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ALFREDO ORIANI
GELOSIA
I
Nell'afa del meriggio Mario sollecitava colla frusta il grasso
cavallo.
La strada, larga e dritta, in quell'incendio di sole sembrava
confondersi col tremolìo dell'aria, entro la quale la
polvere, sollevandosi, metteva tratto tratto una nebbia giallognola.
Il caldo era soffocante. L'ombra, ritiratasi sotto gli alberi, ne
allargava la base dei tronchi, e l'erba appariva sporca sui margini
dei fossi, mentre nella strada solitaria il solco dei veicoli e
l'orma dei piedi si vedevano sino molto lungi, profondi quanto nel
fango.
Non s'incontrava anima viva. Solo il coro delle cicale, nascoste fra
le fronde, seguitava a cantare con tale monotonia, che vi si sentiva
sotto l'oppressione del silenzio. Poi qualche uccello, staccandosi
dalla cima di un albero, sembrava gettare un lieve strido
d'impazienza, e passava rapido nel sole.
La vecchia e larga carrettella era già tutta bianca.
Mario, abbandonato sull'alto dossale, cogli abiti scottanti e le
redini lente, si era calcata la cappellina di paglia gialla sugli
occhi, e ogni tanto li socchiudeva. Al disopra delle siepi spessi
lampi gli giungevano, accesi dal sole sulla lucentezza metallica
delle foglie; vedeva un nuvolo d'insetti aggirarsi in vortice denso
e silenzioso; poi un tafano schizzava rapidissimo intorno al
cavallo, gli si librava sul collo, sulle reni, sulla
groppa,sfuggendo d'un colpo per ritornare coll'insistenza di una
velocità, che nulla poteva stancare.
Il viaggio non era lungo.
La strada, appena fuori della città, s'internava fra le
colline separate da una florida distesa di campi. I poderi
spesseggiavano; le case coloniche, vecchie e malandate, si
travedevano come una macchia dentro la verzura, ma la terra in quel
mese di luglio lussureggiava. Le stoppie coi gambi qua e là
schiacciati, dello strame sfuggito alla falciatura, parevano immense
pezze di un cinereo caldo fra i filari verdi delle viti; le canape
alte e cupe alitavano un aroma amaro, mentre i gelsi, sfogliati da
poco, sorgevano come scheletri tra quella pompa e quella fiamma
solare così intensa, che l'anima stessa si addormiva in fondo
alle proprie ombre.
«Ci vorrà ancora mezz'ora» disse la vecchia
Teresa, che il moto sobbalzante della carrettella aveva quasi
addormentata; quindi si trasse più innanzi sul naso il
fazzoletto cremisi di seta, col quale si riparava dal sole.
Non avevano ombrello; Mario annuì senza rispondere.
Il vecchio cavallo trottava pesantemente alzando la polvere, in
nuvola, sotto il suo largo ventre; e teneva le orecchie e il collo
basso, quasi ad annusare il terreno, senz'altra vivacità che
nella coda, colla quale si schermiva da un volo di mosche querulo ed
ostinato. Pareva che, conoscendo da lunga pezza la strada, la
dimenticasse nella sicurezza di una fatica automatica. I suoi
finimenti sotto quel polverio diventavano anche più poveri,
la carrettella oscillava con un suono di ferraglia, interrotto a
quando a quando dal cigolio di una ruota, o dal tremito argentino
dei lampioni. Era quasi sverniciata, coi cuscini e i parafanghi in
brandelli.
Mario guardò in alto respirando forte; dalla mano, posata sul
pomo ardente della martinicca, gli veniva una sensazione dilettosa.
Il cielo abbagliante di serenità s'abbassava dietro i colli
come una immensa tenda, attraverso la quale i raggi del sole
imbiancavano il proprio oro per cadere in una invisibile pioggia di
aghi dritti e continui, che foravano la pelle. Ma quell'azzurro,
quasi biancheggiante come la polvere della strada, rendeva il cielo
anche più vasto nella scialba uniformità del colore.
L'orizzonte era scomparso, sui colli diventati quasi più
bassi non si discerneva più che una vampa, e nella solitudine
della strada non passava viandante, e dai campi, ove gli alberi
lasciavano spiovere stancamente le foglie, non un soffio faceva
tremolare l'immobile intensità dell'ora.
Mario si sentiva arroventato.
Quegli abiti in tela leggera, di un color chiaro, gli lasciavano
penetrare nel sangue un calore indefinibile; gli pareva di non
potersi muovere, come nella prima oppressione del sonno, e nullameno
un crescendo irresistibile di vita lo sopraffaceva. I raggi del sole
gli percotevano sul ventre.
Aveva la bocca riarsa e gli occhi torbidi.
E il contatto della Teresa, traballante al suo fianco per gli
scuotimenti della carrettella, gli raddoppiava quel caldo, nel quale
lentamente gli veniva sugli occhi socchiusi un sogno anche
più ardente e luminoso.
Erano usciti dalla città nel pomeriggio. Sapendo di essere
atteso a pranzo per le due, perché l'avvocato gli aveva
precisata l'ora nel lasciargli la moglie del fattore colla vecchia
carrettella per il viaggio, Mario era tornato prima a casa per
mettersi quell'abito nuovo e quelle scarpette gialle all'ultima
moda, calcolando sull'effetto di tale piccola eleganza in campagna.
Ma, appena fuori di porta, il caldo l'aveva oppresso; non era
possibile spingere il cavallo ad un trotto maggiore, poi sarebbe
stata un'imprudenza colla Teresa. Quindi, nell'abbacinamento di
quella luce, tutte le idee gli si erano confuse, mentre allungandosi
involontariamente sui cuscini, come dentro un bagno, tratto tratto
protendeva il ventre con un sorriso sulle labbra secche.
La strada saliva adagio, torcendosi a molte svolte.
Il cavallo solo stava desto; grosse chiazze di sudore gli
macchiavano già la groppa, mentre proseguiva in quel trotto
cadenzato, imprimendo alla carrettella una oscillazione quasi
ritmica. Siccome era domenica, e quella l'ora del pranzo, non
avevano ancora incontrato alcuno. Poche ville non ricche
interrompevano le siepi coi cancelli verdi di legno; i colli
correvano d'ambo i lati della strada con lieve ondulazione, senza
spezzare la propria linea: le siepi molto alte e i filari a festoni
piantati lungo di esse, li nascondevano sovente.
Al ponte della Torretta, la Teresa si rizzò di soprassalto
sulla schiena; erano vicino alla villa.
«Credo che il burro si sarà disfatto nel cassetto, con
questo caldo; il signor avvocato si lamenterà.»
«La colpa non è nostra.»
«Non è stata una bella idea di farci venire a
quest'ora. La signora Annetta, che è così bianca, ne
sarebbe morta; senza ombrellino non osa nemmeno uscire sul
prato.»
Allora parlarono di lei. Mario rispondeva appena, ascoltando; la
Teresa pareva fare qualche riserva sulla padrona.
«Andiamo dunque, Carlone» si rivolse al cavallo;
«se avessi guidato io, saremmo già arrivati.»
«Ecco le redini: avete voluto che le tenessi...»
«In città! Un bel giovanotto,» aggiunse
sorridendo sardonicamente «farsi vedere guidato da una vecchia
come me!»
Erano arrivati. Si vedeva il cancello rustico con due pioppi a
fianco; un battente era aperto.
Sul prato della villa non uscì alcuno. La Teresa
smontò, trasse dal cassetto il cartoccio del burro, e
tornò poco lungi alla propria casa col cavallo a mano,
lasciando Mario entrare solo nel casino. Egli si fermò un
istante all'uscio verde. Così in piedi, vestito di chiaro,
biondo e roseo sotto i raggi del sole, era un bel giovane; aveva le
spalle larghe e le gambe dritte. La freschezza del suo volto,
illuminato dal sorriso degli occhi cerulei e delle labbra rosse,
perdeva della propria femminilità con quei baffetti, tirati
su pretensiosamente alla spagnola; ma in quel momento era velato di
malinconia.
Entrando nell'andito, che apriva il casino per tutta la sua
profondità, s'incontrò nell'avvocato in manica di
camicia e colla pipa in bocca. La sua grossa figura, nella
libertà di quello scarso abbigliamento, pareva anche
più greve; le bretelle a crociera gli reggevano i calzoni
tagliando il bianco della camicia con righe multicolori. Cominciava
già ad essere calvo e brizzolato, colla barba tagliata a
punta, ma di un pelo così piatto che sembrava di primo tempo
un empiastro. Nullameno la fronte alta e due occhi neri, penetranti,
davano alla sua fisonomia una specie di nobiltà intelligente,
mentre il sorriso della bocca, sotto il naso grosso e sensuale, ne
compiva il carattere bonario.
«Ah! Avete il burro, caro Mario; ne faremo dei crostini per
l’antipasto. Date qua, lo porto io stesso in cucina.»
Ma la cuoca uscì da una porta laterale.
«Già!» esclamò, vedendo tutto il cartoccio
unto: «sarà diventato rancido, e poi daranno la colpa a
me.»
L’avvocato sorrise.
«La signora Annetta?» chiese Mario.
«È su. Avete finito quella memoria?»
E attirandolo sopra il vecchio sofà di percalle, poco pulito,
gli parlò di cose legali. Mario si era tratta la cappellina,
e si asciugava il sudore con un fazzoletto bianco, a larga orlatura
fiorata, cercando di non scomporsi la scriminatura; ma rispondeva
attento, con molta deferenza, a tutte le sue interrogazioni.
In quell'andito fatto dalla profondità di tre camere, e
chiuso da due massicci usci verdi senza controporte o invetriate, la
temperatura, arrivando dal di fuori, era quasi troppo fresca. Mario
si rimise la cappellina, e si abbottonò la giacca. Nel mezzo
sorgeva la tavola, imbandita quasi poveramente, se non fossero state
le vecchie posate d'argento a darle un'aria signorile su quella
tovaglia grossa e coi piatti di maiolica spaiati. Alcune foglie di
vite sotto i bicchieri vi facevano una fresca macchia verde di una
semplicità poetica; due bottiglie di vino bianco tramandavano
qualche iride aurata.
C'era un altro divano e un tavolino a muro, zoppo da un piede;
nessuna pittura alle pareti, delle quali l'intonaco era qua e
là caduto; ma alcune chiazze di umidità avevano
sporcata la volta con un colore odioso di muffa. Le sedie
scompagnate mostravano la paglia rotta.
Quel casino, con un grosso podere, l'unica eredità lasciata
all'avvocato dal padre, era in pessime condizioni; ma, sebbene lo
studio gli prosperasse, egli aspettava, da buon borghese, di poterlo
rimodernare senza inconvenienti per le proprie finanze. Ora non
aveva arredato che l'appartamento di città per contentare la
vanità della signora Annetta.
Quando l'udirono discendere le scale, Mario si cavò la
cappellina alzandosi in piedi.
«Siete arrivato finalmente!» ella gridò con
accento allegro prima ancora che potessero vederla, saltando gli
ultimi due gradini a piè pari come una bambina.
Infatti ne aveva quasi la fisonomia, ma la statura, il corpo florido
col petto e le anche opulenti, un'immensa capellatura bionda
scarduffata sulla fronte, e una ricercatezza minuta e stonata qua e
là nel vestito, ne facevano una donnina adorabile. La sua
fisonomia, d'una regolarità vicina alla perfezione, di primo
tempo non impressionava; i suoi occhi troppo grandi, di un verde che
talvolta pareva turchino, non avevano abbastanza luce; la sua bocca
fresca, coi denti bianchissimi, parlava e rideva colla stessa
vivacità; le sue guance avevano la brina delle pesche, mentre
la sua fronte liscia, di un bianco più intenso, pareva una
benda sotto l'oro ardente dei capelli. Il suo abito di mussolina a
righe era di una temerità ignorante. Aveva la vita troppo
lunga anche per la moda, gli sbuffi delle maniche troppo salienti
sulle spalle, la gonna troppo stretta sui fianchi, la scollatura
circolare troppo bassa e mascherata da una bavarina larga, di un
bianco rugginoso, cogli orli rosa. S'indovinava subito una
pretensione d'eleganza non aiutata dalla fine esperienza del gusto.
L'arruffio dei capelli, così voluminoso, faceva pensare ad un
turbante, e le calze nere ad un prete, ma invece aveva le scarpette
chiare. Nonpertanto la sua giovine bellezza trionfava di tutte
quelle stonature; ed era così ilare nella coscienza della
propria perfezione, si capiva tanto bene che quella testolina rosea
e raggiante non avrebbe mai pensato, la limpidità cristallina
de' suoi occhi era talmente piena d'iridi, il sorriso delle sue
labbra così inconsapevole di bontà, la sua salute
così trionfante e la sua anima così vuota, che una
luce di simpatia l'avvolgeva come quei bimbi, dei quali la
contentezza è un contagio, e la scempiaggine dei giuochi una
ricreazione per tutti.
Venne incontro a Mario, gli strinse la mano, togliendogli dall'altra
la cappellina, che andò ella stessa a deporre sul tavolo a
muro.
«Raccontatemi tutto. Siete passato per la piazza? Avete visto
la baronessa andare in Duomo. Scommetto che aveva l'abito rosso
dell'altra domenica! ... E le Falconi? La Ghita, sempre con quel
cappellino a sporta ... oh! se si vedesse! No, aspettate, signor
Mario: voi già non ci avete badato, ma le Tivaroni, è
impossibile che non le abbiate vedute coll'ingegnere dietro. Carino
anche lui! Chi sa come la gente avrà riso vedendovi colla
Teresa su quella carrettella!»
E, beata del proprio cicaleccio e di tutta quella fantasmagoria di
evocazioni, si abbandonava ridendo sulla sedia, coi piedi sporgenti
dalle sottane, e col seno troppo stringato, che le tremava
voluttuosamente sotto l'onda di quella gioia.
Mario si difendeva alla meglio; diceva di aver sempre dormito
durante il viaggio, tanto il vecchio Carlone sapeva bene la strada.
«Se non ci fossi tu, Pippo,» ella si rivolse scoppiando
a ridere di nuovo «sai che Carlone sarebbe il più
vecchio di tutti noi? lo ho ventidue anni, sono già molti; il
signor Mario venticinque, tu ne hai quanti noi due sommati insieme:
Carlone ne ha ventinove.»
«Quando tu ne avrai altrettanti, vi ti attaccherai,
pazzerella, per molti anni; dopo i trenta la donna non è
più giovane.»
«Galba è ancor lontano!» intervenne Mario.
Egli la guardò di sfuggita, come per chiederle un segno di
risposta; ma ella finse di non accorgersene.
«Veronica!» strillò «vengo ad aiutarti;
farò io i crostini.»
E, prima ancora che la serva rispondesse dalla cucina, balzò
in piedi e con un grande svolazzo di sottane sparve, non senza
rivolgersi all'uscio con un riso grazioso di birberia.
«Se volete mettervi in libertà, Mario,» disse
l'avvocato, mostrandoglisi bonariamente così in maniche di
camicia, «Annetta non se ne offende.»
L'altro ricusò.
«Siete un elegante, voi! Non me n'ero ancora accorto; stamane
avete un abito nuovo. Fumate dunque; volete bere?»
Ricominciarono i discorsi giuridici, ma l'altro tendeva l'orecchio
al chiacchierio della cucina, dalla quale salivano ogni tanto risa
perlate fra la voce grossa della Veronica, che brontolava. A poco a
poco quella distrazione s'impadronì anche dell'avvocato,
così che finirono per andare verso la cucina.
«No» guaì la signora Annetta, slanciandosi verso
l'uscio per impedire loro d'entrare: «non voglio che mi
vediate.»
«Chi sa in quali intingoli ti sporchi!»
«Sono sempre più pulita di lei, signor avvocato.»
«Allude forse ai processi?» disse Mario con accento, nel
quale fremeva già un principio d'irritazione.
«Anche, anche; vadano via, in cucina comandiamo noi.»
Essi tornarono al divano.
Il pranzo era di una grande semplicità. La Veronica cuoceva e
serviva a tavola, sudata, col grembiule tutt'altro che pulito,
grugnendo ad ogni piatto. Non era contenta dell'opera propria. In
quella cucina di campagna, così abbandonata, mancava tutto;
gli altri invece trovavano deliziosa ogni pietanza. L'avvocato,
robusto mangiatore, sulle prime non parlava, curvo sul piatto della
minestra, della quale il fumo grasso gli saliva su per la faccia; la
signora Annetta, invece, l'assaggiava a piccole cucchiaiate, mentre
Mario, affettando di aspettare che il brodo si agghiacciasse,
cercava con prudente insistenza di scambiare con lei qualche
occhiata. Negli occhi azzurri gli passava qualche lampo di collera,
ma ogni qualvolta ella sorrideva, anche senza guardarlo, Mario,
pigliando per sé quel sorriso, si rasserenava.
«Non mangiate, Mario?» gli disse l'avvocato.
«Aspetto: piuttosto, come fa ella a mandar giù una
minestra così bollente?»
«Ah!» ribatté con intenzione spiritosa, e
riempiendosi nuovamente la piattellina, «ho subìto ben
altre prove del fuoco.»
La signora Annetta mangiava con tutte le moine più
pretensiose dell'eleganza, quasi facesse una concessione ad una
necessaria volgarità, ma con tanta energia di salute finiva
col mangiare molto. L'avvocato la berteggiava, ella s'offendeva
scherzosamente, il signor Mario diceva solo qualche parola, respinto
suo malgrado da quella loro intimità di coniugi. Nullameno la
conversazione si legò a poco a poco, il tema ne divenne
presto il casino. Assolutamente bisognava restaurarlo, perché
così era davvero indecente; impossibile invitarvi qualcuno,
tranne il signor Mario quasi di famiglia, senza farsi rider dietro.
La signora Annetta tornava e ritornava sui particolari. L'andito
verrebbe trasformato in una specie di salone; qualche trofeo di
caccia e qualche panoplia con alcune giardiniere basterebbero. Il
pavimento bisognerebbe metterlo a mattonelle lucide, così
moderne e così carine; quindi spostare la cucina, e fare la
camera da letto su al primo piano; e sotto, dove era adesso, ci
verrebbe un salotto di ricevimento. L'appartamento superiore si
componeva di cinque stanze, libere sopra un altro andito uguale.
Ella, già presa in quella visione di lusso, sminuzzava le
descrizioni; era un cicaleccio, un abbarbaglio pieno di lampi e di
sorrisi, colle parole che s'incalzavano sotto i gesti graziosi e
petulanti.
«Conclusione!» disse l'avvocato «ci vogliono
trentamila franchi.»
«Li guadagnerai.»
«Lo spero bene, poi tu me li butterai tutti in una sol
volta.»
«Ma sarò contenta. Quanto tempo ti ci vorrà per
guadagnarli?»
«Domandalo al signor Mario.»
Questi si era accigliato; l'allegra curiosità della signora
Annetta ne ricevé quasi un urto, ma rivolgendosi da capo al
marito.
«Quanto, quanto?»
«Quanto tempo impiegheremo» egli ripeté
coll'altro «per vincere la lite della Cartiera?»
«Se si vincerà» rispose Mario freddamente.
«Ne dubitate?»
Ma l'avvocato, rientrando nel tema favorito di quella causa, si
rimise a spiegarla. Adesso il suo volto volgare e bonario si era
fatto grave, parlava adagio, con forma più eletta, come
dettando una memoria. L'altro, costretto ad ascoltarlo, cercava nel
fondo della propria scienza legale, ancora troppo scarsa, qualche
obbiezione per intorbidare le gaie speranze di quella donnina
così spensieratamente egoista. Ma in quel dibattito, del
quale non capiva gran cosa, ella aveva cessato di divertirsi e
seguitava a mangiare, mentre l'avvocato colla forchetta brandita
faceva qualche gesto lento e poderoso.
Ad un argomento falso di Mario sorrise, parando con tale prontezza e
con una citazione così irresistibile, che l'altro rimase
interdetto.
La signora Annetta sorrise anche lei.
«Non ti affrettare a sorridermi» le disse l'avvocato;
«non basta, per vincere una causa, aver ragione e saperla
sostenere. Ci sono i signori del tribunale.»
Ma la sconfitta di Mario aveva tolto l'allegria al pranzo. Egli
tentava ancora di scusarsi, confessando la propria
inferiorità di fronte alla scienza dell'avvocato; però
si sentiva fremere nella sua voce il dispetto. L'altro credette a
una piccola crisi della vanità umiliata, frequente negli
scolari e nei principianti.
La signora Annetta invece cominciò a guardarlo, tratto
tratto.
La temperatura dell'andito era deliziosa, il pranzo ordinario, ma
buono. Dopo le frutta presero il caffè, poi l'avvocato accese
la pipa, andandosi a sdraiare sul divano.
Mario e la signora Annetta rimasero ancora a tavola, in faccia; egli
fumava una sigaretta attardandosi nel vuotare la propria tazza, ella
si baloccava con una susina. Non si parlavano. Improvvisamente, come
spinti da una molla, sorrisero, e quel sorriso illuminò tutto
il loro secreto. Egli tornò ilare, ella si alzò per
andare verso il marito; lo circondarono sedendogli vicino.
L'avvocato, che aveva la digestione laboriosa, adesso parlava poco;
toccava a loro due tenerlo sveglio, e chiacchieravano a caso di
pettegolezzi cittadini, di mode, di nonnulla. Pareva che quella
intimità a tavola, fra marito e moglie, parlando dei
ristauri, si ripetesse ora imprudentemente fra i due giovani. Le
parole avevano dei doppi sensi, e il sorriso le commentava, mentre
nei loro occhi, quasi egualmente chiari, s'accendevano fosforescenze
rapide quanto un baleno, ed intelligibili come un appello.
In quell'aria fresca, col calore del pranzo nel sangue, si
allungavano inconsciamente sulla scranna. L'avvocato, dinanzi a
loro, era quasi sdraiato sullo schienale del divano, col largo
ventre sporgente dai calzoni, appena rattenuto dalla crociera delle
bretelle, e di quando in quando sbuffava. La volgarità della
sua natura si tradiva in ogni atto. La stessa vecchia pipa di legno
finiva per dargli un'aria di carrettiere di fronte alla signora
Annetta, guantata da quell'abito di mussolina, sul quale il suo
collo sorgeva voluttuosamente bianco, ombrato sotto la nuca dai
riccioli biondi.
Mario la divorava cogli occhi; ella si abbandonava coi piedi non
molto piccoli, che le si agitavano di quando in quando fuori delle
sottane. Qualche parola le moriva sulle labbra, guardando il marito
distrattamente.
Questi andava chiudendo gli occhi.
Mario sussurrò a denti stretti:
«Annetta ...»
Ella tremò, mostrandogli il marito; l'altro s'indispetti.
Tacquero. L'avvocato abbassava lentamente la mano, nella quale
teneva la pipa già spenta, il suo respiro si faceva
più grosso. Allora i due si sentirono addosso l'incubo
dell'attesa; stavano imbarazzati spiando, temendo quasi di guardarsi
per non tradirsi, se aprisse gli occhi. Mario frenava l'anelito, che
gli cresceva nel petto, ella soffriva di un'impazienza piena
d'irritazioni; non avrebbe voluto essere lì, temeva quanto
stava per accadere, provando al tempo stesso dispetto e paura, e
nella paura un sottile fremito di piacere.
«Annetta ...» ripeté Mario più
distintamente.
Ella titubò, poi facendogli un cenno intraducibile,
improvvisamente, leggera, quasi senza fare rumore, fuggì in
cucina presso la Veronica, che aveva già finito di mangiare e
rimescolava i piatti.
Sul viso di Mario passò una vampa di collera, ma non
osò voltarsi per non svegliare l'avvocato, anzi lo
guardò con una espressione sprezzante di rancore. Dalla
cucina s'udiva l'Annetta ciarlare allegramente colla Veronica. A
Mario pareva di essere schernito. Subiti pensieri di violenza gli
attraversavano il cervello, mentre un odio assurdo ed irresistibile
gli veniva dalla contemplazione di quell'uomo così
volgarmente, impudentemente addormentato dopo pranzo, dinanzi a sua
moglie adorabile e adorata, che poteva tradirlo impunemente, e lo
aveva già tradito, e ora sfuggiva, colla bugiarda
viltà della donna, a tutte le promesse balbettate pochi
giorni prima con lui, Mario, in un'ora di abbandono. Egli non era
venuto al casino se non per questo, nella speranza di trovarla sola
qualche minuto.
La passione gli sferzava il cuore. Avrebbe voluto andare in cucina,
ma anche là c'era la Veronica, e Annetta l'avrebbe evitato;
poi temeva di tradirsi, si sentiva incapace di dominarsi.
Sperò che ritornasse. Adesso la Veronica lavava le
casseruole, ma l'altra rimaneva in cucina; si udivano scricchiolare
le sue scarpette, ella girellava, faceva tintinnare i bicchieri e i
tegami. Evidentemente era in lei un proposito deliberato: non
tornerebbe. Eppure l'avvocato dormiva, ella avrebbe potuto rientrare
nell'andito senza timore, magari solo per il tempo di un bacio.
Fu bussato alla porta. Era la Teresa, che avendo finito di pranzare
veniva a visitare i padroni. L'avvocato si destò e riprese la
pipa per accenderla.
«Che caldo!» esclamò la Teresa, respirando
deliziosamente l'aria fresca dell'andito.
Aveva un mondo di cose da dire; prese famigliarmente una sedia
presso l'avvocato. La sua figura corta e tozza, in quell'abito di
percalle turchino a fiorami di un colore più pallido, una
stoffa quasi da tenda, era ancora piena di vigore; le guance le
penzolavano sotto le mascelle, ma la quadratura del viso e la
durezza della fronte rivelavano tutta la sua energica natura. Il
fattore era lei. Adesso non finiva più colle lagnanze.
Bisognava ridare il solfato di rame alle viti; era una dannazione
con quella peronospora, una volta sconosciuta, e che adesso
distruggeva tutte le foglie della vite, così che i grappoli
inariditi cascavano.
La Teresa accettava le spiegazioni scientifiche di quel morbo, ma
diceva nullameno che era un castigo di Dio. Poi la vacca di Giacomo,
dopo il parto, non aveva potuto liberarsi dalla matrice; c'era
pericolo.
«Venga a vederla; sta in piedi, ma si lamenta a quando a
quando, come una donna. Le avevo fatto preparare un brodone; non lo
ha nemmeno assaggiato. Venga a vederla anche lei, c'è
pericolo che muoia.»
«Ma io non me ne intendo.»
La signora Annetta rientrò nell'andito.
«M'avete portato le avellane?»
«Sì! le hanno rubate. Se lo prendo quel birichino di
Tonio, il figlio della Nena!»
L'Annetta sorrise. Mario si era avvicinato supplicandola cogli
occhi, mentre ella fingeva di non accorgersene. La Teresa era
inesauribile; si capiva che, sapendo il fatto suo, se ne vantava, ma
dai suoi discorsi traspariva una grande onestà.
Accettò dalla signora Annetta un grande bicchiere di vino,
ripetendo che era caldo.
«Ho messo a letto Girolamo; cala, cala il buon uomo.»
«L'uomo siete voi» rispose scherzando l'avvocato.
«Infatti non sono mai riuscita a far un figlio» ma nel
suo accento non c'era rimpianto.
L'avvocato diede un'occhiata ad Annetta; anch'essi, dopo due anni di
matrimonio, erano senza figli, ma se ne rammaricavano.
«Bah!» prosegui la Teresa alzando le spalle:
«quando si è giovani, c'è sempre tempo.
Perché non vanno un po' a letto con questo caldo?»
E questa domanda diventava così maliziosa, dopo quella
osservazione, che tutti si guardarono.
«Già,» disse l'avvocato «che cosa si fa
sino alle sette?»
S'alzò, lasciando la pipa sul divano; Mario si accostò
all'Annetta imprudentemente, mormorandole tra i denti, cogli occhi
sfolgoranti:
«No.»
Ella finse di non capire.
La Veronica veniva a sparecchiare la tavola.
«lo e lei,» disse la Teresa a Mario «mentre i
signori padroni vanno un po' a letto, giuocheremo una scopa.
Vuole?»
Mario dovette sorridere.
«Vado a far la piega alle lenzuola» esclamò la
Veronica passando nella camera da letto, della quale l'uscio era
presso quel divano.
Poi ritornò:
«Signor avvocato, non ci sono le sue pianelle: bisogna fare
alla meglio.»
«Poco importa» e s'avviava già verso la porta. La
signora Annetta sembrava contrariata dalla volgarità impudica
di quella scena; Mario, livido, per darsi un contegno si era messo
ad accendere un sigaro, rompendone replicatamente la punta coi
denti. Tremava.
L'avvocato era già entrato nella camera; ella dovette
seguirlo, ma aveva abbassato la testa, vergognosa dei pensieri, che
indovinava negli altri, su quanto stava per accaderle in quel
pomeriggio così caldo e voluttuoso. Al momento di chiudere
l'uscio guardò Mario, che le si rivolse cogli occhi
fiammeggianti e la bocca contratta da un sogghigno doloroso. L'uscio
si chiuse quasi violentemente.
«Dammi ancora da bere» disse la Teresa alla Veronica.
La tavola era già sparecchiata, le due bottiglie del vino
bianco, ancor piene a metà, stavano sul tavolo a muro, dietro
il vassoio delle frutta.
Le due donne sedettero. Mario girava su e giù, verso la
porta, cercando di rimettersi, coll'orecchio teso a tutti i rumori
dell'altra camera; indi a poco il letto scricchiolò. Era
l'avvocato, senza dubbio, che vi si sprofondava pesantemente.
Le due donne parlavano di cucina. Mario, colla testa in fiamme e il
cuore che gli batteva dolorosamente, avrebbe almeno voluto
avventarsi a quell'uscio, scardinarlo, piombare su quel letto, e
dividerli. Era una ossessione, che gli cresceva coll'impeto di una
pazzia.
«A che cosa giuochiamo, signor Mario?» si volse la
Teresa. «Giuochiamo tutti e tre a calabresella, così ci
sta anche la Veronica: due centesimi la partita. Il vino ce lo passa
l'avvocato. Va a prendere la carte, Veronica; tanto, noi tre, non
dormiamo ... Crede lei che dormiranno?» esclamò sopra
altro tono accennandogli l'uscio, dietro al quale erano scomparsi
l'avvocato e la signora Annetta.
Mario trasalì, ma la Teresa rivoltasi alla porta della
cucina, per aspettare che la Veronica tornasse colle carte, non se
ne accorse.
«Si metta qui, signor Mario; lei già non ha sonno.
Scommetto che nemmeno la signora Annetta ne ha ancora...» E il
suo viso largo e grasso di donna vecchia, per la quale l'amore non
ha più pudori, rendeva per Mario più opprimenti quelle
parole. Per rimettersi tracannò d'un sorso un gran bicchiere
di vino. Non avrebbe voluto giuocare per tutto l'oro del mondo, ma
la Veronica contava già sulla tavola il mazzo delle carte,
per constatare se ve ne mancassero; le carte erano unte.
«Diciamo piano» mormorò la Veronica.
«Adesso,» ribatté maliziosamente l'altra
«possiamo parlare ancora. Anche lei piglierà moglie,
signor Mario, una bella donnina come la signora Annetta e
avrà dei bambini belli. Il signor avvocato ...»
Ma la Veronica, che aveva inteso altre volte quell'accusa,
intervenne per difenderlo.
«Non è ancora vecchio, la signora Annetta piuttosto
...»
Mario, colle mani tremanti, prese il mazzo delle carte e, per
troncare il discorso, disse ruvidamente:
«A che cosa volete dunque giuocare?»
«A calabresella, un centesimo alla partita.»
«Due»
Si accordarono sui due centesimi.
La partita incominciò. Ma il signor Mario non aveva la testa
a segno. Il suo pensiero soffriva dentro l'altra camera, assistendo
alla inevitabile scena di quei due, abbandonati l'uno a fianco
dell'altro alla suggestione voluttuosa di quel pomeriggio. Le carte
gli tremavano nelle mani, mentre gli occhi gli correvano
irresistibilmente a quell'uscio chiuso, cui le due donne voltavano
le spalle.
«Non sa dunque giuocare?» strillò la Teresa ad un
suo svarione, che decideva della partita. «A che cosa
pensa?»
L'altro si scosse. L'irritazione gli cresceva come un caldo, che gli
salisse sotto la sedia dal pavimento, fra quella blanda frescura
dell'andito, nella pace di quella luce filtrante dai vetri sudici
delle lunette sopra le due porte. Fuori, il sole doveva avere tutte
le vampe del meriggio. Alla terza partita Mario confessò di
non saper giuocare, pagò generosamente i sei centesimi, e
andò a gettarsi sul divano presso l'uscio, dicendo di voler
piuttosto sonnecchiare. Le due donne allora si attaccarono a scopa.
Egli ascoltava, col viso al muro e le labbra strette rabbiosamente.
In quella eccitazione di tutti i sensi gli pareva d'intendere, fra
lo scricchiolìo del letto, il soffio faticoso di una forte
respirazione; vedeva dentro quella camera buia come se fosse
inondata di sole, torcendosi nella gelosia senza che la sua ragione
vi trovasse nulla a ridire. Colla ferocia delle passioni, che si
dilaniano, la gelosia gli mostrava tutti gli atteggiamenti di quei
due, gli sussurrava le loro parole, i sospiri tronchi di lei, gli
mostrava le sue moine, e quel pallore ch'egli le conosceva, quando
gli occhi le diventavano smorti e le labbra le tremavano in un urlo
soffocato.
Egli aspettava angosciosamente quell'urlo, che si sentiva ancora
nella memoria, come il grido supremo di tutta la propria
felicità.
«Scopa!» strillò trionfalmente la Veronica.
La Teresa si lasciò scappare una esclamazione sguaiata.
Mario ascoltava sempre, dicendosi che non udiva nulla, e non
pertanto parendogli di udire, volendo udire quell'urlo, che gli
avrebbe dato la sensazione della morte.
Poi la Teresa lo chiamò, perché giudicasse fra loro
due il valore della primiera.
«Non so giuocare, ve l'ho pur detto» rispose
villanamente, e andò fuori sul prato, sbattendo la porta. Il
sole era sempre così ardente, le cicale cantavano
instancabili, l'aria bolliva sui campi. Quell'immenso calore gli
fece bene; passò dietro il casino, cacciandosi per un
sentiero che saliva il colle.
Aveva bisogno di muoversi, di bestemmiare ad alta voce, stancando in
qualche violento esercizio la passione, che lo sconvolgeva. Ma
un'altra voluttà, un bisogno rovente di amore, gli venivano
da quella campagna in fiore, dalle foglie, dagli alberi assorti nel
sole, dalle stoppie riarse, dai prati, ove il fieno falciato si
essiccava vaporando i più dolci profumi, dai peschi, sui
quali i frutti avevano sorrisi sanguigni come quelli del rubino.
L'ombra stessa era piena d'inviti. I piccoli soffi del vento
parevano un respiro soffocato, che uscisse dal secreto di tutto quel
fogliame, ove gli uccelli nascondevano i propri amori.
In cima del colle sedette all'ombra di una quercia.
Le ragazze scendevano già per andare alla funzione dei
vespri, vestite a festa, rosse e sudanti, ridendo; qualche
giovanotto, colla giacca buttata sopra una spalla e la camicia
bianca, le seguiva celiando colle parole e colle mani.
Ma gli uni e le altre gli parevano brutti al confronto della signora
Annetta.
Il sole si manteneva alto quasi immobile.
Quanto starebbero in letto? Dormiva ella? Pensava a lui? Sognava?
Egli invece tornava a sognare irresistibilmente di lei in quella
camera, vicino a quell'uomo grasso che russava, e che essendo suo
marito, aveva il diritto di farlo. Ella gli permetteva,
naturalmente, tutto. Ma allora che cosa rimaneva quell'altro amore,
così bello di gioventù e così profondo di
passione, quel delirio di sensi e di anima, nel quale tutto il mondo
spariva? Adesso gli riprendeva la smania di tornare al casino per
vedere se fossero alzati, pur sapendo che era ancora troppo presto.
La vista della campagna gli divenne improvvisamente odiosa; era una
solitudine, nella quale gli bisognava ripiegarsi sopra se stesso.
Gli parve inesplicabile che gente di mondo potesse vivere per mesi
alla campagna, nella monotonia di una decorazione sempre la
medesima, coll'impossibilità di barattare un'idea. Che cosa
fare in campagna, se non mettersi a letto per ammazzare il tempo? E
l'immagine della signora Annetta gli ricompariva nuovamente al
pensiero, con quel sorriso di bimba felice. Ella non immaginava una
sola delle sue sofferenze di quell'ora. Tutte così le donne;
le più sensibili non oltrepassano le proprie sensazioni.
Quindi si provava ad odiarla per la sua spensieratezza e
quell'allegria, che la faceva svolazzare di cosa in cosa,
lasciandosi prendere a tutti gli incanti, e sfuggendo subito
nell'attrazione di altri fascini.
Guardò l'orologio; non segnava che le cinque. Dovevano essere
ancora a letto. Tornò ad alzarsi, si allontanò ancora
verso il sole, che cominciava a declinare. La campagna si ammolliva
sotto ombre sempre più grandi, s'intendevano meglio cantare
gli uccelli, il coro delle cicale s'interrompeva a quando a quando.
Le contadine, più frequenti pel sentiero, passavano salutando
curiosamente.
Finalmente ritornò. Prima d'arrivare al casino
s'imbatté nella Teresa, che trascinava l'avvocato a visitare
la vacca, dovette seguirli, ma non volle a nessun patto entrare
nella stalla. La Teresa aveva preparato per la signora Annetta il
latte rappreso, una ghiottoneria da bambini, impolverato di
caffè.
Ella lo mangiò sul prato, entro una scodella verde, tutta
felice, col suo bell'appetito di donna sana dopo il sonno. Aveva la
carni fresche, riposate, coi grandi occhi chiari, più dolci
di prima. Egli guardava con una meraviglia stizzosa quella
tranquillità inconsapevole.
Ma ad una sua occhiata ella trasalì. La Teresa e la Veronica
le stavano intorno, l'avvocato finiva di fumare l'ultima pipa,
sdraiato sull'erba come un contadino. Mario, in piedi, non parlava,
quasi dimenticato.
Poi venne l'ora della partenza. La Veronica se ne andò, sopra
un biroccino, coll'asino del podere e una ragazza; la signora
Annetta sparì nelle stanze del piano superiore. Egli dovette
accompagnare l'avvocato nella stalla per aiutare il vecchio
Girolamo, che attaccava il cavallo da nolo, col quale erano venuti
la mattina.
Ma, profittando di un momento, poté rientrare nel casino e
cacciarsi nella camera da letto. Voleva vedere, una curiosità
ignobile e violenta lo spingeva: senonché la Teresa vi finiva
appunto di fare il letto, e si volse meravigliata.
L'altro s'arrestò interdetto.
«Che cosa cerca?»
«Voi,» rispose dopo un momento d'imbarazzo: «il
signor avvocato vi ha nominato.»
Per fortuna la signora Annetta, che non terminava mai d'acconciarsi,
trattenne tanto la Teresa da farle dimenticare quella falsa
chiamata.
Finalmente partirono fra i saluti della Teresa, di Girolamo e dei
contadini accorsi sul prato; guidava l'avvocato, Mario sedeva
dirimpetto alla signora Annetta, sul sedile di contro, voltando la
schiena al cavallo. Aveva le gambe incrociate colle sue, ma non
gliele stringeva. Il vespro scendeva mollemente dai colli con un
refrigerio di ombre e un sussurro e una blandizie di vento, che
commoveva tutte le piante. Egli sulle prime ingrugnito, cogli occhi
bassi, affettava di non guardarla; ella si era abbandonata sullo
schienale del carrettino, col volto in alto e gli occhi natanti
nell'ombra sotto il grande cappellino di paglia pieno di fiori, e i
capelli biondi, a riccioli, che tremavano leggermente come una
nebbia dorata. La sua posa era di una eleganza squisitamente
voluttuosa; pareva stanca, colle braccia inerti, il seno meno
turgido, assopita nella tenerezza della sera imminente. Poi si
guardarono. Egli le strinse un ginocchio: ella velò lo
sguardo senza chiuderlo, cedendo il corpo al dondolamento del
carrettino, come nella prima arrendevolezza del sonno.
Presso alla città la gente vestita a festa riempiva la
strada.
Ella si raddrizzò, e gli disse quasi seccamente:
«Signor Mario, ella può scendere qui. In tre sopra un
carrettino faremmo ridere.»
L'avvocato sorrise bonariamente di questa vanità, rispondendo
al saluto di Mario già disceso, e che si rivolgeva fra un
gruppo di passanti fermi a guardare.
II
Il signor Mario Zanetti era entrato da sei mesi nello studio di
Filippo Buonconti, avvocato illustre in tutta la provincia per la
probità dell'ingegno e l'esattezza laboriosa, colla quale
disimpegnava ogni processo. La piccola città cominciava ad
inorgoglire di lui, dacché recandosi a Firenze o a Bologna,
lottava sovente con vantaggio contro le maggiori celebrità
del foro italiano.
Mario, presentandosi da solo, era stato accolto a braccia aperte.
Suo padre, mediocre ingegnere, morto anzi tempo lasciando la vedova
in dolorose ristrettezze, aveva diviso la vita d'Università
col giovane Filippo Buonconti, e gli era poi rimasto legato della
più salda amicizia. L'orfanello, cresciuto nella
povertà, sotto la sorveglianza avara e meticolosa della
mamma, conservatasi vedova malgrado la viva giovinezza del
temperamento, era diventato un bel giovane, freddo di costumi, un
po' sofferente della propria posizione, abituato allo studio,
sebbene scarso d'ingegno; ma una voglia intensa di salire lo
sorreggeva fra tutte le debolezze inevitabili nella gioventù.
Aveva vissuto modestamente all'Università senza troppo
abbandonarsi agli amori e resistendo ai vizi; amava sopra tutti se
medesimo, e preferiva ad ogni compiacenza quella di vestire con
eleganza, passando agli occhi di coloro, che non lo conoscevano
bene, per un signore.
Nella vita di provincia egli recava, con una sufficiente
serietà di carattere, la necessaria correttezza di condotta
per farsi presto stimare; parlava abbastanza bene, affettando una
grande indifferenza per la politica, che occupa l'oziosità di
tutte le conversazioni. La mamma, orgogliosa nella sua buona
riuscita, lo sorvegliava ancora come da fanciullo con incessanti
sollecitazioni, perché si facesse strada nel mondo a
guadagnarvi una agiatezza invidiata.
Così egli rese presto nello studio qualche servigio,
specialmente per la sua disposizione alla pratica subdola e sottile
della procedura, nella quale i grandi avvocati riescono
difficilmente. Il signor Filippo lo prediligeva. L'altro giovane di
studio entrò nella magistratura per allontanarsi dalla
città, dopo una dolorosa delusione di amore; un terzo, che vi
capitò, non seppe durarvi per la sbrigliatezza dei costumi e
la trascuranza di ogni affare, anche il più urgente.
Mario vi rimase solo. Era già una posizione cospicua per un
principiante, dacché l'avvocato, generoso per indole e
piuttosto scienziato che professionista, gli abbandonava i guadagni
di tutte le piccole cause. Quindi la vita gli scorreva facile fra la
benevolenza del pubblico e l'invidia degli amici, che il suo
sussiego in quella improvvisa fortuna irritava. Egli invece parlava
dell'avvocato come di un uomo già al colmo della gloria, e
del quale la scelta di un aiutante, cadendo su lui, aveva
naturalmente un valore profetico di avvenire.
L'avvocato, vissuto sino quasi a cinquant'anni nel lavoro, aveva
preso moglie per contentare la mamma; ma inesperto dei pericoli di
gioventù, e nella forte coscienza della propria
virilità, s'era innamorato della signora Annetta, figlia
unica di un capitano in ritiro.
Ella sulle prime aveva mostrato di amarlo, presa al fascino della
sua parola e all'orgoglio di diventare una delle signore più
importanti della città. La sua vita di fanciulla, viziata
dalla tenerezza condiscendente di un vecchio padre, si era svolta
nella insignificanza delle abitudini domestiche, senza nessun
alimento sostanzioso per lo spirito e nessuna prova corroborante pel
carattere. Naturalmente dolce ed allegra trovava tutto facile,
adorava i vestiti e sorrideva ad ogni momento, intenerendosi fino
alle lagrime; mentre il cuore le rimaneva lietamente invulnerabile
frammezzo ai dolori, che riempiono la vita e la circondano,
irrompendo da quella degli altri.
L'avvocato aveva dovuto ingentilirsi in quel matrimonio, ma lo aveva
fatto senza sforzo sotto le festanti civetterie della moglie,
pregustando quasi una gioia paterna nell'accontentarla in tutte le
fantasie. L'antico appartamento s'era d'un tratto rimodernato con
lusso pretensioso e volgare, del quale il suo istinto di uomo
d'ingegno si accorgeva, ma sul quale taceva per non intorbidare la
gioia esuberante della signora Annetta, per tutto quel primo anno
occupata nello studiarne e nel cangiarne le disposizioni. Quando
l'arredo fu compiuto, ella diede una serata d'onore, che fu tutta
per lei, la prima e più importante della sua vita,
perché ne parlava ancora con entusiasmo d'orgoglio.
Però, se l'avvocato aveva buttato in quel capriccio giovanile
di lei tutti i propri risparmi, un quarantamila lire, aveva saputo
bonariamente resistere alle sue pretese di riforme nella villa, che
avrebbero dovuto diventare così la conseguenza e il
coronamento del loro nuovo lusso. L'Annetta insisté qualche
tempo, poi s'arrese, per quella sua facilità ad evitare ogni
pena.
Vivevano liberi, senza contrarierà di parenti. Ella faceva
molte visite, s'interessava alla beneficenza, frequentava il teatro
nell'unica stagione dell'inverno, credeva di essere la signora
più elegante della città, mentre non era che una delle
più belline e delle più stonate, ma trionfando dei
propri difetti col difetto maggiore di una leggerezza incantevole.
La confidenza ottenuta presto dal giovine Mario nella famiglia vi
modificò molte abitudini; vi furono più gite in
campagna, più serate al teatro, più passeggiate al
giardino pubblico, e più lunghe soste al gran caffè
della piazza nelle notti di festa quando suonava la banda cittadina.
Egli li accompagnava spesso, ma il suo contegno era così
misurato che da principio non ne nacquero chiacchiere. Gli amici lo
dicevano un avaro vanaglorioso, non d'altro occupato che di far
fortuna al più presto. Si sapeva che le donne non avevano mai
avuto presa su lui.
La signora Annetta soddisfatta di tali modi, trovando in quella
compagnia di un amico altri motivi per passare il tempo, a poco a
poco si punse alle asprezze latenti del suo carattere. Qualche volta
si sentiva quasi offesa che non la sentisse così bella, come
le sembrava di essere e tutti mostravano di credere quando compariva
in pubblico. Ella s'ignorava ancora. Nella sua affezione per
l'avvocato non aveva ancora provato nessuno di quei trasporti
deliranti, che sono quasi sempre per la donna la scoperta di se
medesima. Ma qualche cosa dormiva sotto la sua fiorente
gioventù, una bramosia di godimenti sconosciuti, un bisogno a
grado a grado meno inconsapevole di entrare nella zona torrida della
passione, ove le vite si distruggono alla fiamma di un altro sole, o
n'escono così temprate che nulla può quindi
corroderle. Quel medesimo studio incessante d'eleganza le riusciva
senza scopo; l'avvocato o non se ne accorgeva, o ne sorrideva come
di una bambineria, che finirebbe collo stancarla, mentre
compiacendosene talvolta sensualmente, non poteva ripagargliene
tutte le cure e giustificarne le intenzioni recondite.
Mario cominciò col darle piccoli consigli; s'intendeva di
mode, aveva un certo buon gusto. Ciò restrinse la loro
intimità. Egli la penetrava insensibilmente nella vita, aveva
molti secreti delle sue voglie, la consolava di qualche dispetto,
mentre rimanendo così indifferente alle seduzioni della sua
bellezza, la mortificava nel senso più delicato della
vanità femminile. Allora ella prese a civettare con lui,
eccitata da un solletico di rappresaglia, ma sorprendendosi talora a
pensare che il giuoco andava troppo oltre, perché Mario era
tutt'altro uomo dell'avvocato. Egli accettava quel torneo,
lasciandosi sfuggire certe occhiate piene di troppe cose, o cedendo
a subitanee cortesie, che varcavano i limiti della domestichezza.
Poi si guardavano entrambi, egualmente sospesi nel medesimo
sentimento dubbioso, e dopo s'accorgevano di essersi più
vicino di prima.
Mario infatti cominciava ad innamorarsi davvero, malgrado quei
motivi d'interesse scoperti in lui dai compagni. Siccome una
passione per la signora Annetta poteva disordinare tutta la sua
vita, decise di non spingere agli estremi quella corte, mentre ella
non andrebbe forse mai sino in fondo, per la leggerezza stessa della
propria natura. Difficoltà morali di riconoscenza verso
l'avvocato, Mario non ne sentiva; in quello studio intendeva solo a
far carriera, e quanto alla signora Annetta, era persuaso che presto
o tardi, forse più tardi che presto, quando l'avvocato
comincerebbe a declinare, naturalmente, ella ancor giovane, si
rifarebbe del deperimento del marito con qualche amante.
Era una conseguenza dei costumi, una predestinazione di tutti i
matrimoni dispari.
Se gli avessero lasciato scegliere, avrebbe preferito ottenere
piuttosto la posizione dell'avvocato che la moglie. In fatti la
riputazione dello studio si dilatava. Nelle ultime elezioni
municipali l'avvocato era stato eletto con votazione quasi unanime a
consigliere, poi era entrato in giunta per uscirne, poco dopo,
presidente di tutte le opere pie congregate. Una grossa causa sopra
una cartiera, costrutta nel secolo passato sul canale Naviglio, ed
ora abbandonata, in seguito ad un aggrovigliamento inestricabile di
litigi e di successioni, gli era capitata in quei giorni per
aumentare la sua influenza. Una potente società inglese era
pronta a comprare la cartiera, trasformandola in un grande opificio
moderno, nel quale avrebbero potuto lavorare duecento operai. Ma
l'intrigo delle liti, che fraudolenza di proprietari falliti e
insidie di legulei avevano reso spaventevole ad ogni acquirente,
doveva impensierire anche un giurista della sua forza. Però,
vincendo quella causa, avrebbe forse guadagnato un cinquantamila
lire, e il voto di tutta la città per qualsiasi deputazione.
Nei caffè, nelle farmacie, da per tutto non si parlava
più che della gran causa; molti de' suoi clienti e buon
numero di ammiratori affermavano già che ne uscirebbe
trionfante. Egli invece, chiuso nel suo gabinetto verde, preparava
il disegno d'attacco colla pazienza scaltra di un vecchio generale.
La signora Annetta, esaltata da questo nuovo fantasma di fortuna, si
rifaceva su Mario del silenzio del marito, e andava ripetendo colle
amiche spiegazioni giuridiche da scandalizzare un usciere.
Quando entrava nello studio, e il marito non c'era, si fermava in
piedi dinanzi a Mario; poi chiacchierava riempiendo quella larga
stanza di tutto lo svolazzo dei propri abiti, scrollandone il
silenzio colla sonorità delle risa cristalline. Allora,
generalmente, in casa era sola; la Veronica cucinava, la cameriera
era uscita per qualche commissione. Ella andava nello studio
così, senza sapere il perché. Mario ne provava un
solletico frizzante di compiacenze vanitose; cominciava a darsi
alcune arie di grande avvocato, e quando ella l'interrompeva con
qualche sciocchezza, ne ridevano, tornavano a scherzare,
infiammandosi reciprocamente.
Ma se udivano il passo pesante dell'avvocato per le scale, ella
sfuggiva, dicendo con sorriso più malizioso di quanto forse
avrebbe voluto:
«Mi sgriderebbe.»
Gli scrivani dell'anticamera, vecchi ambedue, se ne erano accorti.
Andrea, il più anziano, affettava da qualche tempo maggior
riserbo col signor Mario, come per fargli sentire la propria
disapprovazione.
Mario lo aveva compreso.
Un giorno che la signora Annetta irruppe saltellando nello studio,
egli si mise un dito sulla bocca, accennando coll'altra mano alla
porta dell'anticamera:
«Sentono.»
Ed alzandosi la respinse verso l'altro gabinetto verde. Ella,
confusa quasi da una improvvisa rivelazione di colpa,
arrossì, poi volle resistere, ma l'altro incalzava colla voce
sommessa, spingendola lievemente per una spalla. All'uscio socchiuso
si strinsero, ella traballò scivolando sul tappeto del
gabinetto; egli la sostenne tirandosela sul petto. E allora, come se
qualche cosa fosse scoppiata in loro, Mario l'aveva abbracciata
improvvisamente, senza parlare, senza che ella resistesse, ed
afferrandole con una mano il mento, le aveva dato un bacio sulla
bocca.
Ella era fuggita.
Quando si rividero, qualche ora dopo nella sala da pranzo, rimasero
entrambi imbarazzati, quasi egualmente scontenti di se medesimi: ma
ella si rimise presto, mostrandosi più premurosa e
carezzevole per il marito. Nei giorni seguenti Mario
l'aspettò indarno nello studio; invece la scorse alla
finestra sulle quattro, l'ora nella quale era solito ad uscire. La
signora Annetta lo salutò amabilmente, come sempre. Egli ne
rimase contrariato. La sua vanità soffriva, poi s'accorgeva
di essere oramai innamorato. Per due giorni si assentò, ma
l'avvocato gli scrisse un biglietto per pregarlo di tornar subito,
perché lo studio rigurgitava di affari. Egli venne più
presto la mattina, e si tuffò nel lavoro. La signora Annetta
comparve nello studio, mentre l'avvocato discorreva con lui di una
pratica importante, ma invece di disturbarli, secondo il solito, si
mise in un angolo presso la finestra a sfogliare un giornale
illustrato.
Mario la guardava di sfuggita.
L'avvocato, che l'aveva quasi dimenticata nel calore di quella
spiegazione, esclamò improvvisamente: «Saresti
deliziosa, se ti mantenessi sempre così quieta.»
«Allora me ne vado.»
Poi ricominciò, come prima, le visite allo studio, anche
quando il marito non c'era. Vi arrivava sempre con qualche nuova
raffinatezza di eleganza, ma non alludeva mai a quella scena
passata, quasi non fosse avvenuta; invece provava un piacere secreto
di monello in contrabbando, sentendosi sorvegliata dal vecchio
Andrea, che appena l'udiva nella stanza, moltiplicava i pretesti per
venirvi.
Mario mutava d'umore con lei. Si mostrava troppo serio, quasi
oppresso dal lavoro, che quel suo cicalìo impediva, poi
ingrugnato, offeso della indifferenza, colla quale ella mostrava di
togliere ogni valore a quel bacio. Aveva dei silenzi impermaliti, da
cui usciva con nuove cortesie galanti, bruscamente interrotte, se
ella non ne coglieva le intenzioni.
Una volta ella si lasciò da capo prendere la mano ridendo, ma
l'altro non osò spingere oltre.
Quando il vecchio Andrea entrava senza bussare, per chiedere a Mario
una spiegazione spesso inutile, il buon uomo con quel berretto
ricamato di ciniglia e d'oro, ancora pulito dopo tanti anni, e colle
due fodere di mussolina nera sulle maniche del soprabito, faceva uno
strano contrasto colla loro gioventù e colla eleganza dei
loro vestiti. La signora Annetta gli sorrideva affabilmente, senza
impaccio; Mario invece qualche volta tradiva una sorda irritazione,
e il vecchio li guardava di sopra agli occhiali tondi a stanghette,
che gli cadevano melanconicamente sul naso.
Egli pure era stato infelice nella propria casa, con una donna
cattiva e spendereccia, che finalmente era morta dopo averlo
rovinato. Quel matrimonio dell'avvocato colla signora Annetta lo
aveva quindi giudicato una follia, presto o tardi destinata a
qualche sciagura delle solite. Era inevitabile. Il vecchio Andrea
non pensava nemmeno lontanamente a intromettersi in quella lotta, ma
non poteva assistere impassibile al dramma, che si preparava sotto i
suoi occhi; anzi, nella propria esperienza di mondo, credeva
già tutto perduto per l'avvocato. A che pro avvisarlo? La
signora Annetta andrebbe a cadere con un altro.
Quel giorno ella promise di ricamargli un'altra berretta.
Poi, quando lo intesero risedersi pesantemente sulla larga poltrona
di paglia, nell'anticamera, si guardarono; il giudizio che egli
faceva di loro, e che essi aveano simultaneamente sentito ne' suoi
atti, li riuniva daccapo. Ogni resistenza sarebbe stata inutile;
diventarono seri. Qualche cosa di greve, quasi di doloroso, cadde
loro sulla coscienza. Discendendo improvvisamente, rapidamente in se
stessi, si accorsero di amarsi ancora troppo poco, per essersi
così irrevocabilmente compromessi come amanti. Perché
dunque? Ma l'avvocato era ben assente dalla loro preoccupazione. Non
sapendo più che dirsi, Mario voltò macchinalmente le
pagine del libro, che teneva in mano; ella giuocherellava, all'altro
scrittoio, con un bastoncino di ceralacca rossa.
Questa volta pure ella fu la più disinvolta; andò alla
finestra, guardando nella strada dai vetri qualche momento, poi gli
ripassò davanti colla solita fisonomia. Mario si era alzato
respingendo la sedia; ella si torse all'uscio con un sorriso
inesprimibile degli occhi, significandogli di essere prudente, di
non si muovere.
Finalmente accadde quello, che il vecchio Andrea aveva previsto.
L’avvocato era andato a Firenze per discutere una causa di
fallimento e a casa perdette la moglie.
Senza che se lo fossero detto, aspettavano entrambi una sua assenza.
Mario, quella mattina, arrivò prima del solito allo studio;
l'avvocato partì col treno delle nove, la signora Annetta era
ancora a letto. Per due giorni Mario resterebbe padrone dello
studio, potendovi tornare anche di notte, perché il lavoro vi
rigurgitava. Ma, quasi tutto dovesse contrariarlo in quella
circostanza fortunata, la fila dei clienti non s'interruppe sino a
dopo le tre pomeridiane. Egli li riceveva nel gabinetto verde,
seduto sulla medesima poltrona dell'avvocato, provando un'acre
voluttà a dare così i propri responsi, come se
cadessero dalla medesima altezza. L'altro scrivano era uscito, non
rimaneva che il vecchio Andrea, il quale pareva diventato un
usciere. Era sul finire dell'inverno, una giornata umida e stanca
pel caldo dello scirocco. Quando Mario si sentì finalmente
libero, in fondo a quel gabinetto verde, smise di prendere degli
appunti e si pose a pensare; era irrequieto. Qualche cosa doveva
succedergli d'imminente, forse d'irreparabile nella vita; provava
quella malinconia precorritrice dei disastri, una prostrazione
inesplicabile, nella quale a quando a quando sorgevano voci liete e
lontane fra soffi tepenti, che gli passavano nel sangue. Non poteva
seguire un ragionamento, fissarsi in una immagine.
Ma una sicurezza irragionevole gli faceva aspettare di minuto in
minuto la signora Annetta.
Infatti ella entrò, vestita di un abito scuro a strascico,
appena scollato, e con la scollatura riparata da un'altra frappa
già fuori di moda. Lo spaccato interno delle maniche era in
velluto granatino, una orlatura a ruchettes del medesimo colore
correva in giro sotto la sottana; sui capelli biondi, rialzati
violentemente sulle orecchie e attorcigliati sulla nuca, aveva una
specie di tocco in merletti bianchi, stravagante e stonato. Due alti
stivalini di raso nero le uscivano di sotto a quella gonna pesante,
e finivano di renderla quasi ridicola.
Era allegra.
Mario ne fu meravigliato. Ella aveva un mondo di cose da dire. La
sera prima era stata ad una seduta del comitato di beneficenza pel
resoconto delle cucine economiche; la contessa Letizia aveva voluto
parlare, e tutti ne avevano sorriso. Ella ripeté alcune frasi
di quel discorso, esagerando nei gesti, ma ridendo di un riso, nel
quale l'altro sentiva lo sforzo. Poi Mario diventò
così scuro che l'Annetta esclamò improvvisamente:
«Che cosa avete?»
Erano in piedi, presso lo scrittoio.
«Che odore!» disse Mario, fiutandole l'aria al disopra
della testa.
«È acqua di miele, non adopero altro.»
Ella aveva abbassata la testa. Mario le prese la mano, l'altra lo
lasciò fare, quasi la cosa non avesse significato, ma si
riscosse subito sotto la sua pressione. L'uscio del gabinetto era
socchiuso. Mario andò bruscamente a chiuderlo, voltandole le
spalle, e quello bastò perché tutto fosse già
avvenuto. Uno smarrimento la colse: perché era venuta?
Perché l'avvocato se n'era andato? Che ora era? Lo studio
vuoto le parve immenso nel silenzio; sugli scaffali i fascicoli,
colle copertine colorate riposavano tranquillamente sopra una
scansia in vecchio noce; sei grandi file di libri rilegati, coi
titoli in lettere d'oro, rilucevano quasi gaiamente, malgrado la
gravità del loro peso e della loro natura.
Improvvisamente si sentì così sola colla propria
gioventù, nella quale nessuno era venuto ad immergersi, che
si strinse spaurita dentro l'abito. In ventidue anni non aveva
ancora provato una vertigine, nessuno di quegli slanci, che gettano
la vita al di là di noi stessi. Mario l'abbracciò; non
parlavano, egli tremava. L'ombra della tenda li avvolgeva. Egli le
diede un bacio sul collo, stringendola furiosamente.
«No» ella balbettò, sentendosi precipitare come
sopra una china; ma egli la spinse, la rovesciò sulla stessa
poltrona, nella quale quel giorno si era tenuta cheta sfogliando un
giornale illustrato. In quel momento un'altra forza l'investiva e la
sommergeva. Invece di resistere, ella non volle più che
soccombere bene, per quell'istinto grazioso della femmina, che sa di
avere nella propria debolezza il secreto di tutte le rivincite. Non
le rimaneva che una torbida preoccupazione del vestito e della
pettinatura schiacciata contro la spalliera della poltrona, e una
paura di non parere assolutamente bella, perdendo il proprio fascino
in quella prova suprema, contro la quale ogni resistenza sarebbe
stata indarno, e che la natura serba a tutte le donne.
Poi, fra tutte queste minuscole sensazioni, un'altra si fece largo,
un'onda di luce e di caldo, quasi un'improvvisa veemenza dell'estate
in quel vespro invernale, che le annegò la coscienza, mentre
il suo corpo sopportava una violenza troppo precipite per potervi
ancora rispondere, ma nella quale ella sempre più sottomessa
sentiva l'avvicinarsi di altre voluttà, cogli occhi socchiusi
sotto una pioggia di baci anelanti.
La sua ultima sensazione era stata una grande penna bianca, sorgente
dal vecchio calamaio in maiolica sulla scrivania. Quando
riaprì gli occhi, vide la mamma dell'avvocato che la guardava
al disopra dell'altra poltrona, fra i due scaffali. La fisonomia
severa della vecchia sembrava più accigliata. In quel
ritratto era vestita quasi monasticamente, con una bavarina al collo
e i capelli radi, bipartiti sulla fronte bassa e dura.
L'altro era già tornato alle carezze, portato a volo da un
impeto di passione, nel quale riuscì finalmente a
travolgerla.
Il vecchio Andrea aspettava Mario nell'anticamera.
«Se lei torna stasera, debbo venire anch'io?» gli
domandò scrutando l'animazione della sua fisonomia.
A Mario questa domanda parve ironica.
«Chi ti ha detto che tornerei stasera?»
«Lei stesso stamattina, quando è entrato.»
Mario si ricordò, ma lo sguardo di Andrea diceva ben altro;
quasi arrossì e, mutando tono:
«Non tornerò, ti ringrazio, vecchio Andrea.»
L'altro andò lentamente a staccare dall'attaccapanni il
pastrano.
«Vuol lasciarmi la chiave dello studio? domani mattina
verrò più presto. Ho da copiare l'ultima parte della
conclusione nella causa Ciampoli - Rocchi.»
Mario gliela diede.
Ma la sera il vecchio Andrea sulle dieci, uscendo dal piccolo
caffè ove si recava a fare la partita, invece di andare
dritto a casa, rifece due volte il corso Garibaldi, e vide la
finestra del gabinetto illuminata. Capì che erano
imprudentemente là dentro.
«Anche lui!» esclamò, pensando tristamente
all'avvocato.
Quando questi tornò da Firenze, allegro della causa vinta,
recando alla moglie un magnifico orologio con catenella d'oro,
questa ne fu così sconvolta dalla gioia, che entrò dal
gabinetto nell'altra stanza per mostrare bambinescamente il dono a
Mario. Egli impallidì; sopraggiunse l'avvocato. Mario
riabbassò il volto sul fascicolo, come uno scolaro colto in
flagrante, e la signora Annetta scappò gittando al marito,
che dovette riderne, questa strana risposta:
«Non gli piace.»
Ma da quel giorno cominciarono fra loro le scene.
Egli era geloso del marito, sebbene questi non mostrasse per la
moglie che un'affezione di padre, necessariamente riscaldata da
qualche fiamma sensuale. Quell'uomo l'offendeva in tutto; la sua
superiorità d'ingegno e di dottrina era così
schiacciante, che a Mario non avveniva quasi mai di aver ragione, e
quelle poche volte solamente sopra un particolare di procedura, del
quale dovevano entrambi sorridere. Ma più di questa
eccellenza professionale, che il lungo esercizio avrebbe potuto
spiegare senza troppa lode, gli pesava la stima, onde lo sentiva
circondato. L'avvocato, largamente colto, parlava bene di tutto, e
dacché aveva preso moglie, forse per una inconsapevole
intenzione di rendersi amabile, il suo spirito era diventato
più fine, e così condiscendente che la signora
Annetta, anche comprendendolo solo a mezzo, lo amava sinceramente, a
proprio modo.
Mario non sapeva come lottare contro questi sentimenti di lei. In
quella prima passione amava l'Annetta con tutto il trasporto di un
temperamento serbatosi incolume negli anni dell'Università,
ove la maggior parte si esauriscono; ma avrebbe voluto soprattutto
essere amato. Questo bisogno delle anime giovani diventava in lui
una necessità di tutto lo spirito. Senza un affetto
incondizionato, maggiore di quello stesso che provava per lei, non
gli sembrava nulla essere l'amante di quella donna. Una semplice
relazione galante con una signora, come tante volte aveva
desiderato, non gli bastava più, perché vi sarebbe
sempre apparsa la sua inferiorità davanti al marito. Egli
voleva l'impero dell'anima e del corpo, il possesso, quasi la
proprietà sulla donna per non soffrirvi umiliazioni. V'era
dell'avarizia nella sua gelosia, quell'ebbrezza di tirannia
proprietaria, che prende spesso ai vecchi rendendoli gelosi dei
figli, quando stanno per sostituirsi loro nel governo della casa.
Ma attraverso questa invidia dolorosa si agitavano i reclami del
senso.
In sostanza quella donna apparteneva all'altro di giorno e di notte;
l'avvocato poteva accarezzarla, ne riceveva le carezze e quel
cicalìo confidenziale, la più deliziosa delle sue
seduzioni, quegli abbandoni da bambina, che si rifugia ogni tanto
sotto la protezione di uno più forte, amandolo col trasporto
effimero e soave della paura. L'avvocato era tutto per lei. Ella ne
insuperbiva per i complimenti che ne riceveva in pubblico come sua
moglie, e per il lusso, col quale la rendeva felice. E se non
l'amava appassionatamente, giacché il corpo non le aveva mai
vibrato al contatto delle sue mani, né l'anima, pur
subordinandosi alla sua più grande, vi si era mai perduta in
un'estasi di adorazione, ella non ne sentiva né rimorso,
né meraviglia. L'avvocato era per lei un padrino, col quale
la legge le permetteva tutte le dimestichezze. Cedendo a Mario non
ne aveva ben saputo il perché; forse era stata un'attrazione
incosciente delle loro due gioventù, una conseguenza della
loro reciproca civetteria, della quale si pentiva fugacemente senza
averne la coscienza sconvolta. Era stato così, perché
era stato così: non si sa mai come certe cose accadano. Poi
amava anche Mario senza preferirlo all'avvocato. Era un altr'uomo e
un'altra cosa; vicino a lui, sotto i suoi occhi cilestri, dentro ai
quali bollivano delle fiamme, ella si sentiva riscaldare, e
nullameno arrendendoglisi rimaneva come fredda.
E lo era; ma invece a lei pareva di trasformarsi tutta.
«Non t'infiammi dunque mai, tu?» le aveva gridato una
volta, stringendosela quasi rabbiosamente sul petto.
Ella, che si divertiva di quei trasporti senza poterglieli rendere,
lo aveva guardato sorridendo, e quel sorriso lo aveva ferito.
Mario, ingannato dalla sua luminosa floridezza, si irritava per
l'equilibrio del suo temperamento così poco sensibile.
Perché gli aveva dunque ceduto? Malgrado la morale rilassata
di tutti i suoi pari, egli credeva ancora che non si potesse mancare
al matrimonio, se non per l'impulso irresistibile di una passione.
Gli esempi quotidiani della vita non gli avevano menomato questa
latente convinzione, che gli risorgeva più forte in quel
bisogno di essere amato. Se l'Annetta non lo amava, egli non era per
lei che un divertimento accettato a caso, perché quasi tutte
le donne nella nostra moderna corruzione hanno un amante, anche
senza essere corrotte. Infatti nessun sentimento malvagio si
rivelava nella natura di lei; non odiava, non sparlava d'alcuno, ma
felice di se stessa si abbandonava alla gioia della vita. Aveva
ceduto al matrimonio come all'amore, senza riflettervi, colla stessa
incapacità di comprendere la profonda tenerezza del marito e
la foga passionata dell'amante. Per lei l'amore non andava oltre le
esigenze del temperamento; solo in qualche convulsione sensuale, le
sfuggivano parole come di un altro mondo, mentre una insoddisfatta
necessità di adorazione le riempiva improvvisamente il cuore.
Allora il suo bel viso si trasformava in un pallore fantastico,
cogli occhi senza sguardo e la fronte appannata da un'ombra
indefinibile.
Da principio i convegni furono radi. A lei si rendevano più
difficili per quella paura di non volervisi compromettere. In casa,
col marito, non c'era nemmeno da pensarci; poi le sarebbe ripugnato.
Non sapeva dirne il perché, ma le sarebbe stato impossibile,
col rispetto affettuoso che sentiva per l'avvocato, ricevere Mario
nella camera coniugale. Fuori di casa non avrebbe mai osato di
andare; bisognava quindi aspettare le occasioni, che non erano
frequenti. Mario ne arrabbiava. Quella prudenza, così
sensata, gli pareva talvolta la più raffinata delle
corruttele, mentre non era che l'istinto dell'egoismo; ma non aveva
nemmeno tempo a lagnarsi. I loro dialoghi erano sempre brevi,
violenti da parte di lui, e si chiudevano con un sorriso di lei,
solleticata nella vanità della sua passione. Egli le aveva
proibito di scherzare col marito, alla sua presenza.
«Ma non capisci,» le urlò «che
soffro?»
«Ah, povero Mario!»
L'avvocato era di là nel gabinetto verde. Mario si era
allungato, dandole un bacio sulla bocca.
«Domani, aspettami...»
Ma ella era fuggita. Poco dopo l'intese ridere con lui. La collera
lo accecò; entrò nel gabinetto. La signora Annetta
appollaiata, come un pappagallo, sopra un bracciuolo della larga
poltrona, nella quale sedeva il marito, era intenta a sedurlo.
«Uno solo» diceva col più tentatore dei propri
sorrisi: «che cosa è mai?»
«Ti pare dunque così facile?»
Ella diede una scrollatina di spalle.
Mario si era arrestato sull'uscio osservando; negli occhi gli
passò un baleno d'ironia.
«Potete entrare» gli disse bonariamente l'avvocato.
«Sapete che cosa mi domanda questa pazzerella?»
«Mi pare di aver capito» rispose mettendo nella propria
voce tutta l'amarezza possibile: «un bacio.»
La signora Annetta balzò in piedi ridendo, anche l'altro
sorrise:
«Se non fosse che questo! Invece sapete che cosa vuole? Un
cavallo con una carrozza.»
«Un cavallo solo» ella insisté credendo di
provare così la modestia del proprio desiderio.
«Col servitore in livrea, quindi una scuderia e una rimessa,
nuove occasioni di lusso e di spesa. Mia cara, non siamo ricchi; hai
già speso tutto quello che avevo risparmiato.»
«lo!»
«Ma tu, carina mia: non è un rimprovero, sarei
desolatissimo che la cosa non fosse andata così. Solamente
questo tuo desiderio sorpassa per ora i miei mezzi. Forse non
sarà sempre così.»
«Quando, quando?»
Ella, inebriata di quella vaga promessa, se ne sentiva già
alla vigilia, e la sua gioia era così viva che il volto
dell'avvocato se ne illuminò. Mario, preso dalla malìa
innocente di quella scena, si era avanzato di un passo; Annetta
sospesa, perduta, guardava il marito.
«Accetti una condizione?»
«Sì.»
«Bada!» e l'avvocato guardò maliziosamente Mario.
Questi gli dovette rispondere cogli occhi, ma l'altra batteva i
piedi.
«Debbo proportela? Bada, che potresti non saperla adempiere.
Certo ti domando una cosa talmente naturale, che quasi quasi
dovresti già averla fatta. Ebbene,» e staccò
più lentamente le sillabe «quando avrai un bambino, ti
pagherò la carrozza.»
La signora Annetta rimase un istante mortificata; evidentemente non
si attendeva a questa condizione. Poi alzò il capo, e il suo
sguardo incontrò gli occhi di Mario scintillanti di
rimprovero; lo deviò, ma risospinta più alto dalla
vanità di quella speranza, che l'avrebbe messa a pari colle
prime signore della città, tornò presso la poltrona.
«Accetti?» ripeté sorridendo grossolanamente il
marito, niente imbarazzato dalla presenza di Mario.
Ella rispose prima con un riso:
«Lo dirò alla befana di portarmi un bambino, e
lascerò il mio stivaletto più grande sotto la cappa
del camino nel salotto.»
E diedero entrambi in una allegra risata. Mario era già
uscito; nell'altra stanza si ricordò che se l'avvocato gli
avesse chiesto perché era entrato, non avrebbe saputo
rispondergli.
Due mesi dopo quell'ultima gita in campagna, Mario, incontrando
l'avvocato sotto i vecchi portici del mercato, fu colpito dalla
gioia, che gli brillava nel viso.
«Dove andate, caro Mario?»
«Non lo so, a zonzo.»
«Usciamo fuori di porta S. Bartolo.»
S'avviarono.
«Qualche buona notizia sulla cartiera?»
«Ah! c'è ben altro; ve lo dico subito, perché
ella stessa me lo ha detto solamente ora: l'Annetta è
incinta.»
L'avvocato in preda ad una ingenua gioia, della quale poco prima non
si sarebbe creduto capace, gli raccontò tutti i discorsi
bambineschi di lei, i consulti colla Veronica e colla moglie
dell'esattore, che abitava al piano superiore. Quell'uomo forte non
si accorgeva di ridiventare egli stesso un fanciullo; Mario lo
ascoltava, frenando a stento l'amarezza, che gli bolliva dentro.
Perché l'Annetta non lo aveva detto prima a lui? Quel bambino
sarebbe dunque figlio dell'avvocato?
Ella lo credeva dunque?
Ma il signor Filippo continuava.
«Voi non potete comprenderlo, Mario, perché siete
ancora troppo giovane; ma verrà la vostra volta, e allora vi
ricorderete questo, che vi dico. È una grande trasformazione,
quando si diventa padri; il mondo, la nostra vita, non ci appaiono
più quelli. Fino allora tutto finiva in noi, dopo tutto
prosegue; entriamo noi stessi nell'infinito misterioso delle
generazioni. I nostri vizi, le nostre virtù dureranno in
altri, dopo che saremo morti; si riprodurranno forse anche i nostri
gesti. Solamente colla paternità l'uomo entra nel possesso
pieno della vita. Ma se la vedeste, non sta nella pelle!»
«Infatti...» balbettò Mario.
«Le donne soffrono forse della sterilità quanto noi
dell'impotenza.»
Erano già lontani dalla porta, che Mario non aveva ancor
parlato; ma l'avvocato, ripreso dal proprio orgasmo, volle tornare a
casa.
Il vespero scendeva.
«Venite anche voi, Mario; sarete il primo a farla diventar
rossa con un complimento.»
A casa la trovarono abbattuta sopra una poltrona quasi già
oppressa dalla gravidanza. La Veronica, la moglie dell'esattore, la
Gina, le stavano intorno covandola collo sguardo, allegre di quella
sua confusione. Quando entrò l'avvocato, la moglie
dell'esattore, donna sulla cinquantina, grossa e volgare, con due
occhi bianchi a fior di testa e il labbro inferiore sgradevolmente
penzoloni, che le lasciava scoperte le gengive giallastre, si
alzò rispettosamente.
La signora Annetta tese languidamente la mano a Mario.
«Ti senti già vicina alle doglie?» le disse il
marito con grossolana facezia, indovinando in lei tutto quel male
immaginario, mentre il suo viso non era mai stato più
florido.
Ella invece mise negli occhi di Mario un'occhiata che vi spense
tutti i rimproveri. Non gli era più possibile ingannarsi;
quello era lo sguardo, che la femmina dà istintivamente al
maschio, del quale ha subito l'impronta della maternità. Un
gran rimescolamento gli si fece nel cuore; l'avvocato era andato
egli stesso a cercare due vecchie bottiglie preziose, regalo d'un
cliente, per berle tutti insieme. S'intendeva la sua voce strepitare
con quella della Veronica. L'avvocato tornò raggiante, colle
due bottiglie in mano.
«Lei, signora Amalia, vada su ad invitare anche sua cognata,
perché suo marito, lo so, non è in casa; poi non
vogliamo altri uomini, basta Mario. Ho mandato fuori la Veronica a
prendere qualche cosa: ci vuole un po' di festa, non è vero,
Annetta? Come ti senti male! Sei già dimagrita!»
esclamò canzonatoriamente. Ella sorrideva.
«Tu, Gina, prepara nella camera da pranzo; mettici quello che
hai. Vengo anch'io, troveremo bene.»
La Gina, ragazza clorotica, quasi elegante, perché l'Annetta
le regalava molti dei propri abiti, lo seguì in silenzio. Era
di un'esattezza scrupolosa nel servizio, ma parlava poco; pareva
malinconica. Infatti era nata troppo bene per essere ora costretta a
fare la cameriera; però l'Annetta la trattava con molta
cordialità.
Appena rimasero soli, Mario si sentì riprendere dalla
collera. Perché l'Annetta non aveva avvisato prima lui? Le
prese una mano, chiedendoglielo concitatamente. Ella, sempre
così sottomessa, quasi che la rivelazione della
maternità l'avesse trasformata, rispose ingenuamente:
«Ma lui sarà il padre.»
«lo, dunque ... ?»
Ella alzò gli occhi interrogando.
La semplicità di quella risposta lo aveva atterrato.
«Ma è mio, non è vero, è mio?»
Ella annuì.
«Quando?»
«Non lo so.»
«Lo sai, le donne se ne accorgono.»
Ella si era animata, stava per dirgli tutto.
«Tira via, vengono.»
«Quella volta nello studio...»
«Egli era andato a Firenze; mi ricordo, il 25 maggio, presso
la finestra.»
Ella scoppiò a ridere, l'avvocato li sorprese in quella
ilarità.
«Sentiamo: che nome vorresti mettere al bambino?» egli
disse.
«Sarà una bambina» ella ribatté.
L'altro si fe' scuro.
«Sì, sì, lo sento» replicò con
ostinazione: «sarà una bambina.»
«Ben venga la bambina; il bambino sarà per un'altra
volta. Come la chiamerai?»
«Tu ci hai pensato?»
«Sì.
«Anch'io.»
Ella guardò Mario, alla sfuggita, per fargli comprendere
tutta la tenerezza del complimento, che stava per fargli.
«Maria.»
«Quasi il mio nome; basta mutare l'o in a.»
Arrivarono gl'invitati.
Quella sera passò allegramente in famiglia, colle due
bottiglie, un punch, del panettone e delle paste. Mario stesso
pareva rabbonito, ma le tenerezze troppo confidenziali del marito
colla moglie lo abbuiavano tratto tratto.
Quel languore dell'Annetta si dissipò presto. Invece vi
successe una vanagloria con un pettegolezzo inesauribile sui
bambini, sulle gravidanze e i pericoli che vi si incontravano, ogni
sorta di preoccupazioni e di nuove spesucce. L'avvocato si mostrava
di una condiscendenza instancabile, lasciando traspirare nella
propria contentezza di essersi liberato da un gran peso. Alla sua
età, con tanta sproporzione d'anni, gli era preso il timore
di lasciare la moglie sterile. Qualche beffa maligna dei colleghi lo
aveva già punto. Poi quella nuova vita, che rampollava dalla
sua, gli preparava altri modi di meglio consumare l'imminente
vecchiezza.
Ora la sua affezione per la moglie si temperava di un nuovo austero
senso di rispetto per la madre, mentre ella invece tornava verso
Mario. Era quello l'uomo vero, che l'aveva mutata sostanzialmente;
l'avvocato diminuiva a grado a grado nella sua anima sino a non
essere più che un padrino, l'amico protettore della sua
gioventù. Tutto quanto era passato fra loro ai primi giorni
delle nozze si scolorava nella inanità del risultato finale,
perché ella era istintivamente sicura, con quella
inesplicabile sicurezza femminile, che Mario era il padre di Maria.
E allora si accorgeva, quasi per la prima volta, che era bello. Si
ricordava a uno a uno, riassaporandoli, i suoi trasporti, quegli
impeti deliranti, che la scrollavano fino in fondo all'anima,
lasciandole nelle membra come la lassitudine di una fatica, mentre
tutta la forte virilità del marito non era mai riuscita a
darle nessuna di quelle soffocanti sensazioni. Avrebbe voluto Mario
sempre vicino per rituffarsi con lui nei godimenti, dai quali la sua
maternità era uscita, e per fargli sentire che anch'essa era
donna. Tutti i sensi le vibravano. Ma l'avvocato si allontanava
adesso più raramente dalla città, e la sera non usciva
quasi più di casa, facendosi fin troppo assiduo presso di
lei. Quando la gonfiezza del ventre cominciò a designarsi,
egli volle invece uscire più spesso con lei a passeggio,
orgogliosi entrambi di quella gravidanza, sebbene ella ne provasse
talora in fondo all'anima un sottile rammarico come di una
deformità. Infatti la sua bella e flessibile figura n'era
tutta deturpata; larghe chiazze le macchiavano la pelle, qualche
nausea la sorprendeva il dopo pranzo. E in questo accorgersi, quasi
spaurita, di una bruttezza progrediente, ella ammirava sempre
più Mario.
«Gli uomini! essi rimangono sempre inalterati, mentre noi
povere donne...»
Un giorno glielo disse nello studio. Egli, che le aveva chiesto
invano un convegno da due settimane, stava imbronciato. Allora ella
si arrese, promettendo di venire nel gabinetto verde la prima volta
che l'avvocato escirebbe per ragioni di studio.
A Mario parve trasformata, più ardente ed amorosa. La
femmina, in quello sbocciare della maternità, sprigionava le
proprie energie colla voracità di tutti gli appetiti. Adesso
voleva anche lei giungergli sino al fondo dell'anima, soverchiarlo
coll'insaziabilità delle brame.
La gelosia di lui, attutita da tutte quelle prove di amore, non
rimaneva quasi più che una esagerazione di tenerezza.
Nullameno le chiedeva spesso del marito.
«No, no» lo interrompeva: «glielo ho detto, ora
no. Voglio te solo, tu sei mio marito.»
Avevano combinato che Mario verrebbe spesso a passare la sera con
loro; s'incaricava lei di farvelo costringere dall'avvocato. Era
diventata furba; infatti vi riuscì. Mario, che avrebbe dovuto
smaltire quelle ore al caffè, aveva accettato; ma nella nuova
più frequente intimità correvano pericolo di tradirsi,
e le scene di gelosia si rinnovavano. Talora l'avvocato, poco
corretto nelle maniere, specialmente in casa propria, si permetteva
di farle qualche carezza improvvisa, o lentamente, quasi senza
accorgersene, sedendole vicino le passava un braccio intorno alle
spalle, scherzandole colle dita fra i ricciolini della nuca. I
discorsi non variavano molto. Fra i due uomini erano interessi di
studio o discussioni giuridiche, nelle quali l'avvocato
s'abbandonava insensibilmente alle sue tendenze di professore; le
donne, la moglie dell'esattore e la Gina, cucivano o ricamavano
delle cuffie o delle fascette per la nascitura. Era deciso che
sarebbe una bambina. La signora Annetta, sdraiata nella poltrona col
ventre enorme e la fisonomia molto mutevole, non faceva nulla, come
oppressa da quel peso tutti i giorni maggiore. Ma la sua
vanità aveva trovato modo di esaltarsi ancora in quel
sentirsi al centro di tutte le preoccupazioni della casa.
La sua bella salute resisteva trionfalmente alla fatica della
gravidanza, senza dar loro la più piccola apprensione
drammatica.
Mario aveva finito col pranzare spesso in casa dell'avvocato.
Così poteva profittare di tutti gli istanti propizii
coll'Annetta, malgrado la presenza quasi continua degli altri.
Ma qualche cosa n'era trapelato. La moglie dell'esattore talvolta li
sorvegliava con occhiate, che a lui lasciavano più di un
dubbio, mentre la Gina invece si manteneva nella solita composta
impassibilità. Davanti alla sua enigmatica figura Mario
restava sovente imbarazzato. Che cosa pensava quella ragazza? V'era
della sofferenza nella sua serietà, come un dolore sdegnoso
di essere serva, lei nata di una famiglia pari alla loro. Quindi
quella sua cura minuta ed incessante nel servizio per evitare ogni
rimprovero, che le facesse sentire più duramente la propria
condizione. Ma sotto quel bianco spento, che la faceva somigliare ad
una figura tagliata in un cero, con quegli abiti regalati dalla
signora Annetta, e che sotto le sue mani diventavano più
signorilmente eleganti, malgrado la semplicità conveniente ad
una cameriera, a Mario pareva inquietante. Era fredda con lui come
cogli altri, sembrando non voler capire nulla; eppure egli
indovinava che sapeva tutto. Infatti l'Annetta diventava a mano a
mano più difficile. Nell'ingrossare della gravidanza le si
alterava la gioconda facilità del carattere. Improvvisi
capricci la coglievano, lo chiamava vicino, affettava quasi di
tradirsi, o peggio ancora palesava improvvise ripugnanze pel marito.
E poiché non aveva più la prontezza dei movimenti,
quando le si accendevano tali bramosie, si attaccava a Mario,
comunque, covandolo collo sguardo, arrischiando tutte le
temerità per poterlo premere e brancicare. Una sera che
giuocavano a tombola, un altro suo capriccio di ragazzina, ella
divideva con lui la cartella sedendogli presso. Mario, già
sulle spine, nell'impossibilità di sottrarsi alle carezze
nascoste colle quali lo tentava, e preoccupato del marito, che
giocava colla Veronica mettendo per lei la posta, si sentì
improvvisamente addosso lo sguardo della Gina. Ella lo guardava
impassibile, bianca, coi piccoli occhi chiari, che parevano di
vetro.
Finalmente la signora Annetta gettò un'allegra risata nel
giuoco, mentre Mario impallidiva.
La mamma di Mario, l'Orsolina, come la chiamava l'avvocato, si era
insospettita della tresca. Ma se da prima la sua vanità
materna ne aveva insuperbito per il figlio, presto temette che la
cosa potesse prendere una brutta piega. Glielo disse una mattina
nella camera mentre si vestiva; Mario rispose male. Già
l'amava poco per tutto quello che gli aveva fatto soffrire da
bambino e la sordidezza della economia, per la quale andava mal
vestita e si lagnava sempre con tutti della mancanza di denaro. Nel
proprio vanaglorioso egoismo Mario non sentiva la profonda passione
della vecchia per lui.
Ella insisteva.
«Finitela dunque: mi credete uno sciocco? Faccio quel che mi
pare.»
«Non vuol dire che tu faccia bene» rispose, niente
sbigottita di quel suo tono aspro.
Ma le sue osservazioni gli erano penetrate nell'animo. Qualche volta
si diceva di aver fatto male ad innamorarsi di quella donna; ora che
essa ardeva veramente per lui, non avrebbe però saputo
staccarsene.
Verso la fine dell'ultimo mese la signora Annetta cominciò a
star male. L'avvocato credette a una delle solite paure
nell'avvicinarsi del primo parto, ma nullameno chiamò il suo
vecchio medico, buon diavolo assolutamente incolto, cui la lunga
pratica aveva tuttavia insegnato qualche cosa. Egli visitò la
signora Annetta, e se ne andò sorridendo: paura e
nient'altro. Apparvero alcune febbriciattole, che la tennero a letto
due giorni; il signor Filippo incominciava ad impensierirsi. Mario
entrato da lei, in un momento che questi non c'era, aveva appena
potuto sottrarsi alla tenerezza delle sue effusioni. Poi ella si
alzò, ma volle essere visitata dal dottor Talli, il giovane
primario dell'ospedale, del quale in città cominciava a dirsi
un gran bene. Mario non lo seppe che dopo, e diede in una grande
collera; l'avvocato invece, rassicurato dalle dichiarazioni del
dottore, era tutto ilare.
«È un bell'uomo» disse: «farà una
gran carriera, perché le donne vanno pazze per lui.»
«Allora perché gli ha ella mostrato la moglie?»
proruppe Mario.
«Lo senti, Annetta? Sareste per caso un geloso, mio caro
Mario? Allora seguite il mio consiglio, non prendete moglie; fareste
due infelici.»
«Certo,» replicò guardandola «non vorrei
che mia moglie fosse veduta da altri che da me.»
«Là, siete geloso per temperamento; me n'ero già
accorto a certe frasi. Ma sapete quello che accadrà?
Piglierete moglie, perché la gelosia non può
esercitarsi diversamente, e le passioni vanno sempre dritte al
proprio scopo.»
Quando vennero le doglie alla signora Annetta, la casa fu sossopra;
era arrivata anche la mamma di Mario. La moglie dell'esattore, sua
cognata, più vecchia e più insignificante di lei, che
le faceva da serva, la Veronica s'impicciavano reciprocamente. Solo
la Gina, più attenta e sollecita di tutte le altre, restava
fredda. Si era chiamata la levatrice e il vecchio medico, ma questi
aveva dichiarato che tornerebbe; era presto ancora. Già tutto
andrebbe bene; in caso diverso bastava una chiamata, e sarebbe
accorso.
L'ammalata in preda ad una pazza paura si lagnava dolorosamente. La
sua bella testa pallida, un po' dimagrita, entro quella cuffietta
bianca di merletti, diventava di una idealità prima non
sospettabile. Gli occhi cilestri, umidi di lacrime, le rimanevano
come in una fissazione di preghiera, mentre la bocca scolorata le si
contraeva sotto le fitte acute dei primi spasimi.
Il medico aveva ordinato di non far chiasso. Al capezzale s'erano
installate la mamma di Mario e la moglie dell'esattore sotto
l'autorità della levatrice, una donnetta magra e nera,
vestita a festa, che parlava lentamente, colla serenità di un
gran medico. L'avvocato, troppo commosso per potersi dominare, si
era chiuso nel gabinetto verde; Mario gli venne incontro tendendogli
la mano.
«Ho paura, Mario; sento che la cosa non andrà
bene.»
E vi era una convinzione così seria in queste sue parole, che
l'altro s'impensierì.
«Tu stesso lo credi?» prosegui senza accorgersi della
irragionevolezza di tale domanda.
L'altro per un attimo sospettò di un agguato, ma l'avvocato
era caduto sopra una sedia, stringendosi il capo fra le mani.
Allora Mario capì tutta la profondità dell'amore, che
quell'uomo, in apparenza così freddo e positivo, portava alla
moglie. La sua gelosia ne fu punta.
«Bisognerà chiamare Talli; del vecchio Giorgi non mi
fido.»
«Perché Talli? Aspetti, l'emozione le fa scorgere
pericoli dove non ve ne sono.»
Arrivarono dei clienti; l'avvocato non volle riceverli e disse al
vecchio Andrea di chiudere lo studio. Rimasero tutti e tre nel
gabinetto verde.
«Che cosa ne pensi tu, Andrea?»
«Che andrà bene: diavolo! La signora Annetta è
un fior di salute.»
«Tu credi così?»
«Sicuro.»
Quindi parlarono di cause. Benché l'avvocato non s'occupasse
molto in criminale, aveva un processo importante alle Assise di
Firenze; si trattava di una signora, di una moglie, che aveva ucciso
l'amante. La causa doveva discutersi sabato, ed erano al
lunedì. Egli ne parlò a lungo, facendo una carica a
fondo contro la scuola così detta positiva dei nuovi
penalisti. Il vecchio Andrea lo ascoltava con ammirazione; anche
Mario si sentiva trascinate da quella eloquenza impetuosa e larga
come un gran fiume.
Poi lo scrivano chiese di andarsene.
«No, mio vecchio, anche tu resterai a pranzo con me
quest'oggi. Ho bisogno di voi altri,» seguitò stendendo
loro affettuosamente le mani «siete i miei soli amici. Ho
paura.»
Il vecchio Andrea, commosso fino alle lacrime da quel favore, che lo
innalzava ai propri occhi, diede a Mario un'occhiata di rimprovero;
ma l'avvocato sorridendo disse ancora:
«Chi sa come pranzeremo con tutta la casa sossopra; tu sai
cucinare qualche cosa, Andrea?»
Poi le paure lo ripigliarono. La Veronica entrò per dir loro
di chiamare il medico; la signora si lamentava, si lamentava.
«Sì, chiama Giorgi, ma chiama anche Talli, Andrea, va'
tu da Talli; la Veronica chi sa quanto impiegherebbe. Tu, Veronica,
cerca Giorgi alla farmacia del Redentore: è sempre lì.
Andrea, ha capito, Talli! Bisogna andargli a casa, e portarli qui
insieme, perché sarebbero capaci di offendersi, senza una
spiegazione che io darò loro. I medici! mentre gli altri
muoiono, si disputano ancora sulla precedenza.»
La preoccupazione cresceva; Mario stesso se ne sentiva invadere.
Andrea e la Veronica tornarono dopo un'ora, senza aver trovato
né l'uno né l'altro, ma la levatrice aveva mandato a
dire che tutto andava bene. Solamente, essendo quello il primo
parto, la signora era in preda ad un grande spavento.
L'avvocato avrebbe voluto entrarle nella camera, ma la signora
Orsola lo fermò:
«Non entri, creda a me: la signora Annetta crederebbe di
essere davvero in pericolo.»
«Ma c'è pericolo?!»
«Affatto» e il viso freddo e antipatico della vecchia
aveva una grande sicurezza. «Pensa lei che, dopo quanto ella
fa per il mio Mario, volessi abusare della mia esperienza per
ingannarla? Di queste cose, noi donne, ce ne intendiamo.»
«Mi consolate tutto. Mario è un eccellente ragazzo,
farà carriera.»
«Ha cominciato bene qui, purché ella gli mantenga la
protezione.»
Anche Mario arrivava.
«Via tutti!» concluse l'Orsolina, dando al figlio
un'occhiata severa nel chiudere l'uscio.
L'avvocato sorrise con Mario a quell'autorità improvvisa
della vecchia signora in casa sua. Nell'altra stanza si udì
un gemito.
La Veronica aveva preparato confusamente una specie di pranzo.
Andrea, invece di fare l'ospite, s'affaccendava colla solita
bonarietà a fare da cameriere, ma nessuno mangiava.
Finalmente s'intesero delle voci, e la moglie dell'esattore proruppe
nella camera:
«Vengano, vengano, una bambina!»
L'avvocato scappò furiosamente, tutti lo seguirono; ma la
signora Orsolina, ritta come un gendarme alla porta del gabinetto,
che metteva nella camera dell'ammalata, non lasciò passare
che lui. Mamma e figlio si guardarono; ella severa, lui irritato. Il
vecchio Andrea li osservava.
«Bisogna non disturbarla ora: torno dentro a mandar via
l'avvocato.»
Infatti, dopo pochi secondi, egli usciva cogli occhi pregni di
lagrime: aveva baciato per la prima volta sua figlia! Mario ed
Andrea lo attendevano al medesimo posto.
L'avvocato si gettò nelle braccia del vecchio scrivano; un
groppo di singhiozzi, i più giocondi della sua vita, gli
soffocavano la voce. Andrea sentì inumidirsi gli occhi anche
lui, poi quando furono un po' rimessi, concluse filosoficamente
scrollandosi dentro l'antico soprabito:
«Via, è una bella cosa!»
Questa volta pranzarono allegramente.
Ma nella notte la puerpera tornò a gemere lagnandosi di un
caldo insoffribile; si dichiarava la febbre, e con essa un vero
pericolo. L'avvocato era rimasto solo in casa colla Gina e colla
Veronica non ancora coricate. Mandò questa a cercare Giorgi,
che venne subito.
Il vecchio medico esaminò attentamente l'ammalata, che lo
guardava come smemorata, coi pomelli infocati e le labbra riarse;
l'avvocato lo spiava attendendo. A fianco del letto, in una culla
coperta di un drappo bianco merlettato, dormiva la piccola Maria.
Giorgi rimise la mano dell'inferma sotto la coltre.
«Niente, niente, un po' di prostrazione» ma la sua
faccia, tutta rossa tra le grandi fedine bianche, era diventata
quasi intelligente sotto la grave apprensione. Era la febbre
puerperale. L'avvocato sentì stringersi il cuore, e ricusando
prontamente le speranze confortatrici, che l'altro gli dava,
esclamò:
«Resta qui; non t'offendere, mando a chiamare Talli.»
Lo attesero un'ora nella camera di lei, quasi senza parlare. Ogni
tanto Giorgi le metteva il termometro sotto il braccio; la febbre
saliva lentamente, ma saliva. La Gina tornata dal caffè della
piazza col ghiaccio, lo preparava spezzandolo per la vescica;
l'Annetta, cogli occhi chiusi, s'agitava sotto le coperte. Nella
camera l'aria si era fatta greve, leggermente nauseabonda.
«Ti par molto grave?» domandò con voce tremula.
Giorgi, che aveva il vezzo di giocherellare colla mano sinistra fra
i ciondoli della catena, scosse il capo senza rispondere. La Gina,
in piedi all'altro capo del letto, aveva posto sulla fronte della
signora la prima vescica di ghiaccio, che le produsse una sensazione
irritante. Per due o tre volte questa tentò di sottrarre il
capo.
La bambina si destò.
«Dio! come si fa adesso? Voleva allattarla da sé, non
ha voluto assolutamente udir parlare di balia» esclamò
l'avvocato correndo verso la cuna sulla quale la Gina si era
già piegata.
La piccola creatura strillava come un animalino.
«Ho io, per fortuna, la donna a proposito. Ora, se viene
questo Talli, te la mando subito» e Giorgi pronunciò
"questo" con una intonazione di seccatura, che in altra occasione
avrebbe fatto ridere l'avvocato.
«Gina mia, cerca di calmarla: per qualche poco.»
S'intese aprire la porta, che dava sulla scala; la Veronica
entrò con Talli.
«Ah! siete qui, dottore» questi disse con accento gaio,
dopo aver stretta la mano all'avvocato. «Che cos'è?
Speriamo niente di serio, la signora è un bel esemplare di
donna.»
«Ecco...» fece Giorgi, che dinanzi al giovine medico si
era improvvisamente raumiliato, disponendosi ad esporre la diagnosi;
ma l'altro era già al capezzale dell'inferma.
«Portate via per un momento la piccina» si volse alla
cameriera, che non era riuscita a calmarla; e si chinò sulla
signora Annetta, tastandole il polso.
Ella pareva assopita. Poi colla mano armata del termometro le
sparì sotto le lenzuola, l'Annetta diede un gemito, passarono
alcuni istanti. Quando egli si torse verso di loro, anche la sua
faccia di bel giovane era diventata grave; una grossa ruga verticale
gli divideva la fronte fino sul naso.
«Siete qui da un'ora, Giorgi? Quanto segnava il termometro la
prima volta?»
«Trentotto e sei linee.»
«Ora vedremo.»
«Ma dunque c'è pericolo?» sussurrò
angosciosamente l'avvocato.
Talli non rispose. Nell'altro gabinetto si sentiva sempre piangere
la piccina; il silenzio in quella camera, così piena di
gente, diventava terribile.
Talli estrasse il termometro; segnava quaranta e tre linee.
Era una febbre fulminea, spaventevole. I due medici si consultarono,
ma Giorgi non parlava. Talli esigeva l'imbottimento di ghiaccio
nell'utero e l'impacco nel ghiaccio di tutto il corpo; non voleva
usare antipirina, perché contrario a quel rimedio, malgrado
la moda, per le terribili reazioni che provoca dopo gli abbassamenti
di temperatura. Si capiva che l'altro non era persuaso della cura
troppo arrischiata, ma non osava contraddire; solamente la sua mano
sinistra tormentava più vivacemente i ciondoli della
catenella. All'avvocato era venuta meno ogni forza.
«Ma dunque, signor Talli, lei crede che ci sia
pericolo?»
Il giovine medico, così elegante e con quell'aria di
zerbinotto vacuo, era adesso brusco. La sua bella testa, colla
barbetta tagliata a punta e la scriminatura di una regolarità
volgare, aveva un carattere strano di risolutezza.
«Sì, ma lo combatteremo vigorosamente. Bisogna che la
febbre non vinca in un corpo bello e robusto come quello della
signora. Voi, caro Giorgi, andate a ordinare il ghiaccio, molto,
molto: ricordatevi il sublimato e lo speculum. Non c'è tempo
da perdere. Preparate un lenzuolo grande» si volse alla
Veronica; «la signora avrà la tinozza in casa, spero.
Ma ghiaccio, e presto: non c'è tempo da perdere. Resto qui
io, nessuna emorragia, eh?» domandò all'avvocato,
quando gli altri due erano già usciti.
Egli, che non l'aveva nemmeno chiesto, non sapeva come rispondere.
Era diventato un bambino. Rientrò la Veronica.
«Va bene, è un lenzuolo da letto grande? Voi, che avete
assistito al parto, nessuna emorragia, eh? Non ha fatto molto sangue
la signora?» seguitò, spiegandosi più
brutalmente per farsi meglio intendere.
«Ma no, la levatrice non ha detto niente.»
«Chi è stata?»
«L'Adelaide Cucchi.»
«Una imbecille! scommetto che non si è nemmeno
disinfettate le mani prima. Tutte così quelle pettegole; poi
vengono le febbri infettive.»
Era nervoso. Tratto tratto le rimetteva il termometro; la bambina
strillava sempre.
L'avvocato travolto dalla propria commozione, raddoppiata da tutto
quel tramestio notturno, non sapeva più che fare né
che pensare. Interrogò il medico sul come nutrire la bambina,
dicendogli che Giorgi aveva una bella balia sotto mano.
«Allora gli corra dietro, e la faccia venir qui. Andiamo
dunque» seguitò raddolcendo la voce; «non bisogna
perdersi, un uomo del suo ingegno!». E lo spinse fuori.
Rimase solo coll'inferma, studiandola. Ella si era fatta più
rossa, colle labbra che le si screpolavano, e gli occhi lucenti;
alcune chiazze, sotto la pelle delle guance, cominciavano a
mostrarsi. Di tanto in tanto si portava la mano al seno gonfio
dolorosamente di latte.
«Lei, dottore!» mormorò una volta gemendo, e come
riconoscendolo solo allora.
Il tempo passava lento, poi ella cominciò a parlare
vaneggiando. Finalmente tornarono tutti, ma per quanto avessero
compito un miracolo di prestezza, Talli li sgridò. La balia
si era fermata nel gabinetto attaccandosi la piccina alla mammella;
l'avvocato ansava.
«Adesso via tutti: lei vada a dormire, se può. Qui
resto io solo. Come vi chiamate?»
«Veronica.»
«Bene, state attenta a quello che vi ordinerò. Dunque
lei vada», si rivolse daccapo, all'avvocato
«assolutamente; vada, qui sarebbe d'incomodo. In questi casi
bisogna o non chiamarci, o fidarsi assolutamente.»
E siccome l'avvocato, ammollito da tanti colpi improvvisi, tentava
di scusarsi, anch'egli malgrado la vivacità del suo carattere
e la pressura del momento s'intenerì.
«Si faccia coraggio; il pericolo non è tale che non si
possa combattere. Spero che vinceremo. Vada, vada.»
L'avvocato uscì singhiozzando, ma invece di fermarsi a
guardare la balia, seduta sopra una poltrona nell'angolo del
gabinetto, colla bambina sospesa alla mammella, corse a chiudersi
nello studio. Là, solo, scoppiò a piangere
disperatamente, rumorosamente, come un ragazzo. Gli pareva che tutto
l'edificio della vita, così faticosamente costrutto, gli
rovinasse addosso, seppellendolo sotto le macerie. Un gran buio gli
si era fatto nell'anima; si sentiva salir intorno il silenzio della
solitudine a soffocarlo, e allora tornava a singhiozzare più
fortemente, quasi per reagire contro di esso. Passarono così
molte ore; a poco a poco si era assopito in una dormiveglia
affannosa.
Poi si destò. La luce del mattino filtrava chiara fra le
imposte; spalancò la finestra. Giù nella strada
cominciava a passare la gente, più bruna in quel chiarore
gelido, sotto il cielo grigio di nuvole. Il freddo sul volto gli
fece bene. Allora, come punto da un ricordo, scappò verso la
camera della moglie, ma nel gabinetto trovò Giorgi, che
sonnecchiava sopra una poltrona e si destò di soprassalto.
«Ah! sei tu: va bene, sono ancora qui.»
«Annetta?!»
«Meglio» seguitò sbadigliando, mentre si
stropicciava gli occhi assonnati. «Aspetta dunque, non
entrare. Abbiamo fatto tutto quello che egli ha voluto.»
«Ma ora?»
«Non c'è male. Egli tornerà fra poco; ha detto
che alle sei sarebbe qui. lo sono rimasto per te: mi sono un po'
addormentato su questa poltrona. Piuttosto va a vedere, se trovi una
delle tue donne, e che mi facciano un goccio di caffè. Una
notte come questa, alla mia età, non è
indifferente.»
L'avvocato gli strinse la mano con effusione, dirigendosi alla
camera della Veronica. La trovò vestita sul letto,
addormentata; la balia dormiva colla piccola Maria nella camera
della Gina, rimasta al capezzale della signora. Ma la cuoca
udì nel sonno il passo di lui.
«Che cosa c'è? Ah! è lei, mio Dio!»
«Pare che vada meglio, Giorgi vorrebbe il caffè.»
«Sì, sì, se l'è meritato. Ora lo faccio
subito.»
Il mattino saliva, sempre così grigio, nel cielo. L'avvocato
venne a sbirciare all'uscio della camera, e vide la Gina seduta
compostamente sulla poltrona, a capo del letto; il lume da notte la
lasciava in una penombra quasi oleosa. Nella camera tutto era
sossopra, molte salviette bagnate ed un lenzuolo giacevano
ammucchiati presso l'armadio a specchio. L'ammalata si discerneva
appena sotto la vescica del ghiaccio, e fra il bianco degli
origlieri. Il suo respiro era ancora rantoloso.
L'avvocato si ritirò come un colpevole dinanzi allo sguardo
freddo della Gina.
Quando venne Talli, la febbre non accennava a decrescere;
mandò via Giorgi, ringraziandolo con molti complimenti, che
lo ravvivarono tutto, e si fece aiutare dalle due donne per ripetere
la cura della notte. L'avvocato era uscito a cercare altro ghiaccio.
Allora, nella strada, la curiosità affettuosa di tutte le
persone, che sapevano già la sua disgrazia, lo
martoriò. Gli pareva che quelle domande talvolta unite
rendessero più imminente il pericolo, dandogli la misura del
disastro, che lo minacciava.
Il vecchio Andrea venne due ore prima, entrò nel gabinetto
verde senza parlare, e come un cane amoroso si mise a sedere vicino
a lui. Stettero così lungamente. A un tratto l'avvocato
gridò:
«Come farò dopo, solo?»
«Chi sa che Dio non ci perdoni» l'altro rispose con voce
grave, alludendo seco medesimo al peccato della signora Annetta con
Mario, perché da molti anni Andrea era stato ripreso dalle
idee religiose, e praticava spesso i sacramenti. Ma senza
vergognarsi in faccia al mondo di questa sua conversione, non ne
parlava e non la nascondeva.
Poi gli disse dolcemente:
«Venga con me a vedere la bambina.»
La balia era ancora a letto, colle imposte aperte, seduta sui
cuscini. Quando entrarono i due uomini, fece atto di coprirsi il
seno, quindi sorrise. Era una contadina fatta venire un mese prima
in città dalla moglie del maggiore del genio, alla quale era
morto il bambino la notte antecedente. Pareva giovane e forte. Il
colore bronzino della faccia e del collo staccava sul candore niveo
delle poppe turgide, sulle quali si distinguevano sottili vene
azzurrognole; la bambina succhiava ghiottamente, deglutendo il latte
con un gorgoglio di piccolo fiasco capovolto.
L'avvocato si fermò a contemplare quel dolce quadro,
risentendone una grande serenità pacificatrice; poi
domandò alla contadina dove stesse, e sotto quali padroni.
Ella, che lo conosceva di vista e di nome, rispondeva sicuramente.
Apparteneva ad una buona famiglia di coloni, mezzadri da molti anni
del conte Giglioli sul podere la Rocchetta, nella parrocchia di
Trepiano, in una posizione incantevole.
«Bisogna che torniate subito a casa; qui non è sano per
la bambina.»
«Si deve battezzarla, prima.»
«C'è tempo: non la voglio qui» proseguì,
ripreso dalla paura che non dovesse venire la febbre anche a lei.
«Andrea, va a prendere una vettura.»
«Da Pistacchio?» questi rispose, nominando il vetturino
di casa.
E l'avvocato prese dolcemente fra le mani, da quelle della balia, la
propria figlia.
Per tre giorni la signora Annetta fu tra la vita e la morte; la
febbre resisteva malignamente a tutti gli sforzi, ostinandosi contro
il suo corpo, che già non pareva più quello. Giorgi e
Talli, ammirabili di devozione, non lasciavano più il suo
letto, accigliati davanti a quel pericolo sempre rinascente, mentre
la casa era tutta sossopra, e lo studio rimaneva chiuso. La signora
Orsolina, installandosi silenziosamente nella camera dell'ammalata,
non aveva pensato che a Mario, per impedirgli nell'esaltazione di
quella morte imminente qualche imprudenza. Infatti il suo contegno
per un occhio chiaroveggente avrebbe rivelato anche troppo i suoi
rapporti colla signora Annetta; ma l'avvocato, travolto dal proprio
dolore, non vi sentiva che una affettuosa concordanza in quella
sventura, che lo colpiva improvvisamente nel più profondo
della vita. Mario rimaneva nella casa tutto il giorno, senza aver
potuto penetrare che una sola volta, fuggevolmente, in quella
camera; ma l'immagine di lei, sformata, agonizzante, gli era rimasta
spaventosa nella immaginazione. Non poteva scordarsela, non sapeva
sperar più. La Gina non lasciava il capezzale della signora;
solo il vecchio Andrea lo arrestava qualche volta con certe
occhiate, che sembravano ammonirlo severamente di non complicare con
più spaventevoli rivelazioni un dramma già superiore
alle forze di tutti.
La terza notte erano nel gabinetto verde. L'avvocato, sempre vestito
da tre giorni, sonnecchiava qualche mezz'ora qua e là sopra
una sedia, avendo ormai egli stesso un'aria d'infermo, cogli occhi
lucidi di febbre: in fondo non sperava più e radunava tutte
le proprie forze dinanzi a questo nuovo naufragio della vita. Il
temperamento sano e l'equilibrio della mente l'aiutavano a
dominarsi. Il vecchio Andrea pareva più triste di lui,
giacché quella disgrazia inconsolabile dell'uomo, nel quale
aveva riposto l'ultima affezione, gli toglieva ogni scopo alla
esistenza. Qualche dubbio affannoso gli risorgeva nell'anima contro
la provvidenza di Dio.
Mario era grave.
L'avvocato, dopo un lungo silenzio, cercò sulla scrivania un
fascicolo, e cominciò a scorrerlo.
«È impossibile... Mi pare che ve ne ho parlato anche
l'altro giorno, Mario. Andrete voi a Firenze; forse sarà la
vostra fortuna» aggiunse con un sorriso doloroso.
«L'avete studiata un poco la causa, non è vero? Quella
donna, che ammazza l'amante scoprendolo troppo vile, quasi per
vendicare il marito ingannato, è uno dei temi più
belli, che possano capitare ad un principiante. Ho piacere di
cedervelo, tanto io sono finito.»
La sua voce aveva sonorità lugubri; Mario l'interruppe con un
gesto.
«No,» egli proseguì disperatamente
«perché tentare di illudermi? È indegno, atroce,
sento che non lo meritavo. Eppure è così. Vivrò
per la bambina; sarà triste, molto triste per entrambi.
Né io né lei avremo più con chi sorridere.
Perché dunque la vita è così fatta? Basta un
giorno, un'ora e tutto frana; non si può più lottare,
non si può più resistere. Bisogna essere travolti come
una cosa sotto una rovina, che non si è meritata, che nessuna
ragione giustifica.»
Essi non sapevano rispondere.
L'avvocato si mise a passeggiare per il gabinetto. «Nulla,
nulla. Siete vissuto cinquant'anni onestamente, senza danneggiare
alcuno, lavorando come una bestia da soma, salvando tanti
sciagurati! Non avete chiesto niente al mondo, non vi eravate mai
lagnati... Eravamo noi due soli, io e lei... Avrei dovuto morire io
vent'anni prima, e invece muore lei, lasciandomi una creaturina che
non potrò allevare; no, non lo potrò... Le
mancherà sempre la mamma. Dio ha torto!»
«Perché disperare?» arrischiò Mario.
«In che cosa sperare? Non avete visto Talli? La sua faccia
dice più delle sue parole; ella è perduta, per
sempre.»
Il vecchio Andrea, che si era cavato un fazzoletto turchino di
tasca, se lo mise sulla bocca per soffocare i singhiozzi. Ma lo
scoppio represso delle sue lagrime provocò un altro urlo di
pianto nell'avvocato.
Questi si gettò nelle sue braccia.
Mario, seduto all'altro canto, presso la scrivania, li udiva
piangere mescendo il loro dolore in un supremo abbandono di
amicizia, che in quel momento per lui diventava un rimprovero.
Confusamente sentì di aver avuto torto a sedurre quella donna
per un godimento sensuale, troppo meschino ed effimero. Quell'uomo,
che piangeva disperatamente la morte della mamma della propria
figlia non sua, gli parve sublime di innocenza e di miseria. Annetta
stessa non meritava tale angoscia di rimpianto, ma la sua
maternità si alzava nullameno dal letto di morte,
misticamente solenne, nascondendo nella propria luce gli avanzi
della femmina, altra volta così belli, e che fra poco
avrebbero ripugnato anche alla pietà.
Si vergognò di essere in quel gabinetto. Certo il vecchio
Andrea lo doveva disprezzare in tal momento, che l'avvocato,
stravolto, soffocato, aveva ancora, in una reazione suprema di tutta
la propria coscienza di professionista, potuto offrirgli col
più fortunoso dei processi il destro di aprirsi trionfalmente
la carriera.
Il suo amore per l'Annetta era escluso da quella tragedia; glie ne
resterebbe solo un ricordo galante, insignificante, che i rimorsi
potrebbero forse tratto tratto avvivare. Anch'egli s'alzò;
non poteva restare in quel gabinetto. Inavvertitamente uscì,
dirigendosi alla camera dell'ammalata, ma incontrò Talli, che
usciva in fretta per una chiamata urgentissima in casa Giglioli.
Era ilare, tutti lo circondavano con un sorriso di ammirazione.
«Salva!» si rivolse la Veronica a Mario, colle braccia
alzate, giubilando.
«Davvero, dottore?»
«Sì, ora credo di poter garantire, ma lasciatemi
andare. Addio, salutate l'avvocato; tornerò domani
mattina.»
Mario spinto da un impulso irresistibile, rientrò
precipitosamente nel gabinetto urlando:
«Salva, salva!»
«Che!» esclamarono ad una voce l'avvocato e il vecchio
Andrea come inebetiti.
«Talli è uscito in questo momento, assicurandomelo sul
suo onore. Lo hanno mandato a chiamare in casa Giglioli.»
Allora un'altra commozione s'impossessò di quei due,
illuminandoli, stirando loro la bocca in un altro scoppio di pianto;
si guardavano inebriati, trepidi, senza la forza d'alzarsi, mentre
Mario indietreggiava, colto da un rispetto quasi pauroso, e sentendo
un'amarezza improvvisa davanti alla legittimità della loro
gioia.
L'avvocato s'alzò prendendo per mano il vecchio Andrea.
«Andiamo nella sua camera.»
Mario rimase solo nel gabinetto verde, come un estraneo.
III
Fra Mario e la signora Orsolina accadevano scene frequenti.
Dopo aver assistito al capezzale della signora Annetta, imponendosi
a tutti piuttosto per la severità del contegno che per i
servigi, la signora Orsolina credeva di aver riconquistato su Mario
l'antico ascendente. Ma, sebbene persuaso che la sua presenza gli
avesse impedito di commettere allora qualche imprudenza, egli non le
era punto grato; anzi il sapersi da lei così compreso e
valutato l'irritava. Gli pareva di ricadere daccapo fanciullo sotto
la stessa pesante autorità, mentre i suoi consigli,
freddamente egoistici, di troncare quella relazione gli diventavano
oltraggiosi per la loro medesima giustezza.
Come tutti i genitori, che allevarono i figli in vista di un
avvenire economico, ella si sentiva lesa dal suo capriccio nella
propria legittima aspettativa, giacché amava Mario meglio per
se medesima che per lui. Nessuna condiscendenza muliebre, nessun
abbandono passionato, infatti, aveva mai temprato in lei la
rigidezza della passione, divenuta di giorno in giorno più
permalosa per l'impossibilità di comandargli ancora. E
siccome egli non l'amava, colla ingratitudine propria dei figli
troppo tiranneggiati nell'inevitabile intimità della vita
domestica, la poca e superficiale educazione non bastava a mantenere
nei loro rapporti quel rispetto compassato, dietro al quale la gente
delle classi superiori ripara le inimicizie.
Mario cominciò a mangiare frequentemente all'albergo, con un
gruppo d'ufficiali. Naturalmente ciò gli cresceva il
dispendio, e gli forniva l'occasione di scemarle l'assegno per le
spese di casa; quindi altre liti, più volgari e stridenti.
Oramai fra loro ogni riguardo era cessato.
Un giorno Mario le disse freddamente:
«Giacché mi seccate tanto per farmi abbandonare lo
studio dell'avvocato, vi dichiaro bene che, se andrò via,
muterò anche paese, ma non vi prenderò con me.»
«Che cosa m'importa?» ella ribatté aspramente, ma
ferita a morte da questa minaccia.
«Tanto meglio! Mettetevi però in testa che sopra di me
non si comanda più.»
«Tutto per quella...»
Mario le frenò con un gesto violento l'ingiuria.
«Andate al diavolo, avara, spilorcia, che mi avete allevato
per speculazione! Adesso finalmente so che cosa sia questo famoso
amore materno.»
E uscì di casa sbattendo gli usci per tornare allo studio. Ma
lì pure gli crescevano le contrarietà. Dacché
la signora Annetta era entrata in convalescenza, non aveva
assolutamente voluto riceverlo; pareva tutta mutata. La malattia,
indebolendola, le aveva dato una grazia malinconica e signorile. Il
suo carattere, prima chiassoso, si era fatto riserbato; quindi si
mostrava più affettuosa al marito, e non aveva nemmeno
protestato contro il suo desiderio di battezzare la piccina
piuttosto col nome di Luigia, la sua vecchia madre, che con quello
di Maria. Poi colta da un postumo spavento religioso della morte,
ora che rientrava adagio nella vita, aveva voluto confessarsi, in
casa, ad un padre cappuccino, popolare nella città per la
rude franchezza dei modi. L'avvocato ne aveva sorriso, ma cedendo
subito per non vederla rannuvolarsi. Da quella confessione Annetta
uscì molle di pianto, col proposito di riconsacrarsi tutta al
marito per indennizzarlo della grande offesa fatta alla sua
paternità; ma il cuore le restava secco per la piccola
Gigina, lontana sul colle arioso di Trepiano, in casa di contadini.
In fondo era contenta di non doverla allattare. Ciò le
avrebbe rubato troppo tempo e sformato il seno; poi giustificava a
se stessa questa ripugnanza colla scusa che la salute non avrebbe
resistito a tale fatica, mentre alla bambina profitterebbe
maggiormente la vita corroborante dei campi.
Si era fatta mettere una lunga poltrona nel gabinetto attiguo alla
camera da letto, e vi passava distesa tutto il giorno, coi capelli
pettinati a madonna, coperta di una vestaglia bianca a cordoni
vivamente cilestri, colle pianelline bianche ricamate d'oro, le
calze cilestri, e qualche bel mazzo di fiori entro un vaso vecchio
di porcellana sul tavolino rotondo, che si teneva presso.
Leggiucchiava, ricamava, in sostanza non faceva nulla.
Quando le amiche venivano a trovarla, diventava più languente
strascicando le parole per raccontare tutti gli strazi di quel primo
parto, poi la febbre, intensa, orribile, delirante: abbondava nei
particolari, inventava, finendo in buona fede col credere al proprio
racconto a forza di compiacersene. Allora parlava della bambina con
profondo rimpianto, perché aveva dovuto metterla in campagna,
e si lasciava a stento consolare di tale sventura. Ma il discorso
ritornava tosto sopra se medesima, finché le altre se ne
andavano stanche a novellare in giro su tutte quelle pose, e ridere
dell'avvocato, un uomo di vero ingegno, che vi si lasciava prendere.
Mario le mandò una mattina un bel mazzo di fiori; ella glieli
fece restituire dalla Gina, dicendo che odoravano troppo.
La Gina nel compiere l'ambasciata lo guardava freddamente, col mazzo
fra le mani. Erano soli nello studio; l'avvocato aveva lasciato
allora il gabinetto. Mario, dissimulando a stento il dispetto,
appoggiò un gomito sulla scrivania:
«Sta dunque molto male?»
«Chi lo sa? ha mangiato la solita bistecca, e dopo ha voluto
anche il caffè col latte.»
Mario sentì il sarcasmo.
«Dove vuole che metta questi fiori?»
«Li vuoi per te?»
La Gina ebbe un sussulto impercettibile:
«Dopo che la padrona li rifiuta, sarebbero un regalo ancora
troppo bello per la serva.»
«Ma tu sei la cameriera» ribatté l'altro
goffamente, credendo così di farle un complimento.
«Lo so benissimo di essere la cameriera, senza che ci sia
bisogno di farmelo pesare addosso.»
Mario invece rimase interdetto; non aveva avuto nessuna intenzione
di offenderla.
La piccola ed esile figura della Gina si drizzava dinanzi alla
scrivania con un'eleganza così altera e disinvolta, che lo
dominava. Egli la esaminò allora, come per la prima volta.
Così vestita di scuro, senza che nulla negli abiti tradisse
la sua condizione, le si sentiva nel viso scialbo una riserva, un
sottinteso, che attirava l'attenzione. La sua bocca, stretta e
scolorata, avrebbe stentato a sorridere davvero; poi il resto del
sesso le rimaneva quasi incerto, colle spalle aguzze, il petto
piallato, le anche sporgenti, senza una curva o una ondulazione,
sebbene la gracilità la rendesse donna, e due particolari, le
mani e i piedi, tradissero in lei la signora. Piccini arcati questi,
sottili affusolate, di un candore inquietante, quelle; e una folta
capigliatura castagna, piena di riflessi, le metteva sulla testa
come il principio di una bellezza, che il suo corpo non avesse poi
ricevuto.
Ma la voce dura e velata prognosticava qualche lontana malattia di
petto.
Involontariamente Mario la riconobbe più signora dell'Annetta
in quella sua povertà di condizione e di natura; quindi non
trovò come domandarle scusa, temendo di sbagliare daccapo il
tono.
La Gina che s'accorse della buona impressione prodotta su lui, ne fu
lusingata, e con un sorriso indefinibile gli disse:
«Li metterò sulla scrivania del signor avvocato,
poiché la signora non li può accettare; egli invece ne
sarà tutto contento.»
Quindi gli volse le spalle, allontanandosi con quel suo portamento
sciolto e superbo, che la faceva quasi sembrare meno piccola. Ma
appena l'intese chiudere l'altra porta del gabinetto, Mario vi
entrò livido di dispetto, prese il mazzo, e andò a
gettarlo nella latrina. Pochi giorni dopo lo colse un altro
disastro. A Firenze, in quella gran causa, fece un tal fiasco che
persino sopra un giornale ne fu stampato qualche commento satirico.
Naturalmente i suoi amici se ne compiacquero punzecchiandolo coi
sarcasmi, mentre l'avvocato, pieno della bonaria indulgenza dei
vecchi professionisti pei principianti, si fece raccontare da lui
tutta la seduta, e gliene corresse uno per uno gli errori con una
lezione, che per essere famigliare diventava anche più bella.
Mario ne rimase profondamente avvilito. La signora Orsolina invece,
senza toccare neppure da lontano l'argomento, si fece
improvvisamente più buona per qualche giorno. Ma quel primo
insuccesso del figlio era stato per lei un colpo mortale; ormai lo
aveva giudicato. Tutte le ambizioni della sua vita, che non aveva
mai confidato ad alcuno, nemmeno a lui stesso, le cadevano sul cuore
come foglie morte scrollate da un freddo vento autunnale: Mario non
sarebbe mai un grande avvocato come il signor Filippo, né il
deputato della città, questo sogno inebbriante, che essa
covava da tanti anni nel silenzio della sua povera casa, mangiando
quel magro pranzo quotidiano, sul quale riusciva nullameno a fare
qualche economia.
Poi Mario, troppo scarso d'ingegno e fiacco di carattere per avere
una vera ambizione, se ne consolò; qualche piccola causa
vinta in pretura lo rimise di buon umore, persuadendogli di essere
un avvocato come tutti gli altri della città. Ma l'abbandono
della signora Annetta lo disperava. Tutto quello che poteva sapere
dall'avvocato, perché ad interrogare la Veronica e la Gina
non si fidava, era che una grande debolezza la teneva ancora, quasi
tutto il giorno, sulla poltrona, e che non osava escire di casa,
all'aria libera, per timore di ricadere ammalata. L'avvocato
però non se ne preoccupava troppo, giacché i medici lo
avevano rassicurato sulla perfetta salute di lei. Erano le solite
paure di ogni donnina dopo il primo parto, che passerebbero ai soffi
caldi della primavera.
Infatti col fiorire dei mandorli, in quell'aria balsamica e
vibrante, che ridestava anche nelle cose la vita addormentata dal
lungo inverno, la signora Annetta si rianimò, e dopo pochi
giorni ridivenne quella di una volta. La prima gita fu in campagna
per vedere la Gigina. Mario la guardò partire coll'avvocato
in una vettura a due cavalli, lui felice, ella ancora un po'
pallida, ma più bella che mai. La maternità le aveva
messo sul viso una specie di nobiltà dolce e pensosa. Ella
alzò lo sguardo dalla carrozza per rispondere al saluto, che
egli faceva loro dalla finestra, perché aveva voluto rimanere
per dispetto nello studio, invece di scendere in strada ad aiutarli
come le altre volte.
Poco dopo la Gina entrò.
«Perché non li avete accompagnati?» le chiese di
malumore.
«Non me lo hanno detto: ma lei piuttosto avrebbe dovuto andare
con loro.»
«lo ... si sarebbe dovuto chiudere lo studio.»
«Qualche volta vi resta pure solo Andrea.»
Mario finse di seguitare a scrivere, ma la Gina non se ne andava:
«Non torneranno che stasera, sull'avemaria.»
«Io me n'andrò prima» rispose seccamente.
«Non le domandavo questo; naturalmente lei è ora il
padrone dello studio. La signora, che voleva la carrozza al primo
parto, adesso è diventata così buona, che vi ha
rinunziato.»
«Ah!»
«Ne parlavano anche ieri sera a pranzo. Il signor Filippo non
ha nemmeno avuto bisogno di persuaderla, che adesso sarebbe ancora
una spesa compromettente. Diceva che forse diventerebbe possibile
dopo la causa della cartiera, se si vincesse, ma la signora ha
risposto che non glie ne importava più nulla, che egli aveva
fatto anche troppo per lei.»
«In questo caso ha ragione; l'avvocato non guadagna ancora
abbastanza per concedersi questo lusso.»
«Lei crede! Io invece supponevo che lo avrebbe potuto
benissimo, ma che volesse invece fare dei risparmi per la bambina.
La signora si è mostrata di una arrendevolezza... Pare anche
più innamorata ora che al principio, quando io venni
qui.»
Mario sentì nel cuore la punta di quella botta lungamente
studiata, ma volle dissimulare:
«L'avvocato merita tutto l'amore.»
«Se bastasse meritarlo per averlo!» ribatté
l'altra lanciandogli un'occhiata.
Da che la conosceva, Mario non l'aveva sentita parlar tanto.
Ella restò ancora; evidentemente aveva qualche intenzione
riposta. Mario credette che volesse divertirsi a pungerlo, ma in lui
stesso era tanto il bisogno di parlarle dell'Annetta, che depose la
penna.
«Ha già finito di scrivere?» ella riprese senza
sorridere.
«Finito e non finito, ma perché non sedete?» e si
alzò per offrirle una scranna.
Ella accettò colla grazia di una signora, e cominciarono a
parlare. Dopo pochi secondi il discorso era caduto sulla signora
Annetta.
Mario si era già compromesso con due domande, la gelosia lo
tormentava. La Gina gli raccontava la scena del confessore, che egli
non sapeva, poi i primi giorni di devozione fervente. Ella l'aveva
sorpresa una volta in ginocchio colle lagrime agli occhi; la signora
era molto buona, e aveva avuto una grande paura di morire. Adesso si
mostrava tutta tenerezza per il signor Filippo.
«Forse si porteranno a casa la bambina, stasera. Che cosa ne
pensa lei? La signora è così impressionabile!»
«Per voi sarebbe una seccatura.»
«Perché? una bambina! Ci si vuole così presto
bene ai bambini. Lei non l'ha vista ancora la Gigina: è una
vera bellezza; il papà ne va pazzo.»
E la sua voce ebbe un lieve stridore, poi soggiunse:
«Quest'altra volta, se la portano stasera, andrà anche
lei a vederla; bisogna che vada anche lei.»
Si alzò per andarsene, Mario non la trattenne.
Sulla fronte della Gina apparve una ruga di dispetto, ma sull'uscio
si torse:
«Adesso la signora sta veramente bene; i fiori, anche molto
odorosi, non le danno più fastidio.»
Quella sera Mario andò fuori di porta per vederli ritornare,
nascosto nella svolta di un viottolo, che si cacciava fra gli orti,
perché non voleva essere scorto. In quella luce del tramonto
la signora Annetta, imbacuccata entro uno scialle roseo a rete, che
le saliva sopra la testa, dandole al viso una soave vivezza, gli
parve più bella. Mai, come allora, aveva sentito il bisogno
di quella donna. L'aria del vespero era satura di profumi, le piante
si vestivano delle prime foglioline, i mandorli bianchi di fiori
parevano ancora carichi di neve in quel tepore languido degli ultimi
raggi. Mario ritornò verso la città col cuore serrato.
Per le strade molte coppie innamorate si allontanavano parlando
sommessamente nella sera; sugli usci delle case le donne e i
fanciulli ridevano cianciando, allegri di quel risveglio alla vita
pieno di nuove promesse. Pareva un giorno di festa. Qualche operaio
rincasava cantando, i pipistrelli vagolavano nell'aria con volo
più incerto, come intormentiti dal lungo inverno.
Mario non sapeva dove andare. Una solitudine amara gli si
dilatò improvvisamente nell'anima, spegnendovi l'eco di tutte
le voci, che vi arrivavano dal di fuori. I primi fanali accesi
lungi, alle porte della città, gli diedero una più
desolata sensazione di abbandono. Dove passare la sera? Andò
a pranzo nel grande albergo, ma gli ufficiali, coi soliti discorsi
di caserma, gli parvero anche più insopportabili;
entrò nei due massimi caffè della piazza, poi cedendo
alla voglia secreta, che lo tormentava, si diresse verso la casa
dell'avvocato.
Forse sarebbero ancora a tavola, avendo pranzato più tardi.
Fu accolto benissimo, gli parlarono della bambina, cosicché
non ebbe nemmeno campo a servirsi del pretesto immaginato per
giustificare quella visita. L'avvocato abbondava sui particolari
della piccina più della signora Annetta, con quella tenerezza
morbida degli uomini, che diventando padri sul tardi vi portano un
orgoglio già rammollito da qualche affettuosità
senile. Ella lo interrompeva, poi si rimetteva ad ascoltarlo,
guardandolo come le donne guardano talora con sereno impudore il
maschio, che le rese madri, dopo che il nuovo amore per il bambino
trasformò la natura della loro passione sessuale.
A Mario pareva impossibile di essere così pienamente
dimenticato. Allora il suo orgoglio ricalcitrò. L'avvocato
seduto a tavola, col busto massiccio e pesante abbandonato sulla
sedia, la fronte già calva, la grossa barba brizzolata,
troppo lunga ed incolta, era davvero brutto. L'energia spirituale
della sua testa si era spenta nella fatica della digestione; fumava
una grossa pipa di legno, sporcandosi le dita a premervi dentro la
cenere.
Mario ebbe coscienza di essere più bello, e soprattutto
più fresco; quindi con un sorriso insolente tagliò una
risposta della signora Annetta sulla bambina. Questo bastò;
la signora Annetta si fece seria senza che l'avvocato se ne
accorgesse. Che cosa era tutta quella gioia se non l'ultimo inganno,
che ella faceva al marito, sollecitandolo nella vanità di
padre, mentre invece egli solo, Mario, aveva potuto svegliare in lei
la maternità? Tutte le leggi sociali, le virtù, le
ipocrisie, vanivano davanti alla onnipotenza di questo fatto
brutale; l'avvocato poteva essere uno dei migliori professionisti
nella provincia, guadagnare molto danaro, godere la stima
universale, ma la piccola Gigina non era sua, egli non avrebbe mai
potuto generarla.
Quest'orgoglio gli crebbe così smisuratamente nella
coscienza, che Mario si permise qualche ironia anche contro di lui.
«Avete ragione,» rispose l'avvocato «siamo tutti
così noi altri; ritorniamo bambini col primo bambino che ci
nasce, e crediamo che la nostra gioia possa essere egualmente
sentita dagli altri.»
«Ma se io la divido pienamente» replicò Mario,
dando alla signora Annetta un'occhiata.
Ella ebbe un leggiero rossore. Allora Mario sperò di poterla
riconquistare. Invece di mostrarsi come dianzi inquieto e
sottomesso, affettò la disinvoltura, mettendo persino nella
propria voce qualche accento di comando. Ella non resisteva; si
sarebbe detto che quella trasformazione di lui le facesse paura. Il
passato la riprendeva. Poi Mario quella sera, chiuso nell'elegante
soprabito nero, accuratamente pettinato, coi baffetti biondi
rialzati agli angoli della bocca, il viso roseo, gli occhi cilestri
pieni di vampe, le pareva bello. Era il giovane, l'uomo destinatole
dalla natura attraverso a tutte le antitesi sociali, e che ella
stessa aveva preferito, prima ancora che in lui spuntasse il
coraggio di farle la corte. Perché gli si era abbandonata
così, senza resistere, come una di quelle vecchie galanti,
che s'affrettano coi giovani per timore di non essere più
accettabili tardando, ella che non era corrotta e non si sentiva nel
sangue l'ardore sensuale di tante altre donne? Tutti i suoi
propositi di onestà coniugale svanivano davanti a questa
nuova affermazione di Mario: egli era il padre vero della Gigina. La
Gigina stessa gli somigliava spaventevolmente, e questa sua
somiglianza era un'altra prova del diritto dell'amante sulla madre.
Mario possedeva la parte migliore di lei, quella che sopravviverebbe
alla gioventù e alla loro stessa passione. Qualunque
tentativo in lei per sottrarsi alle conseguenze di questo fatto
troverebbe un ostacolo infrangibile nella sua coscienza di madre,
nella inferiorità della femmina dinanzi al maschio, che l'ha
fecondata.
«Quest'altra volta, signora Annetta, sarò invitato
anch'io.»
«Certo,» intervenne l'avvocato «l'ho detto io per
il primo, appena l'abbiamo vista sulla porta in braccio alla
Caterina. Se vedeste come è bella; vogliamo tornarci
domenica, Annetta?»
«Volentieri» rispose abbassando la testa.
Mario si trattenne ancora; voleva trovar modo di dirle qualche
parola.
Finalmente lo potè.
«Domani venite nello studio.»
L’altra parve esitare.
«Lo voglio.»
Bevve ancora un piccolo bicchiere di punch, espose all'avvocato il
dubbio giuridico, del quale si era munito per venire, e si
ritirò con aria trionfante.
Così la riconquistò lentamente, ma i suoi modi e il
suo accento adesso erano di padrone; parlava dell'avvocato come di
un subalterno. Nullameno ella si ribellava ancora, anzi in un
momento d'irritazione, colla viltà naturale della donna, gli
rinfacciò quel fiasco a Firenze.
La gelosia di lui invece non dava più tregua. Erano tornati
dalla Gigina, in un bel pomeriggio pieno di sole; la signora Annetta
inquieta pel timore che Mario si tradisse davanti alla piccina, non
gliene aveva parlato, quasi volesse tentare su lui un esperimento.
Invece tutto andò anche troppo bene. Mario vantando la
bellezza della Gigina per intonare coll'entusiasmo dell'avvocato,
non aveva provato nulla al cuore dinanzi a quel piccolo essere
ravvoltolato nelle fasce, roseo, cogli occhi azzurri, ancora
insignificante. La sua paternità, della quale credette di
trovare la conferma nel colore delle pupille e nel ciuffetto biondo,
che le usciva di sotto alla cuffia bianca, non si destò.
Quindi non s'accorse nemmeno della differenza fra i trasporti
rattenuti e così veri dell'avvocato, e i giuochi pazzerelli,
ma freddi della mamma.
Tuttavia quando l'Annetta, dopo averla lungamente palleggiata col
vezzo grazioso delle donne, l'adagiò sul petto del marito,
come dentro una culla sussurrandole sulla bocca:
«Dormi, dormi, Ninina, fra le braccia del tuo papà, il
tuo papà.» Mario, non ingannandosi sull'intenzione di
quelle parole, la guardò corrucciato.
La sua gelosia d'innamorato diventava sempre più sospettosa.
Non avrebbe voluto che ella scherzasse mai col marito; ad ogni
più lieve accenno di carezza li vedeva già innamorati,
l'uno nelle braccia dell'altro, e dopo, quando era solo, tale
assiduo pensiero lo rendeva pazzo. Pretendeva di dominarla in tutto,
dal vertice della sua stessa individualità, fin dove nemmeno
la passione può giungere. E siccome il temperamento piuttosto
freddo, e lo spirito quasi sciocco di lei, gli resistevano colla
propria impenetrabilità, egli vi s'accaniva senza accorgersi
di perdere così i pochi vantaggi della amabilità
giovanile, eccitando le rivolte del suo orgoglio. Le aveva
già fatto una scena spiacevole su Talli. A forza di
rimuginare le sensazioni umilianti provate in quella notte, quando
ella era presso a morire, aveva finito coll'offendersi che il
dottore avesse potuto per ore intiere maneggiare il suo corpo,
tentandone tutte le bellezze più segrete con quel terribile
diritto dei medici, contro il quale le donne anche dopo la
guarigione sono senza difesa.
«Come avremmo dunque dovuto fare?»
«Avremmo! quasi che foste d'accordo. Non lo senti che queste
parole mi fanno male?»
Ella invece ne aveva riso; ma l'altro, quantunque sentisse di
diventare ridicolo, gli aveva proibito di chiamare ancora Talli.
«Non potrò nemmeno salutarlo per strada!»
«Sì, ma non fermarti con lui.»
Nonpertanto, rianimandosi, la loro passione era senza quegli
improvvisi slanci di tenerezza e quei bisogni ardenti di
sensualità, che avevano reso così deliziosi gli ultimi
mesi della sua gravidanza. Era un amore più calmo, quasi
regolare nel suo bel temperamento di bionda sana; bisognava che egli
l'eccitasse colla provocazione dei propri desiderii, nel pericolo di
un convegno furtivo, perché la voluttà le si destasse
sotto quella sua carne florida e riposata. E anche allora gli pareva
che ella fosse distratta e il cuore le seguitasse a battere
tranquillamente sotto i fiori nivei del seno, quasi ancora vergine
come prima del parto. Era una ossessione spasmodica, nella quale
egli raddoppiava la frenesia delle carezze, finché vinta,
soffocata ella gli anelasse sotto le labbra con un'ultima morente
dimanda di grazia negli occhi.
In quei momenti non parlavano mai della Gigina, che invece occupava
tutti i discorsi in famiglia. L'avvocato contentissimo della
Caterina, una donna eccellente, e di quella famiglia quasi ricca di
contadini, faceva volentieri per un anno quel sacrificio alla salute
della figlia. D'altronde andava spesso a vederla da solo,
scusandosene come di una fanciullaggine, che lo prendeva certe volte
all'improvviso, irresistibilmente, così che doveva salire sul
primo fiacchero.
Egli non si era ancora accorto di nulla, benché qualche cosa
se ne cominciasse a sussurrare dopo quelle prime malignità
sparse dalla moglie dell'esattore. Fortunatamente la Veronica, di
mente ottusa e sempre preoccupata della propria cucina, non lo
avrebbe mai indovinato, e la Gina taceva. Ma il vecchio Andrea aveva
detto a Marco, l'altro scrivano, un misantropo, che andava sempre
solo:
«Il signor Mario è un miserabile.»
Marco lo aveva guardato un pezzo prima di rispondere. Era più
vecchio e malandato di Andrea, con una gran testa calva, scarno, di
un pallore bilioso nel volto. Non aveva che una passione, il lotto,
e una vanità, la cabala. Fra loro si dicevano tutto da
venticinque anni.
«Bisogna che l'avvocato non lo impari.»
«Da noi non lo imparerà certamente.»
«I dispiaceri s'imparano sempre» aveva risposto Marco
colla desolata filosofia dei vecchi.
D'altronde Mario si manteneva abbastanza cauto, malgrado la veemenza
della propria gelosia; ella, anche più libera di spirito,
durava minor fatica a dissimulare. Non si vedevano che nel gabinetto
verde, quando l'avvocato doveva assentarsi sicuramente per qualche
ora; ma vi restavano per pochi minuti, egli fremente di rimproveri,
ella affrettandosi, e nell'orgasmo della fretta cedendo ad una
eccitazione, che talvolta lo ingannava. Sovente passavano delle
settimane prima di poter combinare un convegno; ella sembrava
evitare le occasioni, quantunque gli si mostrasse amabile di
civetteria nel cogliere a volo tutti i suoi cenni, e nel lasciarsi
persino abbracciare rapidamente, pericolosamente, quando il marito
volgeva loro la schiena. Invece ricusava con ogni astuzia femminile
la compagnia di Mario nelle passeggiate e nelle lunghe soste al
caffè, nelle sere di banda, perché il suo istinto
donnesco l'avvertiva che lì stava il pericolo. Naturalmente
la malignità del pubblico avrebbe fatto il confronto fra
Mario e l'avvocato per concludere col vedere in questi un amante;
poi Mario si sarebbe tradito con qualche occhiata gelosa. Anzi una
sera, accorgendosi che egli la sorvegliava aggrondato da un altro
tavolo, col pretesto di un improvviso mal di capo se ne andò.
Ma in quelle sere, sotto la luce rossastra dei becchi a gas, mentre
tutti la guardavano, le donne invidiando, gli uomini desiderandola,
e i maggiori personaggi della città venivano ad inchinarla
coi soliti immutabili complimenti sulla sua bellezza, Mario le
veniva quasi in uggia. Invece insuperbiva del marito, cui doveva
tale supremazia; Mario non era più che uno di quei piaceri
volgari, una ghiottoneria, della quale non si parla in pubblico, e
si dimentica naturalmente appena l'anima si eleva un istante
nell'orgoglio di se stessa.
Mario se ne rodeva nel proprio interno senza poterle dar torto,
perché il suo stesso egoismo l'avvertiva che egli non era
gran fatto diverso da lei. Ma, appena poteva parlarle, erano
lagnanze amare, recriminazioni permalose, che talvolta rendevano
impossibile ogni altra espansione
Poi v'erano altre difficoltà materiali. L'Annetta non aveva
altra camera da letto che quella nuziale, senza modo di adattarne
un'altra qualunque. Mario vi aveva pensato indarno, cercando come
separarli; il loro letto, di mogano ad intagli, non si poteva
dividere, e per sostituirlo con due letti gemelli si sarebbe dovuto
rompere l'euritmia cogli altri mobili. Era impossibile. Quella
camera del marito, inespugnabile come una fortezza, nella quale non
era ancora potuto penetrare nemmeno di frodo, diventava la prigione
del suo pensiero geloso.
Egli aveva voluto da lei, almeno per la centesima volta, la
confessione minuta e degradante di tutti i secreti matrimoniali; ma
l'Annetta si era difesa nel proprio pudore di donna e di signora,
mentendo, perché vi debbono essere misteri anche per gli
amanti. L'amore ha bisogno di reticenze come tutto il resto della
vita. Ma egli insisteva col fremito di una passione così
vera, che ella aveva finito col sentirsene solleticata nella
vanità. Negava ancora, non tutto. Del resto sarebbe stato
impossibile; anch'egli, Mario, avrebbe dovuto comprenderlo.
«E dici di amarmi? gli dài i medesimi baci...»
«Ma no, non sono i medesimi... capirai.»
«Sei tu che non capisci. Devi essere mia, solamente mia: ti
voglio solo per me.»
E le stringeva ambe le mani, comunicandole il proprio tremito. Ella
lo guardava quasi atterrita, con un principio di ebbrietà
sensuale.
«Mio Dio, ma come vuoi?...»
«Non mi hai nemmeno voluto nella tua camera. Che cosa temi?
che io la profani?»
«Non è questo, pensa alla Gina.»
«Che m'importa?»
Mario si corresse:
«lo non voglio che tu sia sua moglie: lo capisci?»
Ella ebbe un sorriso fanciullesco.
«Ma lui è mio marito.»
Mario la respinse con un gesto violento, pazzo.
«Sii ragionevole, Mario: vi sono delle cose impossibili. In
fondo egli è buono anche per te.»
«Adesso lo vanti. Ecco come siete voi altre donne, senza
cuore, senza anima. lo ti...»
E il suo volto espresse una minaccia, che l'altra non comprese.
Quindi, mettendogli una mano sulla spalla, ella seguitò con
quel suo dolce sorriso:
«Ma se non accade quasi mai! T'assicuro, credilo, che non sono
io. lo non voglio bene che a te solo, cattivo, che non sei mai
contento di nulla. Ti lagni sempre, vorresti delle cose che sono al
disopra delle nostre forze, mentre io, dovresti ricordartene, non ho
fatto così con te. Potevo anch'io farti soffrire, se lo
avessi voluto, ma sono più buona di te... se tu mi amassi,
non mi tratteresti così» concluse con abilità
donnesca, trasformandosi da accusata in accusatrice.
«Quant'è?» egli le chiese fissandola
violentemente negli occhi: «Bada di non mentire.»
Ella sostenne l'occhiata.
«Chi se ne ricorda?»
«Non voglio, non voglio.»
«Sei tu che non mi vuoi più bene.»
Egli l'afferrò alla cintura per impedirle di andarsene, ella
gli si abbandonò fra le braccia in un bacio; così
finivano generalmente queste scene, che si riproducevano ad ogni
incontro.
IV
L'avvocato preparava un gran colpo.
Fin dai primi mesi della sua presidenza nella congregazione delle
Opere Pie, aveva scoperto nel disordine antico dell'amministrazione
guasti più recenti. L'immenso patrimonio, quasi dieci milioni
di lire, più che sufficiente a tutte le miserie del paese,
veniva dilapidato dagli amministratori, che per vanità di
comando tolleravano con viltà una camorra d'impiegati
negligenti e rapaci. L'avvocato si mise sul serio a rivedere i
conti. Ogni giorno toccava nuove piaghe, testamenti non eseguiti,
poderi affittati dei quali non si percepivano le corrisposte e non
si trovavano gli affittuari, spese incredibili nei restauri e nelle
manutenzioni, bonifiche già saldate e non ancora
incominciate, accordi fraudolenti nella vendita delle derrate,
soprusi nella erogazione delle elemosine, e finalmente tutta una
serie di mandati falsi fra l'economo e il cassiere. Il caso era
grave. Questi ultimi due impiegati erano i grandi elettori del
partito radicale, caduto poco prima dal potere per rancori
inconciliabili fra le sue varie sètte, ma forte ancora
dell'assenso brutale della piazza.
Il partito moderato, riaffermando la pubblica amministrazione, vi
portava, attraverso intendimenti più onesti, condiscendenze
anche più ipocrite e quella paura dell'impopolarità,
che toglie il coraggio di qualunque vera riforma. Egli, rimasto sino
allora quasi al di fuori delle lotte politiche paesane, era stato
eletto alla unanimità, e godeva ancora di quella dittatura
inoffensiva, che talvolta la tregua dei partiti accorda ad un uomo
nuovo. Ma sotto quella inalterabile bonarietà l'avvocato
covava una forte ambizione. Lungamente discusse nel silenzio del
proprio gabinetto i pericoli d'una denuncia su tali malversazioni,
calcolando colla esperienza degli affari e quell'intuizione dello
spirito pubblico propria dei pensatori, gli argomenti e le difese,
che i colpiti avrebbero usato. Tutti sapevano del male, ma appunto
perché troppo grande nessuno aveva mai osato porvi la mano. I
moderati contentissimi di uno scandalo avrebbero abbandonato dinanzi
al primo tumulto l'audace, che lo avesse provocato; i radicali
tenterebbero tutte le intimidazioni, avventando fango e bestemmie
dai loro giornalucoli. Forse il governo stesso tentennerebbe per
quella fiacca politica dell'acconciarsi a tutti i guai, piuttosto
che affrontare una esplosione della coscienza nazionale.
Nullameno si decise.
Allora ne parlò a Mario, tenendolo molte notti nel proprio
gabinetto, perché lo aiutasse nello spoglio dei documenti,
coi quali intendeva corredare la grossa relazione, che avrebbe
contemporaneamente presentata al consiglio e al governo per invocare
un commissario regio. Mario rimase sbigottito della temerità
del disegno e della vastità degli studi, dai quali era
sostenuto; l'avvocato gli si rivelava improvvisamente sotto il nuovo
aspetto di un uomo politico, egualmente fermo di carattere che
malleabile nell'ingegno. Ma la prima difficoltà consisteva
nell'eliminare dalla deputazione delle Opere Pie alcuni membri, dei
quali non era possibile fidarsi, perché non avrebbero mai
osato contribuire ad un'impresa così pericolosa. Lentamente,
abilmente l'avvocato, irritando la loro vanità su piccole
questioni col fingere di ostinarsi a torto, poté forzarli a
dare le dimissioni. Ciò in paese lo diminuì
momentaneamente; a molti anzi parve strano che un uomo della sua
levatura potesse impuntarsi sopra tali inezie. Lo si accusò
di manìa del potere, solita negli uomini nuovi alla vita
pubblica, ma non ne vennero grandi discussioni, giacché
nessuno dei dimissionari ardì attaccarlo in consiglio per
timore della sua eloquenza. Quindi l'avvocato fece nominare al loro
posto alcuni figuranti, suoi ammiratori da tempo, che avrebbero
sempre creduto ciecamente alla sua parola, e firmata qualunque
relazione senza leggerla.
Poi lasciò trascorrere ancora molti mesi.
Vennero daccapo le elezioni. Questa volta egli vi si adoperò
così bene, che i nuovi consiglieri furono quasi tutti clienti
del suo studio, gente ricca, mezzo clericale, ma di gran nome nella
città. Egli si mantenne sempre così facile nei modi,
lontano da ogni esagerazione di comando, lasciando libera carriera a
tutti i piccoli orgogli disputantisi le cariche cittadine. Laonde
quelle dimissioni dei suoi primi colleghi nella congregazione
vennero presto dimenticate. Quanto ai nuovi contratti, e
nell'elargizione ai poveri, veniva con fine criterio e con mano
ferma sradicando gli abusi, così da farsi al tempo stesso
amare e temere. In quel tempo aveva vinto in prima istanza la causa
della cartiera, guadagnandovi trentamila franchi, ma a rovescio
della moda giuridica non aveva voluto poi associarsi altri avvocati
per l'appello, solamente munendosi a Bologna del più sottile
fra tutti i procuratori. Evidentemente voleva vincere solo, meno
ancora per non dividerne il lucro che per orgoglio di dotare, e
senza aiuto d'altri, la città di un grande stabilimento
industriale moderno.
L'Annetta allora gli ridomandò la carrozza; oramai spirava
l'anno che la Gigina doveva trascorrere in campagna. L'avvocato,
invece di rispondere subito, se la prese sulle ginocchia, e
carezzandole colla grossa mano la bella testa:
«Ti piacerebbe invece di passare l'inverno a Roma?»
Ella sbarrò gli occhi.
«Lasciami dunque fare. Se vuoi la carrozza col cavallo, te la
pagherò, perché hai la mia parola; ma credi a me, non
è tempo ancora. Ti preparo di meglio.»
La sua faccia in quel momento splendeva di tutta l'energia
intellettuale, come quando si esaltava in qualche disquisizione
giuridica. Ella non capiva, stimolata da una confusa
curiosità.
«A Roma!»
«Non l'inverno prossimo, l'altro forse. Ma soprattutto non
m'interrogare: tu non terresti il secreto.»
Ella quasi ne convenne.
«Piuttosto, eccoti per due abiti» e tirando un cassetto
della scrivania, le regalò un bono da cinquecento lire.
L'Annetta inebbriata gli si gettò al collo, coprendolo di
baci.
«Lavori troppo, Pippo mio» gli osservò facendosi
a un tratto materna. «Che non dovesse poi darti
fastidio.»
L'altro sorrise.
«Sai come faremo? mi comprerai a Firenze la più bella
carrozzina per la Gigina. Uscirò colla Gina, ella la
spingerà. Anche le grandi signore fanno così nelle
capitali.»
Da molti mesi l'avvocato non usciva quasi più di casa, preso
da una smania febbrile di lavoro. A cinquant'anni gli era venuta in
uggia quella vita oscura di provincia, appena interrotta da qualche
gita a Firenze o a Bologna per motivi di tribunale. Contento della
moglie, inebbriato della propria bambina, voleva sollevarsi
più lontano e più alto, in un ambiente spirituale, ove
esercitare le forze accumulate pazientemente nel lungo studio.
Benché la sua ambizione non avesse ancora un ideale preciso,
si sentiva capace di cose anche maggiori di quelle, che da lui
aspettavano i più ferventi ammiratori.
Quindi suggerì ad alcuni capi del partito moderato la
fondazione di un giornale ebdomadario per combattere quello, che da
anni aiutava abbastanza bene i radicali nel maneggio dell'opinione
paesana. Un giovane avvocato, ritornato allora
dall'Università, d'ingegno battagliero e scrittore abbastanza
disinvolto di articoli, ne assunse la direzione; altri giovani per
vanità letteraria e spavalderia di ripicco gli si strinsero
attorno. Presto la lite divampò fra i due giornali, e ne
seguì un duello. L'avvocato finse abilmente di non
interessarsi alle polemiche, poi diede alla Gazzetta moderata una
serie di articoli sulla nuova legge delle Opere Pie, che il
Parlamento stava discutendo. Di rimando i radicali pretesero
confutarlo, ma egli non rispose, e la dottrina e il valore vero dei
suoi articoli impressionarono tutte le persone colte del paese. Egli
si levava spontaneamente superiore a tutti, sorvolando alle
discussioni personali, limpido e conciso nelle esposizioni,
terribile per la densità dei sarcasmi che talvolta gli
sfuggivano; mentre il direttore della Gazzetta, da lui indettato,
apriva una campagna contro la passata amministrazione radicale,
berteggiandone le asinerie e rivelandone, sebbene ancora
confusamente, i guasti.
Mario, che naturalmente si era legato coi giovani redattori della
Gazzetta, fu travolto nelle animosità e dalle
animosità del partito, fino a scrivere egli stesso qualche
articolo senza firmarlo, ma vantandosene poi in pubblico. Quando
l'eccitazione degli spiriti fu al colmo, l'avvocato annunziò
per la prossima seduta consigliare una interpellanza sulle Opere
Pie. Aveva già fatto stampare secretamente a Firenze la
relazione, e ne aveva ricevuto tutte le copie per distribuirle
all'indomani del primo attacco. Ma nessuno ancora prevedeva la
grossa lite, che ne verrebbe.
La seduta aveva luogo nel mattino. Malgrado l'energia del carattere,
l'avvocato era nervoso. Prima di uscire di casa chiamò
l'Annetta nello studio per suggerirle di andare dalla Gigina in
campagna. Era stata un'idea improvvisa, un subito timore
irragionevole, che potesse scoppiare qualche chiasso, e quindi non
l'avrebbe voluta in città perché non se ne
spaventasse. Ma ella, che aspettava la sarta, non vi
acconsentì. Quella mattina era tutta felice; gli parlò
dell'abito, una novità che nessuna signora aveva osato ancora
in provincia, senza accorgersi della sua preoccupazione. Anche Mario
era accigliato. Nonostante la gelosia, si sentiva dominato da
quell'uomo, che stava per ingaggiare così pericolosa
battaglia. Finalmente l'avvocato prese il cappello per uscire, ma si
voltò a baciare l'Annetta. La cosa era così insolita
che ella scoppiò a ridere, mentre Mario le faceva gli
occhiacci. Ma non vi fu tempo a spiegazioni.
Prima di separarsi l'avvocato disse a Mario:
«Mettetevi fra la folla, me ne direte poi
l'impressione.»
Egli, diventato di mal umore dopo quel bacio, credendo d'indovinare
in lui una paura, rispose:
«La folla sarà tutta di radicali, è possibile
che fischino.»
«Lo facessero!» ribatté l'avvocato con tale
sorriso che l'altro ne rimase sconcertato.
La signora Annetta era rimasta in casa ad aspettare la sarta.
In quei mesi la sua bellezza aveva rifiorito così da farla
sembrare ringiovanita. Tutto le sorrideva, tutto le riusciva; la
stessa gelosia di Mario, a volta a volta seccante e brutale, le
diventava uno stimolo nella monotonia delle abitudini, che avrebbe
potuto mutarsi in noia. Ella li amava entrambi, dividendosi fra essi
colla incosciente passività della femmina. Nessun rimorso,
dopo quel fuggevole ritorno alle devozioni di bambina, turbava la
calma del suo spirito; era così naturale per lei che quei due
uomini l'amassero, che ella medesima aveva dovuto amarli. Solo uno
scandalo l'avrebbe fatta soffrire, guastandole fatalmente la
posizione nel mondo, ma si era abituata a non temerne in quella
facilità, che la presenza di Mario nello studio e il
carattere confidente dell'avvocato le procuravano. Quindi non
sospettava di alcuno. Infatti nemmeno quella moglie dell'esattore,
sebbene avesse con più d'uno sparlato di lei e di Mario, si
era tanto accanita nella chiacchiera, che si fosse davvero
propalata. Naturalmente i maligni, che l'ozio moltiplica nelle
cittaduzze di provincia, lanciavano tratto tratto qualche proposito
sguaiato sulla intimità di Mario coll'avvocato, presso una
moglie così giovane e bellina; ma ogni accusa cadeva,
perché nessun incidente scandaloso era ancora venuto ad
impressionare la fantasia del pubblico.
Quella mattina la sarta le aveva misurato lungamente l'abito,
difendendolo contro i mutamenti, che le venivano alla fantasia ad
ogni prova, e se n'era andata, quando la moglie dell'esattore
discese dalla Veronica per raccontarle come suo marito, rincasato
allora per il pranzo, le avesse detto che nel consiglio comunale
c'era gran tempesta a cagione dell'avvocato. La Veronica corse dalla
signora Annetta, gonfiandole naturalmente quelle poche frasi;
chiamarono Andrea. Egli non sapeva nulla, ma subito indovinò
qualche cosa, ripensando a certi discorsi dei giorni prima. Lo
mandarono a palazzo Comunale, perché ne ritornasse subito con
una risposta. Dopo mezz'ora non s'era ancora visto. Allora
l'inquietudine crebbe. La signora Annetta si mise alla finestra
colla Gina, la Veronica andava e veniva dalla cucina; alcune
occhiate della gente, che passava sotto di loro, finirono
d'impensierirle.
Che cosa era avvenuto?
La Gina osservò colla solita freddezza, che siccome il signor
Mario era coll'avvocato, in fondo non c'era di che spaventarsi; ma
la sua voce fece trasalire l'Annetta.
Adesso strane paure le si alzavano dal cuore. Non sapeva nulla delle
lotte politiche cittadine, ma l'aver scorso qualche volta a caso
alcuni articoli violenti dei due giornali, e il ricordo dell'ultimo
duello accaduto l'assalsero confusamente. Non pensava a lui. E se
perisse? Questa subitanea paura della morte, che le donne nella
fiacchezza della loro fibra provano così facilmente, la fece
scoppiare in singhiozzi.
Corse nell'anticamera a cercare Marco. Il vecchio stava correggendo
una cabala sopra una lunga striscia di carta sudicia,tutta piena di
numeri entro finche segnate colla matita rossa, qua e là
interrotte da altri asterischi.
«Marco, fatemi la carità, scappate subito a palazzo
Comunale. Andate a veder voi; Andrea non è tornato.»
Egli ripiegò lentamente la carta, e se la pose nel taschino
del vecchio panciotto nero.
«Mio Dio, ho paura!»
«Che cos'è?»
«Non lo so. Andate a vedere quello che è succeduto:
tornate subito, per carità.»
Staccò ella medesima dall'attaccapanni il suo cappello a
cencio, largo e sudicio, perché facesse più presto; lo
spinse quasi fuori colle mani, e tornò correndo alla
finestra.
«Dio! come va adagio» esclamò con voce disperata,
vedendolo avviarsi col suo passo da vecchio.
Ma poco dopo vide avanzarsi l'avvocato fra un gruppo di signori,che
gesticolavano vivamente. La moglie dell'esattore tornò a
discendere; un altro inquilino le aveva detto che l'avvocato era
stato fischiato, e che i carabinieri avevano dovuto intervenire per
difenderlo.
«Mio Dio» mormorò la signora Annetta, spingendosi
con tutto il busto fuori della finestra.
Allora quei signori la videro, e l'avvocato la salutò
vivamente colla mano affrettando il passo. Ella corse alla porta
dello studio, ma udendo salire tutti quei passi, indietreggiò
spaventata. La Gina, la Veronica, la moglie dell'esattore,
barattavano occhiate dietro la sua schiena, allungandosi verso
l'uscio. Il rumore delle voci ingrossava; l'avvocato ebbe una franca
risata, poi scorgendola sul pianerottolo corse su. Nel vederlo
così allegro ella non capì più; s'offese del
proprio spavento, e rinculò imbizzita.
«Che hai?» le chiese ridivenendo così serio, che
ella indovinò istantaneamente il pericolo, dal quale usciva,
e gli si slanciò al collo piangendo. Tutti erano entrati,
l'anticamera ne pareva piena; Mario, ultimo, chiudeva l'uscio. A
quello scoppio di singhiozzi tutti la circondarono, parlando a una
voce.
«No,» ella diceva fra i singulti «ti hanno
fischiato, lo so. Si è dovuto chiamare i carabinieri.»
Infatti era vero.
«E poi?» chiese l'avvocato, staccandosi le sue mani dal
collo per forzarla a ricomporsi dinanzi a tutta quella gente.
«Eccomi ancora qui: via, Annetta, sei proprio una
bambina.»
«Sei tu che dovevi dirmelo. Che cosa è stato?»
«Nulla, una delle solite scempiaggini di quei
mascalzoni» intervenne il conte Giglioli, bell'uomo dall'aria
signorile, tuttora esaltato.
«I carabinieri ti hanno difeso?»
«Non ce n'è stato bisogno: senza un sindaco così
fiacco, si sarebbe subito fatta sgombrare la sala.»
«Perché t'immischi di queste cose?» proruppe
nuovamente spaventata.
E il suo rimprovero era così sincero che tutti risero; quella
ilarità la calmò. Adesso era ripresa dalla
vanità di padrona di casa, in faccia a quei signori, che
sembravano studiarla malgrado le occhiate benevoli. Si volse tutta
vergognosa, ma già presso a riprendere la propria gaiezza.
«Ah!» esclamò vedendo finalmente Mario, e il suo
sguardo espresse uno sdegno quasi sprezzante, «lei, signor
Mario, perché non è venuto ad avvisarci? Lei non
è già consigliere.»
Mario impallidì sotto le occhiate di tutti: il conte
Giglioli, che aveva inteso qualche cosa sui loro amori, colpito
dalla sincerità di quella collera, scambiò uno sguardo
coll'ingegnere Brunelli.
Mario sentì che tutta quella gente, credendolo nient'altro
che un giovane di studio, dava ragione alla signora Annetta; in quel
momento la mortificazione dell'orgoglio fu in lui più
dolorosa dei morsi della gelosia. La signora Annetta lo schiacciava
dall'alto della propria passione di moglie.
Poi ella gli volse le spalle, invitando i signori a passare nella
saletta di ricevimento. «È troppo piccola, mia
cara» ribatté l'avvocato; «staremo meglio
qui.»
Allora si sparpagliarono per le sedie. Il conte Giglioli, sempre il
più compito, avendo traveduto una poltrona nel gabinetto
verde, andò a prenderla per la signora. L'avvocato
famigliarmente si era seduto alla scrivania di Mario, il conte
Giglioli si mise presso alla poltrona, e chiacchierarono della
seduta con parole veementi contro il sindaco. L'avvocato sembrava
divertirsi ad eccitarli colla propria calma.
Poi si mise a scrivere.
«Che cosa fate?» chiese il conte.
«La mia lettera di dimissione.»
«Benissimo! ci dimetteremo con voi. Se il sindaco vuol
lasciarsi insultare da beceri prezzolati, ciò vuol dire che
sente di meritare tali ingiurie.»
«Dov'è la carta?» domandarono cinque o sei voci.
«Mario,» gli si rivolse l'avvocato, vedendolo solo
presso alla finestra, «abbiate la bontà di
cercarne.»
A Mario parve di diventare un domestico, tutti gli facevano fretta
cogli sguardi. L'avvocato lesse la propria lettera, breve e
terribile; gli risposero con un "hurrà!". Mario, entrato nel
gabinetto verde, vi rovistava colle mani tremanti, ma i minuti gli
divenivano ore in quell'orgasmo. Finalmente ritornò con una
piccola risma già incominciata.
«Ma pare impossibile!» gridò la signora Annetta.
«Non vedete che c'è il timbro dello studio?»
E questa volta, dandogli del voi, sembrava proprio che parlasse ad
un servo.
«Tirate il cassetto a sinistra» gli disse l'avvocato
«ce n'è tanta della carta.»
Si erano già messi a cercare le penne, scrissero in piedi.
Alcuni si trovavano già nell'imbarazzo per improvvisare una
lettera di dimissioni, dopo che l'avvocato aveva letta la propria.
Egli li osservava rattenendo un sorriso, ma siccome per quanto
paresse loro di far presto, ci mettevano abbastanza tempo, per non
aggravarli colla propria attesa si voltò affettatamente alla
Annetta. Ella gli prese una mano
«Raccontami tutto.»
«Dopo, mia cara.»
«No, subito, subito. Tu non hai avuto paura come me!»
esclamò con ammirazione.
Egli incominciò infatti a narrarle il principio della seduta,
sentendosi ripullulare in cuore l'orgoglio dell'esordio, col quale
aveva incominciato il difficile discorso; le penne degli altri
scricchiolavano impuntandosi sulla carta, qualcuno aveva già
stracciato il primo foglio. Allora l'avvocato passò con lei
nel gabinetto verde, lasciandone naturalmente aperto l'uscio;
così gli altri avrebbero scritto meglio.
Mario insospettito andò a porsi nell'angolo, presso il gran
scaffale, e la vide attaccata al collo di lui entro uno specchio
piccolo, sul quale erano dipinti dei fiori: un regalo anche quello,
appeso di fronte al ritratto della signora Luigia.
L'impressione fu così dolorosa che, profittando della
disattenzione di tutti, fuggì. Un gruppo di signori fermi
davanti alla porta di casa parevano incerti di salire; Mario li
cansò difilandosi verso porta S. Biagio, della quale l'arco
altissimo lasciava vedere tutto un lembo di campagna. In quel
momento la sua gelosia diventava odio contro l'avvocato. Confuso fra
la folla, che stipava la vasta sala delle sedute consigliari, egli
aveva assistito per tre ore a quella grande battaglia, sentendosi
tratto tratto trasportato di ammirazione. L'avvocato vi si era
mostrato superbo di abilità e di sangue freddo; mai la sua
parola aveva trovato impeti e bagliori più terribili, mentre
quella sua faccia affascinava così il pubblico che, malgrado
la parola d'ordine data dai capi radicali ai loro numerosi adepti,
il tumulto era scoppiato solamente alla fine, dietro un urlo
irrefrenabile di applausi. Allora la scena era diventata davvero
inquietante. Moderati e radicali s'ingiuriavano minacciosi, alcuni
consiglieri della minoranza profittavano del chiasso per attaccare
con apostrofi veementi l'avvocato rimasto in piedi, impassibile
guardando la folla. Poi, in un momento di sospensione, egli aveva
con accento freddo, ma severo, invitato il sindaco a far rispettare
la libertà della discussione. Questi, allibito, si era alzato
per dire al pubblico di calmarsi, e provocandovi invece una peggiore
tempesta. Un gruppo di beceri, evidentemente assoldati, vociavano
improperii contro il sindaco, l'avvocato, il consiglio intero, senza
che si potessero nemmeno distinguere le parole: s'intese gridare:
"Viva l'anarchia".
Tre o quattro consiglieri, fra quelli che gesticolavano al banco
della giunta, disparvero; un assessore sfuggì inosservato per
chiamare dalla prossima caserma il tenente dei carabinieri.
Intanto la frenesia degli urli cresceva. Mario, stretto fra un
crocchio di moderati, strepitava anche lui contro il sindaco,
perché non faceva sgombrare la sala. In fondo, presso alla
gran porta, si era impegnata una colluttazione, mentre la folla
urlava ondeggiando. La grossa testa dell'avvocato, rigida fra il
disordine di tutti i consiglieri, dominava ancora la tempesta.
Poi tutti i consiglieri, addensati intorno al sindaco,
indietreggiarono. Il tenente dei carabinieri, alto col berretto in
testa e il fodero della sciabola nella mano sinistra, si era
presentato, inoltrandosi sino quasi nel mezzo dell' emiciclo. Quindi
si volse al sindaco, gli fece il saluto militare, ed attese.
Un silenzio improvviso, incredibile, aveva ghiacciato la sala.
«Sono a' suoi ordini!»
Quel tenente solo, tranquillo, aveva già sedato il tumulto.
Il sindaco si guardò attorno spaurito, la sua piccola figura
parve diminuire ancora, tutti i consiglieri lo fissavano sospesi,
palpitanti, per quello che risponderebbe. Una emozione
insopportabile soffocava tutti.
Passarono dei secondi. Mario vedeva per la schiena il tenente,
immobile come dinanzi ad un generale; quindi intese la voce sottile
del sindaco che diceva:
«Si ritiri pure.»
Il tenente tardò un istante, quasi quelle parole gli
riuscissero incomprensibili, poi ripeté il saluto militare, e
si voltò girando sul pubblico un'occhiata sicura di soldato.
Il sindaco si era già levato in piedi:
«La seduta è sciolta.»
Ma un uragano di fischi gli aveva risposto prima ancora che il
tenente varcasse la porticina, dalla quale era entrato.
Mario era uscito travolto dalla folla.
Adesso, ripensando a quella seduta, si ricordava d'incidenti allora
forse nemmeno colti, di voci, di gesti, fra quella oppressione
soffocante, dalla quale saliva come un vapore di follia. L'avvocato
solo era rimasto padrone di se stesso, mentre il sindaco nello
spavento aveva persino obliato di pronunciare le solite minacce
legali. Evidentemente l'avvocato aveva tutto previsto; giunta e
consiglio si dimetterebbero provocando la venuta di un commissario
regio e quella inchiesta, davanti alla quale rinculavano. Egli
resterebbe nella coscienza del pubblico arbitro della situazione.
Quel disegno, maturato così lentamente, era riuscito al di
là di ogni speranza; Mario si sentiva ripreso
dall'ammirazione, comprendendolo ora in tutta la sua coraggiosa
semplicità. E la figura della signora Annetta, abbracciata
strettamente al collo di lui, quasi per sottrarlo al pericolo che
aveva corso, diventava nella sua accesa fantasia il premio di quella
prima vittoria, preludiante forse a trionfi maggiori. Invano
evocando i ricordi delle ore, nelle quali egli li aveva divisi,
sorrideva con sguaiato cinismo a se medesimo delle lussurie imposte
nell'orgasmo dell'amore a quella donna, che allora gli ubbidiva,
qualunque fosse il comando di un suo desiderio; ma l'orgasmo
sensuale di tali scene svaniva sempre poco dopo, senza lasciare
altra traccia che nella sua memoria di geloso, mentre ella ritornava
senza sforzo la donnina nata alle inconscie voluttà del
sesso, e tutta felice nella ammirazione affettuosa del marito. Che
cosa era dunque quel loro amore di amanti, che egli credeva il
più potente della vita, se le sue maggiori conseguenze, come
la nascita della Gigina invece di scardinare il matrimonio si
adagiavano naturalmente nel suo quadro, raddoppiandone il valore?
Una amarezza gli stillava a gocce gelide sul cuore. Egli non era
nulla né per l'Annetta, né pel mondo; la ressa di
tutti quei signori intorno all'avvocato glielo aveva provato allora
allora anche troppo crudelmente; nessuno gli si era rivolto, nessuno
lo aveva interrogato. Se anche la signora Annetta lo avesse amato
pazzamente, preferendolo al marito, questi lo avrebbe nonpertanto
soverchiato. L'amore non era che una forza sessuale nella vita
dominata da leggi ben più profonde, in preda a bisogni ben
altrimenti vasti. Quella tragica contraddizione, antica come lo
spirito umano ed espressa con ogni varietà di accenti dai
poeti di tutte le generazioni, di essere come amante al centro della
vita della donna senza poterla nullameno costringere entro la
propria, si levava dal fondo del suo pensiero sinistramente, come
un'ombra di morte. Era impossibile possedere le donne, come egli
stesso avrebbe voluto loro appartenere. Bastava l'invidia di un
abito per sottrarle alla tenerezza del raccoglimento più
amoroso; le compiacenze mondane della sposa facevano loro tradire
l'amante pel marito, come già questo per quello; la passione
pei figli, quando davvero cresceva in loro a passione, le rendeva
indifferenti ad ogni altro affetto, perduto in questo istinto
animale, e trovandovi la propria spiritualità più
pura. L'amore non era quindi che un incontro fortuito, fors'anco
prestabilito dalla natura fra due individui, breve e violento, dopo
il quale ognuno ripigliava la propria strada, ricordandosi appena
dell'altro, spesso conservandone una impressione antipatica. Egli
invece, come tutti i gelosi, avrebbe voluto lasciare sulla donna la
propria impronta, cristallizzandola nella adorazione di se stesso.
Solamente così egli avrebbe sentito la pienezza dell'amore, e
quell'orgoglio maschile, che nulla può attutire nell'uomo, e
basta a rialzarlo, anche se inferiore di mente o di corpo, dinanzi a
qualunque donna.
La campagna, verde e festosa, era ancora avvolta nei raggi del sole;
le cicale finivano di cantare, gli uccelli si gettavano vivamente da
albero ad albero gli ultimi saluti. Egli aveva rallentato il passo,
asciugandosi automaticamente il sudore: per la strada passava poca
gente. Allora, in quella giocondità del vespero e fra tanta
floridezza di verzura, il vuoto del cuore gli si rivelò
così dolorosamente, che sentì il bisogno di
nascondersi. Si cacciò per un viottolo, e sedette nel fondo
di un fosso.
Una tenerezza desolata lo faceva piangere, come quando le lagrime
sono ancora un conforto. Avrebbe voluto l'Annetta lì,
dinanzi, per inginocchiarsele ai piedi, domandarle perdono in una
improvvisa rassegnazione, entro la quale gli pareva di rinnovarsi
come in una virtù. Ma l'orgoglio subito dopo gli si
risollevava ancora vibrante di giovinezza, con un fremito di tutti i
nervi. Non era egli il giovane? A che pro le ricchezze e l'ingegno,
quando si è vecchi? Essere giovane, poter ogni giorno
ricominciare la propria esistenza a una distanza così lunga
dalla morte, che quasi se ne perde il senso; passare attraverso
tutte le donne prepotente ed invulnerabile, mentre i mariti
affondano in una carriera o in una famiglia egualmente senza uscita,
lancinati da necessità rinascenti, divorando la propria
sconfitta in quella dei figli... ecco la vita! Che cos'era
l'avvocato dinanzi a lui, ora che la virilità stava per
mancargli e la vita gli declinava al tramonto? Quella posizione,
così faticosamente guadagnata, gli serviva appena per
mantenere nel lusso una moglie, che lo tradiva. L'amante solo,
giovane, era il padrone assoluto, egualmente invincibile alla moglie
e al marito; e il mondo, sempre giovane anch'esso, teneva per
l'amante contro il marito, e ogni commedia dell'arte, tutte le
conclusioni della scienza, erano per l'adulterio, per la
giocondità della vita e la salute della razza. Che l'avvocato
diventasse sindaco, e s'arricchisse ancora sino a tener cavalli e
carrozza...! Egli, Mario, sarebbe sempre egualmente l'amante di sua
moglie, e il padre dei suoi figli.
Se non che un dubbio atroce e sottile forava improvvisamente queste
bolle iridate della sua superbia: anche l'Annetta poteva da un
momento all' altro abbandonarlo per un nuovo amore. Egli ne fremeva
senza potersi persuadere del contrario, mentre il pensiero gli
ritornava a quello specchio dipinto di fiori, tra i quali l'aveva
veduta abbracciata al collo del marito in una di quelle tenerezze
voluttuose della paura. A quest'ora erano forse a letto, prima del
pranzo, preparandovisi con una festa migliore. Era impossibile che
l'avvocato non soggiacesse alle tentazioni di tutti quegli abbracci,
e che la signora Annetta non volesse il beneficio delle proprie
effimere sentimentalità. L'adulterio era così! Amare
pazzamente una donna, sulla quale un altro ha un diritto anche
più assoluto, e al quale essa prodiga, per addormentargli i
sospetti, le carezze di una lascivia costretta a diventar sincera
nelle convulsioni dei propri sforzi! E dopo, umida dei baci del
marito, col ventre forse palpitante delle sue strette, ella ritorna
all'amante, scrollandosi appena come un cane che esca dall'acqua,
per ridirgli le medesime parole e ridargli le stesse cose...
Egli li vedeva sempre là, dentro quella camera, in delirio di
chiaroveggenza, che gli faceva persino temere di essere voluto da
loro. Tutta la sua anima si straziava sotto l'immobilità di
tale visione, cui gli amanti sogliono sottrarsi o nella indifferenza
del cinismo, o con un oblio delicato ed istintivo. Giacché se
egli amava quella donna più intensamente che non ne fosse
amato, ella non era per lui che la femmina preferita a tutte, la
signora prescelta al disopra della propria condizione: nessun altro
sentimento spiritualizzava la sua gelosia. Annetta medesima non vi
avrebbe capito altro.
Le grandi gelosie, nelle quali la passione di un Otello o di un
Amleto concentra tutto il dominio che un'anima può avere nel
mondo, cosicché diventa impossibile non morirne al primo
scoppio della catastrofe, rimanevano incomprensibili alla
volgarità del loro spirito. Essi ignoravano il supremo
olocausto dei cuori, quella compenetrazione delle coscienze, che fa
dell'amore come uno scoglio rovente di sole in mezzo all'oceano, sul
quale due naufraghi dimenticano la tempesta donde sono usciti, e la
morte che li attende. Né lei né lui erano stati
trasformati dalla nascita della Gigina. La loro vita separata dagli
ostacoli sociali più che dalla contraddizione dei
temperamenti, come era stata felice prima, potrebbe esserlo dopo
quell'amore, giacché s'amavano solo per effusione di
giovinezza, e soffrivano dei propri reciproci difetti invece di
adorarli. Quella malinconia delle passioni inguaribili, che pare
un'ombra gettata sopra di esse dalla morte, sarebbe loro parsa anche
in altri una uggiosa debolezza di carattere. Ma poiché la
gelosia s'innalza dalla sessualità dell'individuo come una
affermazione delle sue legittime preferenze, e nell'urto con altre
esplode senza che l'anima quasi v'intervenga, Mario nelle più
atroci sofferenze delle proprie recriminazioni giungeva fino a
provare contro a quella donna i fremiti dell'aggressione. Prima
ancora di amarla l'aveva compresa. La sua natura di farfalla le
impediva di posarsi a lungo sopraqualsivoglia fiore; ma felice nel
disordine traballante del proprio volo esprimeva la gioia della
primavera, non ancora abbastanza profonda per ispirare il canto agli
uccelli. Ella non poteva cedere all'amore che come ad un alito di
profumo o ad uno scintillio di colori, bisognava amarla così,
senza chiederle più che la comunicazione di quella gioia e il
contatto effimero della sua bellezza. Solo un uomo superiore come
l'avvocato, conservando la giovinezza del cuore nella
maturità stanca della ragione, poteva aver gustato una tale
natura di donna, e a cinquant'anni, colle ombre del vespero sulla
fronte, senza pretendere più ad una passione, deliziarsi di
quella fanciullezza, che lo distraeva dal guardare innanzi,
riempiendogli le ore più difficili con una allegria, dalla
quale la voluttà sorgeva, tratto tratto, come un grido
più acuto di monello.
Quella sera Mario non osò tornare da loro.
All'albergo, nei caffè, non si parlava che della seduta; i
pareri oscillavano urtandosi, ma da tutte le discussioni il nome
dell'avvocato usciva più importante di prima. Egli stesso fu
più volte circondato, perché stando nel suo studio
doveva sapere altre cose. L'unico editore della città aveva
già messo in vendita la relazione; se ne leggevano brani in
pubblico. Al caffè dei moderati il sindaco non aveva osato
presentarsi per la solita partita a briscola.
Mario dovette per forza associarsi a quei discorsi, affettando per
l'avvocato un entusiasmo, che dentro lo faceva sanguinare. Appena
gli fu possibile, scappò verso porta San Biagio; la finestra
del gabinetto verde era ancora illuminata, l'avvocato lavorava.
Quell'uomo forte non perdeva un minuto, non si rilassava nemmeno
dopo la vittoria. Mario invece non studiava mai, esaurendo al
più presto e superficialmente quel lavoro dei processi, senza
approfondirne mai la materia o assimilarsi altre dottrine, che un
giorno potessero servirgli più in alto. Questo esame di se
stesso l'avvilì.
Poi un gruppo di amici lo fermò ancora per riparlare sulle
idee dell'avvocato; si aspettava da Roma il deputato marchese Curci.
Uno disse:
«Ecco un deputato, che non lo diventerà
più.»
Mario protestò di aver sonno, ma allora lo accompagnarono a
casa. Dall'avvocato passarono alla signora Annetta; si discusse la
sua eleganza, la sua posizione coll'avvocato, ma tutti
gl'invidiavano la bella donnina, cui nessuno ancora aveva fatto la
corte. Si sapeva troppo che era innamorata del marito, vegeto
tuttavia malgrado i suoi cinquant'anni.
Mario dovette fornire particolari sulla loro intimità, e
nessuno gli fece l'onore di sospettarlo come amante.
L'indomani i due giornali davano il resoconto della seduta coi
più strampalati commenti. Si annunziavano adunanze di
società radicali, altri consiglieri si erano dimessi, il
sindaco solo resisteva incerto fra la vanità e la paura, ma
secretamente già abbandonato anche dai colleghi di giunta.
Mario trovò l'avvocato ilare; invece la signora Annetta,
spaventata dagli articoli dell'Avanti!, parlava di uscire in visite
per sorprendere qualche cosa della pubblica opinione.
«Vorresti mischiartene tu pure, mia cara?»
«Perché no?»
«Le donnine come te non debbono sporcarsi in simili intrugli.
Invece andremo tutti in campagna; io verrò allo studio la
mattina e tornerò la sera a pranzo. Se possiamo avere la
Caterina colla bimba... che cosa te ne pare?»
Ella si mostrò contrariata; non era che il mese di luglio, e
nel costume della città non s'andava in villa che sul finire
di settembre. Nullameno si lasciò persuadere.
«Però torneremo per sant'Elena.»
Era la patrona della città, una festa che durava tre giorni.
«Tutte le volte che vorrai. Vedi,» soggiunse dando
un'occhiata a Mario, «qui mi seccheranno troppo. Il mio dovere
l'ho già fatto; adesso tocca ad altri.»
Mario capì tutta la prudenza di quella manovra: assentandosi
dalla città, l'avvocato mostrava il massimo disinteresse nel
raccogliere i frutti della vittoria.
«Qualcuno potrebbe dire che è una ritirata» gli
osservò malignamente.
«Direbbe troppo poco» l'altro rispose, penetrandolo con
uno sguardo scrutatore.
Ma la signora parlava già del come compiere, almeno nelle
cose più necessarie, l'arredo di quell'appartamento di
campagna, ove erano appena alcuni mobili abbandonati.
Mario dovette recarsi al tribunale; l'avvocato era rimasto
pensieroso.
«Credi che Mario ci voglia bene?»
Ella sorpresa da tale domanda parve tardare a rispondere, ma sul
viso di lui non v'era espressione inquietante.
«Mario? ... ma certo.»
«Infatti potrebbe tutto al più invidiarmi il successo
di ieri. Mi era sembrato... te l'ho chiesto perché tu sei
come i bambini, hai il loro istinto infallibile.»
La campagna li aveva divisi.
Mario non poteva andarci che di rado, dietro un invito
dell'avvocato. Invece la sua autorità nello studio era
cresciuta quasi del doppio, dacché l'altro non vi arrivava
che tardi e ne ripartiva sulle quattro, malgrado il sole, nella
carrettella del fattore, con quel vecchio cavallo così lento
e sicuro, che quasi gli somigliava. Mario riceveva i clienti, teneva
la corrispondenza, esauriva le pratiche di tribunale, comandando
più seccamente agli scrivani. Fra lui e Andrea
l'ostilità era quasi palese, dopo che il vecchio aveva
risaputo certi propositi suoi e della signora Orsolina contro
l'avvocato; ma prudente al solito questi non ne aveva detto nulla.
Si era anche accorto della nuova freddezza fra i due amanti,
compiacendosene come di un sintomo di rottura. Era impossibile,
secondo lui, che la signora Annetta non s'accorgesse, un giorno o
l'altro, della cattiva scelta. Marco invece, sempre muto, seguitava
a passare il tempo colle proprie cabale, o quando non aveva da
copiare, disegnava qualche bel carattere stampatello sulla copertina
delle pratiche.
Mario era di pessimo umore. Quella vita di giovane da studio lo
umiliava ogni giorno più sotto la fama crescente
dell'avvocato, ma per rinunziarvi, secondo i consigli insistenti
della madre, avrebbe dovuto mettere studio da sé, affrontando
tutte le difficoltà della professione oltre quella di
formarsi una clientela. Poi l'Annetta non l'amava abbastanza per
seguitare in quella relazione fuori di casa, e quindi gli veniva
meno ogni risoluzione.
Dacché ella era in campagna, non aveva osato scriverle, e
molto meno ne aveva ricevute lettere. Allora pensò di farsi
invitare a pranzo dall'avvocato per la prima domenica.
La Caterina era già stata una settimana alla villa colla
Gigina; adesso l'Annetta aveva altra compagnia.
Quell'anno i signori Bruschi erano venuti ad abitare un loro vecchio
casino, a poca distanza da quello dell'avvocato, per divertire la
Giulia, unica loro figlia, uscita pochi mesi prima dal convento.
Quando Mario e l'avvocato giunsero sul prato della villa, la grossa
signora Berta, seduta sul prato leggendo un giornale, si alzò
coi segni del massimo rispetto; per lei quella relazione col signor
Filippo era una gloria.
«La signora Annetta è andata a spasso colla mia Giulia
sino a Rivalta: hanno attaccato il somarello, ma staranno poco a
ritornare.»
La signora Berta, moglie del signor Cesare, un piccolo possidente,
che in vent'anni di commercio sui semi di trifoglio era riuscito ad
ammassare una dote di centomila franchi per quell'unica figlia, era
grassa e rubiconda, con una faccia quasi di uomo. Parlava un
italiano un po' capriccioso, ma ne rideva ella stessa con tanta
disinvoltura che ogni ridicolo scompariva.
Fece a Mario, che ella credeva un giovane di un gran valore pel solo
fatto di essere nello studio dell'avvocato, una profonda riverenza,
alla quale egli rispose quasi con alterigia. L'assenza della signora
Annetta lo aveva già irritato. Appena le videro spuntare al
cancello di legno, tutti mossero loro incontro; vi furono saluti e
piccoli stridi. La signora Annetta, rossa per la fatica di far
trottare l'asinello, era adorabile; la Giulia invece, vestita di
bianco, inamidata dentro gli abiti, che non sapeva ancora portare,
aveva ancora la fisonomia scialba ed insignificante delle educande.
Era piccola e mingherlina, cogli occhi sbiaditi come le labbra, e
sulle spalle due lunghe treccie castane, strette alla cima da due
nastrini cilestri. Un largo cappellino di paglia, ornato di una rama
di fiori finti le ombrava la faccia cerea.
L'avvocato prese in braccio la moglie per farla discendere, Mario
teneva l'asino per la testa, mentre la signora Berta dava ambo le
mani alla ragazza raccomandandosi:
«Per carità lo tenga, lo tenga.»
La signora Annetta non fece a Mario nessuna speciale accoglienza.
Pareva allegra della campagna e di quella passeggiata colla Giulia,
alla quale aveva spiegato un mondo di cose, che ricominciava a
ripetere col suo bel riso cristallino; l'altra sorrideva un po'
intimidita dalla eleganza di Mario e dalla sua freddezza per la
campagna. Rimasero un'ora sul prato, poi la signora Annetta
andò in cucina per affrettare il pranzo; attraverso la porta
dell'andito si vedeva la Gina affaccendarsi intorno alla tavola
già apparecchiata, con un largo grembiule bianco e un
fazzoletto di seta annodato sul mazzo dei capelli. Salutò
Mario col suo sorriso enigmatico.
Il pranzo riuscì male. La Veronica aveva sbagliato il risotto
alla milanese; ciò permise alla signora Berta di parlare
molto delle serve e delle spese di casa. Mario aspettava,
sollecitandolo, uno sguardo della signora Annetta, ma ella seguitava
a scherzare colla Giulia, che parlava a monosillabi. Allora Mario,
con uno sforzo, voltò il discorso alla ragazza per attirare
l'attenzione dell'altra, e le chiese se resterebbero molto in
campagna.
«Non lo so, lo domandi alla mamma.»
«Sino ai Santi» rispose la signora Berta. «A far
che cosa in città? Quando si ha un po' di casino, bisogna
profittarne.»
«Questo mese d'ottobre ci divertiremo nei paretai»
intervenne la signora Annetta.
Mario, per ripicco, mise in ridicolo la campagna, ma ella vi si
accalorò. La Giulia lo guardava con una curiosità
mista di ammirazione; egli era dunque un giovane elegante, il sogno
suo e di tutte le compagne al convento.
Quando il pranzo fu terminato, tornarono sul prato a prendere il
caffè. Mario doveva ripartire subito col fattore,
perché questi non facesse troppo tardi nel ritorno.
Allora una tristezza gli piombò sul cuore. Non aveva potuto
scambiare nemmeno una parola coll'Annetta, la quale anche in quel
momento, mentre egli si disponeva a salutarla, parlava della Gigina
colla signora Berta, e ridevano, si serravano insieme dimentiche di
tutti.
Mario strinse prima la mano alla Giulia, che arrossì
lievemente; la signora Annetta si volse appena, il fattore aspettava
già in fondo al prato.
«Mi raccomando l'usciere» gridò l'avvocato
ricordandogli una pratica di studio.
«Non dubiti» rispose Mario, rivolgendosi per dare
un'ultima occhiata alla signora Annetta.
Appena si fu allontanato, la signora Berta disse:
«È un bel giovane.»
Mario si sarebbe sentito vendicato da quel complimento, ma invece si
cercava nelle tasche uno zigaro per nascondere il proprio turbamento
alla Teresa.
«Torni, torni» questa gli ripeteva; «si sta meglio
qui da noi che laggiù.»
Pareva una rottura.
La signora Orsolina, insospettita dall'umore più bizzoso di
Mario, aveva tentato due o tre volte di appiccarne il discorso, ma
egli lo aveva sempre troncato andandosene. Adesso la città
gli pareva abbandonata; non sapeva più che farsi delle ore
vuote, e nello studio si sentiva anche più solo. La vasta
stanza, dove lavorava, gli faceva quasi paura con quelle due
finestre senza tende, e le pareti bianche fra i quattro immensi
scaffali pieni di vecchi volumi in cartapecora, di un giallore
cadaverico. Si sarebbe detta una camera d'archivio con
quell'atmosfera lievemente muffosa. Sulle tre scrivanie, verniciate
di bigio, larghe macchie d'inchiostro, seccate da tempo, ricordavano
altri assenti, giovani come lui, che vi avevano lavorato, ora
dispersi pel mondo.
Quindi si rifugiava nel gabinetto verde, pieno di tutta la vita
dell'avvocato, e dei ricordi dell'Annetta.
Il lavoro l'annoiava.
Poi cominciò a trascurare gli impegni; qualche cliente si
lagnò de' suoi modi insofferenti. Il suo pensiero era sempre
rivolto alla villa o al modo di farvisi invitare; ma ogni volta che
vi andava, erano piccole battaglie. Egli vi portava sempre, col
pretesto di riderne, i numeri dell'Avanti! che aggredivano
l'avvocato, per intorpidare malignamente l'allegria, dalla quale la
signora Annetta lo escludeva. E si mostrava a volta a volta
melanconico e chiassoso, più spesso ingrugnito, pungendola
con motti improvvisi, senza mai arrischiare una scena. Ella vi si
prestava come ad un giuoco, con più aperte civetterie al
marito, o affettando l'amore per la Gigina, della quale egli non le
parlava quasi mai.
Allora per dispetto egli si mise a corteggiare la Giulia.
La ragazza, troppo novizia, sulle prime ebbe sgomento della sua
disinvoltura; poi, siccome era un bel giovane e le piaceva,
s'infiammò. L'Annetta pareva secondarla, avvolgendoli nel
proprio sorriso luminoso quando li vedeva insieme.
Una volta la Giulia rientrò dal prato nell'andito tutta
rossa.
Ti ha dato un bacio?» ella le chiese sorridendo.
La ragazza arrossì sino al bianco degli occhi; invece le
aveva chiesto semplicemente per la prima volta se le sembrasse di
poterlo mai amare. La signora Annetta condusse la ragazza su,
nell'altro andito, e si fece raccontare tutto; ma, accorgendosi che
era innamorata davvero, diventò improvvisamente seria.
«Bisogna dirlo alla mamma.»
«No, no.»
Questa lo sapeva già, ed in secreto approvava, giudicando
Mario dalle buone parole dell'avvocato. Egli invece, credendo di
notare l'ombra di un dispetto sul viso della signora Annetta, quel
giorno si mostrò anche più premuroso verso la ragazza;
poi tardò quindici giorni a tornare. Voleva dar tempo al
tempo. Infatti una mattina l'avvocato gli entrò in discorso
di matrimonio. A ventisette anni suonati, Mario doveva pensare ad
accasarsi; la Giulia con cinquantamila lire subito, ed altrettante
dopo la morte dei vecchi, era un partito conveniente, molto
più che usciva da una famiglia di gente onesta. L'avvocato
dava il massimo valore a questa qualità. Mario si
schermì, lasciando comprendere che era ancora presto, ma
l'altro credette la cosa ben avviata.
Infatti Mario, incontrando il signor Cesare al caffè, gli si
mostrò più complimentoso, e gli promise di andare la
prima volta alla villa nel suo carrettino.
Quando arrivarono insieme, la ragazza si sentì quasi
soffocare, e la signora Annetta invece rientrò in casa.
Mario destramente riuscì a sfuggire dal crocchio, e si
cacciò su per le scale: ella usciva già dalla camera
cosiddetta dei forestieri.
«Ho bisogno di parlarvi.»
«Andate dalla Giulia.»
«No, Annetta, senti.»
«Andate o chiamo»; e si ricacciò precipitosamente
nella stanza.
Mario discese col cuore gongolante.
A pranzo fece un po' di corte alla signora Berta, contentandosi di
volgere qualche sorriso alla Giulia, che seduta presso la signora
Annetta teneva quasi costantemente gli occhi sul piatto per
sottrarsi all'impaccio. L'avvocato mise il discorso sul matrimonio,
parlandone con molta filosofia bonaria: era ancora il meglio che
l'umanità avesse trovato per passare la vita; tutti i piaceri
della gioventù svaporavano lasciando nella coscienza una
fondiglia, che degenerava col tempo in putredine. I vecchi scapoli
finivano coll'essere odiosi ed odiati.
Mario invece difendeva il celibato. Prima di tutto per prender
moglie bisognava essere amati, e la cosa era tutt'altro che facile;
poi nella vita moderna la famiglia diventava un gran peso senza una
certa ricchezza. I giovani sprovvisti di patrimonio dovevano
pensarci molto per non sacrificare se stessi, la moglie e i figli,
che potessero nascere.
«Chi ha paura della vita, non vi riesce» rispose
l'avvocato.
«Ma lei stesso ha tardato a prender moglie.»
«Io lavoravo troppo, me ne sono accorto poi.»
Il signor Cesare si voltò a Mario, ammiccando con quel suo
tic nervoso alla guancia sinistra, che gli dava quasi un'aria di
burattino.
«Si lavora meglio quando si ha famiglia. Se fossi rimasto
solo, credo, non avrei lavorato la metà. A che pro guadagnare
dei quattrini, quando non si ha per chi spenderli?»
Mario si lasciava cullare da quel dialogo, del quale si sentiva lo
scopo, sbirciando la signora Annetta.
Ella, punta da una sua occhiata, gli chiese con una risata
improvvisa:
«E lei, signor Mario, quando pensa dunque a pigliar
moglie?»
«Almeno dopo che una donna avrà pensato a prendermi per
marito. È così difficile essere amati, sebbene tante
volte lo si creda.»
Mario quella sera aveva detto che sarebbe ritornato in città
a piedi, per fare una lunga passeggiata. Questo capriccio aveva
impressionato la signora Berta sui pericoli di un riscaldo o di un
cattivo incontro; ma il signor Cesare, ancora pieno di energia
malgrado i suoi sessant'anni e il piccolo corpo rattrappito, le
aveva dato sulla voce:
«Un giovane come il signor Mario!»
Stettero un pezzo sul prato, poi conclusero che l'avvocato,
l'Annetta e Mario avrebbero accompagnato i signori Bruschi al loro
casino. Non c'era luna; l'aria piena di tepori ondulava al vento
della notte. Mario, dopo molto destreggiarsi, riuscì a porsi
fra la Giulia e la signora Annetta forzandole a parlare, ma la
ragazza, in preda ai primi vaneggiamenti dell'amore, ricadeva sempre
nel silenzio. La sua figurina pareva inchiodata sulla sedia; tratto
tratto le mani le si obliavano sulle ginocchia, nella posa abituale
del convento.
«Quando verrete nello studio?» disse Mario alla signora
Annetta, profittando del momento che tutti s'alzarono.
«L'indomani del matrimonio.»
«Bisognerà dunque affrettarlo» ribatté sul
medesimo tono.
Mario aveva dovuto fare da cavaliere alla ragazza, ma per tutto il
tragitto non le parlò che di cose indifferenti. Ella
camminava stecchita al suo braccio, abbassando la testa quasi per
sentirsi passare le sue parole con un volo lieve sulla nuca. Dietro,
la signora Annetta rideva colla signora Berta.
A un tratto s'intese la voce di questa che diceva:
«I gelosi miagolano tutti come i gatti.»
Una mattina Mario incontrò tutta la famiglia Bruschi nel
corso; erano venuti per un vestito nuovo della Giulia, assolutamente
indispensabile, diceva la signora Berta, nella festa prossima di
sant'Elena. La ragazza pareva più disinvolta in quell'abito
di tela a colori vivi, e con quel piccolo cappello di paglia gettato
monellescamente indietro; ma egli doveva recarsi allo studio. Allora
il signor Cesare si offerse di accompagnarlo, perché non
avrebbe saputo cosa dire colla sarta, quando la signora Berta si
ricordò di aver conosciuta molti anni prima la signora
Orsolina, e pregò Mario di condurle da lei per riannodare
quella buona relazione di una volta.
Mario rimase imbarazzato della domanda, parendogli di essere come
inseguito per quel matrimonio, sul quale non aveva ancora deciso
nulla. Ma la signora Berta insisteva con voce sempre più
affettuosa. La sua grossa faccia maschile contrastava bizzarramente
colla mollezza dell'accento, col quale evocava i ricordi del
passato; finalmente, vedendo di non far frutto, dichiarò che
sarebbe andata a trovarla da sé.
«Si figuri, sarà un piacere per la mamma.»
Strada facendo il signor Cesare cercò di far dire a Mario
quanto lavoro e quanti quattrini gli venissero da quello studio
dell'avvocato Filippo. Il vecchio ometto lo circuì talmente
colle domande, che l'altro dovette dirgli quasi tutto, e ad ogni
risposta egli sorrideva come per complimento.
«Si deve guadagnare molto di più avendo lo studio da
sé.»
«Certamente tutto sta a formarsi la clientela.»
«Come in commercio, è la stessa cosa. Basta si sappia
che non si vuol comprare, e tutti vi offrono della merce. I clienti
hanno da somigliare ai sensali; corrono dall'avvocato, che non ha
bisogno della loro causa.»
Mario, umiliato dalla giustezza di queste osservazioni, comprese
dove il signor Cesare voleva parare; la dote della Giulia sarebbe
stata più che sufficiente per aprire studio.
Quel giorno la signora Orsolina gli parlò delle signore
Bruschi senza compromettersi, e a poco a poco Mario si
famigliarizzò coll'idea di quel matrimonio. Perché non
l'avrebbe fatto? Sarebbe un conquistare di botto nel mondo la
metà di quella posizione, cui agognava, e un pretesto per
fargli rimanere aperta la casa dell'avvocato. Allora la sua
relazione colla signora Annetta si regolarizzerebbe, coperta
dall'amicizia delle due donne. Questo sogno lo affascinò. La
ragazza, vuota come un manichino, non gli sarebbe mai di peso; forse
le maggiori difficoltà verrebbero dalla signora Annetta, ma
si sentiva capace di dominarla. Passarono ancora delle settimane. La
mamma gli parlava qualche volta delle signore Bruschi, alla
sfuggita; poi un giorno gli disse di aver ricevuto un invito al loro
casino per la prossima domenica. La signora Berta verrebbe a
prenderla col proprio carrettino.
«Tu non andrai alla villa?»
«Non lo so.»
«Allora io resto.»
Mario rimase indeciso.
«Andate.»
Invece quella domenica andò anche lui, ma le signore Bruschi
non comparvero alla villa.
Era la prima volta, dopo tanto tempo, che poteva trovarsi solo
coll'Annetta. Ella lo accolse allegramente, ma alla sua prima
allusione di amore tornò dura; l'avvocato invece gli propose
sul serio quel matrimonio, lasciandogli intendere di aver ricevuto
le confidenze del signor Cesare. La ragazza era già
innamorata, e la famiglia avrebbe accolto benissimo Mario per
nobilitare la propria origine. La dote, stringendo loro addosso i
panni, sarebbe arrivata di primo tempo sino a settantacinquemila
franchi; l'avvocato supponeva il signor Cesare anche più
ricco di quanto la gente lo credesse.
La signora Annetta sorrideva sardonicamente.
«Mi pare che ella possa accettare, signor Mario: è una
delle migliori doti della città.»
«Ma se ricusassi?»
«Perché? Bisognerebbe supporre che ella fosse
innamorato di un'altra: non è vero, Pippo?»
«A meno che non abbiate in vista qualche affare più
grosso.»
La signora Annetta rideva provocantemente; la sua testa, dondolante
come un gran fiore, esalava un acuto odore di gelsomino. Mario
sentì di perderla, accettando.
«Quella è una buona ragazza, che non lo renderà
mai geloso.»
«Molto più che ne avete la tendenza» disse
l'avvocato.
«Io!»
«Non lo negate; d'altronde le donne desiderano spesso che si
sia gelosi: solamente lo desiderano quando amano.»
In tutto quel pomeriggio la signora Annetta ritornò sul
matrimonio, divertendosi a provargli che non le importava nulla e
che, sposando quella ragazza per la dote, commetterebbe una
bassezza. Egli la divorava cogli occhi, facendole indarno segni per
parlarle. Era vestita di un abito rosso cupo, che le rendeva
più opaco il candore della pelle; si sarebbe detto che la
campagna le avesse messo negli occhi i baleni delle sue foglie
più lucide e sulle carni la brina dei suoi fiori più
freschi. Saltellava, si abbandonava sul lungo sofà di paglia,
posto nel prato all'ombra della casa, con una civetteria anche
più inquietante nei brevi silenzi. Mario sentiva il suo
orgasmo.
Allora si mise a fissarla. Sotto il peso de' suoi sguardi ella si
allentò mollemente, poi raddrizzandosi di scatto,
chiamò la Gina sul sofà. Questa, sempre così
cerea, parve momentaneamente riscaldarsi al suo contatto, mentre
l'avvocato riprendeva con Mario la conversazione. Ma egli non poteva
ascoltarlo, affascinato suo malgrado da quelle due donne, che
scherzavano con una petulanza di piccole amiche al sicuro di ogni
indiscrezione. L'Annetta colle mani un po' grosse faceva il
solletico alla Gina, e il bel busto vigoroso le si torceva per
tenerla stretta, ridendo in quel reciproco eccitamento come di una
sfida indiretta, che la loro monelleria femminile gettava alla sua
sensualità di uomo.
«Siete pur bambine!» si volse l'avvocato, sorridendo
d'impazienza al loro chiasso.
«Bambina, bambina!» ripeté l'Annetta, tirandosi
dietro la Gina; e scomparvero nell'andito.
Poi riapparirono alle finestre del piano superiore.
«Quando partite dunque, voi altri due? Questa sera noi faremo
una festa da ballo coi contadini.»
La mattina dopo la signora Orsolina entrò nella camera di
Mario.
«Se vuoi, tutto è fatto. La signora Berta mi ha
lasciato capire che sarebbero contenti di averti per genero,
perché vogliono nobilitarsi; tu puoi diventare uno dei primi
avvocati della città. Il signor Cesare ti procurerà
una buona clientela di negozianti, gente che paga bene. Sai che
stanno per comprare il palazzo Calusi per una miseria,
venticinquemila lire? Tu apriresti uno studio magnifico; in pochi
anni si può mettere su carrozza.»
Mario ascoltava.
«Perché siete rimasta là questa notte?»
«È stato meglio. La ragazza è cotta; bisogna
convenire che l'avvocato ti ha aiutato colle sue
raccomandazioni.»
«In fin dei conti non ne ho bisogno» egli ribatté
orgogliosamente.
«Non ti alzi?»
La signora Orsolina era preoccupata. Evidentemente temeva una
difficoltà in quello splendido disegno, che faceva
improvvisamente rifiorire il roseto oramai secco della sua vita.
Girò su e giù nervosamente per la stanza, mentre egli
si vestiva; poi quando si fu lavato, gli si piantò dinanzi.
Il suo viso scarno ed angoloso di vecchia avara era quasi solenne.
«Mario, bisogna smettere.»
Egli si scosse.
«Non se ne sono accorti, ma è impossibile che la
ragazza non lo senta: c'è l'istinto in loro. La tua fortuna
è fatta a questa condizione. Che cosa puoi avere da lei ora?
Dovresti esserne stanco, è una donna stupida.»
«Meno della Giulia.»
«La Giulia può essere tutto per te, quell'altra
è una civetta, che ti pianterà, se non la pianti. No,
Mario, senti: da' retta a me. Questa è la grande occasione,
che non tornerà più. Sono forse duecentomila franchi,
sai, duecentomila franchi, che l'avvocato con tutto il suo ingegno
non è riuscito ancora a guadagnare in vent'anni. Smetti: per
sant'Elena torneranno qui, t'inviteranno a pranzo. lo andrò
da loro a fare la domanda. Promettimelo, Mario.»
Egli era persuaso, ma voleva conservare l'Annetta.
«Siete proprio sicura?»
«Sicura.»
«Infine sono essi che ci cercano, abbiamo tempo. Non bisogna
mostrare troppa fretta per non cadere nelle loro mani come gente
senza un soldo. Lasciatemi fare, non sono poi un ingenuo.»
Ella abbassò dolorosamente la testa, proponendosi di
ritornare alla carica tutti i giorni.
Infatti Mario, in quella irritazione gelosa contro la signora
Annetta, si lasciò persuadere a non mostrarsi più
né alla villa, né al casino dei signori Bruschi.
Quest'ultimo tempo gli parve anche più insoffribile fra i
disegni della nuova vita e le recriminazioni dell'amore; non poteva
ammettere di essere così abbandonato da una donna, della
quale era stato il primo amante, e che aveva reso madre. Ella,
così debole di carattere, gli resisteva entro la cerchia
della famiglia trionfalmente da tre mesi, non avendo più
bisogno di lui. Appena appena qualche volta l'onda rossa della
voluttà le saliva dal cuore al cervello intorbidandole gli
occhi, ma si calmava poco dopo; e Mario, che aveva sperato di
riprenderla in quell'abbarbaglio, doveva cedere da capo il posto
all'avvocato.
Poi la vita colla Giulia gli si svolgeva davanti in quella famiglia
di negozianti ritirati dal commercio, ancora pieni di quegli anni
laboriosi, nei quali avevano ammassato a lira a lira quel
patrimonio. Erano ignari, incolti, ubbriachi nella adorazione della
figlia unica, pallido cerino, che l'amore o la maternità
avrebbe presto consumato colla propria fiamma. La Giulia somigliava
alla Gina, ma senza quell'enimma del suo silenzio intelligente e
quella distinzione aristocratica, che a certe ore poteva renderla
interessante.
Naturalmente l'Orsolina vorrebbe venire con lui nella nuova casa, ed
avrebbe così tre genitori addosso. Intanto nel paese cresceva
l'agitazione politica provocata dalla mossa dell'avvocato. I
radicali, già perduti nella pubblica opinione dalla
volgarità dei loro modi e dalla rapacità bestiale del
loro governo, si sentivano mancare il terreno sotto i piedi; mentre
i moderati ringalluzziti dalla speranza del potere, e forti del
consenso momentaneo dei socialisti, che l'odio ai loro vicini
repubblicani trascinava ad una effimera alleanza coi fautori della
monarchia, sbraveggiavano in piazza.
Si parlava di liste elettorali; l'avvocato era il sindaco futuro. Ma
troppo abile per mostrarsi in questa vigilia, egli affettava invece
quasi la trascuranza di quel moto, sebbene lo seguisse nei
più minuti particolari, correggendovi in tempo le imprudenze
dei più giovani moderati travolti nell'impeto del loro stesso
giornale. Mario era seccato di quei discorsi, nei quali il nome
dell'avvocato ricorreva sempre, senza che fra tanti nomi di futuri
consiglieri comunali si fosse ancora fatto il suo.
Poi seppe che il conte Giglioli, sindaco altre volte e ora
presidente della Cassa di Risparmio, darebbe un pranzo politico pel
giorno di S. Elena; l'avvocato era naturalmente il primo fra gli
invitati. Si parlava di cinquanta coperti. Il giovane direttore
della Gazzetta, avvocato Gelli, v'andrebbe, mentre egli, Mario,
quantunque primo giovane di studio e redattore del medesimo
giornale, era escluso. Qualcuno lo punse di questa preterizione.
Bisognava dunque avere una posizione sociale, essere qualche cosa,
per contare nel mondo? Se egli fosse stato marito della Giulia, con
studio proprio, lo avrebbero invitato. Casa Giglioli era come la
reggia della città, cui non si arrivava se non salendo nella
pubblica considerazione; laonde il giornale radicale vi lanciava
contro, a ogni numero, qualche ingiuria sgrammaticata, mentre i suoi
redattori avrebbero fatto chi sa cosa per esservi ricevuti.
La signora Annetta arrivò la sera prima coll'avvocato; i
signori Bruschi erano giunti nella mattinata. L'indomani sino
dall'alba la città era in festa, piena di una folla di
contadini negli abiti della domenica, che stipavano le chiese e
s'assiepavano nella piazza continuamente attraversata da gruppi di
ragazze. Mario, vestito anch'esso colla più ricercata
eleganza, si presentò allo studio, sperando di vedere la
signora Annetta, ma ella non si mostrò. Nell'anticamera non
c'era il vecchio Andrea, perché in quel giorno di vacanza lo
studio si chiudeva alle undici. L'avvocato, già abbigliato
col grande soprabito nero delle occasioni solenni, scriveva nel
gabinetto, più preoccupato del solito; l'Avanti! del mattino
in un articolo satirico annunziava, che al pranzo Giglioli si
sarebbe fatta la sua proclamazione a sindaco. Mario era anche esso
sulle spine; aveva incontrato il signor Cesare, che ripetendogli
l'invito nel modo più significativo, si era fatto dare da lui
una seconda promessa. Quel giorno bisognava decidersi fra l'Annetta
e la Giulia, ma quella, sapendolo, si nascondeva. Mario
imparò che era uscita per la messa delle dieci, e non
tornerebbe più fuori che alle sei, nell'ora della gran folla
sul prato di S. Domenico, ove si estraevano le solite cinque doti
per le ragazze povere. Era il grande convegno dell'eleganza
cittadina, la rivista degli abiti nuovi.
Così tutto quel giorno resterebbe sola in casa.
Sulle scale incontrò la Gina, che gli disse di essere libera
e di pranzare da una zia; non tornerebbe che alle cinque per vestire
la signora.
La strada formicolava di gente lieta sotto il sole, che dava
all'azzurro del cielo una tersità abbagliante, mentre invece
Mario sentiva la coscienza farglisi sempre più torbida. Non
aveva potuto vedere la signora Annetta. Per non tornare a casa ad
affrontare la mamma andò al caffè; era rigurgitante,
clamoroso. Si parlava del pranzo Giglioli. Un gruppo di radicali,
anch'essi vestiti a festa, ghignavano sparlandone ad alta voce.
Incontrò molti amici, dovette scherzare, ridere, ma la
preoccupazione gli cresceva; a un'ora e mezza doveva essere a casa
Bruschi per il pranzo, che cominciava alle due. Sapeva d'inviti a
molti parenti. Mutò caffè, cansò quasi di
malumore l'avvocato Gelli circondato da tutta la redazione, e che
passeggiava allegro del proprio articolo del mattino, una carica
veemente contro i radicali sconfitti nell'ultima elezione di
Pagnano, un comune vicino. Provò a leggere i giornali di Roma
senza potervisi interessare. Il problema gli si aggravava a ogni
minuto sul cuore. Allora tornò pel corso, sperando di vederla
alla finestra, giunse sino a porta S. Biagio, ne ritornò
indarno. Una stanchezza nervosa lo sorprendeva.
A che ora pranzerebbe la signora Annetta, rimasta sola colla
Veronica? Perché non usciva a farsi ammirare sotto il
loggiato dopo l'ultima messa del Duomo, come tutte le signore? Era
afflitta, sebbene non volesse mostrarlo, del matrimonio che egli
stava per contrarre? In fondo gli pareva impossibile che ella non
dovesse soffrire; non si può essere tanto indifferenti quando
si è amato.
Adesso, al momento di perderla irreparabilmente, sentiva di amarla
anche di più. Tutti i miraggi della posizione sociale, che la
Giulia gli procurerebbe colla propria dote, si spegnevano
improvvisamente nella sua fantasia, mentre il fantasma dell' Annetta
vi si levava luminoso entro un nimbo d'oro, coi capelli biondi,
ardenti sulla sua bella testa di gran fiore, e gli occhi turchini
come le lontananze più pure del cielo nelle miti giornate di
primavera.
Il frastuono, l'onda turbolenta della piazza lo irritavano.
Finalmente poté sedersi ad un tavolo della bottiglieria
nuova, all'angolo del loggiato, nel quale sboccava il corso. V'era
ressa di giovanotti eleganti per vedere le signore. Passò la
signora Berta colla figlia abbigliata di bianco; alcuni salutando lo
scoprirono, e dovette alzarsi per un mezzo inchino, che fece quasi
arrossire la ragazza. Ma sebbene niuno avesse sospettato di lui, la
figura corpulenta e cremisi della signora Berta produsse uno scoppio
di motti satirici.
Se fosse passata la signora Annetta tutti invece l'avrebbero
ammirata.
Egli vide la signora Berta rivolgersi due o tre volte per guardare
se le seguisse.
«Che cos'hai, Mario, che sembri così triste?» gli
chiese un amico.
«La festa mi secca.»
«Provincia, mio caro!» replicò l'altro, uno
studente, tornato non a guari da Torino.
Poi la gente cominciò a diradarsi per andare a pranzo. Egli
vide parecchi soprabiti dirigersi verso casa Giglioli, qualche
signora attardata coi bambini, quindi i caffè e i loggiati si
vuotarono. Non rimanevano che due gruppi di ufficiali, soliti a
pranzare la sera, e che non avevano inviti a quell'ora e in quella
festa. All'orologio della piazza stava per suonare un'ora e un
quarto. Allora spinto come da una molla si ricacciò per il
corso; voleva passare un'ultima volta sotto le sue finestre. La
larga strada si allungava deserta sotto l'arsione del sole. Si
guardò dietro quasi nel timore di essere spiato; aveva caldo,
ma non sudava. Il cuore gli martellava nel petto. Gli parve che le
case sparissero, quando nell'alzare gli occhi dentro un raggio di
sole la vide vestita di bianco alla finestra. Non distinse che un
nastrino rosso sopra i suoi capelli d'oro. Arrivò sotto le
finestre e salutò macchinalmente, ella sorrise.
Per un istante rimase cogli occhi in alto; quindi con un gesto
risoluto le indicò che saliva. Infilò la porta,
montò di corsa le scale, non sapendo bene quello che si
facesse, giunse trafelato sul pianerottolo col braccio già
proteso per tirare il cordone del campanello, quando l'uscio
dell'appartamento si aperse, ed ella comparì.
«Che cosa fate»
Egli la respinse, entrò senza poter parlare, senza
abbracciarla, ma appena dentro l'aria scura e fresca lo fece
rientrare in sé; nullameno il viso gli rimaneva convulso.
«Mario!...»
Egli la guardò così risolutamente, che l'altra gli
fece cenno di tacere.
«Psst... la Veronica!» e lo spinse nell'anticamera verso
l'uscio, che metteva nel gabinetto verde, mentre in punta di piedi
si accostava all'altra porta per origliare. Mario entrò nel
gabinetto.
Poco dopo ella comparve; era commossa, pallida.
«Annetta» egli gridò precipitandosi verso di lei
per prenderle una mano.
«Ma avete fatto male a venir su, possono aver veduto.»
«Non sei sola?»
«Sì, la Veronica si è gettata sul letto.»
Allora l'abbracciò; ella riluttava, poi si sciolse dalle sue
braccia.
«Cattiva, quanto mi hai fatto soffrire!»
«Sì, adesso che state per pigliar moglie.»
Egli si arrestò.
«Vedete.»
Ma il sorriso le ricompariva sulle labbra, non pareva né
sdegnata, né malinconica. La sua bella figura, in quel lungo
accappatoio bianco a larghe pieghe, che la velavano dandole una
mollezza anche più voluttuosa, esalava un intenso odore di
gelsomino. Il collo le usciva da un collarino di merletti, bianco e
grasso, piegandosi lievemente sulla spalla sinistra in un principio
di abbandono.
Mario si sentì riavvampare. La prese in braccio, la strinse
sul cuore quasi da farle male, mentre tutto il corpo gli tremava di
brividi, e coi denti le mordeva già una trina del collo.
Così abbracciati caddero su quella stessa poltrona, egli
oppresso dall'angoscia della felicità, ella vincitrice,
sorridente sulle sue ginocchia, guardandolo cogli occhi cristallini,
quasi per riconoscerlo ancora, mentre un'altra trina sul collo le
batteva leggera leggera come un'ala di colomba.
Non si lagnavano più, non avevano nemmeno avuto tempo di
perdonarsi.
Poi Mario inquieto le domandò:
«Sei proprio sicura della Veronica?»
«Aspetta, torno a vedere.»
«Dorme» disse rientrando.
«Giurami che non ami che me» Mario le chiese,
riprendendola sulle ginocchia.
«Sì, te solo, cattivo mobile, geloso.»
«E in questi mesi?»
«Tu pensavi a pigliar moglie. Ah! prendila pure. Ti piace la
Giulia?» seguitò scherzando, ma fissandolo negli occhi.
«Lo vedi bene, dovrei essere da lei a pranzo in questo
momento; adesso tutto è rotto. Ma tu mi amerai sempre?»
«Come te» gli sussurrò sulla bocca in un bacio.
Mario si alzò.
«Vieni con me.»
«Dove?»
«Nella tua camera da letto.»
Ella sussultò, ma dopo il suo sacrificio non poteva
più ricusare. La camera era scura e fresca; dalle griglie
filtravano minimi raggi, che la doppia tenda intercettava
colorandosi di un rosso incerto, quasi di porpora. Mario procedeva a
tastoni, ella lo seguiva.
Un odore di sapone stagnava nell'aria.
Mario s'appoggiò al capezzale, palpando subito le lenzuola.
Erano di bucato, ancora cogli spigoli delle piegature. Parve
perplesso un istante, come se quel particolare gli contraddicesse
un'idea secreta; poi si abbandonò sul letto
«Vieni.»
Ella titubava.
«La Gina se ne potrebbe accorgere.»
Ma egli l'aveva abbracciata tirandosela sopra, e quando si fu
rivoltato con lei sulle coperte, le disse trionfalmente:
«Sono io tuo marito.»
V
La rottura era stata brutale.
La sera al caffè, dove sedevano la signora Annetta colla
contessa Giglioli, e poco lungi a un altro tavolo i signori Bruschi
con alcuni parenti, Mario, ancora inebbriato, aveva appena risposto
al saluto ansioso del signor Cesare. Quindi volgendosi all'avvocato
Gelli, che lo pungeva d'allusioni all'imminente matrimonio, si era
lasciato sfuggire ad alta voce:
«L'albero, al quale dovrò appiccarmi, voglio almeno che
sia bello, tutto in fiore.»
Una risata gli aveva risposto, ma la Giulia, ferita da queste
parole, aveva impallidito così che la signora Berta si era
mossa imprudentemente sulla sedia per sostenerla, mentre la signora
Annetta ricompensava Mario con un sorriso.
Ma quando rientrò a casa, dopo la mezzanotte, trovò la
mamma ad aspettarlo. Le si leggeva ancora il pianto negli occhi.
Mario, che si sentiva già nell'animo il freddo sottile del
pentimento, non osò dirle nulla. Ella accese la candela, e
l'accompagnò silenziosamente nella sua camera.
«Ti sei rovinato.»
Da quel giorno la vecchia si chiuse in un ostinato mutismo, e i
Bruschi non lo salutarono più. Solo l'avvocato gli volse un
rimprovero sul modo villano, col quale aveva troncato quella
relazione; ma l'altro, superbo del sopravvento ripreso su lui,
esclamò:
«Infine è troppo scema.»
«Ma perché offenderla?»
Egli stesso doveva convenire di aver torto, sebbene nel
rinfocolamento della passione non volesse riflettervi. Non aveva mai
amato così: si sentiva ancora l'Annetta dentro, immersa nel
sangue, che gli irrompeva a ondate dal cuore, come se l'avesse
bevuta. Ma anche la bellezza di lei in quell'ultima ripresa, nel
delirio di desiderii che ripullulavano ad ogni bacio, aveva trovato
le veemenze dei fiori aprentisi d'improvviso al sole, quando la
campagna ai primi soffi di primavera effonde nell'aria i germi di
tutte le fecondità.
Quindi la signora Annetta finse coi Bruschi di non saper nulla su
quella rottura, ma la Giulia le piantò in faccia gli occhi
vitrei.
«L'ami davvero?» ella chiese alla fanciulla per
sottrarsi all'imbarazzo.
«No.»
«È stata una cosa da mascalzone» sbuffò la
signora Berta.
«Se non amava Giulia, mi pare che sia stata piuttosto una
fortuna.»
«Chi sa nemmeno se lo sia per quell'altra, di cui è
innamorato» ribatté la Giulia.
La signora Berta, senza sospetti verso l'Annetta, non comprese.
Nullameno le loro relazioni si raffreddarono.
Per contentare Mario ella aveva promesso di venire ogni quindici
giorni, il sabato, in città, e di non ripartirne che la
domenica sulle sei; si sarebbero così incontrati come
potevano. Ma adesso che Mario le aveva tutto sacrificato, vi metteva
ella stessa molta buona volontà. Anzi nella vanità del
proprio trionfo di donna, e nella foga di quel rinnovellamento
d'amore, pur non misurando bene la grandezza del sacrificio, dal
quale forse egli non potrebbe più risorgere, credeva di
appassionarsi per lui come non le era accaduto neppure gli ultimi
mesi della gravidanza. La sua stessa gelosia le pareva legittima,
quasi un compenso dovuto a quel supremo olocausto di se medesimo.
Quindi abbandonandosi a tutte le sue adorazioni si sentiva talvolta
presa dalle vertigini di una poesia, che prima non avrebbe mai
nemmeno sospettata. Infatti un giorno spogliandola colle mani
febbrili, e interrompendosi per tuffare il volto nel profumo delle
sue sottane, egli l'aveva messa ritta sopra uno sgabello, come una
statua fulgente nella soavità incolore del marmo; poi le si
era prostrato dinanzi, baciandole i piedi, salendole colle braccia
su pei ginocchi, nello sforzo di una aspirazione delirante verso il
suo seno intatto di vergine, e aveva rotto in singhiozzi di bambino
sotto la sua bellezza vincitrice.
Allora rapita ella medesima nell'onnipotenza divina della donna, che
può tutto distruggere e tutto consolare, lo aveva lasciato
piangere senza interrogarlo.
Ma ciò accadeva di rado. Generalmente avevano appena il tempo
di abbracciarsi nel gabinetto, furiosamente, quasi per imprimersi
nelle carni le stimmate del martirio, che quella momentanea
impotenza imponeva loro. Poi lo scandalo di quella rottura aveva
procurato a Mario più di un dispiacere, perché la
gente, non indovinandone la ragione secreta, l'attribuiva alla sua
fatua vanità di bel giovane. E siccome il mondo si sente del
pari offeso dalle fortune che ci capitano e da quelle che evitiamo,
Mario per qualche mese fu bersagliato da tutte le maligne allusioni;
mentre la mamma, muta in una sprezzante disapprovazione, sembrava
attendere da un'altra rottura coll'Annetta la tragica conferma delle
proprie profezie. Quindi lo aveva abbandonato coll'egoismo dei
vecchi, che si separano dagli errori dei figli dopo aver invano
tentato d'impedirli.
Quando l'avvocato ritornò definitivamente dalla villa, tutto
contento di essersi ripresa finalmente la Gigina, Mario fu anche
più contento di lui. Cominciò per tutti tre una nuova
vita intorno a quel piccolo essere, che cominciava a muovere i primi
passi e a balbettare le prime parole. La Gina le faceva da
governante, ma la balia veniva ancora tutti i giorni di mercato a
rivederla, espandendosi in tenerezze per cavarne qualche altro
regalo.
Nullameno per i due amanti le occasioni dell'amore erano scemate.
L'avvocato, nell'affluenza sempre crescente delle cause, non usciva
quasi più di casa, ora che la Gigina gli riempiva le poche
ore vuote dopo la colazione o il pranzo co' suoi giuochi infantili,
dentro i quali si agitavano già le prime tirannie della
donna. Anzi talvolta egli interrompeva il lavoro per farsela portare
nello studio, e allora erano lunghe scene di bamboleggiamento a chi
primo ottenesse, egli o l'Annetta o Mario, un bacio dalla piccina.
Quindi le gelosie si ridestavano. La bambina diceva papà
all'avvocato, perché l'Annetta aiutata dalla Gina era
riuscita con molta pazienza ad insegnarglielo un po' prima che per
solito i bambini non l'imparino.
«Gigina, amore, dillo anche a me!» le aveva domandato
Mario colle labbra tremanti, sollevandola delicatamente fra le
braccia; ma la bimba si era messa invece a strillare, sgambettando
furiosamente. «Voi altri uomini non avete grazia»
esclamò l'Annetta, riprendendola dalle sue mani e calmandola
subito con poche carezze. Ma l'avvocato aveva voluto provare anche
lui, e la incomprensibile creatura era rimasta cheta, in piedi sul
suo ventre, sostenendosi colle manine rosate alla sua barba grigia.
Sorrideva. «Sono io il tuo papà, che ti amerà
più di tutti, anche più della mamma»; e la sua
voce esprimeva una tenerezza così profonda, che gli altri due
abbassarono la testa, sopraffatti dalla sua superiorità.
Ma l'Annetta, malgrado tutte le sue effusioni chiassose intorno alla
Gigina, non gustava nella maternità che una nuova forma di
decorazione intorno alla propria bellezza. Mario invece era stato
preso dalla adorazione di quella creaturina, nella quale la
rivalità dell'avvocato e l'amore per la madre gli avevano
fatto riconoscere i primi indecisi lineamenti di una somiglianza con
se stesso. La Gigina era sua, aveva i suoi capelli biondi, gli occhi
cerulei, quelle carni più fresche di una corolla di rosa; era
il trionfo delle loro due giovinezze, il premio, che la natura serba
all'amore sano e bello di primavera. Egli, che non aveva mai provato
nemmeno per l'Annetta la tenerezza delle dedizioni senza ricambio,
la sentiva ora dinanzi alla figlia tutta bella nella
insaziabilità inintelligente del proprio egoismo. L'anima gli
si rinfrescava di una giocondità inesprimibile, quando la
bambina, lasciandosi prendere in braccio, lo guardava coi grandi
occhi trasparenti, nei quali nessuna immagine del mondo aveva
lasciato ancora la propria ombra.
Quindi il suo amore per l'Annetta si alzava in una sfera più
spirituale. Gli pareva che la felicità sarebbe stata
nell'essere suo marito, chiuso dentro la propria famiglia contro
tutto il mondo, e sicuro da ogni abbandono di lei; mentre invece
ella restava fatalmente con la Gigina nell'orbita di un'altra vita.
Tutta quella festa delle loro due esistenze era l'opera di un altro
uomo; lui, Mario, non era che l'eterno contrabbandiere, vagante sui
confini di una famiglia, che la sua frode stessa aveva perfezionata
con la intromissione di una bambina, ma che nessun altro suo
tradimento potrebbe più distruggere.
Aveva posseduto la femmina, non avrebbe mai né la sposa,
né la madre, né la figlia. Tutte quelle frenetiche
voluttà non bastavano a dargli il possesso vero della donna;
ella non trovava mai per lui, nemmeno fra le menzogne più
carezzevoli, una di quelle parole semplici e così piene, che
immedesimano le anime nella inseparabilità della vita.
Talvolta si stupiva seco stesso di questo amore per la Gigina,
mentre da principio gli era persino ripugnato che l'Annetta fosse
gravida; poi nella crisi quasi mortale del parto egli aveva mille
volte augurato a se stesso che la piccina fosse nata morta per non
compromettere la mamma, finché vedendola la prima volta in
campagna, ravvolta nelle fasce e colle manine raggrinzite quasi
stizzosamente sulla poppa della balia, non si era sentito affatto
nel cuore quel rimescolamento della paternità, così
celebrato dalla rettorica di tutti i libri, e frequente nella
ipocrisia dei discorsi.
Le doglianze e i ripicchi ricominciarono. Pareva una intesa di tutti
contro quella pretensione di Mario sulla Gigina; la Veronica, il
vecchio Andrea, persino Marco il misantropo, che aveva giocato sopra
di lei un ambo vincendo otto lire, adoravano la piccina per quella
felicità, che procurava all'avvocato. Mario non sorprendeva
mai nelle loro parole o nelle loro occhiate un'allusione a lui,
padre vero, o un sarcasmo per quell'altro, che non lo sapeva; invece
doveva egli stesso unirsi al corso delle felicitazioni, e
pronunciare talvolta qualcuno di quei complimenti, che erano come
l'espiazione della sua colpa.
Tutto era stato inutile per far intendere all'Annetta la
verità di quel patimento. Ella non capiva. Era come quando
voleva persuaderla che, cedendo al marito, avrebbe commesso un
secondo adulterio peggiore del primo, perché la prostituzione
vera, quella che la legge non può colpire e trionfa spesso
dentro la legge, non è che la voluttà fuori
dell'amore, la cessione del corpo senza l'assenso dell'anima.
«Ma è mio marito» ella ripeteva invariabilmente.
E s'egli finiva quasi a singhiozzare nella collera di un dolore
così vero, che la commoveva momentaneamente, ella girava
subito la questione: non amava: non aveva mai amato che lui;
l'avvocato era un'altra cosa, e non aveva nulla a fare coll'amore.
Come mai si poteva non capire certe cose? Adesso era Mario, che si
sentiva accusato di non comprendere.
Queste scene, ripetendosi ad ogni convegno per quanto breve,
scavavano fra loro il dissidio. Da quella volta, che era riuscito a
penetrarle nella camera da letto, Mario aveva poi sempre voluto
ritornarvi, ma le occasioni non capitavano che di rado, e bisognava
aiutarle di lunga mano. Quindi pensando che l'avvocato non era
ricco, e difficilmente potrebbe diventarlo, così da lasciare
un patrimonio sufficiente per due figli, Mario pretendeva che non
avesse più esigenze sulla moglie. L'Annetta avrebbe potuto
svezzarlo per rimanere tutta a lui. Ma, disgustata dalle
difficoltà di tale disegno, ella vi si era invece sottratta
con una bugia. Diceva di non tentare mai il marito, che la cosa non
accadeva quasi mai; poi incalzata, riscaldata dalle preghiere di
Mario, aveva finito col promettere.
«Non gli fare in pubblico quelle moine.»
«Ma se io ...»
«No, lo sai pure che soffro; adesso che ti ho sacrificato
tutto, non dovresti dimenticarmi.»
A questo richiamo troppo frequente, ella si era impazientita; ma
l'altro senza darle tempo d'irritarsi:
«Promettilo: che cosa ti costa?»
«Che io gli tenga il muso, perché tutti se ne
accorgano!»
Egli tentò invano d'insegnarle che era possibile ingannare la
gente senza ostentare tutto quell'affetto per il marito.
«Me lo hai pur giurato, che non sarà più tuo
marito!»
«In pubblico non si può.»
Allora le fece ripetere il giuramento sulla testa della Gigina,
minacciando di commettere qualche eccesso, se scoprisse qualche
tradimento coll'avvocato. Ma nell'Annetta invece cresceva la stima
pel marito, che nel proprio confidente abbandono non aveva mai avuto
per lei né una parola dura, né un sospetto ingiurioso.
Egli era ben superiore a Mario, sempre malcontento anche dopo i
sacrifici, che ella gli aveva fatto, perché l'Annetta come
tutte le donne credeva di essersi sacrificata. Talvolta le accadeva
pure di pensare, che se invece di sposare l'avvocato fosse diventata
la moglie di Mario (ed era pur stato possibile) adesso non sarebbe
che una borghesuccia seppellita nel fondo di un appartamento
meschino, fra un marito geloso e una suocera taccagna, senza potersi
fare più di due vestiti all'anno, senza villa e senza
avvenire.
E con tutto questo Mario diventava ogni giorno più esigente
con lei!
Una domenica, nel pomeriggio, aveva voluto accompagnarla ad una
passeggiata, che ella faceva sola colla bambina per mostrarsi nella
grazia novella della sua maternità. Naturalmente ella aveva
ricusato, ma d'improvviso se l'era visto venire incontro alla
imboccatura del gran viale; e le si era accompagnato tenendo la
bimba per l'altra mano. Era stato un martirio. La Gigina faceva i
passi così piccoli che era quasi sempre ferma, mentre tutti
guardavano, e taluni avevano sogghignato a quella loro apparenza di
sposi. Mario ne aveva gongolato, sebbene soffrendo del dispetto di
lei; poi avevano incontrato le signore Bruschi, e la Giulia aveva
dato loro un'occhiata così maligna che l'Annetta ne aveva
arrossito. L'avvocato Gelli, che le seguiva, se ne era accorto;
allora si diceva che stesse per prendere presso la Giulia il posto
lasciato vacante da Mario. Per colmo di sventura la Gigina,
risentendosi forse della commozione della mamma, si era messa a
piangere. L'Annetta ne rimase con lui in collera per un mese. Quando
fecero la pace, si lasciò sfuggire questa maligna allusione:
«L'avvocato Gelli farà una bella fortuna sposando la
Giulia; ha già aperto studio.»
Infatti quel nome giovane cominciava a sorgere vicino a quello
dell'avvocato Filippo, mentre di Mario, arrestatosi in quella
posizione subalterna, non si parlava più. Egli se ne avvedeva
con avvilimento sempre maggiore, ma non poteva nemmeno tentare di
mettere studio per non separarsi dall'Annetta.
Alle elezioni generali l'avvocato, malgrado le più vive
istanze di tutti, aveva ricusato la carica di sindaco conferitagli
per acclamazione, adducendo la necessità di dover vivere
colla professione, adesso che gli era nata una bambina. Il conte
Giglioli gli aveva invece detto sorridendo:
«Tu sarai il deputato.»
«Davvero?!» esclamò l'Annetta, quando l'avvocato
glielo raccontò a pranzo: «allora l'inverno a
Roma...»
«Zitta!...non è ancor tempo.»
Ella ne parlò con Mario, che, temendone già vivamente,
finse di ridere, perché il marchese Curci, sostenuto da tutto
il clero, non si sarebbe lasciato battere così facilmente. Fu
una doccia di acqua gelata sulla fantasia già accesa
dell'Annetta, ma da quel giorno ella non lasciò più in
pace il marito sul disegno di passare l'inverno prossimo a Roma. La
Gigina sarebbe allora abbastanza grandicella da poter camminare;
ella la condurrebbe la mattina al Pincio, ove si radunano (li aveva
visti sui giornali illustrati) tanti bambini... poi vedrebbero la
capitale, Roma, le principesse, gli inglesi, la corte. Egli potrebbe
tenere un altro studio a Roma per le cause grosse, e lasciare Mario
a rappresentarlo in questo.
«La Gigina diventerà una signora romana»
esclamò maliziosamente, vedendolo impazientirsi e riuscendo
così a farlo sorridere. Quindi la Gina fu messa nel secreto
della confidenza; poco dopo lo sapevano anche Marco ed Andrea, ma
nessuno dubitava della riuscita.
«Io andrò a Roma» disse il vecchio Andrea a
Marco; «sono sicuro che l'avvocato mi prenderà. Tu, che
non ti vuoi muovere, resterai qui primo scrivano.»
«Con quell'asino del signor Mario?»
«Il signor Mario se ne andrà» ribatté
Andrea senza spiegarsi di più. Anche gli altri parevano della
stessa opinione. Mario si fiutava intorno tutte quelle
ostilità senza trovare in se stesso come difendersi; fuori
dello studio non udiva parlare che sulla candidatura dell'avvocato,
accolta prima che posta, e ripetere che dopo lui il migliore della
città resterebbe il giovane Gelli. Mario diventava taciturno
come la signora Orsolina. A seguire l'avvocato sino in Roma non ci
pensava nemmeno, perché né egli poteva chiederglielo,
né l'altro consentirlo, rimanere suo sostituto nel vecchio
studio, sarebbe stata una posizione più che onorevole, ma non
si sapeva abbastanza stimato da lui per ottenerla. Poi in ambi i
casi l'Annetta sarebbe stata perduta.
Una assenza di sei mesi avrebbe distrutto in lei tutta la sua
influenza.
In quell'inverno, piuttosto rigido, ella fu più assidua al
teatro, festeggiata, affollata di visite, dacché la contessa
Giglioli l'aveva presa sotto la sua protezione, dicendo con
bontà leggermente ironica di volerla formare per Roma. Quei
primi contatti aristocratici le scopersero subito
l'inferiorità di Mario, non meno borghese dell'avvocato nei
modi, e senza l'altezza dell'ingegno, che è sempre una
aristocrazia. Quindi il suo gusto si raffinò. La contessa le
aveva già fatto comprendere l'ineleganza di certe
acconciature e la volgarità di certi colori, insegnandole
colle minuzie del gran vivere mondano quella impercettibile
alterigia delle dame, quasi sempre così impossibile a tutte
le altre donne. Naturalmente l'Annetta non ne apprese molto, ma quel
tanto bastò per toglierla dalla soggezione di Mario, rimasto
fino allora per lei l'ideale della eleganza. Anzi, nella prima foga
della ribellione, andò fino a schernirlo sul taglio degli
abiti, fatti dal miglior sarto della città, mentre il vecchio
conte Giglioli si vestiva ancora a Firenze.
Mario, vinto, cominciava a raccomandarsi. Quindi la pregava di non
andare a Roma, ricordandole il giuramento di non abbandonarlo mai e
protestando che non potrebbe più vivere senza di lei e senza
la Gigina. Ella, insuperbita del sopravvento, mostrava di calmarlo
colle risposte ambigue e condiscendenti, che si danno ai bambini:
nulla era ancora deciso; bisognava che accadessero le elezioni, che
l'avvocato fosse eletto, e anche allora probabilmente andrebbe a
Roma solo, come tutti i deputati. Mario le diminuiva nella
coscienza. Egli non era dunque capace di seguirla dovunque, dando
alla propria vita lo stesso sviluppo della sua?
La superiorità dell'uomo, così necessaria alla donna
nella sua vita parassitaria, e che Mario aveva sino allora mantenuto
colla energia della gioventù e la poca pratica mondana,
vaniva ora che dalla cittaduzza di provincia ella stava per
ascendere col marito nella sfera più luminosa della capitale.
Egli invece l'amava doppiamente in quell'angoscia di perderla senza
riparo, e l'accusava, s'indispettiva, perché avrebbe voluto
persuaderla d'imporlo come socio all'avvocato.
«Io non m'intendo dei vostri impicci legali; domandaglielo
tu.»
«A me non conviene.»
La verità era che non l'osava.
Ella, che temeva di ottenere la grazia, se ne schermiva colla scusa
delle Bruschi sempre intente a spiare la loro relazione; ma l'altro
indovinava anche troppo bene la viltà della donna sotto quel
pretesto. Tutto il suo ascendente era perduto. Come la maggior parte
degli uomini deboli, Mario, incapace di più dominarla, invece
di risottometterla magari colla violenza, ricorreva alla blandizie
dell'ispirarle compassione, dimenticando così che l'amore
vive esclusivamente di rapina, e muore alla prima elemosina. Ella
non poteva abbandonarlo, gliela aveva giurato dopo il suo
sacrificio, perché tutto doveva oramai essere comune fra
loro; era il suo unico amante, il padre della Gigina, che nessuno
poteva più sostituire...
Questa corda, così vibrante nel proprio cuore, egli la
supponeva egualmente sensibile nel suo. Quindi per provarle la
propria autorità volle un giorno la piccina a pranzo;
l'Annetta si ribellò, ma egli tenne duro, capendo di perdere
tutto nel cedere. Dopo una settimana di battibecchi nessun dei due
era ancora vinto; allora Mario tentò un colpo decisivo,
richiedendola all'avvocato per la domenica prossima, il compleanno
della signora Orsolina.
La signora Annetta, presente alla domanda, non seppe opporsi,
perché gli occhi sfavillanti di Mario minacciavano uno
scandalo; l'avvocato vi accondiscese, e Mario si accovacciò
per ripetere la proposta alla bambina, che sorrise.
Appena rimase solo coll' Annetta, le si appressò fissandola
duramente:
«Badate di non pretendere che venga anche la Gina: la voglio
sola con me, è mia figlia.»
Ella alzò dispettosamente le spalle.
Mario non era però che a mezzo del proprio disegno; bisognava
farla accettare dalla signora Orsolina. Quando gliela disse la sera
medesima, a cena, la vecchia ebbe un brutto soprassalto; poi lo
guardò fissamente:
«Tu credi di riconquistare così quell'altra? Se ti
concede la bambina per una mezza giornata, è appunto per dare
della polvere negli occhi alla gente; non lo farebbe per prudenza se
la supponessero tua amante. Ecco che cosa avrai ottenuto; nessuno
crederà che tu abbia avuto quella donna, il giorno che dovrai
dirlo per vendicarti.»
«Non commetterò mai una simile infamia.»
La faccia della vecchia, diventata anche più livida nella
vita claustrale di questi ultimi mesi, aveva una espressione cupa e
ripugnante. Mario pensò involontariamente, che forse la
Gigina ne sarebbe spaventata.
La domenica, quando Mario tentò di condur via la Gigina tutta
vestita di rosa, gli scrivani erano già usciti; non
rimanevano in casa che la Veronica e la signora Annetta. L'avvocato
aveva un'adunanza.
Mario tremava perché la Gina, andandosene poco prima, gli
aveva detto con quel solito sorriso:
«Badi di non farla piangere, altrimenti bisogna prenderla in
braccio, e non sarebbe bello per il signor avvocato Mario Zanetti.
Non vi sono che i babbi e i domestici che possono farlo.»
La signora Annetta l'accompagnò sino al pianerottolo
sorridendo, ma al momento di separarsi si chinò a baciare la
bambina.
«Addio, cocca, addio!» seguitava a dirle da capo delle
scale, mentre la bimba si rivolgeva ad ogni gradino, rabbuiandosi
nel volto.
Allora ella sparve improvvisamente, correndo alla finestra; quando,
dopo cinque lunghi minuti, Mario sboccò dal portone, la
bambina piangeva già.
«Gigina!» ella le gridò dall'alto, salutandola
con quella sua voce carezzevole.
La bambina alzò il capo, e scoppiò in un urlo
così disperato che Mario confuso, atterrato, dovette
rientrare pigliandola in braccio; per le scale ella seguitò a
strillare, sgambettando come in preda ad una convulsione.
«Ve lo avevo pur detto!» esclamò severamente la
signora Annetta, correndo loro incontro sul pianerottolo.
Egli la seguì fremente di collera, comprendendo benissimo
tutto il machiavellismo di quella scena; ma quando entrò la
Veronica, e tutte e due dovettero penare un bel pezzo per calmare la
piccina, egli sentì ripiombarsi sul cuore un avvilimento
senza nome.
Le due donne sembravano non avvertire la sua presenza, poi la
Veronica protestò:
«Ma vi è senso a dare dei bambini a gente come
lei!»
Mario era rimasto nel gabinetto, frenando a stento le lagrime.
Dovette passare molto tempo, perché la signora Annetta
rientrandovi fu tutta sorpresa di trovarvelo ancora; lo credeva
partito. Il viso di Mario esprimeva un dolore così disperato,
che ella se ne commosse.
«Ma perché tutto questo?» gli disse colla sua
voce buona. «Bisognava immaginarselo che la Gigina avrebbe
avuto paura di restar sola.»
Egli fece un gesto.
Ma l'Annetta tornava ad agitarsi; la presenza di Mario
l'impensieriva perché l'avvocato poteva tornare da un momento
all'altro.
«Mi scacciate dunque?» egli gridò con una
reazione di sdegno. «Non si può mai parlare con te,
pigli tutto per traverso.»
«Sono sempre io che ho torto!»
Ella annuì.
Erano soli, la Veronica lavorava nella cucina. Allora Mario ebbe una
grande risoluzione; così non poteva durare, bisognava
decidersi.
«Senti,» incominciò «no, siedi, dobbiamo
parlare.»
Ella titubò.
«Siedi, ti dico. Così non si va avanti, ma bada,
bisogna spiegarci bene. Tu sei decisa di andare a Roma con lui, lo
so; è la fortuna per voi altri due. Ci ho pensato da un pezzo
senza farmi un'illusione, imponendo silenzio a tutte le mie
sofferenze. A Roma egli può fare una bella carriera; vedi che
sono giusto. Ma io e te come rimaniamo?»
La sua voce era così energica, che ella ebbe un battito di
paura.
«Non ti immaginerai già che io ti voglia cedere. Quando
si è stati l'uno per l'altro quello che siamo stati, non si
dà più indietro. lo ti ho sacrificato tutto; potevo a
quest'ora essere in una bella posizione, avere uno studio, ed
essermi magari vantato di te: un altro lo avrebbe fatto. lo ti amo
invece; ho rinunziato a tutto per farti mia.»
Ella tentò d'interromperlo:
«Ti ho pur detto che tutto è ancora in aria.»
«Lascia, lascia... Io non ne posso più, ma siccome ho
deciso, voglio la tua risposta. Abbandonarmi non puoi, dopo che mi
hai giurato fedeltà, colla bambina che ci unisce. Se
l'avvocato va a Roma, tu fuggirai con me.»
La proposta era così improvvisa ed enorme, che ella lo
guardò come se fosse impazzito; Mario punto da quella
meraviglia proruppe:
«Ecco come siete! Che un uomo vi dia tutto se medesimo, che si
sacrifichi negli interessi, che vi faccia madri, mentre avete dei
mariti, che non ne sono più capaci, che stia per degli anni
in uno studio a fare quasi il servitore per voi: e poi dopo lo
piantate senza un rimpianto, senza dirgli nemmeno: bada! No, no; hai
voluto che io perda tutto per te, e l'ho fatto volentieri, ma tu
devi essere mia.» Questa logica brutale l'offese.
«Prima di tutto io non ti ho chiesto nulla: se vuoi sposare la
Giulia, è ancora ragazza.»
«Tu dici un'infamia.» E dopo una pausa, che parve di
minaccia, seguitò: «Di' pure. Siccome è l'ultima
volta che ci parliamo, se mi tradisci puoi dir tutto, ma
naturalmente non dovrò aver dopo nessun riguardo.»
«Che cosa vuoi fare?»
«Che cosa t'importa, se io non sono più nulla per
te?»
«Ma sii dunque ragionevole una volta! lo ti voglio bene, e tu
non fai che affliggermi. Non posso già impedire che lo
eleggano deputato, e che vada a Roma. Anzitutto, ti ripeto, non si
è deciso nulla. Andrà solo.»
«Tu lo seguirai, lo desideri.»
«lo...»
«Te lo leggo negli occhi, non mentire.»
«E se lo seguissi?»
«È tuo marito eh!»
«Certo.»
Le loro voci salivano di tono; egli tentò ancora di calmarsi.
«Dunque non vuoi: tutto è rotto?»
«Mi lasci dire una cosa?»
«Lo so già prima.»
«No, che non la sai» ribatté stizzosamente.
La sua fisonomia si era fatta dura; adesso era lei che minacciava.
«Se tu fossi ragionevole, non te l'avrei detto... Non so che
cosa ti salti in testa; ora mi accorgo che ho fatto male a cederti,
perché va sempre a finire così con voi altri. Quando
siete soddisfatti, vi dimenticate la posizione della donna.»
«Sei la mia.»
«Invece sono sua moglie, poi sono la madre della Gigina.
Aspetta, te lo dovrò dire per forza. lo non ho dote, non ho
niente. Quando egli mi ha sposato, non ne parlò nemmeno;
basterebbe questo perché gli fossi sempre obbligata. Adesso
fa tu il conto; se io non ho niente, tu... anche se io ti
seguissi...»
«Lavorerò.»
«Allora perché non vieni a Roma?»
Questo colpo lo atterrò; ma ella, profittandone rapidamente,
proseguì:
«Avresti dovuto vederlo da te, perché al mondo non si
vive d'aria. lo gli debbo tutto, egli farà una posizione alla
Gigina, che un giorno sarà davvero una signora ben più
di me. Invece col tuo progetto, scappando anche in America, saremmo
due infelici, tre anzi con la Gigina, come vorresti tu. Non avremmo
più né nome né onore. Nessuno mi compatirebbe
di aver trattato così male un uomo, che tutti stimano, e che
ha fatto del bene anche a te.»
Ella si era alzata, superba della propria vittoria, senza che
nell'animo le tremasse un solo dubbio di tutte quelle ragioni. Ma si
sentiva stanca. Mario invece, esaurito da quel primo sforzo, e
sopraffatto dai rimproveri della propria insufficienza, non
resisteva più. L'Annetta aveva ragione: dove sarebbe fuggito,
qualora ella consentisse a seguirlo? Con quali risorse avrebbe
mantenuto lei e la bambina? Che cosa poteva offrir loro in cambio
della posizione, che perderebbero?
Improvvisamente tornò a piangere esclamando:
«Non mi hai mai voluto bene!»
Ma siccome ella taceva ripresa dalla paura di quella scena, nella
quale la Veronica o l'avvocato potevano sopravvenire da un momento
all'altro:
«Sì, tu hai sempre mentito» ripeté.
«Mario...»
«Tu ami lui invece, lo so: io non ti ho servito che come un
giovane.»
«Sei dunque pazzo davvero?» ella ribatté al colmo
dell'esasperazione.
«Sei tu che mi fai diventar matto! tu colle bugie, mentre non
ami che lui per la posizione, che ti ha fatto. Tu mi hai sempre
ingannato, quando mi assicuravi di tenerlo a distanza ... No, non ti
credo più... sono sicuro!»
«In tal caso di che cosa ti lamenti?»
Ma egli aveva ripetuto un'altra volta: "ne sono sicuro!" e senza
badarle più era fuggito dal salotto verso la sua camera da
letto. Ella lo seguì spaventata, come se una rovina stesse
per crollare sul capo; quando giunse all'uscio, Mario aveva
già rigettate le coperte del letto, piegandosi col volto
sulle lenzuola sino a sfiorarle.
«Ah!» gridò rialzandosi terribile.
Ella s’inoltrò guardando nella direzione del suo dito teso,
ma d’improvviso vacillò dinanzi alla sua figura stravolta,
sotto la sua mano alzata, sentendo lo schiaffo per aria; poi
riaperse gli occhi. Egli pareva rattenuto da una forza misteriosa,
ma sempre così alto sopra di lei, col furore di
un’imprecazione sul viso e la bocca contratta da un sogghigno
spasmodico. Involontariamente ella tornò a guardare in quel
mezzo del letto, e allora, come se quella tacita confessione gli
sciogliesse l’ultimo indefinibile ritegno, Mario la percosse sulla
guancia così violentemente, che ella ne traballò:
«Bugiarda!» urlò dandole un secondo schiaffo:
«Almeno ne porterai il segno, macchia per macchia!»
VI
Era passato più di un anno.
Mario seduto allo scrittoio nel piccolo stanzino, che gli serviva da
studio di procuratore, aveva abbandonato il capo sulle mani,
rileggendo macchinalmente una lettera ricevuta poco prima. Lo
stanzino dava sopra un cortiletto umido e buio, dal quale prendeva
una luce molto triste; aveva pochi mobili, lo scrittoio nuovo in
noce, due vecchi scaffali, un piccolo sofà ricoperto di un
drappo verde, e qualche sedia di paglia. Benché fuori la
giornata primaverile sfolgorasse di sole, lì dentro durava
ancora il freddo dell’inverno.
Da molto tempo egli vi passava pressoché tutto il giorno
aspettando qualche raro cliente, o leggendo i giornali, ma per lo
più non faceva nulla di nulla. Qualche volta un amico veniva
a trovarlo, e se ne andava subito, impaziente della tetraggine del
luogo, senza che egli cercasse di trattenerlo.
Dopo la rottura coll’Annetta, Mario non aveva più osato
presentarsi all’avvocato; anzi sulle prime temeva che ella in un
impeto di pazzo dispetto potesse raccontare quella scena, torcendola
naturalmente a proprio favore. Invece l’Annetta aveva pianto
lungamente, poi si era sentita come liberata da un gran peso. Egli
aveva mandato da Firenze le proprie dimissioni, ma troppo corto a
quattrini per intraprendere un viaggio di qualche mese, era
ritornato poco dopo ad affrontare la curiosità degli amici,
meravigliati di quella sua brusca risoluzione. L’avvocato,
incontrandolo, si limitò appena a salutarlo, e disse
ironicamente che Mario doveva averlo creduto uno dei signori
Bruschi; la gente ne rise, poi dimenticò. Ma quando Mario
prese quello stanzino, per aprirvi lo studio di procuratore,
ricominciarono le beffe. L’avvocato Gelli, che aveva ottenuto in
quei giorni la mano della Giulia, fu crudele con lui al
caffè. Mario,già sfiduciato della prova prima ancora
di mettervisi, non seppe rispondere; quindi ricusò una causa
contro l’avvocato Filippo, e un’altra volta, poco appresso, fu
schiacciato dal medesimo Gelli in una discussione davanti al
pretore.
Si sentiva giudicato.
Allora la sua tristezza, per una suprema reazione, si fece iraconda
così che gli ultimi scarsi amici finirono per cansarlo,
mentre in casa la signora Orsolina non usciva da quello sprezzante
mutismo se non per dirgli come in cucina mancasse questo o
quell’altro, ed ella non avesse danari per comprarlo.
Sciaguratamente nemmeno lui ne aveva. I primi clienti lo pagavano
poco o punto; egli volle citarne qualcuno, e perdette così la
simpatia del pubblico, tanto indispensabile ai principianti.
In quelle prime necessità di guidare da solo una causa gli
era già venuta meno la stima di se stesso, accorgendosi come
tutto quanto gli pareva di sapere fossero suggerimenti
dell'avvocato, spesso dati in conversazione, quando non lo
consultava direttamente, ma che gli illuminavano sicuramente la
strada, spazzandone ogni problema falso od inutile. Perfino il
vecchio Andrea in quello studio, a forza di copiare conclusionali e
di ascoltare discorsi giuridici, aveva finito coll'intendersene, e
talvolta l'aveva consigliato.
Ma ora sarebbe stato impossibile ricorrervi. Poi una volta aveva
dovuto incontrarsi coll'avvocato; Mario impacciato non sapeva che
dire; l'altro invece fu terribile di affabilità:
«Fate benissimo a piantarvi da procuratore, perché
spesso vi si guadagna meglio che a far l'avvocato, e con minor
fatica. Se per caso aveste bisogno di me, ricordatevi, caro Mario,
che vi ho sempre voluto bene. Naturalmente dovrò anch'io
ricorrere a voi come procuratore. Siamo intesi, Mario; m'aspettano
dal conte Giglioli. Tornate dunque a trovarci, la Gigina vi
salterà al collo; cresce a vista d'occhio.»
Mario si era sentito stringere alla gola dinanzi a quell'uomo
così forte e così buono, da lui ingannato senza
rimorsi, e che seguitava ad essere felice tra la moglie e la figlia
in una armonia inalterabile di amore. Quel giorno non poté
nemmeno tornare allo studio. Passò cinque o sei volte sotto
le finestre dell' Annetta nella confusa speranza che, scorgendolo,
qualche scintilla rimasta in fondo al cuore le si riaccendesse
improvvisamente; ma non la vide. Invece s'imbatté nella Gina
sola, vestita con un abito di casimiro grigio, con un velo sulla
testa elegantemente rialzato agli orecchi da due spilloni di
giavazzo.
La Gina gli sorrise amabilmente.
Allora egli diventò vile. Avrebbe voluto parlarle
dell'Annetta e della Gigina, abbandonandosi magari a tutta una
confessione per alleggerirsi il peso, sotto al quale soffocava
giorno e notte. La Gina notò subito che era cambiato. Infatti
Mario, un po' dimagrato, non aveva più la pelle così
fresca, ma quell'aria melanconica, temprando la fatuità della
sua bellezza, gli dava una espressione più signorile.
La Gina disse che andava a spasso.
«Siete libera oggi; e la padrona?» aggiunse con uno
sforzo.
«È in visita dalla contessa Giglioli.»
Intanto si erano accompagnati. Ella aveva tutte le distinzioni di
una dama, senza il più piccolo imbarazzo, dominando la
confusione, che gli indovinava nell'animo. Prima che Mario se ne
accorgesse, la Gina svoltò a due strade entrando in quella
del suo studio. Quando vi furono presso:
«È qui?» domandò.
«Un buco!» egli rispose con amarezza sprezzante.
«Si comincia sempre da poco.»
Non era mai stata così amabile. Mario, colpito dal suono
quasi dolce della sua voce, le alzò gli occhi in viso con una
certa meraviglia, ricordandosi tutte le sue passate
malignità; ma la Gina aveva un'aria candida, che ispirava
confidenza. Si era arrestata con tanta disinvoltura, e rimaneva
lì ferma, quasi sull'uscio, che dovette per forza dirle:
«Volete entrare?»
«Ma sì, vediamo.»
Quando la Gina fu dentro, se ne mostrò subito soddisfatta;
sedettero sul divano, l'uscio era rimasto socchiuso.
«Lei lavora sempre qui?»
«Non molto, non è come nello studio dell'avvocato, che
vi piovono le cause.»
«Certamente l'avvocato ha un gran nome: adesso poi, che lo
faranno deputato, crescerà ancora d'importanza.»
«Andrete a Roma anche voi con loro?»
«Forse.»
Ella gli sorrideva sempre, guardandolo negli occhi bianchi in una
maniera particolare. Mario sentì l'amabilità della sua
intenzione, e credette che adesso, vedendolo così rovinato,
non lo invidiasse più come prima. Le donne hanno spesso di
questi bruschi mutamenti.
«Perché dite forse? La signora Annetta
accompagnerà senza dubbio l'avvocato, non fosse che per
divertirsi a Roma: nella capitale una bella signora, giovane, ha
tutte le occasioni per farlo. Poi difficilmente si è
scoperti» aggiunse con malignità dolorosa.
«Talora la cosa riesce egualmente bene anche in una piccola
città come la nostra; ma non può durare molto.»
Erano arrivati al tema. Mario aveva il cuore così grosso che
stava per dire qualche imprudenza, ma l'altra non gliene
lasciò il tempo. «Già, certe cose non debbono
durar molto, perché non dovrebbero nemmeno accadere: ma
quando si è giovane...»
«Lo siete voi pure.»
«Lo sono e non lo sono; nella mia posizione non vi è
gioventù. Se fossi nata serva, potrei compiacermi dei miei
ventidue anni, ma siccome non lo son nata, i miei ventidue anni
contano doppio. Bisogna essere liberi per divertirsi: invece, quando
si servono gli altri, e non si vuole accrescere il peso delle
proprie umiliazioni, bisogna fingere di non avere né sensi
né anima. Si vede, si capisce, talvolta si capisce anche che
un altro s'inganna, ma non glielo si può dire. D'altronde chi
crederebbe ad una serva? Tutto sembra malignità in
noi.» E si portò la mano alla fronte con un gesto
elegante, quasi per scacciarne un pensiero doloroso. Mario
sospirò.
«È facile ingannarsi, avete ragione, specialmente
quando v'ingannano.»
«Eppure, signor Mario, a me pare, che debba essere più
doloroso ingannarsi che essere ingannati. Per esempio scoprire che
l'amante vi tradisce, quando già vi siete accorti che il suo
cuore c'entrava troppo poco nell'amore, non dovrebbe essere un gran
dispiacere a paragone dell'aver stimato ed amato una persona, che
improvvisamente se ne scopre indegna. Ma il mondo è fatto
così, si crede alle apparenze, soprattutto se son
belle.»
«Però le donne non soffrono mai dei tradimenti, che
fanno.»
«È sempre il cuore a soffrire; non basta essere signora
per averne.»
L'allusione era così trasparente che Mario si scosse:
«Esse ne hanno forse meno delle altre.»
«Eppure tutti le corteggiano, anche se non sono belle.
Sarà forse per la vanità, io non posso saperlo,
perché non sono più una signora; se lo fossi rimasta,
e un uomo mi avesse fatta la corte, mi pare che ne avrei indovinato
il perché. Invece le donne, che non hanno il tempo di
civettare come le signore, e innamorandosi ci mettono tutte se
stesse, non sono mai credute dai signori: anche questo sarà
forse per la vanità. Credono che esse lo facciano per la
speranza di mutar condizione.»
«Infatti lo si vede spesso» ribatté con una
ingenuità, che in quel momento diventava ingiuriosa; ma la
Gina non s'ingannò sul tono di quelle parole, e
proseguì niente offesa:
«Sarà benissimo, ma un uomo deve avere ben poca stima
di se stesso per non credere di potere essere amato
sinceramente.»
Questa volta Mario comprese. Fu una rivelazione, che illuminò
tutto il passato, il contegno sempre serio della Gina, gli ostacoli
che ella cercava di mettere ai suoi convegni coll'Annetta, le
allusioni maligne, certamente gelose, colle quali lo pungeva sempre
nel momento più opportuno e sul punto più delicato. Ma
invece di inorgoglirlo, questo piccolo trionfo gli fece più
melanconicamente sentire l'abbandono di quell'altra; tuttavia
sorrise.
«Come sta la signora Orsolina?» ella chiese, mutando
tono colla confidenza di una amica.
«Così così.»
La Gina avrebbe voluto che le dicesse di andarla a trovare. Quella
conversazione durava da un'ora senza che nessuno dei due avesse
mostrato il minimo turbamento; poi intesero dei passi e delle voci
nell'andito, sul quale dava l'uscio, e Mario andò a chiuderlo
come avrebbe fatto in un consulto legale. Sulla faccia della Gina
passò una nube.
«Mi dispiace che non ho nulla da offrirvi» egli disse,
rimettendosi a sedere.
«Non ci pensi.»
«Come sta la Gigina?»
«Bene» rispose seccamente.
Tacquero, poi la Gina rispose:
«Sa la notizia? lo diceva stamane il signor Filippo: pare che
il matrimonio della signorina Bruschi coll'avvocato Gelli vada a
monte.»
Mario alzò sprezzantemente le spalle.
«A lei non è mai piaciuta quella ragazza?»
«No. Gelli la sposa per la dote: è una
vigliaccheria.»
«Allora si riaccomoderanno; ma gli saprà salata quella
dote, dovendo andare a vivere in casa con la signora Berta e il
signor Cesare. Egli non voleva saperne.»
«Lo conosco Gelli, cederà. Con tutto l'ingegno, che gli
attribuiscono, farà un cattivo affare. Val meglio guadagnarli
colla professione, magari in vent'anni, quei centomila franchi, che
diventare il domestico di quei due mercanti arricchiti.»
La Gina ebbe un lampo di gioia negli occhi.
«Centomila franchi si hanno da guadagnare in meno di vent'anni
colla professione dell'avvocato o del procuratore. Un uomo, che non
avesse altri pensieri, sicuro di essere amato nella propria famiglia
con una donna intelligente che lo aiutasse, dovrebbe fare più
presto. Ma la signorina Bruschi non capisce nulla, io stessa le ho
dovuto correggere una lettera in francese.»
«Tu sai il francese?»
«Un pochino, me lo ha insegnato la povera mamma.»
«Non lo avevi mai detto.»
«Perché dirlo finché sono una serva?»
Ella si alzò, si mosse disinvolta per lo studio, come una
signora in visita, esaminando lo scrittoio con una impertinenza
elegante.
«Si può guardare nelle sue carte, signor Mario? Non vi
saranno bigliettini di signore?»
«Non ho più amanti.»
«Davvero! un bel giovine come lei?»
Egli ebbe un gesto di scoraggiamento.
«Non piglierà nemmeno mai moglie?»
«Non sono ricco: le donne oggi guardano prima alla posizione
di un uomo.»
«Ma sono anche capaci di fargliene una» rispose piccata.
«Chiacchiere! ci vuole altro oggi a farsi una posizione! prima
di avere una clientela si diventa vecchi, e allora non ne vale
più la pena; uno scapolo invece ne ha sempre
abbastanza.»
«Anche della mia visita, signor Mario?»
Ella guardò l'orologio, si strinse con un gesto vezzoso la
cintura sui fianchi, e gli stese la mano salutandolo; ma era tornata
fredda e impenetrabile come quando la vedeva presso la signora
Annetta.
Capì di averla offesa con quelle ultime parole, e forse
più con la mancanza di ogni tentativo galante. Ella
uscì ripetendogli quasi imperiosamente:
«Resti, resti pure.»
Quando fu solo, si sentì il cuore più grosso di prima;
non aveva potuto parlare dell'Annetta, e aveva compreso che la Gina,
sapendolo così avvilito, si era lusingata di poterlo sposare.
Un'onda di amarezza gli salì alla gola.
Ecco quanto gli restava! Si gettò bocconi sul divano,
mordendone il drappo per soffocare i singulti, perché oramai
si vergognava di piangere sempre come un fanciullo per
quell'abbandono di una donna, che avrebbe dovuto abbandonare in
tempo secondo i consigli della mamma. Ma non lo aveva potuto. Anche
allora provava i morsi acuti della gelosia come il primo giorno. Non
lo avrebbe confessato ad alcuno, ma tutte le notti prima di andare a
letto passava e ripassava pel corso sotto le sue finestre,
incantandosi dolorosamente nel loro lume, cacciandosi quasi dentro
il segreto delle loro tenebre cogli occhi dilatati e veggenti,
mentre tutte le ricordanze lo riassalivano in tumulto febbrile fra i
sogni più pazzi di vendetta e di riconciliazione. Talvolta
pauroso della gente, che avrebbe potuto sospettare della sua
fantasticheria nello scorgerlo fermo sotto quelle finestre, si
nascondeva nell'ombra di una porta; poi tornava a contemplarle con
una voglia delirante di urlare e di chiamarla per nome. Vi passava
anche di giorno, sbirciando da lungi e rivolgendo il capo appena era
trascorso; vi ritornava in compagnia, senza alcun bisogno, o
giovandosi dei più lontani pretesti. Ella generalmente si
ritirava al vederlo, ma invece per strada rispondeva con
affabilità provocante al suo saluto affettuosamente
rispettoso. Quindi sentendoselo dietro camminare sulle proprie orme,
quasi tirato al fascino del suo profumo, dava al proprio portamento
un'ondulazione anche più voluttuosa, senza mai torcere il
capo, mettendo in ogni più piccolo gesto una grazia d'invito,
sicura nella propria lentezza fra tutta la gente, che la guardava
con ammirazione.
Quando invece dava la mano alla Gigina, erano continue soste e
sorrisi e carezze, delle quali egli indovinava l'intenzione crudele.
Qualche volta ella diceva persino parole a doppio senso, mentre la
piccina, che si era già scordata di lui, gli era passata
dinanzi senza salutarlo. Diventavano torture ineffabili, che gli
ispiravano mille disegni di assassino, perché in quei momenti
egli l'odiava, e non avrebbe voluto ad ogni costo soccombere sotto
la sua superiorità di donna e di signora. Se non avesse
temuto di sembrare pazzo, avrebbe gridato a squarciagola ch'egli era
stato il suo amante e l'aveva tenuta sulle ginocchia nuda e
fremente. Ma ella, indovinando quel martirio, raddoppiava le
provocazioni, tanto che una volta egli aveva traversata la strada
per passarle quasi addosso cogli occhi spiritati.
Ella ne aveva tremato per un istante; ma che cosa avrebbe egli mai
potuto commettere per strada? L'Annetta lo conosceva troppo bene per
avere paura; poi, dopo quella rottura, le poche chiacchiere sulla
loro relazione erano cadute.
Invece egli fuggiva incontrando la Gina.
Ma la piaga gli si allargava nel cuore.
Come accade sempre alle passioni infelici, che per mantenersi una
speranza cercano di giustificarsi dinanzi alla ragione, Mario si
diceva che, essendo il padre vero della Gigina, aveva un diritto
indiscutibile anche sulla madre. Le bizze, gli equivoci avrebbero
finito col cessare, perché tutto cede davanti alla
verità della natura. Era impossibile che anche nella
coscienza dell'Annetta non si agitassero tali sentimenti. Quindi
ritornava ai pensieri di vendetta; la più squisita sarebbe
stata di rapire la Gigina, fuggendo in America. Egli se ne faceva un
romanzo, lo divideva in capitoli, lo scandiva in scene, ne ripeteva
a memoria i dialoghi nelle lunghe ore delle passeggiate solitarie, o
nel silenzio dello studio, dentro quella luce di crepuscolo, nella
quale i pensieri gli si abbuiavano e le passioni diventavano
più livide. La stessa cupa concentrazione della signora
Orsolina lo spingeva a tali risoluzioni immaginarie. La vecchia,
dopo quel fallimento di tutta la sua vita, pareva divenuta
insensibile; faceva quel po' di cucina, dava ancora regolarmente le
biancherie di Mario alla lavandaia, ma non puliva più la
casa, e quando non aveva più quattrini non ne chiedeva.
Solamente il giorno dopo non allestiva il pranzo. Mario aveva dovuto
finire col domandarglielo, ma egli medesimo si trovava spesso senza
danari. Aveva già contratto qualche debito coi pochi amici, e
alla nuova stagione, anziché rinnovare gli abiti secondo il
solito, aveva ricusato diverse partite di piacere. La sua
misantropia si abituava alle inutili occupazioni dei solitari.
Restava spesso nello studio a riordinare carte senza valore, mutava
le disposizioni dei libri negli scaffali, faceva lunghi conti
aritmetici su patrimoni eventuali, scioglieva sciarade, o rileggeva
vecchi romanzi, i più volgari e pieni di avventure. Ma non
aveva resistito alla tentazione del teatro, per rivedere l'Annetta
in palco e soffrire nel ricordo di quando si scambiavano occhiate
d'intelligenza, e i sorrisi, che ella fingeva d'impartire ai
visitatori, erano invece per lui senza che niuno se ne avvedesse.
L'Annetta lo aveva visto subito, ma non gli aveva più badato
per tutta la sera. Nel suo palchetto i visitatori facevano ressa,
ridendo e pavoneggiandosi, sino a diventare quasi uno spettacolo
nello spettacolo.
«Se non riesce lui, è una rocca imprendibile»
disse a Mario un collega di foro, indicandogli un giovane capitano
di artiglieria, bellissimo, che le faceva una corte assidua dalla
barcaccia degli ufficiali.
Mario aveva avuto un malvagio sorriso.
«Non lo credi? Eppure non si è mai detto che abbia
avuto amanti.»
«Se ne avesse avuto invece?»
«Chi?»
Mario non osò vantarsi per timore di non essere creduto;
l’altro seguitò:
«Tu la dovresti conoscere bene: sentiamo, chi ha avuto? Nei
tuoi piedi io mi sarei provato. Tieni! adesso guarda al
capitano.»
Infatti era vero. Mario si voltò vivamente incrociando con
lei un'occhiata, ma l'Annetta per fargli dispetto puntò il
binocolo di madreperla sulla barcaccia degli ufficiali.
Nullameno Mario non credeva a quella civetteria. Odiava,
disprezzava, ingiuriava segretamente l'Annetta, ma non ammetteva di
aver successori. La sua gelosia allora sarebbe salita più
alta nel martirio, perché almeno l'avvocato rappresentava il
diritto della famiglia, davanti al quale l'amore doveva
necessariamente piegare. Un altro amante invece sarebbe stato per
lui la distruzione anche del passato; non avrebbe più potuto
credere di essere stato amato e di lasciare in quella donna una
traccia incancellabile.
Poi vennero le elezioni.
Il deputato uscente, Marchese Curci, dopo qualche armeggio si era
ritirato, lasciando l'avvocato solo contro i radicali ancora senza
campione e in preda a clamorosi dissensi per sceglierne uno nelle
mediocrità del partito. Mario si lusingò, senza
poterlo credere, che l'avvocato soccomberebbe, ma avendo scritto
nella Gazzetta gli diventava impossibile combatterlo apertamente.
Quindi si trovava ad ogni passo fra contraddizioni pungenti; avrebbe
voluto favorire i radicali, e non osava romperla colla Gazzetta,
nella quale l'avvocato Gelli, moltiplicandosi, manteneva un vivo
fuoco di moschetteria contro gli avversari. Questi rispondevano
platealmente, perdendo terreno tutti i giorni. La causa della
cartiera, essendo stata vinta anche in secondo grado, due ingegneri
inglesi si occupavano già dei primi studi per il nuovo
impianto, malgrado il ricorso pendente in Cassazione. Una corrente
di simpatia sollevava alto l'avvocato, blandendo simultaneamente gli
interessi e la vanità paesana; egli medesimo, uscendo dal
lungo riserbo, aveva accettato francamente la battaglia, e nella
Gazzetta rimbeccava gli attacchi, dirigendo l'opera dei ruoli del
partito, la divisione dei più pugnaci elettori in manipoli
per condurli alla conquista dei seggi elettorali, onde impedire il
furto delle schede. Fra quella ressa di opinioni e di
velleità pullulavano foglietti, le idee si sgretolavano in un
turbine di parole, mentre al solito le convinzioni vacillavano, e la
massa delle coscienze anodine si muoveva sotto la pressione del
vento più forte.
A momenti Mario riacquistava importanza per l'intimità avuta
coll'avvocato e la sua attuale indipendenza verso di lui; lo si
interrogava, si credeva che egli avesse ricevuto confidenze,
conoscesse secreti. Ammiratori fanatici dell'avvocato gli dicevano
che aveva fatto male ad andarsene, perché sarebbe rimasto a
rappresentarlo nello studio; laonde Mario si destreggiava affettando
l'indifferenza in politica, ma anche la nota scettica era pericolosa
in quel ribollimento di passioni. Nullameno riuscì a
mantenersi fuori della mischia presso un gruppo di giovani radicali,
la maggior parte studenti, che infervorati di rettorica socialista e
sprezzanti dei vecchi residui repubblicani, vedevano nel trionfo
dell'avvocato un'ultima ripresa del partito conservatore. Fra essi
il nome della signora Annetta capitava travolto nella lordura del
solito linguaggio giovanile, quando il vizio è ancora una
bravata e la sguaiataggine della irriverenza pare audacia di
ribellione. La signora Annetta era per loro la sola bella
qualità dell'avvocato, e le avrebbero dato più che il
voto. Molti si ostinavano a pretendere che non gli si fosse potuta
mantenere fedele; allora le teoriche pessimiste sulla donna
fioccavano, si cercava, si voleva trovare il ridicolo e il disonore
contro di lui. Qualcuno disse a Mario che egli, volendo, avrebbe
potuto conquistarla in quella lunga intimità; Mario
lasciò dire, poi scherzò, accettò il sospetto,
disdicendolo con malignità vanitosa e fingendo per lei un
disprezzo, che solo in un amante di già ristufo sarebbe stato
naturale. Ma quando Mario se ne andava, nessuno lo credeva
più, per non riconoscergli una superiorità così
invidiabile, anzi giudicavano con spietata severità quel suo
gesuitismo. Non pertanto qualche cosa ne filtrò.
Un foglietto anonimo, con frasi ambigue, tentò di ferire
l'avvocato nell'onore di marito; si comprese benissimo a chi altri
andasse l'allusione, ma il disgusto e l'incredulità ne furono
tali in paese, che l'Avanti! il giorno dopo in un articolo veemente
stigmatizzava tutti gli scrittori di anonimi, pullulanti come una
fungaia sopra il campo di battaglia a renderlo più lubrico
pei combattenti. Mario, spaventato, dovette simulare al caffè
la più profonda nausea per tali manovre.
Allora si isolò senza potersi sottrarre al rombo delle
discussioni. Aveva deciso di non votare. Se ne avesse avuto il
danaro, si sarebbe allontanato per un viaggio di qualche settimana;
ma invece doveva assistere al trionfo del proprio avversario, che
una volta aveva creduto vinto col frodargli la moglie, e che ora lo
schiacciava dopo avergliela ritolta inconsapevolmente. Negli ultimi
giorni la battaglia dei manifesti fu così ardente, che non
resisté alla tentazione di mescolarvisi; tutti i muri n'erano
tappezzati, la gente s'affollava a leggerli, rideva, vociava, le
discussioni diventavano duelli. Una neutralità come quella di
Mario doveva finire coll'offendere tutti; l'avvocato ne aveva
discorso, riassumendosi in una parola:
«Ingrato!»
La notte delle elezioni, nel tripudio orgiaco dei caffè,
mentre il doppio loggiato della piazza rigurgitava di gente,
l'avvocato Gelli, trionfante quasi come l'eletto, s'imbatté
in Mario uscito solamente allora di casa.
«Perché non hai votato?»
«lo non faccio della politica.»
Gelli aveva avuto un sorriso superbo, volgendosi un'occhiata
intorno.
«Ti credevi dunque un letterato, scrivendo nella
Gazzetta?»
Mario aveva impallidito, tutti lo guardavano con sorda
ostilità aspettando la risposta, ma Gelli gli volse le spalle
sprezzantemente. Il giorno dopo l'avvocato incontrando Mario non
rispose al suo saluto.
Tutto gli precipitò intorno, una parte degli amici gli tenne
il broncio, gli altri, che sperando dalla fortuna del nuovo deputato
qualche vantaggio esageravano il proprio entusiasmo, furono anche
più duri. Il foro della città, trionfante nella
persona dell'avvocato, parve darsi l'intesa, e per quattro o cinque
volte Mario trovò in pretura un accanimento che lo
sopraffece. I suoi fiaschi furono commentati; finalmente l'avvocato
Gelli in un articoletto di cronaca mise in ridicolo un brano di una
sua difesa.
La posizione diventava insostenibile. Egli non osava quasi uscire di
casa; per colmo d'imprudenza si accostò ai radicali, che lo
compromisero senza sostenerlo. Ma dentro quel disastro morale
s'inabissava una più tremenda rovina.
La mamma gli aveva detto che non avendo più danaro non
farebbe più il pranzo.
«Ho finito i miei piccoli risparmi: pensaci tu.»
Egli tornò a fare qualche debito, ma doveva ricorrere agli
strozzini, sopportando la tortura di tutti gli avvilimenti.
Un bel giorno seppe che l'avvocato era partito per Roma con tutta la
famiglia. Se ne sentì sollevato, perché la loro
presenza in città lo teneva sempre sospeso nel timore di un
incontro. Adesso che erano lontani, la gente comincerebbe forse a
scordarsi della sua condotta nelle elezioni, giacché al mondo
tutto finisce col passare. Infatti, arrischiandosi per qualche
minuto nel caffè, vi fu meglio accolto, ma l'ineleganza degli
abiti gli attirò nuovi frizzi.
Gelli aveva sposato la Giulia, entrando nello studio dell'avvocato
Filippo come socio. Tutti trionfavano intorno a Mario; a lui non
rimaneva che il ricordo cinico ed altero di quell'adulterio lontano,
nel quale li aveva tutti soverchiati d'un colpo. Nessun trionfo
pareggiava il suo; egli teneva ancora in pugno la vita di quella
famiglia, e poteva distruggerla con una sola parola, perché
l'avvocato non resisterebbe ad una rivelazione, e scaccerebbe moglie
e figlia. Quindi gli pareva di sentirsi a volta a volta nell'anima
gli stessi fremiti voluttuosi, come quando, sicuro di un
appuntamento coll'Annetta, si recava allo studio. Infamia per
infamia, la vita era sempre la stessa commedia! Soccombere, ma non
solo! Avere almeno la suprema voluttà di vedere lei sperduta,
contraffatta dalla paura di un disastro irreparabile... e dopo,
qualunque cosa accadesse gli parrebbe sopportabile. Ma questa
effervescenza gli sbolliva presto nel freddo dell'ambiente, ove era
costretto a passare tutte le ore. Invece ogni notte tornava sotto le
finestre di quella casa abbandonata, perché l'avvocato Gelli
vi lavorava solo di giorno. Era sempre la stessa, chiusa, muta,
senza un segno che ricordasse i padroni assenti, un vaso di fiori al
balcone, un nastro, un bioccolo sventolante da un ganghero, che
nella leggerezza del volo o nel tremito di un colore gli parlasse
dell'Annetta.
Egli si allontanava a testa bassa per ritornare daccapo
coll'insistenza di una manomania ancora cosciente, contando a una a
una le proprie disfatte coll'orgoglio malato di credersi il
più infelice di tutti.
Forse neppure la Gina lo avrebbe più voluto per marito.
Talvolta si diceva persino di aver fatto male a non sposarla; in fin
dei conti era nata di una famiglia superiore a quella dell' Annetta,
e senza essere bella aveva un'aria più distinta e una
più fine educazione. Con una simile donna, intelligente e
piena di energia, forse non si troverebbe così prostrato;
ella lo avrebbe diretto nella campagna contro l'avvocato,
perché anche la Gina doveva soffrire tremendamente dell'esser
serva, e odiava la signora Annetta. Adesso era tardi. A Roma, nella
capitale, si mariterebbe o muterebbe padrone per entrare in qualche
casa principesca.
Egli restava in fondo a quello stanzino freddo e buio, senza
clienti, spesso senza sigari.
Le giornate succedevano alle giornate, inerti, tramontando
nell'ombra di quel cortiletto, mentre fuori il sole era ancora
vivido, come la sua gioventù tramontava prima del tempo,
senza un fremito di gioia nel vespero, e nessuna riserva di calore
per la notte. Era così. Non si vedeva più nessun
avvenimento davanti, non aveva alcuno d'intorno. Colla mamma si
detestavano, accusandosi reciprocamente in silenzio della stessa
rovina: perché non aveva ella fatto a tempo quello scandalo
contro l'Annetta per salvargli il matrimonio con la Giulia? A lei,
madre, tutto era permesso. Perché aveva egli stupidamente
perduto tutti i capitali, da lei a forza di risparmi e di sacrifici
accumulati nella sua educazione, dietro una donna che, accettandolo
senza amarlo, aveva profittato della sua gioventù come di un
bel fiore?
Ora la vecchia soffriva forse più di lui, perché molti
più erano i suoi anni travolti in tale catastrofe.
Finalmente, avendo letto in un giornale giuridico un annunzio di
esami al posto di pretore, si ricordò di quel suo
predecessore nello studio, entrato nella magistratura per fuggire
dalla città dopo una delusione di amore. Quella mattina
stessa aveva ricevuto la sua risposta desolante. La vita di pretore
era un cumulo di miserie: la paga insufficiente per uno scapolo
diventava derisoria per un ammogliato, giacché, computate
tutte le ritenute, non ne rimanevano duecento lire al mese. Sul
pretore si aggravavano i marescialli dei carabinieri con denunzie
secrete se non condannava certa gente, i pubblici ministeri quasi
sempre delegati di questura, i procuratori del Re, i giudici, i
presidenti, tutti. Con poche righe, dentro le quali fremevano
rimpianti inconsolabili, egli lo scongiurava a non cacciarsi per
simile carriera: valeva meglio essere imputato che pretore.
Mario rileggeva forse per la decima volta quella lettera, senza
essersi ancora deciso; ma una risoluzione era pure inevitabile. Si
sarebbe volentieri consultato colla mamma, se avesse potuto sperare
una risposta.
Uscì di casa. Pel corso s'incontrò col vecchio Andrea,
che lo salutò freddamente al solito; ma in quel bisogno di
parlare con qualcuno Mario gli si accompagnò. Il vecchio
Andrea andava verso lo studio. Strada facendo Mario divenne
così umile che l'altro lo guardò meravigliato. Non era
più il bel giovane fatuo di una volta; pareva invecchiato in
quegli abiti ineleganti, colla camicia tutt'altro che fresca e i
capelli quasi arruffati.
Nullameno il vecchio Andrea rimase duro; si separarono prima di
arrivare allo studio.
Allora Mario si mise a gironzolare per le strade, senza scopo,
cedendo agli inviti del sole, perché non era uscito di casa
da una settimana. Un altro gli diede la grande notizia: l'avvocato
era tornato il giorno prima colla signora Annetta, e doveva partire
la sera stessa, col treno delle otto per Roma, dopo un pranzo
d'onore in casa Gelli. Questi li accompagnerebbe a Roma colla
propria signora.
Erano già le due dopo mezzogiorno. Il pranzo annunziato per
le cinque, si diceva di quaranta coperti; tutte le persone
più importanti della città vi sarebbero.
Mario abbassò la testa. Vagò ancora per le vie a caso,
sotto quel sole di maggio così allegro che le case stesse
sembravano sorridere anche dinanzi a lui, diventato come uno di
quegli sconosciuti, che girano il mondo. Una malinconia tenebrosa
gli saliva dal cuore, velandogli gli occhi; camminava col passo
lento dei vecchi, svoltando agli angoli quasi senza riconoscerli.
Quando si trovò fuori di porta, respirò più
liberamente. Tutta la campagna era in festa; nell'aria passavano
canti e profumi, la polvere bianchiccia della strada si alzava in
nebbia ad ogni alito di vento. Poi i ricordi lo riassalsero. Egli
era andato altra volta sotto un sole anche più ardente alla
villa, nella carrettella del fattore, pensando a lei che lo
aspettava, e baciando la sua immagine nel pensiero. Poi era tornato
con lei, per quella strada, toccandole coi piedi le scarpine sotto
la veste; la vedeva ancora così bianca, coi capelli
così biondi; coglieva il suo sorriso così rosso sui
denti scintillanti come di salgemma. Allora era giovane, non pensava
nulla, mentre adesso quei ricordi, lontani quanto quelli
dell'infanzia, gli si confondevano nella mente con brandelli di
romanzi letti e poi dimenticati. Egli non era più nulla. In
quella campagna non conosceva alcuno, non aveva un cliente, negli
interessi del quale fosse entrato o di cui potesse riconoscere il
podere fra quel mare di verzura. Andava avanti nel paesaggio come
una cosa. Eppure la vita era sempre ugualmente bella; egli solo non
vi partecipava più, sopravvivendo alla propria
gioventù, simile a una di quelle foglie secche, che l'inverno
non aveva putrefatto e il vento si cacciava talora dinanzi per
giuoco, sollevandole dal cavo di un fosso.
Era bastata una donna per inaridirlo. Poi i ricordi gli si facevano
a mano a mano più chiari. Ella non era né molto bella,
né molto buona, né molto cattiva; somigliava
all'immensa maggioranza delle altre, gli aveva ceduto come lo aveva
abbandonato, sotto la pressione del proprio egoismo senza uscire mai
dalla cerchia sociale ove era stata collocata. Ma, più forte
di lui, era ancora felice, in contatto con tutte le forze della
vita. Doveva essere così; il torto era stato in lui di voler
rimanere in un'altra famiglia, sempre allo stesso modo che vi era
entrato, per una frode di amore. Se avesse sposato francamente la
Giulia, ora sarebbe al posto di Gelli, forse ugualmente amato da
entrambe; ma si era fidato sulla forza della passione contro tutte
le necessità della natura e della società collegate a
resisterle. Era stato uno sciocco.
La sua vita così sciupata doveva nullameno proseguire,
perché gli restava la madre da mantenere, oltre se stesso;
questo bisogno non ammetteva né replica né indugio.
Comunque l'avvocato e la signora Annetta s'innalzassero sopra di
lui, egli doveva chiudere gli occhi, e cacciarsi per l'ultima
stradicciuola ancora aperta verso i bassi fondi della magistratura.
Egli era un vinto come tutta la folla, che resta folla per non aver
saputo trarre dalle forze della giovinezza la vittoria sulla vita;
anch'egli non aveva saputo che sognare e godere momentaneamente,
dimenticando che i giorni si tengono l'un l'altro, e che ogni giorno
perduto è un soldato di meno nella battaglia. Ritornò
indietro.
Si farebbe pretore, in un'altra città, per sottrarsi alle
umiliazioni della propria decadenza. A trent'anni tutto non è
ancora perduto.
Ma, appena dentro il corso, l'energia gli scemò. Per dare
quell'esame dovrebbe rinfrescare tutti i propri studi, mentre non
v'erano più che tre mesi utili per prepararsi. Gli mancavano
molti libri. Come comprarli? A chi chiederli? L'avvocato li aveva
tutti nella biblioteca, ma non oserebbe mai domandarglieli. Si
fermò dinanzi allo studio; erano le tre e mezzo. Forse a
quell'ora era chiuso, giacché l'avvocato e la signora Annetta
dovevano essere in casa Gelli. Allora lo prese una voglia
melanconica ed irresistibile di rivedere quello studio, nel quale si
era così sfogliata la sua vita. Per non perdere il coraggio
riflettendo, entrò, salì di corsa le scale; lo studio
era aperto.
Il vecchio Andrea era al solito scrittoio, curvo sopra un foglio di
carta da protocollo, colle fodere di mussola alle maniche del
soprabito fin sul gomito.
Marco, l'altro scrivano, era morto.
La frescura della stanza fece rinvenire Mario. Si trasse quasi
vergognosamente il cappello come un forestiero sgarbato, che se ne
fosse scordato, e rimase dinanzi al vecchio Andrea senza saper che
dire.
«Che cosa vuole?» questi gli chiese.
«Non c'è nessuno di là?» rispose Mario con
accento sbigottito.
«No, sono tutti in casa dell'avvocato Gelli.»
La porta dell'altra camera, la sua, era socchiusa; si vedeva il
grande scaffale di mezzo.
Mario sempre col cappello in mano, malgrado gli inviti che l'altro
gli faceva di rimetterselo, domandò se gli permetteva di
entrare nello studio per consultare il Laurent, di cui aveva
bisogno. Era un pretesto trovato lì per lì.
Andrea lo guardò sempre con la stessa aria severa di un
giudice, che vede un colpevole umiliato sotto il peso delle proprie
colpe, e gli rispose di accomodarsi pure.
Nulla era mutato nello studio. Mario si accostò al proprio
scrittoio, riconobbe il calamaio, una cannetta, colla quale era
solito a scrivere. Ma allora i ricordi gli si accavallarono sulla
coscienza. La prima volta che la signora Annetta gli si era fermata
dinanzi, guardandolo a quel modo, egli scriveva una citazione per un
fitto non pagato; se ne ricordava ancora la somma. Lì, su
quella sedia, una volta si era seduto il conte Giglioli venuto a
consultarlo in una assenza dell' avvocato. Un'altra volta erano
quasi stati sorpresi dall'avvocato, mentre la baciava.
Non c'era tempo da perdere; Andrea poteva entrare nella stanza.
Sapeva che il Laurent era nel gabinetto verde. Adesso un ritratto
della Gigina, grande al naturale, pendeva alla parete di contro
all'altro della sua nonna, la mamma dell'avvocato. La piccina si era
fatta anche più bella; sotto al ritratto c'era una data,
1890, 18 aprile, quella della sua nascita. L'aveva scritta la
signora Annetta, facendo quel regalo al marito.
Mario non avrebbe mai un simile ritratto.
Tutte le energie stavano per abbandonarlo. Corse cogli occhi su
tutti i volumi rilegati del Laurent, leggendo il loro numero
progressivo senza sapere quale scegliere, perché non aveva
niente da cercarvi; invece si accostò alla poltrona, sulla
quale aveva la prima volta rovesciata l'Annetta col coraggio
improvviso del desiderio, che si sente condiviso.
Per l'ultima volta vi si lasciò cadere, stringendosi il capo
fra le mani. Se la porticina, che dava nell'appartamento, si fosse
aperta per lasciar passare l'Annetta, felice, sorridente come un
tempo, quando veniva ad abbracciarlo, tutto sarebbe stato ancora
riparabile: almeno gli parve di pensarlo! Quella poltrona, complice
muta della sua felicità passata, non tremerebbe più
sotto il loro peso, come quella mattina che scivolando sulle
rotelle, improvvisamente, li aveva fatti quasi cadere sul tappeto.
Ella si era rialzata ridendo come una pazza.
Mario vaneggiava. Gli pareva di sentire nel gabinetto l'odore di
gelsomino, che essa si dava sovente ai capelli; ascoltava, quasi per
distinguere nell'altra camera lo scricchiolio delle sue scarpine,
che si avvicinassero. Poi tentò di reagire osservando,
rovistando nello scrittoio. L'avvocato non l'occupava più
tutto. Altre carte portavano la scrittura o il nome stampato di
Gelli, v'era anche un secondo calamaio d'argento, molto più
piccolo dell'altro in cristallo, di cui l'avvocato si serviva
sempre. Mario era allo scaffale del Laurent. Macchinalmente tese la
mano ad un volume, per averlo aperto dinanzi nel caso che entrasse
il vecchio Andrea; ma non ne esaminò che la rilegatura. Egli
non era riuscito nemmeno a comprarsi quell'opera in tutta la propria
vita di procuratore.
Eppure sarebbe stato così felice a quel posto, su quella
poltrona, che Gelli aveva saputo conquistare sposando la Giulia.
Il passo del vecchio Andrea gli fece aprire il volume.
«Sono le quattro: se lei ha bisogno di restare ancora,
aspetterò.»
«No, no, grazie, Andrea» gli rispose colla voce d'altri
tempi, come se il gabinetto l'avesse ritornato quello di una volta.
Chiuse il volume e, sforzandosi a rimetterlo a posto fra gli altri,
che stipavano quello scompartimento dello scaffale, alzò gli
occhi al ritratto della signora Luigia, la vecchia dalla fisonomia
dura di contadina, che aveva saputo infondere nel figlio la costanza
della propria razza di lavoratori.
Uscì dietro al vecchio Andrea; nel salutarlo gli tese la
mano:
«Non vorrei...» balbettò.
«Stia sicuro, non dirò nulla a nessuno.»
Appena giù nella strada corse a nascondersi nel proprio
stanzino. Per due o tre ore rimase meditando nell'ombra, che entrava
sempre più densa dalla finestra del cortile, finché ne
fu sommerso; si scordò persino che la mamma doveva aspettarlo
al magro pranzo per le sei. Tutte le sue risoluzioni della giornata
gli naufragavano daccapo in quella oscurità umida e buia di
sepolcro; non pensava più, smarrito in una delle solite
fantasticherie senza senso e senza memoria.
Un passo nell'andito lo riscosse. S'alzò, trovò nel
buio il cappello sulla scrivania, ed uscì.
Voleva andare alla stazione per vedere passare il corteo.
Tortuosamente, per evitare la piazza in quell'ora troppo piena di
gente, giunse a Porta Vecchia, l'oltrepassò cansando il viale
dei tigli, e proseguì al di là del piazzale, che
s'apriva all'ultima svolta di sinistra verso la stazione, sino alla
sbarra della via provinciale. Di lì vedrebbe sfiancare le
carrozze e passare il treno.
V'era poca gente.
Per ingannare il tempo si mise a passeggiare innanzi e indietro
nell'ombra. La notte era tiepida.
La ferrovia, quando allungava lo sguardo per la sua linea, si
perdeva lungi nell'invisibile e nel silenzio, mentre sotto la
piccola tettoia della stazione i lumi fiammeggiavano, dandole quasi
un'apparenza misteriosa con tutte quelle figure, che passavano e
ripassavano talvolta con una lanterna nera nella mano, senza far
nulla. La campagna dormiva nei propri odori.
Poi la gente cominciò a spesseggiare, dalla città
venivano a frotte. Mario passò dall'altro lato della ferrovia
per essere sicuro. Apparvero da lungi gli occhi rosseggianti di un
treno, ma veniva da Ancona, e la gente cresceva sempre. Mario
allungava ogni volta più la propria passeggiata, tenendo sul
margine della strada e rivolgendo spesso il capo. Finalmente molte
carrozze sboccarono da Porta Vecchia, quasi in gruppo; i loro fanali
bianchi aprivano la notte con due larghi solchi luminosi. Erano
essi. Non distinse alcuno, ma allo svolto del piazzale, sotto la
luce del lampione d'angolo, gli parve di riconoscere la grande
pariglia baia del conte Giglioli. Altri gruppi s'inoltravano a piedi
verso la stazione, s'udivano voci allegre. Molti, forse i convitati
di quel pranzo, erano in tuba.
Egli si era fermato guardando intensamente.
Era dunque un accompagnamento trionfale? Eppure l'avvocato non aveva
ancora presentato alla camera che due interpellanze, quasi senza
significato. Il cuore gli si restrinse: basta così poco nella
vita per trionfare, e così poco anche per perdere! Il treno
doveva tardare ancora un dieci minuti. Egli si era allontanato
nuovamente, quando udendo la percossa della sbarra nel palo di
chiusura, e lungi nella campagna i due fischi della locomotiva,
ritornò quasi a corsa. Molta gente si era già
addossata all'altra sbarra per veder passare il convoglio, forse
colla sua stessa speranza di scorgervi l'avvocato, seduto in uno
scompartimento di prima classe. Dal proprio canto era solo, poi
sopravvenne un contadino con un orciuolo di latte in mano. Il treno
era così lungo che la macchina arrivava coi fanali quasi ad
illuminare la sbarra.
I minuti divennero eterni. Egli non poteva vedere attraverso la
linea nera dei vagoni che cosa accadesse sotto la tettoia della
stazione; il respiro mostruoso della macchina copriva ogni rumore,
mentre il suo fumo saliva lentamente nell'aria perdendosi quasi
subito. Mario si sentiva stillare dalla fronte un sudore freddo, con
un freddo anche più grande nel cuore, come se gli si fosse
improvvisamente vuotato di tutto.
Poi la campanella diede i soliti rintocchi, il cornetto del
capo-treno le rispose con un lungo squillo nasale, e l'immane
serpente nero si snodò nelle tenebre. I suoi occhi
lampeggiavano di sangue, passò sbuffando lentamente,
sonoramente; i vagoni sfilavano neri, chiusi sulle merci che li
stipavano, allungandosi come un muro impenetrabile, finché
balenò un primo finestrino illuminato.
Mario ebbe come la sensazione di uno schiaffo. Dai finestrini
apparivano aspetti di camere fuggenti, alcune vuote e povere nella
nudità del legno, s'intravedeva qualche fagotto; poi altre
camere meno tristi, e fra esse tratto tratto un angolo di salotto,
coi divani rossi ricoperti da larghi merletti bianchi, che l'ombra
della notte inghiottiva istantaneamente, mentre un vento freddo,
irrompendo da tutti quei finestrini, passava sulla fronte dei
curiosi aggrappati alla sbarra con un senso istintivo d'abbandono.
Mario si volse, non rimanevano che quattro vagoni.
D'improvviso la vide in piedi, appoggiata con una mano bianca al
ferro della rete rigonfia di valigie; notò che sorrideva a
qualcuno seduto, mentre tutto il corpo le ondulava voluttuosamente
alle scosse del vagone, e i capelli biondi, così presso alla
vaschetta del fanale, le facevano un'aureola d'incendio al capo.
Il treno si allontanava dentro la notte profonda, verso Roma.
Mario traversò il binario a testa bassa per ritornare in
città, solo.