveva giudicato. Tutte le ambizioni della sua vita, che non aveva mai confidato ad alcuno, nemmeno a lui stesso, le cadevano sul cuore come foglie morte scrollate da un freddo vento autunnale: Mario non sarebbe mai un grande avvocato come il signor Filippo, né il deputato della città, questo sogno inebbriante, che essa covava da tanti anni nel silenzio della sua povera casa, mangiando quel magro pranzo quotidiano, sul quale riusciva nullameno a fare qualche economia.

Poi Mario, troppo scarso d'ingegno e fiacco di carattere per avere una vera ambizione, se ne consolò; qualche piccola causa vinta in pretura lo rimise di buon umore, persuadendogli di essere un avvocato come tutti gli altri della città. Ma l'abbandono della signora Annetta lo disperava. Tutto quello che poteva sapere dall'avvocato, perché ad interrogare la Veronica e la Gina non si fidava, era che una grande debolezza la teneva ancora, quasi tutto il giorno, sulla poltrona, e che non osava escire di casa, all'aria libera, per timore di ricadere ammalata. L'avvocato però non se ne preoccupava troppo, giacché i medici lo avevano rassicurato sulla perfetta salute di lei. Erano le solite paure di ogni donnina dopo il primo parto, che passerebbero ai soffi caldi della primavera.

Infatti col fiorire dei mandorli, in quell'aria balsamica e vibrante, che ridestava anche nelle cose la vita addormentata dal lungo inverno, la signora Annetta si rianimò, e dopo pochi giorni ridivenne quella di una volta. La prima gita fu in campagna per vedere la Gigina. Mario la guardò partire coll'avvocato in una vettura a due cavalli, lui felice, ella ancora un po' pallida, ma più bella che mai. La maternità le aveva messo sul viso una specie di nobiltà dolce e pensosa. Ella alzò lo sguardo dalla carrozza per rispondere al saluto, che egli faceva loro dalla finestra, perché aveva voluto rimanere per dispetto nello studio, invece di scendere in strada ad aiutarli come le altre volte.

Poco dopo la Gina entrò.

«Perché non li avete accompagnati?» le chiese di malumore.

«Non me lo hanno detto: ma lei piuttosto avrebbe dovuto andare con loro.»

«lo ... si sarebbe dovuto chiudere lo studio.»

«Qualche volta vi resta pure solo Andrea.»

Mario finse di seguitare a scrivere, ma la Gina non se ne andava:

«Non torneranno che stasera, sull'avemaria.»

«Io me n'andrò prima» rispose seccamente.

«Non le domandavo questo; naturalmente lei è ora il padrone dello studio. La signora, che voleva la carrozza al primo parto, adesso è diventata così buona, che vi ha rinunziato.»

«Ah!»

«Ne parlavano anche ieri sera a pranzo. Il signor Filippo non ha nemmeno avuto bisogno di persuaderla, che adesso sarebbe ancora una spesa compromettente. Diceva che forse diventerebbe possibile dopo la causa della cartiera, se si vincesse, ma la signora ha risposto che non glie ne importava più nulla, che egli aveva fatto anche troppo per lei.»

«In questo caso ha ragione; l'avvocato non guadagna ancora abbastanza per concedersi questo lusso.»

«Lei crede! Io invece supponevo che lo avrebbe potuto benissimo, ma che volesse invece fare dei risparmi per la bambina. La signora si è mostrata di una arrendevolezza... Pare anche più innamorata ora che al principio, quando io venni qui.»

Mario sentì nel cuore la punta di quella botta lungamente studiata, ma volle dissimulare:

«L'avvocato merita tutto l'amore.»

«Se bastasse meritarlo per averlo!» ribatté l'altra lanciandogli un'occhiata.

Da che la conosceva, Mario non l'aveva sentita parlar tanto.

Ella restò ancora; evidentemente aveva qualche intenzione riposta. Mario credette che volesse divertirsi a pungerlo, ma in lui stesso era tanto il bisogno di parlarle dell'Annetta, che depose la penna.

«Ha già finito di scrivere?» ella riprese senza sorridere.

«Finito e non finito, ma perché non sedete?» e si alzò per offrirle una scranna.

Ella accettò colla grazia di una signora, e cominciarono a parlare. Dopo pochi secondi il discorso era caduto sulla signora Annetta.

Mario si era già compromesso con due domande, la gelosia lo tormentava. La Gina gli raccontava la scena del confessore, che egli non sapeva, poi i primi giorni di devozione fervente. Ella l'aveva sorpresa una volta in ginocchio colle lagrime agli occhi; la signora era molto buona, e aveva avuto una grande paura di morire. Adesso si mostrava tutta tenerezza per il signor Filippo.

«Forse si porteranno a casa la bambina, stasera. Che cosa ne pensa lei? La signora è così impressionabile!»

«Per voi sarebbe una seccatura.»

«Perché? una bambina! Ci si vuole così presto bene ai bambini. Lei non l'ha vista ancora la Gigina: è una vera bellezza; il papà ne va pazzo.»

E la sua voce ebbe un lieve stridore, poi soggiunse: «Quest'altra volta, se la portano stasera, andrà anche lei a vederla; bisogna che vada anche lei.»

Si alzò per andarsene, Mario non la trattenne.

Sulla fronte della Gina apparve una ruga di dispetto, ma sull'uscio si torse:

«Adesso la signora sta veramente bene; i fiori, anche molto odorosi, non le danno più fastidio.»

Quella sera Mario andò fuori di porta per vederli ritornare, nascosto nella svolta di un viottolo, che si cacciava fra gli orti, perché non voleva essere scorto. In quella luce del tramonto la signora Annetta, imbacuccata entro uno scialle roseo a rete, che le saliva sopra la testa, dandole al viso una soave vivezza, gli parve più bella. Mai, come allora, aveva sentito il bisogno di quella donna. L'aria del vespero era satura di profumi, le piante si vestivano delle prime foglioline, i mandorli bianchi di fiori parevano ancora carichi di neve in quel tepore languido degli ultimi raggi. Mario ritornò verso la città col cuore serrato. Per le strade molte coppie innamorate si allontanavano parlando sommessamente nella sera; sugli usci delle case le donne e i fanciulli ridevano cianciando, allegri di quel risveglio alla vita pieno di nuove promesse. Pareva un giorno di festa. Qualche operaio rincasava cantando, i pipistrelli vagolavano nell'aria con volo più incerto, come intormentiti dal lungo inverno.

Mario non sapeva dove andare. Una solitudine amara gli si dilatò improvvisamente nell'anima, spegnendovi l'eco di tutte le voci, che vi arrivavano dal di fuori. I primi fanali accesi lungi, alle porte della città, gli diedero una più desolata sensazione di abbandono. Dove passare la sera? Andò a pranzo nel grande albergo, ma gli ufficiali, coi soliti discorsi di caserma, gli parvero anche più insopportabili; entrò nei due massimi caffè della piazza, poi cedendo alla voglia secreta, che lo tormentava, si diresse verso la casa dell'avvocato.

Forse sarebbero ancora a tavola, avendo pranzato più tardi.

Fu accolto benissimo, gli parlarono della bambina, cosicché non ebbe nemmeno campo a servirsi del pretesto immaginato per giustificare quella visita. L'avvocato abbondava sui particolari della piccina più della signora Annetta, con quella tenerezza morbida degli uomini, che diventando padri sul tardi vi portano un orgoglio già rammollito da qualche affettuosità senile. Ella lo interrompeva, poi si rimetteva ad ascoltarlo, guardandolo come le donne guardano talora con sereno impudore il maschio, che le rese madri, dopo che il nuovo amore per il bambino trasformò la natura della loro passione sessuale.

A Mario pareva impossibile di essere così pienamente dimenticato. Allora il suo orgoglio ricalcitrò. L'avvocato seduto a tavola, col busto massiccio e pesante abbandonato sulla sedia, la fronte già calva, la grossa barba brizzolata, troppo lunga ed incolta, era davvero brutto. L'energia spirituale della sua testa si era spenta nella fatica della digestione; fumava una grossa pipa di legno, sporcandosi le dita a premervi dentro la cenere.

Mario ebbe coscienza di essere più bello, e soprattutto più fresco; quindi con un sorriso insolente tagliò una risposta della signora Annetta sulla bambina. Questo bastò; la signora Annetta si fece seria senza che l'avvocato se ne accorgesse. Che cosa era tutta quella gioia se non l'ultimo inganno, che ella faceva al marito, sollecitandolo nella vanità di padre, mentre invece egli solo, Mario, aveva potuto svegliare in lei la maternità? Tutte le leggi sociali, le virtù, le ipocrisie, vanivano davanti alla onnipotenza di questo fatto brutale; l'avvocato poteva essere uno dei migliori professionisti nella provincia, guadagnare molto danaro, godere la stima universale, ma la piccola Gigina non era sua, egli non avrebbe mai potuto generarla.

Quest'orgoglio gli crebbe così smisuratamente nella coscienza, che Mario si permise qualche ironia anche contro di lui.

«Avete ragione,» rispose l'avvocato «siamo tutti così noi altri; ritorniamo bambini col primo bambino che ci nasce, e crediamo che la nostra gioia possa essere egualmente sentita dagli altri.»

«Ma se io la divido pienamente» replicò Mario, dando alla signora Annetta un'occhiata.

Ella ebbe un leggiero rossore. Allora Mario sperò di poterla riconquistare. Invece di mostrarsi come dianzi inquieto e sottomesso, affettò la disinvoltura, mettendo persino nella propria voce qualche accento di comando. Ella non resisteva; si sarebbe detto che quella trasformazione di lui le facesse paura. Il passato la riprendeva. Poi Mario quella sera, chiuso nell'elegante soprabito nero, accuratamente pettinato, coi baffetti biondi rialzati agli angoli della bocca, il viso roseo, gli occhi cilestri pieni di vampe, le pareva bello. Era il giovane, l'uomo destinatole dalla natura attraverso a tutte le antitesi sociali, e che ella stessa aveva preferito, prima ancora che in lui spuntasse il coraggio di farle la corte. Perché gli si era abbandonata così, senza resistere, come una di quelle vecchie galanti, che s'affrettano coi giovani per timore di non essere più accettabili tardando, ella che non era corrotta e non si sentiva nel sangue l'ardore sensuale di tante altre donne? Tutti i suoi propositi di onestà coniugale svanivano davanti a questa nuova affermazione di Mario: egli era il padre vero della Gigina. La Gigina stessa gli somigliava spaventevolmente, e questa sua somiglianza era un'altra prova del diritto dell'amante sulla madre. Mario possedeva la parte migliore di lei, quella che sopravviverebbe alla gioventù e alla loro stessa passione. Qualunque tentativo in lei per sottrarsi alle conseguenze di questo fatto troverebbe un ostacolo infrangibile nella sua coscienza di madre, nella inferiorità della femmina dinanzi al maschio, che l'ha fecondata.

«Quest'altra volta, signora Annetta, sarò invitato anch'io.»

«Certo,» intervenne l'avvocato «l'ho detto io per il primo, appena l'abbiamo vista sulla porta in braccio alla Caterina. Se vedeste come è bella; vogliamo tornarci domenica, Annetta?»

«Volentieri» rispose abbassando la testa.

Mario si trattenne ancora; voleva trovar modo di dirle qualche parola.

Finalmente lo potè.

«Domani venite nello studio.»

L’altra parve esitare.

«Lo voglio.»

Bevve ancora un piccolo bicchiere di punch, espose all'avvocato il dubbio giuridico, del quale si era munito per venire, e si ritirò con aria trionfante.

Così la riconquistò lentamente, ma i suoi modi e il suo accento adesso erano di padrone; parlava dell'avvocato come di un subalterno. Nullameno ella si ribellava ancora, anzi in un momento d'irritazione, colla viltà naturale della donna, gli rinfacciò quel fiasco a Firenze.

La gelosia di lui invece non dava più tregua. Erano tornati dalla Gigina, in un bel pomeriggio pieno di sole; la signora Annetta inquieta pel timore che Mario si tradisse davanti alla piccina, non gliene aveva parlato, quasi volesse tentare su lui un esperimento. Invece tutto andò anche troppo bene. Mario vantando la bellezza della Gigina per intonare coll'entusiasmo dell'avvocato, non aveva provato nulla al cuore dinanzi a quel piccolo essere ravvoltolato nelle fasce, roseo, cogli occhi azzurri, ancora insignificante. La sua paternità, della quale credette di trovare la conferma nel colore delle pupille e nel ciuffetto biondo, che le usciva di sotto alla cuffia bianca, non si destò. Quindi non s'accorse nemmeno della differenza fra i trasporti rattenuti e così veri dell'avvocato, e i giuochi pazzerelli, ma freddi della mamma.

Tuttavia quando l'Annetta, dopo averla lungamente palleggiata col vezzo grazioso delle donne, l'adagiò sul petto del marito, come dentro una culla sussurrandole sulla bocca:

«Dormi, dormi, Ninina, fra le braccia del tuo papà, il tuo papà.» Mario, non ingannandosi sull'intenzione di quelle parole, la guardò corrucciato.

La sua gelosia d'innamorato diventava sempre più sospettosa. Non avrebbe voluto che ella scherzasse mai col marito; ad ogni più lieve accenno di carezza li vedeva già innamorati, l'uno nelle braccia dell'altro, e dopo, quando era solo, tale assiduo pensiero lo rendeva pazzo. Pretendeva di dominarla in tutto, dal vertice della sua stessa individualità, fin dove nemmeno la passione può giungere. E siccome il temperamento piuttosto freddo, e lo spirito quasi sciocco di lei, gli resistevano colla propria impenetrabilità, egli vi s'accaniva senza accorgersi di perdere così i pochi vantaggi della amabilità giovanile, eccitando le rivolte del suo orgoglio. Le aveva già fatto una scena spiacevole su Talli. A forza di rimuginare le sensazioni umilianti provate in quella notte, quando ella era presso a morire, aveva finito coll'offendersi che il dottore avesse potuto per ore intiere maneggiare il suo corpo, tentandone tutte le bellezze più segrete con quel terribile diritto dei medici, contro il quale le donne anche dopo la guarigione sono senza difesa.

«Come avremmo dunque dovuto fare?»

«Avremmo! quasi che foste d'accordo. Non lo senti che queste parole mi fanno male?»

Ella invece ne aveva riso; ma l'altro, quantunque sentisse di diventare ridicolo, gli aveva proibito di chiamare ancora Talli.

«Non potrò nemmeno salutarlo per strada!»

«Sì, ma non fermarti con lui.»

Nonpertanto, rianimandosi, la loro passione era senza quegli improvvisi slanci di tenerezza e quei bisogni ardenti di sensualità, che avevano reso così deliziosi gli ultimi mesi della sua gravidanza. Era un amore più calmo, quasi regolare nel suo bel temperamento di bionda sana; bisognava che egli l'eccitasse colla provocazione dei propri desiderii, nel pericolo di un convegno furtivo, perché la voluttà le si destasse sotto quella sua carne florida e riposata. E anche allora gli pareva che ella fosse distratta e il cuore le seguitasse a battere tranquillamente sotto i fiori nivei del seno, quasi ancora vergine come prima del parto. Era una ossessione spasmodica, nella quale egli raddoppiava la frenesia delle carezze, finché vinta, soffocata ella gli anelasse sotto le labbra con un'ultima morente dimanda di grazia negli occhi.

In quei momenti non parlavano mai della Gigina, che invece occupava tutti i discorsi in famiglia. L'avvocato contentissimo della Caterina, una donna eccellente, e di quella famiglia quasi ricca di contadini, faceva volentieri per un anno quel sacrificio alla salute della figlia. D'altronde andava spesso a vederla da solo, scusandosene come di una fanciullaggine, che lo prendeva certe volte all'improvviso, irresistibilmente, così che doveva salire sul primo fiacchero.

Egli non si era ancora accorto di nulla, benché qualche cosa se ne cominciasse a sussurrare dopo quelle prime malignità sparse dalla moglie dell'esattore. Fortunatamente la Veronica, di mente ottusa e sempre preoccupata della propria cucina, non lo avrebbe mai indovinato, e la Gina taceva. Ma il vecchio Andrea aveva detto a Marco, l'altro scrivano, un misantropo, che andava sempre solo:

«Il signor Mario è un miserabile.»

Marco lo aveva guardato un pezzo prima di rispondere. Era più vecchio e malandato di Andrea, con una gran testa calva, scarno, di un pallore bilioso nel volto. Non aveva che una passione, il lotto, e una vanità, la cabala. Fra loro si dicevano tutto da venticinque anni.

«Bisogna che l'avvocato non lo impari.»

«Da noi non lo imparerà certamente.»

«I dispiaceri s'imparano sempre» aveva risposto Marco colla desolata filosofia dei vecchi.

D'altronde Mario si manteneva abbastanza cauto, malgrado la veemenza della propria gelosia; ella, anche più libera di spirito, durava minor fatica a dissimulare. Non si vedevano che nel gabinetto verde, quando l'avvocato doveva assentarsi sicuramente per qualche ora; ma vi restavano per pochi minuti, egli fremente di rimproveri, ella affrettandosi, e nell'orgasmo della fretta cedendo ad una eccitazione, che talvolta lo ingannava. Sovente passavano delle settimane prima di poter combinare un convegno; ella sembrava evitare le occasioni, quantunque gli si mostrasse amabile di civetteria nel cogliere a volo tutti i suoi cenni, e nel lasciarsi persino abbracciare rapidamente, pericolosamente, quando il marito volgeva loro la schiena. Invece ricusava con ogni astuzia femminile la compagnia di Mario nelle passeggiate e nelle lunghe soste al caffè, nelle sere di banda, perché il suo istinto donnesco l'avvertiva che lì stava il pericolo. Naturalmente la malignità del pubblico avrebbe fatto il confronto fra Mario e l'avvocato per concludere col vedere in questi un amante; poi Mario si sarebbe tradito con qualche occhiata gelosa. Anzi una sera, accorgendosi che egli la sorvegliava aggrondato da un altro tavolo, col pretesto di un improvviso mal di capo se ne andò. Ma in quelle sere, sotto la luce rossastra dei becchi a gas, mentre tutti la guardavano, le donne invidiando, gli uomini desiderandola, e i maggiori personaggi della città venivano ad inchinarla coi soliti immutabili complimenti sulla sua bellezza, Mario le veniva quasi in uggia. Invece insuperbiva del marito, cui doveva tale supremazia; Mario non era più che uno di quei piaceri volgari, una ghiottoneria, della quale non si parla in pubblico, e si dimentica naturalmente appena l'anima si eleva un istante nell'orgoglio di se stessa.

Mario se ne rodeva nel proprio interno senza poterle dar torto, perché il suo stesso egoismo l'avvertiva che egli non era gran fatto diverso da lei. Ma, appena poteva parlarle, erano lagnanze amare, recriminazioni permalose, che talvolta rendevano impossibile ogni altra espansione

Poi v'erano altre difficoltà materiali. L'Annetta non aveva altra camera da letto che quella nuziale, senza modo di adattarne un'altra qualunque. Mario vi aveva pensato indarno, cercando come separarli; il loro letto, di mogano ad intagli, non si poteva dividere, e per sostituirlo con due letti gemelli si sarebbe dovuto rompere l'euritmia cogli altri mobili. Era impossibile. Quella camera del marito, inespugnabile come una fortezza, nella quale non era ancora potuto penetrare nemmeno di frodo, diventava la prigione del suo pensiero geloso.

Egli aveva voluto da lei, almeno per la centesima volta, la confessione minuta e degradante di tutti i secreti matrimoniali; ma l'Annetta si era difesa nel proprio pudore di donna e di signora, mentendo, perché vi debbono essere misteri anche per gli amanti. L'amore ha bisogno di reticenze come tutto il resto della vita. Ma egli insisteva col fremito di una passione così vera, che ella aveva finito col sentirsene solleticata nella vanità. Negava ancora, non tutto. Del resto sarebbe stato impossibile; anch'egli, Mario, avrebbe dovuto comprenderlo.

«E dici di amarmi? gli dài i medesimi baci...»

«Ma no, non sono i medesimi... capirai.»

«Sei tu che non capisci. Devi essere mia, solamente mia: ti voglio solo per me.»

E le stringeva ambe le mani, comunicandole il proprio tremito. Ella lo guardava quasi atterrita, con un principio di ebbrietà sensuale.

«Mio Dio, ma come vuoi?...»

«Non mi hai nemmeno voluto nella tua camera. Che cosa temi? che io la profani?»

«Non è questo, pensa alla Gina.»

«Che m'importa?»

Mario si corresse:

«lo non voglio che tu sia sua moglie: lo capisci?»

Ella ebbe un sorriso fanciullesco.

«Ma lui è mio marito.»

Mario la respinse con un gesto violento, pazzo.

«Sii ragionevole, Mario: vi sono delle cose impossibili. In fondo egli è buono anche per te.»

«Adesso lo vanti. Ecco come siete voi altre donne, senza cuore, senza anima. lo ti...»

E il suo volto espresse una minaccia, che l'altra non comprese. Quindi, mettendogli una mano sulla spalla, ella seguitò con quel suo dolce sorriso:

«Ma se non accade quasi mai! T'assicuro, credilo, che non sono io. lo non voglio bene che a te solo, cattivo, che non sei mai contento di nulla. Ti lagni sempre, vorresti delle cose che sono al disopra delle nostre forze, mentre io, dovresti ricordartene, non ho fatto così con te. Potevo anch'io farti soffrire, se lo avessi voluto, ma sono più buona di te... se tu mi amassi, non mi tratteresti così» concluse con abilità donnesca, trasformandosi da accusata in accusatrice.

«Quant'è?» egli le chiese fissandola violentemente negli occhi: «Bada di non mentire.»

Ella sostenne l'occhiata.

«Chi se ne ricorda?»

«Non voglio, non voglio.»

«Sei tu che non mi vuoi più bene.»

Egli l'afferrò alla cintura per impedirle di andarsene, ella gli si abbandonò fra le braccia in un bacio; così finivano generalmente queste scene, che si riproducevano ad ogni incontro.



IV

L'avvocato preparava un gran colpo.

Fin dai primi mesi della sua presidenza nella congregazione delle Opere Pie, aveva scoperto nel disordine antico dell'amministrazione guasti più recenti. L'immenso patrimonio, quasi dieci milioni di lire, più che sufficiente a tutte le miserie del paese, veniva dilapidato dagli amministratori, che per vanità di comando tolleravano con viltà una camorra d'impiegati negligenti e rapaci. L'avvocato si mise sul serio a rivedere i conti. Ogni giorno toccava nuove piaghe, testamenti non eseguiti, poderi affittati dei quali non si percepivano le corrisposte e non si trovavano gli affittuari, spese incredibili nei restauri e nelle manutenzioni, bonifiche già saldate e non ancora incominciate, accordi fraudolenti nella vendita delle derrate, soprusi nella erogazione delle elemosine, e finalmente tutta una serie di mandati falsi fra l'economo e il cassiere. Il caso era grave. Questi ultimi due impiegati erano i grandi elettori del partito radicale, caduto poco prima dal potere per rancori inconciliabili fra le sue varie sètte, ma forte ancora dell'assenso brutale della piazza.

Il partito moderato, riaffermando la pubblica amministrazione, vi portava, attraverso intendimenti più onesti, condiscendenze anche più ipocrite e quella paura dell'impopolarità, che toglie il coraggio di qualunque vera riforma. Egli, rimasto sino allora quasi al di fuori delle lotte politiche paesane, era stato eletto alla unanimità, e godeva ancora di quella dittatura inoffensiva, che talvolta la tregua dei partiti accorda ad un uomo nuovo. Ma sotto quella inalterabile bonarietà l'avvocato covava una forte ambizione. Lungamente discusse nel silenzio del proprio gabinetto i pericoli d'una denuncia su tali malversazioni, calcolando colla esperienza degli affari e quell'intuizione dello spirito pubblico propria dei pensatori, gli argomenti e le difese, che i colpiti avrebbero usato. Tutti sapevano del male, ma appunto perché troppo grande nessuno aveva mai osato porvi la mano. I moderati contentissimi di uno scandalo avrebbero abbandonato dinanzi al primo tumulto l'audace, che lo avesse provocato; i radicali tenterebbero tutte le intimidazioni, avventando fango e bestemmie dai loro giornalucoli. Forse il governo stesso tentennerebbe per quella fiacca politica dell'acconciarsi a tutti i guai, piuttosto che affrontare una esplosione della coscienza nazionale.

Nullameno si decise.

Allora ne parlò a Mario, tenendolo molte notti nel proprio gabinetto, perché lo aiutasse nello spoglio dei documenti, coi quali intendeva corredare la grossa relazione, che avrebbe contemporaneamente presentata al consiglio e al governo per invocare un commissario regio. Mario rimase sbigottito della temerità del disegno e della vastità degli studi, dai quali era sostenuto; l'avvocato gli si rivelava improvvisamente sotto il nuovo aspetto di un uomo politico, egualmente fermo di carattere che malleabile nell'ingegno. Ma la prima difficoltà consisteva nell'eliminare dalla deputazione delle Opere Pie alcuni membri, dei quali non era possibile fidarsi, perché non avrebbero mai osato contribuire ad un'impresa così pericolosa. Lentamente, abilmente l'avvocato, irritando la loro vanità su piccole questioni col fingere di ostinarsi a torto, poté forzarli a dare le dimissioni. Ciò in paese lo diminuì momentaneamente; a molti anzi parve strano che un uomo della sua levatura potesse impuntarsi sopra tali inezie. Lo si accusò di manìa del potere, solita negli uomini nuovi alla vita pubblica, ma non ne vennero grandi discussioni, giacché nessuno dei dimissionari ardì attaccarlo in consiglio per timore della sua eloquenza. Quindi l'avvocato fece nominare al loro posto alcuni figuranti, suoi ammiratori da tempo, che avrebbero sempre creduto ciecamente alla sua parola, e firmata qualunque relazione senza leggerla.

Poi lasciò trascorrere ancora molti mesi.

Vennero daccapo le elezioni. Questa volta egli vi si adoperò così bene, che i nuovi consiglieri furono quasi tutti clienti del suo studio, gente ricca, mezzo clericale, ma di gran nome nella città. Egli si mantenne sempre così facile nei modi, lontano da ogni esagerazione di comando, lasciando libera carriera a tutti i piccoli orgogli disputantisi le cariche cittadine. Laonde quelle dimissioni dei suoi primi colleghi nella congregazione vennero presto dimenticate. Quanto ai nuovi contratti, e nell'elargizione ai poveri, veniva con fine criterio e con mano ferma sradicando gli abusi, così da farsi al tempo stesso amare e temere. In quel tempo aveva vinto in prima istanza la causa della cartiera, guadagnandovi trentamila franchi, ma a rovescio della moda giuridica non aveva voluto poi associarsi altri avvocati per l'appello, solamente munendosi a Bologna del più sottile fra tutti i procuratori. Evidentemente voleva vincere solo, meno ancora per non dividerne il lucro che per orgoglio di dotare, e senza aiuto d'altri, la città di un grande stabilimento industriale moderno.

L'Annetta allora gli ridomandò la carrozza; oramai spirava l'anno che la Gigina doveva trascorrere in campagna. L'avvocato, invece di rispondere subito, se la prese sulle ginocchia, e carezzandole colla grossa mano la bella testa:

«Ti piacerebbe invece di passare l'inverno a Roma?»

Ella sbarrò gli occhi.

«Lasciami dunque fare. Se vuoi la carrozza col cavallo, te la pagherò, perché hai la mia parola; ma credi a me, non è tempo ancora. Ti preparo di meglio.»

La sua faccia in quel momento splendeva di tutta l'energia intellettuale, come quando si esaltava in qualche disquisizione giuridica. Ella non capiva, stimolata da una confusa curiosità.

«A Roma!»

«Non l'inverno prossimo, l'altro forse. Ma soprattutto non m'interrogare: tu non terresti il secreto.»

Ella quasi ne convenne.

«Piuttosto, eccoti per due abiti» e tirando un cassetto della scrivania, le regalò un bono da cinquecento lire.

L'Annetta inebbriata gli si gettò al collo, coprendolo di baci.

«Lavori troppo, Pippo mio» gli osservò facendosi a un tratto materna. «Che non dovesse poi darti fastidio.»

L'altro sorrise.

«Sai come faremo? mi comprerai a Firenze la più bella carrozzina per la Gigina. Uscirò colla Gina, ella la spingerà. Anche le grandi signore fanno così nelle capitali.»

Da molti mesi l'avvocato non usciva quasi più di casa, preso da una smania febbrile di lavoro. A cinquant'anni gli era venuta in uggia quella vita oscura di provincia, appena interrotta da qualche gita a Firenze o a Bologna per motivi di tribunale. Contento della moglie, inebbriato della propria bambina, voleva sollevarsi più lontano e più alto, in un ambiente spirituale, ove esercitare le forze accumulate pazientemente nel lungo studio. Benché la sua ambizione non avesse ancora un ideale preciso, si sentiva capace di cose anche maggiori di quelle, che da lui aspettavano i più ferventi ammiratori.

Quindi suggerì ad alcuni capi del partito moderato la fondazione di un giornale ebdomadario per combattere quello, che da anni aiutava abbastanza bene i radicali nel maneggio dell'opinione paesana. Un giovane avvocato, ritornato allora dall'Università, d'ingegno battagliero e scrittore abbastanza disinvolto di articoli, ne assunse la direzione; altri giovani per vanità letteraria e spavalderia di ripicco gli si strinsero attorno. Presto la lite divampò fra i due giornali, e ne seguì un duello. L'avvocato finse abilmente di non interessarsi alle polemiche, poi diede alla Gazzetta moderata una serie di articoli sulla nuova legge delle Opere Pie, che il Parlamento stava discutendo. Di rimando i radicali pretesero confutarlo, ma egli non rispose, e la dottrina e il valore vero dei suoi articoli impressionarono tutte le persone colte del paese. Egli si levava spontaneamente superiore a tutti, sorvolando alle discussioni personali, limpido e conciso nelle esposizioni, terribile per la densità dei sarcasmi che talvolta gli sfuggivano; mentre il direttore della Gazzetta, da lui indettato, apriva una campagna contro la passata amministrazione radicale, berteggiandone le asinerie e rivelandone, sebbene ancora confusamente, i guasti.

Mario, che naturalmente si era legato coi giovani redattori della Gazzetta, fu travolto nelle animosità e dalle animosità del partito, fino a scrivere egli stesso qualche articolo senza firmarlo, ma vantandosene poi in pubblico. Quando l'eccitazione degli spiriti fu al colmo, l'avvocato annunziò per la prossima seduta consigliare una interpellanza sulle Opere Pie. Aveva già fatto stampare secretamente a Firenze la relazione, e ne aveva ricevuto tutte le copie per distribuirle all'indomani del primo attacco. Ma nessuno ancora prevedeva la grossa lite, che ne verrebbe.

La seduta aveva luogo nel mattino. Malgrado l'energia del carattere, l'avvocato era nervoso. Prima di uscire di casa chiamò l'Annetta nello studio per suggerirle di andare dalla Gigina in campagna. Era stata un'idea improvvisa, un subito timore irragionevole, che potesse scoppiare qualche chiasso, e quindi non l'avrebbe voluta in città perché non se ne spaventasse. Ma ella, che aspettava la sarta, non vi acconsentì. Quella mattina era tutta felice; gli parlò dell'abito, una novità che nessuna signora aveva osato ancora in provincia, senza accorgersi della sua preoccupazione. Anche Mario era accigliato. Nonostante la gelosia, si sentiva dominato da quell'uomo, che stava per ingaggiare così pericolosa battaglia. Finalmente l'avvocato prese il cappello per uscire, ma si voltò a baciare l'Annetta. La cosa era così insolita che ella scoppiò a ridere, mentre Mario le faceva gli occhiacci. Ma non vi fu tempo a spiegazioni.

Prima di separarsi l'avvocato disse a Mario:

«Mettetevi fra la folla, me ne direte poi l'impressione.»

Egli, diventato di mal umore dopo quel bacio, credendo d'indovinare in lui una paura, rispose:

«La folla sarà tutta di radicali, è possibile che fischino.»

«Lo facessero!» ribatté l'avvocato con tale sorriso che l'altro ne rimase sconcertato.

La signora Annetta era rimasta in casa ad aspettare la sarta.

In quei mesi la sua bellezza aveva rifiorito così da farla sembrare ringiovanita. Tutto le sorrideva, tutto le riusciva; la stessa gelosia di Mario, a volta a volta seccante e brutale, le diventava uno stimolo nella monotonia delle abitudini, che avrebbe potuto mutarsi in noia. Ella li amava entrambi, dividendosi fra essi colla incosciente passività della femmina. Nessun rimorso, dopo quel fuggevole ritorno alle devozioni di bambina, turbava la calma del suo spirito; era così naturale per lei che quei due uomini l'amassero, che ella medesima aveva dovuto amarli. Solo uno scandalo l'avrebbe fatta soffrire, guastandole fatalmente la posizione nel mondo, ma si era abituata a non temerne in quella facilità, che la presenza di Mario nello studio e il carattere confidente dell'avvocato le procuravano. Quindi non sospettava di alcuno. Infatti nemmeno quella moglie dell'esattore, sebbene avesse con più d'uno sparlato di lei e di Mario, si era tanto accanita nella chiacchiera, che si fosse davvero propalata. Naturalmente i maligni, che l'ozio moltiplica nelle cittaduzze di provincia, lanciavano tratto tratto qualche proposito sguaiato sulla intimità di Mario coll'avvocato, presso una moglie così giovane e bellina; ma ogni accusa cadeva, perché nessun incidente scandaloso era ancora venuto ad impressionare la fantasia del pubblico.

Quella mattina la sarta le aveva misurato lungamente l'abito, difendendolo contro i mutamenti, che le venivano alla fantasia ad ogni prova, e se n'era andata, quando la moglie dell'esattore discese dalla Veronica per raccontarle come suo marito, rincasato allora per il pranzo, le avesse detto che nel consiglio comunale c'era gran tempesta a cagione dell'avvocato. La Veronica corse dalla signora Annetta, gonfiandole naturalmente quelle poche frasi; chiamarono Andrea. Egli non sapeva nulla, ma subito indovinò qualche cosa, ripensando a certi discorsi dei giorni prima. Lo mandarono a palazzo Comunale, perché ne ritornasse subito con una risposta. Dopo mezz'ora non s'era ancora visto. Allora l'inquietudine crebbe. La signora Annetta si mise alla finestra colla Gina, la Veronica andava e veniva dalla cucina; alcune occhiate della gente, che passava sotto di loro, finirono d'impensierirle.

Che cosa era avvenuto?

La Gina osservò colla solita freddezza, che siccome il signor Mario era coll'avvocato, in fondo non c'era di che spaventarsi; ma la sua voce fece trasalire l'Annetta.

Adesso strane paure le si alzavano dal cuore. Non sapeva nulla delle lotte politiche cittadine, ma l'aver scorso qualche volta a caso alcuni articoli violenti dei due giornali, e il ricordo dell'ultimo duello accaduto l'assalsero confusamente. Non pensava a lui. E se perisse? Questa subitanea paura della morte, che le donne nella fiacchezza della loro fibra provano così facilmente, la fece scoppiare in singhiozzi.

Corse nell'anticamera a cercare Marco. Il vecchio stava correggendo una cabala sopra una lunga striscia di carta sudicia,tutta piena di numeri entro finche segnate colla matita rossa, qua e là interrotte da altri asterischi.

«Marco, fatemi la carità, scappate subito a palazzo Comunale. Andate a veder voi; Andrea non è tornato.»

Egli ripiegò lentamente la carta, e se la pose nel taschino del vecchio panciotto nero.

«Mio Dio, ho paura!»

«Che cos'è?»

«Non lo so. Andate a vedere quello che è succeduto: tornate subito, per carità.»

Staccò ella medesima dall'attaccapanni il suo cappello a cencio, largo e sudicio, perché facesse più presto; lo spinse quasi fuori colle mani, e tornò correndo alla finestra.

«Dio! come va adagio» esclamò con voce disperata, vedendolo avviarsi col suo passo da vecchio.

Ma poco dopo vide avanzarsi l'avvocato fra un gruppo di signori,che gesticolavano vivamente. La moglie dell'esattore tornò a discendere; un altro inquilino le aveva detto che l'avvocato era stato fischiato, e che i carabinieri avevano dovuto intervenire per difenderlo.

«Mio Dio» mormorò la signora Annetta, spingendosi con tutto il busto fuori della finestra.

Allora quei signori la videro, e l'avvocato la salutò vivamente colla mano affrettando il passo. Ella corse alla porta dello studio, ma udendo salire tutti quei passi, indietreggiò spaventata. La Gina, la Veronica, la moglie dell'esattore, barattavano occhiate dietro la sua schiena, allungandosi verso l'uscio. Il rumore delle voci ingrossava; l'avvocato ebbe una franca risata, poi scorgendola sul pianerottolo corse su. Nel vederlo così allegro ella non capì più; s'offese del proprio spavento, e rinculò imbizzita.

«Che hai?» le chiese ridivenendo così serio, che ella indovinò istantaneamente il pericolo, dal quale usciva, e gli si slanciò al collo piangendo. Tutti erano entrati, l'anticamera ne pareva piena; Mario, ultimo, chiudeva l'uscio. A quello scoppio di singhiozzi tutti la circondarono, parlando a una voce.

«No,» ella diceva fra i singulti «ti hanno fischiato, lo so. Si è dovuto chiamare i carabinieri.»

Infatti era vero.

«E poi?» chiese l'avvocato, staccandosi le sue mani dal collo per forzarla a ricomporsi dinanzi a tutta quella gente. «Eccomi ancora qui: via, Annetta, sei proprio una bambina.»

«Sei tu che dovevi dirmelo. Che cosa è stato?»

«Nulla, una delle solite scempiaggini di quei mascalzoni» intervenne il conte Giglioli, bell'uomo dall'aria signorile, tuttora esaltato.

«I carabinieri ti hanno difeso?»

«Non ce n'è stato bisogno: senza un sindaco così fiacco, si sarebbe subito fatta sgombrare la sala.»

«Perché t'immischi di queste cose?» proruppe nuovamente spaventata.

E il suo rimprovero era così sincero che tutti risero; quella ilarità la calmò. Adesso era ripresa dalla vanità di padrona di casa, in faccia a quei signori, che sembravano studiarla malgrado le occhiate benevoli. Si volse tutta vergognosa, ma già presso a riprendere la propria gaiezza.

«Ah!» esclamò vedendo finalmente Mario, e il suo sguardo espresse uno sdegno quasi sprezzante, «lei, signor Mario, perché non è venuto ad avvisarci? Lei non è già consigliere.»

Mario impallidì sotto le occhiate di tutti: il conte Giglioli, che aveva inteso qualche cosa sui loro amori, colpito dalla sincerità di quella collera, scambiò uno sguardo coll'ingegnere Brunelli.

Mario sentì che tutta quella gente, credendolo nient'altro che un giovane di studio, dava ragione alla signora Annetta; in quel momento la mortificazione dell'orgoglio fu in lui più dolorosa dei morsi della gelosia. La signora Annetta lo schiacciava dall'alto della propria passione di moglie.

Poi ella gli volse le spalle, invitando i signori a passare nella saletta di ricevimento. «È troppo piccola, mia cara» ribatté l'avvocato; «staremo meglio qui.»

Allora si sparpagliarono per le sedie. Il conte Giglioli, sempre il più compito, avendo traveduto una poltrona nel gabinetto verde, andò a prenderla per la signora. L'avvocato famigliarmente si era seduto alla scrivania di Mario, il conte Giglioli si mise presso alla poltrona, e chiacchierarono della seduta con parole veementi contro il sindaco. L'avvocato sembrava divertirsi ad eccitarli colla propria calma.

Poi si mise a scrivere.

«Che cosa fate?» chiese il conte.

«La mia lettera di dimissione.»

«Benissimo! ci dimetteremo con voi. Se il sindaco vuol lasciarsi insultare da beceri prezzolati, ciò vuol dire che sente di meritare tali ingiurie.»

«Dov'è la carta?» domandarono cinque o sei voci.

«Mario,» gli si rivolse l'avvocato, vedendolo solo presso alla finestra, «abbiate la bontà di cercarne.»

A Mario parve di diventare un domestico, tutti gli facevano fretta cogli sguardi. L'avvocato lesse la propria lettera, breve e terribile; gli risposero con un "hurrà!". Mario, entrato nel gabinetto verde, vi rovistava colle mani tremanti, ma i minuti gli divenivano ore in quell'orgasmo. Finalmente ritornò con una piccola risma già incominciata.

«Ma pare impossibile!» gridò la signora Annetta. «Non vedete che c'è il timbro dello studio?»

E questa volta, dandogli del voi, sembrava proprio che parlasse ad un servo.

«Tirate il cassetto a sinistra» gli disse l'avvocato «ce n'è tanta della carta.»

Si erano già messi a cercare le penne, scrissero in piedi. Alcuni si trovavano già nell'imbarazzo per improvvisare una lettera di dimissioni, dopo che l'avvocato aveva letta la propria. Egli li osservava rattenendo un sorriso, ma siccome per quanto paresse loro di far presto, ci mettevano abbastanza tempo, per non aggravarli colla propria attesa si voltò affettatamente alla Annetta. Ella gli prese una mano

«Raccontami tutto.»

«Dopo, mia cara.»

«No, subito, subito. Tu non hai avuto paura come me!» esclamò con ammirazione.

Egli incominciò infatti a narrarle il principio della seduta, sentendosi ripullulare in cuore l'orgoglio dell'esordio, col quale aveva incominciato il difficile discorso; le penne degli altri scricchiolavano impuntandosi sulla carta, qualcuno aveva già stracciato il primo foglio. Allora l'avvocato passò con lei nel gabinetto verde, lasciandone naturalmente aperto l'uscio; così gli altri avrebbero scritto meglio.

Mario insospettito andò a porsi nell'angolo, presso il gran scaffale, e la vide attaccata al collo di lui entro uno specchio piccolo, sul quale erano dipinti dei fiori: un regalo anche quello, appeso di fronte al ritratto della signora Luigia.

L'impressione fu così dolorosa che, profittando della disattenzione di tutti, fuggì. Un gruppo di signori fermi davanti alla porta di casa parevano incerti di salire; Mario li cansò difilandosi verso porta S. Biagio, della quale l'arco altissimo lasciava vedere tutto un lembo di campagna. In quel momento la sua gelosia diventava odio contro l'avvocato. Confuso fra la folla, che stipava la vasta sala delle sedute consigliari, egli aveva assistito per tre ore a quella grande battaglia, sentendosi tratto tratto trasportato di ammirazione. L'avvocato vi si era mostrato superbo di abilità e di sangue freddo; mai la sua parola aveva trovato impeti e bagliori più terribili, mentre quella sua faccia affascinava così il pubblico che, malgrado la parola d'ordine data dai capi radicali ai loro numerosi adepti, il tumulto era scoppiato solamente alla fine, dietro un urlo irrefrenabile di applausi. Allora la scena era diventata davvero inquietante. Moderati e radicali s'ingiuriavano minacciosi, alcuni consiglieri della minoranza profittavano del chiasso per attaccare con apostrofi veementi l'avvocato rimasto in piedi, impassibile guardando la folla. Poi, in un momento di sospensione, egli aveva con accento freddo, ma severo, invitato il sindaco a far rispettare la libertà della discussione. Questi, allibito, si era alzato per dire al pubblico di calmarsi, e provocandovi invece una peggiore tempesta. Un gruppo di beceri, evidentemente assoldati, vociavano improperii contro il sindaco, l'avvocato, il consiglio intero, senza che si potessero nemmeno distinguere le parole: s'intese gridare: "Viva l'anarchia".

Tre o quattro consiglieri, fra quelli che gesticolavano al banco della giunta, disparvero; un assessore sfuggì inosservato per chiamare dalla prossima caserma il tenente dei carabinieri.

Intanto la frenesia degli urli cresceva. Mario, stretto fra un crocchio di moderati, strepitava anche lui contro il sindaco, perché non faceva sgombrare la sala. In fondo, presso alla gran porta, si era impegnata una colluttazione, mentre la folla urlava ondeggiando. La grossa testa dell'avvocato, rigida fra il disordine di tutti i consiglieri, dominava ancora la tempesta.

Poi tutti i consiglieri, addensati intorno al sindaco, indietreggiarono. Il tenente dei carabinieri, alto col berretto in testa e il fodero della sciabola nella mano sinistra, si era presentato, inoltrandosi sino quasi nel mezzo dell' emiciclo. Quindi si volse al sindaco, gli fece il saluto militare, ed attese.

Un silenzio improvviso, incredibile, aveva ghiacciato la sala.

«Sono a' suoi ordini!»

Quel tenente solo, tranquillo, aveva già sedato il tumulto. Il sindaco si guardò attorno spaurito, la sua piccola figura parve diminuire ancora, tutti i consiglieri lo fissavano sospesi, palpitanti, per quello che risponderebbe. Una emozione insopportabile soffocava tutti.

Passarono dei secondi. Mario vedeva per la schiena il tenente, immobile come dinanzi ad un generale; quindi intese la voce sottile del sindaco che diceva:

«Si ritiri pure.»

Il tenente tardò un istante, quasi quelle parole gli riuscissero incomprensibili, poi ripeté il saluto militare, e si voltò girando sul pubblico un'occhiata sicura di soldato.

Il sindaco si era già levato in piedi:

«La seduta è sciolta.»

Ma un uragano di fischi gli aveva risposto prima ancora che il tenente varcasse la porticina, dalla quale era entrato.

Mario era uscito travolto dalla folla.

Adesso, ripensando a quella seduta, si ricordava d'incidenti allora forse nemmeno colti, di voci, di gesti, fra quella oppressione soffocante, dalla quale saliva come un vapore di follia. L'avvocato solo era rimasto padrone di se stesso, mentre il sindaco nello spavento aveva persino obliato di pronunciare le solite minacce legali. Evidentemente l'avvocato aveva tutto previsto; giunta e consiglio si dimetterebbero provocando la venuta di un commissario regio e quella inchiesta, davanti alla quale rinculavano. Egli resterebbe nella coscienza del pubblico arbitro della situazione.

Quel disegno, maturato così lentamente, era riuscito al di là di ogni speranza; Mario si sentiva ripreso dall'ammirazione, comprendendolo ora in tutta la sua coraggiosa semplicità. E la figura della signora Annetta, abbracciata strettamente al collo di lui, quasi per sottrarlo al pericolo che aveva corso, diventava nella sua accesa fantasia il premio di quella prima vittoria, preludiante forse a trionfi maggiori. Invano evocando i ricordi delle ore, nelle quali egli li aveva divisi, sorrideva con sguaiato cinismo a se medesimo delle lussurie imposte nell'orgasmo dell'amore a quella donna, che allora gli ubbidiva, qualunque fosse il comando di un suo desiderio; ma l'orgasmo sensuale di tali scene svaniva sempre poco dopo, senza lasciare altra traccia che nella sua memoria di geloso, mentre ella ritornava senza sforzo la donnina nata alle inconscie voluttà del sesso, e tutta felice nella ammirazione affettuosa del marito. Che cosa era dunque quel loro amore di amanti, che egli credeva il più potente della vita, se le sue maggiori conseguenze, come la nascita della Gigina invece di scardinare il matrimonio si adagiavano naturalmente nel suo quadro, raddoppiandone il valore? Una amarezza gli stillava a gocce gelide sul cuore. Egli non era nulla né per l'Annetta, né pel mondo; la ressa di tutti quei signori intorno all'avvocato glielo aveva provato allora allora anche troppo crudelmente; nessuno gli si era rivolto, nessuno lo aveva interrogato. Se anche la signora Annetta lo avesse amato pazzamente, preferendolo al marito, questi lo avrebbe nonpertanto soverchiato. L'amore non era che una forza sessuale nella vita dominata da leggi ben più profonde, in preda a bisogni ben altrimenti vasti. Quella tragica contraddizione, antica come lo spirito umano ed espressa con ogni varietà di accenti dai poeti di tutte le generazioni, di essere come amante al centro della vita della donna senza poterla nullameno costringere entro la propria, si levava dal fondo del suo pensiero sinistramente, come un'ombra di morte. Era impossibile possedere le donne, come egli stesso avrebbe voluto loro appartenere. Bastava l'invidia di un abito per sottrarle alla tenerezza del raccoglimento più amoroso; le compiacenze mondane della sposa facevano loro tradire l'amante pel marito, come già questo per quello; la passione pei figli, quando davvero cresceva in loro a passione, le rendeva indifferenti ad ogni altro affetto, perduto in questo istinto animale, e trovandovi la propria spiritualità più pura. L'amore non era quindi che un incontro fortuito, fors'anco prestabilito dalla natura fra due individui, breve e violento, dopo il quale ognuno ripigliava la propria strada, ricordandosi appena dell'altro, spesso conservandone una impressione antipatica. Egli invece, come tutti i gelosi, avrebbe voluto lasciare sulla donna la propria impronta, cristallizzandola nella adorazione di se stesso. Solamente così egli avrebbe sentito la pienezza dell'amore, e quell'orgoglio maschile, che nulla può attutire nell'uomo, e basta a rialzarlo, anche se inferiore di mente o di corpo, dinanzi a qualunque donna.

La campagna, verde e festosa, era ancora avvolta nei raggi del sole; le cicale finivano di cantare, gli uccelli si gettavano vivamente da albero ad albero gli ultimi saluti. Egli aveva rallentato il passo, asciugandosi automaticamente il sudore: per la strada passava poca gente. Allora, in quella giocondità del vespero e fra tanta floridezza di verzura, il vuoto del cuore gli si rivelò così dolorosamente, che sentì il bisogno di nascondersi. Si cacciò per un viottolo, e sedette nel fondo di un fosso.

Una tenerezza desolata lo faceva piangere, come quando le lagrime sono ancora un conforto. Avrebbe voluto l'Annetta lì, dinanzi, per inginocchiarsele ai piedi, domandarle perdono in una improvvisa rassegnazione, entro la quale gli pareva di rinnovarsi come in una virtù. Ma l'orgoglio subito dopo gli si risollevava ancora vibrante di giovinezza, con un fremito di tutti i nervi. Non era egli il giovane? A che pro le ricchezze e l'ingegno, quando si è vecchi? Essere giovane, poter ogni giorno ricominciare la propria esistenza a una distanza così lunga dalla morte, che quasi se ne perde il senso; passare attraverso tutte le donne prepotente ed invulnerabile, mentre i mariti affondano in una carriera o in una famiglia egualmente senza uscita, lancinati da necessità rinascenti, divorando la propria sconfitta in quella dei figli... ecco la vita! Che cos'era l'avvocato dinanzi a lui, ora che la virilità stava per mancargli e la vita gli declinava al tramonto? Quella posizione, così faticosamente guadagnata, gli serviva appena per mantenere nel lusso una moglie, che lo tradiva. L'amante solo, giovane, era il padrone assoluto, egualmente invincibile alla moglie e al marito; e il mondo, sempre giovane anch'esso, teneva per l'amante contro il marito, e ogni commedia dell'arte, tutte le conclusioni della scienza, erano per l'adulterio, per la giocondità della vita e la salute della razza. Che l'avvocato diventasse sindaco, e s'arricchisse ancora sino a tener cavalli e carrozza...! Egli, Mario, sarebbe sempre egualmente l'amante di sua moglie, e il padre dei suoi figli.

Se non che un dubbio atroce e sottile forava improvvisamente queste bolle iridate della sua superbia: anche l'Annetta poteva da un momento all' altro abbandonarlo per un nuovo amore. Egli ne fremeva senza potersi persuadere del contrario, mentre il pensiero gli ritornava a quello specchio dipinto di fiori, tra i quali l'aveva veduta abbracciata al collo del marito in una di quelle tenerezze voluttuose della paura. A quest'ora erano forse a letto, prima del pranzo, preparandovisi con una festa migliore. Era impossibile che l'avvocato non soggiacesse alle tentazioni di tutti quegli abbracci, e che la signora Annetta non volesse il beneficio delle proprie effimere sentimentalità. L'adulterio era così! Amare pazzamente una donna, sulla quale un altro ha un diritto anche più assoluto, e al quale essa prodiga, per addormentargli i sospetti, le carezze di una lascivia costretta a diventar sincera nelle convulsioni dei propri sforzi! E dopo, umida dei baci del marito, col ventre forse palpitante delle sue strette, ella ritorna all'amante, scrollandosi appena come un cane che esca dall'acqua, per ridirgli le medesime parole e ridargli le stesse cose...

Egli li vedeva sempre là, dentro quella camera, in delirio di chiaroveggenza, che gli faceva persino temere di essere voluto da loro. Tutta la sua anima si straziava sotto l'immobilità di tale visione, cui gli amanti sogliono sottrarsi o nella indifferenza del cinismo, o con un oblio delicato ed istintivo. Giacché se egli amava quella donna più intensamente che non ne fosse amato, ella non era per lui che la femmina preferita a tutte, la signora prescelta al disopra della propria condizione: nessun altro sentimento spiritualizzava la sua gelosia. Annetta medesima non vi avrebbe capito altro.

Le grandi gelosie, nelle quali la passione di un Otello o di un Amleto concentra tutto il dominio che un'anima può avere nel mondo, cosicché diventa impossibile non morirne al primo scoppio della catastrofe, rimanevano incomprensibili alla volgarità del loro spirito. Essi ignoravano il supremo olocausto dei cuori, quella compenetrazione delle coscienze, che fa dell'amore come uno scoglio rovente di sole in mezzo all'oceano, sul quale due naufraghi dimenticano la tempesta donde sono usciti, e la morte che li attende. Né lei né lui erano stati trasformati dalla nascita della Gigina. La loro vita separata dagli ostacoli sociali più che dalla contraddizione dei temperamenti, come era stata felice prima, potrebbe esserlo dopo quell'amore, giacché s'amavano solo per effusione di giovinezza, e soffrivano dei propri reciproci difetti invece di adorarli. Quella malinconia delle passioni inguaribili, che pare un'ombra gettata sopra di esse dalla morte, sarebbe loro parsa anche in altri una uggiosa debolezza di carattere. Ma poiché la gelosia s'innalza dalla sessualità dell'individuo come una affermazione delle sue legittime preferenze, e nell'urto con altre esplode senza che l'anima quasi v'intervenga, Mario nelle più atroci sofferenze delle proprie recriminazioni giungeva fino a provare contro a quella donna i fremiti dell'aggressione. Prima ancora di amarla l'aveva compresa. La sua natura di farfalla le impediva di posarsi a lungo sopraqualsivoglia fiore; ma felice nel disordine traballante del proprio volo esprimeva la gioia della primavera, non ancora abbastanza profonda per ispirare il canto agli uccelli. Ella non poteva cedere all'amore che come ad un alito di profumo o ad uno scintillio di colori, bisognava amarla così, senza chiederle più che la comunicazione di quella gioia e il contatto effimero della sua bellezza. Solo un uomo superiore come l'avvocato, conservando la giovinezza del cuore nella maturità stanca della ragione, poteva aver gustato una tale natura di donna, e a cinquant'anni, colle ombre del vespero sulla fronte, senza pretendere più ad una passione, deliziarsi di quella fanciullezza, che lo distraeva dal guardare innanzi, riempiendogli le ore più difficili con una allegria, dalla quale la voluttà sorgeva, tratto tratto, come un grido più acuto di monello.

Quella sera Mario non osò tornare da loro.

All'albergo, nei caffè, non si parlava che della seduta; i pareri oscillavano urtandosi, ma da tutte le discussioni il nome dell'avvocato usciva più importante di prima. Egli stesso fu più volte circondato, perché stando nel suo studio doveva sapere altre cose. L'unico editore della città aveva già messo in vendita la relazione; se ne leggevano brani in pubblico. Al caffè dei moderati il sindaco non aveva osato presentarsi per la solita partita a briscola.

Mario dovette per forza associarsi a quei discorsi, affettando per l'avvocato un entusiasmo, che dentro lo faceva sanguinare. Appena gli fu possibile, scappò verso porta San Biagio; la finestra del gabinetto verde era ancora illuminata, l'avvocato lavorava. Quell'uomo forte non perdeva un minuto, non si rilassava nemmeno dopo la vittoria. Mario invece non studiava mai, esaurendo al più presto e superficialmente quel lavoro dei processi, senza approfondirne mai la materia o assimilarsi altre dottrine, che un giorno potessero servirgli più in alto. Questo esame di se stesso l'avvilì.

Poi un gruppo di amici lo fermò ancora per riparlare sulle idee dell'avvocato; si aspettava da Roma il deputato marchese Curci. Uno disse:

«Ecco un deputato, che non lo diventerà più.»

Mario protestò di aver sonno, ma allora lo accompagnarono a casa. Dall'avvocato passarono alla signora Annetta; si discusse la sua eleganza, la sua posizione coll'avvocato, ma tutti gl'invidiavano la bella donnina, cui nessuno ancora aveva fatto la corte. Si sapeva troppo che era innamorata del marito, vegeto tuttavia malgrado i suoi cinquant'anni.

Mario dovette fornire particolari sulla loro intimità, e nessuno gli fece l'onore di sospettarlo come amante.

L'indomani i due giornali davano il resoconto della seduta coi più strampalati commenti. Si annunziavano adunanze di società radicali, altri consiglieri si erano dimessi, il sindaco solo resisteva incerto fra la vanità e la paura, ma secretamente già abbandonato anche dai colleghi di giunta. Mario trovò l'avvocato ilare; invece la signora Annetta, spaventata dagli articoli dell'Avanti!, parlava di uscire in visite per sorprendere qualche cosa della pubblica opinione.

«Vorresti mischiartene tu pure, mia cara?»

«Perché no?»

«Le donnine come te non debbono sporcarsi in simili intrugli. Invece andremo tutti in campagna; io verrò allo studio la mattina e tornerò la sera a pranzo. Se possiamo avere la Caterina colla bimba... che cosa te ne pare?»

Ella si mostrò contrariata; non era che il mese di luglio, e nel costume della città non s'andava in villa che sul finire di settembre. Nullameno si lasciò persuadere.

«Però torneremo per sant'Elena.»

Era la patrona della città, una festa che durava tre giorni.

«Tutte le volte che vorrai. Vedi,» soggiunse dando un'occhiata a Mario, «qui mi seccheranno troppo. Il mio dovere l'ho già fatto; adesso tocca ad altri.»

Mario capì tutta la prudenza di quella manovra: assentandosi dalla città, l'avvocato mostrava il massimo disinteresse nel raccogliere i frutti della vittoria.

«Qualcuno potrebbe dire che è una ritirata» gli osservò malignamente.

«Direbbe troppo poco» l'altro rispose, penetrandolo con uno sguardo scrutatore.

Ma la signora parlava già del come compiere, almeno nelle cose più necessarie, l'arredo di quell'appartamento di campagna, ove erano appena alcuni mobili abbandonati.

Mario dovette recarsi al tribunale; l'avvocato era rimasto pensieroso.

«Credi che Mario ci voglia bene?»

Ella sorpresa da tale domanda parve tardare a rispondere, ma sul viso di lui non v'era espressione inquietante.

«Mario? ... ma certo.»

«Infatti potrebbe tutto al più invidiarmi il successo di ieri. Mi era sembrato... te l'ho chiesto perché tu sei come i bambini, hai il loro istinto infallibile.»

La campagna li aveva divisi.

Mario non poteva andarci che di rado, dietro un invito dell'avvocato. Invece la sua autorità nello studio era cresciuta quasi del doppio, dacché l'altro non vi arrivava che tardi e ne ripartiva sulle quattro, malgrado il sole, nella carrettella del fattore, con quel vecchio cavallo così lento e sicuro, che quasi gli somigliava. Mario riceveva i clienti, teneva la corrispondenza, esauriva le pratiche di tribunale, comandando più seccamente agli scrivani. Fra lui e Andrea l'ostilità era quasi palese, dopo che il vecchio aveva risaputo certi propositi suoi e della signora Orsolina contro l'avvocato; ma prudente al solito questi non ne aveva detto nulla. Si era anche accorto della nuova freddezza fra i due amanti, compiacendosene come di un sintomo di rottura. Era impossibile, secondo lui, che la signora Annetta non s'accorgesse, un giorno o l'altro, della cattiva scelta. Marco invece, sempre muto, seguitava a passare il tempo colle proprie cabale, o quando non aveva da copiare, disegnava qualche bel carattere stampatello sulla copertina delle pratiche.

Mario era di pessimo umore. Quella vita di giovane da studio lo umiliava ogni giorno più sotto la fama crescente dell'avvocato, ma per rinunziarvi, secondo i consigli insistenti della madre, avrebbe dovuto mettere studio da sé, affrontando tutte le difficoltà della professione oltre quella di formarsi una clientela. Poi l'Annetta non l'amava abbastanza per seguitare in quella relazione fuori di casa, e quindi gli veniva meno ogni risoluzione.

Dacché ella era in campagna, non aveva osato scriverle, e molto meno ne aveva ricevute lettere. Allora pensò di farsi invitare a pranzo dall'avvocato per la prima domenica.

La Caterina era già stata una settimana alla villa colla Gigina; adesso l'Annetta aveva altra compagnia.

Quell'anno i signori Bruschi erano venuti ad abitare un loro vecchio casino, a poca distanza da quello dell'avvocato, per divertire la Giulia, unica loro figlia, uscita pochi mesi prima dal convento. Quando Mario e l'avvocato giunsero sul prato della villa, la grossa signora Berta, seduta sul prato leggendo un giornale, si alzò coi segni del massimo rispetto; per lei quella relazione col signor Filippo era una gloria.

«La signora Annetta è andata a spasso colla mia Giulia sino a Rivalta: hanno attaccato il somarello, ma staranno poco a ritornare.»

La signora Berta, moglie del signor Cesare, un piccolo possidente, che in vent'anni di commercio sui semi di trifoglio era riuscito ad ammassare una dote di centomila franchi per quell'unica figlia, era grassa e rubiconda, con una faccia quasi di uomo. Parlava un italiano un po' capriccioso, ma ne rideva ella stessa con tanta disinvoltura che ogni ridicolo scompariva.

Fece a Mario, che ella credeva un giovane di un gran valore pel solo fatto di essere nello studio dell'avvocato, una profonda riverenza, alla quale egli rispose quasi con alterigia. L'assenza della signora Annetta lo aveva già irritato. Appena le videro spuntare al cancello di legno, tutti mossero loro incontro; vi furono saluti e piccoli stridi. La signora Annetta, rossa per la fatica di far trottare l'asinello, era adorabile; la Giulia invece, vestita di bianco, inamidata dentro gli abiti, che non sapeva ancora portare, aveva ancora la fisonomia scialba ed insignificante delle educande. Era piccola e mingherlina, cogli occhi sbiaditi come le labbra, e sulle spalle due lunghe treccie castane, strette alla cima da due nastrini cilestri. Un largo cappellino di paglia, ornato di una rama di fiori finti le ombrava la faccia cerea.

L'avvocato prese in braccio la moglie per farla discendere, Mario teneva l'asino per la testa, mentre la signora Berta dava ambo le mani alla ragazza raccomandandosi:

«Per carità lo tenga, lo tenga.»

La signora Annetta non fece a Mario nessuna speciale accoglienza. Pareva allegra della campagna e di quella passeggiata colla Giulia, alla quale aveva spiegato un mondo di cose, che ricominciava a ripetere col suo bel riso cristallino; l'altra sorrideva un po' intimidita dalla eleganza di Mario e dalla sua freddezza per la campagna. Rimasero un'ora sul prato, poi la signora Annetta andò in cucina per affrettare il pranzo; attraverso la porta dell'andito si vedeva la Gina affaccendarsi intorno alla tavola già apparecchiata, con un largo grembiule bianco e un fazzoletto di seta annodato sul mazzo dei capelli. Salutò Mario col suo sorriso enigmatico.

Il pranzo riuscì male. La Veronica aveva sbagliato il risotto alla milanese; ciò permise alla signora Berta di parlare molto delle serve e delle spese di casa. Mario aspettava, sollecitandolo, uno sguardo della signora Annetta, ma ella seguitava a scherzare colla Giulia, che parlava a monosillabi. Allora Mario, con uno sforzo, voltò il discorso alla ragazza per attirare l'attenzione dell'altra, e le chiese se resterebbero molto in campagna.

«Non lo so, lo domandi alla mamma.»

«Sino ai Santi» rispose la signora Berta. «A far che cosa in città? Quando si ha un po' di casino, bisogna profittarne.»

«Questo mese d'ottobre ci divertiremo nei paretai» intervenne la signora Annetta.

Mario, per ripicco, mise in ridicolo la campagna, ma ella vi si accalorò. La Giulia lo guardava con una curiosità mista di ammirazione; egli era dunque un giovane elegante, il sogno suo e di tutte le compagne al convento.

Quando il pranzo fu terminato, tornarono sul prato a prendere il caffè. Mario doveva ripartire subito col fattore, perché questi non facesse troppo tardi nel ritorno.

Allora una tristezza gli piombò sul cuore. Non aveva potuto scambiare nemmeno una parola coll'Annetta, la quale anche in quel momento, mentre egli si disponeva a salutarla, parlava della Gigina colla signora Berta, e ridevano, si serravano insieme dimentiche di tutti.

Mario strinse prima la mano alla Giulia, che arrossì lievemente; la signora Annetta si volse appena, il fattore aspettava già in fondo al prato.

«Mi raccomando l'usciere» gridò l'avvocato ricordandogli una pratica di studio.

«Non dubiti» rispose Mario, rivolgendosi per dare un'ultima occhiata alla signora Annetta.

Appena si fu allontanato, la signora Berta disse:

«È un bel giovane.»

Mario si sarebbe sentito vendicato da quel complimento, ma invece si cercava nelle tasche uno zigaro per nascondere il proprio turbamento alla Teresa.

«Torni, torni» questa gli ripeteva; «si sta meglio qui da noi che laggiù.»

Pareva una rottura.

La signora Orsolina, insospettita dall'umore più bizzoso di Mario, aveva tentato due o tre volte di appiccarne il discorso, ma egli lo aveva sempre troncato andandosene. Adesso la città gli pareva abbandonata; non sapeva più che farsi delle ore vuote, e nello studio si sentiva anche più solo. La vasta stanza, dove lavorava, gli faceva quasi paura con quelle due finestre senza tende, e le pareti bianche fra i quattro immensi scaffali pieni di vecchi volumi in cartapecora, di un giallore cadaverico. Si sarebbe detta una camera d'archivio con quell'atmosfera lievemente muffosa. Sulle tre scrivanie, verniciate di bigio, larghe macchie d'inchiostro, seccate da tempo, ricordavano altri assenti, giovani come lui, che vi avevano lavorato, ora dispersi pel mondo.

Quindi si rifugiava nel gabinetto verde, pieno di tutta la vita dell'avvocato, e dei ricordi dell'Annetta.

Il lavoro l'annoiava.

Poi cominciò a trascurare gli impegni; qualche cliente si lagnò de' suoi modi insofferenti. Il suo pensiero era sempre rivolto alla villa o al modo di farvisi invitare; ma ogni volta che vi andava, erano piccole battaglie. Egli vi portava sempre, col pretesto di riderne, i numeri dell'Avanti! che aggredivano l'avvocato, per intorpidare malignamente l'allegria, dalla quale la signora Annetta lo escludeva. E si mostrava a volta a volta melanconico e chiassoso, più spesso ingrugnito, pungendola con motti improvvisi, senza mai arrischiare una scena. Ella vi si prestava come ad un giuoco, con più aperte civetterie al marito, o affettando l'amore per la Gigina, della quale egli non le parlava quasi mai.

Allora per dispetto egli si mise a corteggiare la Giulia.

La ragazza, troppo novizia, sulle prime ebbe sgomento della sua disinvoltura; poi, siccome era un bel giovane e le piaceva, s'infiammò. L'Annetta pareva secondarla, avvolgendoli nel proprio sorriso luminoso quando li vedeva insieme.

Una volta la Giulia rientrò dal prato nell'andito tutta rossa.

Ti ha dato un bacio?» ella le chiese sorridendo.

La ragazza arrossì sino al bianco degli occhi; invece le aveva chiesto semplicemente per la prima volta se le sembrasse di poterlo mai amare. La signora Annetta condusse la ragazza su, nell'altro andito, e si fece raccontare tutto; ma, accorgendosi che era innamorata davvero, diventò improvvisamente seria.

«Bisogna dirlo alla mamma.»

«No, no.»

Questa lo sapeva già, ed in secreto approvava, giudicando Mario dalle buone parole dell'avvocato. Egli invece, credendo di notare l'ombra di un dispetto sul viso della signora Annetta, quel giorno si mostrò anche più premuroso verso la ragazza; poi tardò quindici giorni a tornare. Voleva dar tempo al tempo. Infatti una mattina l'avvocato gli entrò in discorso di matrimonio. A ventisette anni suonati, Mario doveva pensare ad accasarsi; la Giulia con cinquantamila lire subito, ed altrettante dopo la morte dei vecchi, era un partito conveniente, molto più che usciva da una famiglia di gente onesta. L'avvocato dava il massimo valore a questa qualità. Mario si schermì, lasciando comprendere che era ancora presto, ma l'altro credette la cosa ben avviata.

Infatti Mario, incontrando il signor Cesare al caffè, gli si mostrò più complimentoso, e gli promise di andare la prima volta alla villa nel suo carrettino.

Quando arrivarono insieme, la ragazza si sentì quasi soffocare, e la signora Annetta invece rientrò in casa.

Mario destramente riuscì a sfuggire dal crocchio, e si cacciò su per le scale: ella usciva già dalla camera cosiddetta dei forestieri.

«Ho bisogno di parlarvi.»

«Andate dalla Giulia.»

«No, Annetta, senti.»

«Andate o chiamo»; e si ricacciò precipitosamente nella stanza.

Mario discese col cuore gongolante.

A pranzo fece un po' di corte alla signora Berta, contentandosi di volgere qualche sorriso alla Giulia, che seduta presso la signora Annetta teneva quasi costantemente gli occhi sul piatto per sottrarsi all'impaccio. L'avvocato mise il discorso sul matrimonio, parlandone con molta filosofia bonaria: era ancora il meglio che l'umanità avesse trovato per passare la vita; tutti i piaceri della gioventù svaporavano lasciando nella coscienza una fondiglia, che degenerava col tempo in putredine. I vecchi scapoli finivano coll'essere odiosi ed odiati.

Mario invece difendeva il celibato. Prima di tutto per prender moglie bisognava essere amati, e la cosa era tutt'altro che facile; poi nella vita moderna la famiglia diventava un gran peso senza una certa ricchezza. I giovani sprovvisti di patrimonio dovevano pensarci molto per non sacrificare se stessi, la moglie e i figli, che potessero nascere.

«Chi ha paura della vita, non vi riesce» rispose l'avvocato.

«Ma lei stesso ha tardato a prender moglie.»

«Io lavoravo troppo, me ne sono accorto poi.»

Il signor Cesare si voltò a Mario, ammiccando con quel suo tic nervoso alla guancia sinistra, che gli dava quasi un'aria di burattino.

«Si lavora meglio quando si ha famiglia. Se fossi rimasto solo, credo, non avrei lavorato la metà. A che pro guadagnare dei quattrini, quando non si ha per chi spenderli?»

Mario si lasciava cullare da quel dialogo, del quale si sentiva lo scopo, sbirciando la signora Annetta.

Ella, punta da una sua occhiata, gli chiese con una risata improvvisa:

«E lei, signor Mario, quando pensa dunque a pigliar moglie?»

«Almeno dopo che una donna avrà pensato a prendermi per marito. È così difficile essere amati, sebbene tante volte lo si creda.»

Mario quella sera aveva detto che sarebbe ritornato in città a piedi, per fare una lunga passeggiata. Questo capriccio aveva impressionato la signora Berta sui pericoli di un riscaldo o di un cattivo incontro; ma il signor Cesare, ancora pieno di energia malgrado i suoi sessant'anni e il piccolo corpo rattrappito, le aveva dato sulla voce:

«Un giovane come il signor Mario!»

Stettero un pezzo sul prato, poi conclusero che l'avvocato, l'Annetta e Mario avrebbero accompagnato i signori Bruschi al loro casino. Non c'era luna; l'aria piena di tepori ondulava al vento della notte. Mario, dopo molto destreggiarsi, riuscì a porsi fra la Giulia e la signora Annetta forzandole a parlare, ma la ragazza, in preda ai primi vaneggiamenti dell'amore, ricadeva sempre nel silenzio. La sua figurina pareva inchiodata sulla sedia; tratto tratto le mani le si obliavano sulle ginocchia, nella posa abituale del convento.

«Quando verrete nello studio?» disse Mario alla signora Annetta, profittando del momento che tutti s'alzarono.

«L'indomani del matrimonio.»

«Bisognerà dunque affrettarlo» ribatté sul medesimo tono.

Mario aveva dovuto fare da cavaliere alla ragazza, ma per tutto il tragitto non le parlò che di cose indifferenti. Ella camminava stecchita al suo braccio, abbassando la testa quasi per sentirsi passare le sue parole con un volo lieve sulla nuca. Dietro, la signora Annetta rideva colla signora Berta.

A un tratto s'intese la voce di questa che diceva:

«I gelosi miagolano tutti come i gatti.»

Una mattina Mario incontrò tutta la famiglia Bruschi nel corso; erano venuti per un vestito nuovo della Giulia, assolutamente indispensabile, diceva la signora Berta, nella festa prossima di sant'Elena. La ragazza pareva più disinvolta in quell'abito di tela a colori vivi, e con quel piccolo cappello di paglia gettato monellescamente indietro; ma egli doveva recarsi allo studio. Allora il signor Cesare si offerse di accompagnarlo, perché non avrebbe saputo cosa dire colla sarta, quando la signora Berta si ricordò di aver conosciuta molti anni prima la signora Orsolina, e pregò Mario di condurle da lei per riannodare quella buona relazione di una volta.

Mario rimase imbarazzato della domanda, parendogli di essere come inseguito per quel matrimonio, sul quale non aveva ancora deciso nulla. Ma la signora Berta insisteva con voce sempre più affettuosa. La sua grossa faccia maschile contrastava bizzarramente colla mollezza dell'accento, col quale evocava i ricordi del passato; finalmente, vedendo di non far frutto, dichiarò che sarebbe andata a trovarla da sé.

«Si figuri, sarà un piacere per la mamma.»

Strada facendo il signor Cesare cercò di far dire a Mario quanto lavoro e quanti quattrini gli venissero da quello studio dell'avvocato Filippo. Il vecchio ometto lo circuì talmente colle domande, che l'altro dovette dirgli quasi tutto, e ad ogni risposta egli sorrideva come per complimento.

«Si deve guadagnare molto di più avendo lo studio da sé.»

«Certamente tutto sta a formarsi la clientela.»

«Come in commercio, è la stessa cosa. Basta si sappia che non si vuol comprare, e tutti vi offrono della merce. I clienti hanno da somigliare ai sensali; corrono dall'avvocato, che non ha bisogno della loro causa.»

Mario, umiliato dalla giustezza di queste osservazioni, comprese dove il signor Cesare voleva parare; la dote della Giulia sarebbe stata più che sufficiente per aprire studio.

Quel giorno la signora Orsolina gli parlò delle signore Bruschi senza compromettersi, e a poco a poco Mario si famigliarizzò coll'idea di quel matrimonio. Perché non l'avrebbe fatto? Sarebbe un conquistare di botto nel mondo la metà di quella posizione, cui agognava, e un pretesto per fargli rimanere aperta la casa dell'avvocato. Allora la sua relazione colla signora Annetta si regolarizzerebbe, coperta dall'amicizia delle due donne. Questo sogno lo affascinò. La ragazza, vuota come un manichino, non gli sarebbe mai di peso; forse le maggiori difficoltà verrebbero dalla signora Annetta, ma si sentiva capace di dominarla. Passarono ancora delle settimane. La mamma gli parlava qualche volta delle signore Bruschi, alla sfuggita; poi un giorno gli disse di aver ricevuto un invito al loro casino per la prossima domenica. La signora Berta verrebbe a prenderla col proprio carrettino.

«Tu non andrai alla villa?»

«Non lo so.»

«Allora io resto.»

Mario rimase indeciso.

«Andate.»

Invece quella domenica andò anche lui, ma le signore Bruschi non comparvero alla villa.

Era la prima volta, dopo tanto tempo, che poteva trovarsi solo coll'Annetta. Ella lo accolse allegramente, ma alla sua prima allusione di amore tornò dura; l'avvocato invece gli propose sul serio quel matrimonio, lasciandogli intendere di aver ricevuto le confidenze del signor Cesare. La ragazza era già innamorata, e la famiglia avrebbe accolto benissimo Mario per nobilitare la propria origine. La dote, stringendo loro addosso i panni, sarebbe arrivata di primo tempo sino a settantacinquemila franchi; l'avvocato supponeva il signor Cesare anche più ricco di quanto la gente lo credesse.

La signora Annetta sorrideva sardonicamente.

«Mi pare che ella possa accettare, signor Mario: è una delle migliori doti della città.»

«Ma se ricusassi?»

«Perché? Bisognerebbe supporre che ella fosse innamorato di un'altra: non è vero, Pippo?»

«A meno che non abbiate in vista qualche affare più grosso.»

La signora Annetta rideva provocantemente; la sua testa, dondolante come un gran fiore, esalava un acuto odore di gelsomino. Mario sentì di perderla, accettando.

«Quella è una buona ragazza, che non lo renderà mai geloso.»

«Molto più che ne avete la tendenza» disse l'avvocato.

«Io!»

«Non lo negate; d'altronde le donne desiderano spesso che si sia gelosi: solamente lo desiderano quando amano.»

In tutto quel pomeriggio la signora Annetta ritornò sul matrimonio, divertendosi a provargli che non le importava nulla e che, sposando quella ragazza per la dote, commetterebbe una bassezza. Egli la divorava cogli occhi, facendole indarno segni per parlarle. Era vestita di un abito rosso cupo, che le rendeva più opaco il candore della pelle; si sarebbe detto che la campagna le avesse messo negli occhi i baleni delle sue foglie più lucide e sulle carni la brina dei suoi fiori più freschi. Saltellava, si abbandonava sul lungo sofà di paglia, posto nel prato all'ombra della casa, con una civetteria anche più inquietante nei brevi silenzi. Mario sentiva il suo orgasmo.

Allora si mise a fissarla. Sotto il peso de' suoi sguardi ella si allentò mollemente, poi raddrizzandosi di scatto, chiamò la Gina sul sofà. Questa, sempre così cerea, parve momentaneamente riscaldarsi al suo contatto, mentre l'avvocato riprendeva con Mario la conversazione. Ma egli non poteva ascoltarlo, affascinato suo malgrado da quelle due donne, che scherzavano con una petulanza di piccole amiche al sicuro di ogni indiscrezione. L'Annetta colle mani un po' grosse faceva il solletico alla Gina, e il bel busto vigoroso le si torceva per tenerla stretta, ridendo in quel reciproco eccitamento come di una sfida indiretta, che la loro monelleria femminile gettava alla sua sensualità di uomo.

«Siete pur bambine!» si volse l'avvocato, sorridendo d'impazienza al loro chiasso.

«Bambina, bambina!» ripeté l'Annetta, tirandosi dietro la Gina; e scomparvero nell'andito.

Poi riapparirono alle finestre del piano superiore.

«Quando partite dunque, voi altri due? Questa sera noi faremo una festa da ballo coi contadini.»

La mattina dopo la signora Orsolina entrò nella camera di Mario.

«Se vuoi, tutto è fatto. La signora Berta mi ha lasciato capire che sarebbero contenti di averti per genero, perché vogliono nobilitarsi; tu puoi diventare uno dei primi avvocati della città. Il signor Cesare ti procurerà una buona clientela di negozianti, gente che paga bene. Sai che stanno per comprare il palazzo Calusi per una miseria, venticinquemila lire? Tu apriresti uno studio magnifico; in pochi anni si può mettere su carrozza.»

Mario ascoltava.

«Perché siete rimasta là questa notte?»

«È stato meglio. La ragazza è cotta; bisogna convenire che l'avvocato ti ha aiutato colle sue raccomandazioni.»

«In fin dei conti non ne ho bisogno» egli ribatté orgogliosamente.

«Non ti alzi?»

La signora Orsolina era preoccupata. Evidentemente temeva una difficoltà in quello splendido disegno, che faceva improvvisamente rifiorire il roseto oramai secco della sua vita. Girò su e giù nervosamente per la stanza, mentre egli si vestiva; poi quando si fu lavato, gli si piantò dinanzi. Il suo viso scarno ed angoloso di vecchia avara era quasi solenne.

«Mario, bisogna smettere.»

Egli si scosse.

«Non se ne sono accorti, ma è impossibile che la ragazza non lo senta: c'è l'istinto in loro. La tua fortuna è fatta a questa condizione. Che cosa puoi avere da lei ora? Dovresti esserne stanco, è una donna stupida.»

«Meno della Giulia.»

«La Giulia può essere tutto per te, quell'altra è una civetta, che ti pianterà, se non la pianti. No, Mario, senti: da' retta a me. Questa è la grande occasione, che non tornerà più. Sono forse duecentomila franchi, sai, duecentomila franchi, che l'avvocato con tutto il suo ingegno non è riuscito ancora a guadagnare in vent'anni. Smetti: per sant'Elena torneranno qui, t'inviteranno a pranzo. lo andrò da loro a fare la domanda. Promettimelo, Mario.»

Egli era persuaso, ma voleva conservare l'Annetta.

«Siete proprio sicura?»

«Sicura.»

«Infine sono essi che ci cercano, abbiamo tempo. Non bisogna mostrare troppa fretta per non cadere nelle loro mani come gente senza un soldo. Lasciatemi fare, non sono poi un ingenuo.»

Ella abbassò dolorosamente la testa, proponendosi di ritornare alla carica tutti i giorni.

Infatti Mario, in quella irritazione gelosa contro la signora Annetta, si lasciò persuadere a non mostrarsi più né alla villa, né al casino dei signori Bruschi. Quest'ultimo tempo gli parve anche più insoffribile fra i disegni della nuova vita e le recriminazioni dell'amore; non poteva ammettere di essere così abbandonato da una donna, della quale era stato il primo amante, e che aveva reso madre. Ella, così debole di carattere, gli resisteva entro la cerchia della famiglia trionfalmente da tre mesi, non avendo più bisogno di lui. Appena appena qualche volta l'onda rossa della voluttà le saliva dal cuore al cervello intorbidandole gli occhi, ma si calmava poco dopo; e Mario, che aveva sperato di riprenderla in quell'abbarbaglio, doveva cedere da capo il posto all'avvocato.

Poi la vita colla Giulia gli si svolgeva davanti in quella famiglia di negozianti ritirati dal commercio, ancora pieni di quegli anni laboriosi, nei quali avevano ammassato a lira a lira quel patrimonio. Erano ignari, incolti, ubbriachi nella adorazione della figlia unica, pallido cerino, che l'amore o la maternità avrebbe presto consumato colla propria fiamma. La Giulia somigliava alla Gina, ma senza quell'enimma del suo silenzio intelligente e quella distinzione aristocratica, che a certe ore poteva renderla interessante.

Naturalmente l'Orsolina vorrebbe venire con lui nella nuova casa, ed avrebbe così tre genitori addosso. Intanto nel paese cresceva l'agitazione politica provocata dalla mossa dell'avvocato. I radicali, già perduti nella pubblica opinione dalla volgarità dei loro modi e dalla rapacità bestiale del loro governo, si sentivano mancare il terreno sotto i piedi; mentre i moderati ringalluzziti dalla speranza del potere, e forti del consenso momentaneo dei socialisti, che l'odio ai loro vicini repubblicani trascinava ad una effimera alleanza coi fautori della monarchia, sbraveggiavano in piazza.

Si parlava di liste elettorali; l'avvocato era il sindaco futuro. Ma troppo abile per mostrarsi in questa vigilia, egli affettava invece quasi la trascuranza di quel moto, sebbene lo seguisse nei più minuti particolari, correggendovi in tempo le imprudenze dei più giovani moderati travolti nell'impeto del loro stesso giornale. Mario era seccato di quei discorsi, nei quali il nome dell'avvocato ricorreva sempre, senza che fra tanti nomi di futuri consiglieri comunali si fosse ancora fatto il suo.

Poi seppe che il conte Giglioli, sindaco altre volte e ora presidente della Cassa di Risparmio, darebbe un pranzo politico pel giorno di S. Elena; l'avvocato era naturalmente il primo fra gli invitati. Si parlava di cinquanta coperti. Il giovane direttore della Gazzetta, avvocato Gelli, v'andrebbe, mentre egli, Mario, quantunque primo giovane di studio e redattore del medesimo giornale, era escluso. Qualcuno lo punse di questa preterizione. Bisognava dunque avere una posizione sociale, essere qualche cosa, per contare nel mondo? Se egli fosse stato marito della Giulia, con studio proprio, lo avrebbero invitato. Casa Giglioli era come la reggia della città, cui non si arrivava se non salendo nella pubblica considerazione; laonde il giornale radicale vi lanciava contro, a ogni numero, qualche ingiuria sgrammaticata, mentre i suoi redattori avrebbero fatto chi sa cosa per esservi ricevuti.

La signora Annetta arrivò la sera prima coll'avvocato; i signori Bruschi erano giunti nella mattinata. L'indomani sino dall'alba la città era in festa, piena di una folla di contadini negli abiti della domenica, che stipavano le chiese e s'assiepavano nella piazza continuamente attraversata da gruppi di ragazze. Mario, vestito anch'esso colla più ricercata eleganza, si presentò allo studio, sperando di vedere la signora Annetta, ma ella non si mostrò. Nell'anticamera non c'era il vecchio Andrea, perché in quel giorno di vacanza lo studio si chiudeva alle undici. L'avvocato, già abbigliato col grande soprabito nero delle occasioni solenni, scriveva nel gabinetto, più preoccupato del solito; l'Avanti! del mattino in un articolo satirico annunziava, che al pranzo Giglioli si sarebbe fatta la sua proclamazione a sindaco. Mario era anche esso sulle spine; aveva incontrato il signor Cesare, che ripetendogli l'invito nel modo più significativo, si era fatto dare da lui una seconda promessa. Quel giorno bisognava decidersi fra l'Annetta e la Giulia, ma quella, sapendolo, si nascondeva. Mario imparò che era uscita per la messa delle dieci, e non tornerebbe più fuori che alle sei, nell'ora della gran folla sul prato di S. Domenico, ove si estraevano le solite cinque doti per le ragazze povere. Era il grande convegno dell'eleganza cittadina, la rivista degli abiti nuovi.

Così tutto quel giorno resterebbe sola in casa.

Sulle scale incontrò la Gina, che gli disse di essere libera e di pranzare da una zia; non tornerebbe che alle cinque per vestire la signora.

La strada formicolava di gente lieta sotto il sole, che dava all'azzurro del cielo una tersità abbagliante, mentre invece Mario sentiva la coscienza farglisi sempre più torbida. Non aveva potuto vedere la signora Annetta. Per non tornare a casa ad affrontare la mamma andò al caffè; era rigurgitante, clamoroso. Si parlava del pranzo Giglioli. Un gruppo di radicali, anch'essi vestiti a festa, ghignavano sparlandone ad alta voce. Incontrò molti amici, dovette scherzare, ridere, ma la preoccupazione gli cresceva; a un'ora e mezza doveva essere a casa Bruschi per il pranzo, che cominciava alle due. Sapeva d'inviti a molti parenti. Mutò caffè, cansò quasi di malumore l'avvocato Gelli circondato da tutta la redazione, e che passeggiava allegro del proprio articolo del mattino, una carica veemente contro i radicali sconfitti nell'ultima elezione di Pagnano, un comune vicino. Provò a leggere i giornali di Roma senza potervisi interessare. Il problema gli si aggravava a ogni minuto sul cuore. Allora tornò pel corso, sperando di vederla alla finestra, giunse sino a porta S. Biagio, ne ritornò indarno. Una stanchezza nervosa lo sorprendeva.

A che ora pranzerebbe la signora Annetta, rimasta sola colla Veronica? Perché non usciva a farsi ammirare sotto il loggiato dopo l'ultima messa del Duomo, come tutte le signore? Era afflitta, sebbene non volesse mostrarlo, del matrimonio che egli stava per contrarre? In fondo gli pareva impossibile che ella non dovesse soffrire; non si può essere tanto indifferenti quando si è amato.

Adesso, al momento di perderla irreparabilmente, sentiva di amarla anche di più. Tutti i miraggi della posizione sociale, che la Giulia gli procurerebbe colla propria dote, si spegnevano improvvisamente nella sua fantasia, mentre il fantasma dell' Annetta vi si levava luminoso entro un nimbo d'oro, coi capelli biondi, ardenti sulla sua bella testa di gran fiore, e gli occhi turchini come le lontananze più pure del cielo nelle miti giornate di primavera.

Il frastuono, l'onda turbolenta della piazza lo irritavano. Finalmente poté sedersi ad un tavolo della bottiglieria nuova, all'angolo del loggiato, nel quale sboccava il corso. V'era ressa di giovanotti eleganti per vedere le signore. Passò la signora Berta colla figlia abbigliata di bianco; alcuni salutando lo scoprirono, e dovette alzarsi per un mezzo inchino, che fece quasi arrossire la ragazza. Ma sebbene niuno avesse sospettato di lui, la figura corpulenta e cremisi della signora Berta produsse uno scoppio di motti satirici.

Se fosse passata la signora Annetta tutti invece l'avrebbero ammirata.

Egli vide la signora Berta rivolgersi due o tre volte per guardare se le seguisse.

«Che cos'hai, Mario, che sembri così triste?» gli chiese un amico.

«La festa mi secca.»

«Provincia, mio caro!» replicò l'altro, uno studente, tornato non a guari da Torino.

Poi la gente cominciò a diradarsi per andare a pranzo. Egli vide parecchi soprabiti dirigersi verso casa Giglioli, qualche signora attardata coi bambini, quindi i caffè e i loggiati si vuotarono. Non rimanevano che due gruppi di ufficiali, soliti a pranzare la sera, e che non avevano inviti a quell'ora e in quella festa. All'orologio della piazza stava per suonare un'ora e un quarto. Allora spinto come da una molla si ricacciò per il corso; voleva passare un'ultima volta sotto le sue finestre. La larga strada si allungava deserta sotto l'arsione del sole. Si guardò dietro quasi nel timore di essere spiato; aveva caldo, ma non sudava. Il cuore gli martellava nel petto. Gli parve che le case sparissero, quando nell'alzare gli occhi dentro un raggio di sole la vide vestita di bianco alla finestra. Non distinse che un nastrino rosso sopra i suoi capelli d'oro. Arrivò sotto le finestre e salutò macchinalmente, ella sorrise.

Per un istante rimase cogli occhi in alto; quindi con un gesto risoluto le indicò che saliva. Infilò la porta, montò di corsa le scale, non sapendo bene quello che si facesse, giunse trafelato sul pianerottolo col braccio già proteso per tirare il cordone del campanello, quando l'uscio dell'appartamento si aperse, ed ella comparì.

«Che cosa fate»

Egli la respinse, entrò senza poter parlare, senza abbracciarla, ma appena dentro l'aria scura e fresca lo fece rientrare in sé; nullameno il viso gli rimaneva convulso.

«Mario!...»

Egli la guardò così risolutamente, che l'altra gli fece cenno di tacere.

«Psst... la Veronica!» e lo spinse nell'anticamera verso l'uscio, che metteva nel gabinetto verde, mentre in punta di piedi si accostava all'altra porta per origliare. Mario entrò nel gabinetto.

Poco dopo ella comparve; era commossa, pallida.

«Annetta» egli gridò precipitandosi verso di lei per prenderle una mano.

«Ma avete fatto male a venir su, possono aver veduto.»

«Non sei sola?»

«Sì, la Veronica si è gettata sul letto.»

Allora l'abbracciò; ella riluttava, poi si sciolse dalle sue braccia.

«Cattiva, quanto mi hai fatto soffrire!»

«Sì, adesso che state per pigliar moglie.»

Egli si arrestò.

«Vedete.»

Ma il sorriso le ricompariva sulle labbra, non pareva né sdegnata, né malinconica. La sua bella figura, in quel lungo accappatoio bianco a larghe pieghe, che la velavano dandole una mollezza anche più voluttuosa, esalava un intenso odore di gelsomino. Il collo le usciva da un collarino di merletti, bianco e grasso, piegandosi lievemente sulla spalla sinistra in un principio di abbandono.

Mario si sentì riavvampare. La prese in braccio, la strinse sul cuore quasi da farle male, mentre tutto il corpo gli tremava di brividi, e coi denti le mordeva già una trina del collo. Così abbracciati caddero su quella stessa poltrona, egli oppresso dall'angoscia della felicità, ella vincitrice, sorridente sulle sue ginocchia, guardandolo cogli occhi cristallini, quasi per riconoscerlo ancora, mentre un'altra trina sul collo le batteva leggera leggera come un'ala di colomba.

Non si lagnavano più, non avevano nemmeno avuto tempo di perdonarsi.

Poi Mario inquieto le domandò:

«Sei proprio sicura della Veronica?»

«Aspetta, torno a vedere.»

«Dorme» disse rientrando.

«Giurami che non ami che me» Mario le chiese, riprendendola sulle ginocchia.

«Sì, te solo, cattivo mobile, geloso.»

«E in questi mesi?»

«Tu pensavi a pigliar moglie. Ah! prendila pure. Ti piace la Giulia?» seguitò scherzando, ma fissandolo negli occhi.

«Lo vedi bene, dovrei essere da lei a pranzo in questo momento; adesso tutto è rotto. Ma tu mi amerai sempre?»

«Come te» gli sussurrò sulla bocca in un bacio.

Mario si alzò.

«Vieni con me.»

«Dove?»

«Nella tua camera da letto.»

Ella sussultò, ma dopo il suo sacrificio non poteva più ricusare. La camera era scura e fresca; dalle griglie filtravano minimi raggi, che la doppia tenda intercettava colorandosi di un rosso incerto, quasi di porpora. Mario procedeva a tastoni, ella lo seguiva.

Un odore di sapone stagnava nell'aria.

Mario s'appoggiò al capezzale, palpando subito le lenzuola. Erano di bucato, ancora cogli spigoli delle piegature. Parve perplesso un istante, come se quel particolare gli contraddicesse un'idea secreta; poi si abbandonò sul letto

«Vieni.»

Ella titubava.

«La Gina se ne potrebbe accorgere.»

Ma egli l'aveva abbracciata tirandosela sopra, e quando si fu rivoltato con lei sulle coperte, le disse trionfalmente:

«Sono io tuo marito.»



V

La rottura era stata brutale.

La sera al caffè, dove sedevano la signora Annetta colla contessa Giglioli, e poco lungi a un altro tavolo i signori Bruschi con alcuni parenti, Mario, ancora inebbriato, aveva appena risposto al saluto ansioso del signor Cesare. Quindi volgendosi all'avvocato Gelli, che lo pungeva d'allusioni all'imminente matrimonio, si era lasciato sfuggire ad alta voce:

«L'albero, al quale dovrò appiccarmi, voglio almeno che sia bello, tutto in fiore.»

Una risata gli aveva risposto, ma la Giulia, ferita da queste parole, aveva impallidito così che la signora Berta si era mossa imprudentemente sulla sedia per sostenerla, mentre la signora Annetta ricompensava Mario con un sorriso.

Ma quando rientrò a casa, dopo la mezzanotte, trovò la mamma ad aspettarlo. Le si leggeva ancora il pianto negli occhi. Mario, che si sentiva già nell'animo il freddo sottile del pentimento, non osò dirle nulla. Ella accese la candela, e l'accompagnò silenziosamente nella sua camera.

«Ti sei rovinato.»

Da quel giorno la vecchia si chiuse in un ostinato mutismo, e i Bruschi non lo salutarono più. Solo l'avvocato gli volse un rimprovero sul modo villano, col quale aveva troncato quella relazione; ma l'altro, superbo del sopravvento ripreso su lui, esclamò:

«Infine è troppo scema.»

«Ma perché offenderla?»

Egli stesso doveva convenire di aver torto, sebbene nel rinfocolamento della passione non volesse riflettervi. Non aveva mai amato così: si sentiva ancora l'Annetta dentro, immersa nel sangue, che gli irrompeva a ondate dal cuore, come se l'avesse bevuta. Ma anche la bellezza di lei in quell'ultima ripresa, nel delirio di desiderii che ripullulavano ad ogni bacio, aveva trovato le veemenze dei fiori aprentisi d'improvviso al sole, quando la campagna ai primi soffi di primavera effonde nell'aria i germi di tutte le fecondità.

Quindi la signora Annetta finse coi Bruschi di non saper nulla su quella rottura, ma la Giulia le piantò in faccia gli occhi vitrei.

«L'ami davvero?» ella chiese alla fanciulla per sottrarsi all'imbarazzo.

«No.»

«È stata una cosa da mascalzone» sbuffò la signora Berta.

«Se non amava Giulia, mi pare che sia stata piuttosto una fortuna.»

«Chi sa nemmeno se lo sia per quell'altra, di cui è innamorato» ribatté la Giulia.

La signora Berta, senza sospetti verso l'Annetta, non comprese.

Nullameno le loro relazioni si raffreddarono.

Per contentare Mario ella aveva promesso di venire ogni quindici giorni, il sabato, in città, e di non ripartirne che la domenica sulle sei; si sarebbero così incontrati come potevano. Ma adesso che Mario le aveva tutto sacrificato, vi metteva ella stessa molta buona volontà. Anzi nella vanità del proprio trionfo di donna, e nella foga di quel rinnovellamento d'amore, pur non misurando bene la grandezza del sacrificio, dal quale forse egli non potrebbe più risorgere, credeva di appassionarsi per lui come non le era accaduto neppure gli ultimi mesi della gravidanza. La sua stessa gelosia le pareva legittima, quasi un compenso dovuto a quel supremo olocausto di se medesimo. Quindi abbandonandosi a tutte le sue adorazioni si sentiva talvolta presa dalle vertigini di una poesia, che prima non avrebbe mai nemmeno sospettata. Infatti un giorno spogliandola colle mani febbrili, e interrompendosi per tuffare il volto nel profumo delle sue sottane, egli l'aveva messa ritta sopra uno sgabello, come una statua fulgente nella soavità incolore del marmo; poi le si era prostrato dinanzi, baciandole i piedi, salendole colle braccia su pei ginocchi, nello sforzo di una aspirazione delirante verso il suo seno intatto di vergine, e aveva rotto in singhiozzi di bambino sotto la sua bellezza vincitrice.

Allora rapita ella medesima nell'onnipotenza divina della donna, che può tutto distruggere e tutto consolare, lo aveva lasciato piangere senza interrogarlo.

Ma ciò accadeva di rado. Generalmente avevano appena il tempo di abbracciarsi nel gabinetto, furiosamente, quasi per imprimersi nelle carni le stimmate del martirio, che quella momentanea impotenza imponeva loro. Poi lo scandalo di quella rottura aveva procurato a Mario più di un dispiacere, perché la gente, non indovinandone la ragione secreta, l'attribuiva alla sua fatua vanità di bel giovane. E siccome il mondo si sente del pari offeso dalle fortune che ci capitano e da quelle che evitiamo, Mario per qualche mese fu bersagliato da tutte le maligne allusioni; mentre la mamma, muta in una sprezzante disapprovazione, sembrava attendere da un'altra rottura coll'Annetta la tragica conferma delle proprie profezie. Quindi lo aveva abbandonato coll'egoismo dei vecchi, che si separano dagli errori dei figli dopo aver invano tentato d'impedirli.

Quando l'avvocato ritornò definitivamente dalla villa, tutto contento di essersi ripresa finalmente la Gigina, Mario fu anche più contento di lui. Cominciò per tutti tre una nuova vita intorno a quel piccolo essere, che cominciava a muovere i primi passi e a balbettare le prime parole. La Gina le faceva da governante, ma la balia veniva ancora tutti i giorni di mercato a rivederla, espandendosi in tenerezze per cavarne qualche altro regalo.

Nullameno per i due amanti le occasioni dell'amore erano scemate. L'avvocato, nell'affluenza sempre crescente delle cause, non usciva quasi più di casa, ora che la Gigina gli riempiva le poche ore vuote dopo la colazione o il pranzo co' suoi giuochi infantili, dentro i quali si agitavano già le prime tirannie della donna. Anzi talvolta egli interrompeva il lavoro per farsela portare nello studio, e allora erano lunghe scene di bamboleggiamento a chi primo ottenesse, egli o l'Annetta o Mario, un bacio dalla piccina. Quindi le gelosie si ridestavano. La bambina diceva papà all'avvocato, perché l'Annetta aiutata dalla Gina era riuscita con molta pazienza ad insegnarglielo un po' prima che per solito i bambini non l'imparino.

«Gigina, amore, dillo anche a me!» le aveva domandato Mario colle labbra tremanti, sollevandola delicatamente fra le braccia; ma la bimba si era messa invece a strillare, sgambettando furiosamente. «Voi altri uomini non avete grazia» esclamò l'Annetta, riprendendola dalle sue mani e calmandola subito con poche carezze. Ma l'avvocato aveva voluto provare anche lui, e la incomprensibile creatura era rimasta cheta, in piedi sul suo ventre, sostenendosi colle manine rosate alla sua barba grigia. Sorrideva. «Sono io il tuo papà, che ti amerà più di tutti, anche più della mamma»; e la sua voce esprimeva una tenerezza così profonda, che gli altri due abbassarono la testa, sopraffatti dalla sua superiorità.

Ma l'Annetta, malgrado tutte le sue effusioni chiassose intorno alla Gigina, non gustava nella maternità che una nuova forma di decorazione intorno alla propria bellezza. Mario invece era stato preso dalla adorazione di quella creaturina, nella quale la rivalità dell'avvocato e l'amore per la madre gli avevano fatto riconoscere i primi indecisi lineamenti di una somiglianza con se stesso. La Gigina era sua, aveva i suoi capelli biondi, gli occhi cerulei, quelle carni più fresche di una corolla di rosa; era il trionfo delle loro due giovinezze, il premio, che la natura serba all'amore sano e bello di primavera. Egli, che non aveva mai provato nemmeno per l'Annetta la tenerezza delle dedizioni senza ricambio, la sentiva ora dinanzi alla figlia tutta bella nella insaziabilità inintelligente del proprio egoismo. L'anima gli si rinfrescava di una giocondità inesprimibile, quando la bambina, lasciandosi prendere in braccio, lo guardava coi grandi occhi trasparenti, nei quali nessuna immagine del mondo aveva lasciato ancora la propria ombra.

Quindi il suo amore per l'Annetta si alzava in una sfera più spirituale. Gli pareva che la felicità sarebbe stata nell'essere suo marito, chiuso dentro la propria famiglia contro tutto il mondo, e sicuro da ogni abbandono di lei; mentre invece ella restava fatalmente con la Gigina nell'orbita di un'altra vita. Tutta quella festa delle loro due esistenze era l'opera di un altro uomo; lui, Mario, non era che l'eterno contrabbandiere, vagante sui confini di una famiglia, che la sua frode stessa aveva perfezionata con la intromissione di una bambina, ma che nessun altro suo tradimento potrebbe più distruggere.

Aveva posseduto la femmina, non avrebbe mai né la sposa, né la madre, né la figlia. Tutte quelle frenetiche voluttà non bastavano a dargli il possesso vero della donna; ella non trovava mai per lui, nemmeno fra le menzogne più carezzevoli, una di quelle parole semplici e così piene, che immedesimano le anime nella inseparabilità della vita. Talvolta si stupiva seco stesso di questo amore per la Gigina, mentre da principio gli era persino ripugnato che l'Annetta fosse gravida; poi nella crisi quasi mortale del parto egli aveva mille volte augurato a se stesso che la piccina fosse nata morta per non compromettere la mamma, finché vedendola la prima volta in campagna, ravvolta nelle fasce e colle manine raggrinzite quasi stizzosamente sulla poppa della balia, non si era sentito affatto nel cuore quel rimescolamento della paternità, così celebrato dalla rettorica di tutti i libri, e frequente nella ipocrisia dei discorsi.

Le doglianze e i ripicchi ricominciarono. Pareva una intesa di tutti contro quella pretensione di Mario sulla Gigina; la Veronica, il vecchio Andrea, persino Marco il misantropo, che aveva giocato sopra di lei un ambo vincendo otto lire, adoravano la piccina per quella felicità, che procurava all'avvocato. Mario non sorprendeva mai nelle loro parole o nelle loro occhiate un'allusione a lui, padre vero, o un sarcasmo per quell'altro, che non lo sapeva; invece doveva egli stesso unirsi al corso delle felicitazioni, e pronunciare talvolta qualcuno di quei complimenti, che erano come l'espiazione della sua colpa.

Tutto era stato inutile per far intendere all'Annetta la verità di quel patimento. Ella non capiva. Era come quando voleva persuaderla che, cedendo al marito, avrebbe commesso un secondo adulterio peggiore del primo, perché la prostituzione vera, quella che la legge non può colpire e trionfa spesso dentro la legge, non è che la voluttà fuori dell'amore, la cessione del corpo senza l'assenso dell'anima.

«Ma è mio marito» ella ripeteva invariabilmente.

E s'egli finiva quasi a singhiozzare nella collera di un dolore così vero, che la commoveva momentaneamente, ella girava subito la questione: non amava: non aveva mai amato che lui; l'avvocato era un'altra cosa, e non aveva nulla a fare coll'amore. Come mai si poteva non capire certe cose? Adesso era Mario, che si sentiva accusato di non comprendere.

Queste scene, ripetendosi ad ogni convegno per quanto breve, scavavano fra loro il dissidio. Da quella volta, che era riuscito a penetrarle nella camera da letto, Mario aveva poi sempre voluto ritornarvi, ma le occasioni non capitavano che di rado, e bisognava aiutarle di lunga mano. Quindi pensando che l'avvocato non era ricco, e difficilmente potrebbe diventarlo, così da lasciare un patrimonio sufficiente per due figli, Mario pretendeva che non avesse più esigenze sulla moglie. L'Annetta avrebbe potuto svezzarlo per rimanere tutta a lui. Ma, disgustata dalle difficoltà di tale disegno, ella vi si era invece sottratta con una bugia. Diceva di non tentare mai il marito, che la cosa non accadeva quasi mai; poi incalzata, riscaldata dalle preghiere di Mario, aveva finito col promettere.

«Non gli fare in pubblico quelle moine.»

«Ma se io ...»

«No, lo sai pure che soffro; adesso che ti ho sacrificato tutto, non dovresti dimenticarmi.»

A questo richiamo troppo frequente, ella si era impazientita; ma l'altro senza darle tempo d'irritarsi:

«Promettilo: che cosa ti costa?»

«Che io gli tenga il muso, perché tutti se ne accorgano!»

Egli tentò invano d'insegnarle che era possibile ingannare la gente senza ostentare tutto quell'affetto per il marito.

«Me lo hai pur giurato, che non sarà più tuo marito!»

«In pubblico non si può.»

Allora le fece ripetere il giuramento sulla testa della Gigina, minacciando di commettere qualche eccesso, se scoprisse qualche tradimento coll'avvocato. Ma nell'Annetta invece cresceva la stima pel marito, che nel proprio confidente abbandono non aveva mai avuto per lei né una parola dura, né un sospetto ingiurioso. Egli era ben superiore a Mario, sempre malcontento anche dopo i sacrifici, che ella gli aveva fatto, perché l'Annetta come tutte le donne credeva di essersi sacrificata. Talvolta le accadeva pure di pensare, che se invece di sposare l'avvocato fosse diventata la moglie di Mario (ed era pur stato possibile) adesso non sarebbe che una borghesuccia seppellita nel fondo di un appartamento meschino, fra un marito geloso e una suocera taccagna, senza potersi fare più di due vestiti all'anno, senza villa e senza avvenire.

E con tutto questo Mario diventava ogni giorno più esigente con lei!

Una domenica, nel pomeriggio, aveva voluto accompagnarla ad una passeggiata, che ella faceva sola colla bambina per mostrarsi nella grazia novella della sua maternità. Naturalmente ella aveva ricusato, ma d'improvviso se l'era visto venire incontro alla imboccatura del gran viale; e le si era accompagnato tenendo la bimba per l'altra mano. Era stato un martirio. La Gigina faceva i passi così piccoli che era quasi sempre ferma, mentre tutti guardavano, e taluni avevano sogghignato a quella loro apparenza di sposi. Mario ne aveva gongolato, sebbene soffrendo del dispetto di lei; poi avevano incontrato le signore Bruschi, e la Giulia aveva dato loro un'occhiata così maligna che l'Annetta ne aveva arrossito. L'avvocato Gelli, che le seguiva, se ne era accorto; allora si diceva che stesse per prendere presso la Giulia il posto lasciato vacante da Mario. Per colmo di sventura la Gigina, risentendosi forse della commozione della mamma, si era messa a piangere. L'Annetta ne rimase con lui in collera per un mese. Quando fecero la pace, si lasciò sfuggire questa maligna allusione:

«L'avvocato Gelli farà una bella fortuna sposando la Giulia; ha già aperto studio.»

Infatti quel nome giovane cominciava a sorgere vicino a quello dell'avvocato Filippo, mentre di Mario, arrestatosi in quella posizione subalterna, non si parlava più. Egli se ne avvedeva con avvilimento sempre maggiore, ma non poteva nemmeno tentare di mettere studio per non separarsi dall'Annetta.

Alle elezioni generali l'avvocato, malgrado le più vive istanze di tutti, aveva ricusato la carica di sindaco conferitagli per acclamazione, adducendo la necessità di dover vivere colla professione, adesso che gli era nata una bambina. Il conte Giglioli gli aveva invece detto sorridendo:

«Tu sarai il deputato.»

«Davvero?!» esclamò l'Annetta, quando l'avvocato glielo raccontò a pranzo: «allora l'inverno a Roma...»

«Zitta!...non è ancor tempo.»

Ella ne parlò con Mario, che, temendone già vivamente, finse di ridere, perché il marchese Curci, sostenuto da tutto il clero, non si sarebbe lasciato battere così facilmente. Fu una doccia di acqua gelata sulla fantasia già accesa dell'Annetta, ma da quel giorno ella non lasciò più in pace il marito sul disegno di passare l'inverno prossimo a Roma. La Gigina sarebbe allora abbastanza grandicella da poter camminare; ella la condurrebbe la mattina al Pincio, ove si radunano (li aveva visti sui giornali illustrati) tanti bambini... poi vedrebbero la capitale, Roma, le principesse, gli inglesi, la corte. Egli potrebbe tenere un altro studio a Roma per le cause grosse, e lasciare Mario a rappresentarlo in questo.

«La Gigina diventerà una signora romana» esclamò maliziosamente, vedendolo impazientirsi e riuscendo così a farlo sorridere. Quindi la Gina fu messa nel secreto della confidenza; poco dopo lo sapevano anche Marco ed Andrea, ma nessuno dubitava della riuscita.

«Io andrò a Roma» disse il vecchio Andrea a Marco; «sono sicuro che l'avvocato mi prenderà. Tu, che non ti vuoi muovere, resterai qui primo scrivano.»

«Con quell'asino del signor Mario?»

«Il signor Mario se ne andrà» ribatté Andrea senza spiegarsi di più. Anche gli altri parevano della stessa opinione. Mario si fiutava intorno tutte quelle ostilità senza trovare in se stesso come difendersi; fuori dello studio non udiva parlare che sulla candidatura dell'avvocato, accolta prima che posta, e ripetere che dopo lui il migliore della città resterebbe il giovane Gelli. Mario diventava taciturno come la signora Orsolina. A seguire l'avvocato sino in Roma non ci pensava nemmeno, perché né egli poteva chiederglielo, né l'altro consentirlo, rimanere suo sostituto nel vecchio studio, sarebbe stata una posizione più che onorevole, ma non si sapeva abbastanza stimato da lui per ottenerla. Poi in ambi i casi l'Annetta sarebbe stata perduta.

Una assenza di sei mesi avrebbe distrutto in lei tutta la sua influenza.

In quell'inverno, piuttosto rigido, ella fu più assidua al teatro, festeggiata, affollata di visite, dacché la contessa Giglioli l'aveva presa sotto la sua protezione, dicendo con bontà leggermente ironica di volerla formare per Roma. Quei primi contatti aristocratici le scopersero subito l'inferiorità di Mario, non meno borghese dell'avvocato nei modi, e senza l'altezza dell'ingegno, che è sempre una aristocrazia. Quindi il suo gusto si raffinò. La contessa le aveva già fatto comprendere l'ineleganza di certe acconciature e la volgarità di certi colori, insegnandole colle minuzie del gran vivere mondano quella impercettibile alterigia delle dame, quasi sempre così impossibile a tutte le altre donne. Naturalmente l'Annetta non ne apprese molto, ma quel tanto bastò per toglierla dalla soggezione di Mario, rimasto fino allora per lei l'ideale della eleganza. Anzi, nella prima foga della ribellione, andò fino a schernirlo sul taglio degli abiti, fatti dal miglior sarto della città, mentre il vecchio conte Giglioli si vestiva ancora a Firenze.

Mario, vinto, cominciava a raccomandarsi. Quindi la pregava di non andare a Roma, ricordandole il giuramento di non abbandonarlo mai e protestando che non potrebbe più vivere senza di lei e senza la Gigina. Ella, insuperbita del sopravvento, mostrava di calmarlo colle risposte ambigue e condiscendenti, che si danno ai bambini: nulla era ancora deciso; bisognava che accadessero le elezioni, che l'avvocato fosse eletto, e anche allora probabilmente andrebbe a Roma solo, come tutti i deputati. Mario le diminuiva nella coscienza. Egli non era dunque capace di seguirla dovunque, dando alla propria vita lo stesso sviluppo della sua?

La superiorità dell'uomo, così necessaria alla donna nella sua vita parassitaria, e che Mario aveva sino allora mantenuto colla energia della gioventù e la poca pratica mondana, vaniva ora che dalla cittaduzza di provincia ella stava per ascendere col marito nella sfera più luminosa della capitale. Egli invece l'amava doppiamente in quell'angoscia di perderla senza riparo, e l'accusava, s'indispettiva, perché avrebbe voluto persuaderla d'imporlo come socio all'avvocato.

«Io non m'intendo dei vostri impicci legali; domandaglielo tu.»

«A me non conviene.»

La verità era che non l'osava.

Ella, che temeva di ottenere la grazia, se ne schermiva colla scusa delle Bruschi sempre intente a spiare la loro relazione; ma l'altro indovinava anche troppo bene la viltà della donna sotto quel pretesto. Tutto il suo ascendente era perduto. Come la maggior parte degli uomini deboli, Mario, incapace di più dominarla, invece di risottometterla magari colla violenza, ricorreva alla blandizie dell'ispirarle compassione, dimenticando così che l'amore vive esclusivamente di rapina, e muore alla prima elemosina. Ella non poteva abbandonarlo, gliela aveva giurato dopo il suo sacrificio, perché tutto doveva oramai essere comune fra loro; era il suo unico amante, il padre della Gigina, che nessuno poteva più sostituire...

Questa corda, così vibrante nel proprio cuore, egli la supponeva egualmente sensibile nel suo. Quindi per provarle la propria autorità volle un giorno la piccina a pranzo; l'Annetta si ribellò, ma egli tenne duro, capendo di perdere tutto nel cedere. Dopo una settimana di battibecchi nessun dei due era ancora vinto; allora Mario tentò un colpo decisivo, richiedendola all'avvocato per la domenica prossima, il compleanno della signora Orsolina.

La signora Annetta, presente alla domanda, non seppe opporsi, perché gli occhi sfavillanti di Mario minacciavano uno scandalo; l'avvocato vi accondiscese, e Mario si accovacciò per ripetere la proposta alla bambina, che sorrise.

Appena rimase solo coll' Annetta, le si appressò fissandola duramente:

«Badate di non pretendere che venga anche la Gina: la voglio sola con me, è mia figlia.»

Ella alzò dispettosamente le spalle.

Mario non era però che a mezzo del proprio disegno; bisognava farla accettare dalla signora Orsolina. Quando gliela disse la sera medesima, a cena, la vecchia ebbe un brutto soprassalto; poi lo guardò fissamente:

«Tu credi di riconquistare così quell'altra? Se ti concede la bambina per una mezza giornata, è appunto per dare della polvere negli occhi alla gente; non lo farebbe per prudenza se la supponessero tua amante. Ecco che cosa avrai ottenuto; nessuno crederà che tu abbia avuto quella donna, il giorno che dovrai dirlo per vendicarti.»

«Non commetterò mai una simile infamia.»

La faccia della vecchia, diventata anche più livida nella vita claustrale di questi ultimi mesi, aveva una espressione cupa e ripugnante. Mario pensò involontariamente, che forse la Gigina ne sarebbe spaventata.

La domenica, quando Mario tentò di condur via la Gigina tutta vestita di rosa, gli scrivani erano già usciti; non rimanevano in casa che la Veronica e la signora Annetta. L'avvocato aveva un'adunanza.

Mario tremava perché la Gina, andandosene poco prima, gli aveva detto con quel solito sorriso:

«Badi di non farla piangere, altrimenti bisogna prenderla in braccio, e non sarebbe bello per il signor avvocato Mario Zanetti. Non vi sono che i babbi e i domestici che possono farlo.»

La signora Annetta l'accompagnò sino al pianerottolo sorridendo, ma al momento di separarsi si chinò a baciare la bambina.

«Addio, cocca, addio!» seguitava a dirle da capo delle scale, mentre la bimba si rivolgeva ad ogni gradino, rabbuiandosi nel volto.

Allora ella sparve improvvisamente, correndo alla finestra; quando, dopo cinque lunghi minuti, Mario sboccò dal portone, la bambina piangeva già.

«Gigina!» ella le gridò dall'alto, salutandola con quella sua voce carezzevole.

La bambina alzò il capo, e scoppiò in un urlo così disperato che Mario confuso, atterrato, dovette rientrare pigliandola in braccio; per le scale ella seguitò a strillare, sgambettando come in preda ad una convulsione.

«Ve lo avevo pur detto!» esclamò severamente la signora Annetta, correndo loro incontro sul pianerottolo.

Egli la seguì fremente di collera, comprendendo benissimo tutto il machiavellismo di quella scena; ma quando entrò la Veronica, e tutte e due dovettero penare un bel pezzo per calmare la piccina, egli sentì ripiombarsi sul cuore un avvilimento senza nome.

Le due donne sembravano non avvertire la sua presenza, poi la Veronica protestò:

«Ma vi è senso a dare dei bambini a gente come lei!»

Mario era rimasto nel gabinetto, frenando a stento le lagrime. Dovette passare molto tempo, perché la signora Annetta rientrandovi fu tutta sorpresa di trovarvelo ancora; lo credeva partito. Il viso di Mario esprimeva un dolore così disperato, che ella se ne commosse.

«Ma perché tutto questo?» gli disse colla sua voce buona. «Bisognava immaginarselo che la Gigina avrebbe avuto paura di restar sola.»

Egli fece un gesto.

Ma l'Annetta tornava ad agitarsi; la presenza di Mario l'impensieriva perché l'avvocato poteva tornare da un momento all'altro.

«Mi scacciate dunque?» egli gridò con una reazione di sdegno. «Non si può mai parlare con te, pigli tutto per traverso.»

«Sono sempre io che ho torto!»

Ella annuì.

Erano soli, la Veronica lavorava nella cucina. Allora Mario ebbe una grande risoluzione; così non poteva durare, bisognava decidersi.

«Senti,» incominciò «no, siedi, dobbiamo parlare.»

Ella titubò.

«Siedi, ti dico. Così non si va avanti, ma bada, bisogna spiegarci bene. Tu sei decisa di andare a Roma con lui, lo so; è la fortuna per voi altri due. Ci ho pensato da un pezzo senza farmi un'illusione, imponendo silenzio a tutte le mie sofferenze. A Roma egli può fare una bella carriera; vedi che sono giusto. Ma io e te come rimaniamo?»

La sua voce era così energica, che ella ebbe un battito di paura.

«Non ti immaginerai già che io ti voglia cedere. Quando si è stati l'uno per l'altro quello che siamo stati, non si dà più indietro. lo ti ho sacrificato tutto; potevo a quest'ora essere in una bella posizione, avere uno studio, ed essermi magari vantato di te: un altro lo avrebbe fatto. lo ti amo invece; ho rinunziato a tutto per farti mia.»

Ella tentò d'interromperlo:

«Ti ho pur detto che tutto è ancora in aria.»

«Lascia, lascia... Io non ne posso più, ma siccome ho deciso, voglio la tua risposta. Abbandonarmi non puoi, dopo che mi hai giurato fedeltà, colla bambina che ci unisce. Se l'avvocato va a Roma, tu fuggirai con me.»

La proposta era così improvvisa ed enorme, che ella lo guardò come se fosse impazzito; Mario punto da quella meraviglia proruppe:

«Ecco come siete! Che un uomo vi dia tutto se medesimo, che si sacrifichi negli interessi, che vi faccia madri, mentre avete dei mariti, che non ne sono più capaci, che stia per degli anni in uno studio a fare quasi il servitore per voi: e poi dopo lo piantate senza un rimpianto, senza dirgli nemmeno: bada! No, no; hai voluto che io perda tutto per te, e l'ho fatto volentieri, ma tu devi essere mia.» Questa logica brutale l'offese.

«Prima di tutto io non ti ho chiesto nulla: se vuoi sposare la Giulia, è ancora ragazza.»

«Tu dici un'infamia.» E dopo una pausa, che parve di minaccia, seguitò: «Di' pure. Siccome è l'ultima volta che ci parliamo, se mi tradisci puoi dir tutto, ma naturalmente non dovrò aver dopo nessun riguardo.»

«Che cosa vuoi fare?»

«Che cosa t'importa, se io non sono più nulla per te?»

«Ma sii dunque ragionevole una volta! lo ti voglio bene, e tu non fai che affliggermi. Non posso già impedire che lo eleggano deputato, e che vada a Roma. Anzitutto, ti ripeto, non si è deciso nulla. Andrà solo.»

«Tu lo seguirai, lo desideri.»

«lo...»

«Te lo leggo negli occhi, non mentire.»

«E se lo seguissi?»

«È tuo marito eh!»

«Certo.»     

Le loro voci salivano di tono; egli tentò ancora di calmarsi.

«Dunque non vuoi: tutto è rotto?»

«Mi lasci dire una cosa?»

«Lo so già prima.»

«No, che non la sai» ribatté stizzosamente.

La sua fisonomia si era fatta dura; adesso era lei che minacciava.

«Se tu fossi ragionevole, non te l'avrei detto... Non so che cosa ti salti in testa; ora mi accorgo che ho fatto male a cederti, perché va sempre a finire così con voi altri. Quando siete soddisfatti, vi dimenticate la posizione della donna.»

«Sei la mia.»

«Invece sono sua moglie, poi sono la madre della Gigina. Aspetta, te lo dovrò dire per forza. lo non ho dote, non ho niente. Quando egli mi ha sposato, non ne parlò nemmeno; basterebbe questo perché gli fossi sempre obbligata. Adesso fa tu il conto; se io non ho niente, tu... anche se io ti seguissi...»

«Lavorerò.»

«Allora perché non vieni a Roma?»

Questo colpo lo atterrò; ma ella, profittandone rapidamente, proseguì:

«Avresti dovuto vederlo da te, perché al mondo non si vive d'aria. lo gli debbo tutto, egli farà una posizione alla Gigina, che un giorno sarà davvero una signora ben più di me. Invece col tuo progetto, scappando anche in America, saremmo due infelici, tre anzi con la Gigina, come vorresti tu. Non avremmo più né nome né onore. Nessuno mi compatirebbe di aver trattato così male un uomo, che tutti stimano, e che ha fatto del bene anche a te.»

Ella si era alzata, superba della propria vittoria, senza che nell'animo le tremasse un solo dubbio di tutte quelle ragioni. Ma si sentiva stanca. Mario invece, esaurito da quel primo sforzo, e sopraffatto dai rimproveri della propria insufficienza, non resisteva più. L'Annetta aveva ragione: dove sarebbe fuggito, qualora ella consentisse a seguirlo? Con quali risorse avrebbe mantenuto lei e la bambina? Che cosa poteva offrir loro in cambio della posizione, che perderebbero?

Improvvisamente tornò a piangere esclamando:

«Non mi hai mai voluto bene!»

Ma siccome ella taceva ripresa dalla paura di quella scena, nella quale la Veronica o l'avvocato potevano sopravvenire da un momento all'altro:

«Sì, tu hai sempre mentito» ripeté.

«Mario...»

«Tu ami lui invece, lo so: io non ti ho servito che come un giovane.»

«Sei dunque pazzo davvero?» ella ribatté al colmo dell'esasperazione.

«Sei tu che mi fai diventar matto! tu colle bugie, mentre non ami che lui per la posizione, che ti ha fatto. Tu mi hai sempre ingannato, quando mi assicuravi di tenerlo a distanza ... No, non ti credo più... sono sicuro!»

«In tal caso di che cosa ti lamenti?»

Ma egli aveva ripetuto un'altra volta: "ne sono sicuro!" e senza badarle più era fuggito dal salotto verso la sua camera da letto. Ella lo seguì spaventata, come se una rovina stesse per crollare sul capo; quando giunse all'uscio, Mario aveva già rigettate le coperte del letto, piegandosi col volto sulle lenzuola sino a sfiorarle.

«Ah!» gridò rialzandosi terribile.

Ella s’inoltrò guardando nella direzione del suo dito teso, ma d’improvviso vacillò dinanzi alla sua figura stravolta, sotto la sua mano alzata, sentendo lo schiaffo per aria; poi riaperse gli occhi. Egli pareva rattenuto da una forza misteriosa, ma sempre così alto sopra di lei, col furore di un’imprecazione sul viso e la bocca contratta da un sogghigno spasmodico. Involontariamente ella tornò a guardare in quel mezzo del letto, e allora, come se quella tacita confessione gli sciogliesse l’ultimo indefinibile ritegno, Mario la percosse sulla guancia così violentemente, che ella ne traballò:

«Bugiarda!» urlò dandole un secondo schiaffo: «Almeno ne porterai il segno, macchia per macchia!»



VI

Era passato più di un anno.

Mario seduto allo scrittoio nel piccolo stanzino, che gli serviva da studio di procuratore, aveva abbandonato il capo sulle mani, rileggendo macchinalmente una lettera ricevuta poco prima. Lo stanzino dava sopra un cortiletto umido e buio, dal quale prendeva una luce molto triste; aveva pochi mobili, lo scrittoio nuovo in noce, due vecchi scaffali, un piccolo sofà ricoperto di un drappo verde, e qualche sedia di paglia. Benché fuori la giornata primaverile sfolgorasse di sole, lì dentro durava ancora il freddo dell’inverno.

Da molto tempo egli vi passava pressoché tutto il giorno aspettando qualche raro cliente, o leggendo i giornali, ma per lo più non faceva nulla di nulla. Qualche volta un amico veniva a trovarlo, e se ne andava subito, impaziente della tetraggine del luogo, senza che egli cercasse di trattenerlo.

Dopo la rottura coll’Annetta, Mario non aveva più osato presentarsi all’avvocato; anzi sulle prime temeva che ella in un impeto di pazzo dispetto potesse raccontare quella scena, torcendola naturalmente a proprio favore. Invece l’Annetta aveva pianto lungamente, poi si era sentita come liberata da un gran peso. Egli aveva mandato da Firenze le proprie dimissioni, ma troppo corto a quattrini per intraprendere un viaggio di qualche mese, era ritornato poco dopo ad affrontare la curiosità degli amici, meravigliati di quella sua brusca risoluzione. L’avvocato, incontrandolo, si limitò appena a salutarlo, e disse ironicamente che Mario doveva averlo creduto uno dei signori Bruschi; la gente ne rise, poi dimenticò. Ma quando Mario prese quello stanzino, per aprirvi lo studio di procuratore, ricominciarono le beffe. L’avvocato Gelli, che aveva ottenuto in quei giorni la mano della Giulia, fu crudele con lui al caffè. Mario,già sfiduciato della prova prima ancora di mettervisi, non seppe rispondere; quindi ricusò una causa contro l’avvocato Filippo, e un’altra volta, poco appresso, fu schiacciato dal medesimo Gelli in una discussione davanti al pretore.

Si sentiva giudicato.

Allora la sua tristezza, per una suprema reazione, si fece iraconda così che gli ultimi scarsi amici finirono per cansarlo, mentre in casa la signora Orsolina non usciva da quello sprezzante mutismo se non per dirgli come in cucina mancasse questo o quell’altro, ed ella non avesse danari per comprarlo. Sciaguratamente nemmeno lui ne aveva. I primi clienti lo pagavano poco o punto; egli volle citarne qualcuno, e perdette così la simpatia del pubblico, tanto indispensabile ai principianti.

In quelle prime necessità di guidare da solo una causa gli era già venuta meno la stima di se stesso, accorgendosi come tutto quanto gli pareva di sapere fossero suggerimenti dell'avvocato, spesso dati in conversazione, quando non lo consultava direttamente, ma che gli illuminavano sicuramente la strada, spazzandone ogni problema falso od inutile. Perfino il vecchio Andrea in quello studio, a forza di copiare conclusionali e di ascoltare discorsi giuridici, aveva finito coll'intendersene, e talvolta l'aveva consigliato.

Ma ora sarebbe stato impossibile ricorrervi. Poi una volta aveva dovuto incontrarsi coll'avvocato; Mario impacciato non sapeva che dire; l'altro invece fu terribile di affabilità:

«Fate benissimo a piantarvi da procuratore, perché spesso vi si guadagna meglio che a far l'avvocato, e con minor fatica. Se per caso aveste bisogno di me, ricordatevi, caro Mario, che vi ho sempre voluto bene. Naturalmente dovrò anch'io ricorrere a voi come procuratore. Siamo intesi, Mario; m'aspettano dal conte Giglioli. Tornate dunque a trovarci, la Gigina vi salterà al collo; cresce a vista d'occhio.»

Mario si era sentito stringere alla gola dinanzi a quell'uomo così forte e così buono, da lui ingannato senza rimorsi, e che seguitava ad essere felice tra la moglie e la figlia in una armonia inalterabile di amore. Quel giorno non poté nemmeno tornare allo studio. Passò cinque o sei volte sotto le finestre dell' Annetta nella confusa speranza che, scorgendolo, qualche scintilla rimasta in fondo al cuore le si riaccendesse improvvisamente; ma non la vide. Invece s'imbatté nella Gina sola, vestita con un abito di casimiro grigio, con un velo sulla testa elegantemente rialzato agli orecchi da due spilloni di giavazzo.

La Gina gli sorrise amabilmente.

Allora egli diventò vile. Avrebbe voluto parlarle dell'Annetta e della Gigina, abbandonandosi magari a tutta una confessione per alleggerirsi il peso, sotto al quale soffocava giorno e notte. La Gina notò subito che era cambiato. Infatti Mario, un po' dimagrato, non aveva più la pelle così fresca, ma quell'aria melanconica, temprando la fatuità della sua bellezza, gli dava una espressione più signorile.

La Gina disse che andava a spasso.

«Siete libera oggi; e la padrona?» aggiunse con uno sforzo.

«È in visita dalla contessa Giglioli.»

Intanto si erano accompagnati. Ella aveva tutte le distinzioni di una dama, senza il più piccolo imbarazzo, dominando la confusione, che gli indovinava nell'animo. Prima che Mario se ne accorgesse, la Gina svoltò a due strade entrando in quella del suo studio. Quando vi furono presso:

«È qui?» domandò.

«Un buco!» egli rispose con amarezza sprezzante.

«Si comincia sempre da poco.»

Non era mai stata così amabile. Mario, colpito dal suono quasi dolce della sua voce, le alzò gli occhi in viso con una certa meraviglia, ricordandosi tutte le sue passate malignità; ma la Gina aveva un'aria candida, che ispirava confidenza. Si era arrestata con tanta disinvoltura, e rimaneva lì ferma, quasi sull'uscio, che dovette per forza dirle:

«Volete entrare?»

«Ma sì, vediamo.»

Quando la Gina fu dentro, se ne mostrò subito soddisfatta; sedettero sul divano, l'uscio era rimasto socchiuso.

«Lei lavora sempre qui?»

«Non molto, non è come nello studio dell'avvocato, che vi piovono le cause.»

«Certamente l'avvocato ha un gran nome: adesso poi, che lo faranno deputato, crescerà ancora d'importanza.»

«Andrete a Roma anche voi con loro?»

«Forse.»

Ella gli sorrideva sempre, guardandolo negli occhi bianchi in una maniera particolare. Mario sentì l'amabilità della sua intenzione, e credette che adesso, vedendolo così rovinato, non lo invidiasse più come prima. Le donne hanno spesso di questi bruschi mutamenti.

«Perché dite forse? La signora Annetta accompagnerà senza dubbio l'avvocato, non fosse che per divertirsi a Roma: nella capitale una bella signora, giovane, ha tutte le occasioni per farlo. Poi difficilmente si è scoperti» aggiunse con malignità dolorosa.

«Talora la cosa riesce egualmente bene anche in una piccola città come la nostra; ma non può durare molto.»

Erano arrivati al tema. Mario aveva il cuore così grosso che stava per dire qualche imprudenza, ma l'altra non gliene lasciò il tempo. «Già, certe cose non debbono durar molto, perché non dovrebbero nemmeno accadere: ma quando si è giovane...»

«Lo siete voi pure.»

«Lo sono e non lo sono; nella mia posizione non vi è gioventù. Se fossi nata serva, potrei compiacermi dei miei ventidue anni, ma siccome non lo son nata, i miei ventidue anni contano doppio. Bisogna essere liberi per divertirsi: invece, quando si servono gli altri, e non si vuole accrescere il peso delle proprie umiliazioni, bisogna fingere di non avere né sensi né anima. Si vede, si capisce, talvolta si capisce anche che un altro s'inganna, ma non glielo si può dire. D'altronde chi crederebbe ad una serva? Tutto sembra malignità in noi.» E si portò la mano alla fronte con un gesto elegante, quasi per scacciarne un pensiero doloroso. Mario sospirò.

«È facile ingannarsi, avete ragione, specialmente quando v'ingannano.»

«Eppure, signor Mario, a me pare, che debba essere più doloroso ingannarsi che essere ingannati. Per esempio scoprire che l'amante vi tradisce, quando già vi siete accorti che il suo cuore c'entrava troppo poco nell'amore, non dovrebbe essere un gran dispiacere a paragone dell'aver stimato ed amato una persona, che improvvisamente se ne scopre indegna. Ma il mondo è fatto così, si crede alle apparenze, soprattutto se son belle.»

«Però le donne non soffrono mai dei tradimenti, che fanno.»

«È sempre il cuore a soffrire; non basta essere signora per averne.»

L'allusione era così trasparente che Mario si scosse:

«Esse ne hanno forse meno delle altre.»

«Eppure tutti le corteggiano, anche se non sono belle. Sarà forse per la vanità, io non posso saperlo, perché non sono più una signora; se lo fossi rimasta, e un uomo mi avesse fatta la corte, mi pare che ne avrei indovinato il perché. Invece le donne, che non hanno il tempo di civettare come le signore, e innamorandosi ci mettono tutte se stesse, non sono mai credute dai signori: anche questo sarà forse per la vanità. Credono che esse lo facciano per la speranza di mutar condizione.»

«Infatti lo si vede spesso» ribatté con una ingenuità, che in quel momento diventava ingiuriosa; ma la Gina non s'ingannò sul tono di quelle parole, e proseguì niente offesa:

«Sarà benissimo, ma un uomo deve avere ben poca stima di se stesso per non credere di potere essere amato sinceramente.»

Questa volta Mario comprese. Fu una rivelazione, che illuminò tutto il passato, il contegno sempre serio della Gina, gli ostacoli che ella cercava di mettere ai suoi convegni coll'Annetta, le allusioni maligne, certamente gelose, colle quali lo pungeva sempre nel momento più opportuno e sul punto più delicato. Ma invece di inorgoglirlo, questo piccolo trionfo gli fece più melanconicamente sentire l'abbandono di quell'altra; tuttavia sorrise.

«Come sta la signora Orsolina?» ella chiese, mutando tono colla confidenza di una amica.

«Così così.»

La Gina avrebbe voluto che le dicesse di andarla a trovare. Quella conversazione durava da un'ora senza che nessuno dei due avesse mostrato il minimo turbamento; poi intesero dei passi e delle voci nell'andito, sul quale dava l'uscio, e Mario andò a chiuderlo come avrebbe fatto in un consulto legale. Sulla faccia della Gina passò una nube.

«Mi dispiace che non ho nulla da offrirvi» egli disse, rimettendosi a sedere.

«Non ci pensi.»

«Come sta la Gigina?»

«Bene» rispose seccamente.

Tacquero, poi la Gina rispose:

«Sa la notizia? lo diceva stamane il signor Filippo: pare che il matrimonio della signorina Bruschi coll'avvocato Gelli vada a monte.»

Mario alzò sprezzantemente le spalle.

«A lei non è mai piaciuta quella ragazza?»

«No. Gelli la sposa per la dote: è una vigliaccheria.»

«Allora si riaccomoderanno; ma gli saprà salata quella dote, dovendo andare a vivere in casa con la signora Berta e il signor Cesare. Egli non voleva saperne.»

«Lo conosco Gelli, cederà. Con tutto l'ingegno, che gli attribuiscono, farà un cattivo affare. Val meglio guadagnarli colla professione, magari in vent'anni, quei centomila franchi, che diventare il domestico di quei due mercanti arricchiti.»

La Gina ebbe un lampo di gioia negli occhi.

«Centomila franchi si hanno da guadagnare in meno di vent'anni colla professione dell'avvocato o del procuratore. Un uomo, che non avesse altri pensieri, sicuro di essere amato nella propria famiglia con una donna intelligente che lo aiutasse, dovrebbe fare più presto. Ma la signorina Bruschi non capisce nulla, io stessa le ho dovuto correggere una lettera in francese.»

«Tu sai il francese?»

«Un pochino, me lo ha insegnato la povera mamma.»

«Non lo avevi mai detto.»

«Perché dirlo finché sono una serva?»

Ella si alzò, si mosse disinvolta per lo studio, come una signora in visita, esaminando lo scrittoio con una impertinenza elegante.

«Si può guardare nelle sue carte, signor Mario? Non vi saranno bigliettini di signore?»

«Non ho più amanti.»

«Davvero! un bel giovine come lei?»

Egli ebbe un gesto di scoraggiamento.

«Non piglierà nemmeno mai moglie?»

«Non sono ricco: le donne oggi guardano prima alla posizione di un uomo.»

«Ma sono anche capaci di fargliene una» rispose piccata.

«Chiacchiere! ci vuole altro oggi a farsi una posizione! prima di avere una clientela si diventa vecchi, e allora non ne vale più la pena; uno scapolo invece ne ha sempre abbastanza.»

«Anche della mia visita, signor Mario?»

Ella guardò l'orologio, si strinse con un gesto vezzoso la cintura sui fianchi, e gli stese la mano salutandolo; ma era tornata fredda e impenetrabile come quando la vedeva presso la signora Annetta.

Capì di averla offesa con quelle ultime parole, e forse più con la mancanza di ogni tentativo galante. Ella uscì ripetendogli quasi imperiosamente:

«Resti, resti pure.»

Quando fu solo, si sentì il cuore più grosso di prima; non aveva potuto parlare dell'Annetta, e aveva compreso che la Gina, sapendolo così avvilito, si era lusingata di poterlo sposare. Un'onda di amarezza gli salì alla gola.

Ecco quanto gli restava! Si gettò bocconi sul divano, mordendone il drappo per soffocare i singulti, perché oramai si vergognava di piangere sempre come un fanciullo per quell'abbandono di una donna, che avrebbe dovuto abbandonare in tempo secondo i consigli della mamma. Ma non lo aveva potuto. Anche allora provava i morsi acuti della gelosia come il primo giorno. Non lo avrebbe confessato ad alcuno, ma tutte le notti prima di andare a letto passava e ripassava pel corso sotto le sue finestre, incantandosi dolorosamente nel loro lume, cacciandosi quasi dentro il segreto delle loro tenebre cogli occhi dilatati e veggenti, mentre tutte le ricordanze lo riassalivano in tumulto febbrile fra i sogni più pazzi di vendetta e di riconciliazione. Talvolta pauroso della gente, che avrebbe potuto sospettare della sua fantasticheria nello scorgerlo fermo sotto quelle finestre, si nascondeva nell'ombra di una porta; poi tornava a contemplarle con una voglia delirante di urlare e di chiamarla per nome. Vi passava anche di giorno, sbirciando da lungi e rivolgendo il capo appena era trascorso; vi ritornava in compagnia, senza alcun bisogno, o giovandosi dei più lontani pretesti. Ella generalmente si ritirava al vederlo, ma invece per strada rispondeva con affabilità provocante al suo saluto affettuosamente rispettoso. Quindi sentendoselo dietro camminare sulle proprie orme, quasi tirato al fascino del suo profumo, dava al proprio portamento un'ondulazione anche più voluttuosa, senza mai torcere il capo, mettendo in ogni più piccolo gesto una grazia d'invito, sicura nella propria lentezza fra tutta la gente, che la guardava con ammirazione.

Quando invece dava la mano alla Gigina, erano continue soste e sorrisi e carezze, delle quali egli indovinava l'intenzione crudele. Qualche volta ella diceva persino parole a doppio senso, mentre la piccina, che si era già scordata di lui, gli era passata dinanzi senza salutarlo. Diventavano torture ineffabili, che gli ispiravano mille disegni di assassino, perché in quei momenti egli l'odiava, e non avrebbe voluto ad ogni costo soccombere sotto la sua superiorità di donna e di signora. Se non avesse temuto di sembrare pazzo, avrebbe gridato a squarciagola ch'egli era stato il suo amante e l'aveva tenuta sulle ginocchia nuda e fremente. Ma ella, indovinando quel martirio, raddoppiava le provocazioni, tanto che una volta egli aveva traversata la strada per passarle quasi addosso cogli occhi spiritati.

Ella ne aveva tremato per un istante; ma che cosa avrebbe egli mai potuto commettere per strada? L'Annetta lo conosceva troppo bene per avere paura; poi, dopo quella rottura, le poche chiacchiere sulla loro relazione erano cadute.

Invece egli fuggiva incontrando la Gina.

Ma la piaga gli si allargava nel cuore.

Come accade sempre alle passioni infelici, che per mantenersi una speranza cercano di giustificarsi dinanzi alla ragione, Mario si diceva che, essendo il padre vero della Gigina, aveva un diritto indiscutibile anche sulla madre. Le bizze, gli equivoci avrebbero finito col cessare, perché tutto cede davanti alla verità della natura. Era impossibile che anche nella coscienza dell'Annetta non si agitassero tali sentimenti. Quindi ritornava ai pensieri di vendetta; la più squisita sarebbe stata di rapire la Gigina, fuggendo in America. Egli se ne faceva un romanzo, lo divideva in capitoli, lo scandiva in scene, ne ripeteva a memoria i dialoghi nelle lunghe ore delle passeggiate solitarie, o nel silenzio dello studio, dentro quella luce di crepuscolo, nella quale i pensieri gli si abbuiavano e le passioni diventavano più livide. La stessa cupa concentrazione della signora Orsolina lo spingeva a tali risoluzioni immaginarie. La vecchia, dopo quel fallimento di tutta la sua vita, pareva divenuta insensibile; faceva quel po' di cucina, dava ancora regolarmente le biancherie di Mario alla lavandaia, ma non puliva più la casa, e quando non aveva più quattrini non ne chiedeva. Solamente il giorno dopo non allestiva il pranzo. Mario aveva dovuto finire col domandarglielo, ma egli medesimo si trovava spesso senza danari. Aveva già contratto qualche debito coi pochi amici, e alla nuova stagione, anziché rinnovare gli abiti secondo il solito, aveva ricusato diverse partite di piacere. La sua misantropia si abituava alle inutili occupazioni dei solitari. Restava spesso nello studio a riordinare carte senza valore, mutava le disposizioni dei libri negli scaffali, faceva lunghi conti aritmetici su patrimoni eventuali, scioglieva sciarade, o rileggeva vecchi romanzi, i più volgari e pieni di avventure. Ma non aveva resistito alla tentazione del teatro, per rivedere l'Annetta in palco e soffrire nel ricordo di quando si scambiavano occhiate d'intelligenza, e i sorrisi, che ella fingeva d'impartire ai visitatori, erano invece per lui senza che niuno se ne avvedesse. L'Annetta lo aveva visto subito, ma non gli aveva più badato per tutta la sera. Nel suo palchetto i visitatori facevano ressa, ridendo e pavoneggiandosi, sino a diventare quasi uno spettacolo nello spettacolo.

«Se non riesce lui, è una rocca imprendibile» disse a Mario un collega di foro, indicandogli un giovane capitano di artiglieria, bellissimo, che le faceva una corte assidua dalla barcaccia degli ufficiali.

Mario aveva avuto un malvagio sorriso.

«Non lo credi? Eppure non si è mai detto che abbia avuto amanti.»

«Se ne avesse avuto invece?»

«Chi?»

Mario non osò vantarsi per timore di non essere creduto; l’altro seguitò:

«Tu la dovresti conoscere bene: sentiamo, chi ha avuto? Nei tuoi piedi io mi sarei provato. Tieni! adesso guarda al capitano.»

Infatti era vero. Mario si voltò vivamente incrociando con lei un'occhiata, ma l'Annetta per fargli dispetto puntò il binocolo di madreperla sulla barcaccia degli ufficiali.

Nullameno Mario non credeva a quella civetteria. Odiava, disprezzava, ingiuriava segretamente l'Annetta, ma non ammetteva di aver successori. La sua gelosia allora sarebbe salita più alta nel martirio, perché almeno l'avvocato rappresentava il diritto della famiglia, davanti al quale l'amore doveva necessariamente piegare. Un altro amante invece sarebbe stato per lui la distruzione anche del passato; non avrebbe più potuto credere di essere stato amato e di lasciare in quella donna una traccia incancellabile.

Poi vennero le elezioni.

Il deputato uscente, Marchese Curci, dopo qualche armeggio si era ritirato, lasciando l'avvocato solo contro i radicali ancora senza campione e in preda a clamorosi dissensi per sceglierne uno nelle mediocrità del partito. Mario si lusingò, senza poterlo credere, che l'avvocato soccomberebbe, ma avendo scritto nella Gazzetta gli diventava impossibile combatterlo apertamente.

Quindi si trovava ad ogni passo fra contraddizioni pungenti; avrebbe voluto favorire i radicali, e non osava romperla colla Gazzetta, nella quale l'avvocato Gelli, moltiplicandosi, manteneva un vivo fuoco di moschetteria contro gli avversari. Questi rispondevano platealmente, perdendo terreno tutti i giorni. La causa della cartiera, essendo stata vinta anche in secondo grado, due ingegneri inglesi si occupavano già dei primi studi per il nuovo impianto, malgrado il ricorso pendente in Cassazione. Una corrente di simpatia sollevava alto l'avvocato, blandendo simultaneamente gli interessi e la vanità paesana; egli medesimo, uscendo dal lungo riserbo, aveva accettato francamente la battaglia, e nella Gazzetta rimbeccava gli attacchi, dirigendo l'opera dei ruoli del partito, la divisione dei più pugnaci elettori in manipoli per condurli alla conquista dei seggi elettorali, onde impedire il furto delle schede. Fra quella ressa di opinioni e di velleità pullulavano foglietti, le idee si sgretolavano in un turbine di parole, mentre al solito le convinzioni vacillavano, e la massa delle coscienze anodine si muoveva sotto la pressione del vento più forte.

A momenti Mario riacquistava importanza per l'intimità avuta coll'avvocato e la sua attuale indipendenza verso di lui; lo si interrogava, si credeva che egli avesse ricevuto confidenze, conoscesse secreti. Ammiratori fanatici dell'avvocato gli dicevano che aveva fatto male ad andarsene, perché sarebbe rimasto a rappresentarlo nello studio; laonde Mario si destreggiava affettando l'indifferenza in politica, ma anche la nota scettica era pericolosa in quel ribollimento di passioni. Nullameno riuscì a mantenersi fuori della mischia presso un gruppo di giovani radicali, la maggior parte studenti, che infervorati di rettorica socialista e sprezzanti dei vecchi residui repubblicani, vedevano nel trionfo dell'avvocato un'ultima ripresa del partito conservatore. Fra essi il nome della signora Annetta capitava travolto nella lordura del solito linguaggio giovanile, quando il vizio è ancora una bravata e la sguaiataggine della irriverenza pare audacia di ribellione. La signora Annetta era per loro la sola bella qualità dell'avvocato, e le avrebbero dato più che il voto. Molti si ostinavano a pretendere che non gli si fosse potuta mantenere fedele; allora le teoriche pessimiste sulla donna fioccavano, si cercava, si voleva trovare il ridicolo e il disonore contro di lui. Qualcuno disse a Mario che egli, volendo, avrebbe potuto conquistarla in quella lunga intimità; Mario lasciò dire, poi scherzò, accettò il sospetto, disdicendolo con malignità vanitosa e fingendo per lei un disprezzo, che solo in un amante di già ristufo sarebbe stato naturale. Ma quando Mario se ne andava, nessuno lo credeva più, per non riconoscergli una superiorità così invidiabile, anzi giudicavano con spietata severità quel suo gesuitismo. Non pertanto qualche cosa ne filtrò.

Un foglietto anonimo, con frasi ambigue, tentò di ferire l'avvocato nell'onore di marito; si comprese benissimo a chi altri andasse l'allusione, ma il disgusto e l'incredulità ne furono tali in paese, che l'Avanti! il giorno dopo in un articolo veemente stigmatizzava tutti gli scrittori di anonimi, pullulanti come una fungaia sopra il campo di battaglia a renderlo più lubrico pei combattenti. Mario, spaventato, dovette simulare al caffè la più profonda nausea per tali manovre.

Allora si isolò senza potersi sottrarre al rombo delle discussioni. Aveva deciso di non votare. Se ne avesse avuto il danaro, si sarebbe allontanato per un viaggio di qualche settimana; ma invece doveva assistere al trionfo del proprio avversario, che una volta aveva creduto vinto col frodargli la moglie, e che ora lo schiacciava dopo avergliela ritolta inconsapevolmente. Negli ultimi giorni la battaglia dei manifesti fu così ardente, che non resisté alla tentazione di mescolarvisi; tutti i muri n'erano tappezzati, la gente s'affollava a leggerli, rideva, vociava, le discussioni diventavano duelli. Una neutralità come quella di Mario doveva finire coll'offendere tutti; l'avvocato ne aveva discorso, riassumendosi in una parola:

«Ingrato!»

La notte delle elezioni, nel tripudio orgiaco dei caffè, mentre il doppio loggiato della piazza rigurgitava di gente, l'avvocato Gelli, trionfante quasi come l'eletto, s'imbatté in Mario uscito solamente allora di casa.

«Perché non hai votato?»

«lo non faccio della politica.»

Gelli aveva avuto un sorriso superbo, volgendosi un'occhiata intorno.

«Ti credevi dunque un letterato, scrivendo nella Gazzetta?»

Mario aveva impallidito, tutti lo guardavano con sorda ostilità aspettando la risposta, ma Gelli gli volse le spalle sprezzantemente. Il giorno dopo l'avvocato incontrando Mario non rispose al suo saluto.

Tutto gli precipitò intorno, una parte degli amici gli tenne il broncio, gli altri, che sperando dalla fortuna del nuovo deputato qualche vantaggio esageravano il proprio entusiasmo, furono anche più duri. Il foro della città, trionfante nella persona dell'avvocato, parve darsi l'intesa, e per quattro o cinque volte Mario trovò in pretura un accanimento che lo sopraffece. I suoi fiaschi furono commentati; finalmente l'avvocato Gelli in un articoletto di cronaca mise in ridicolo un brano di una sua difesa.

La posizione diventava insostenibile. Egli non osava quasi uscire di casa; per colmo d'imprudenza si accostò ai radicali, che lo compromisero senza sostenerlo. Ma dentro quel disastro morale s'inabissava una più tremenda rovina.

La mamma gli aveva detto che non avendo più danaro non farebbe più il pranzo.

«Ho finito i miei piccoli risparmi: pensaci tu.»

Egli tornò a fare qualche debito, ma doveva ricorrere agli strozzini, sopportando la tortura di tutti gli avvilimenti.

Un bel giorno seppe che l'avvocato era partito per Roma con tutta la famiglia. Se ne sentì sollevato, perché la loro presenza in città lo teneva sempre sospeso nel timore di un incontro. Adesso che erano lontani, la gente comincerebbe forse a scordarsi della sua condotta nelle elezioni, giacché al mondo tutto finisce col passare. Infatti, arrischiandosi per qualche minuto nel caffè, vi fu meglio accolto, ma l'ineleganza degli abiti gli attirò nuovi frizzi.

Gelli aveva sposato la Giulia, entrando nello studio dell'avvocato Filippo come socio. Tutti trionfavano intorno a Mario; a lui non rimaneva che il ricordo cinico ed altero di quell'adulterio lontano, nel quale li aveva tutti soverchiati d'un colpo. Nessun trionfo pareggiava il suo; egli teneva ancora in pugno la vita di quella famiglia, e poteva distruggerla con una sola parola, perché l'avvocato non resisterebbe ad una rivelazione, e scaccerebbe moglie e figlia. Quindi gli pareva di sentirsi a volta a volta nell'anima gli stessi fremiti voluttuosi, come quando, sicuro di un appuntamento coll'Annetta, si recava allo studio. Infamia per infamia, la vita era sempre la stessa commedia! Soccombere, ma non solo! Avere almeno la suprema voluttà di vedere lei sperduta, contraffatta dalla paura di un disastro irreparabile... e dopo, qualunque cosa accadesse gli parrebbe sopportabile. Ma questa effervescenza gli sbolliva presto nel freddo dell'ambiente, ove era costretto a passare tutte le ore. Invece ogni notte tornava sotto le finestre di quella casa abbandonata, perché l'avvocato Gelli vi lavorava solo di giorno. Era sempre la stessa, chiusa, muta, senza un segno che ricordasse i padroni assenti, un vaso di fiori al balcone, un nastro, un bioccolo sventolante da un ganghero, che nella leggerezza del volo o nel tremito di un colore gli parlasse dell'Annetta.

Egli si allontanava a testa bassa per ritornare daccapo coll'insistenza di una manomania ancora cosciente, contando a una a una le proprie disfatte coll'orgoglio malato di credersi il più infelice di tutti.

Forse neppure la Gina lo avrebbe più voluto per marito.

Talvolta si diceva persino di aver fatto male a non sposarla; in fin dei conti era nata di una famiglia superiore a quella dell' Annetta, e senza essere bella aveva un'aria più distinta e una più fine educazione. Con una simile donna, intelligente e piena di energia, forse non si troverebbe così prostrato; ella lo avrebbe diretto nella campagna contro l'avvocato, perché anche la Gina doveva soffrire tremendamente dell'esser serva, e odiava la signora Annetta. Adesso era tardi. A Roma, nella capitale, si mariterebbe o muterebbe padrone per entrare in qualche casa principesca.

Egli restava in fondo a quello stanzino freddo e buio, senza clienti, spesso senza sigari.

Le giornate succedevano alle giornate, inerti, tramontando nell'ombra di quel cortiletto, mentre fuori il sole era ancora vivido, come la sua gioventù tramontava prima del tempo, senza un fremito di gioia nel vespero, e nessuna riserva di calore per la notte. Era così. Non si vedeva più nessun avvenimento davanti, non aveva alcuno d'intorno. Colla mamma si detestavano, accusandosi reciprocamente in silenzio della stessa rovina: perché non aveva ella fatto a tempo quello scandalo contro l'Annetta per salvargli il matrimonio con la Giulia? A lei, madre, tutto era permesso. Perché aveva egli stupidamente perduto tutti i capitali, da lei a forza di risparmi e di sacrifici accumulati nella sua educazione, dietro una donna che, accettandolo senza amarlo, aveva profittato della sua gioventù come di un bel fiore?

Ora la vecchia soffriva forse più di lui, perché molti più erano i suoi anni travolti in tale catastrofe.

Finalmente, avendo letto in un giornale giuridico un annunzio di esami al posto di pretore, si ricordò di quel suo predecessore nello studio, entrato nella magistratura per fuggire dalla città dopo una delusione di amore. Quella mattina stessa aveva ricevuto la sua risposta desolante. La vita di pretore era un cumulo di miserie: la paga insufficiente per uno scapolo diventava derisoria per un ammogliato, giacché, computate tutte le ritenute, non ne rimanevano duecento lire al mese. Sul pretore si aggravavano i marescialli dei carabinieri con denunzie secrete se non condannava certa gente, i pubblici ministeri quasi sempre delegati di questura, i procuratori del Re, i giudici, i presidenti, tutti. Con poche righe, dentro le quali fremevano rimpianti inconsolabili, egli lo scongiurava a non cacciarsi per simile carriera: valeva meglio essere imputato che pretore.

Mario rileggeva forse per la decima volta quella lettera, senza essersi ancora deciso; ma una risoluzione era pure inevitabile. Si sarebbe volentieri consultato colla mamma, se avesse potuto sperare una risposta.

Uscì di casa. Pel corso s'incontrò col vecchio Andrea, che lo salutò freddamente al solito; ma in quel bisogno di parlare con qualcuno Mario gli si accompagnò. Il vecchio Andrea andava verso lo studio. Strada facendo Mario divenne così umile che l'altro lo guardò meravigliato. Non era più il bel giovane fatuo di una volta; pareva invecchiato in quegli abiti ineleganti, colla camicia tutt'altro che fresca e i capelli quasi arruffati.

Nullameno il vecchio Andrea rimase duro; si separarono prima di arrivare allo studio.

Allora Mario si mise a gironzolare per le strade, senza scopo, cedendo agli inviti del sole, perché non era uscito di casa da una settimana. Un altro gli diede la grande notizia: l'avvocato era tornato il giorno prima colla signora Annetta, e doveva partire la sera stessa, col treno delle otto per Roma, dopo un pranzo d'onore in casa Gelli. Questi li accompagnerebbe a Roma colla propria signora.

Erano già le due dopo mezzogiorno. Il pranzo annunziato per le cinque, si diceva di quaranta coperti; tutte le persone più importanti della città vi sarebbero.

Mario abbassò la testa. Vagò ancora per le vie a caso, sotto quel sole di maggio così allegro che le case stesse sembravano sorridere anche dinanzi a lui, diventato come uno di quegli sconosciuti, che girano il mondo. Una malinconia tenebrosa gli saliva dal cuore, velandogli gli occhi; camminava col passo lento dei vecchi, svoltando agli angoli quasi senza riconoscerli. Quando si trovò fuori di porta, respirò più liberamente. Tutta la campagna era in festa; nell'aria passavano canti e profumi, la polvere bianchiccia della strada si alzava in nebbia ad ogni alito di vento. Poi i ricordi lo riassalsero. Egli era andato altra volta sotto un sole anche più ardente alla villa, nella carrettella del fattore, pensando a lei che lo aspettava, e baciando la sua immagine nel pensiero. Poi era tornato con lei, per quella strada, toccandole coi piedi le scarpine sotto la veste; la vedeva ancora così bianca, coi capelli così biondi; coglieva il suo sorriso così rosso sui denti scintillanti come di salgemma. Allora era giovane, non pensava nulla, mentre adesso quei ricordi, lontani quanto quelli dell'infanzia, gli si confondevano nella mente con brandelli di romanzi letti e poi dimenticati. Egli non era più nulla. In quella campagna non conosceva alcuno, non aveva un cliente, negli interessi del quale fosse entrato o di cui potesse riconoscere il podere fra quel mare di verzura. Andava avanti nel paesaggio come una cosa. Eppure la vita era sempre ugualmente bella; egli solo non vi partecipava più, sopravvivendo alla propria gioventù, simile a una di quelle foglie secche, che l'inverno non aveva putrefatto e il vento si cacciava talora dinanzi per giuoco, sollevandole dal cavo di un fosso.

Era bastata una donna per inaridirlo. Poi i ricordi gli si facevano a mano a mano più chiari. Ella non era né molto bella, né molto buona, né molto cattiva; somigliava all'immensa maggioranza delle altre, gli aveva ceduto come lo aveva abbandonato, sotto la pressione del proprio egoismo senza uscire mai dalla cerchia sociale ove era stata collocata. Ma, più forte di lui, era ancora felice, in contatto con tutte le forze della vita. Doveva essere così; il torto era stato in lui di voler rimanere in un'altra famiglia, sempre allo stesso modo che vi era entrato, per una frode di amore. Se avesse sposato francamente la Giulia, ora sarebbe al posto di Gelli, forse ugualmente amato da entrambe; ma si era fidato sulla forza della passione contro tutte le necessità della natura e della società collegate a resisterle. Era stato uno sciocco.

La sua vita così sciupata doveva nullameno proseguire, perché gli restava la madre da mantenere, oltre se stesso; questo bisogno non ammetteva né replica né indugio. Comunque l'avvocato e la signora Annetta s'innalzassero sopra di lui, egli doveva chiudere gli occhi, e cacciarsi per l'ultima stradicciuola ancora aperta verso i bassi fondi della magistratura.

Egli era un vinto come tutta la folla, che resta folla per non aver saputo trarre dalle forze della giovinezza la vittoria sulla vita; anch'egli non aveva saputo che sognare e godere momentaneamente, dimenticando che i giorni si tengono l'un l'altro, e che ogni giorno perduto è un soldato di meno nella battaglia. Ritornò indietro.

Si farebbe pretore, in un'altra città, per sottrarsi alle umiliazioni della propria decadenza. A trent'anni tutto non è ancora perduto.

Ma, appena dentro il corso, l'energia gli scemò. Per dare quell'esame dovrebbe rinfrescare tutti i propri studi, mentre non v'erano più che tre mesi utili per prepararsi. Gli mancavano molti libri. Come comprarli? A chi chiederli? L'avvocato li aveva tutti nella biblioteca, ma non oserebbe mai domandarglieli. Si fermò dinanzi allo studio; erano le tre e mezzo. Forse a quell'ora era chiuso, giacché l'avvocato e la signora Annetta dovevano essere in casa Gelli. Allora lo prese una voglia melanconica ed irresistibile di rivedere quello studio, nel quale si era così sfogliata la sua vita. Per non perdere il coraggio riflettendo, entrò, salì di corsa le scale; lo studio era aperto.

Il vecchio Andrea era al solito scrittoio, curvo sopra un foglio di carta da protocollo, colle fodere di mussola alle maniche del soprabito fin sul gomito.

Marco, l'altro scrivano, era morto.

La frescura della stanza fece rinvenire Mario. Si trasse quasi vergognosamente il cappello come un forestiero sgarbato, che se ne fosse scordato, e rimase dinanzi al vecchio Andrea senza saper che dire.

«Che cosa vuole?» questi gli chiese.

«Non c'è nessuno di là?» rispose Mario con accento sbigottito.

«No, sono tutti in casa dell'avvocato Gelli.»

La porta dell'altra camera, la sua, era socchiusa; si vedeva il grande scaffale di mezzo.

Mario sempre col cappello in mano, malgrado gli inviti che l'altro gli faceva di rimetterselo, domandò se gli permetteva di entrare nello studio per consultare il Laurent, di cui aveva bisogno. Era un pretesto trovato lì per lì.

Andrea lo guardò sempre con la stessa aria severa di un giudice, che vede un colpevole umiliato sotto il peso delle proprie colpe, e gli rispose di accomodarsi pure.

Nulla era mutato nello studio. Mario si accostò al proprio scrittoio, riconobbe il calamaio, una cannetta, colla quale era solito a scrivere. Ma allora i ricordi gli si accavallarono sulla coscienza. La prima volta che la signora Annetta gli si era fermata dinanzi, guardandolo a quel modo, egli scriveva una citazione per un fitto non pagato; se ne ricordava ancora la somma. Lì, su quella sedia, una volta si era seduto il conte Giglioli venuto a consultarlo in una assenza dell' avvocato. Un'altra volta erano quasi stati sorpresi dall'avvocato, mentre la baciava.

Non c'era tempo da perdere; Andrea poteva entrare nella stanza.

Sapeva che il Laurent era nel gabinetto verde. Adesso un ritratto della Gigina, grande al naturale, pendeva alla parete di contro all'altro della sua nonna, la mamma dell'avvocato. La piccina si era fatta anche più bella; sotto al ritratto c'era una data, 1890, 18 aprile, quella della sua nascita. L'aveva scritta la signora Annetta, facendo quel regalo al marito.

Mario non avrebbe mai un simile ritratto.

Tutte le energie stavano per abbandonarlo. Corse cogli occhi su tutti i volumi rilegati del Laurent, leggendo il loro numero progressivo senza sapere quale scegliere, perché non aveva niente da cercarvi; invece si accostò alla poltrona, sulla quale aveva la prima volta rovesciata l'Annetta col coraggio improvviso del desiderio, che si sente condiviso.

Per l'ultima volta vi si lasciò cadere, stringendosi il capo fra le mani. Se la porticina, che dava nell'appartamento, si fosse aperta per lasciar passare l'Annetta, felice, sorridente come un tempo, quando veniva ad abbracciarlo, tutto sarebbe stato ancora riparabile: almeno gli parve di pensarlo! Quella poltrona, complice muta della sua felicità passata, non tremerebbe più sotto il loro peso, come quella mattina che scivolando sulle rotelle, improvvisamente, li aveva fatti quasi cadere sul tappeto.

Ella si era rialzata ridendo come una pazza.

Mario vaneggiava. Gli pareva di sentire nel gabinetto l'odore di gelsomino, che essa si dava sovente ai capelli; ascoltava, quasi per distinguere nell'altra camera lo scricchiolio delle sue scarpine, che si avvicinassero. Poi tentò di reagire osservando, rovistando nello scrittoio. L'avvocato non l'occupava più tutto. Altre carte portavano la scrittura o il nome stampato di Gelli, v'era anche un secondo calamaio d'argento, molto più piccolo dell'altro in cristallo, di cui l'avvocato si serviva sempre. Mario era allo scaffale del Laurent. Macchinalmente tese la mano ad un volume, per averlo aperto dinanzi nel caso che entrasse il vecchio Andrea; ma non ne esaminò che la rilegatura. Egli non era riuscito nemmeno a comprarsi quell'opera in tutta la propria vita di procuratore.

Eppure sarebbe stato così felice a quel posto, su quella poltrona, che Gelli aveva saputo conquistare sposando la Giulia.

Il passo del vecchio Andrea gli fece aprire il volume.

«Sono le quattro: se lei ha bisogno di restare ancora, aspetterò.»

«No, no, grazie, Andrea» gli rispose colla voce d'altri tempi, come se il gabinetto l'avesse ritornato quello di una volta.

Chiuse il volume e, sforzandosi a rimetterlo a posto fra gli altri, che stipavano quello scompartimento dello scaffale, alzò gli occhi al ritratto della signora Luigia, la vecchia dalla fisonomia dura di contadina, che aveva saputo infondere nel figlio la costanza della propria razza di lavoratori.

Uscì dietro al vecchio Andrea; nel salutarlo gli tese la mano:

«Non vorrei...» balbettò.

«Stia sicuro, non dirò nulla a nessuno.»

Appena giù nella strada corse a nascondersi nel proprio stanzino. Per due o tre ore rimase meditando nell'ombra, che entrava sempre più densa dalla finestra del cortile, finché ne fu sommerso; si scordò persino che la mamma doveva aspettarlo al magro pranzo per le sei. Tutte le sue risoluzioni della giornata gli naufragavano daccapo in quella oscurità umida e buia di sepolcro; non pensava più, smarrito in una delle solite fantasticherie senza senso e senza memoria.

Un passo nell'andito lo riscosse. S'alzò, trovò nel buio il cappello sulla scrivania, ed uscì.

Voleva andare alla stazione per vedere passare il corteo. Tortuosamente, per evitare la piazza in quell'ora troppo piena di gente, giunse a Porta Vecchia, l'oltrepassò cansando il viale dei tigli, e proseguì al di là del piazzale, che s'apriva all'ultima svolta di sinistra verso la stazione, sino alla sbarra della via provinciale. Di lì vedrebbe sfiancare le carrozze e passare il treno.

V'era poca gente.

Per ingannare il tempo si mise a passeggiare innanzi e indietro nell'ombra. La notte era tiepida.

La ferrovia, quando allungava lo sguardo per la sua linea, si perdeva lungi nell'invisibile e nel silenzio, mentre sotto la piccola tettoia della stazione i lumi fiammeggiavano, dandole quasi un'apparenza misteriosa con tutte quelle figure, che passavano e ripassavano talvolta con una lanterna nera nella mano, senza far nulla. La campagna dormiva nei propri odori.

Poi la gente cominciò a spesseggiare, dalla città venivano a frotte. Mario passò dall'altro lato della ferrovia per essere sicuro. Apparvero da lungi gli occhi rosseggianti di un treno, ma veniva da Ancona, e la gente cresceva sempre. Mario allungava ogni volta più la propria passeggiata, tenendo sul margine della strada e rivolgendo spesso il capo. Finalmente molte carrozze sboccarono da Porta Vecchia, quasi in gruppo; i loro fanali bianchi aprivano la notte con due larghi solchi luminosi. Erano essi. Non distinse alcuno, ma allo svolto del piazzale, sotto la luce del lampione d'angolo, gli parve di riconoscere la grande pariglia baia del conte Giglioli. Altri gruppi s'inoltravano a piedi verso la stazione, s'udivano voci allegre. Molti, forse i convitati di quel pranzo, erano in tuba.

Egli si era fermato guardando intensamente.

Era dunque un accompagnamento trionfale? Eppure l'avvocato non aveva ancora presentato alla camera che due interpellanze, quasi senza significato. Il cuore gli si restrinse: basta così poco nella vita per trionfare, e così poco anche per perdere! Il treno doveva tardare ancora un dieci minuti. Egli si era allontanato nuovamente, quando udendo la percossa della sbarra nel palo di chiusura, e lungi nella campagna i due fischi della locomotiva, ritornò quasi a corsa. Molta gente si era già addossata all'altra sbarra per veder passare il convoglio, forse colla sua stessa speranza di scorgervi l'avvocato, seduto in uno scompartimento di prima classe. Dal proprio canto era solo, poi sopravvenne un contadino con un orciuolo di latte in mano. Il treno era così lungo che la macchina arrivava coi fanali quasi ad illuminare la sbarra.

I minuti divennero eterni. Egli non poteva vedere attraverso la linea nera dei vagoni che cosa accadesse sotto la tettoia della stazione; il respiro mostruoso della macchina copriva ogni rumore, mentre il suo fumo saliva lentamente nell'aria perdendosi quasi subito. Mario si sentiva stillare dalla fronte un sudore freddo, con un freddo anche più grande nel cuore, come se gli si fosse improvvisamente vuotato di tutto.

Poi la campanella diede i soliti rintocchi, il cornetto del capo-treno le rispose con un lungo squillo nasale, e l'immane serpente nero si snodò nelle tenebre. I suoi occhi lampeggiavano di sangue, passò sbuffando lentamente, sonoramente; i vagoni sfilavano neri, chiusi sulle merci che li stipavano, allungandosi come un muro impenetrabile, finché balenò un primo finestrino illuminato.

Mario ebbe come la sensazione di uno schiaffo. Dai finestrini apparivano aspetti di camere fuggenti, alcune vuote e povere nella nudità del legno, s'intravedeva qualche fagotto; poi altre camere meno tristi, e fra esse tratto tratto un angolo di salotto, coi divani rossi ricoperti da larghi merletti bianchi, che l'ombra della notte inghiottiva istantaneamente, mentre un vento freddo, irrompendo da tutti quei finestrini, passava sulla fronte dei curiosi aggrappati alla sbarra con un senso istintivo d'abbandono.

Mario si volse, non rimanevano che quattro vagoni.

D'improvviso la vide in piedi, appoggiata con una mano bianca al ferro della rete rigonfia di valigie; notò che sorrideva a qualcuno seduto, mentre tutto il corpo le ondulava voluttuosamente alle scosse del vagone, e i capelli biondi, così presso alla vaschetta del fanale, le facevano un'aureola d'incendio al capo.

Il treno si allontanava dentro la notte profonda, verso Roma.

Mario traversò il binario a testa bassa per ritornare in città, solo.