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OTTONE DI BANZOLE
(ALFREDO ORIANI)
FINO A DOGALI
MILANO
LIBRERIA EDITRICE GALLI
DI
C. CHIESA & F. GUINDANI
Lipsia e Vienna. F. A. Brockhaus - Berlino. A. Asher e C.
Parigi. Veuve Boyveau - Napoli. Ernesto Anfossi
1889
DON GIOVANNI VERITÀ
Casolavalsenio, 25 dicembre 1885.
I.
Sono caduto il giorno tre di questo mese nel pomeriggio. La giornata
era fosca. Grosse nuvole oscillavano nel cielo sotto la pressione di
un vento troppo alto per essere sentito. L'aria, ancora più
calda che umida, bagnava tutte le piante come di un sudore malato.
Nella caduta non ero solo, ma fortunatamente fui solo ad azzoppirmi.
Ed ecco come avvenne.
Non so bene se raccontando questo ubbidisca alla ridicola ed
inesorabile vanità, che ci spinge a farci centro del mondo e
a trovare nella compassione o magari nel disprezzo della gente un
sollievo ai nostri dolori. Soffrire non è nulla, e sarebbe
forse invidiato, se tutti dovessero accorgersi delle nostre
sofferenze e stimarci più di prima, e sopratutto più
di sè stessi. La nostra personalità afflitta nel corpo
cerca compensi nell'anima e, poichè questa vale più di
quello, tira a credere e a far credere che gli spasimi fisici
abbiano, per chi patisce e per chi vede patire, valore morale.
Invece non hanno significato che per la patologia.
Avvenne così.
La sera al caffè piccolo e fumoso, pieno di braccianti, dove
vengo a passare la prima parte della notte quando villeggio a
Casola, alcuni gruppi di giovinotti, vantando mandati di
Società Operaie, erano venuti a scongiurarmi di rappresentare
Casola ai funerali di Don Giovanni Verità. Il Municipio,
dominato da tutte le bigotterie e le imbecillità proprie dei
contadi, non osava andare a Modigliana. L'arciprete, il priore, i
grossi elettori montanari sempre padroni, avrebbero urlato
d'indignazione se Casola fosse stata ufficialmente rappresentata
alle esequie di un prete, che aveva avuto il torto di salvare la
vita a Garibaldi. Giù nella folla, invece, alcuni vecchi
garibaldini e molti giovani socialisti strepitavano incolleriti da
una inerzia che avrebbe reso Casola ridicola presso tutti i comuni
della provincia. Infatti i paesi di val di Senio, val di Lamone e
val di Santerno avevano aderito o si preparavano a mandare
rappresentanti e bande musicali ai funerali dell'ultimo prete
rivoluzionario. Nel caffè il puzzo del carbone, il fumo delle
pipe, il sito degli abiti, il fiato del vino bevuto, la veemenza
delle parole e dei gesti mozzavano il respiro. La marea dello sdegno
saliva.
Tutti i piccoli e fanatici odii municipali soffiavano in questa
questione, della quale nessuno capiva la vera importanza. In fondo a
tutti gli elogi prodigati al vecchio prete si sentiva ancora una
diffidenza, quasi un disprezzo che non osava analizzare sè
stesso, ma che vibrava ad ogni ironia lanciata alla sua memoria da
qualche scettico o avvinazzato. Don Giovanni era morto affermandosi
prete, ma ricusando di smentire la propria vita politica per
ricevere i sacramenti. I giornali della sera erano tutti pieni di
commenti alla sua dichiarazione.
Io stavo leggendola. Non era gran cosa e non palesava nè un
gran carattere nè una grande mente. Analizzandola
attentamente molti sospetti ne venivano alla riflessione. Al
capezzale di quel povero e semplice prete una fiera battaglia doveva
essere scoppiata fra coloro, che mandati dal vescovado avrebbero
voluto dal cappellano garibaldino una abiura di tutta la sua vita, e
gli altri, rappresentanti officiali o officiosi del partito
radicale, che dopo essersi serviti di Don Giovanni come di una
catapulta per battere i molti bastioni del clericalismo
paesano, avrebbero forse preteso da lui una dichiarazione
d'incredulità.
Avevo finito di leggere i giornali e ascoltavo distrattamente i
discorsi. In essi nè commozione nè sentimento vero.
Molti vantavano il coraggio e l'abnegazione di Don Giovanni, nessuno
lo stimava buon prete.
- Se ti fossi trovato in punto di morte, chiesi al custode del
camposanto, tremulo per le sbornie di gioventù smesse un po'
troppo tardi e ora vecchio bonario agitato tratto tratto da impeti
liberaleschi: avresti chiamato Don Giovanni?
Egli si fermò di soprassalto. La gente non ci aveva udito, ma
la mia domanda lo aveva percosso nel petto come una piattonata di
sciabola.
Agitò la testina calva e rossa, troppo rossa ai pomelli,
gittando intorno un'occhiata diffidente.
- Filomena! gridai alla caffettiera: porta un bicchiere di acquavite
a Venanzio.
Questa cortesia lo decise. Abbassò il volto, si strinse nelle
spalle e coll'aria di chi confessa un secreto, che tutti sanno ed
approvano ma niuno osa rivelare:
- Uhm! Io ho già deciso da un pezzo di chiamare il canonico.
E alludeva all'arciprete diventato canonico in Imola, già
annunziato per vescovo, prete signorile e fanatico precisamente
all'opposto di Don Giovanni.
Io sorrisi rivolgendomi per rispondere a un gruppo di giovani, che
mi avevano già circondato.
Volevano andare a Modigliana collo stendardo della società
operaia, poichè il Municipio rifiutava la propria bandiera,
ma sempre per l'onore del paese avrebbero preteso un oratore. Io,
convinto di molti libri stampati e di parecchie orazioni politiche,
solo letterato del villaggio, dovevo prestarmi al loro bisogno.
Ricusai. Non avevo e non dissi buone ragioni a ciò:
ringraziavo dei complimenti. Essi insistevano esagerandoli; a
Modigliana sarebbero convenuti d'ogni parte d'Italia rappresentanti,
e quella era bene una circostanza propizia per me e per Casola. Un
certo orgoglio paesano vibrava nelle loro frasi; la bontà
delle loro intenzioni rendeva simpatica una insistenza già
cortese di per sè stessa, e nulla meno una secreta
inesplicabile ripugnanza m'impediva di acconsentire. Un non so quale
terrore, un presentimento di sventura m'involgeva la coscienza.
Lo compresi più tardi.
Dovetti accondiscendere. Allora avrebbero voluto che prendessi meco
in biroccino lo stendardo della società operaia per non
portarlo essi sulle spalle faticando pei monti. Feci loro riflettere
che la bandiera lunga come una partigiana, dal fodero vivace, sul
mio biroccino rosso e piccolo tirato da una rozza veemente e
semistorpia, avrebbe reso ridicolo in me il rappresentante, al quale
tenevano tanto; mentre a una svolta di strada la punta della lancia
avrebbe potuto cavare un occhio a qualche cittadino. Sorrisero e ne
convennero.
Io sarei partito l'indomani, essi nella notte in drappello a
traverso i monti.
E i discorsi proseguirono. Un vecchio garibaldino d'umore faceto e
poetico, che aveva conosciuto Don Giovanni in una campagna con
Garibaldi, si pose a raccontare degli aneddoti. In uno di essi, il
più piccante, generale e cappellano avevano amato in comune
una monaca della carità, gran signora francese, che avrebbe
così trovato modo di sfogare con loro il proprio entusiasmo
eroico e il proprio sentimento religioso. Il garibaldino leggermente
avvinazzato narrava, inventando, i particolari più scabrosi
dell'avventura; il pubblico credeva e commentava, dimenticando il
riserbo di poco prima e giudicando finalmente Don Giovanni per uomo
di coraggio, fortunato nell'essersi fatto un nome col salvare
Garibaldi, ma di nessun ingegno e pessimo prete.
Non uno solo nel caffè che lo ammirasse e lo amasse.
Un altro lo paragonò a un prete del paese morto non era guari
di apoplessia e vissuto sempre ubbriaco. Il paragone parve esatto.
Nullameno qualcuno dei giovani socialisti protestò più
per dovere che per sentimento; secondo lui Don Giovanni non era
stato un vero prete, ne conveniva, ma tutti gli altri preti non
erano veri uomini.
E la discussione deviò.
Sulle dieci tornai a casa. Un amico insisteva ancora per
accompagnarmi a Modigliana; avevo acconsentito.
Quando fui solo seguitai a pensare a Don Giovanni. Avevo inteso il
suo nome fin da ragazzo nei racconti di famiglia, lo avevo poi letto
sovente nei giornali, udito sulle bocche del popolo ad ogni
circostanza della epopea garibaldina, ma non avevo visto Don
Giovanni che una sola volta.
Ed era stato a Faenza in un Comizio per la morte del Generale.
Il Comizio si teneva nel teatro Comunale. La sua sala piccola ma
elegante malgrado alcuni capitali difetti di architettura, male
illuminata da poche finestre aperte nei fianchi del palcoscenico,
aveva in quel pomeriggio un'aria malinconica e quasi solenne. Una
folla bruna e fremente, a volta a volta chiassosa, lo riempiva, lo
stipava oscillando, vibrando, sollevandosi, abbassandosi in
movimenti ritmici che la facevano assomigliare ad un'inondazione.
Tutti i palchi ceduti buono o malgrado dai proprietari erano zeppi
di uomini e di ragazzi, che si ammucchiavano sui parapetti,
s'ammonticchiavano dietro sui sedili, avvolti nell'ombra cupa della
tappezzeria mostrando talvolta la faccia biancastra per un raggio
che cadeva di sbieco. Una ondulazione li faceva ogni tanto curvare
la testa verso la platea per rialzarla poco dopo verso il loggione
con atto curioso ed insieme pauroso. Gli abiti a festa erano
generalmente scuri, i cappelli a cencio. Le fisonomie in tale luce
non si coglievano, ma si sentiva come una fisonomia generale, un
fondo di lineamenti, che rimaneva fermo in quella mezza tenebria e
faceva che tutti si rassomigliassero: e, doloroso a confessarsi,
l'aspetto del popolo non era bello. Tutte quelle faccie chine,
strette, che sembravano toccarsi nella luce scialba filtrante dagli
invisibili finestroni laterali del palcoscenico, avevano perduto il
rilievo della propria individualità per non parere più
che un allineamento di chiazze, nelle quali un giallore di carta
pecora sembrava mettere un'ultima verità di malattia. I visi
così spiattellati non conservavano che gli occhi, i capelli e
le barbe: qualche sorriso o qualche urlo in un angolo aprendo una
bocca lasciava brillare fugacemente una bianchezza di denti entro
una oscurità più piccola e più densa; molte
cravatte rosse mettevano sulle vesti certe righe di sangue che il
balenìo bianco delle fibbie di acciaio sui cappelli, simile a
un balenìo d'armi, avrebbe potuto a una fantasia troppo
eccitabile spiegare sinistramente. La folla strepitava scherzando
con tale veemenza che sembrava di minaccia. E non vi erano o non si
vedevano signori. L'impressione era di una immensa plebe,
sciaguratamente vestita a festa e quindi anche più brutta,
che aveva tutto inondato con un senso feroce di conquista. La gente
cacciatasi nei palchi non vi si poteva calmare, inebbriata di quella
specie di sfregio fatto intenzionalmente ai padroni assenti, troppo
timidi per difendere i propri palchi, mentre il Municipio, vile al
solito in faccia alla folla, aveva persino ceduto i palchi non suoi.
Le vanterie dell'assalto rimbalzavano da palco a palco ora che tutti
erano rivoluzionalmente occupati. Molte mani gesticolavano per aria
in segno di trionfo o agitavano cappelli: parole oscene scoppiavano,
affermazioni superbe di monelli che gremiti nel palco della
Prefettura e della Giunta municipale vi assumevano con grazia
scimmiesca atteggiamenti gravi di magistrati, ma per lanciare subito
altre urla di gazzarra, ricomponendosi a un rimbrotto inaspettato,
accendendo tutti i razzi di un riso inconscio e strepitoso, pel
quale l'aspettazione di quanto deve succedere vale più di
quanto succederà. Poi le figure accigliate e le pose
impettite dei ribelli importanti sempre in agguato per cogliere una
circostanza nella quale mostrarsi e che disseminati nei palchi col
piccolo cappello floscio sull'occhio sogguardavano con occhiate
brevi di padroni, assorti in un raccoglimento di oratori che si
dispongano ad improvvisare, o vigili in una curiosità
d'impresarii che temano per il proprio spettacolo. Fra di essi
brillavano a forza di medaglie le vanità legittime, ma
appunto per questo meno simpatiche, dei veterani garibaldini col
cappello sormontato da penne, affettanti nell'orgasmo di tutti una
boria che la grandezza dei fatti compiuti poteva certamente
giustificare, ma che la semplicità eroica del loro modo non
consentiva; e questi fra la nuova folla dei giovani rivoluzionari,
ai quali Garibaldi non piace più, sembravano dispersi,
talvolta incoraggiati da sorrisi, tal'altra rattenuti dal sarcasmo
di una occhiata o di una parola.
A mano a mano che il teatro si stipava, cresceva il rumore. Il primo
ordine dei palchi, quantunque gli usci ne fossero aperti, era stato
invaso dai parapetti; la gente arrampicatasi sul basamento vi si era
lanciata strepitando, cadendo a grappoli sui sedili, brancicando le
tendine, strappando e ridendo. Pareva una festa. Agli altri ordini,
i primi arrivati s'erano chiusi nei palchi e ricusavano d'aprire
agli ultimi. Pochi o nessuno fra i proprietari invece aveva
però osato far questo o, facendolo, aveva ceduto il posto
d'onore a qualcuno della plebe come a un parafulmine che dovesse
difenderlo in caso d'uragano nella platea o nel loggione. Quindi
rintronavano pugni negli usci, urla di minaccia e di scherno. I
conquistatori già calmi nel diritto fondamentale della
proprietà, l'occupazione, sentendo percuotere sulle porte si
voltavano dai parapetti con sorrisi di sprezzo o guardavano per le
griglie e, se per caso era un proprietario diventato coraggioso per
curiosità, si consultavano sul caso e finivano quasi sempre
per aprire. Ma il proprietario doveva restare nel fondo del
palchetto. Tra il frastuono della gente che strepitava per
strepitare, così ingannando il tempo dell'attesa, si coglieva
l'insistenza di certe voci, ed erano di compagni che dispersi
nell'impeto dell'ingresso in teatro tentavano invano di riunirsi,
giacchè abbandonando il proprio posto si era bensì
sicuro di perderlo, ma non già di riguadagnarne un altro.
Molti invece si drizzavano gettando un grido, tentando un gesto
nello spasimo di attirare l'attenzione della folla, e vinti dalla
penombra che spesso non li lasciava più nemmeno riconoscere,
dalla agitazione di tutti che non badava ancora ad alcuno,
ripiombavano sopra sè stessi con certi atti di
scoraggiamento, nei quali osservando da vicino si sarebbe forse
notato del rancore.
Al quarto ordine ammirabile per disegno, uno dei più belli
dell'architettura italiana, coi vani dei palchi quasi in quadro, i
parapetti bassi bassi, i tramezzi nascosti da statue di eccellente
stile decorativo, la folla si era stipata a piramidi, gli uni sulla
schiena degli altri, di maniera che i primi appoggiati col petto sul
davanzale sembravano dover soffocare, ed invece ciarlavano. Altri
sporgevano temerariamente col busto e avevano gesti da nuotatori
guardando in basso, o aggrappati agli stipiti accennavano di passare
da palco a palco sullo spessore dei cornicioni, o afferrati ad una
statua vi facevano un'oscena macchia nera. Un'immensa allegria
saliva dalla fitta platea, s'insinuava nei palchi, scorreva per le
corsie, gorgogliava, ricadeva straripando dal loggione. La
moltitudine disoccupata e sovrana di sè, non avendo nulla a
fare e niuno cui obbedire, sentiva istintivamente la comicità
della propria situazione; cominciavano già le ironie al
comizio eccitate dai significati che la varietà dei palchi
attribuiva agli invasori. In quello del Prefetto, un gruppo di
ragazzi, più numeroso e compatto del Consiglio Comunale,
rappresentava, momentaneamente il Governo: nell'altro della Giunta
un'orda di beceri sghignazzava intorno ad un piccolo borghese
ingenuamente repubblicano, capitato al comizio come in duomo e che
spaventato dal baccano aveva presa la più mortificata delle
fisonomie. La platea se ne era accorta, e rideva. Nel palco della
deputazione teatrale due lavandaie, le sole donne che si vedessero
al comizio, ne rappresentavano apparentemente anche la sola pulizia.
- Sei brutto! tuonò improvvisamente un vocione, e si vide un
gesto indicare un ometto calvo, dalla faccia ignobile e cadaverica,
che occupava in un palchetto del secondo ordine il posto della
più bella signora del paese.
Tutti capirono a volo l'allusione del confronto, ed applaudirono.
Egli comprese, arrossì, avrebbe voluto fuggire, ma i compagni
lo rattennero fischiando.
- Viva Garibaldi!
- Viva Mazzini!
- No, viva la comune!
- Viva Garibaldi e la rivoluzione sociale!
- Viva Garibaldi!
E questo nome dominava, riuniva tutti gli evviva. Una frase, nella
quale si distinse solo la parola carabina, suonò e si
perdette nel frastuono del loggione. Poi si intesero fuori lontano
degli squilli di fanfara e un fremito corse in tutte le persone, che
si voltarono istintivamente alla porta. Il corteo, che avrebbe
dovuto formare il vero comizio, si avvicinava e il teatro era
già pieno.
E dalla porta tutti gli sguardi si riportarono sul palcoscenico. Una
scena calata in fondo lo lasciava in tutta l'ampiezza del suo vano.
A sinistra una luce filtrante da un vicolo per gli aperti finestroni
lo illuminava melanconicamente. La tela, che lo chiudeva in fondo,
rappresentava una parete di camera aristocratica colla porta tutta
ornata di goffi rabeschi: due ritratti degli antenati comuni a tutte
le commedie, un cavaliere del secolo passato in cappellaccio piumato
e bavarina bianca, e una dama scollacciata, in abito rosso orlato di
merletti bianchi, lo fiancheggiavano; e al di sopra della porta un
piccolo quadro chiuso in una povera cornice dorata rappresentava
Garibaldi. Il Generale era dipinto colla berretta in capo,
avvoltolato nell'immenso mantello cilestro. La sua testa rimasta
bella attraverso le falsificazioni di tutti i ritratti si
distingueva male, e nullameno tutti la riconoscevano e a tutti
quella nobile e semplice fisonomia faceva la stessa impressione. Non
uno degli schiamazzatori che, voltandosi al palcoscenico ed
incontrando quello sguardo immaginario, non smettesse di vociare
colto da un senso affettuoso e pauroso di rispetto. Sotto al
ritratto del Generale, più innanzi verso la ribalta, una
lunga tavola coperta di un vecchio tappeto mezzo lacero, prestato
dalla generosità del Municipio, aspettava il Comitato del
comizio: una poltrona interrompeva a mezzo la fila delle sedie
imbottite promettendo nel Comitato un personaggio, che nessuno
ancora conosceva. La poltrona era di un rosso sbiadito e bisunto.
Chi mai l'avrebbe occupata?
Questa domanda, che mi rivolgevo mentalmente, la sentii ripetere
più volte intorno a me.
Sulla tavola quattro candelabri d'argento a tre branche cariche di
candele steariche, che sgocciolavano sotto il vento delle finestre
imitando la fiamma delle torcie, non accrescevano per nulla la luce
al palcoscenico. Pochi individui vi passavano ancora, forse
incaricati della polizia del comizio, faccendieri vestiti anch'essi
a festa e tutti superbi di occupare momentaneamente la scena
destinata agli oratori e ai principi del Comitato.
Gli squilli della fanfara si avvicinavano sempre; la moltitudine si
era calmata improvvisamente.
Dal mio palchetto di secondo ordine, già abituato alla poca
luce della sala, non perdevo una fisonomia della moltitudine. Il
grosso e bel lampadario solito ad illuminare il teatro era scomparso
dietro il zodiaco della vôlta lasciando libera in giro la
vista dei palchi. L'aria era calda, la gente già in sudore si
asciugava le fronti.
- Viva Garibaldi!
- Viva l'Eroe! s'intese dal loggione.
In quel momento le fanfare entravano nell'atrio del teatro, e una
colonna compatta, irresistibile sfondando la folla accalcata sulla
porta della platea, si dilatava dentro la sala in torrente. Il
corteo era arrivato. Quasi contemporaneamente dalle quinte a destra
del palcoscenico irruppe un'onda di bandiere. La musica era cessata
forse per la impossibilità di mantenere le bande allineate
nelle corsie, ma le ultime note dell'inno garibaldino vibravano
ancora nell'aria. Un immenso fremito corse nel teatro. Tutti quegli
stendardi dalle lancie dorate, dai colori vivaci ondeggianti, che
sfilavano e s'accalcavano sotto il ritratto del Generale,
benchè appartenenti a pacifiche società operaie,
parvero parlare a tutti di battaglie; e i sibili della seta, i
riverberi delle frangie, l'addossarsi dei gruppi che per la
esiguità dello spazio si scomponevano entrando l'uno
nell'altro mentre i vessilli oscillavano, le trombe finalmente
arrivate lanciavano gli ultimi trilli e la luce intercettata da
tutto quel tumulto si velava, sembrarono comunicarlo alla folla. Le
bandiere erano così alte e folte che il loro panneggiamento
copriva tutto lo sfondo intorno al Generale. Le fantasie
s'infiammarono, i cuori batterono. A tutti sembrò che quel
ritratto si animasse. Le memorie delle cento battaglie vinte, degli
eroismi prodigati, ripalpitarono in fondo a tutte le coscienze,
mentre una bontà di commozione dolorosa e superba,
riavvicinandole, traeva un urrah irresistibile da tutti i petti.
La figura di Garibaldi saliva fra le bandiere in una luce tragica di
crepuscolo.
Tutte le miserie e le ridicolaggini inseparabili da un comizio
popolare erano scomparse: egli solo restava, e la dolcezza del suo
occhio azzurro che nessuno vedeva e tutti sentivano, la
semplicità epica del suo abbigliamento così simile
alla sua vita e alla sua morte, sollevarono da tutti i cuori come un
immenso peso.
Ma improvvisamente si fece un gran silenzio.
Garibaldi era morto, quelli erano i suoi funerali!
Forse fu illusione, ma mi parve che tutti fossero impalliditi; certo
tutti istintivamente si erano levato il cappello.
Nessuna voce, nessun evviva osava rompere la solennità di
quel rispetto.
Intanto mutamente, compostamente, il Comitato del comizio si
disponeva intorno alla tavola.
Quindi al rilassarsi di quella tensione troppo forte s'intese nel
teatro il sommesso rumorio della gente che si accomodava quanto
meglio poteva per assistere a una lunga ed interessante
rappresentazione. Tutta la platea, poichè ne erano state
levate le panche, stava in piedi così densa che nemmeno un
grano di miglio cadendovi, secondo il vecchio proverbio, avrebbe
toccato l'assito; nei palchi la ressa s'era acquetata subitamente:
appena qualche moto provocato dalla positura insostenibile di uno
spettatore vi si coglieva e cessava. Volsi un'occhiata in giro.
Tutto il teatro rigurgitava. La folla, impossibile a credersi e a
descriversi, era raddoppiata: al quarto ordine molti individui si
reggevano alle statue. Ercole aveva un cappello nero sulla testa,
Nettuno ne teneva un altro sul tridente.
Si aspettava.
A fianco della gran tavola un'altra più piccola era occupata
dalla stampa: intorno al Comitato seduti, stretti, incredibilmente
stretti, tutti gl'invitati e i rappresentanti delle società
romagnole democratiche stipavano il palcoscenico. Molte teste
espressive spiccavano, molte medaglie lucevano sui petti. Cercai
cogli occhi Giuseppe Cesare Abba, eroica e gentile figura di
troviero diventato poi lo storico della spedizione di Marsala, la
sua prima campagna di giovinetto: ma non lo vidi. L'anno dopo egli
solo parlò del Generale, alla commemorazione della sua morte,
in un discorso che fu un canto di allodola interrotto da strida di
aquila.
I rettori del comizio sembravano agitati. Alcuni erano calvi, altri
canuti, nessuno aveva sembianza di soldato, tranne l'ultimo a
sinistra, un fornaio, bella figura di littore romano, tozzo ed
energico, che non potendo restar seduto era venuto a postarsi presso
l'ultima bandiera e gladiatoriamente atteggiato pareva quasi pronto
a brandirla al primo impeto di rivolta. Vicino alla poltrona
centrale occupata da un signore ventruto, il sindaco giallo, sottile
come una distinzione scolastica, floscio si accasciava sul tavolo
cercando fra alcune carte che erano forse telegrammi. Alla sua
sinistra la testina viva, oramai bianca ai capelli e tutta rossa al
viso di un medico toscano, vecchio democratico dalla frase violenta
e dall'accento gentile, si torceva vivacemente parlando con chi le
stava dietro.
Degli altri le fisonomie svanivano nella penombra.
E il comizio cominciò colle solite agghiaccianti
formalità.
Ma quando uno degli oratori si trasse leggermente in disparte e col
braccio spinse innanzi una figura nera, recalcitrante, e con enfasi
di voce gridò:
- Ecco Don Giovanni Verità, il salvatore di Garibaldi!
La scossa nel pubblico fu così violenta che produsse come un
tuono.
Primo il Comitato si era levato, e dietro lui tutti gli invitati
avevano fatto altrettanto. Le bandiere salite più alto del
ritratto del Generale squassavano guerrescamente e tutti dalla
platea, dai palchi, dal loggione, protesi coi cappelli in mano
gesticolando, urlavano con un impeto, uno scroscio irrefrenabile ed
onnipotente. La violenza dell'urrah era tale che quasi vi si sarebbe
sospettata della collera. Cresceva sempre, saliva di tonalità
arrivando allo spasimo dell'impotenza, mentre le voci meno robuste
strozzate dallo sforzo rantolavano o guaivano e nei gesti cominciava
come un tremito di disperazione. Ma l'urrah aumentava ancora, come
un vento che sollevava tutti i cappelli, investiva le bandiere,
agitava le fiamme dei candelabri, ruggiva nella penombra dei palchi,
s'ingolfava nelle corsie, urtava nella vôlta e,
riabbassandosi, strisciava su tutti i palchi, e tutti vi sorgevano
per lanciarsi nella sala, di cui la folla sollevata da un conato
incomprensibile si premeva contro il parapetto del palcoscenico e
stava per soverchiarlo.
In quell'urlo nessuna parola era possibile, nessun gesto
intelligibile.
Poi tutte le bandiere, alte dinanzi al ritratto del Generale, quasi
sventolanti al vento di quell'ululo oceanico, si abbassarono
contemporaneamente come per istinto colle lancie verso la testa del
prete, scoprendo il ritratto del morto Generale.
Erano gli stendardi di cento vittorie, che si chinavano a toccare la
veste del prete che aveva salvato il vincitore. Non si videro
più che la testa del Generale olimpicamente sorridente e la
testa del prete curva come le bandiere, quasi nel dolore di averlo
invano salvato, poichè alla fine il Generale era morto.
Perchè dunque applaudire? Garibaldi era morto!
Le bandiere sempre più chinate parevano cadere, il volto del
prete piegato sul petto si era coperto di un pallore cadaverico.
Era la festa della morte.
Garibaldi era morto, Don Giovanni non tarderebbe molto a morire.
Lo osservai.
Benchè tutti fossero ritti intorno alla tavola, la sua figura
spiccava singolarmente. Non era nè molto alto nè molto
grosso, ma si sentiva ancora in lui una vigoria senile, che rendeva
facilmente credibili tutte le avventure eroiche della sua
gioventù. Il suo soprabito nero da prete non differiva quasi
più dagli abiti degli altri signori del Comitato, ora che la
testa china tristamente sul busto gli nascondeva il collare.
Capelli grigi e duri la coprivano così che la chierica vi si
distingueva appena. Una profonda commozione lo sopraffaceva. La
bufera dell'applauso passando sopra la sua testa, pareva piegarla
senza scuoterla, mentre le bandiere curve al pari di lui sotto lo
sguardo del Generale in una tragica stanchezza ubbidivano forse al
medesimo irresistibile senso di morte, che l'entusiasmo soldatesco
di quella ovazione non vinceva più.
Io lo osservavo.
Le sue mani ossute, brune dal sole di tutta una vita di caccia, e
più scure in quella penombra, tremavano sul cappello da prete
posato ingenuamente sul tavolo: lo sforzo come di un singhiozzo
represso gli sollevava a volta a volta le spalle. Improvvisamente
con atto affaticato, disperato di naufrago, sollevò la testa.
Era un bel volto nero di contadino dai lineamenti angolosi, livido
in quel momento e nullameno impresso d'una grande aria di
bontà. La fronte naturalmente bassa erasi alquanto alzata in
un principio di calvizie, che pel colore più bianco della
pelle la cingeva come di una benda; l'arco dei sopraccigli vigoroso
e sporgente ombrava senza nasconderlo il suo sguardo scintillante di
cacciatore. Tutto il volto raso e rugoso tremava di una commozione,
che metteva come un sorriso in tutti i suoi lineamenti modellati
robustamente sulle ossa. Gli zigomi erano sporgenti, il mento quasi
quadro come negli uomini capaci di forti azioni, gli occhi rotondi,
il loro colore non si distingueva, acuti e vibranti come quelli di
un falco. Ma la sua bocca colle labbra di un rosso cupo di mattone
lasciava vedere i denti ancora bianchi a traverso un sorriso timido,
che i fremiti di quel trionfo scomponevano ad ogni istante.
Stava piegato, ma era naturalmente un poco curvo.
Le sue spalle larghe e quadre si erano leggermente incurvate col
peso degli anni; nullameno ognuno di quel popolo osannante avrebbe
potuto ancora salirvi senza piegarle maggiormente. Garibaldi vi era
montato per guadare un fiume rigonfio e lo avevano portato asciutto
ed incolume all'altra riva. Era stato in una fosca notte di
temporale scelta abilmente dall'eroico prete.
Se ne ricordava egli in quel momento, mentre tutta Faenza applaudiva
e tutta l'Italia fremente e l'Europa stupita ripetevano il suo nome
raccontando l'epico aneddoto di quella notte? Quando nel buio di
quella tempesta notturna, al mattino della quale era così
facile essere sorpresi e fucilati, giunti in riva al torrente aveva
imposto a Garibaldi, l'intrepido marinaio invano recalcitrante, di
salirgli sulle spalle colle semplici e superbe parole:
- Generale, voi conoscete il mare, ma io conosco il mio fiume! e si
era lanciato nell'ombra entro l'acqua furiante: aveva egli pensato
che verrebbe un giorno, nel quale tutto il mondo lo ringrazierebbe,
e che la storia scriverebbe il suo nome sulla pagina breve e
luminosa degli eroi di questo secolo?
Lo guardavo attentamente: ebbene, giurerei che anche allora egli era
semplice ed ingenuo come in quell'istante nel quale rischiando la
propria vita si era appena accorto del pericolo. Nessun orgoglio,
nessuna spavalderia gli venivano da quel trionfo, nel quale tutti
ingrossavano forse la voce per la speranza di farsi notare. La
teatralità di quella scena antipatica malgrado la
sincerità della commozione generale gli sfuggiva interamente;
il suo volto restava tranquillo, le sue mani non facevano un gesto,
mentre il suo orecchio sembrava non udire alcuno dei mille
complimenti che i più vicini gli susurravano.
Tutti gli invitati del palcoscenico si erano stretti intorno a lui:
nessuno osava toccarlo con una mano, ma le spalle e i volti si
premevano sul suo. L'umiltà della sua posa umiliava quella
gente tanto a lui inferiore e così superba del proprio
strepito. Se tutti non volevano essere ringraziati, tutti avrebbero
almeno preteso che egli sentisse per un minuto la sincera grandezza
di quel trionfo meritato da tutta la sua vita.
Una profonda emozione s'era impadronita del mio animo.
Era dunque vero che tutti gli eroi fossero semplici e tutte le feste
volgari? Nessun popolo per quanto buono o ingenuamente commosso,
stringendosi colle lagrime della riconoscenza o col singhiozzo
dell'entusiasmo intorno ad un eroe, non giungerebbe dunque mai a
toccare la sua anima, poichè nella meraviglia universale per
la propria azione questi sentirebbe la bassezza della umanità
e l'insufficienza di ogni grandezza individuale?
L'umanità è dunque ben piccola se gli eroi sono
così grandi!
Ma Don Giovanni alzò finalmente il capo. Il semicerchio delle
bandiere si era stretto in quel tumulto intorno ai capi della
tavola, cosicchè una arrivava quasi a toccarlo colla lancia
dorata. Egli la vide, corse collo sguardo su tutte le altre, che gli
si appuntavano quasi al petto, cercando ansiosamente il Generale.
Garibaldi era là, vestito come nelle battaglie, sorridendo
come da vivo in faccia alla morte, come un immortale per cui le
follie della gratitudine o della sconoscenza non hanno più
valore, buono ma altero, ora che il genio della sua vita, compiuta
l'opera, era salito nella storia.
- Viva Garibaldi! tuonò la moltitudine, che comprese per
istinto quello sguardo di Don Giovanni.
Don Giovanni si volse, aperse la bocca, fece un gesto vivace,
urlando forse un viva Garibaldi che non s'intese e ricadde seduto,
quasi intendendo così di scomparire nella gloria del generale
che aveva salvato, dell'amico che aveva perduto.
Il comizio proseguì.
Molti oratori parlarono commentando la vita di Garibaldi, ma il
popolo restava freddo, malgrado la voglia che tutti avevano di
commuoversi e di applaudire. I discorsi male concepiti, peggio
pronunciati, fors'anco poco intesi passavano nel silenzio del
pubblico come un mormorio insignificante. Le bandiere ritte intorno
al ritratto del Generale non squassavano più, l'inno
dell'epopea garibaldina era cessato da un pezzo. I suonatori
borghesemente vestiti non si discernevano nella folla.
Al banco della stampa i giornalisti scrivevano con atteggiamenti e
velocità di copisti.
E appena un oratore finiva ne sorgeva un altro: parevano una nidiata
di pulcini uscenti dal pollaio per pigolare intorno al cadavere di
un'aquila.
Che ne sapevano essi di quest'aquila, che aveva visitato tutte le
terre, valicato tutti gli oceani, gridato vittoria sull'albero di
cento navi, sulle torri di cento fortezze, sulla cima di cento
bastioni, sulle Alpi e sulle Cordigliere, sul Campidoglio e
sull'Etna, aspettata e conosciuta da tutti i popoli? Che ne sapevano
essi di quest'aquila così tremenda e così mite,
così indomabile e così mansueta, che figlia delle
aquile romane e napoleoniche aveva lacerato l'aquila bicipite
d'Asburgo fra gl'inni di tutti i poeti e gli anatemi di tutti i
papi, mentre al suo strido i falchi della plebe rispondevano
esultando dai tetti e i gallinacci della borghesia fuggivano
chiocciando per i cortili a riparare nelle stalle?
Che ne sapevano essi?
Quale dei molti garibaldini accalcati nel teatro aveva una coscienza
chiara ed intera della epopea cui aveva preso parte? Chi aveva
capito il significato delle sue battaglie così piccole
militarmente e delle sue vittorie moralmente così grandi?
In questo secolo che comincia con Napoleone e si chiude con de
Moltke, perchè Garibaldi un soldato quasi di ventura che
comandò sempre pochi battaglioni, un ignaro che dalle scuole
non apprese nulla e alle scuole non lascia nulla, che veniva non si
sa donde e andava dove pochi, oggi egli morto, sanno ancora: che
predicava la pace in mezzo alle battaglie, creava una nazione con
una piccola orda di armati, fondava una monarchia affermando una
repubblica, regalava libertà ai popoli e reami ai re,
conquistava una patria agl'italiani e perdeva la propria, rovinava
il papato in faccia al mondo e assicurava la repubblica francese
contro l'Impero germanico, moriva a Caprera nudo e povero come lo
scoglio al quale nudo e povero aveva approdato: perchè
Garibaldi che i centurioni degli eserciti stanziali deridevano, che
i ministri spregiavano, che i popoli stessi sembravano abbandonare,
perchè morendo diventava così incredibilmente grande e
soverchiava Napoleone e Moltke, e tutti dall'America adolescente
all'Asia decrepita, dall'Europa ancora centro della civiltà
all'Africa ancora teatro della preistoria, dall'Australia che
essendo una terra non è ancora potuto diventare un paese;
perchè tutti dalle steppe della Russia dove un vero
dispotismo schiaccia alle officine d'Inghilterra dove una falsa
libertà assassina, dalle foreste germaniche ancora dominate
da castelli feudali ai monti spagnuoli ancora ammalati di conventi
cattolici, dalle isole che il mare fece libere e altere alle immense
valli continentali tuttavia ombrate da millenarie monarchie;
perchè da tutti i poveri, da tutti gl'infelici, da tutti i
poeti, da tutti i prodi, da tutti i lavoratori, da tutti i
pensatori, da tutti i giovani che anelano alla vita non
conoscendola, da tutti i vecchi pronti ad abbandonarla avendola
troppo conosciuta, scoppiava il medesimo sentimento, erompeva il
medesimo urlo: Garibaldi non può essere morto, non deve
essere morto, non è morto: evviva Garibaldi!
Forse appunto perchè era morto allora allora, nessuno poteva
anco riconoscerlo bene.
Pochi sono gli occhi capaci di abbracciare tutto un paesaggio
trascorrendolo, meno ancora gl'ingegni così larghi da
comprendere tutto un fatto nel quale abbiano vissuto ed agito.
Come ogni vero grand'uomo, Garibaldi è un immenso viluppo di
contraddizioni, che la sua anima unificava, ma nel quale gli altri
si perdono analizzando.
Gli oratori del comizio non vi si smarrivano nemmeno perchè
non vi arrivavano.
Nessuno di loro si chiedeva il significato della nostra
risurrezione, il perchè l'Italia e la Grecia dopo diecine di
secoli riapparissero nel mondo col nome di nazione, mentre nella
storia come nella vita non vi sono e non vi possono essere risorti.
Quali idee riapportavano dunque la nuova Italia e la nuova Grecia?
Come dalle sue generazioni decrepite, per replicate infusioni di
sangue barbaro e di idee civili, era sorta un'altra gente? Quale
secreto veniva essa a rivelare? Dov'erano i segni della sua nuova
vita, i testimoni della sua legittimità? Nell'attuale
civiltà, che mischiando tutti i popoli ha fusi tutti i
caratteri, certo è ben più difficile il distinguere le
nazionalità spirituali che non nella storia antica ancora
senza unità apparente e tutta occupata dall'antagonismo delle
razze onde era composta: ma poichè la storia è una
tragedia, nella quale ogni popolo è un personaggio che deve
avere qualche cosa a dire o a fare, bisogna pure riconoscerli tutti
sotto pena di non comprenderne alcuno.
L'Italia moderna deve avere quindi alcuni uomini grandi diversi da
quelli che formarono l'Italia antica, perchè nella storia non
vi sono duplicati e ogni grande vi è fatalmente originale.
Quali erano dunque le figure veramente nuove dell'ultima Italia? Da
quali caratteri derivava la loro originalità? La nostra
rivoluzione figlia del 89 perchè aveva tardato mezzo secolo a
prodursi e che cosa aggiungeva ai principii che l'avevano creata, al
disegno storico nel quale entrava? Conchiusa entro la monarchia
costituzionale dei Savoia, la più vecchia, la più
abile se non sempre la più illustre e generosa delle case
dinastiche d'Italia, non aveva certamente avuto origine monarchica,
mentre tutti gli eroismi di pensiero e di azione, coi quali aveva
trionfato, sembravano aspirare a una forma più alta e
più pura di governo: e nullameno una piccola monarchia
montanara, della quale le ultime tradizioni erano meno che gloriose,
l'aveva costretta nel proprio àmbito, coordinando il suo
impeto e profittando delle sue vittorie, logorando il suo entusiasmo
e organizzando i suoi bisogni, uccidendo il suo ideale e rianimando
i suoi interessi.
Se la forma monarchica aveva vinto sulla repubblicana, la vittoria
era legittima, poichè nella storia i deboli e quindi i falsi
non vincono mai; non pertanto questa vittoria poteva bene non aver
creato la forma definitiva della rivoluzione, se alla morte di
Garibaldi, il vinto volontario, i vincitori non osavano fiatare e
tutto il popolo si levava altero in faccia alla monarchia, che aveva
seppellito nella volgarità di un immenso trionfo artificiale
il proprio re.
Vittorio Emmanuele dormiva sotto la vôlta del Panteon,
deformato a tempio cristiano, in un silenzio di abbandono che i
passi della guardia d'onore rompevano soli; ma Garibaldi vigilava
ancora sullo scoglio di Caprera e Mazzini intendeva dai colli di
Staglieno, mentre Cavour che li aveva entrambi avversati e battuti,
riposava quasi dimenticato nel santuario di Superga.
Questi, forse il più destro e profondo politico di questo
secolo, afferrando subitamente l'antitesi di una temporanea
necessità monarchica nel moto repubblicano, vi aveva
soverchiato le due massime figure, senza riuscire vincendo a mettere
nel proprio governo un'anima schiettamente rivoluzionaria e moderna.
Tutti, aderenti e ripugnanti, avevano sentito nella fatalità
di questo processo che la repubblica era immatura, ma che la
monarchia non poteva essere longeva. Quindi gl'interessi
sopraffecero i sentimenti, Garibaldi riparò a Caprera e
Mazzini rimase nell'esilio. Ma in essi solo era la vitalità e
la legittimità della nuova Italia.
Italiani come l'Italia non ne aveva più avuto dopo Dante e
Michelangelo essi furono mondiali: nel piccolo moto nazionale
riassunsero tutti i principii dell'evo moderno, vincendo in Italia
le loro vittorie appartennero a tutto il mondo. La rivoluzione del
89, che dopo l'Impero napoleonico la Francia non aveva potuto
continuare fuori di sè stessa, ridivenne per opera loro
universale. Se l'Italia non avesse prodotto Mazzini e Garibaldi non
sarebbe risorta: essi furono i rappresentanti della sua terza
giovinezza che ricominciava un'era nuova pel mondo. Quindi tutti i
popoli se li appropriarono. Ogni moto liberale della prima
metà di questo secolo si fece nel loro nome, per tutte le
sconfitte ci fu del loro sangue, in tutte le vittorie ci fu del loro
genio. La razza latina che aveva fatto la rivoluzione in Francia con
Danton e distrutta l'Europa feudale con Napoleone, creava l'Europa
liberale con Garibaldi e con Mazzini; mentre il suo antico genio
dell'impero insegnava a tutti con Cavour la disciplina necessaria
alla rivoluzione per riuscire feconda nelle inevitabili transazioni
storiche. Ma Cavour ebbe molti rivali in questo secolo,
benchè nessuno di loro potesse poi forse vantare risultati
simili ai suoi, e Gladstone in Inghilterra, Bismark in Prussia,
Frère Orban nel Belgio, Gambetta in Francia mostrarono nelle
combinazioni parlamentari e diplomatiche un ingegno e una scienza
certo non inferiore alla sua.
La rivoluzione italiana però rimase e rimarrà
eternamente incarnata in Garibaldi e in Mazzini: Ercole e Prometeo,
tanto maggiori oggi di quanto il mondo antico greco è
inferiore al mondo moderno.
E il comizio finì freddamente.
Me ne ricordo: il pubblico era accigliato, quasi triste.
Aveva veduto il volto di Garibaldi in un ritratto, non aveva sentito
l'anima di Garibaldi in nessuno di quei discorsi che avevano durato
quasi due ore.
Don Giovanni era dileguato fra la folla.
Non lo vidi più.
Quella notte dopo la sua morte, ritornando dal caffè, pensai
lungamente a Don Giovanni. La sua villica e schietta figura mi si
presentava al pensiero in tutti i racconti della sua vita. Lo vedevo
cinto di contrabbandieri trafugare ai confini della Toscana i
rivoluzionari romagnoli, vestito di una piccola giacca col fucile
sulle spalle: lo vedevo prete al letto dei malati, al banco degli
sposi, agli altari delle chiese: lo ritrovavo cacciatore sui monti
col gabbione sulle spalle, a sera innanzi la piccola casa curando
gli uccelli nelle gabbie assistito dagli stessi monelli che lo
aiutavano nel paretaio; lo seguivo nelle caccie alla lepre. Era un
semplice e un forte. Alla mattina dissi che sarei partito per
Modigliana.
L'amico che doveva accompagnarmi era un giovane signorile,
fanaticamente liberale, che mi aveva spesso aiutato a ricopiare i
libri che do alle stampe.
La giornata brumosa e fosca accennava a piovere. Nullameno,
attaccammo il ronzino e partimmo. I monti in quella melanconia
dell'autunno parevano più belli: i campi erano già
seminati e i boschi cominciavano a perdere le foglie. Discendemmo a
Riolo, dove molti che si disponevano a partire per Modigliana ci
salutarono; erano tutti giovani eccitati che parlavano
entusiasticamente di Don Giovanni. A poche miglia da Riolo calando
verso Castel Bolognese ci trovammo davanti una lunga fila di
biroccie cariche di legna: i birocciai, che al solito camminavano
loro innanzi un cinquanta passi, si rivolsero al tintinnío
delle nostre sonagliere, ma invece di ritornare ai loro cavalli per
darci il passo seguitarono ciarlando. La strada non molto larga era
quasi chiusa dalle biroccie. A sinistra le loro ruote rasentavano i
mucchi della ghiaia preparata per l'inverno, a destra lasciavano un
piccolo vano; misi il cavallo al passo, e riconoscendo inutile ogni
appello ai carrettieri tentai di passare. Lo stretto era minimo ma
sufficiente: però quando il mio cavallo arrivò colla
testa alla groppa del cavallo da bilanciere della prima biroccia,
questo si torse come per sferrargli un calcio. Il mio
indietreggiò, una ruota scivolò dal ciglio della
strada. Il cavallo, sentendosi tirare al petto dal peso del
biroccino, si ritrasse di un altro passo; feci per saltare, era
troppo tardi e rotolammo giù nel burrone. Non era molto
profondo ed era il solo lungo la strada da Riolo a Castel Bolognese.
Nel fondo alcune acacie vi ombreggiano una fontana che serve ai
contadini dei dintorni, ma tagliate il giorno innanzi presentavano
come tante cuspidi sui cespi. Cadendo dall'altezza di cinque o sei
metri andai a battere col ginocchio destro, rattrappito, sopra una
di quelle punte. La percossa fu così forte che quasi non la
sentii, ma quando volli alzarmi, prevedendo che il cavallo rimasto a
mezza costa nel primo sforzo per drizzarsi mi sarebbe rotolato
addosso col biroccino, m'accorsi che la gamba non veniva.
- Mi son rotta una gamba, urlai al compagno che già stava in
piedi incolume e sorridente.
- Che!
Il cavallo non si mosse. I birocciai avevano proseguito senza
nemmeno voltarsi.
Quindi accorsero contadini dai prossimi campi.
Abbreviamo questo racconto che non può interessare alcuno.
Per non svenire dallo spasimo mentre mi portavano di peso su per il
pendio della strada, misi il labbro inferiore fra i denti e lo
perforai senza accorgermene: fui trasportato nella casa più
vicina. Il medico di Riolo, un amico, accorse prontamente e non
constatò che una forte contusione al ginocchio, che parve
impressionarlo: il mio compagno, prevedendo che il racconto della
caduta sarebbe giunto a Casola spaventando sinistramente i nostri
genitori, mi consigliò di ritornare alla villa invece di
discendere a Faenza. Acconsentii. Il medico del villaggio giudicando
la cosa leggiera non volle mettere nè ghiaccio nè
sanguisughe sul ginocchio: al mattino una sinovite enorme era
già determinata.
I dolori infierivano.
Feci telegrafare a Modigliana l'accaduto e attesi fra gli spasimi
che ritornasse qualcuno a raccontarmi dei funerali.
Allora io stesso non credevo la cosa molto grave.
La notte seguente non dormii. L'indomani verso sera venne a trovarmi
un gruppo dei giovani che dovevo rappresentare.
I funerali erano stati imponenti per concorso di popolo, ma scarsi
di oratori e quel che è peggio infelici. Il sindaco di
Ravenna, del quale è inutile ricordare qui il nome, goffa
figura di zoccolante diventato poi deputato, aveva quasi asfissiato
il pubblico con un discorso dei più lunghi e dei più
grevi. La gente, mi raccontavano quei giovani, aveva ascoltato
strabiliando le sue frasi mezzo pretine pronunciate a voce chioccia.
Nullameno i funerali erano stati belli, gli oratori non avevano
potuto guastarli.
Quei giovani se ne andarono e rimasi solo.<
II.
Colla morte di Don Giovanni Verità un gran problema religioso
si presentava alla riflessione. Garibaldi condannato dal papa era
stato salvato da un prete, cui non si era osato scomunicare.
Perchè? Questo prete morendo ricusava di abiurare il
carattere di tutta la sua vita e il clero dopo avergli amministrato
i sacramenti abbandonava il suo cadavere al popolo, che lo portava
in trionfo. Tutto il suo piccolo paese, tutta la provincia, tutta
l'Italia era piena del nome dell'eroico sacerdote: le persone
più disparate per opinione e per nascita, per educazione e
per indole convenivano commossi intorno alla sua bara, dalla donnina
usa a scongiurare col rosario i terrori dell'inferno(1) al vecchio
garibaldino cresciuto nell'odio della religione che aveva per lunghi
secoli assassinato la patria, dal magistrato pedantescamente devoto
al governo, al giovane ribelle fremente nell'entusiasmo delle prime
negazioni. E ognuno riconosceva un prete in Don Giovanni. Certo le
interpretazioni di tale parola oscillavano e nelle frequenti
clamorose discussioni pochi riuscivano ad intendersi; ma da tutte il
suo carattere sacerdotale usciva radiante in una luce di trionfo.
Grosse questioni vi tempestavano attorno: le coscienze n'erano
agitate.
Perchè tutti coloro che si vantavano di non credere nei dogmi
cattolici ammiravano entusiasticamente in un prete un fatto che
centinaia di soldati garibaldini avevano talvolta compiuto in
circostanze più difficili? Perchè gli altri non meno
numerosi, che si confessavano cattolici, s'intenerivano all'eroismo
di un sacerdote(2) che salvando Garibaldi aveva disobbedito al papa
ed era morto appellandosi a Dio dalla sua autorità? Su quale
sentimento idee così discordi convenivano e in quale idea
concordavano sentimenti così opposti?
Questa sintesi, che nessuno sapeva formulare, Don Giovanni l'aveva
realizzata nella propria vita.
Non so come fosse nato e credo inutile saperlo. Della sua infanzia,
della sua adolescenza, della sua prima educazione in seminario
nessuno si è mai occupato: nella sua vita vera, che
cominciò più tardi, questi antecedenti sono quasi
senza valore. Don Giovanni non fu nè un apostata nè un
convertito. Nessuno di quei terribili drammi religiosi, che Renan
ormai vecchio si compiace a rivelare, scoppiò nella sua
anima. Era nato di popolo e popolo rimase, visse e morì.
Era forse un ignorante, senza dubbio un ignaro.
Nè poetici entusiasmi nè mistiche elevazioni lo
trassero al sacerdozio.
Nelle povere famiglie plebee come nelle minime famiglie borghesi
l'allevamento di un prete rappresenta ancora la più facile e
la meno dispendiosa delle speculazioni.
I seminarii accettano e educano i giovinetti per tre o quattrocento
lire all'anno: le parrocchie, incredibilmente numerose in Italia,
consumano un numero stragrande di preti, poi vi sono tutti gli altri
uffici sacerdotali più o meno lucrosi. Il ragazzo diventato
prete esce generalmente di casa portando seco metà della
famiglia; la sua parrocchia è una specie d'eredità
capitata nella casa.
Quanto al sentimento e al carattere sacerdotale nè una parola
nè un dubbio; si diventa preti come avvocato. Certo i due
mestieri diversi esigono diverse attitudini, ma nell'economia
domestica e nel concetto sono pari. Se un prete ammalato d'idealismo
religioso pretendesse vivere come i primi cristiani, distribuendo ai
poveri le proprie rendite, la sua famiglia griderebbe al furto e
tutto il paese allo scandalo.
La poesia del sacerdozio è morta da un pezzo: negli stessi
conventi, ove da ultimo fu ospitata, è talmente sconosciuta
che persino nei libri che vi si scrivono non ne appaiono più
traccie.
Don Giovanni sarà cresciuto come gli altri suoi compagni,
indisciplinato e villano, ignorante e coraggioso perchè
così la natura lo aveva fatto. Non so se fosse mai parroco,
parmi che sì, certo servì nelle parrocchie. Il suo era
temperamento di soldato, ma nullameno potè rimanere sempre
prete senza soffrire e far soffrire. Era un semplice. Della meschina
filosofia del seminario non aveva appreso nulla, della sua teologia
fine, oscillante, piena di agguati pel ragionamento, tutta sparsa di
casi somiglianti a trappole, aperta qua e là in prospettive
metafisiche di una profondità perigliosa, illuminata da raggi
mistici abbaglianti ed improvvisi, egli sapeva ancora meno.
Solo la morale evangelica, dura e semplice, lo aveva colpito.
L'aveva seguita senza discuterla e senza discuterla l'applicava. La
tragedia così profondamente filosofica del cristianesimo per
lui non era che un caso di sacrificio, tanto anormale nella
grandezza che Dio solo aveva potuto compierla: non vi trovava altri
significati. Accettava tutto il rito, tutti i Santi, le pene e i
premi, le rivelazioni parziali dopo la massima di Gesù
Cristo, le tradizioni, le autorità, i vizi commerciali
insinuatisi nel culto, le deformità idolatriche, gran parte
delle pretese politiche, perchè la sua natura fatta d'istinto
ripugnava alla indagine e debole per troppa ignoranza soggiaceva
all'immane peso di un sistema che abbracciava tutto il mondo da
circa duemila anni.
Viveva. Avrebbe potuto agire sotto l'impulso di certi sentimenti, ma
sopratutto lasciava vivere. Il pensiero era troppo alto per lui,
l'azione non ancora matura. Ed era un prete come gli altri. Nato non
ricco, non pensò mai ad ammassare. Aveva le abitudini di un
contadino coi gusti di un cacciatore, nei quali fermentavano forse
le sue forti attitudini guerresche. Incapace di sentire tanto
l'idealità della Madonna quanto la tragica delicatezza di S.
Francesco d'Assisi, la sua pelle e la sua anima si eccitavano nelle
albe frizzanti sui monti, quando il sole sembra prorompere
improvvisamente da un'onda rutilante di colori e la terra palpita e
tutti gli animali esultano. Amava l'abito corto di cacciatore, le
ore snervanti del meriggio nelle stoppie, i ritorni lenti a sera
accompagnandosi coi braccianti che discendono dai monti, le
stanchezze così sane e così buone che la caccia lascia
nei muscoli e nello spirito, quando appena suonata l'avemaria si ha
bisogno di dormire.
Quali erano le sue divozioni, poichè un contadino come lui
deve averne avuto?
Non ho potuto saperlo, e questo sarebbe il dato più
interessante della sua vita. Se in psicologia fosse permesso
indovinare invece di dovere sempre osservare, affermerei che il suo
santo prediletto fu S. Paolo, il suo evangelio preferito quello di
S. Matteo. Il vigore, la precisione romana nei ragionamenti del
primo, la sua fulminea conversione, l'indomato orgoglio soldatesco
esplodente nelle concioni d'apostolo, la tendenza così
moralistica del suo insegnamento, la bruscheria delle sue frasi
ancora frementi di passioni mal dome, la sua effigie rimasta in
tutti i secoli e in tutte le chiese colla spada in mano, quasi
minacciando anche dopo la vittoria, dovevano piacere al suo spirito
meglio capace d'intendere la religione nelle battaglie storiche che
nelle origini metafisiche. Mentre il racconto austero e quasi
fanciullesco di S. Matteo dipingente un Cristo tutto cuore, come un
ideale diventato poi divino a forza di essere umano, blandiva
certamente la parte più tenera della sua rozzezza, quel fondo
di soavità malata e appunto per questo così facile ad
inacidirsi, che la mancanza della donna, suicidio parziale del
sesso, lascia in tutti i preti.
Don Giovanni potè forse amare Santo Stefano che in una piazza
di Gerusalemme(3) dopo la morte di Cristo moriva primo nel suo nome,
araldo eroico e gentile di un esercito di martiri che dopo duemila
anni passa ancora per la storia; e la sua figura bella di
gioventù immacolata, incuorante con coraggio senza acrimonia
i lapidatori a finirlo, gli avrà forse da fanciullo strappato
urla d'indignazione. Ma la clorotica ed evanescente gracilità
di S. Luigi Gonzaga, chiusa nell'invincibile egoismo del santo che
si isola dal mondo e vive, pensa, opera, si consuma e muore entro al
proprio sentimento, gli avrà senza dubbio ripugnato.
Nella sua natura la poesia non arrivava fino alla musica: la sua
bontà poteva forse simpatizzare colla colpa, non ammirare una
virtù chiusa nel fondo del cuore e vaporante solo del
pensiero i proprii effluvi vivificatori.
I tempi politici della sua giovinezza ingrossavano.
La Romagna, terra di ribellioni, era tutta agitata da idee liberali
ancora torbide ed incerte. Il governo papale discendendo la propria
parabola millenaria era arrivato al di sotto del ridicolo
nell'impotenza, oltre la nausea nella corruzione; la sua stessa
religione, così robusta storicamente per guerre durate e
battaglie vinte, sembrava ed era profondamente malata. Il clero
romagnolo, numeroso come le cavallette, non aveva nè coraggio
nè capacità politica, nè valore intellettuale.
Dominava tutte le attività della vita pubblica e una
invincibile anemia lo esauriva: senza idee e senza passioni, gli
erano rimaste le abitudini delle une e i vizi delle altre.
Oppugnando l'immenso sviluppo della civiltà moderna, non ne
sapeva nulla: vantava il proprio passato, e lo ignorava; a corto di
ragioni, non sentiva più la poesia; accattone di aiuti
assassini da tutti gli stranieri, non sapeva e non poteva esercitare
sui popoli una autorità che non trovava in se stesso.
Questo periodo di storia religiosa e civile oggi conchiusa non fu
ancora abbastanza studiato.
Don Giovanni lo visse.
Persecuzioni minute e ridicole inferocivano. Si imprigionava senza
processo, ma non si osava uccidere nemmeno condannando a morte: nei
pochi casi di esecuzione capitale il governo si rivolgeva
all'Austria, della quale stipendiava le truppe, e l'Austria fucilava
colla ipocrita ragione di una ribellione militare. L'epoca dei
grandi inquisitori era passata. Quel governo moribondo, incapace di
saper morire, non sapeva nemmeno ammazzare. Ma in fondo è la
medesima cosa ed esige le stesse facoltà.
Don Giovanni, uomo fra un clero che di virile non gli era rimasto
che il sesso, era troppo avveduto per dividerne gli ultimi morbosi
capricci. La forza della sua natura mantenuta dalla rozzezza della
razza e da una vita incessantemente rimescolata fra persecutori e
perseguitati, fra una gente che anelava alla libertà come
alla prima delle virtù, e una casta che pretendeva ancora la
servitù verso sè medesima come primo dovere verso Dio,
lo fecero istintivamente tenere per un dì coloro, che
volevano essere uomini ed italiani contro gli altri, suoi compagni o
superiori, che non essendo nè l'uno nè l'altro
pretendevano imporre la propria incapacità come un divino
ideale.
Ma prete campagnolo e cacciatore, optando per il popolo contro il
governo, non vide sciolto alcuno dei grandi problemi, che prima di
lui avevano perduto tanti illustri sacerdoti e dovevano seguitare a
perderne altri ancora.
La modestia delle sue brame e delle sue idee gli aveva sempre
impedito di comprendere le necessità avviluppate e profonde
del potere temporale. Non avendo nè a salire nè a
discendere per restar prete, il suo buon senso di villano gli
suggeriva fatalmente una equazione fra sè stesso e il papa.
Perchè questi non potrebbe restare papa senza regno, se egli
poteva rimanere parroco senza i poderi della parrocchia? Dio era
buono e l'umanità infelice; Cristo l'aveva redenta,
lasciandola nel dolore come in un aroma che le impedisce di
putrefarsi. Tutto il resto era rito, culto, bisogno di
rappresentazione e di traduzione per la povera gente: il
cristianesimo non era che il sacrificio di Dio per tutti e che
ognuno doveva ripetere per sè e per gli altri.
Come il cristianesimo erasi sviluppato nel mondo vincendolo? Per lui
il problema era facile: il cristianesimo era vero. Perchè dal
pontificato era sorto il papato? Necessità di tempi e di
disciplina. Perchè il cristianesimo lacerato sempre dalle
eresie aveva finito per scindersi in cattolicismo e in
protestantesimo? Egli l'ignorava. Secondo lui il cattolicismo avendo
ragione ne aveva abusato, il protestantesimo poteva aver torto, ma
il suo errore non provava nè malvagità di mente
nè corruzione di cuore. E non ci pensava oltre.
Il vangelo bastava a tutti e a tutto.
Le condizioni presenti della religione, nella quale doveva agire
come prete, gli erano sconosciute. I curati, i canonici, i vescovi
che aveva conosciuto ne sapevano quanto lui. Le loro interpretazioni
dei vangeli, ormai vecchie quanto i vangeli stessi, avevano perduto
nella monotonia di una troppo lunga ripetizione ogni significato. Il
sacerdote le sviluppava straccamente dall'altare al popolo
ascoltante nella invincibile indifferenza di chi non può
aspettarsi più nulla da una spiegazione. Nessuna
virtù, nessun ideale luceva più. La Chiesa che aveva
tanto canonizzato nel passato, aveva perduto il profumo e il senso
della santità: il clero non era più che un'immensa
amministrazione religiosa, nella quale i conventi rappresentavano ad
un tempo i magazzeni e le caserme.
Un vasto e freddo disprezzo li avvolgeva.
Nella campagna e nelle piccole città italiane, sprovviste di
cultura, rito e culto testimoniavano soli della religione. Le anime
quetatesi dopo la tormenta del rinascimento in una inerzia appena
sollecitata dai minuti bisogni quotidiani della vita, non aveva
più nè aspirazioni nè ricordi, nè ideali
politici, nè sogni religiosi. Si viveva chiusi entro la
cerchia del paese grande quanto tutto il resto del mondo ignorato.
L'educazione dei seminarî e dei conventi troppo prolungata
aveva portato i proprii frutti uccidendo tutte le arti colla
rettorica e tutte le scienze colla teologia.
Se qualche intelletto spinto da una irresistibile forza intima
sorgeva, le fiacche curiosità paesane lo circondavano; ma
rimaneva a loro in mezzo applaudito ed incompreso, triste e
solitario.
Tutte le classi erano disgiunte, mentre il clero più unito
per uniformità di tendenze e d'interessi, che compatto,
bastava a dominarle.
Ogni piccolo Stato italiano isolandosi per istintiva diffinanza
inceppava le comunicazioni. I suoi soldati incapaci di guerra non
erano che sbirraglia, la sua politica interna una tutela di convento
quando la prigionia e la pena di morte vi si praticavano ancora, la
sua politica estera una laida servitù verso l'Austria ultimo
impero feudale cinto di feudatari più grossi degli antichi e
più abbietti dei cortigiani moderni. Fra essi il Pontefice,
immemore della grande epoca papale, vantava ancora nei molteplici
brevi un impero universale, tremando pel rifiuto di un reggimento di
croati. Nelle Università le vecchie lampade non rifornite
mandavano più fumo che luce: il commercio viveva del piccolo
contrabbando alle innumerevoli frontiere interne.
L'Italia desta dai cannoni di Napoleone I, poi rialzata da uno
strettone della sua mano terribile, sembrava rimorta con lui.
Il suo ultimo poeta aveva conchiuso nel 5 Maggio l'inno a Napoleone
colle supreme parole dei funerali.
Nullameno l'Italia viveva ancora e intorno a lei l'Europa
grandeggiava.
Nella tempesta di mille questioni poste dalla rivoluzione francese
il problema religioso soverchiava. La rivoluzione avendo l'aria di
sopprimerlo colle feste della Dea Ragione lo aveva invece rianimato.
Il cristianesimo attaccato teoreticamente dagli enciclopedisti,
lacerato dai frizzi di Voltaire, aperto dalle potenti invettive di
Rousseau, soffocato dalle prime scoperte della nuova scienza,
impicciolito dalla recente sicura conoscenza di tutto il mondo
fisico, quasi soppresso dalla rivoluzione alla quale si era opposto
come vecchio alleato della feudalità, aveva trovato come
sempre la propria salvezza nella persecuzione. La rivoluzione per
ricacciarlo dal campo della politica entro i suoi confini naturali
l'aveva seguito oltre ai medesimi nel campo chiuso delle coscienze.
Allora il cristianesimo fuggente si era rivoltato resistendo.
Moltissimi de' suoi preti seppero morire; i suoi credenti trovarono
con lui nel fondo della propria anima l'energia di tutti i dolori e
di tutte le speranze. Parvero ritornati i primi tempi
dell'apostolato.
Invece delle catacombe la religione abitò nei boschi. Le case
ebbero altari; all'eroiche superbie dell'ateismo si contrapposero le
miti ma inflessibili resistenze della fede.
Poi Napoleone, disciplinando la rivoluzione nell'impero per portarla
in tutto il mondo, sospese la persecuzione religiosa. Al rombo dei
suoi cannoni vittoriosi le campane risposero con squilli di trionfo
e le chiese si aprirono al culto, mentre tutta l'Europa vinta da una
apparente conquista si schiudeva alla libertà. Chateaubriand,
che avendo invano cercato giovinetto il passaggio del polo era
tornato esule della rivoluzione a Londra per seguir poi tutta la
vita il fantasma della regalità, scioglieva nel Genio del
Cristanesimo, libro futile e meraviglioso, l'inno della nuova
religione pacificata colla nuova libertà.
Le coscienze respirarono. La religione si rialzò avendo
perduto nella breve persecuzione gran parte dei falsi ornamenti
procacciati nei lunghi secoli della sua tirannide. Roma oscillando
sotto la protezione violenta di Napoleone, fra una repubblica fugace
e una fuga del Pontefice, trovò alcuni accenti tragici de'
suoi primi secoli: la libertà rivoluzionaria alleandosi
istintivamente alla libertà religiosa nel nome della
libertà di pensiero resistette al nuovo impero. Si
potè essere orgogliosamente cattolici come dianzi si era
stati superbamente giacobini. Dio confessato da Robespierre
all'ultima ora, quasi nel presentimento della morte, sfolgorò
nelle chiese fra i Tedeum della vittoria: Cristo prima odiato come
tiranno ritornò a capo dei nuovi martiri, martire più
antico e più bello di loro. Un vasto sentimento patetico
prodotto dai massacri della rivoluzione, alimentato dalle
carneficine dell'impero, poetizzato dai sacrifici di quanti erano
morti e morivano ancora su rovine fumanti, sostenuto dalle energie
della nuova vita creò nella politica, nell'arte, nella
religione un mondo nuovo di figure e di realtà.
La religione, ritornando di moda nei costumi, imperò nei
libri.
Un moto di reazione la sospinse così in alto amplificandola
che un'altra reazione scoppiò, e la scienza, prima complice,
poi vergognosa degli eccessi della rivoluzione, e quindi ritiratasi
in faccia alla nuova ovazione cristiana, si ripresentò
austera per contraddirla.
Da Chateaubriand a Victor Hugo rimasto cristiano attraverso le
meravigliose metempsicosi della sua poesia, tutta una legione di
scrittori e di artisti agitò il problema religioso: l'ateismo
cedette al pessimismo, che fu ancora una contropprova della
religione. Le imprecazioni di Lord Byron, le maledizioni di Leopardi
espressero il dolore di non potere più credere pur conoscendo
le bellezze della fede, mentre l'ateismo vero del secolo
antecedente, vissuto nella calma della propria sicurezza, non aveva
nè bestemmiato nè sofferto. Lamartine e Manzoni
rinnovando la lirica della Chiesa superarono forse gl'inni
più belli dei suoi primi tempi: De Maistre e De Bonald
sentendo la necessità del nuovo impero religioso vollero
mantenerlo colle ragioni dell'antico, e quegli reclamò il
dispotismo del papa, questi l'assolutismo del re; Ballanche
conservò nel nuovo ardore religioso la vecchia placidezza
platonica, mentre madama Staël, fondando con Chateaubriand il
romanticismo francese, preparava la più grossa falange di
scrittori cristiani apparsa nella storia. Le nuove generazioni
arrivavano tumultuando, raggiando.
La Germania quasi sconosciuta nel commercio letterario compiva nella
calma di una fecondazione così enorme che oggi appena, dopo
cinquant'anni, si è potuto calcolarne le opere e i risultati,
la rinnovazione della filosofia e della scienza, dell'arte e della
politica. Se la Francia aveva agito, la Germania aveva pensato:
pensiero ed azione parvero combattersi un momento nella forma
conquistatrice della rivoluzione francese, ma stavano già per
fare la pace. Il soffio religioso seguitava a purificare l'aria
dalle impurità rivoluzionarie sconvolgendo molte teste.
Alessandro di Russia ne ammalò a Pietroburgo; il pontefice
ammalò in Roma del vecchio morbo vaticano. Roma che avrebbe
potuto conquistare il mondo col nuovo sentimento religioso largo e
puro, pretese riprenderlo colle vecchie armi del governo papale.
L'avarizia del potere temporale e l'affetazione della tradizione
divina la fecero contraddire al recente moto, e poeti, apostoli,
scrittori, credenti, tutti furono violentemente assoggettati alla
interpretazione vaticana(4).
Ma generati dalle persecuzioni e nati nella libertà, la loro
maggioranza resistette. Roma, che doveva rappresentare la
verità della libertà eterna contro la tirannia della
libertà rivoluzionaria, divenne l'ultima cittadella del
dispotismo, piena più di preti che di soldati, immensa
officina di idoli e di catene governative. Per conservare le proprie
provincie avversò ogni fortuna d'Italia, costretta ad
invocare soccorso da cattolici e da eretici benedisse tutte le
violenze e anatemizzò tutti gli eroismi; più vile che
nella decadenza dell'impero romano smarrì il senso della sua
eterna universalità per non conservare nella coscienza
decrepita che il dolore delle ultime ferite e il terrore delle nuove
libertà.
Allora, nell'urto del sentimento religioso colla religione,
scoppiò la guerra fra il cristanesimo e il vaticanismo.
Da un lato una grande sincerità di idee, tratto tratto
turbata da passioni individuali, e una istintiva sicurezza nella
equazione della religione colla civiltà; dall'altro la forza
di una organizzazione sviluppata in tutto il mondo, mantenuta dalla
certezza della tradizione, stabilita sulla verità dei dogmi,
raddoppiata dalla potenza della gerarchia, ma il tutto guasto dalla
politica di un regno che avarizia e vanità tentarono sempre
d'insinuare dogma fra i dogmi, paralizzato dalle antitesi fra il
dato umano e il divino favorevoli alla corruzione dei costumi e alla
confusione dei precetti. La nuova guerra religiosa arse
pressochè in tutti i paesi.
Ma Roma, depositaria dell'unità e quindi inflessibile con
ogni nemico, era sempre stata meno dura con coloro che uscivano
dalla sua orbita, che contro quei ribelli i quali volessero
mantenervisi. Nullameno, vincitori e vinti, nessuno aveva davvero
avuto la nozione di un mondo più vasto che contenesse il
cristianesimo. Il paganesimo al sorgere di questo era già una
realtà dissolventesi nella putrefazione: quindi la nuova fede
impossessandosi di tutto potè vantarsi di essere tutto,
poichè i cristiani nelle loro più fiere battaglie non
miravano che ad imporsi vicendevolmente ideali ed interpretazioni
cristiane. Appena qualche setta filosofica rimasta prigioniera entro
la conquista cristiana tentava rompere il confine e vi dispariva
dispersa o trucidata.
Dopo circa duemila anni le condizioni erano mutate.
Il cristianesimo invece di contenere la civiltà vi era
contenuto. Il mondo si stendeva immenso oltre i limiti segnati dalla
croce, la storia rivelatasi alla critica aveva mostrato le sorgenti
di questa religione che si vantava al pari d'ogni altra discesa dal
cielo. La sua teogonia, la sua teodicea, la sua cosmogonia, la
favola della creazione, il romanzo di Eva, la tragedia di Adamo,
l'odissea, dei suoi primi figli, il peccato e la redenzione,
Mosè e Cristo, tutto era capito o almeno analizzato. Un altro
sentimento religioso si librava sull'opera cristiana.
Il cristianesimo, che si era annunciato nel mondo combattendo la
decadenza pagana, adesso era in lotta col progresso spirituale da
lui medesimo preparato.
Se Voltaire aveva deriso invano i suoi difetti, Hegel lo uccideva
trasportandolo nell'etere del più puro ideale mediante una
simbolica, nella quale svanivano tutti i dati precisi della sua
divinità.
Il cristianesimo aveva oramai preso il posto del paganesimo. Mentre
le scoperte della scienza umiliavano i suoi miracoli e le altezze
della nuova metafisica superavano le cime nebulose de' suoi misteri,
un'altra poesia trovava voci più delicate e poderose di
quelle echeggianti nelle prime catacombe, e gli ultimi eroismi dei
rivoluzionari superavano gli eroismi dei martiri negli anfiteatri
romani.
Il clero, una volta alla testa dei credenti, si trovava ora alla
loro coda: la religione considerata per tanti secoli come la sintesi
della civiltà ne ridiventava un frammento.
Bisognava risalire, rifare una poesia, ricomprendere tutte le
scienze, raggiungere l'idealismo germanico, supremo sforzo del
pensiero umano nella storia.
Roma ricusò affermandosi maggiore del mondo. Essa, che aveva
tanto mutato e camminato, non volle più nè rinnovarsi
nè muoversi, e dando alla propria estrema interpretazione
cristiana la divina inflessibilità del testo, pretese nelle
forme monarchiche della propria gerarchia tutta la verità
della sua instituzione religiosa. Allora la battaglia si riaccese.
Mentre gli ultimi increduli, scienziati e filosofi, accusavano il
cristianesimo di decrepitezza, gli ultimi eretici gli ridonavano
nell'entusiasmo di una fede piena di dottrina e di poesia un'altra
gioventù.
Questo secolo, del quale si dice ancora tanto male e che il volgo
addottrinato vanta come quello delle scienze, sarà forse
annoverato nella storia fra i più fecondi per la religione.
Tutte le letterature e le filosofie ne sono impregnate: mai tante
voci, discordi di accento e di tono, si accordarono in maggiore
eloquenza d'invocazioni tormentando i fantasmi divini per giungere
all'orecchio di Dio. Preghiera e bestemmia lottando d'energia si
fusero nel medesimo singhiozzo.
Vaticanismo e positivismo parvero assistere sdegnosamente immobili a
questa nuova patetica demenza del sentimento religioso: l'uno nella
certezza della fede, l'altro nella calma della incredulità.
Il Vaticano era sicuro di Dio, il positivismo più che certo
della natura.
Fra questi due estremi la vita proseguiva.
Il dissidio cattolico, cominciato nei credenti colle espressioni
vaghe dell'istinto, ingrossò disciplinandosi per opera di
grandi sacerdoti. Dalla Francia, dalla Germania, dall'Italia, da
tutte le parti del mondo giungevano a Roma ammonizioni e minaccie,
odi squillanti come fanfare di guerra, apostrofi fievoli come
gemiti, superbe proposte di nuove conquiste, temerarie ingiunzioni
di nuova povertà; e la poesia e la storia cristiana
investigate sprigionavano ogni giorno nuovi profumi e nuovi raggi
quasi ad annunziare l'avvento di un'altra idea religiosa.
I prelati splendenti nella vanità della porpora vigilavano
intorno al pontefice come pretoriani diffidenti dell'imperatore
ancora in debito dell'impero; il clero minuto disseminato nelle
campagne viveva delle terre distribuitegli come gli antichi
legionari romani mutati in coloni, ma non conservando dell'antica
vita di legione che la servilità della disciplina.
Don Giovanni avrebbe dovuto essere uno di questi legionari.
Nella sua gioventù due illustri sacerdoti riempivano l'Italia
del loro nome, Gioberti e Rosmini: entrambi eminenti filosofi, l'uno
più eloquente, l'altro più dotto. Gioberti doveva poi
tuffarsi nella politica per uscirne più grande tra l'urlo
feroce di partiti nemici momentaneamente d'accordo nel maledirlo:
Rosmini, compita l'opera enorme, isolato dalla diffidenza del clero,
colpito dalla riprovazione di Roma, si spense più tardi nel
silenzio tranquillo di un lago. Sulle prime furono i due massimi
campioni del cattolicismo contro le nuove coorti scientifiche
minaccianti da ogni parte d'Europa, ma trascinati troppo oltre
dall'ardore della difesa vennero percossi dall'anatema.
Senonchè(5) tutti i cuori e le menti religiose stettero o
s'aggiunsero a loro. Mamiani e Manzoni, Grossi e d'Azeglio,
Cantù e Balbo, Duprè e Capponi, poeti, storici,
letterati, artisti, tutti seguendo le loro traccie finirono per
incorrere nella loro condanna: qualcuno arretrò a tempo, ma
se uno spavento improvviso gl'impedì di varcare il confine,
la direzione del suo pensiero rimase nullameno palese. Tutti erano
sospinti e sospingevano per una rinnovazione religiosa. Il
vaticanismo rimaneva con un esercito senza generali, con molti
combattenti senza eroi. Non pertanto resisteva superbo. Tutta
l'energia degli assalti si fiaccava contro la sua inerzia. Lammenais
stesso, impetuoso come Demostene, ampio come Cicerone, vi
urtò ribellandosi, e fu vinto. La sua collera non
bastò a scuotere il colosso. Ma coll'abbandono di Lammenais
le defezioni aumentarono; Lacordaire, meno forte ma non meno
facondo, sollevato dal soffio rivoluzionario andò a sedere
fra la montagna nell'assemblea del quarantotto, e se la repubblica
avesse durato il suo zelo papale si sarebbe forse esaurito; Gratry
violentato fuggì, il padre Giacinto si rifugiò volgare
fra il volgo, mentre la condanna che aveva sempre minacciato
Chateaubriand colpiva Montalembert, e Renan giovinetto, destinato ad
oscurare le loro due glorie di scrittori, emigrava dal seminario,
pallido della grande tragedia di Cristo, che doveva più tardi
raccontare nel più bello fra i romanzi di questo secolo. Il
padre Curci scelto a prototipo del Gesuita moderno dal Gioberti
nella sua astiosa e troppo spesso volgare polemica, dopo la
diserzione del Passaglia e la riprovazione del Ventura parve rimasto
solo come Ettore a difendere il Vaticano; ma più infelice
dell'eroe troiano fu poi costretto a rifugiarsi nel campo dei nuovi
greci per riparare ancora entro le mura abbandonate, raccogliendo
l'infamia di due tradimenti, rivelando nell'incertezza della propria
condotta, sempre inconseguente e sempre sincera, le terribili
oscillazioni del nuovo spirito religioso che si agitava nel
cattolicismo. E tutti i giorni recavano notizie di apostasie
religiose, ed erano piccoli curati, oscuri canonici, predicatori
esorbitanti dal pulpito, vescovi e porporati, che volendo trattare
coi ribelli ne pigliavano il contagio. La maggior parte di essi
rientrava nel campo al primo appello, ma il campo restava nullameno
aperto a fughe e invasioni d'ogni sorta.
Libri e discorsi fumavano di sentimento religioso: il romanticismo,
originalità e morbo della nuova letteratura, non viveva
più che di religione, e se talvolta ne sformava le immagini o
ne ricusava il culto, riconosceva tuttavia da lei ogni filosofia e
ogni arte. Appena qualche pagano classico protestava solitario.
Foscolo non piaceva più; Niccolini si faceva a stento
perdonare il giacobinismo politico collo splendore di una lirica,
che diventava a volta a volta drammatica per passione di patria;
Guerrazzi non volendo essere cristiano aveva dovuto diventare
biblico; la satira di Giusti mordendo il clero rispettava i dogmi;
Mazzini stesso rovesciava la Chiesa per fondare una nuova religione;
Cattaneo, positivista incompiuto, non osava tutte le massime del
proprio sistema.
Lo scrittore preferito era Manzoni, non perchè artisticamente
il migliore, ma come il più temperato fra tanto tumulto di
religione e di bigotteria, di tradizione e di rivoluzione. Non
commovendo alcuno e piacendo a tutti, al di sotto della passione e
lontano dal vizio egli rappresentava meglio di ogni altro la vita
del momento, calma ancora di un'inerzia secolare, ma riscaldata
già dallo spirito che doveva poi sconvolgerla per rinnovarla.
Non pertanto era l'ingegno più nuovo d'Italia, che vi portava
la prima rivoluzione. Forse egli stesso non lo seppe, giacchè
oggi solo si comincia ad intendere la sua vera originalità,
cui l'armonia del suo temperamento artistico o la fiacchezza del suo
temperamento umano tolsero di essere novatrice come quella di Hugo
in Francia.
Persecutori e perseguitati, preti e rivoluzionari, governanti e
ribelli, tutti parlavano il medesimo linguaggio vantando gli stessi
ideali. La religione era una gloria e un ornamento cui niuno si
ricusava, ma il clero esercitandola non era più fuso con lei
come in passato. La padroneggiava senza possederla, presso a poco
come l'Austria faceva coll'Italia.
Se i grandi spiriti religiosi coglievano nel cattolicismo i difetti
derivati dalla sua organizzazione e dalla supremazia vaticana, il
popolo sentiva vivamente nel clero la mancanza di
religiosità; quindi credulo e beffardo accettava i dogmi e
rideva dei precetti, si lasciava ammaestrare e spogliare,
ricordandosi delle spoglie e dimenticando gl'insegnamenti.
I preti, mutata l'antica parola, infedeli, nella nuova di giacobini,
minacciavano senz'ira e senza paura dagli altari sempre parati a
festa: parlavano di rivoluzionari credendovi poco e non
comprendendoli affatto. In fondo si tenevano sicuri e ridevano dei
frequenti moti di ribellione come di un malcontento prodotto dalla
inguaribile corruzione di tutti i tempi; pronti nullameno a
combatterla col ferro e col fuoco. Ma se la teorica e il sistema
inquisitoriale duravano, gli uomini erano mutati. Ai terribili
asceti della tirannide, che avevano curvato con una mano il mondo
dei fedeli alle proprie ginocchia respingendo coll'altra le ultime
invasioni degli infedeli, erano succeduti preti nè credenti
nè increduli nè scettici: ubbidienti al papa
perchè i suoi ordini non imponevano sacrifici, simpatizzanti
senza gratitudine cogli stranieri che guarentivano loro i
beneficî delle antiche posizioni.
Le ultime grandi anime religiose, i veri discendenti dei grandi
inquisitori erano i sacerdoti condannati, i nuovi apostoli ribelli.
Èvvi davvero molta differenza fra lo spirito di Torquemada e
quello di Lammenais?
Don Giovanni, solo, nel piccolo paese di Modigliana, poco occupato
nelle funzioni ecclesiastiche e sempre distratto dalla caccia, non
sapeva nulla dell'immenso moto religioso che sollevava l'Europa, o
intendendone qualche motto bizzarro a un pranzo di parroci ove
capitassero professori di seminario, alzava le spalle. Tutte le
eresie dovevano secondo lui finire a un modo. Perchè
discutere tanto stiracchiando le parole? Sentire ed agire, ecco la
verità: il sentimento viene da Dio e non falla, l'azione
viene dal sentimento e lo realizza.
Allora i giornali erano pochi e i libri si fermavano quasi tutti
nelle città.
Pochi leggevano, Don Giovanni non leggeva affatto.
Nella sua camera, dopo morto, entro una scansia tarlata e
sverniciata non si sono trovati che cinque o sei libri, forse i
medesimi che gli avevano servito in seminario. Per credere nella
grandezza d'Italia e desiderarne appassionatamente la risurrezione
non aveva certo avuto bisogno di leggere il Primato del Gioberti: le
prove storiche della grandezza italiana l'avrebbero imbarazzato
senza accrescere il suo orgoglio patriottico, mentre la sua
conoscenza del clero gli avrebbe tolto di cedere alla illusione che
dal papato potesse venire una vera rivoluzione nazionale.
Egli sentiva che il papa non poteva differire dal vescovo di
Modigliana, pel quale il paese non era che un vescovado.
Il cattolicismo, composto a quel modo, per diventare rivoluzionario
avrebbe prima dovuto rinnovare sè stesso; ma don Giovanni
ignorante pieno di buon senso ricusava d'inoltrarsi per così
vasta e difficile questione.
Troppe cose per questo avrebbe potuto intendere e sapere. Roma non
ostante i suoi abbominii in tutti i secoli, non aveva ancora mancato
a sè medesima: pagani e barbari dopo averla inutilmente
oppugnata erano caduti ginocchioni sotto le sue mura: le eresie
lacerandola non erano riuscite a scinderla, l'antagonismo dei
pontefici cogli imperatori o dei papi fra loro non l'avevano
abbattuta; ad ogni disastro, ad ogni abbandono, quando tutto
sembrava perduto, Roma risorgeva improvvisamente dominatrice
più alta di prima.
Il suo clero talvolta tremendo, spesso corrotto, sempre abile, non
aveva mai abbandonata la suprema direzione religiosa: irresistibile
nelle blandizie e irrefrenabile nelle collere aveva fino al
protestantesimo trionfato di pressochè tutti gli scismi.
Lutero e Calvino gli avevano soli resistito trionfalmente, e
nullameno Roma andava ancora riguadagnando con lenti ed assidui
approcci le provincie della insorta Germania. Roma non aveva mai
perduto.
Adesso nel suo regno peggiore che ai tempi del Petrarca e di Lutero,
nella confusione del sacro col profano, affermava come ultima
espressione religiosa la necessità del potere temporale.
Don Giovanni non vi credeva.
Le necessità di una religione secondo lui erano ne' suoi
principii e non nelle sue forme: una religione incapace di vivere in
ogni secolo, con tutti i governi, attraverso le più impari
civiltà non era una religione. Che cosa importava al
cattolicismo il potere temporale? Tutto il suo beneficio consisteva
nel guarentire l'esercizio libero o magari capriccioso del culto
nelle provincie pontificie; per tutto il resto del mondo quel minimo
regno non aveva efficacia. Il papa, libero anche nella più
crudele persecuzione, avrebbe sempre potuto dirigere tutte le
coscienze interpretando i testi divini. Molti papi erano morti di
martirio senza che la religione fosse stata ritardata nel suo
sviluppo, offesa nel suo organismo. Una religione non deve temere
per sè stessa, sotto pena di non essere più una
religione: abitando le coscienze vi è inviolabile ed
invincibile; nessuna tirannia saprebbe impedire un sentimento o
distruggere un'idea. Una religione non può quindi temere che
per il suo culto o pe' suoi membri. Terrori umani, interessi umani.
Chiudendo i conventi o rovesciando le chiese forse che il
cristianesimo perirebbe? Non era esso vissuto senza questi e quelli?
Se il clero ritornasse alla povertà del primo apostolato, le
sue predicazioni sarebbero forse meno efficaci? Se il papa invece di
essere un re e un semidio fosse un prete come gli altri, eletto
perchè santo fra i più santi, l'unità divina
della religione ne andrebbe rotta?
Don Giovanni si faceva talvolta queste domande e sorrideva
bonariamente.
Senza sapere nè come nè quando nel suo spirito si
erano venute profondamente differenziando chiesa e religione; questa
era l'idea e quella il fatto, l'una veniva da Dio, la seconda era
opera degli uomini. Certo Dio non aveva mai permesso che la sua
Chiesa snaturasse la sua religione, e infatti dogmi e precetti erano
rimasti inviolati, ma la chiesa conservandoli puri aveva troppo
spesso bruttata sè medesima. Così per difendersi da
giuste accuse aveva voluto imporre silenzio a tutti nel nome di Dio,
e per resistere a più giuste critiche aveva preteso difendere
in tutta sè medesima la divinità che era solo nel suo
principio.
Di questo passo Don Giovanni sarebbe presto arrivato nel
protestantesimo colla coscienza libera in faccia al testo della
legge, ma il suo spirito inconsciamente disciplinato dal romanismo
si arrestava. Poichè Dio aveva istituito la Chiesa per
sviluppare la propria religione, solo attraverso di essa dirigeva e
parlava. Tutti i mutamenti fatti fuori della Chiesa o contro la
Chiesa non avevano durato e non durerebbero.
Inutile quindi ogni rivolta aperta, superba e vana ogni
contraddizione. Nessuna grandezza di cuore o d'ingegno poteva essere
maggiore di Roma. Bisognava adempiere la religione col cuore,
lasciando che la Chiesa per l'intima virtù depostavi da Dio
si correggesse.
Ma se la sua coscienza rifuggiva dagl'inutili eroismi della
ribellione, ripugnava ancora più alle condiscendenze della
servitù. Cristiano e prete, sentiva di non dipendere da altri
che da Dio, del quale non era possibile fraintendere la legge senza
perfidia della volontà, mentre la cornice lavorata dalla
Chiesa per chiudervela non essendo mai stata santa non era nemmeno
più bella.
Queste idee torbide gli si rischiaravano a mano a mano nell'azione.
Se domani il papa cessasse di essere re, non uno dei cattolici
cesserebbe di essere tale: il re non era dunque necessario.
Gregorio XVI, il re d'allora, era crudele. Don Giovanni troppo
ignorante per aver letto il Trionfo della Santa Sede, e stimare in
lui il teologo, era troppo buon cittadino per non disapprovare il
pessimo sovrano; ma quando per propiziarsi lo czar il papa
riprovò i Polacchi morenti con disperato eroismo contro i
Russi, Don Giovanni fu quasi per trascendere. Il potere temporale,
che teneva schiava l'Italia, minacciava di mutarsi in ragione di
schiavitù a tutti i popoli.
Non bastava soffrire, bisognava aiutare. Don Giovanni entrò
nella vita politica chiamato dallo stesso strido di dolore, che lo
aveva più volte condotto al letto dei moribondi.
Così rimase prete.
Niuno sulle prime se ne accorse. La rivoluzione che si compiva
silenziosamente nel suo spirito, somigliava a quella che si veniva
maturando in Italia e della quale gli affigliati sapevano poco, i
governi nemici quasi nulla. Se Don Giovanni fosse stato un
pensatore, si sarebbe gettato con violenza nelle nuove teoriche
religiose per rovesciare il papato; essendo invece un uomo di cuore,
discese nell'azione aiutando quelli che rischiavano la vita a
preparare i combattimenti dell'indomani. Cacciatore sui confini
della Toscana e della Romagna, le sue amicizie coi contrabbandieri
iniziarono le sue relazioni politiche senza macchiare la sua austera
probità, giacchè le leggi doganali dei piccoli governi
che separavano allora l'Italia non gli erano mai sembrate vere
leggi.
Quali fossero i suoi primi rischi di patriota sapranno forse i pochi
vecchi amici superstiti, ma non ne fu ancora scritto. Se prete
consentisse ad affigliarsi in una delle tante società secrete
che allora riunivano colla loro disciplina i ribelli, lo ignoro;
forse l'orgoglio del suo carattere indipendente e il suo abito
sacerdotale glielo impedirono. Ma presto fra i congiurati della
Romagna si seppe di un prete di Modigliana che aiutava, cimentando
tutto sè stesso, a trafugare coloro che audacia di generose
impazienze o perversa abilità di spie avevano compromesso.
Modigliana, piantata fra i monti nel confine toscano, divenne
rifugio e passaggio di congiurati, ed era sempre Don Giovanni che
senza nemmeno conoscere il nome dell'uomo pel quale arrischiava la
vita; giovandosi delle proprie non sospette abitudini di cacciatore
andava di notte, a piedi o in biroccino, ai convegni, per ricondurne
a casa propria profughi e proscritti. I contrabbandieri lo aiutavano
spesso.
Intanto nelle apparenze della sua vita nulla era mutato malgrado la
rivoluzione che gli si allargava nella coscienza.
La sua religione invece di contraddirli si accresceva di quegli atti
patriottici.
Ma i tempi ingrossavano. L'eco delle vittorie di Garibaldi
nell'America valicando l'oceano veniva a percuotere per tutti i
monti d'Italia: le fantasie s'infiammavano, nobili orgogli e
speranze anche più nobili s'alzavano nelle anime che la
tirannide secolare non era riuscita a protestare. Mazzini esule, ma
presente collo spirito in ogni terra, organizzava congiure, dava
ordini, scriveva lettere, opuscoli, libri, agitando ogni sorta di
questioni e riassumendole tutte in quella della libertà,
eloquente come la tempesta, luminoso come un sole. Tutti ascoltavano
e guardavano. La sua figura, cui la tragedia della patria dava una
tragica espressione accresciuta dal mistero della sua vita privata e
dalla ubiquità della sua presenza, sgomentava le anime
fanciulle attirandole col fascino del pericolo; la lirica delle sue
frasi e la religiosità del suo sentimento seducevano persino
coloro, che la sua politica troppo chiara ed insieme tenebrosa
minacciava.
I più giovani e i più intrepidi non parlavano
più che d'insorgere.
Il disprezzo pei governi ancora più timidi che feroci
fomentava il coraggio, mentre le satire del Giusti, i romanzi del
Guerrazzi, le canzoni del Berchet infiammavano entusiasmi già
esasperati dalle ridicolaggini delle persecuzioni papaline. Nella
Romagna, Beozia d'Italia se il suo Monti fosse stato Pindaro,
altrettanto scarsa d'ingegni che robusta di temperamenti,
scoppiarono i primi moti, ma la nullaggine degli uomini che li
dirigevano, impedì si diffondessero guadagnando nome nella
storia. Il coraggio che sa insorgere e l'eroismo che sa morire, non
bastano alla tragedia: solo l'ingegno, che potrebbe vincere diventa
tragico quando gli avvenimenti lo sopraffanno e soccombe. L'ingegno
mancò anche questa volta alla Romagna.
Nel settembre del 1845 per moti di Rimini una mano di armati
raccolta a Bagnacavallo e a Faenza, scorrendo senza vera direzione
le campagne, tentò una sollevazione. La guidavano Pietro
Beltrami e Raffaele Pasi, gentiluomini entrambi, ignari ed
ignoranti, che la chiarezza della nascita e la distinzione delle
maniere aveva naturalmente designati capi. Del primo le cronache non
seppero più nulla, del secondo narrarono che soldato
aristocratico ed intrepido diventò poi generale e cortigiano.
La sollevazione di un giorno dopo di essersi impadronito della
dogana delle Balze, sul confine fra Modigliana e Faenza, si
disciolse in una pacifica resa alle truppe toscane.
Don Giovanni che vestito da cacciatore aveva primo invaso la dogana,
non riconosciuto o protetto dalle simpatie di tutti, non ne
subì dopo il fallimento dell'impresa persecuzioni politiche.
Oramai con quella insurrezione il carattere della sua vita si era
determinato.
Egli voleva essere prete e patriota, giovando senza brillare. La
vanità, così comune ai convertiti di ogni fede, non
viziò mai la sua anima. Le contraddizioni del cattolicismo
colla libertà, che allora s'affannavano a conciliarsi nel
cattolicismo liberale, non erano ancora penetrate e non penetrarono
mai nella sua coscienza; più cristiano che cattolico non
sentì le antitesi, nelle cui soluzioni si smarrirono i
più grandi spiriti del tempo.
Fallito quel tumulto, nessun rimorso lo turbò: forse un
rammarico gliene rimase della inettitudine colla quale era stato
promosso e condotto. Attese. Ma restando prete fra i preti, che
colla fatuità degl'impotenti credendo di aver soffocato una
terribile insurrezione insultavano al sogno di una Italia liberale,
non divenne ipocrita. La rozzezza dei modi e delle abitudini,
isolandolo dalle conversazioni inevitabili al suo ufficio
sacerdotale, gli facilitarono il nobile riserbo nel quale si chiuse.
Forse qualcuno lo sospettò, i più seguitarono a
giudicarlo uno spirito bizzarro, un temperamento villico più
appassionato di caccie che di processioni.
La maggior parte de' suoi amici insorti, dispersi per la Toscana,
corrispondevano ora più sicuri con lui risparmiato dalla
persecuzione.
Intanto i moti religiosi e rivoluzionari procedendo verso la
libertà, preparavano la rivoluzione del quarantotto. Pio IX,
cardinale imolese, eletto pontefice suscitò entusiasmi, dei
quali oggi è impossibile rendersi conto. Il sogno del
cattolicismo liberale parve avverato fra un immenso soffio lirico
che sollevava popoli e pensatori. Tutti coloro, che da anni
lavoravano a una rivoluzione guidata dalla religione subendo gli
scherni dei veri rivoluzionari e le diffidenze dei veri cattolici,
si credettero arrivati al trionfo. Pio IX annunziatosi con una
amnistia, che implicava la condanna del suo predecessore,
proseguì liberaleggiando: guelfi e ghibellini sospesero le
ingiurie per unirsi in un coro di lodi che finì
d'ubbriacarlo. Un'ira di guerra si univa al fervore della
libertà; si parlò di crociata. Gli entusiasmi
cavallereschi del romanticismo scoppiarono, mentre l'energie delle
vecchie repubbliche e dei piccoli ducati riapparivano
improvvisamente, come evocate dalla forza dei tempi nuovi. Era un
tumulto di sentimenti eroici, un fracasso di frasi liriche.
Bisognava credere, perchè fra poco si sarebbe dovuto agire.
Mazzini ripiegando la bandiera repubblicana prima ancora di
sollevarla al sole delle battaglie, scriveva a Carlo Alberto e a Pio
IX, sfiduciato d'entrambi, sacrificando con magnanima accortezza
politica alla necessaria illusione del momento ogni sincerità
di pensatore e superbia di capo: Garibaldi, riempita l'America del
nome italiano, attendeva un segnale per rivalicare l'oceano e
seguitare in più splendido canto l'epopea delle proprie
vittorie. Gli ultimi odii irreligiosi erano sopraffatti dal coro
instancabile di speranze che cantava nelle piazze e nelle chiese,
nei cuori dei giovani e nelle teste dei vecchi.
Solo qualche classico cresciuto nell'odio del romanticismo o della
religione protestava tacendo. Niccolini colla chiaroveggenza del
poeta penetrando oltre l'illusione del momento si ricusò ad
un'opera, che fallita doveva lasciare discordie peggiori di quanto
allora ne conciliava; e feroce fra tanta bontà di accordi si
chiuse prigioniero volontario in fondo alla propria accademia per
non uscirne che quando la commedia insanguinatasi nel dramma
spirerebbe nella più tragica delle disperazioni.
Forse l'acrimonia del carattere e l'angustia dello spirito giacobino
gli acuirono la naturale perspicacia dell'ingegno.
Ma i principi d'Italia, malgrado la nuova aria che li sollevava
tant'alto, rimasero troppo più bassi che all'opera non fosse
necessario.
Il meno tristo di tutti, Carlo Alberto, bizzarra fusione di Don
Chisciotte e di Amleto, vano nelle speranze quanto vile nel dubbio,
invocato capo concedeva la costituzione e correva a farsela
perdonare dal confessore. Ambiva la conquista d'Italia e non osava
arrischiare il Piemonte, odiava la libertà e languiva
assetato di favore popolare. Nullameno, era il solo che ardisse
desiderare se non un'Italia libera almeno una gran parte di essa
riunita e compatta. Ma giovinetto, che aveva cominciata la vita col
tradimento raddoppiandone l'infamia colla espiazione del Trocadero,
doveva chiuderla vecchio con un abbandono che il popolo nella
infallibilità dell'istinto chiamò traditore; mentre
l'astro da lui aspettato con romantica vanagloria sul suo scudo
immaginario di guerriero aveva duopo di altri dieci anni per
apparire sull'orizzonte d'Italia e fermarsi chissà per quanto
tempo sul tetto del castello savoiardo.
La guerra scoppiò prima che la confederazione dei principi
italiani fosse stretta: quasi tutti tradirono. Il pontefice, che
aveva promesso e poteva giovare più d'ogni altro
perseverando, atterrito dalle altezze cui lo innalzava la
rivoluzione, riprecipitò nel fango oramai secolare del
proprio passato. Futile e rettorico nella vanità, fu abbietto
e pedante nella paura. Così il sogno del cattolicismo
liberale svaniva, mentre i sanfedisti ghignavano feroci aspettando
dalle prossime disfatte il massacro degli avversari, e gli spiriti
veramente rivoluzionari si gettavano alla testa della poca plebe non
guasta dalle lautezze dei governi corruttori, per morire
disperatamente nel nome d'Italia.
Il risveglio da tanti sogni fu violento. L'energia dell'odio
subentrò alla effervescenza dell'amore. Carlo Alberto solo
tenne il campo e rimase vinto senza gloria. Cattivo re, soldato
nemmeno mediocre, spirito falsamente italiano, il disastro lo
rivelò forse contemporaneamente a sè stesso e alla
patria. Ridivenuto piemontese nella fuga abbandona Milano, abdica la
corona e va a morire sulle sponde dell'oceano, perseguitato dalle
maledizioni d'Italia, avvolto nel disprezzo dell'Europa. Allora gli
altri spiriti italiani grandeggiarono, Cattaneo a Milano, Manin a
Venezia, Guerrazzi a Firenze, Poerio a Napoli, Garibaldi e Mazzini
dovunque.
L'epopea si muta in tragedia, tutto fallisce, l'inesperienza dei
generali paralizza l'entusiasmo dei volontari, le diffidenze gelose
fra i capi disgiungono le forze restanti: poi le antipatie regionali
sempre alimentate dai vecchi governi e male sopite nella gioia della
prima fusione, infieriscono esasperate da rovesci che la
vanità dei vinti accusa di tradimento. Non si pensa
più all'unità, si ricalcitra persino all'unione.
L'aristocrazia come classe rimane per codardo egoismo aderente ai
governi abbattuti; il popolo grosso e minuto senza coscienza vera di
libertà, poco uso alle armi e meno ancora ai sacrifici,
subisce malgrado ogni fascino delle novità il prestigio delle
antiche dinastie, mentre i preti lo riconfermano nel terrore della
religione e le vittorie austriache gli riconsigliano la prudenza,
colla quale da tanti anni resiste nella schiavitù. Le
campagne peggio che indifferenti sono ostili alla rivoluzione;
l'avarizia domestica e la bigotteria religiosa e politica
v'imperversano al punto che un clero meno vile avrebbe forse potuto
suscitarvi una contro-rivoluzione.
Solo la borghesia è rivoluzionaria, ma fiacca per abitudini,
non pratica di governo, non facile alle armi, nutrita più di
rettorica che di scienza, meglio atta a morire in un impeto di
disperazione che a perseverare in una lotta disuguale di forze,
incerta di scopi e di processi, si smarrisce. La sua parte
più giovane e più numerosa accorre sotto le bandiere,
mentre i suoi seniori ammalati di cattolicismo liberale non
ardiscono proclamare davvero la rivoluzione. Si parla ancora di
confederazione, le forme costituzionali imbrogliano gl'inesperti e
favoriscono gl'ipocriti; in fondo si teme pel popolo e si
rammemorano i giorni sanguinosi della rivoluzione francese. Manca il
sentimento nazionale. Il problema della indipendenza si fraziona per
ogni provincia, la parola repubblica confonde e sbigottisce. Si
crede ancora che religione e libertà si accordino, che i
principi patteggino leali coi popoli e il papato possa concordarsi
volontario coll'Italia.
Non si sa nulla e manca tutto. La rivoluzione fallisce, ma spezzato
il dramma, le sue energie si condensano nelle scene. Il Piemonte
resiste come regno non ignaro d'invasioni, Venezia riassume morendo
tutte le virtù della sua lunga vita, Roma assalita da tutta
l'Europa riapre la storia immortale delle proprie guerre per
scrivervi un'ultima pagina, che ne vale molti libri. A Napoli
tradimento e massacro. I Borboni mentono ed assassinano, fedeli alla
propria tradizione. A Milano l'insurrezione inerme, dopo aver
trionfato d'un esercito per cinque giorni, sfinita più che
vinta cede non patteggia: a Bologna i popolani insorgono e
abbandonati abbandonano la rivolta; la Romagna freme, ma i suoi
audaci sono tutti a Roma e i troppi codardi rimasti a casa seminano
diffidenze preparando persecuzioni e condanne.
L'Europa è sossopra. Parigi, Berlino, Vienna tumultuano: la
rivoluzione gloriosa e sanguinante è vinta dovunque, ma fra
tutte quella d'Italia, allora forse la meno osservata, è la
più significativa. Al principio della nazionalità essa
congiunge il problema del papato. Per tutta la storia, dal
più oscuro medio evo fino a Napoleone primo, nessuno aveva
potuto risolverlo. L'Italia vi si accingeva. Il papato colpito da
improvvisa quanto inesplicabile demenza aveva concesso una
costituzione, che infirmava naturalmente il suo principio; quindi
l'aveva tradita per non essere trascinato fuori della propria
orbita, e la rivoluzione era scoppiata, uccidendo nel ministro
papale l'ultima illusione di un accordo fra l'Italia e il Vaticano.
La repubblica romana doveva morire prontamente, ma bastava ad
interrompere la vita millenaria del papato.
Quindi il dissidio religioso invelenì nelle coscienze
liberali. I più coraggiosi nauseati dalle attitudini del
pontefice, che fuggiva piuttosto che resistere e malediceva invece
di compiangere, si gettarono nella rivoluzione oramai troppo male
ridotta per trionfare, e bestemmiando cattolicismo e federazione
invocarono come suprema necessità della patria gli esterminii
del 93. I più arretrarono mascherando di pretesti religiosi
la prudenza, che li faceva disertare una causa per la quale la sola
onorevole speranza era di morire: i meno sognarono una reazione
papale iniziante un governo più largo d'impieghi ai devoti e
di stipendi alle spie.
La lunga servitù d'Italia pesava su tutte le coscienze come
una fatalità; la rivoluzione sembrava perdere non per colpa
degli uomini ma per ragione delle cose. L'Italia non poteva
risorgere. Questa acquiescenza al destino o alla provvidenza, come
allora si diceva, era favorita dal quietismo religioso e letterario
a capo del quale splendeva il Manzoni: la rassegnazione cristiana e
il pessimismo ultra mondano, che mette sempre nell'altra vita la
soluzione di tutti i problemi, coprivano le viltà depositate
nelle coscienze da troppi secoli di servitù, mentre
l'educazione cattolica assoggettava coi suoi terribili dilemmi
spiriti anche non volgari.
Quindi i pochi eccessi rivoluzionari, che falsavano la nuova
libertà, bastarono a molti per abbandonarla, evitando loro di
risolverne il problema nella coscienza. I rivoluzionari rimasero
pochi ma intrepidi, i cattolici furono troppi ma quasi tutti vili,
certo tutti inetti, aspettando dall'Austria più che da Dio la
pacificazione d'Italia.
Il clero che negli antecedenti begli anni della letteratura
cattolica liberale si era abbandonato a tutti i lirismi del
sacrificio, rientrò frettolosamente nel secolare egoismo:
nessuno osò scindere le questioni che il Vaticano fondeva in
una sola. Pontificato, governo temporale, romanismo, cattolicismo,
cristianesimo, tutto si confuse nell'anatema lanciato dal papa alla
rivoluzione e rimase identico nella coscienza del clero. I vantaggi
della sua posizione storica minacciati dalla rivoluzione gli tolsero
la vista delle grandi riforme da lui stesso invocate, mentre
l'emancipazione dello Stato dalla Chiesa proclamata altamente dai
liberali lo guariva quasi istantaneamente dalla passione della
libertà.
Immaturo per la propria riforma, il clero non poteva accondiscendere
nella rivoluzione.
I suoi più grandi pensatori, riprovati da Roma, non avevano
osato nemmeno nello sdegno della propria condanna precisare la
riforma cattolica; imbarazzati fra loro nella parte dogmatica, non
riuscirono che a maledirsi scambievolmente ponendo il problema della
nuova costituzione ecclesiastica. Quindi le esigenze della
libertà e della autorità sviandoli nel pensiero li
esasperarono nel sentimento già atterrito dalla insurrezione
e dal silenzio del popolo, fra cui predicavano. Invece di una
riforma religiosa, questi domandava una rivoluzione politica. Il
cattolicismo non era più un bisogno ideale dello spirito
popolare: i suoi dogmi, la magnificenza della sua
universalità non commovevano più, mentre la violenta
interpretazione papale riassumendo tutto nel vaticanismo aveva
già prodotto negli spiriti quell'indifferentismo beffardo e
desolato, che Lammenais prima di ribellarsi aveva cercato di
combattere con un fervore di fede pari allo splendore
dell'eloquenza.
E a poco a poco i nuovi eretici trascinati dallo stesso spirito
novatore erano saliti dal campo religioso nel filosofico,
abbandonando la sicurezza dell'insegnamento cattolico, prono ma
sodo, per smarrirsi non visti dal popolo fra la turba dei grandi
pensatori, che cercavano già donde verrebbe la nuova
religione.
Il problema del rinnovamento cattolico, intuito nella prima
metà di questo secolo, non sarà veramente dibattuto
che nel secolo seguente e risolto chissà in quale.
Certo prima di esaurirsi il cattolicismo, che sta rincorporandosi
tutto il cristianesimo, deve produrre in sè stesso nuove
interpretazioni e forme favorevoli alla espansione degli ideali, che
oggi ancora contunde nella idolatria o deprava nella politica.
Il clero italiano fu come da moltissimi secoli al di sotto della
propria posizione, il più vile di tutto il cattolicismo. La
corruzione vaticana scemandogli il carattere religioso gli aveva
tolto, e non gli ha ancora restituito, il carattere umano. Mentre
l'Italia insorgeva contro l'Austria in una guerra d'indipendenza
scevra di questione religiosa, e la rivoluzione assaltava il
Vaticano scacciandone il papa per conquistare la libertà
religiosa e politica, il clero non osò essere nè
italiano nè cattolico combattendo l'Austria o schierandosi
col pontefice. La viltà del Vaticano, che oppugnava l'Italia
per conservarvi il minimo regno, si ripetè in tutte le
parrocchie; i curati trepidanti pei proprii beni lasciarono a Dio
l'ufficio di salvare il papa, e non uno di loro tentò di
mettersi alla testa dei molti fedeli per difendere, ultimo crociato,
la tomba degli apostoli, o salire almeno il pulpito per dire ai
contadini che l'Austria tiranneggiando l'Italia aveva il medesimo
torto dei settari insignorendosi di Roma.
Invece ripeterono a bassa voce la parola di Gesù altrettanto
vera nella filosofia che falsa nella storia: date a Dio quello che
è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare; ma il
nuovo Cesare stava a Vienna, e quanto a Dio, i suoi beni e i suoi
diritti erano quelli medesimi delle parrocchie.
Sullo scorcio del secolo passato il clero francese morendo nella
Vandea per il proprio re si era contemporaneamente battuto per la
Francia contro gl'invasori, e la rivoluzione aveva dovuto stimarlo,
e Napoleone poco dopo l'aveva riconfermato. Il clero italiano,
ignobile ed ignaro, non volle morire nè per l'Italia
nè per il papa, e visse a sè medesimo.
Ma il papa stesso, moltiplicando per tutta la superiorità del
proprio grado l'antico errore di Pompeo, abbandonò Roma al
primo scoppio rivoluzionario ricusandosi ad un pericolo di morte
altrettanto improbabile che benefico alla religione. La prigionia di
Pio VII era bastata a riscaldare gli animi religiosi dopo la
rivoluzione francese, l'assassinio o la condanna di Pio IX avrebbero
riaccesa in tutti gli spiriti la fiaccola della fede disonorando per
sempre la rivoluzione.
Invece riparò nella più solida fortezza del peggior
tiranno d'Europa, cingendosi di briganti contro i rivoluzionari.
Mentre Garibaldi e Mazzini venivano a morire sulle mura di Roma,
disperati di salvarla ma bagnandola del proprio sangue, come di un
battesimo che la iniziasse a nuova vita, il pontefice nella feroce
umiliazione di re, che non sa nè vincere nè morire,
dimenticava il proprio carattere di padre universale per cacciare
contro Roma quanti soldati la reazione trionfante in Europa poteva
prestargli.
Ma la viltà del papa immortalata da Mazzini in una pagina
rovente d'indignazione sparve nella viltà del clero; a tutti
sembrò dovere la sua fuga, diritto la sua invocazione agli
stranieri perchè lo rimettessero in trono. Senonchè
quella fuga e quell'appello oltre le alpi provarono invece che
principio e fatto di regno temporale erano esauriti. Quando un
principio è incolume e un fatto è intero, coloro che
lo incarnano non vi falliscono; l'energia della fede, il vigore
della coscienza li sorreggono in ogni frangente; possono perdere non
scappare, soccombere non prostrarsi. Il re che abbandonava Roma
senza chiamare il popolo alle armi confessava di non esserne che il
papa, e il mondo gli credette.
Quindi la sua fuga aperse nelle mura una breccia, che allargata
dalla soldataglia cosmopolita del suo ritorno non si potè
più sbarrare: vent'anni dopo Vittorio Emanuele, scoprendola,
entrò e la chiuse. Questa volta Pio IX non fuggì da
Roma perchè non ne era più il re, ed essendone il papa
poteva sempre restarvi.<
III.
In questo periodo così tumultuante di fatti, e di idee Don
Giovanni non si mosse. Molti fra i congiurati, che lo avevano
conosciuto nelle opere secrete, aspettavano forse di vederlo
insorgere sulla montagna e alla testa di una compagnia fra
contrabbandieri e cacciatori correre alla difesa di Roma. La Spagna
era tutta piena in questo secolo di curati belligeri, talvolta
grandi come generali, più spesso fieri come assassini.
La predicazione patriottica cominciata a Bologna dai padri Gavazza e
Ugo Bassi infiammava il popolo alla guerra. Invece che nelle chiese,
le prediche si facevano su per le piazze, dall'alto delle scalinate,
fra una ressa di popolo piangente di ogni entusiasmo, giacchè
l'effervescenza del sentimento patriottico permetteva qualunque
eccesso di pensiero e di parola. Si declamava di guerra, di
massacri, di trionfi, di perdoni: tutta la vecchia rettorica delle
scuole piena di esempi romani e cartaginesi, quella dei seminari,
l'altra più recente del romanticismo si mescolavano in una
eloquenza ridicola e commovente, deforme e poderosa.
Nell'aria agitata da tante voci passavano a volta a volta i veri
soffi della rivoluzione. Il popolo applaudiva strepitando ai due
sacerdoti senza capire delle loro frasi che le parole di guerra. Il
nemico scoperto era l'Austria, i nemici incerti tutti i principi, il
papa e il clero, i nobili e i borghesi che quello schiamazzo
atterriva, e i contadini che ascoltandolo lontani ne chiedevano la
spiegazione ai parroci.
Il padre Gavazza, energica figura di tribuno ribollente di passioni
e fors'anche volgare di vizii, piaceva più dell'altro,
gracile poeta, che la letteratura aveva travolto e la rivoluzione
doveva stritolare. Ad entrambi la stessa gloria e la medesima
vanità prestò le forze ad uscire dagl'ordini; ma
nessuno dei due sapeva bene ciò che volesse. Ugo Bassi
additato alla reazione austriaca dal clero implacabile si
confessò, abiurò e cadde, martire coraggioso e
recalcitrante, per vivere nei ricordi del popolo che di lui non
ricordò più che la morte; l'altro, più
fortunato o più abile, vinta la rivoluzione, riparò
all'estero e vi si convertì al protestantesimo, e
tornò a predicarlo in Italia agli stipendi della
società biblica, non ascoltato dalla borghesia, spregiato dal
popolo, che stima poco coloro che mutano e non crede mai alle
conversioni fruttanti danaro.
Don Giovanni, sacerdote al pari di essi, non li seguì nella
breve e tempestosa predicazione. Differenze di indole e più
ancora di testa glielo impedirono, salvandogli l'originalità
oggi ancora più sentita che compresa.
Come Don Giovanni giudicò la rivoluzione del 48? Che cosa
pensava dei principi e del popolo? Di Carlo Alberto e di Pio IX
acclamati primi, di Mazzini e di Garibaldi arrivati ultimi?
Il suo pensiero non è rimasto scritto, ma la sua vita lo ha
chiaramente rivelato.
In tutto quel periodo, come prima e come dopo, seguitò la
vita di cacciatore ascoltando forse sulle cime dei monti nell'aria
trepida il rombo immaginario delle battaglie infelici, che si
combattevano per l'Italia. Intorno a lui tutto era calmo. I
contadini non s'occupavano che dei ladri infestanti per la mancanza
di un qualunque governo, mentre giù nel paese invece la
grossissima maggioranza assisteva alla rivoluzione come ad una
avventura della quale era già previsto lo scioglimento.
Nessuna fede, nessuna idea netta; qualche sentimento generoso fra
molti avari, una certa smania di novità frammezzo abitudini
che la morte poteva interrompere, non già la vita mutare;
paure e ignoranze, viltà di ogni servitù, gelosie di
qualunque grado. La rivoluzione non era possibile, il popolo non la
sentiva. Invano una piccola minoranza aveva profuso da molti anni e
seguitava a profondere eroismi di pensiero e di cuore, prodigava
sangue e danaro, dimenticando tutta sè medesima nella
passione della patria da redimere; la patria indolenzita e indolente
rimaneva accovacciata sotto le sedie dei propri tiranni, guardando
con stanco sorriso coloro che tentavano di scuoterla ed
arrischiavano in questo la vita.
L'Italia allora non aveva nè un re, nè un generale,
nè un politico.
In qual guerra aveva trionfato Carlo Alberto? E non era che re di
Piemonte, e non aveva osato dire alteramente all'Italia: sii mia!
Quale fra i tanti ministri dei tanti piccoli Stati sarebbe stato
così forte da soffocare la voce degli altri per farsi
intendere dall'Europa? Il migliore, quello del papa, Pellegrino
Rossi, smarriva ogni senno politico nel sogno di un papato
costituzionale.
Tutti gli italiani erano stranieri fra loro: piemontesi, napoletani,
lombardi, toscani, veneti, umbri, siculi, divisi per storie, per
indole, per produzione non avevano in comune che la servitù,
e anche questa diversa, cosicchè il dolore e l'odio
frazionandosi s'impicciolivano. Mazzini solo era italiano, ma la sua
opera e la sua fama male interpretate gl'impedivano d'abbracciare
tutto il popolo. La minoranza rivoluzionaria sola gli ubbidiva
adorandolo. Garibaldi sbarcato allora dall'America era per la gente
volgare uno sconosciuto, per tutti quei soldati invecchiati nelle
parate un avventuriero ricondotto in patria da bramosia di
saccheggio.
I Governi, invece di confederarsi, patteggiavano contemporaneamente
coll'Austria e colla rivolta, conservando verso l'una molte
velleità d'indipendenza, verso l'altra tutte le pretese del
comando. Solo un forte moto di unità, rovesciando quei
piccoli troni e galvanizzando le piazze nel nome della repubblica,
armandole, lanciandole sullo straniero, avrebbe potuto trionfare; o
un re temerario e abile come Enrico IV, che affermandosi re d'Italia
avesse nel suo nome eccitata la rivolta e guidata la guerra contro
l'Austria, avrebbe avuta qualche probabilità di riuscita.
Mazzini tentò la prima proclamando la repubblica romana,
nella quale, se persistente, tutti gli Stati d'Italia sarebbero
scomparsi; ma nell'ultima ora quando tutto era perduto, e
salvò con eroismo pari all'ingegno l'onore della rivoluzione.
Napoli e il Piemonte avrebbero potuto cimentarsi nella seconda
impresa, ma i loro re capaci di aspirarvi per vanagloria non ne
ebbero l'animo, tradirono o fallirono, poco sinceri nel sentimento,
meno italiani nel concetto.
E questa rivoluzione preconizzata da tanto splendore di arte,
preparata con lungo studio, assistita da tutte le forze, in un anno
appena si logorò e parve svanire. Il popolo in massa non vi
aveva che assistito.
Gl'italiani erano vinti. I campi veneti e lombardi fumavano di
sangue, in tutti i paesi la reazione del dolore e della paura
sopraffaceva l'entusiasmo della rivolta.
A sera la malinconia delle prime ore era più triste, il
pianto si mesceva colla rugiada. I volontari ritornavano sbandati
maledicendo e ascoltando le maledizioni ai generosi, che avevano
predicato la guerra. Si vantavano la pace umiliante, le molli
delizie della servitù.
Venezia e Roma resistevano ancora, quasi trovando nel nome antico
della repubblica l'eroismo della nuova morte. Il clero esultava. La
sua sordida e numerosa clientela liberata dallo spavento della
rivoluzione turbava con gioie parricide la tragica solennità
di quel momento. Tutti i maggiori uomini d'Italia erano sembrati
impari all'azione: i cattolici liberali mascherati da nuovi
costituzionali spingevano l'odio della rivoluzione più oltre
dei sanfedisti, seminando fra i vinti rancori che nulla poteva
più consolare. Le calunnie scoppiettavano ora che il fuoco
della moschetteria si faceva più rado e meno omicida; le
speranze uccise dai sarcasmi del popolo peggio ancora che dal piombo
degli eserciti nemici cadevano come Ferruccio avvolgendosi nelle
ultime bandiere.
Don Giovanni assisteva a questa agonia prolungata di giorno in
giorno quasi per aumentarne il dolore.
La sua anima era in preda a mille passioni. La viltà del
clero tripudiante sulle stragi italiane gli dava a volta a volta
degl'impeti disperati, che la sua coscienza di uomo, ribellandosi
alla coscienza di prete, portava fino a Dio. La questione del papato
avviluppata intorno all'ideale religioso lo aveva reso
irreconoscibile, mutando una religione di sacrificio e di amore,
talmente pessimista da non considerare il mondo che come un tramite
oltre il quale splendeva la verità e si armonizzava la vita,
in una feroce idolatria, nella quale le avare ingordigie del tempio
e gli ignobili silenzi dell'idolo concordavano alle più
ribalde affermazioni. Il pontefice, invece di mostrare ai popoli la
croce di Cristo, brandiva la canna dell'Ecce Homo come una mazza,
minacciando di spezzare le teste che non si sarebbero curvate.
I tempi parevano dar ragione al papa. Il cattolicismo sorretto
dall'ultima reazione della Santa Alleanza si disponeva a
riconquistare Roma abbandonata dalla viltà di Pio IX, mentre
la libertà proclamata dall'ottantanove a traverso un'immensa
carneficina, e quasi soffocata sotto i disastri del primo Napoleone,
stava per essere uccisa. I popoli non avevano in cinquant'anni
potuto intenderla. I piccoli re d'Italia accodati agli eserciti
invasori, come valletti a saccomanni, servivano gli schiavi che
venivano a ristabilirli padroni, intanto che il pontefice, re
più abbietto di loro, infangando la propria eterna religione
nella politica di un'ultima ora di regno, confermava tutte le
menzogne assolvendo tutte le stragi.
Garibaldi e Mazzini soli resistevano.
La rivoluzione dell'ottantanove si riassumeva in loro, Garibaldi ne
era il soldato, Mazzini l'apostolo; e poichè la rivoluzione
era mondiale, la sua ultima battaglia si combatteva naturalmente a
Roma. Tutta l'Europa feudale era discesa sotto le sue mura; perfino
la Francia, agonizzante nell'agonia di una falsa repubblica che
doveva produrre un più falso impero, mandava i proprii
soldati a mutare quell'assassinio in fratricidio.
Tutto sembrava perduto.
Se l'Italia fosse insorta nella rivoluzione e sopraffatta dalla
reazione monarchica d'Europa avesse soccombuto, non sarebbe stato
nemmeno un disastro. La libertà conservata nelle coscienze
avrebbe preparato la rivincita, mentre l'unità del pensiero,
la concordia del sentimento, l'identità degl'interessi
avrebbero consolato una disfatta istantaneamente mutata in vigilia
di guerra.
Invece il popolo credulo ai sofismi del clero, che gli mostrava
nella ripristinazione del romanismo la verità della religione
cristiana, ammirava la forza degli stranieri invasori.
Giammai nella storia vi fu momento più tragico.
Garibaldi, reso feroce dalla disperazione, irrompeva dalle mura di
Roma come Ettore chiamando ad alte grida l'Achille de' nuovi greci,
ma dal campo nemico nessuna voce d'eroi gli rispondeva, mentre una
immensa moltitudine d'armati lo obbligava invano reluttante a
riparare nelle mura. I suoi soldati di un giorno non avevano
nè armi nè scampo: italiani di ogni provincia,
chiamati dalla rivoluzione, erano venuti a morire nella sua
tragedia. Non un dubbio, non un lamento. Roma eterna si stendeva
accidiosa dietro loro dalle mura. Il suo popolo troppo pieno di
cortigiane e di bastardi, rimasuglio di tutte le schiavitù,
guardava con suprema indifferenza di servi, che usi a non pagare lo
spettacolo non vi portano più e non ne risentono passione. I
fastigi dell'impero e del papato dominavano immani quest'ultima
battaglia, che stranieri italiani sostenevano contro stranieri
d'oltre Alpe.
L'assedio non poteva essere lungo. Ogni giorno scemava il numero e
le forze degli assediati. L'Italia vile come Roma non osava nemmeno
incitare i combattenti sopraffatta dal dubbio della vittoria. Nulla.
In alto, sopra un colle, non uno dei sette immortali della storia
antica perchè sovr'esso doveva cominciare la storia moderna,
Mazzini pallido e sereno dominava una piccola assemblea, che
percossa dal rombo dei cannoni gli si stringeva intorno.
L'immensità storica e il silenzio attuale di Roma
sbigottivano la Costituente, assemblea di sbandati, senza nè
l'energia del senato nè l'impeto dei comizi antichi, in un
momento nel quale nè l'uno nè l'altro sarebbero forse
bastati.
Campidoglio e Vaticano, ambedue deserti, intendevano dalla
sublimità della loro grandezza a Villa Medici, sede del nuovo
Parlamento.
Roma taceva.
Il suo silenzio di quel momento fu un silenzio di morte.
La città, che dopo aver soggiogato il mondo coi Cesari
l'aveva dominata coi papi, era esaurita; vi sarebbe ancora una nuova
Italia, non vi sarebbe più una terza Roma.
E su quel silenzio di due mondi millenari, che il fuoco degli
assedianti non bastava a rompere, Mazzini pronunciò la parola
della vita nuova proclamando la repubblica moderna. Dopo i cesari i
papi, dopo i papi il popolo. Roma assediata dagli ultimi barbari
della monarchia liberava nuovamente il mondo; ma era l'anima
italiana che parlava in lei. La proclamazione della repubblica,
appena udita per le vie della città, echeggiò
dovunque. Un'altra êra incominciava bagnata di sangue come
tutte.
Ma unico fra i forti italiani d'allora che affermasse l'unità
d'Italia, mentre i più intrepidi di spirito non ne
sorpassavano la confederazione, anche Mazzini dovette contraddirsi
proclamando una repubblica romana. La sua grand'anima resistè
allo schianto di questa contraddizione, che annullava l'affermazione
di tutta la sua vita in un momento che la morte rendeva libero da
ogni menzogna. Senonchè l'unità da lui affermata
magnanimamente non era ancora cosciente nell'anima d'Italia, e
Genova e Venezia risognavano le proprie repubbliche marinare, e la
Toscana si affermava superbamente augusta in sè stessa, e
Napoli invidiosa del Piemonte accarezzava contro di lui la stessa
vanità di egemonia, e la Lombardia di tradizioni più
incerte evitava di risolvere, e nessuno malgrado le molte adesioni
al Piemonte sentiva davvero che l'unità sola poteva produrre
l'indipendenza e l'unione d'Italia.
Non v'era che un soldato italiano, Garibaldi, nel quale l'amore
d'eroe per l'Italia non fosse scemato dalla passione di nessuna
delle sue provincie. Mazzini condotto a Roma dalla stessa
fatalità che diciannove secoli prima vi attirava S. Pietro,
non potè, limitato più dalle singole insurrezioni
italiane che dagli stranieri assedianti, proclamare la repubblica
italiana: Napoli e Torino, Firenze e Venezia gli avrebbero risposto
negando. Si sarebbe accusato il triumvirato di tirannia, le dinastie
sabaude e borboniche colpite nell'egoismo di regno avrebbero urlato
alla conquista.
L'unità mancava e doveva mancare ancora dieci anni dopo,
giacchè il trionfo della forma monarchica sulla repubblicana
significa anche adesso che la coscienza italica per comprendere la
propria unità politica aveva duopo di vederla prima in una
unione esterna ottenuta dalla conquista di un principe italiano
sugli altri, e che la soggezione al nuovo regno calmava le paure
della maggioranza sugli effimeri disordini inseparabili da una
rivoluzione.
Roma proclamerà la repubblica quando l'Italia sentirà
davvero nella coscienza la propria unità.
Allora Mazzini non potè affermare che la repubblica romana,
sapendo benissimo che uccisa all'indomani profitterebbe colla
propria morte all'Italia. La repubblica romana proclamata fra il
Campidoglio vuoto e il Vaticano deserto chiudeva per sempre le loro
due epoche; durando, avrebbe invece negata l'unità italiana.
A Roma, non più centro del mondo ma capitale d'Italia, la
repubblica non può essere che italiana.
Don Giovanni dai colli di Modigliana non guardava più che a
Roma. Le notizie arrivavano peggio che incerte, contradditorie.
Nella piazza del paese l'albero della libertà, piantato dalla
canaglia nella prima effervescenza della sollevazione, si essiccava
al sole del tramonto, visitato tutto il giorno da ogni classe di
persone concordi nella stessa ironia. Nei paesi vicini gli stessi
alberi erano già stati rovesciati. Quello di Modigliana
resisteva ancora senza speranza.
In quel tempo la vita di Don Giovanni fu esercitata da terribili
agitazioni. L'energia della sua natura eroica lo avrebbe spinto a
marciare su Roma cinto dei più intrepidi fra i suoi amici
contrabbandieri, mentre la sua coscienza di cristiano e di
rivoluzionario glielo impediva. La rivoluzione era immatura nel
cattolicismo e nell'Italia; clero e popolo non la sentivano. La
generosità di una rivolta, che una morte quasi sicura avrebbe
bastato ad assolvere in ogni paese, diventava problematica allora
che gli spiriti avevano cessato d'intendersi. Nessuno parlava
più della libertà d'Italia: Roma e Venezia sembravano
due città straniere assediate da stranieri che si
difendessero senza speranza; le vittorie austriache ingigantendo
nelle fantasie atterrite la potenza dell'Austria rendevano ridicole
e criminose le resistenze. Perchè battersi ancora facendo
massacrare tanti poveri giovani? E il clero rispondeva insinuando
che la rivoluzione non era per l'Italia, ma contro la religione, e
il popolo credulo per secolare abitudine malediva ai rivoluzionari,
invocando nel papa il santo dei santi. Le minute superstizioni e i
miracoli paesani rifiorivano; lo scombussolamento e le morti della
rivoluzione che avevano già esasperato le donne e i vecchi,
facevano ormai prorompere gli adulti. Si denunciavano all'odio
popolare le società secrete, si ricordavano i tempi della
schiavitù colla pace delle anime e degli interessi sotto la
sacra tutela del papa.
I volontari ritornati dai campi delle varie guerre regionali erano
guardati con orrore misto di scherno: avevano voluto distruggere la
religione e vinti erano scappati. Malvagi e vili, ingannati o
ingannatori.
Il papa sarebbe presto ritornato a Roma e tutto sarebbe finito.
Infatti Roma dovette capitolare. Gl'Italiani che la difendevano,
ridotti senz'armi e senza munizioni, si arresero. Roma non si mosse.
Molti romani generosi avevano certamente partecipato alla difesa
della città santa, ma il suo popolo vi aveva assistito come
ad uno spettacolo. Se Roma si fosse difesa come Saragozza, gli
eserciti stranieri discordi non l'avrebbero presa; se le popolazioni
delle sue provincie fossero insorte, li avrebbero fatti prigionieri.
Roma non era più Roma; i Latini, i Sanniti, i Bruzii moderni
non somigliavano più ai confederati di una volta, frammezzo
ai quali Annibale non aveva osato inoltrarsi. La Costituente si
disciolse prosaicamente; Mazzini, ultimo italiano, dovette
nuovamente esulare solo.
Appena tacquero i cannoni, squillarono le campane.
La città dei preti e dei servi, usa a vivere della
ospitalità degli alberghi, accolse gl'invasori precedenti il
pontefice e che tronfi della facile vittoria rattenevano a stento il
disprezzo per un popolo senza coscienza di patria in una
città, che era stata la coscienza del mondo.
Tutto era perduto. Caduta Roma, Venezia vincitrice non avrebbe
giovato nè a sè medesima nè all'Italia.
Un silenzio di morte si stese sulla penisola, rotto dalle chiocce
invocazioni del clero osannante nelle chiese al ritorno del
pontefice, mentre un gran vuoto si faceva improvvisamente nelle
coscienze di tutti. Quella rivoluzione vinta, insultata nell'agonia,
morta diventava qualche cosa. Rivoluzionari e reazionari al rumore
della caduta di Roma si guardarono in viso allibiti: che cosa
significava quella repubblica vissuta un giorno nella gloria tragica
di un assedio senza scampo e morta di ferite fratricide senza
gettare un grido di paura o di odio?
I suoi soldati, ultimi superstiti di un'epopea che forse un giorno
avrà un poeta grande quanto Omero, si dicevano usciti dalle
mura, dispersi. Che cosa era avvenuto di Mazzini? Garibaldi era
forse prigioniero?
Ognuno se lo domandava, nessuno lo credeva.
Un fascino misterioso circondava quest'uomo rendendolo superiore a
tutte le circostanze.
Mazzini esulava, Garibaldi si ritirava, nessuno dei due fuggiva.
Coi rimasugli dell'esercito, forse un quattromila uomini, Garibaldi
era uscito al momento della resa da porta S. Giovanni. Il popolo lo
aveva visto ritirarsi con un senso di ammirazione paurosa. Come
avrebbe egli potuto salvarsi per una campagna tenuta da tre
eserciti, ognuno dei quali tanto maggiore del suo? Garibaldi andava
innanzi pallido e biondo. La serenità della sua fronte
entrando dalla porta nella campagna, era degna di Roma; aveva
perduto la battaglia ma la guerra proseguiva. Invece i soldati
laceri e sfiniti, senza quella fede incrollabile del generale nella
unità d'Italia, cadevano quasi sotto il silenzio di Roma. Non
uno sguardo dalle mura dell'immensa città li seguitava per la
morta campagna.
La ritirata cominciava senza meta e senza scopo. Perchè
salvarsi? Dove salvarsi? La desolazione della campagna, eterna come
Roma, avvolgeva la disperazione di quelle ultime ore. Solo Garibaldi
alzava la fronte sul deserto e lo dominava colla sicurezza di chi
scruta oltre i suoi confini nelle terre che lo attendono. Roma era
presa, ma l'Italia poteva sollevarsi ancora. Perchè la
ritirata da Roma non sarebbe un ritorno dall'isola d'Elba? Il numero
dei soldati non montava, giacchè il popolo è senza
numero, e dai monti, dalle valli, dalle pianure che vanno a bagnarsi
nelle paludi, dalle città che nessuna milizia occupava, dai
villaggi, dai porti, dai litorali deserti, fino dalle vette
più inesplorate insorgerebbero italiani al tuono delle nuove
battaglie, che inseguito da tutti i nemici egli darebbe a tutti loro
per tutte le terre d'Italia. Ora che le singole rivolte erano
fallite doveva cominciare la resistenza generale. L'Italia
medioevale aveva fatto le ultime prove in questa insurrezione
frammentaria, inspirata e sorretta dalle energie delle tradizioni
locali, ma un'altra Italia disciplinata da Mazzini nelle
società secrete, rappresentata al supremo sacrificio di Roma
da' suoi figli più prodi poteva sorgere e vincere.
Traversare l'Italia, sollevarla, spingerla sugl'invasori e mentre
essi dispaiono nella battaglia di tutto un popolo contro un
esercito, salire sulle Alpi e gridare all'Europa attonita: che la
rivoluzione ha vinto e un'altra Italia comincia per tutti una nuova
storia di libertà....
Era il sogno di quel momento, l'alba che egli vedeva attraverso il
crepuscolo sinistro di quel giorno di sconfitta.
Il pericolo dell'aperta campagna rianima la piccola truppa; Roma si
allontana all'orizzonte, mentre il deserto dell'agro romano si
distende oltre lo sguardo e le memorie dei più in una
desolazione così sublime che rivela loro la grandezza della
propria.
L'anabasi incomincia: tre eserciti li cingono e li perseguono.
Garibaldi li cansa, scivola fra i loro vani, li delude, li inganna;
muta passo e direzione ad ogni ora, aumenta di velocità,
dissipa le proprie traccie, è introvabile, invincibile. Agile
come un serpente, ha dei balzi e delle ferme di leone che seminano
nei persecutori la confusione e la paura: guadagna i monti e vi si
perde, sempre inseguito e sempre in salvo, moltiplicando gli
stratagemmi e gli eroismi, lasciando ad ogni tappa una gloria e una
speranza.
Il popolo non si è mosso e non si muove. I contadini lo
guardano passare svelto e superbo pei campi, seguito da soldati che
di umano non hanno più che la fatica e il dolore, e abbassano
gli occhi colla indifferenza di una ignoranza cui nulla più
commuove, di una servitù che da secoli non ha più
tentazioni di libertà. Le città e i villaggi, dove
giunge, non lo ricevono o almeno non vorrebbero riceverlo, percossi
dalla notizia degli eserciti che lo inseguono o meravigliati di
vederlo vivo e forte, mentre una voce misteriosa lo annunziava morto
ad ogni ora. L'orrore dei sacrilegi immaginari di Roma allontana da
quei superstiti ribelli la pietà dei credenti, che il ritorno
del papa ha entusiasmato; le amare delusioni rivoluzionarie li
colpiscono, il solito disprezzo pei vinti li insulta.
Il piccolo esercito non è più che un manipolo, la
stanchezza disperata delle marcie ha di già abbattuto la
maggior parte dei soldati avviliti dalla indifferenza ostile del
popolo. Solo Garibaldi, che non spera più, non cede ancora.
Invece di irritarsi di quella viltà del popolo, la comprende
e lo compiange. Tre o quattro secoli di schiavitù non si
cancellano in un giorno: il popolo che non ha ancora potuto credere,
malgrado ogni dimostrazione scientifica, al giro della terra intorno
al sole, perchè crederebbe subito che la storia giri intorno
alla libertà? I dolori centenari della sua immobilità
sulla gleba fecondata sotto l'occhio avaro del padrone e il sorriso
beato del prete erano ben maggiori delle sofferenze di quella
ritirata, che la morte poteva ad ogni istante interrompere e
consolare: ma il popolo che non muore e non si ritira, non poteva
credere ancora alla propria resurrezione, nè all'eroismo di
coloro che avevano invano tentato di morire per ottenergliela.
Garibaldi marciava sempre. Amici e nemici, nessuno in Italia sapeva
bene dove si trovasse; egli stesso ignorava la propria meta. Un
istinto lo guidava. La reazione trionfante in tutta l'Europa si
ricordava appena di lui per chiedere sbadatamente se lo avessero
fucilato, il popolo l'abbandonava, Mazzini l'astro del suo pensiero
era scomparso o si era spento, Roma si stordiva d'incenso e di
scampanio, i tedeschi stavano per uccidere Venezia, Genova
più infelice era stata riconquistata dai Piemontesi.
Egli solo, inerme capitano di un manipolo d'inermi, restava
all'Italia.
La sua coscienza lo sentì. Per una di quelle attrazioni che
la poesia è pronta a cogliere ma delle quali il volgo ride,
avendo invano traversato l'agro latino, l'Umbria, le Marche verso la
Romagna, si diresse a S. Marino per disciogliervi, ultimo difensore
della repubblica romana, nella libertà della sua minima ed
antica repubblica, le supreme reliquie dell'esercito, col quale
aveva sognato di sollevare l'Italia. I tempi non erano maturi:
d'altri dolori e di più profondi studi aveva d'uopo l'Italia
per risorgere.
Egli riservato a quel giorno doveva restar solo e sparire.
Quindi senza un lamento congeda il drappello degli ultimi che
l'avevano seguito. Napoleone aveva singhiozzato a Fontainebleau
stringendo la mano al generale della sua vecchia guardia, e sublime
egoista le aveva gridato: Scriverò nell'esilio quanto
operammo insieme! Garibaldi moralmente più grande si perde
nella sventura d'Italia e non ha un solo motto d'orgoglio dopo tanti
eroismi. Al momento di sbandarsi generale e soldati, egualmente
profughi e cercati a morte, dimenticano ogni gerarchia di merito e
di ufficio per stringersi semplicemente la mano, forse per l'ultima
volta, e si separano.
Egli volle restar solo.
L'epopea si muta in romanzo. La ritirata è finita, il
pellegrinaggio incomincia. Invano gli consigliano di radersi la
barba e di mutare abito, giacchè la sua fisonomia e il suo
abbigliamento reso popolare dai ritratti è nella coscienza di
tutti. Egli nega, non sa dirne la ragione, ma nega. Tale prudente
menzogna del viso e delle vesti avrebbe mutato il suo pellegrinaggio
in una fuga, e Garibaldi non può fuggire. Sua moglie Annita,
meravigliosa fusione di Andromaca e di Clorinda, lo segue incinta e
non teme; un amico solo, un capitano, li accompagna. Come ha egli
ottenuto questo privilegio? Forse da Annita troppo ammalata malgrado
tutto l'eroismo del suo cuore.
Da S. Marino scende al mare, s'imbarca, approda tra le valli di
Comacchio, s'interna nella pineta di Ravenna; perchè
raccontare tutto questo? Troppo e troppo sconciamente lo dissero poi
tutti coloro che lo giovarono di aiuto. La vanità dei
salvatori fu questa volta maggiore della grandezza del salvato; egli
aveva sempre ricordato nel silenzio della gratitudine, essi si
percossero di contumelie dopo la sua morte, litigandosi ognuno il
vanto di averlo salvato e confessando così tutti insieme di
non averlo conosciuto.
Ma la sventura d'Italia persegue l'ultimo italiano; come l'Italia
aveva tutto perduto in quell'ora, a lui non doveva restare nulla,
nè un soldato nè un amore. Annita vinta dal travaglio
di quella caccia, che non dà requie, s'arresta un momento e
spira. Garibaldi, solo, non può nè soccorrerla
nè seppellirla. Il suo dolore rugge colla bufera che tormenta
la pineta, ma la sua anima non cede tuttavia alla tentazione della
morte.
Morta Annita, l'Italia moribonda che aveva con lei diviso il suo
cuore, vi rimane sola, sventurata erede di nuova sventura; ma il
cuore di Garibaldi non si restringe. E i pericoli si rinnovano, la
morte incalza. Adesso tutto il mondo sa che Garibaldi, congedati gli
avanzi dell'esercito col quale era sfuggito alla capitolazione di
Roma, erra sul littorale di Ravenna in cerca di scampo: spie e
pattuglie lo cercano. Appena ravvoltolato nella sabbia il cadavere
della povera Annita, che i cani scovrirono e rosicchiarono nella
notte, muta ricovero di capanna in capanna, protetto da povera
gente, più triste perchè più solo, ma quasi
tranquillo. Tutte le speranze d'Italia erano ospitate nel suo cuore:
egli lo sentiva e camminava senza affrettarsi e senza nascondersi,
seguendo le guide che il destino gli mandava e dicendo a tutti:
- Sono Garibaldi, insegnatemi la strada.
Quale?
E lo guidavano al sicuro.
Fra tanti, cui si scoperse, nessuno dubitò di lui e lo
tradì. Un fascino fatale lo proteggeva. Biondo, coi capelli
lunghi come la criniera di un leone, coll'occhio azzurro come
l'azzurro delle più belle albe italiane, vestito come tutti i
soldati d'Europa l'avevano veduto sulle mura di Roma fra le tempeste
dell'assedio, nessuno dei tanti drappelli nemici, cui
s'imbattè, lo riconobbe. Se gli avessero chiesto il nome,
avrebbe risposto:
- Garibaldi.
Non glielo chiesero.
Egli taceva abbandonato al proprio destino, non avvertendo quasi
più nulla di quanto accadeva intorno a lui. Una quiete
superba si veniva facendo nel suo spirito, come una inesplicabile
sicurezza di essere già in salvo per potere più tardi
salvare l'Italia, e che raggiandogli da tutta la persona
assoggettava istantaneamente quanti gli si accostavano per aiutarlo.
Non pareva più un proscritto, ma un incognito fatato e
fatale. Comandava e accettava serenamente grato della assistenza e
sicuro nel comando.
E alla voce che lo gridava già morto quando nei giorni
passati alla testa di quattromila uomini scorreva l'appennino, ora
più solo e abbandonato che in alcun tempo della sua vita, ne
era succeduta un'altra che lo diceva salvo. Nessuno sapeva nè
dove nè come, ma Garibaldi doveva essere salvo.
Dai monti di Modigliana Don Giovanni tendeva l'orecchio a questa
voce.
Per lui Garibaldi era ormai tutta l'Italia. La rivoluzione fallita
per sola colpa degli Italiani, che l'avevano indebolita
disgregandola nelle vanità delle singole provincie, non aveva
avuto che due uomini, Garibaldi e Mazzini: tutti gli altri per
quanto alti di pensiero e generosi di sentimento non erano arrivati
al concetto in una sola Italia. La maggior parte di essi,
mascherando le vanità paesane di piccoli studi storici,
invocavano una federazione che mancando dell'idea fondamentale
dell'unità non avrebbe mai potuto produrre la necessaria
unione di tutti gl'interessi divergenti per combattere lo straniero
e conquistare la libertà. La confederazione possibile in uno
Stato già indipendente o livellato da una servitù
uniforme, nell'Italia d'allora non era che una ipocrisia dietro la
quale i suoi piccoli Stati tentavano salvarsi dalla rivoluzione; e
coloro fra i rivoluzionari che la caldeggiavano, e ve ne furono
d'illustri, dimenticavano la vera necessità del momento
politico per smarrirsi nella compiacenza di un futuro discentramento
amministrativo, il quale giovandosi dei caratteri spesso antagonisti
delle nostre razze, e delle incredibili differenze del nostro clima,
traesse poi da tutte le nostre forze parallelamente ordinate tutta
la varia quantità di risultati che possono dare.
Don Giovanni si era accorto fra i primi dell'errore della
confederazione. I moti parziali che avevano preceduto il 48,
determinati dalle diverse energie e condizioni delle provincie,
erano miserevolmente finiti: gli stessi dolori li avevano eccitati,
le medesime vanità li avevano condotti a fallire. Austria e
clero tremendamente unitari avevano sempre riso e seguiterebbero a
ridere di ogni tentativo rivoluzionario senza unità di mezzi
e di scopi. Le monarchie italiane costrette dalle necessità
dei tempi a simpatizzare colla rivoluzione, negandola nel proprio
secreto per egoismo d'esistenza, parlavano naturalmente di
costituzione e di confederazione per indebolire con piccoli fatti
liberali e con grandi promesse di libertà l'apostolato di
Mazzini, che secondata abilmente l'illusione federale monarchica,
era ritornato più forte di prima alla predicazione
dell'unità.
Ma i tempi immaturi gli avevano mancato. Austria e clero coalizzati
avevano trionfalmente resistito a tutti gli sforzi del suo genio.
Caduta Roma, l'Italia rientrava nella infermità delle proprie
forme storiche, uscendo dalla rivoluzione come da un brutto sogno.
Il solo torto di Mazzini, secondo Don Giovanni, era di aver troppo
insistito sulla necessità di un nuovo cristianesimo
più morale che dogmatico, senza tradizioni e senza gerarchie.
Certo nessuna rivoluzione può prescindere dall'elemento
religioso, sotto pena di non essere rivoluzione intiera, ma quel
dissidio filosofico con Roma aveva indebolito, disperdendolo in
altri campi, lo sforzo rivoluzionario. La rivoluzione francese
più abile e più profonda aveva preferito negare il
cattolicismo per giovarsi dei dolori e degli odii da esso prodotti
in tanti secoli di tirannia e di corruzione. Mazzini aveva sognato
contemporaneamente la resurrezione e la rigenerazione dell'Italia.
Era troppo. La lirica delicata e veemente del suo sentimento
religioso, invece di sollevare gli animi contro le brutture del
cattolicismo, riscalducciava la bigotteria latente in tutte le
coscienze rendendo più ascoltati i preti, che affermavano
essere nella religione l'unica verità della vita. Troppa era
ancora l'ignoranza e la bassezza di cuore perchè il nuovo
cristianesimo umanitario di Mazzini fosse compreso.
E piuttosto che una riforma questo pareva ai più una
confessione umiliante d'inferiorità in faccia al
cattolicismo, mentre la scienza aveva già spezzata da un
pezzo l'orbita cristiana.
Invece Garibaldi, cansando il problema della rivoluzione religiosa,
aveva urtato impetuoso nell'ignobile(6) tirannia di Roma: quindi
coll'infallibile intuizione popolare affermando cattolicismo e
romanismo, clero e religione identici nell'attualità storica,
aveva capitanato contro di essi l'odio delle plebi, solo
rattenendolo negli accessi per magnanimità(7) di natura. Se
nessuna forma religiosa era stata rispettata da lui, nessun prete
innocente o colpevole aveva patito persecuzioni.
Questa sintesi del suo cuore era stata più larga ed efficace
della sintesi intellettuale di Mazzini per la rivoluzione.
Garibaldi solo in quel momento era tutta la rivoluzione: guai se
fosse morto!
A questo pensiero, che lo tormentava notte e giorno, Don Giovanni si
sentiva letteralmente morire. L'inerzia, nella quale si era per
eccesso di chiaroveggenza condannato durante il periodo
rivoluzionario, gli aveva prodotto nell'anima una specie di sdegno
contro sè medesimo che l'azione solamente avrebbe potuto
calmare. L'agonia d'Italia gli diventava rimprovero alla calma della
sua vita di cacciatore e di prete. Bisognava pur soffrire e morire
in un'ora che Dio aveva concesso alla morte. A Napoli, a Roma, a
Venezia, a Milano, dappertutto si moriva: gli ultimi tiranni
trucidavano i nuovi martiri; framezzo a un popolo per troppa miseria
ignaro ed ignavo drappelli di generosi morivano baldamente,
gettandogli per ultimo grido una parola di rivolta e di amore.
Garibaldi errava solo per la foresta di Ravenna; così gli
avevano scritto vecchi congiurati. Bisognava quindi salvarlo, adesso
che Roma da lui difesa sorrideva agli stranieri invasori e Venezia
si arrendeva, e il Piemonte per conservare la larva del proprio
statuto sotto le minaccie dell'Austria mutava larva di re; e il
triumvirato toscano, ombra del triumvirato romano, spariva nelle
tenebre della reazione granducale; e i borboni ritiravano a Napoli
la costituzione insanguinandola nelle vie, e la rivoluzione falsata
a Parigi dalla repubblica francese, che mandava ad assassinare la
repubblica romana, era tradita a Vienna, soffocata a Berlino nel
sangue più generoso: salvarlo adesso che generale senza
esercito errava fra il popolo incapace di riconoscerlo, ormeggiato
da spie, circuito da pattuglie pronte a fucilarlo! Morire ma
salvarlo, perchè egli solo poteva un giorno rialzare
l'Italia, essendo stato solo a concepirla e a combattere per
l'Italia libera ed una! Mentre i più illustri uomini delle
varie provincie disonoravano di lamenti e di contumelie reciproche
la sventura di quell'ora, Garibaldi già rituffatosi nel
popolo e subitamente dimentico della propria gloria di generale, non
si difendeva, non si vantava. Come prima di battersi in Italia per
l'Italia, comprendendo per lei il bisogno di una nuova gloria
militare, era andato a conquistarla in America: sentendo che il
torto della rivoluzione fallita era solo dell'Italia, più
coraggioso di tutti nascondeva col proprio silenzio quella
viltà all'Europa, conscio per prova che il raccoglimento del
dolore è sempre più fecondo di tutta l'agitazione
delle diatribe. Taceva ed errava. Dov'era in quell'istante? Qual
nuovo disastro lo colpiva?
Ma Garibaldi non poteva salvarsi che per la via di Toscana.
L'esperienza di Don Giovanni, che aveva trafugato tanti proscritti,
lo assicurava di questa necessità. Tutta la legazione di
Ravenna era coperta di pattuglie e di spie; impossibile penetrare
nel Veneziano o muovere per Bologna verso i ducati.
Ma ad ogni ora il pericolo aumentava: i minuti erano forse contati.
Dov'era Garibaldi?
Sotto il suo mantello di proscritto egli portava allora tutta la
fortuna d'Italia.
Bisognava salvarlo a qualunque costo, e che un prete fosse il suo
salvatore.
Garibaldi rimasto solo non era più l'eroico avventuriero
d'America, che figlio di patria schiava vinceva per la
libertà di altre terre; non il generale improvvisato che
difendeva Roma contro l'Europa e la repubblica contro l'impero e il
papato, ma tutta la rivoluzione. Coll'infallibile istinto del genio,
fallita l'impresa di sollevare l'Italia, aveva licenziato i soldati
rinunciando a ritardare inutilmente la resa di Venezia. Nessuna
resistenza giovava più; bisognava riserbarsi ad altro tempo,
forse prossimo, ritemprandosi in migliore preparazione. La nuova
rivoluzione avrebbe mutato metodo e processo. La trepidazione vile
ed avara, colla quale tutti i piccoli governi della penisola
s'affannavano a ritirare dal naufragio quanto meglio potevano,
profittando magari delle peggiori condizioni del vicino, significava
che della rivoluzione vinta e della rivoluzione futura non avevano
la più piccola coscienza. Dopo di essersi battuti per
velleità nevrotiche contro lo straniero, si liticavano
stiracchiando i confini come i moribondi tirano le lenzuola.
Avrebbero ceduta tutta l'Italia per protrarre di un miglio la
propria linea doganale.
Roma benediceva e malediva. Per lei tutta la rivoluzione era infame,
e l'Austria tiranneggiava l'Italia per diritto divino, e Ferdinando
valeva S. Luigi, e Isabella di Spagna Santa Teresa, e la
libertà era falsa, la patria solamente in cielo, la storia
italiana immutabile col papa re di poche provincie esauste, col
napoletano selvaggio nelle campagne o putrido nelle città,
col lombardo-veneto soffocato dai croati, coi ducati lacerati da
maniaci come Carlo III o da usurai come Francesco V, con governi
tutti senza garanzia di rappresentanza nazionale, coi mari senza
navi, coi campi senza strade, colle frontiere senza eserciti, colle
scuole senza scienze, colle arti senza ideali, colle chiese senza
Dio.
Era il programma di Roma.
No.
Non era vero, nè il cristianesimo nè il cattolicismo
erano così. La redenzione di Cristo non poteva conchiudere
all'oppressione del mondo per opera della sua chiesa. Una difficile
e tremenda menzogna agiva dentro la tradizione divina. La storia
ecclesiastica, che avrebbe dovuto essere la storia dell'ideale verso
cui la storia umana piena di delitti e di catastrofi doveva
costantemente sollevarsi, non era più stata, dai primi tempi
della persecuzione e dell'assisa dei dogmi, quello che doveva. Il
mondo da lei purificato l'aveva corrotta; filtri e lambicchi
finiscono sempre così. I papi s'erano scannati fra loro, i
cardinali li avevano venduti, gl'imperatori erano spesso riusciti ad
assoggettarli; i preti, eredi di martiri, che avrebbero sempre
dovuto aspirare al martirio, s'erano abbandonati alle cupidigie di
ogni impero, e impotenti perchè il loro carattere sacro
derivava da una amputazione del carattere umano, avevano finito col
preferire le ricchezze alla gloria. Per conservare un minimo regno
ottenuto da una falsa donazione, quasichè i regni potessero
donarsi, difeso per secoli contro insurrezioni feudali e municipali,
sempre negato dal popolo, non avevano dubitato di turbare la storia
di tutte le genti. Possessori di beni immuni d'imposte, esenti da
ogni obbligo civile, erano quindi diventati stranieri nel mondo,
entro il quale per turbolenza di vizi avevano voluto discendere e
sul quale avevano regnato nel nome dell'ideale. No; Roma, sede del
papa perchè il cattolicismo è universale, non poteva e
non doveva essere un feudo del pontefice prolungando nel mondo
moderno l'errore della feudalità, che faceva risiedere la
sovranità in un uomo invece che nella legge. Il cristianesimo
non era monarchico; il mosaismo stesso non lo era stato che a
malincuore e solamente di forma, poichè la legge non v'era
fatta dal re. Perchè dunque il papa avrebbe un regno? Per la
sua libertà? Ma un papa è sempre libero, perchè
la religione è un fatto della coscienza; si può
uccidere un papa, non dominarlo. E perchè egli temerebbe di
morire per opera di coloro, che incapaci ancora di apprendere le
divine verità del cristianesimo rappresentano gli eterni
gentili, che il cristianesimo deve convertire? Una religione non
deve essere sempre in istato di conquista, e nella conquista il
vincitore non muore quasi sempre?
Che cosa era il cattolicismo nel cristianesimo? L'uniformità
entro l'unità, mentre il protestantesimo e tutte le altre
confessioni ne rappresentavano la varietà. Il cattolicismo
era necessario al cristianesimo come la grande strada ai viottoli,
che vi si immettono, ma a traverso le sinuosità di ogni curva
l'una e gli altri miravano alla medesima meta.
Perchè dunque i papi volevano un regno puramente mondano e i
preti cercavano sottrarsi ai pesi che la vita e la storia
distribuiscono al resto degli uomini?
Ma a traverso tutte queste domande in lui ancora troppo torbide
un'idea si faceva largo e splendeva.
Un prete doveva salvare Garibaldi.
Egli voleva essere quel prete.
Era tempo.
Da molti secoli Roma difendeva cogli anatemi i propri privilegi
politici, ma perdonando fatalmente appena fossero del tutto perduti.
Esenzioni dalle imposte, decime, immunità, gradi, uffici,
tutte le forme politiche del cattolicismo nel medio evo erano state
abbandonate da Roma dopo la più accanita difesa senza che
coloro stessi, che li oppugnavano, credessero di uscire dal
cattolicismo. E Roma non aveva osato ostinarsi nella contraria
teorica. Invincibile nelle polemiche, aveva sempre creduto alle
resistenze popolari contro i suoi privilegi mondani. Le discussioni
filosofiche presto o tardi andavano a percuotere in un dogma
incrollabile sfracellandovisi, e Roma allora le designava al mondo
con una condanna: l'opposizione muta e sorda del popolo contro le
sue esorbitanze di regno o i suoi eccessi di dottrine tendenti a
pareggiare nella necessità della salvezza i precetti
disciplinari ai dogmi fondamentali, l'avevano sempre costretta a
rientrare lentamente in sè medesima.
Bisognava dunque agire invece di discutere, perchè le
polemiche irritano e gli esempi confortano. In quel momento Roma
papale rinnovava tutti gli errori de' suoi molti secoli di storia.
Il papato ricomponendosi il trono sulle rovine della rivoluzione
aveva bisogno della morte di Garibaldi; questi vivo, il popolo si
ricorderebbe sempre della breve repubblica romana guardandone i
triumviri o il generale e li stimerebbe sempre capaci di
ricominciare. L'Austria accorsa in aiuto del papa aveva altrettanto
bisogno di uccidere in essi l'idea della unità italiana. Gli
ultimi casi della guerra si prestavano meravigliosamente a una
fucilazione quasi irresponsabile per il governo; una pattuglia
l'eseguiva, se ne riprovava magari l'uffiziale, premiandolo
secretamente. Le monarchie e i ducati italiani ripristinati, folli
di paura e d'egoismo reazionario, applaudirebbero: il popolo mal
desto dalla rivoluzione, aggirato dalle calunnie, blandito negli
interessi e nelle abitudini lascerebbe compiere il delitto, che una
interpretazione vaticana avrebbe subito chiamato espiazione.
Bisognava che un prete scevro d'intenzioni riformiste e rimasto come
estraneo alla rivoluzione lo impedisse.
Ciò avrebbe significato che Roma aveva torto e che la
dottrina di Cristo non escludeva nessuna libertà. Il
cattolicismo distrigandosi così dal romanismo nella coscienza
del clero avrebbe affermato che il papa infallibile nella
definizione di un dogma era fallace in tutto il resto, e che gli si
doveva magari in certi casi resistere.
Erano idee vecchie, ma erano la stessa rivoluzione tentata invano
dai magni spiriti ribelli e che avrebbe finalmente trionfato contro
la Roma dei papa-re. Salvare Garibaldi non era un votare per la
repubblica romana, che aveva dichiarata la fine del potere
temporale? Garibaldi riassumeva nella propria figura il principio e
la storia della rivoluzione.
Se Don Giovanni avesse potuto salvarlo, Roma non avrebbe osato
condannare.
Don Giovanni era sicuro di ciò; avrebbe potuto essere ucciso
da una pattuglia non colpito da una sentenza. Roma costretta a
contraddirsi dalla religione di Cristo, ecco l'immenso beneficio
religioso che sarebbe derivato al mondo dal supremo beneficio
politico di aver conservato Garibaldi all'Italia.
Così fu.
Dopo parecchi giorni di giri e rigiri per la pineta colle pattuglie
nemiche sempre alle calcagna, Garibaldi si decise per consiglio di
coloro che lo proteggevano ad abbandonarla. Siccome l'unica via era
quella di Toscana, fu scritto a Don Giovanni. Non gli si poteva
indicare il giorno, ma lo si avvertiva di trovarsi dalla sera
all'alba presso la dogana delle Balze. Così la rivoluzione
finiva dopo un lustro circa dove era scoppiata l'insurrezione. Egli
non vi mancò. Tutte le notti andava solo, mutando strada,
armato, a questo appuntamento, dal quale dipendevano le sorti
dell'Italia. Nessuno ne sapeva nulla: le sue abitudini di cacciatore
lo protessero anche questa volta. Erano aspettazioni tremende.
Accovacciato sopra la strada dietro un rialzo, dominandola per
quanto le sue sinuosità glielo permettevano, tendeva gli
occhi e gli orecchi nel buio per distinguere ogni passo. Nella sua
fantasia diventata improvvisamente timida si componevano e svanivano
mille scene drammatiche: Garibaldi non poteva giungere al confine,
lo avevano già arrestato nella pineta, lo inseguivano lungo
la strada, lo raggiungevano tempestando; Garibaldi inerme non
tentava nemmeno di fuggire.... Era preso!
Più spesso gli sembrava di distinguere nel buio la sua
fisonomia in tutti coloro che passavano in biroccino. Quando i
doganieri entravano o uscivano dalla dogana per disporre un agguato
ai contrabbandieri, gli pareva che guardassero nella tenebra contro
di lui e sorridessero. Anch'essi sapevano che aspettava Garibaldi! E
allora le sue mani stringevano convulsamente la carabina, mentre
tutti i muscoli gli si tendevano per un balzo improvviso. Gli
sembrava che Garibaldi sorgesse in quel momento alla svolta della
strada.... e allora egli gli saltava incontro gridando:
- Fuggite, basto io a trattenerli.
Se quelle notti fossero state molte, la sua ragione ne avrebbe
sofferto. Ma l'appuntamento venne mutato; era stata scelta la strada
di Ravenna per la Coccolia e Forlì. La notte del 20 agosto
Don Giovanni, avvisato, si recò in cima al monte di Trebbio,
che divide Modigliana da Dovadola: pioveva dirottamente. Giunse
Garibaldi in carrettino; Don Giovanni uscì dal nascondiglio,
il cuore gli batteva da scoppiare. Non aveva riconosciuto il
Generale perchè non lo conosceva, ma lo aveva sentito. La
strada e la notte erano deserte: nè un baleno, nè una
voce.
Garibaldi già disceso aiutava un compagno.
- Sono io, disse Don Giovanni.
- Sono io, rispose Garibaldi.
Tutto era detto.
- Andiamo?
- Il mio compagno è ferito e non può camminare,
soggiunse Garibaldi con voce calma.
Don Giovanni, che aveva riacquistato tutta l'energia della propria
natura nel pericolo di quel momento, ebbe un impeto che frenò
a stento. Che importava del compagno?
La strada era pericolosa, da un istante all'altro si poteva essere
sorpresi. Perchè imbarazzarsi di un soldato? Egli, Don
Giovanni, andrebbe avanti: al primo incontro ripiegherebbe; se
fossero gendarmi direbbe a Garibaldi di fuggire e resterebbe a
divertirli facendo fuoco. Perchè un compagno? mormorava nel
proprio pensiero.
- Bisogna trovare una vettura.
La voce del generale era dolce ma imperiosa. Don Giovanni
ubbidì; proseguirono essi a piedi, il ferito sul carrettino
che li aveva condotti. Lungo la strada abitava un altro parroco,
amico e congiunto di Don Giovanni; questi batte all'uscio, lo fa
alzare, gli domanda cavallo e carrettino. L'altro acconsente. Don
Giovanni fa guidare al garzone di casa, tanto per aver qualcuno da
ricondurre il cavallo; giungono al Marzeno. Il temporale ha mutato
il fiume pacifico in furioso torrente.
Don Giovanni rimanda garzone e cavallo.
La notte era fosca, il fiume ruggiva. Allora Don Giovanni si offerse
e impose a Garibaldi e al suo compagno di montargli sulla schiena:
egli si sarebbe lanciato a nuoto portandoli così sull'altra
riva. Era talmente sicuro di sè che non si spogliò
nemmeno. Garibaldi titubava. Marinaio, gli sembrava ridicolo guadare
un fiume sulle spalle di un altro uomo. Ma in quel momento Don
Giovanni, che avendo deposto il capitano Leggero sull'altra riva
ritornava per prendere Garibaldi, gli disse colla voce ferma di chi
sa di essere l'arbitro della situazione, presentandogli le spalle:
- Montate; Generale, voi conoscete il mare, ma io conosco il mio
fiume.
Garibaldi comprese la semplicità eroica dell'invito e si
arrese. Quando toccarono la sponda Don Giovanni trasse un forte
respiro, e cercando la mano del Generale gli disse con voce
tremante:
- Grazie!
Passato il pericolo l'emozione lo vinceva. Ma fu un attimo; si
abbassò, afferrò robustamente il ferito disteso
sull'erba, se lo caricò sulle spalle e, accennando a
Garibaldi di seguirlo per un sentiero tortuoso e dirupato,
guadagnò l'orto della propria casa e furono al sicuro.
La grande azione della sua vita era compiuta, tutto il resto ne
discese.
Perchè raccontare la vita degli otto giorni che Garibaldi
passò nella sua casa? Quello che dissero e quello che
sognarono per l'Italia? Don Giovanni nella forte modestia della
propria natura non se ne aperse con alcuno; quello solo che poterono
poscia indovinare gli amici fu che Garibaldi temeva per Don
Giovanni, e questi per Garibaldi. Perchè il Papa re di Roma,
che faceva fucilare a Rovigo l'eroico Ciceruacchio e Ugo Bassi a
Bologna, non avrebbe inferocito su Don Giovanni?
Una grande ragione v'era che Garibaldi in quel momento non capiva.
Dopo otto giorni, combinati accordi con altri patrioti, Garibaldi
sempre guidato da Don Giovanni, prese l'Appennino, giunse a
Palazzuolo, e per Pietramala, le Filigare e Prato potè
arrivare a Talamone.
Al momento di partire da Modigliana, il più ricco possidente
del paese, certo Papiani, l'unico che Don Giovanni avesse messo
nella confidenza di quella perigliosa ospitalità, offerse
timidamente a Garibaldi tutto il denaro della propria cassa. Questi
gli strinse la mano e rifiutò cortese, ma austero.
L'altro insisteva; Don Giovanni, che sapeva il Generale senza un
soldo e che non ne aveva neppure egli per imporglieli col diritto
dell'amico, che gli salvava la vita, sorrideva.
Garibaldi mantenne il rifiuto.
Partirono in una notte cupa; sempre pei monti giunsero sopra la
Badia di Susinanna, antico feudo del celebre Maghinardo.
Erano sfiniti. Don Giovanni vi conosceva un mulattiere, che abitava
presso il mulino, e pensò di svegliarlo per chiedergli i
muli. Nascose i due compagni in una fratta e avanzandosi sotto la
casa lanciò un sasso alla finestra del mulattiere.
I monti neri nella notte, appena divisi dal fiume, parevano
più sinistri in quella gola; l'acqua mormorava sotto il ponte
con lamento continuo.
La finestra si aperse.
- Chi va là?
- Sono io, Don Giovanni di Modigliana.
- Oh! che c'è?
- Scendi.
- Che c'è? Vengo subito: come mai lei qui? vengo, ecco!
E si sentiva il mulattiere meravigliato di quella visita parlare ad
alta voce nella camera vestendosi.
Poco dopo aperse l'uscio di casa; teneva una lanterna in mano.
Don Giovanni vi soffiò sopra.
- Che c'è?
- Sono io, zitto! Hai i muli a casa, Pio Nono?
Era questo il soprannome del mulattiere, e ricordandoselo Don
Giovanni sorrise.
- Ne ho uno solo.
- Basterà: mettigli il basto, debbo andare a Palazzuolo. Ho
meco due signori, sono stanchi. Che cosa vuoi?! non conoscono la
montagna.
- Già, signori di città... ci vuole altro per i nostri
monti. Lei, viene da Modigliana?
- Sì.
- Entri, sarà stanco, mi faccia l'onore... Ecco, veda; ho
ancora in casa due fiaschi. Ma perchè mi ha spento il lume?
scoppiò improvvisamente a dire.
- Via via, fa presto; non entro. Ho lasciato quei signori, vado a
trovarli. Metti il basto al mulo e sali sulla strada: noi vi saremo.
Lo lasciò.
Dopo cinque minuti Pio Nono apparve sulla strada tenendo il mulo per
la briglia: la bestia s'arrampicava con passo violento, si sentivano
i suoi ferri battere contro i ciottoli.
- Ohè, piano! urlava Pio Nono, rattenendola per la catena.
La bestia era impetuosa, nera e piccola. Pio Nono ansava.
- Ecco! esclamò scorgendo il gruppo dei signori. È un
mulo troppo vivo, e lo frenava con visibile sforzo, mentre colla
voce sembrava incoraggiarlo, superbo di quella sua vivacità.
I tre parlamentarono; il capitano Leggero dovette inforcare il mulo.
- Io vado innanzi, disse Don Giovanni a Pio Nono traendolo in
disparte mentre teneva sempre la catena del capezzone nella mano, e
il mulo impaziente scalpitava sbuffando: lasciami cento o
centocinquanta passi di scampo; se incontro una pattuglia...
- Ah! - esclamò soffocatamente Pio Nono.
- Hai capito! Io torno addietro, tu caccia il mulo nel bosco, nel
campo, nascondilo o, se non è possibile, ripara i due. Io
fischierò, in una stretta faccio fuoco.
- Oh!
- Non hai paura tu?
Pio Nono non rispose.
- Siamo intesi?
- Ma chi sono?
- Umh! E Don Giovanni si mise l'indice sulla bocca; si trasse il
fucile dalla spalla, l'armò.
- Vado innanzi, siamo intesi.
Don Giovanni si perdette alla prima svolta del sentiero.
Pio Nono era rimasto pensieroso. Amico di Don Giovanni e
conoscendone le azioni, pensò tosto che quei due signori
fossero due banditi, come si diceva nel linguaggio del popolo, ma
importanti. V'era dunque un pericolo serio ad accompagnarli.
Ma Pio Nono era naturalmente coraggioso. I due tacevano; quello a
piedi camminava alla testa del mulo. Pio Nono colla catena del
capezzone nelle due mani stava indietro il più possibile e si
faceva quasi trascinare per moderare l'andatura della bestia.
Pensava fra sè inquieto:
- Piano, Garibaldi! gridò improvvisamente.
I due si voltarono.
- Garibaldi! ripetè Pio Nono dando uno strappone al mulo.
Garibaldi gli si avvicinò.
- Che cosa c'è? Mi avete chiamato?
- Chiamato? Che! È il mulo che non vuole andar piano. Don
Giovanni mi ha pure detto di andare adagio. È il mulo, sa; ha
quattr'anni, è troppo ardente. L'ho comprato due anni fa a
Scaricalasino. Era grande come un porco, ma bello veh! Me lo sono
fatto io. Gli ho messo sul groppone sino a due balle da quattrocento
libbre l'una; pare una bugia a dirlo. E sa come me lo hanno
battezzato? Indovini? ma già, ha sentito come lo chiamo; gli
dicono Garibaldi.
- Ah! Garibaldi sorrise voltandosi al capitano Leggero.
- Da quanto tempo, questi domandò, chiamate così il
vostro mulo?
- Oh! non è molto, da quando è incominciata la
rivoluzione. Garibaldi è il migliore soldato, e il mio mulo
è il miglior di tutti: non è vero tu, Garibaldi?
Si voltò alla bestia, scuotendo la catena. Il mulo
s'impennò quasi.
- Piano, piano: vuoi proprio fare il Garibaldi? E dopo una pausa:
Anche lui chi sa dov'è, poveraccio!
L'accento di quest'ultima frase era così buono che Garibaldi
commosso gli tese la mano.
- Che cosa vuole? rispose Pio Nono imbarazzato da quel gesto.
- Garibaldi sono io: vi stringo la mano, non posso ringraziarvi
altrimenti.
E la voce e l'attitudine del Generale furono così epicamente
semplici, che l'altro comprese di botto: e abbacinato, più
incerto ancora dopo aver compreso, tremante di un sentimento
inesplicabile allora e che neppure in seguito è mai riuscito
a spiegarsi, lasciò sfuggirsi la catena.
- Eh via! Pio Nono, seguitò allegramente il Generale: non
c'è da ridere piuttosto?
In quel momento riapparve Don Giovanni.
- Niente? gli domandò il capitano Leggero.
- Che c'è?
- Don Giovanni! esclamò ancora attonito il mulattiere:
è lui Garibaldi, non il mio mulo.
Don Giovanni comprese che Garibaldi si era nuovamente scoperto e
voltandoglisi bruscamente:
- Ma Generale...
- Oh! questo Pio Nono non è come quell'altro, non
tradirà.
Vent'anni dopo Pio Nono mi raccontava in una bettola di Palazzuolo
il grande aneddoto della sua vita.
- E il mulo? gli chiesi.
- Di quelli non ne ho avuti più.
- Come Garibaldi.
- Con tutto il rispetto di lei e di lui, già!
Ora Pio Nono dev'essere molto vecchio, ma siccome fa ancora il
carbonaio e la fuliggine dei sacchi gli tinge barba e capelli,
è impossibile indovinare quanti anni abbia.<
IV.
Appena salvato Garibaldi, l'opera di Don Giovanni fu conosciuta da
tutti: non ch'egli la dicesse, ma coloro che avevano preso parte
all'ultima fuga da Modigliana per l'Appennino, di confidenza in
confidenza la propalarono. Il vescovado ne venne istrutto e ne
scrisse alla Curia fiorentina: di là il quesito andò a
Roma, e non vi si risolse. Perchè? Le ragioni furono molte,
ma non ne fu detta alcuna; accennarle sarebbe stato un accettare
pubblicamente il problema posto dai fatti, impegnandosi a
sentenziare.
Il Papa appena di ritorno da Gaeta aveva stabilito una commissione
di tre Cardinali colle maggiori attribuzioni politiche. Una reazione
più minacciosa che tremenda incominciò quindi per
tutte le provincie papaline ancora esercitate dalle ultime
convulsioni rivoluzionarie. S'imprigionava per denuncia di adepti
senza vagliare nè discutere: scarse le condanne, ma
insoffribili le vessazioni; tutto e tutti erano minacciati. I preti
gongolanti dalla gioia dopo gli spaventi della rivoluzione
infierivano; le superstizioni compresse scoppiavano quasi collo
stesso impeto della rivolta liberale, mentre le lotte fratricide dei
partiti sembravano preparare un'altra guerra civile fra il lutto
delle famiglie orbate dalla guerra e lo sgomento del popolo incapace
di capire cosa alcuna attraverso affermazioni egualmente assolute di
libertà e di dispotismo. Roma, fatta proclive alla satira
dallo stesso scetticismo che la prostrava, chiamò la
commissione dei Cardinali triunvirato rosso della porpora, che
nullameno si bagnò di sangue.
Il papato si riaffermava come regno. Nulla della rivoluzione, che lo
aveva rovesciato prima per sopprimerlo poi con un decreto di popolo
unico nella storia, doveva durare; la rivoluzione ispirata da Satana
come idea si era politicamente esplicata nella più ignobile e
ladra delle anarchie. Così almeno dicevano i diarii cattolici
di allora. Ma coll'istinto del popolo, che aveva veduto la
rivoluzione riassunta nella testa di Mazzini e nel cuore di
Garibaldi, il papato concentrava i propri attacchi nelle loro due
figure, mentre tutti i suoi predicatori tuonavano dal pulpito e il
Padre Bresciani, estremo dei gesuiti letterati, preparava nell'ombra
le serie dei propri libelli romantici, destinati all'infamia di una
celebrità pari alla ribalderia delle intenzioni e alla
goffaggine dell'arte.
La reazione europea secondava la reazione papale fra la guerra
fratricida dei rivoluzionari, che rendeva quasi credibili se non
accette le violente affermazioni dell'autorità regia e
papale.
Una corrente di odio alimentata dagl'interessi lesi durante la
rivoluzione, e rinvigorita dalla nuova persecuzione, sollevava le
masse inconscie contro la borghesia liberale; l'aristocrazia
minacciata dai principii più che dalle leggi rivoluzionarie
s'appoggiava alla plebe, e il clero proteggendo i privilegi dell'una
e l'ozio dell'altra, solleticava tutte le passioni per servirsene
contro l'entusiasmo generoso, che la tragedia della sconfitta
sembrava aver accresciuto nella miglior parte del popolo.
Ma troppo logico e spietato per perdonare nemmeno sè stesso,
il clero aveva fatto fucilare a Bologna Ugo Bassi, usando colla
solita ipocrisia di regno una pattuglia di tedeschi.
Ugo Bassi, debole e nervosa anima di poeta, aveva predicato prima
della rivoluzione e si era quindi battuto eroicamente in molte delle
sue battaglie, ma frate e suddito pontificio doveva essere
doppiamente inviolabile pei tedeschi alleati del papa. Nullameno, lo
si volle da loro fucilato.
Era dunque una rappresaglia contro la rivoluzione già morta,
una nuova fase di guerra a esterminio.
Ma poichè il numero di un popolo è sempre superiore a
ogni smania omicida di tirannia, e nella presente civiltà non
è nemmeno più permessa la decimazione di un villaggio,
la persecuzione si accaniva contro i capi più illustri per
grado o per ingegno, comprando contro di essi accuse di tradimento
verso la rivoluzione, e cercando contemporaneamente di coglierli
prigioni. Senonchè la maggior parte di essi avevano esulato o
esulavano protetti dal popolo, che diffidente degli stessi governi
cui sosteneva, simpatizzava con loro banditi e proscritti. Questo
sentimento ostile del popolo alla legge, e che oggi dopo tanta
libertà di costumi e di ordini non accenna a scemare, basta
di per sè a qualificare i governi che lo hanno prodotto nella
sua coscienza.
L'odio più vivo del papato era naturalmente a Garibaldi,
maggiore di Mazzini nella coscienza popolare dopo il terribile
dramma della ritirata da Roma. Vinto ed ucciso, la riprovazione
religiosa, che colpiva la repubblica romana nella coscienza dei
più lo avrebbe pareggiato a tutti gli eroi di quell'assedio;
non vinto e vivo e in salvo grandeggiava sul disastro di Roma e
pareva promettere al mondo una rivincita. Nessun delitto era quindi
peggiore dell'averlo salvato. Garibaldi era la negazione di Roma
papale.
Colpirlo nell'idea che incarnava, mostrandosi onniveggente ed
implacabile contro coloro che l'avevano in lui aiutata, doveva
essere necessariamente il programma di Roma. Gli uomini d'arme che
avevano accompagnato Garibaldi dall'America, i politicanti che lo
seguivano ora nell'esilio, non erano per lei colpevoli che a mezzo,
giacchè negando tutte le religioni, la loro negazione di Roma
perdeva ogni valore nella falsità del loro ateismo. Forse,
anzi senza forse, Roma guadagnava alla loro guerra.
I nemici veri, quelli che occorreva ad ogni modo distruggere, erano
i nuovi cattolici o i vecchi cristiani che dichiarando incompatibile
colla religione di Cristo l'attuale costituzione pontificia,
intendevano a rimutarla nella teorica e nella pratica: Roma papale
non poteva perire che per opera loro.
La fucilazione di Ugo Bassi era quindi stata una dichiarazione di
guerra.
Ma Don Giovanni aveva nuociuto al Papa bene altrimenti del
barnabita.
Bisognava quindi arrestarlo e condannarlo. Difficoltà non se
ne sarebbero incontrate. Il governo del Granduca, che aveva
consegnato Renzi e cercato di consegnare Gavazzi al principio della
rivoluzione, questa prostrata, e sostenuto dagli Austriaci,
acconsentirebbe di buon grado ad abbandonare in Don Giovanni un
suddito altrettanto nocivo nel passato che pericoloso per
l'avvenire. Lo stesso abito sacerdotale della vittima avrebbe reso
più facile il sacrificio. Pio IX avrebbe potuto come Papa
chiamarlo a Roma e trattenervelo come Re. Nessuno avrebbe
protestato.
Ma anzitutto premeva impedirgli ogni esercizio del culto. Il popolo,
che lo sapeva salvatore di Garibaldi, doveva riconoscerlo quanto
prima per uno scomunicato da Roma sotto pena di credere che Don
Giovanni avesse fatto bene a salvare Garibaldi e che questi avesse
ragione togliendo al Pontefice ogni diritto politico. Nulla è
più sicuro ed inflessibile del buon senso popolare. Se il
Papa non condannava coloro che avevano aiutato Garibaldi a cacciarlo
da Roma e a dichiararlo decaduto dal trono, abdicava alla propria
sovranità: se un semplice prete poteva contraddirla, tenendo
per la rivoluzione contro il Papa senza venir meno ai propri
principii o alterare il proprio carattere, non era vero che la
rivoluzione, opera del diavolo, fosse nata e vissuta nell'errore.
Il clero lo aveva troppo affermato per riparare adesso dietro una
distinzione scolastica o una riflessione politica. L'anima popolare
violentata da troppi dubbi esigeva una soluzione netta; forse ai
più era indifferente che Don Giovanni rimanesse libero o
finisse come Ugo Bassi, ma qualunque incertezza da parte del
Pontefice, allora sostenuto da tutte le nazioni europee, sarebbe
sembrata una confessione di torto.
Le fucilazioni di Ugo Bassi e di Ciceruacchio eseguite dai tedeschi
potevano ipocritamente spiegarsi come ultimi fatti di guerra
dolorosi, ma impossibili a impedirsi dal Pontefice nel trambusto di
un ritorno angustiato da troppe occupazioni straniere. Se la sua
regia autorità ne restava compromessa, il suo carattere di
alleato all'Austria attenuava l'impressione di un'ingiuria solamente
formale.
Con Don Giovanni non era così.
Egli non aveva predicato, non prese le armi, giacchè
l'impresa delle Balze era passata inosservata, non capitanato
insurrezioni di piazza, non scritto, non affermato eresie. La sua
condotta era esemplare, la sua opera patriottica da tutti conosciuta
ed apprezzata. Non un grido era sfuggito alla sua coscienza di
cattolico contro il Pontefice come capo supremo della Chiesa, ma non
una preghiera era salita dalle sue labbra per il Papa re di Roma.
Non si ostentava, non si nascondeva. Tutto il suo passato parlava
per lui, i suoi sentimenti rivelavano le sue idee, le sue parole
erano calme come la sua coscienza, limpide come la sua vita.
Appena salvato Garibaldi ne aveva ringraziato Dio con una Messa: la
sua benedizione di quel giorno ai pochi popolani che vi assistevano,
aveva raggiunto il grande fuggiasco forse in atto di salpare da
Talamone.
Che i venti e le acque ti sieno propizie!
Da Roma, da tutte le altre chiese invece salivano invocazioni a Dio
per il trionfo del Pontefice e l'esterminio dei suoi nemici.
Il popolo era perplesso.
Don Giovanni aveva conciliato in sè medesimo con un processo
lento ed inconscio quanto si contraddiceva tempestando nell'anima
del popolo. La formula cercata indarno dai grandi filosofi cristiani
per accordare la libertà del pensiero coll'assolutismo della
religione, e la tradizione di Roma colla universalità della
storia, egli l'aveva trovata nella semplicità della propria
coscienza tutta piena di una idea morale, che riuniva dominandole
l'idea metafisica e l'idea storica. Senza saperlo, Don Giovanni
riduceva tutta la religione a una moralità illuminata dalla
rivelazione e sorvegliata da Dio; le forme esistenti della religione
non lo disturbavano e non lo esaltavano; potevano durare o cessare,
nate pel costume e nel costume viventi: Dio e la religione non erano
lì, ma potevano anche esservi, perchè nessuna forma
era loro necessaria o nociva.
Il popolo, che voleva credere sicuro e sentendo le forme della
propria religione ormai vuote si ricusava nullameno a mutarle, era
tutto riassunto in questa coscienza di prete, che accordava la fede
più salda in Dio alla indifferenza più abitudinaria e
indulgente del culto, l'amore di ogni tradizione religiosa colla
passione di tutti i nuovi ideali politici.
Salvando Garibaldi legittimo difensore della repubblica romana
contro tutta l'Europa, non aveva rinunciato a salvare Pio IX, se la
rivoluzione invece di sopprimere in lui il re avesse voluto
degradare il pontefice.
E il popolo, che sentiva confusamente tutto questo, guardava a Don
Giovanni aspettando in lui la soluzione del proprio problema.
Che cosa direbbe Roma?
Roma tacque.
Certo in Vaticano il problema fu lungamente discusso; i più
feroci ultramontani avrebbero voluto l'imprigionamento e la condanna
di Don Giovanni, ma la maggioranza dei consiglieri più
profonda e più abile vi si ricusò.
Don Giovanni non si poteva accusare. Nella sua come nella coscienza
del popolo l'aver salvato Garibaldi implicava negazione del potere
temporale, e nullameno era impossibile formulare l'accusa sopra
questo fatto, che morale e religione assolvevano. Garibaldi vinto
diventava sacro come nemico, e quel prete abbastanza grande di cuore
per capirlo avrebbe avuto Cristo a difenderlo contro tutti coloro
che volessero rimproverarglielo(8). Roma, che aveva fatto decretare
nel Concilio di Trento l'anatema a tutti coloro che non credessero
alla necessità del potere temporale per la Chiesa, si trovava
nella impossibilità di applicare la condanna: la
contraddizione fra l'idea cristiana e lo spirito del papato
l'impediva. La morte di Garibaldi, legittima nel concetto politico
di Roma, diventava colpevole nella morale del Vangelo, secondo la
quale il nemico deve essere più diletto del fratello;
assurda, quando impedita dall'opera di un qualunque salvatore, si
volesse astrattamente ottenerla nella condanna di questo.
Si poteva chiedere a Don Giovanni, se proteggendo la fuga di
Garibaldi distruggitore del papato avesse inteso di approvarlo, ma
Don Giovanni avrebbe risposto di sì, e allora il problema si
complicava. O Roma gli permetteva questo dissenso, e Garibaldi aveva
ragione; o glielo negava e la morte invocata contro di lui, inflitta
a Ciceruacchio e a Ugo Bassi, doveva colpire Don Giovanni. Se il
potere temporale è necessario alla Chiesa, questa deve
conservarlo a qualunque costo, perchè nulla per una religione
vale quanto sè medesima.
Ma il supplizio di un prete, docile a tutti gl'insegnamenti
cristiani e mondo d'eresie, diventava pericoloso. Tutto il popolo,
che non aveva potuto seguire i filosofi riformatori del
cattolicismo, sarebbe stato con lui; bisognava anatemizzare la
maggior parte dei cattolici e tener duro e ricusar loro l'ingresso
nelle chiese, dannarli nell'agonia se non mutavano opinione. Era
impossibile. Il potere temporale, forma storica del cristianesimo,
non poteva prevalere sui dogmi essenziali; nessuna coscienza
cristiana accetterebbe di non essere più tale solo per non
credere alla sovranità politica del Pontefice. Già
Roma aveva più volte tentato simili esperimenti e v'era
sempre fallita. A ogni privilegio mondano annullato dai governi,
aveva protestato scomunicandoli, ma il privilegio non era risorto e
Roma aveva ritirato le scomuniche. Così era accaduto per le
immunità, per le investiture, per le decime e ultimamente
nell'impero napoleonico per la vendita dei beni ecclesiastici; i
compratori erano stati maledetti, ma il congresso di Vienna aveva
mantenuto le vendite e Roma aveva cassato le maledizioni.
L'idea cristiana era più forte del papato.
Adesso toccava al potere temporale. Uno dei due termini del dilemma
presso a risolversi doveva rompersi: i vangeli sarebbero stati
più forti delle costituzioni ecclesiastiche. Roma lo
sentì, e non osò affrontare Don Giovanni e non
potè circuirlo. L'ignoranza del prete montanaro giovò
più dell'eloquenza del Lammenais e della filosofia del
Gioberti.
Poichè le religioni sono un pensiero del cuore, uomini
semplici le fondarono e le salvarono nelle mutazioni della storia,
mentre i grandi filosofi non riuscirono mai nè a stabilirle
nè ad abbatterle. Il popolo solo, che le produce in sè
stesso, è infallibile decidendo sovra qualche loro punto, ma
il popolo aveva da un pezzo abbandonato il papa nella sua querela di
re. La stessa fuga di Pio IX da Roma al primo pericolo di guerra era
stata una abdicazione, giacchè i re non possono fuggire se
prima i sudditi non li abbiano disertati. Egli medesimo non credeva
quindi al potere temporale appellandosi agli stranieri piuttosto che
al popolo e violando un'altra volta la storia italiana.
Il papa e il re di Roma non erano la stessa persona: una delle due
solamente rappresentava Cristo. I re non rappresentano la nazione
che quando essa lo consenta loro.
La coscienza popolare era così sicura in questa idea, per
quanto si venisse talvolta contraddicendo nell'esprimerla, che
processare Don Giovanni sarebbe stato uno snebbiargliela, provocando
in tutti gli spiriti una vera rivoluzione. Roma si sentì
vinta.
Quest'immenso fatto, alla cui preparazione si erano consumati tanti
secoli, si compieva per opera di un prete semplice ed ignaro. Era il
grano di sabbia della leggenda biblica, pel quale ribaltava il
terribile carro dell'invasore che aveva superato tutti i monti,
guadato tutti i fiumi, corse tutte le pianure, rovesciate le porte
di tutte le città, sfondate le postierle di tutte le
fortezze, prostrate le masse di tutti gli eserciti. Da Arnaldo da
Brescia a Cola di Rienzi, da Marsiglio da Padova a Lorenzo Valla, da
Stefano Porcari a Carnesecchi, da Macchiavelli a Giordano Bruno, da
tutti gl'italiani che avevano combattuto il papato senza pretendere
a una vera riforma religiosa, a tutti gli stranieri che l'avevano
prodotta per sottrarvisi, le grandi anime si erano sempre stremate
in questa lotta senza conseguire la vittoria nemmeno nel trionfo
della ribellione. Il papato restava sempre più alto e
più vasto dell'opera de' suoi nemici. Come l'impero romano,
che i barbari non sarebbero mai riusciti ad abbattere e che il
cristianesimo disciolse, perchè solo un'idea può
sostituire un'idea, il papato aveva resistito a tutti gli assalti
esteriori e a tutti gli schianti interni; la sua unità
gerarchica sostenuta dalla unità ideale del cattolicismo vi
pareva fusa; nessuna guerra lo aveva prostrato, nessun re o popolo
aveva potuto soverchiarlo. Imperatori magnanimi e feroci,
repubbliche inflessibili ed inespugnabili, corruzioni di clero e
depravazioni di costumi, effervescenze ideali e ricomposizioni
storiche, splendidi eroismi d'eresie e irradiazioni universali della
scienza, invettive politiche e assedî filosofici, divisioni di
genti o fusioni di razze, nulla aveva potuto prevalere contro un
regno piccolo come un feudo, che Costantino era accusato di aver
concesso e Carlomagno confermato, e che i sudditi stessi avevano
mille volte sommosso uccidendo i papi. Pareva un decreto di Dio e
non era che una legge della storia. Il pontificato sorreggeva il
papato; il primo forte come il cattolicismo, che solo una religione
più ideale potrà abbattere, giacchè nella
storia il vincitore deve essere sempre maggiore del vinto; il
secondo forte della sua somiglianza col primo, che al mondo pareva
una identità.
Solo uno schietto sentimento cristiano scevro di ogni secondo fine e
inconscio come tutti i sentimenti, che hanno formato e formeranno
sempre la storia, poteva operare nel cattolicismo questa grande
rivoluzione, denunciando la falsità dell'equazione fra
pontificato e papato. Filosofia, scienza, politica, arte, nessuna di
queste immense forze della civiltà, essenzialmente diverse
dalla religione che sola può correggere sè stessa,
avrebbe mai ottenuto simile risultato.
La morte del papato non poteva avvenire che nella forma di un
suicidio, dal quale il pontificato si levasse più sublime sul
cattolicismo.
Questo accadde per opera di Don Giovanni Verità.
Inconsapevole della grandezza che un movimento secolare in lui
accentrava, dopo l'ultima fuga con Garibaldi era ritornato alle
abitudini di prima, cacciatore e contadino. La gente lo guardava con
occhiate di stupefazione senza che egli se ne accorgesse. Non
immaginando nemmeno i pericoli che lo minacciavano, non pensò
mai nè a fuggire nè a schermirsi con qualcuna delle
sue più illustri amicizie. Allora venne crescendo uno strano
confuso affetto per questo prete, che gli altri preti anche
disapprovandolo riverivano e che il popolo delle campagne sentiva
pari a sè nella semplicità della fede, quello delle
città superiore a sè nell'entusiasmo generoso della
rivoluzione. I bambini lo amavano per gli uccelli che gli vedevano
tutte le mattine sospendere nelle gabbie ai chiodi della piccola e
grottesca facciata della sua casa; le donne per la sua forte
ingenuità che sentiva il loro sesso senza turbamento, gli
uomini per la prodigalità, colla quale offriva sempre quanto
aveva, compresa la vita. Egli non si vantava nemmeno nel più
fugace degli atteggiamenti, non raccontava; avrebbe potuto chiedere
tutto a tutti, tanta era la sua influenza, e invece sembrava sempre
aspettare che gli fosse domandato qualche cosa.
Dal cinquanta al cinquantanove le congiure seguitarono nelle Romagne
sempre occupate dai tedeschi per conto del papa, ma la persecuzione
cessò di essere feroce. Pena maggiore divennero la prigionia
e l'esilio. La prima quasi sempre evitabile col secondo.
L'oppressione del governo era tutta morale, e forse per questo
più dolorosa. Pio IX, temperamento femmineo troppo diverso
dal fiero ingegno e dal carattere superbo di Gregorio XVI, non
infellonì che qualche rara volta per suggestione di
consiglieri.
Intanto Don Giovanni seguitò a prestare la propria opera a
tutti i proscritti traducendoli in Toscana, dove il governo
granducale, ignobile ma corrivo, li lasciava vivere o li espelleva
senz'ira. E furono anni febbrili di aspettazione. Il Piemonte
messosi a capo del movimento italiano, quantunque costretto troppo
spesso a contraddirlo perseguitando e calunniando i più
illustri rivoluzionari, infiammava tutte quelle speranze che aveva
tradito nel quarant'otto; mentre il conte di Cavour succeduto al
Gioberti, di lui meno vasto e profondo, ma più pratico di
negozii politici e più pronto all'azione molteplice di un
momento, nel quale si dovevano concordare parlamenti, diplomazia e
insurrezioni, persuadeva al mondo che l'Italia aveva finalmente un
uomo di Stato. Torino era diventata il rifugio dei maggiori emigrati
italiani.
La rivoluzione scoppiò colla guerra. Cavour destreggiandosi
abilmente coi bisogni dinastici di Napoleone III, che doveva
stordire di vittorie la Francia per toglierle di pensare alle
origini infami e alla vita anche più bassa del secondo
impero, lo trasse in Lombardia contro l'Austria. La Francia generosa
ed eroica ripetè dopo settant'anni le glorie del novantasei
contro lo stesso nemico; ma anche questa volta parve che i Bonaparte
non potessero compire l'Italia. E fu bene, giacchè
riconquistata e rimessa a nuovo dall'epica cortesia di un popolo
straniero per quanto fratello, non avrebbe potuto riprendere la
coscienza di sè medesima; mentre abbandonata a mezzo il
cammino, dopo essersi con puerile sgomento lagnata dell'abbandono,
si rivolse a Garibaldi guerreggiante ai piedi delle Alpi, e
Garibaldi corse a Genova, ne salpò, discese in Sicilia,
rivalicò lo stretto, traversò la Calabria verso Napoli
sollevando popoli e sgominando eserciti, cinto da pochi soldati,
raggiante di gloria, sereno come un arcangelo cristiano, terribile
come un eroe di Omero.
Ma Roma e Venezia, la più grande città e la più
marinara repubblica del mondo, mancarono ancora all'Italia.
La guerra sostò.
Don Giovanni cappellano negli eserciti del re d'Italia
ritornò quindi ai propri monti, affermando nell'orgoglio
trionfante della sua vecchia fede italiana, che prima di morire
avrebbe veduta Roma capitale d'Italia. I nuovi moderati, fanatici
ammiratori di Cavour e di Vittorio Emanuele, ne sorrisero,
giacchè il bigottismo appiattato in fondo ai loro cuori li
faceva perfino dubitare del senno di Cavour, il quale non osando
assalire Roma la faceva nullameno dichiarare dal Parlamento, accolto
in Torino, capitale d'Italia.
Chiusa l'epoca delle congiure e posate le armi, Don Giovanni non
lasciò più l'aria serena dei proprii monti che per
recarsi a Torino, dietro invito del Ricasoli, ad impedire che il
dissidio fra Garibaldi e Cavour degenerasse in guerra aperta. La
situazione, già molto grave di per sè, poteva
risolversi funestamente. Garibaldi esasperato dalla cessione della
propria patria alla Francia, punzecchiato da tutte le invidie dei
giornali monarchici inveleniti di una gloria che stentavano a
comprendere, offeso quotidianamente dalle fatali viltà di una
politica parlamentare, che mirava a sminuire la grandezza della sua
opera per ingrandirne la monarchia di Savoia così stretta fra
l'aiuto dei rivoluzionari e dei francesi da soffocarvi quasi, ebbe
uno scoppio formidabile d'indignazione. I suoi garibaldini, che
avevano operato per la patria più di quanto la monarchia di
Savoia avesse fatto per sè medesima accettando l'Italia dalla
rivoluzione, erano dal nuovo governo peggio che obliati, percossi.
Allora egli che, ceduta Napoli a Vittorio Emanuele, era ritornato a
Caprera non trasportando sulla piccola barca, frutto di tanta
conquista, che un sacco di fagiuoli, rientrò in Parlamento
per ripetere con accento più formidabile di Napoleone I il 18
brumaio, a Cavour fatto sicuro dalla sgomenta inesperienza del
Parlamento: Che cosa avete fatto delle mie legioni?!
Quel giorno la nuova monarchia tremò: il lampo dello sguardo
di Garibaldi coperse l'aurea luce della recente corona posta dalla
servile compiacenza dei popoli ancora immaturi alla libertà
sulla fronte di Vittorio Emanuele. La coscienza italiana
sentì uno strappo improvviso e si trovò bagnata di
sangue prima ancora di aver gettato un urlo per rispondere al grido
di Garibaldi.
Allora Cavour, che nel pericolo acuiva la naturale astuzia
dell'ingegno, si ricordò di Don Giovanni Verità e a
mezzo di Ricasoli potè condurlo a Torino per pacificare il
Generale.
Don Giovanni andò, ebbe con Cavour un colloquio, nel quale la
rude franchezza del montanaro umiliò più di una volta
la subdola abilità del diplomatico, ma comprese tosto che la
fortuna d'Italia esigeva da Garibaldi, come supremo sacrificio,
l'olocausto de' suoi soldati ai codardi rancori, alle insaziate
cupidigie delle genti nuove necessarie a sorreggere il governo in
quell'ora, e ricusando con nobile orgoglio le offerte del ministro
promise non già l'opera propria, ma in nome stesso di
Garibaldi, che il Generale si sarebbe un'altra volta sacrificato
sull'altare della patria. Così fu, Don Giovanni
raccontò a Garibaldi il suo abboccamento con Cavour; forse
sospirarono assieme sulla viltà di quell'ora, e l'eroe
abbandonò al re la sorte dei soldati che gli avevano
conquistato più che la metà del regno.
Ma Don Giovanni, incapace per indole e per studi di comprendere i
viluppi del problema nel quale era stato chiamato, conservò
sempre del Cavour una spiacevole impressione. La viltà
parlamentare e l'egoismo monarchico gli si erano soli mostrati nel
grande statista, che pure aveva pianto di rabbia all'annuncio del
trattato di Villafranca.
Quindi nel 1866 l'Italia monarchica fu vinta miseramente sugli
stessi piani, che diciotto anni prima avevano veduto la sconfitta
del Piemonte. La tradizione di Emanuele Filiberto era cessata per
sempre nella casa di Savoia, ma l'astro aspettato vanitosamente da
Carlo Alberto sul suo ultimo e fantastico scudo di re medioevale
brillava sulle alture del Tirolo espugnate da Garibaldi.
Dio e l'Italia erano con lui, vecchio che guidava in carrozza i
volontari della nuova generazione.
La monarchia battuta a Custoza e a Lissa impose tremando al solo
vincitore d'Italia, che retrocedesse; e il vincitore superò
le viltà dell'ordine colla sublime concisione della risposta:
Obbedisco!
Quando Don Giovanni potè leggerla nei giornali pianse.
Garibaldi, come Cesare, aveva vinto sè stesso.
Ma fedele alla propria missione, Garibaldi ritentava nell'autunno
susseguente l'impresa di Aspromonte, a ciò incuorato e
impedito secretamente dal Rattazzi, che nell'audace
profondità di una politica allora maledetta, e oggi ancora
incompresa superava continuandole le più difficili e gloriose
combinazioni del Cavour. Aspromonte era stata l'ode, Mentana fu il
dramma. Papato ed impero francese vi perirono, mentre la monarchia
italiana ne uscì moralmente diminuita. Garibaldi sconfitto
per l'ultima volta vi si trasfigurò in eroe mondiale
eccedendo nella sua lotta col papato le proporzioni di una battaglia
italiana. Napoleone ripetè imperatore l'errore, al quale
aveva troppo cooperato come membro della repubblica, rivelando
nell'agonia dell'impero il secreto delle sue origini ed
affrettandone la catastrofe fra l'odio della coscienza francese e il
disprezzo della coscienza europea; il papato assalito ancora una
volta da Garibaldi non osò chiamare il proprio popolo alle
armi e invocò dalla Francia un aiuto ai mercenari,
confessando così che il suo regno era una soperchieria senza
diritto e senza avvenire. Garibaldi ritirandosi dai campi sanguinosi
di Mentana traversò l'Italia di Vittorio Emanuele silenziosa
ma fremente di sdegno contro il governo. Rattazzi, che con audacia
di genio aveva voluto un attacco contro Roma dalla rivoluzione,
risoluto ad impedirne il trionfo finale che sarebbe stato la morte
della monarchia, calcolando che l'impero francese con questa suprema
difesa del papato libererebbe per sempre l'Italia dal debito del 59,
cadde dal ministero, percosso da tutte le ire, magnanimamente
silenzioso e superbo.
Quella fu la più grande giornata del Parlamento italiano.
Don Giovanni, che nella sua fede in Garibaldi aveva profetato fra
gli amici la presa di Roma colla fine del potere temporale, ne
rimase sconcertato. Egli non capiva, e non capì forse nemmeno
più tardi, che se Garibaldi avesse preso Roma, l'Italia
avrebbe dovuto proclamare subito la repubblica, essendovi tuttavia
immatura per difetto di scienza e di coscienza.
Garibaldi a Mentana aveva tagliato il nodo del papato e dell'impero,
lasciando alla monarchia costituzionale d'Italia, larva incerta di
repubblica, di strapparne i capi tre anni dopo.
Roma e Parigi si liberarono quasi contemporaneamente del papa e
dell'imperatore.
Fu in una notte tiepida e serena che a Modigliano giunse il
telegramma della presa di Roma. Da qualche giorno la campagna era
cominciata, e quantunque il nemico fosse più che spregevole,
il popolo non era senza inquietudine. La tradizione dei disastri
monarchici, quando la monarchia si era battuta colle sole sue forze,
pesava su questa spedizione, che non meritava nemmeno il nome di
guerra. Si raccontavano aneddoti di La Charette generale dei zuavi,
che fedele alla memoria del proprio nome infestava la campagna
romana deludendo e superando i bersaglieri di Lamarmora, e allora
l'anima del popolo si voltava a Garibaldi. Ma questi, che sapeva di
aver ucciso il papato a Mentana, ne abbandonava le spoglie alla
monarchia di Savoia incaricata dalla storia di saldare l'una
all'altra tutte le membra d'Italia. Un'altra più grande idea
occupava il suo spirito. Francia, Italia e Spagna, tutto il vecchio
mondo latino doveva riunirsi per rattenere entro i limiti della
nazionalità l'espansione del mondo tedesco, contrabilanciando
in Europa il dispotismo ancora chissà per quanti anni
necessario al mondo russo per sorgere alla propria unità.
Francia e Italia, congiunte a Solferino, divise a Mentana, dovevano
provare a sè medesime che le loro effimere differenze
dipendevano dagli inevitabili egoismi dei loro governi, non
già dal loro storico ideale. Garibaldi, che aveva perduto per
opera della Francia contro il papato, vinse per lei contro la
Germania a Digione; mentre l'Italia dichiarando al mondo la fine del
papato salutava con Garibaldi una nuova Francia fra le rovine
dell'impero napoleonico e il trionfo momentaneo dell'impero tedesco,
fondatrice della repubblica moderna.
Solferino aveva congiunto le due nazioni, Digione fuse i due popoli.
Era la notte del 20 settembre.
Siccome le notizie arrivavano tardi e contradditorie, tutto il
giorno si era discusso vivamente; si bestemmiava, si scherniva
l'esercito monarchico, che per colpa del suo vizioso organismo a
cento passi dal confine era già rimasto senza viveri. Cadorna
il generale era già condannato, Bixio furioso e furiante
bruciava gli ultimi razzi garibaldini cercando di affrontarsi con La
Charette e minacciando di bombardare il Vaticano. Il popolo, che
sollevatosi unanime aveva spinto il governo su Roma, si agitava
ancora nel medesimo oscuro senso della propria epopea moribonda.
L'ultima onda del canto s'innalzava per frangersi in un supremo
scroscio di battaglia, mentre la monarchia, chiusa nella secolare
prudenza che le aveva permesso di profittare delle virtù e
dei vizii di tutta l'Italia, sembrava restringersi nella
irresponsabilità del proprio alto ufficio, lasciando ai
ministri la cura dell'impresa. E fu errore. Vittorio Emanuele
cavalcante sotto le mura di Roma e penetrante primo dalla breccia di
porta Pia avrebbe giovato nell'anima del popolo alla propria
dinastia più che la stessa conquista di Roma.
Così la monarchia avrebbe sciolto il problema del papato;
invece il millenario problema si disciolse in essa. Il papa morente
e sicuro di risorgere maggiore come pontefice potè guardare
ironicamente il re, che non avrebbe profittato a lungo della sua
morte e non sarebbe certo risorto come presidente di repubblica.
Infatti la morte del papato se produsse per la conquista di Roma un
grande vantaggio alla dinastia, rimase e rimarrà gloria della
sola democrazia; la monarchia, come principio, invece di
avvantaggiarsene ne ammalò per non guarirne forse mai
più, giacchè oggi stesso il Pontefice sovrasta a tutti
i troni d'Europa e colla sicurezza di chi non ha più niente
da perdere offre loro, minacciando, come ultima difesa le proprie
armi spirituali.
Era la notte del 20 settembre; l'ultima gente stava per rincasare.
Improvvisamente giunse la notizia della resa di Roma. Fu uno
scoppio, una vampa. Tutti corsero a casa per comunicare la buona
novella; usci e finestre si aprivano, i dormienti destati di
soprassalto si affacciavano alle vie, bianchi nelle camicie come
fantasmi: si scambiavano parole, erompevano grida.
- Le campane, le campane! urlò una voce; e tosto un gruppo di
giovani si divise per arrivare contemporaneamente alle tre o quattro
chiese della cittaduzza. Molti già usciti formavano
capannelli sulle porte.
- Roma è presa!
- Ah!
- Bene...
- Viva Roma capitale d'Italia!
- Viva!
L'applauso scoppiava da tutti i petti, mentre la gente si stringeva
la mano come rammemorando i giorni angosciosi delle congiure quando
tutto era pericolo, e promettendosi per l'avvenire una vita
più alta e felice. A un tratto da vari punti squillarono le
campane, da una finestra spuntò una bandiera: la notte era
serena, la luna splendeva, un vento tiepido alitava.
Quella bandiera infiammò le fantasie, che le campane
scrollavano coll'impeto disordinato dei loro rintocchi.
Don Giovanni, che rincasato da poco aveva il sonno leggiero dei
cacciatori e dei vecchi, ne fu desto. Discese dal letto, udì
rumore alla propria porta, si gettò addosso i primi abiti che
potè afferrare e corse ad aprire.
- Che c'è? esclamò spalancando l'uscio.
- Don Giovanni! Roma presa...
- Ah!
- Roma presa! urlarono quei giovani.
- Ah...
E il vecchio prete non potè rispondere altro. Le campane
suonavano a distesa come impazzite dalla gioia, tutte le finestre si
schiudevano, la gente si affacciava interrogando, ed era sempre
quella risposta che saliva di tono mutando voce ed accento,
ripercuotendosi su tutte le coscienze, cangiandosi in grido,
scoppiando in urrah, affermandosi violentemente quasi fosse troppo
grande per essere creduta, e tutti si guardavano in faccia commossi
da una gioia che non trovava parole, perchè non abbastanza
limpida negli spiriti. Qualche grande cosa era crollata, qualche
grande cosa incominciava. Le donne sbigottite dal rumore si
mostravano appena alle finestre, più bianche nella maggiore
ampiezza dei corsetti, e ascoltavano non sapendo quasi nulla,
indifferenti alla enormità del caso, ma guadagnate a mano a
mano dalla emozione generale, impallidendo e sorridendo. Qualche
fanciullo cacciava una nota acuta nel frastuono crescente della
strada, voltandosi verso le campane che seguitavano a rispondersi di
campanile in campanile, mentre le chiese restavano tristamente mute
al di sotto e il soffio blando del vento, lambendo le finestre
aperte e gremite, sembrava lenire la violenta caldezza di quella
emozione, che nessuno poteva dominare e alla quale nessuno il giorno
dopo avrebbe saputo trovare una spiegazione.
Don Giovanni aveva rinchiuso quasi automaticamente l'uscio ed era
caduto ginocchioni colle mani giunte ringraziando.
- Roma, Roma!...
La sua preghiera di quel momento era il riassunto di tutta la sua
vita.<
V.
Dopo quella notte, nella quale si era avverato l'ideale di tutta la
sua vita, D. Giovanni si chiuse nella calma silenziosa degli uomini
forti che si sentono finiti. Quanto accadeva intorno a lui nella
nuova Italia non lo interessava più. L'attitudine incerta
della monarchia combattuta da troppe correnti interne ed esterne,
l'agonia del vecchio partito repubblicano, che nella morte di
Mazzini perdeva l'ultima ragione col solo uomo dal quale ripeteva la
vita, l'infanzia oscura e plebeamente bassa del socialismo, al quale
nessun uomo di vero ingegno aveva ancora aderito, e che gittava ogni
tanto per le piazze grida incomposte e bestemmie pazze, gli erano
peggio che indifferenti, sconosciute. Il suo doppio sogno era stato
la risurrezione dell'Italia e la morte del papato politico; al di
là di esso per lui doveva cominciare il sonno eterno.
La generazione, colla quale aveva sofferto combattendo, oramai
dispersa nelle tombe, non era più rappresentata nella vita
che da pochi sbandati, solitari nella politica del momento,
costretti ad occuparsi di quesiti amministrativi o contristati
dagl'insulti della nuova generazione sopraggiunta come un'orda di
saccomanni sui campi di battaglia.
Malgrado le seduzioni dei repubblicani, cui la defezione dei
migliori personaggi assottigliando ogni giorno la vita consigliava
di presentare al popolo in ogni circostanza le poche glorie rimaste,
non volle mai uscire dalla propria oscurità. Cacciatore negli
ultimi autunni della vecchiezza come nei primi della
gioventù, parve anzi sfuggire con senso pauroso di modestia
alla celebrità che lo veniva cercando pei colli di
Modigliana.
Poi Garibaldi morì.
Questa volta Don Giovanni non pianse, perchè se lo aspettava.
La morte, non mai temuta, gli sembrava ora la più ineffabile
delle grazie serbate all'uomo da Dio; d'altronde, anche per lui la
vita fisica dell'individuo, quando la sua missione storica è
compita, perdeva ogni senso e valore.
Solo la raccomandazione suprema dell'eroe, che un minuto prima di
spirare confidava all'amore della famiglia le due capinere da lui
educate nei dolorosi ozii della lunga malattia e che sentendolo
morire gli mandavano dalla finestra, già abbandonata dal
sole, il più dolce saluto della vita, gli trasse sugl'occhi
una lagrima.
Tutta la grande anima di Garibaldi si rivelava in quell'estremo
pensiero.
Solo gl'invitti possono essere così sublimemente delicati!
Quando lo invitarono al comizio di Faenza per la morte del Generale
accettò e discese.
Lo vidi allora per la prima ed ultima volta.
Egli non parlò, non si accorse quasi della generosa emozione
destata dalla sua presenza; morto Garibaldi si sentiva già
moribondo e camminava a testa bassa, quasi contando i passi che lo
avvicinavano al sepolcro. Ritornò frettolosamente ai proprii
colli; di lui si seppe solo qualche anno dopo che era morente.
Ma la sua morte fu come la sua vita.
Il clero che lo aveva sempre dispettato, vendicando sopra di lui la
viltà di non avere osato condannarlo salvatore di Garibaldi,
stimò di poterlo sopraffare nell'agonia; e siccome Don
Giovanni era sempre rimasto prete, molti fra i suoi stessi amici
credettero che avrebbe abiurato le opinioni di tutta la propria vita
per morire sicuramente nella religione cattolica. Così poco
era stato compreso il suo carattere, e per gl'increduli romanismo e
cattolicismo sono ancora la stessa cosa!
Il vescovado fu sossopra. Tutti i giornali d'Italia recavano i
bollettini della salute dell'infermo, il paese era agitato.
Don Giovanni, calmo anche negli ultimi istanti, chiese i sacramenti
e si confessò; ma quando il confessore per concedergli
l'assoluzione gli domandò un'abiura di ciò, ch'egli
chiamava le sue eresie e che, lui sano, la Chiesa non aveva mai
condannato interdicendogli l'esercizio sacerdotale, il suo volto
s'illuminò d'un sorriso.
Forse, anzi senza forse, si aspettava a questo.
Ricusò, umile e fermo.
Gli amici repubblicani, che soppravennero, lo complimentarono colle
solite frasi della incredulità sulla sua fermezza, e Don
Giovanni sorrise ancora. Il suo spirito limpido coglieva
meravigliosamente il doppio egoismo dei due partiti, che si
disputavano la sua morte per farsene argomento di battaglia.
Nullameno sereno ed austero non mise un lamento, non
differenziò le due assistenze, che si contendevano il suo
letto.
Senza dubbio vi furono incidenti dolorosamente comici fra gli
addetti dei due partiti egualmente ammessi nella camera del
moribondo, ma li ignoro, e coloro che vi assistettero non li
confesseranno. Il vescovo rimase inflessibile e ricusò
l'assoluzione; gli altri desideravano una morte da libero pensatore.
Prete e cattolico, Don Giovanni che voleva morire come aveva
vissuto, sentendosi veramente vicino al gran passo, benchè
avesse sempre taciuto operando in vita, comprese il dovere di
parlare. La sua morte come la sua vita dovevano esprimere il
medesimo principio: dettò questa dichiarazione.
/# Modigliana, addì 19 novembre 1885. #/
«Sono nato nella religione di Cristo e in essa desidero e
intendo morire.
«Ho professato le sue massime, come quelle che furono fonte
principale di tanta civiltà. Credo nella vera religione di
Cristo, non in quella che è stata deturpata dal mondo e da'
suoi ministri, che causa delle conseguenze derivate dalla loro
ambizione, prepotenza e crudeltà, hanno fatto versare tanto
sangue al mondo e specialmente alla patria nostra, e Dio nol voglia
che per essi si sparga altro sangue e non ne venga l'estrema rovina
all'Italia.
«Non sarebbe accaduto così, se i ministri della Chiesa
e il loro capo avessero ricordato quei detti di Cristo: - Il mio
regno non è di questa terra: date a Cesare ciò che
è di Cesare.
«Non posso aggiungere altro perchè mi vengono meno le
forze.
«Don Giovanni Verità.
Era sfinito.
Allora accadde una gran cosa: il prete mandato dal vescovado per
ottenere dal moribondo l'abiura, tocco di quella modesta e serena
fermezza, diede senz'altro l'assoluzione. Don Giovanni si
comunicò. La novella si sparse subito nel paese,
cosicchè il confessore appena uscito dalla casa fu
attorniato, complimentato. Il dramma era finito. Al vescovado invece
scoppiavano molte collere, ma poichè non si era osato
processare Don Giovanni all'indomani del salvamento di Garibaldi, e
solo più tardi con meschini pretesti gli si era tolta la
Messa, per ridargliela poco dopo senza alcun accenno alla grande
opera della sua vita, anche il suo confessore non fu scomunicato.
Qualche giorno dopo Don Giovanni moriva e il clero ricusava alla sua
salma gli uffici pietosi della religione. Non si era osato nulla
contro il vivo, si osava troppo contro il morto.
Naturalmente, il partito liberale s'impossessò del cadavere
per farsene argomento di trionfo. Tutta Italia ne fu commossa, i
funerali per concorso di gente e per sincerità di commozione
riescirono quali nessuno, nemmeno fra i più vecchi, ne
ricordava nelle Romagne; il popolo vi fu ammirabile, gli oratori,
secondo il solito, rimasero troppo al di sotto dell'idea e del fatto
che dovevano esprimere.
Quindi si fece silenzio.
I giornali non si occuparono più oltre dell'oscuro prete
romagnuolo, che aveva avuto tanta parte nel risorgimento italiano:
nessuna rivista, nessun libro, ch'io sappia, ha ancora studiato i
problemi posti e risolti da Don Giovanni nella sua vita. La
semplicità, che è l'ultima forma della verità,
è anche troppo spesso l'ultima ad essere compresa.
Un amico, al quale l'ho richiesta, mi ha portato l'originale della
dichiarazione di Don Giovanni. Molti spiriti forti di quella mezza
coltura che fa disprezzare tutto permettendo di parlare su tutto,
avranno sorriso leggendola; infatti la sua forma letteraria è
meno che meschina, il suo contenuto filosofico piuttosto volgare. Io
stesso al primo tempo non sono riuscito a difendermi da un sottile
senso di scherno che si è poi mutato in ammirazione studiando
e ricostruendo tutta l'eroica e semplice vita di Don Giovanni.
Queste pagine che, ammalato per causa sua, scrivo di lui, a letto,
senza dormire e senza muovermi da una positura che mi toglie spesso
di seguitare a scrivere, sono ben lungi dall'essere uno studio
storico e psicologico; appena appena vi ho fissato le idee
principali senza nemmeno coordinarle in un disegno, che riveli la
loro natura intima e i loro più necessari rapporti.
Divagazioni di malato, che cerca nell'attività del pensiero
l'oblio di dolori fisici, avranno forse un giorno più alto
valore biografico per chi voglia occuparsi dello scrittore che non
siano oggi una biografia di Don Giovanni.
Divaghiamo, divaghiamo!
In quel dubbio supremo della sua dichiarazione «che il papa
possa ancora riuscire fatale all'Italia insanguinandola in una
guerra forse più civile che straniera» Don Giovanni ha
egli inteso di alludere ai tentativi di conciliazione col Vaticano,
che incominciati colla stessa rivoluzione l'hanno sempre
accompagnata di tappa in tappa, insidiandone la sincerità
dell'opera quando non riuscirono a infirmarne il movimento?
Per coloro, che conoscono tutta la sua vita, il dubbio non è
nemmeno possibile, ma senza dubbio egli non ebbe un'idea molto
chiara del terribile problema accennato dalle sue ultime parole.
La rivoluzione italiana, conseguenza della grande rivoluzione
francese e sintomo di una maggior rivoluzione futura, ha avuto
contro sè stessa il cattolicismo disciplinato e riassunto da
Roma papale; il popolo che la seguì inconscio come sempre,
era ed è ancora dominato nella coscienza da tutte le idee
cattoliche, che non giunge e non giungerà per lungo tempo a
sceverare dalle idee politiche del Vaticano. L'odio ai preti e il
disprezzo della religione non sono ancora che molto superficiali:
nel sentimento delle masse il matrimonio vero è quello
ecclesiastico, unica religione il cattolicismo; si battezzano
pressochè tutti i bambini, si affidano al clero per la prima
educazione, s'iniziano in tutti i gradi della religione. Si diffida
dei collegi laici, si amano tuttavia i conventi mutati in
educandati; tutte le Madonne e i Santi miracolosi sono più
che mai vivi nella illusione del popolo, un sottinteso scinde tutte
le coscienze: si vuole la libertà della vita pubblica e si
crede ancora nella servitù della vita spirituale. La scienza,
incerta nei metodi, dubbia nei risultati, contradditoria nelle
affermazioni, rimane in alto, retaggio e culto di pochi: la
filosofia è quasi sconosciuta, la letteratura disertata dai
campi dell'ideale per una irreflessiva passione scientifica non
è più che pittura di superficie. La rivoluzione nata e
vissuta d'istinto non si è ancora mutata in riflessione. La
maggior parte di coloro che l'hanno sostenuta, morendo la
sconfessano, onde i preti se ne vantano affermando che la sua
verità non resiste in faccia alla morte.
Il sogno esposto da pochi, accarezzato da quasi tutti è di
una conciliazione, che accordando la coscienza religiosa colla
coscienza politica induca quella calma, che altri secoli hanno
conosciuto.
L'ideale ultramondano, troppo spesso negato dalla rivoluzione,
invincibile in fondo a tutte le coscienze offusca e sminuisce
gl'ideali politici già intorbidati da interessi non sempre
nè grandi nè puri: l'uomo non vuole e non vorrà
mai rinunciare alla immortalità religiosa del proprio
individuo per nessuna felicità storica ottenuta da
spostamento di classi o migliore assisa di ordini. Uno scetticismo
doloroso costringe quindi le coscienze a diffidare di tutte le forme
della vita. La religione cattolica più antica degli istituti
politici che la combattono, incrollabilmente superba
nell'affermazione della propria immortalità, sovrasta a
popoli e a governi, scemando loro colle condanne e colle ironie la
fede già scarsa che hanno in sè stessi.
La rivoluzione non è nemmeno arrivata alla conquista della
propria forma necessaria. Solo la Francia, che l'iniziò prima
in Europa, dopo quasi un secolo di tragiche prove, attraverso
sanguinose ecatombi e rovine economiche è giunta finalmente a
costituirsi in repubblica, ma con così debole maggioranza di
voti e fiacca compagine di sentimenti, che i residui monarchici
possono ancora atterrirla minacciando o rallentarle la vita con
opposizioni parlamentari, mentre gl'informi detriti rivoluzionari,
che non hanno in essa potuto organizzarsi, l'osteggiano avvelenando
le idee delle quali vive.
In Italia invece la rivoluzione, determinata nelle migliori
coscienze da tutta una lunga serie di sviluppi storici,
s'internò nel problema dell'indipendenza nascondendovi per
qualche tempo indole e principii. Mazzini solo non la smarrì
mai di vista e badò a spiegarla, poco inteso da coloro stessi
che lo seguivano, frainteso dai più che non arrivavano a
sbrogliare in sè stessi la contraddizione delle
necessità religiose e politiche, malinteso ipocritamente da
molti, che l'egoismo degl'interessi tendeva a raggruppare intorno
alla forma monarchica parassita della idea rivoluzionaria. La
rivoluzione per sciogliere il proprio problema fondamentale dovette
contraddire al proprio sviluppo sottomettendosi alla monarchia;
Mazzini stesso, che nell'entusiasmo del primo giorno di battaglia
aveva ordinato ai propri fedeli di combattere col Re, riconobbe
vecchio che la monarchia di Savoia entrando in Roma e compiendo
così l'unità d'Italia, vi si assicurava un regno di
qualche generazione. Questa suprema e dolorosa confessione del
grande apostolo rivoluzionario fu raccolta servilmente da tutti i
valletti della monarchia.
Nullameno, la monarchia non potè diventarne più forte.
Anzitutto la mancanza di principio nella sua forma le toglieva di
potersi davvero impadronire di una qualunque corrente di vita.
Uccisa come principio dalla grande rivoluzione francese colla
proclamazione della sovranità popolare, non è rimasta
dopo nei paesi, i quali accolsero l'elettorato politico sulla base
del diritto individuale, che un fatto storico giustificato dallo
squilibrio di coltura e di sentimento nelle classi dello Stato. Le
più colte si mostrarono in gran parte favorevoli alla
monarchia, nella quale potevano più facilmente imperare e
difendere i privilegi sopravvissuti al naufragio della grande
rivoluzione: le più incolte, dominate dall'antica
servilità ed esasperate nel nuovo orgoglio sovrano
quotidianamente deluso dalla loro stessa incapacità,
soggiacquero alla monarchia accarezzando in sè stesse
piuttosto la sua negazione, come sfrenamento da ogni legge che
l'avvento di una vera democrazia, nella quale la legge pura di ogni
influenza di ordini fosse espressione della più astratta
giustizia.
Ma nella monarchia costretta a scimiottare persino le forme
più basse della democrazia, sopravvivevano i ricordi e gli
orgogli del vero tempo monarchico, quando il re solo era la legge e
intorno a lui e con lui i feudatarii mutati in cortigiani
spadroneggiavano. Il clero più alto di principii e più
largo di sistema era allora servo e signore, manipolando, urgendo,
sfruttando monarchia, feudalismo e popolo. Papato ed impero avevano
potuto ferirsi vicendevolmente, ma lo stesso principio faceva la
loro vita e doveva riunirli, quando un altro sorgendo a combattere
minacciasse di relegarli dalla storia.
Carlo Alberto il primo re, che attraverso troppe miserabili
contraddizioni parlava di un'Italia sognandone la conquista, pieno
ancora la fantasia delle forme medioevali e più savoiardo che
italiano, si componeva, come un cavaliero della leggenda, un nuovo
scudo e vi scriveva in francese - J'attends mon bel astre.
Dei tempi nuovi, della nuova coscienza creata dal diritto
elettorale, neppure il più lontano sospetto: lo statuto
largito come generosa concessione di monarca, invece che stabilito
come diritto fondamentale; terrore e odio verso i rivoluzionari, che
parlavano solo dell'Italia; pregiudizi religiosi, inflessibili
vanità aristocratiche, superbie intrattabili di chi si crede
nato d'altro sangue che il comune e si stima eroe acconsentendo
nella rivoluzione, la quale invece è un dovere.
Ma la monarchia, che s'accorgeva di essere senza principio, non
poteva non diffidare della rivoluzione, accarezzandola per giovarsi
delle sue forze.
Il clero, riuscito fino allora ad inimicare democrazia e principato,
vedendoli riuniti momentaneamente sotto la pressione del doppio
problema dell'indipendenza e della unità italiana, si
chiarì nemico per difendere il proprio minimo Stato di Roma,
mentre la nuova monarchia invece seguitava con lui l'abitudine degli
antichi sorrisi.
La guerra coll'Austria scoppiò. L'Italia si riunì con
processo fortunato, sebbene troppo spesso umiliante, e al clero
vennero ritolti la maggior parte dei possessi e dei privilegi. Roma
stessa, abbandonata da Napoleone III nella caduta del secondo
impero, si mutò da capitale cattolica in capitale italiana.
Quindi colla legge delle Guarentigie, che il Parlamento dovette
votare, appena insediato a Roma, per calmare le apprensioni del
mondo cattolico sulla libertà del papa, e che fu la legge
forse più abile e profonda del periodo legislativo oggi
ancora in corso, ricominciarono i tentativi di conciliazione non
più fra Chiesa e Stato, ma fra Papato e Monarchia. Pio IX,
spirito meschino immiserito dalla vecchiaia e dai disastri, li
accolse coll'acrimonia del vinto, cui uno sbaglio del vincitore
presenta il destro di un rimbecco: ma Pio IX e Vittorio Emanuele
morirono e Umberto I e Leone XIII si trovarono di faccia.
Se Vittorio Emanuele entrando in Roma nel 1870 aveva, nella sua
fiacca coscienza di cattolico, sentito il bisogno di scrivere una
lettera quasi di scusa al Papa, rincarando sulla vilezza dei
ministri che si confessavano spinti su Roma dal popolo, scambiando
così per finezza diplomatica la loro insufficenza in uno dei
più grandi momenti della storia universale, Umberto I
nell'assumere il regno, riaffermò contro il papa Roma
intangibile degli Italiani. Questa salda sicurezza di contegno gli
valse subito le simpatie della nazione.
Ma le encicliche del papa, i discorsi ministeriali, certe proposte
di legge respinte e molte leggi interpretate a rovescio; opuscoli,
libri, doni alle chiese, cortesie al pontefice, ingegno preclaro di
politico quanto minuto e falso letterato: una prudente risurrezione
del vecchio guelfismo, tutto accennò ad una conciliazione non
ben definita sulle idee ma troppo chiara nei sentimenti. Il
principato invocava dal papato le sue armi spirituali a guarrentigia
dell'ordine contro le ignobili anarchie della piazza.
E, bisogna pur confessarlo, la maggior parte del pubblico vi era
favorevole. Ruggero Bonghi ne scrisse molti articoli sulla Nuova
Antologia che furono poco letti e meno compresi. Ora la
conciliazione, apparentemente in preda ad una crisi, occupa tutti i
giornali e nello stesso Parlamento ne fu discusso, e un deputato,
guelfo fanatico, si è dimesso dopo la risposta confusa ma
ferma del Ministero.
Nullameno il problema della conciliazione rimane forse il maggiore
della politica interna conservandosi grave nella politica estera.
Esso è doppio. In tutti gli Stati parlamentari, dove il
cattolicismo è religione preponderante, la Chiesa
difendendosi ostinatamente nei privilegi storici perduti è
partito di opposizione, troppo spesso alleato cogli ultimi radicali
per odio implacabile alla libertà e offrendo nel medesimo
tempo ai governi la propria alleanza per conservare quanto le
è rimasto della propria posizione privilegiata. La
conciliazione è allora fra Chiesa e Stato, entrambi basati
sopra un principio assoluto: la Chiesa, che arbitra della vita
ultramondana vuole signoreggiare la presente per indirizzarvela: lo
Stato, che prima e ultima sintesi della vita umana, pretende
contenerne e rattenerne tutte le forme, sottomettendole al suo
diritto universale entro cui ogni singolo diritto può
raggiungere tutti gli sviluppi. Ma questo dissidio per quanto
filosoficamente profondo non è politicamente molto grave,
poichè Chiesa e Stato sotto la minaccia del medesimo
disordine rivoluzionario, possono sempre momentaneamente accordarsi.
Nell'Italia la guerra fra la Chiesa e lo Stato si complica delle
diuturne battaglie fra monarchia e papato. Se il pontefice del
cattolicismo stendendo la propria influenza sopra 'tutto' il mondo a
certe epoche vi pretese una suprema sovranità sui popoli e
sui re, politicamente il suo regno era nullameno circoscritto a
poche provincie intorno a Roma. Il pontefice era universale, il papa
romano. Le necessità di tale piccolo regno dominarono sempre
la politica dei pontefici, costringendoli nelle più bizzarre
e tragiche contraddizioni.
La loro storia fu scritta in un immenso capolavoro dal Ranke, ma
l'antagonismo religioso e politico del pontificato col papato non fu
nettamente analizzato in nessun libro, che io conosca. Se il papato
nel medio evo aveva sottomesso l'Europa aiutandovi la civiltà
malgrado gli eccessi di ogni genere che gli macchiarono la vita,
doveva ultimamente soccombere per opera della rivoluzione italiana,
la quale svolgendosi monarchicamente gli oppose il Principato. Il
papato ucciso dalla repubblica romana del quarantotto fu seppellito
nel settanta dalla monarchia di Savoia. Sul principio i due alleati,
divenuti avversari, ne rimasero come trasognati; quindi il papato,
più antico e più forte, mutando in carcere la reggia
conservata e in catene le guarantigie concessegli, si affermò
prigioniero. Pronto a patteggiare con tutti i governi, non ebbe che
una vera inimicizia: la monarchia italiana.
La sua vecchia abilità di governo gli scoperse subito le
parti deboli del nemico. La monarchia italiana conteneva la
rivoluzione come una coccia o una cuna; ogni giorno che cresceva al
bambino, scemava alla culla, che questi doveva rompere per saggiare
le proprie forze prima di abbandonarla. Tutte le monarchie assorbite
da quella dei Savoia, le avevano legato col regno una pericolosa
eredità di odii e di difetti, mentre la rivoluzione,
conquistandole mezza Italia, le aveva troppo scemata la gloria delle
battaglie e la legittimità dei trionfi. Il popolo italiano
nella sua massa più inerte era meglio cattolico che
monarchico, nella sua minoranza più attiva rivoluzionario
anzichè liberale; le classi, conservatrici per egoismo di
censo e di nome, che avevano abbandonati i vecchi signori pel nuovo
solamente per paura della rivoluzione, non resisterebbero intorno al
re di Piemonte mutato in re d'Italia, quando quella, acquistata la
coscienza di sè medesima e imparate nella opposizione le arti
del governo, piglierebbe la rivincita del cinquantanove.
Queste le analisi e le speranze del Vaticano. I suoi giornali
ripresero quindi la guerra recandovi una superbia d'ironia, alla
quale i conservatori non seppero opporre un'uguale superbia di
regno. La codardia delle frasi diplomatiche usate dal Ministero
andando a Roma dopo Sedan, la lettera umile ed umiliante di Vittorio
Emanuele al papa, che rigettava sulla rivoluzione la conquista di
Roma, diedero ragione al Vaticano. Il suo nemico aveva coscienza
della propria debolezza; temere d'essere vinto è sempre stata
la meta di ogni sconfitta.
Intanto il pontefice, libero dalle angustie del piccolo regno
perduto, cresceva nella estimazione dell'Europa: l'Inghilterra
l'invocava contro gl'Irlandesi e Leone XIII, ripetendo l'infamia di
Gregorio XVI contro i polacchi, colpiva i ribelli cattolici che
ricusavano di morire di fame sotto la tirannia degli inglesi
protestanti; Bismark circuito in Parlamento dai dissidenti cattolici
cessava la persecuzione del Culturkampf accettando il papa arbitro
nella questione delle Caroline, e spaventato dalla nuova floridezza
francese ricomprava da lui un voto del proprio Parlamento per la
ricostituzione dell'esercito vincitore a Sedan: lo Czar, tremante
sotto l'eroismo dei nichilisti morenti a migliaia come i primi
cristiani, si rivolgeva a Roma come al più vecchio focolare
di autorità: la Spagna, scaduta a una vedova di re,
riconfermata regina da un Parlamento che non ha ancora acquistata la
coscienza di sè medesimo, si rifugiava sotto la protezione
del papa ancora arbitro delle coscienze cattoliche ovunque
istintivamente ostili alla rivoluzione.
La monarchia italiana si volse quindi al Vaticano affettando
l'orgoglio rivoluzionario, che in fondo non ebbe mai e fu spesso
costretta a simulare. I suoi più ardenti partigiani
accumularono proposte su proposte negli scritti per saggiare il
terreno prima di presentarle in Parlamento; Ruggero Bonghi al solito
fu il più forte campione del nuovo compromesso, ma il suo
ingegno sempre più largo che vasto, e troppo spesso uso a
scambiare la bassezza per la profondità, fallì anche
questa volta. Il fondo delle sue, come di tutte le altre proposte,
era di rendere al pontefice qualche cosa dell'antico papato,
ricostituendolo parzialmente in modo da permettere alla Santa Sede
di uscire dalla sua ostilità verso la monarchia.
La conciliazione fra Chiesa e Stato, cioè l'accordo della
libertà politica colla autorità religiosa, la
composizione dell'ideale storico coll'ideale divino potrà
essere più o meno difficile o lontana, ma l'aspirarvi e il
tentarla è sentimento di ogni alta coscienza; la
conciliazione fra il papato e la monarchia, fra un morente ed un
morto per combattere la vita, rappresenterebbe la più
profonda negazione d'ogni coscienza civile. La monarchia deve
attingere la legittimità del proprio tempo nei servigi
continui resi alla nazione e che una forma repubblicana più
alta e quindi corrispondente a uno stadio più avanzato di
civiltà o non potrebbe rendere, o peggio ancora renderebbe
impossibili. Alleandosi invece al suo eterno nemico nella speranza
che le induca nel vecchio organismo quella immortalità del
proprio principio religioso che egli stesso non potè
assimilarsi, commetterebbe la maggiore e la più ignobile
delle colpe.
Le monarchie plebiscitarie e rivoluzionarie come l'italiana debbono
saper vivere e morire della propria rivoluzione; forme incomplete
della repubblica, la loro gloria più vera e la
possibilità di maggiore durata stanno nel rendere la
repubblica meno necessaria col più generoso e regolare
servizio di ogni libertà.
I cortigiani della monarchia savoiarda non hanno ancora ben compreso
questa necessità, che re Umberto ha pur mostrato di sentire
in parecchie circostanze della sua ancor giovane vita politica.
Ma se la monarchia si volse istintivamente al Vaticano, questi
addolcendo i termini dell'antico linguaggio tentò con suprema
abilità di adescarla; il suo disegno era semplice quanto
tremendo. Se la monarchia consentiva ad un accordo, che restituisse
al pontificato qualche forma politica del papato distrutto, e
giovandosi della sua influenza sul Parlamento riusciva a farla
passare in una legge dello Stato, la monarchia separandosi
dall'anima nazionale si contrapponeva alla rivoluzione. In questo
caso era subitamente, irreparabilmente perduta. Se il pontificato,
come organo magno del cattolicismo proseguendo la conquista
religiosa del mondo è più o meno in collisione con
tutti i governi; il papato sopravvissuto nel suo spirito non ha
più che un ideale, la distruzione della monarchia, che lo ha
sostituito.
Ma intanto il pontificato, sicuro di non perire che colla propria
religione, si dispone a riordinarla per prepararsi alla grande
battaglia, che la democrazia gli darà nel giorno stesso del
proprio trionfo. Allora il pensiero storico e il pensiero divino,
urtandosi, creeranno la più bella epopea del pensiero umano.
Leone XIII forte della nuova unità monarchica cementata
dall'ultimo dogma della infallibilità, che gli permette un
più rapido e sicuro maneggio di tutte le forze, ha gettato il
primo grido di guerra per riconquistare storia e filosofia: e gli
bisogna riorganizzare le scuole rifondendone gli statuti,
reintegrandone i programmi. Gli ordini monastici necessari a tutte
le religioni non funzionano quasi più. Il monachismo ha due
principii. L'uno passivo, e crea ospedali per tutti i vinti della
vita che vogliono fuggirla senza perderla, per tutti i malati che
inetti a vivere nella storia si rifugiano nell'astrazione divina e
non comunicano più coll'umanità che mediante la
preghiera; talvolta questi ammalati si mutano in infermieri e
guariscono ritornando all'azione colla carità. L'altro
principio è attivo e crea caserme, nelle quali vengono ad
arruolarsi e ad armarsi le legioni necessarie alla conquista del
mondo. Naturalmente, questi due tipi fondamentali del monachismo si
sminuzzano in molte fisonomie, ma in ognuna di esse l'asceta e
l'apostolo sono sempre riconoscibili. Oggi il cattolicismo ha un
immenso esercito di preti e di frati diviso come i moderni in due
grandi classi, la milizia stabile e la milizia mobile; i preti
accantonati nelle parrocchie si battono troppo poco, i frati
distaccati nei conventi si battono male, e perfino le armi dotte dei
collegi e dei seminari smentiscono l'antica fama e si coprono di
ridicolo sostenendo qualche attacco contro lo stato maggiore del
laicato.
Leone XIII ha sentita ed espressa con vera eloquenza questa miseria
intellettuale della sua milizia.
L'Italia, che rinnovandosi nella rivoluzione trovò i preti
ostili ma impreparati, e quindi impotenti, deve attendersi a nuova e
più difficile guerra, dalla quale se non uscirà
più sana e più grande, sarà inevitabilmente
fiaccata. Nella guerra del pensiero i vinti hanno sempre torto e
pèrdono il diritto alla vita.
Ma la guerra complicandosi appunto delle ultime rappresaglie
monarchiche colle impazienti esplosioni rivoluzionarie non
sarà forse senza molto sangue, e forse a questo pensava Don
Giovanni moribondo riassumendo la propria nobile vita di patriota in
un'ultima angoscia di carità italiana.
Ebbene, che importa? La guerra è una forma inevitabile della
lotta per la vita, e il sangue sarà sempre la migliore delle
rugiade per le grandi idee.
Alla guerra...! e guai al vinto, perchè la verità
è invincibile.
L'avvenire dell'Italia è tutto in una guerra, che rendendole
i confini naturali cementi all'interno colla tragedia di pericoli
mortali l'unità del sentimento nazionale. Troppe sono ancora
le differenze di storia e d'interessi che ci separano, e troppo
profondamente radicate negli animi, perchè gli sforzi della
vita ordinaria possano sperare di svellerle. Se gli adepti delle
antiche piccole corti soppresse sono quasi scomparsi, quelli fra
loro che per tradizione aristocratica di famiglia o pregiudizi di
educazione ricusano ancora la libera unità della patria
riparano fra le coorti del clero, che mutato capitano e riordinato
con migliore disciplina, si prepara a ritentare la battaglia, appena
una guerra dello straniero impegni tutte le forze d'Italia alla
frontiera.
Bisogna vigilare nello studio e rinvigorirsi nella passione superba
dell'avvenire.
Ai troppo prudenti cortigiani, che lusingano l'egoismo dinastico
consigliandogli alleanze con imperi, i quali diversi da noi per
indole di popoli e di periodi storici osteggiano ora tutte le
libertà, bisogna ricordare che la monarchia italiana fuse
l'antica gloria di Emanuele Filiberto colla maggiore odierna gloria
di Giuseppe Garibaldi, e che il conte di Cavour profondamente
pratico come Guicciardini, talvolta largo e generoso quanto
Macchiavelli, si mescolò nell'opera a Mazzini; ai clericali
invece, che ebbri della sfida temeraria lanciata da Leone XIII alla
critica storica rivantano i beneficii del papato all'Italia, e
simulando passione di patria mirano a mescersi nei pubblici negozi
per rallentare il progresso, nel quale non possono consentire, basta
opporre Don Giovanni Verità, salvatore di Garibaldi, rimasto
prete dopo la sua negazione del papato, morto prete, e contro il
quale non si osò inveire che morto. Don Giovanni più
che tutte le altre grandi vittime del papato ne rivelò le
debolezze e smascherò le ipocrisie.
La sincerità della sua vita resterà nella coscienza
italiana. Già il municipio di Roma con solenne consiglio gli
ha votato un busto sul Pincio, nuovo Panteon delle glorie italiane.
Io non so fra quali grandi uomini sarà posto; forse egli vivo
ignorava il nome de' suoi futuri vicini, come non sospettava la
gloria che la riconoscenza della nazione gli ha tributato. Ma ai
visitatori del colle fiorito, d'onde si scorge tutta Roma e
dirimpetto al quale la massa enorme di San Pietro s'erge nella
maestà del proprio orgoglio, e quando il sole tramonta pare
illuminarsi per le vetriate di un incendio di gloria, parrà
che la modesta e rustica figura del prete montanaro sia come
erroneamente capitata fra le grandi fronti marmoree delle migliori
teste italiane. Forse egli stesso, se nell'altra vita come piacque a
tutte le religioni infantili supporre e come le nostre religioni
decrepite affermano ancora, si conserva il carattere che fu
l'essenza di questa, sarà stato sorpreso da un senso quasi di
modestia trovandosi in così alta compagnia.
No, no, povero prete! Le grandezze del cuore valgono quelle
dell'ingegno, perchè la vita e la storia hanno egualmente
bisogno di tutti gli eroismi di sentimento e di pensiero. Se la tua
fronte è più bassa di quelle che ti circondano, il
cuore che palpitava sotto la tua tunica di prete era più
largo di quello di tutti i tuoi vicini; se essi giovarono alle
scienze, tu assicurasti la risurrezione d'Italia salvandone il
redentore. Fra l'eroe di Nazaret e l'eroe di Nizza tu prete non
sentisti differenza, e fosti solo a non sentirla. Sii tranquillo, la
tua gloria è meritata; i grandi teco allineati sono superbi
della tua grandezza, che colma forse l'unico vuoto nelle loro file.
Ma verrà un giorno che l'Italia veramente una di mente e di
cuore, comprendendo finalmente tutte le epoche della propria vita,
riunirà nella propria riconoscenza a gruppi i figli migliori
incoronandoli delle idee per le quali vissero e morirono; e allora
un grande monumento verrà alzato, ben diverso dai troppi che
gli si ergono oggi, a Giuseppe Garibaldi, come al grande iniziatore
del terzo periodo italiano; e tu prete, che lo salvasti, gli sarai
accanto, emblema entrambi dell'accordo già conseguito fra la
poesia ideale della religione e la poesia reale della vita.<
VI.
In tutta la mia vita di trentaquattr'anni non ero mai rimasto a
letto un giorno solo; adesso sono già tre mesi che non me ne
alzo, e il medico non osa rispondermi allorchè lo interrogo
febbrilmente:
- E così, quando mi fai uscire?
Il peggio della cura è superato: ho sopportato venti giorni e
venti notti un chilogramma di ghiaccio sul ginocchio, stando
immobile come un cadavere. Il freddo che si produceva sotto le
lenzuola era così intenso che la pelle mi è rimasta
accaponata per tutti quei venti giorni. Mangiare non era possibile,
per riscaldarsi o stordirsi il bere non bastava. Non ho potuto
nè leggere nè scrivere. Gli amici venivano e
ritornavano nelle varie ore del giorno; la mia vecchia cameriera mi
si affannava talmente intorno non sapendo più che cosa fare
per lenirmi la esasperazione del dolore, che mi toccava sgridarla
quando piangeva.
Povera Lucia!
L'ho intesa più volte lagnarsi che la disgrazia non sia
toccata a lei.
- Io sono donna; noi donne possiamo restare in casa o a letto quanto
ci pare.
In questo slancio di bontà vi era una profonda osservazione
filosofica, giacchè sento che l'inazione, alla quale sono
costretto, mi pesa assai più del ghiaccio che allora
m'intormentiva il ginocchio. Sopra tutto mi dispera il dubbio di
rimanere a letto chissà ancora quanti mesi, e zoppo per tutta
la vita. Ah! trovare un ostacolo ad ogni passo, sentire ad ogni moto
la propria deformità, non poter discendere una scala,
accompagnare un uomo, raggiungere una donna, afferrare un cavallo;
impotente, smezzato, contemplando da una sedia la campagna come un
prigioniero dalla inferriata... ma il prigioniero può sperare
di segarla e fuggire....
Gli amici che mi confortano sembrano poco persuasi delle loro frasi.
Solo la Lucia è sicura che guarirò perfettamente, ma
non ha altra ragione a questo che un'affezione di trent'anni; sono
quasi suo figlio. Se restassi zoppo, ella sosterrebbe con tutti che
non è vero.
Quando mi vide arrivare nel cortile, solo, colle gruccie sul
carrettino, guidando lo stesso cavallo che mi aveva rovesciato,
gettò un urlo. Aveva saputo della disgrazia, ma non la temeva
così grave.
Avevo voluto discendere solo dalla villa, arrischiando così
impotente ad ogni moto di pericolare lungo la strada, non so bene il
perchè. Era una reazione della vanità offesa dalla
caduta che si cimentava contro l'oscura possibilità di altri
pericoli, o il bisogno di fermarmi solo a contemplare il luogo del
mio disastro? Infatti, mi vi arrestai.
La giornata era nebbiosa, il vento aveva già disciolta la
prima neve caduta. Mancavano due giorni al Natale. La strada gremita
di biroccie era quasi impraticabile per la ghiaia distesavi di
fresco; i passeri volavano sulle siepi davanti al mio cavallo, o
sfiancando improvvisamente si cacciavano in un pagliaio o sotto un
fascio di viti abbandonate ai piedi degli alberi. Qualche pettirosso
balzava dal fossato sopra un paracarro guardandomi venire con due
occhietti umidi e brillanti, mentre la bavarina aranciata
arruffandoglisi faceva sembrare le sue zampine quasi troppo sottili.
Ma d'un tratto schizzava via, e posandosi sopra uno stecco salutava
e spariva.
A mezza strada un impeto forsennato di collera mi fece frustare il
cavallo, che si slanciò alla carriera; perdetti quasi una
gruccia.
Giunsi alla via Emilia!
Cominciava il tramonto. Lontano sulle ultime vette una muraglia di
nuvole nere si perdeva nel cielo frastagliandosi, quasi confine e
baluardo di sconosciute tempeste. Una tristezza umida si aggravava
nell'aria. Gli alberi dei campi già sfogliati dai contadini
avevano la desolata nudità del grande inverno, mentre le
quercie rimaste sui limiti fra podere e podere lasciavano cadere le
ultime foglie ingiallite. La via Emilia in quell'ora e in quel
giorno non votato ai mercati dei paesi vicini, era quasi deserta: il
suo largo piano, diritto e stupendamente conservato, allora senza
ghiaia, aveva un'aria di pulitezza e di abbandono che impensieriva.
Ero trascorso oltre Castel Bolognese e proseguivo al passo verso
Faenza. I passanti erano pochi, scarse e fievoli le voci che
arrivavano dai campi. Riparati per dormire nei cipressi e nelle
edere sempre verdi delle ville abbandonate, i passeri non si
mostravano più; solo qualche pettirosso s'affacciava ancora
fra le siepi nella eleganza signorile dei propri colori e con moti
di delicatezza raffinata fino alla civetteria. La sera si appressava
velando sui campi il grano sorto da poco; qualche lume appariva
già alle finestre, molte scintille sfuggivano dai camini.
La maggior parte dei lavoratori cominciava già a ritornare
nelle case, che si disponevano a riceverli colla letizia del fuoco e
della cena.
Involontariamente abbassai la testa e rattenni il cavallo.
Il paesaggio era solenne, l'ora severa.
In quel momento nessuno passava per la strada.
Un tumulto di memorie, di pensieri, di sentimenti mi sopraffece. La
via Emilia immensa e vuota mi si allungava davanti: non un rumore
passava nella sera, non una forma saliva dai campi. Il cielo plumbeo
sembrava aver perduto persino il ricordo degli astri, sulla terra
bruna erano cessati tutti i colori ed i moti della vita. Una inerzia
crepuscolare copriva la natura arrestandone l'infinita instancabile
varietà; e la via Emilia aperta per essa da una storia di
quasi tre mill'anni, altrettanto nuda e deserta, pareva annunciare
che anche la storia era finita. Una stessa sera conchiudeva le date
dello spirito e i giorni della materia, le epoche della terra e i
secoli della civiltà.
Ero solo, ero l'ultimo.
Quanti popoli, quanti individui, quante vicende erano passate per
quella strada! Quanti mutamenti di natura intorno ad essa e
nullameno quanta immutabilità nel paesaggio, dacchè il
primo sguardo lo consegnò alla prima memoria! I colli erano
sempre gli stessi: la natura vi si era destata nella primavera ai
medesimi venti, ornandosi dei medesimi fiori; vi aveva soffocato
nell'estate fra i raggi del sole e le vampe più cocenti di
una fecondazione maturante ad ogni minuto, vi si era assopita nelle
malinconie lagrimose degli autunni, aveva simulato di morirvi sotto
il bianco lenzuolo di tutti gl'inverni. Dietro ai primi colli rugati
da minimi ruscelli se ne alzavano altri più uniformi di
colore, e dietro altri ancora violacei e trasparenti a certe ore, in
altre rigidi ed acuti sul cielo grigio ed unito. E le stesse vette
da tremill'anni attiravano lo sguardo di tutti i viandanti, mentre
la stessa voluttà nelle curve, la stessa improvvisa arguzia
nei distacchi, la stessa soavità d'inclinazioni producevano
le medesime sensazioni e le medesime idee. Le esclamazioni dei
passeggieri si erano alternate in una rapida e tumultuosa vicenda di
lingue, ma significando sempre la stessa cosa: tutti trascorrendo
sul facile piano della strada avevano guardato quei colli, sui quali
le case sole mutavano in mezzo alla eterna bellezza della natura.
Non erano romani, ma galli, i primi che da quei colli videro la
pianura rigarsi di una larga striscia bianca. Era la nuova strada
Emilia, che staccandosi dalla via Flaminia alla sua estrema punta di
Rimini, la più antica colonia romana, proseguiva verso le
più recenti per Bologna sino a Piacenza. Allora la pianura,
che dai colli discendeva verso il mare, era ben più stretta
di ora e si arrestava al labbro della immensa palude Padusa entro la
quale Ravenna, antico villaggio lacustre, aspettava nella calma
della ignoranza di succedere a Roma come capitale dell'occidente. I
più floridi paesi della romagna non esistevano ancora;
un'acqua torbida ed inerte, tratto tratto percossa da innumeri tuffi
di uccelli vallivi, evaporava lentamente al sole avvelenando
nell'aria ogni alito di vita; il mare lontano, cerulo sotto
l'argento delle sue spume, la chiudeva come in un immenso monile
niellato. La palude serpeggiava avanzandosi verso i colli o
indietreggiando verso il mare a seconda dell'impeto dei fiumi che vi
si cacciavano, sempre più intricata da vegetazioni
acquatiche, nelle quali s'impigliavano i remi dei piccoli canotti.
Oggi nel medesimo luogo i mietitori ripetono negli stornelli le
canzoni di quei primi pescatori, che la storia non conobbe o
invitò pei campi, trasformandoli sino d'allora in agricoltori
o in mercanti.
Allora la strada era un margine alto sui campi e sulla palude, pel
quale Roma mandava le proprie legioni a frenare i popoli vinti o non
ancora fusi dalla sua civiltà. Alcuni fra essi, come i galli
Senoni, furono distrutti o cacciati; la maggior parte degli altri
rimasero, e quella lunga linea bianca, che li univa a Roma, li
persuase ad altra vita; l'agricoltura successe alla pastorizia, il
commercio raddoppiò l'agricoltura, dietro le legioni
passarono i cittadini di Roma, i barbari li seguirono, e Roma crebbe
trasformandosi da città vincitrice in capitale d'Italia, da
capitale d'Italia in centro del mondo.
La strada costrutta nell'anno 567 dal console M. Emilio Lepido
quindici anni dopo la battaglia di Zama, nella quale la
mediocrità vanitosa di Scipione sopraffece il più gran
genio militare apparso nella storia, era destinata ad allacciare la
naturale frontiera del Po a Roma, vertice del grande triangolo della
via Flaminia e Aretina riunite a Bologna per la via Cassia. Al di
qua del Po prevaleva la costituzione civile degli Italioti, al di
là la costituzione cantonale dei Celti.
D'allora quanti popoli, quanti individui, quante vicende sono
passate per la via Emilia!
Sollevazioni di popoli soggetti, invasioni di popoli stranieri,
eserciti fuggenti nelle sconfitte, legioni taciturne nelle marcie
forzate di una riscossa o chiassose nel ritorno di un trionfo,
legionari mutati in coloni e pellegrini verso le terre loro
assegnate dal Senato, carovane di mercanti e di pastori; Galli ed
Etruschi, Celti e Veneti, Liguri ed Allobrogi, Insubri e Germani
montati su cavalli addestrati nelle guerre o selvaggi ancora della
vita libera delle foreste, sopra traini rotolanti su cilindri o
carri falcati di battaglia o bighe leggiere o plaustri dipinti
trasportanti merci o masserizie, famiglie e tribù, armati ed
inermi, uomini e donne; cacciati tutti dall'istinto inconscio della
storia, forti, deboli, morenti e morti, tutto è passato per
questa strada verso Roma e da Roma verso tutta l'Europa superiore.
L'orma forcuta degli armenti vi si è calcata sull'orma di
tutte le cavallerie, il passo unito delle falangi vi ha coperto le
pedate disordinate dei viandanti, il solco delle rotaie ha
subíto il taglio di tutte le ruote e non ne ha conservato
alcuno. A ogni vento a ogni pioggia a ogni raggio di sole, tutto era
cancellato; il sandalo si sovrapponeva al coturno, i piedi scalzi
più larghi e più numerosi appianavano ogni rilievo
pestando colla stessa indifferenza la traccia lasciata nella polvere
dal manto del trionfatore o dal fieno spiovente sui carri, da una
zampa di elefante o da una coda di lucertola.
Per quanto cupa la notte e il sole cocente il passaggio non si
è mai arrestato sulla strada. I campi a certe ore sono
deserti, ma la strada non lo è mai, giacchè i
mutamenti più terribili e subitanei della natura vi sono
senza efficacia e ogni temporale è sempre sicuro di trovarvi
qualche infelice su cui aggravarsi. Gli acquazzoni sono rari, il
fiotto umano incessante. Nulla può fermarlo. La cavalleria
degli eserciti intoppa lungo la strada nell'asinello del contadino o
nei porci del mandriano: mentre i soldati pensano alla battaglia
imminente, le fanciulle che ritornano dai villaggi li guardano tra
curiose e sbigottite e appena passati ripigliano il filo dei
cicalecci domestici; sulla stessa pietra miliare si sono sedute
tutte le umane varietà dal mendicante all'imperatore, dal
fanciullo folleggiante al vecchio estenuato, e tutti hanno
consultata la sua cifra interpretandola d'infiniti significati.
I campi che circondano la strada mutano padrone e coltura, ma la
strada non cangia e non sente: tutto passa per lei sempre egualmente
larga e piana a tutti. Gli uomini possono sognare tra sè
stessi ogni differenza, ma sulla strada non ne manterranno alcuna;
nessuno potrà farla più breve o più lunga,
scemarvi la polvere o il fango, o lasciarvi la propria traccia
indelebile. La strada è come la storia, nella quale nessuno
può fermarsi. Non una parola o un'idea vi è rimasta
delle infinite che si dissero o si pensarono lungo i suoi margini. I
monumenti, che l'individuo s'innalza per sfuggire alla morte, sono
altrove: tutte le città ne spesseggiano, ma la vita della
città risulta appunto dalla sosta di tutte le vite
individuali che vi si addensano. La strada è il fiume che
corre sempre, la città è la palude che si agita
talvolta ma non corre mai. E l'uomo ha sentito di non poter lasciare
la propria traccia che dove tutti gli altri si arrestano; nella
sosta di tutti il più forte poteva pretendere di fissare per
sempre la propria immagine, mutandosi così per quelli che
giungerebbero in nuova ragione di fermata.
Nella strada come nella natura uomini e viventi sono eguali. Nessuna
feroce e demente fantasia di tiranno ha mai pensato ad interdire la
strada a qualcuno, alzandola a privilegio di classe. Il cavallo
più veloce e il pellegrino più lesto possono
raggiungere e sorpassarvi chiunque vada più lento; a tutti
gli stanchi i margini offrono lo stesso erboso sedile, ma non vi
sono posti privilegiati per nessuno; non vi è regola pel
passo, norma alla fermata, obbligo di ore nel viaggio. Tutti sono
egualmente liberi di proseguire o di arrestarsi, di tacere o di
cantare.
All'ombra dello stesso albero, forse nel medesimo giorno si saranno
fermati un grande poeta e un accattone scemo; dal medesimo parapetto
di ponte avrà abbassato lo sguardo Giulio Cesare e la bimba
reduce dalla più vicina bottega coll'ampolla dell'olio nelle
mani. Mentre Caio Mario sarà passato ruminando il gran
disegno di distruggere i Cimbri, dietro lui un vecchio mendicante,
incantatosi nello spettacolo delle legioni, avrà sorriso
lungamente calcolando il guadagno del concime raccattato entro un
cesto, estremo capitale di tutta la sua vita di lavoro. E quando il
terribile guerriero sarà ripassato vittorioso, non
avrà riconosciuto quel medesimo vecchio intento a spiarlo dal
medesimo posto, e non avrà certo pensato che per lui il suo
passaggio nella strada era eguale a quello di ogni altro per quanto
il suo arrivo a Roma potesse essere diverso, giacchè quel
vecchio non avrebbe poi distinto nella piccola fossa del concime lo
sterco del cavallo di Caio Mario da quello di tutti gli altri
cavalli. Quel vecchio che restava e resta ancora sulla strada,
giacchè la razza di quelli che vi raccolgono il concime
è indistruttibile, dietro ogni viandante aspettando
ciò che qualunque più povero è pur costretto ad
aver di superfluo, somiglia singolarmente al tempo, quale la
fantasia dei pittori ha sempre voluto dipingerlo: invece della falce
un mozzicone di badile e un cesto per giunta. Ma se ciò che
vi depone è tutto quanto resta di ogni viaggio umano, la sola
differenza che sulla strada distingua il passaggio dell'uomo da
quello dell'animale, la sola ricchezza che si possa raccogliere dove
tutte passano, l'opera di quel vecchio e il suo risultato sono la
più vera definizione della vita umana, che nessun filosofo ha
ancora avuto l'ingegno o il coraggio di formulare.
E nella strada, per la quale tutti sono costretti a passare
più o meno spesso, alcuni sembrano abitare, e sono
mendicanti, carrettieri di ogni sorta, pellegrini che nessuna
città può rattenere, vaganti pel mondo quasi per
provare a coloro che vivono e muoiono nel paese ove nacquero, che
quello è sempre stato uno anche quando la sua unità
non era ancora passata dalla vita nella storia. Questi nomadi, pei
quali la curiosità della vita altrui è la suprema
ragione della propria, rappresentano il principio della eterna
mutabilità. La loro patria è il mondo, il loro Dio un
ignoto, la loro famiglia imitata su quella degli uccelli, che fanno
il nido dovunque e costruendo il secondo non ricordano più il
primo; la loro intrepidezza è al di sopra di tutti i bisogni,
la loro costanza lunga quanto la loro vita.
Poeti del viaggio, cantano non scrivono: filosofi della
umanità, prima che questa idea fosse concepita e fusa questa
parola, passano artisticamente curiosi e cinicamente indifferenti
attraverso tutti i popoli, pensando quando capiscono, sorridendo
quando non comprendono; liberi nella schiavitù universale
della storia che sottomette i sudditi ai re e i re a sè
medesima, ricompendia o in sè stessi la poesia dei mari e dei
monti, dei campi e delle paludi, delle città e dei deserti,
ma non amano che la strada nella quale sentono di essere primi. I
loro mestieri mutano ad ogni stazione; la loro esperienza che ha
visto tutto vince la diffidenza istintiva dei volghi, che li
accolgono e li attorniano interrogando; ma inflessibili quanto la
strada che passa oltre ogni difficoltà di terreno,
attraversano ogni zona di civiltà e di natura, raccogliendo
omaggi e disprezzi come tutti coloro che vivono diversamente degli
altri.
Per essi una rivoluzione è poco più di un tumulto di
mercato, se vi arrivano nell'ora dello scoppio: una catastrofe di
governo non ha l'importanza della caduta di un ponte: ogni finale di
dramma ne sia Cristo o Socrate, Caio Gracco o Cola da Rienzi,
Cicerone o Savonarola il protagonista, diventa uno spettacolo pagato
largamente dalla fatica di un viaggio interminabile. Essi vanno, ma
non arrivano e non ritornano mai. Non aspettano alcuno e nessuno li
attende: non migrano perchè non intendono fermarsi, non
viaggiano perchè non hanno scopo, non lavorano perchè
ogni lavoro suppone un ambiente, ma guardano e girano. L'abbandono
di ogni ricchezza, il dispregio di ogni posizione li rende superbi,
ma la coscienza della inanità di tutti gl'impieghi umani li
persuade all'umiltà, e accattano. Che importa il pensiero o
la parola di quelli che donano? Essi ricevono e dimenticano anche
più prontamente di loro. Tutta la civiltà e la natura
è per essi un teatro, giacchè dalla strada si vede e
si sente tutto: come la strada rimane bianca a traverso ogni luogo e
malgrado ogni passaggio, essi restano impassibili a traverso le
sensazioni di tutti.
E così somigliano ai grandi individui della storia, incogniti
tra l'egoismo ignorante della piccola gente che non distingue quasi
mai il personaggio decorativo dal personaggio storico, mentre la
natura anche più indifferente si varia pei campi, e tutti i
suoi viventi non hanno per la strada la più vaga delle
attenzioni. Che Giulio Cesare discenda la via Emilia verso il
Rubicone, o una compagnia di gladiatori la rimonti verso il circo di
Verona, per gli uccelli che cantano e pel ramarro che fischia la
cosa è ben indifferente. Invano gli uomini sopraffatti da
tragico senso scrutarono spesso nel volo degli uccelli o nelle
viscere dei buoi il secreto delle imprese nelle quali si sentivano
mortalmente attirati. Le cornacchie migranti a sera sui campi per
andare a dormire lungi lungi non mutarono mai il battito delle ali
perchè uno sguardo ansioso di aruspice lo studiava dalla
strada; ma se nel loro piccolo cervello di volatili avessero potuto
supporre che gli uomini, soli pensatori nella natura, cercavano nel
moto delle loro ali un indizio per la sorte delle imminenti
battaglie, avrebbero certamente sorriso se il becco l'avesse loro
permesso.
Che importa all'usignuolo nascosto nel fogliame dell'albero
più denso presso il parapetto del ponte, se il viandante
arrestatosi ad ascoltarlo sia Catullo che si reca in villa a
Sermione, o Tasso che si allontana mendicando? Che importa al
passero garrente sulle siepi nei pigri mattini dell'autunno, se il
primo frate che si ferma ad ammirarlo e gli sorride come per un
conforto ricevuto a una nuova giornata di lotta, sia Lutero che
ritorna da Roma meditando la terribile rivoluzione onde
incendierà tutta l'Europa, o S. Francesco d'Assisi che
s'affretta verso l'abituro di un povero per compiervi un altro
miracolo di amore? Che importa al falco roteante nell'aria colle ali
dorate dal sole del meriggio, se lo sguardo umano che lo ammira
dalla strada sia quello di Corradino di Svevia, fanciullo cacciatore
di corona, o quello di un vecchio uccellatore al quale la sua vista
ricorda molti drammi minuti di zimbelli ciuffati da altri falchi
sulle verdi platee dei paretai? Forse che i falchi d'oggi rammentano
come i falchi medio-evali cacciassero nei cieli per l'uomo,
riportandogli la preda appena li richiamava col logoro, o forse che
anche allora i falchi liberi sapevano qualche cosa della vita dei
falchi schiavi?
La natura non muta allo sguardo dell'uomo, ma bensì nel suo
sguardo.
Quando Michelangelo e Tiziano sono passati per la via Emilia,
guardandone i paesaggi e ritraendone colori pei quadri futuri, i
colli non hanno accresciuta per vanità la propria bellezza,
come sotto lo sguardo imbecille di tutti i loro abitatori per
migliaia di anni non l'avevano scemata. Nessun grand'uomo ha mai
resistito senza dolore al disconoscimento della propria grandezza,
ma la natura che non pensa, o della quale il pensiero cosmico
è ben superiore al pensiero umano, non sussultò ancora
di dispetto sotto l'occhiata stupida di uno solo fra i suoi ospiti.
Eterna, e quindi insensibile, il dramma umano che le passa
attraverso non la commove. Quanti drammi sono passati nella via
Emilia per conchiudersi altrove o vi si sono compiti? La storia che
conta solo i massimi, nei quali l'individuo lotta pei molti, ne ha
registrati troppi perchè la memoria possa conservarne la
cifra e la serie. La tragedia è una, ma le sue scene sono
molteplici, i personaggi innumerevoli, e nullameno la vita è
anche più ricca della storia. I suoi piccoli drammi
circoscritti negl'individui che vi periscono senza traccia e
senz'eco, sono come l'atmosfera, nella quale si compie il grande
dramma storico assorbendo le forze più elastiche della
passione e gli elementi più puri dell'ideale.
In quanti condannati a morte, volgari delinquenti o volgari ammalati
si saranno incontrati Arnaldo da Brescia o Aonio Paleario passando
per la via Emilia già consci della morte che li attendeva? In
quanti contadini migranti colle ultime masserizie verso le
città, colla fronte bassa per nascondere le lagrime, vi si
sarà imbattuto Dante esule da Firenze, fervido d'ira e di
poesia? Quante risa idilliache vi hanno stormito all'orecchio di
Properzio o di Petrarca? Per quante combinazioni di calcoli
domestici e mercantili vi passarono Macchiavelli e Galileo,
combinando nel forte pensiero cifre storiche o astronomiche, dati di
algebra fisica o sociale? Quante fronti giovanilmente superbe alla
vigilia del trionfo e della morte vi si sono alzate da Pico della
Mirandola a Gastone di Foix, da Keats a Bellini? Quanti storici da
Tito Livio a Gibbon, da Guicciardini a Duruy vi hanno
involontariamente cercate le orme dei popoli, dei quali
ricostruivano nel vasto ingegno la storia? Giano della Bella e
Catilina, Andrea Doria e Nerone, San Luigi Gonzaga e Goethe, Heine e
Caterina da Siena, Napoleone I e Farinello, Caio Gracco e Cosimo De'
Medici, Bianca Capello e Annita Garibaldi, Alessandro VI e Mazzini,
Attila e Raffaello, Ignazio di Lojola e Catone, Boezio e il
connestabile di Borbone, poeti come Virgilio, ballerine come
Arbuscula, dame come Stefania, imperatori come Barbarossa, generali
come Consalvo, conquistatori come Carlo d'Angiò, pittori come
Leonardo, architetti come Brunelleschi, attori come Salvini; torme
di saltimbanchi e di gladiatori, carri pieni di statue e di leoni,
processioni di santi e di prigionieri, labari e stendardi, aquile e
gonfaloni, reliquie di santi e di governi, macchine di guerra e
d'industria, cortei di giustiziati e di giubilei, anfore e cannoni,
scialli e corrazze, ogni varietà di uomini e di cose soavi e
nauseanti, ignobili e sublimi, tutto è passato per questa
strada che fu lunghi secoli la più frequentata del mondo.
Se i grandi uomini che l'hanno percorsa vi si riunissero in un'ora,
forse la riempirebbero così da impedirne il passaggio ai
piccoli che la corrono quotidianamente.
Byron vi ha galoppato furioso e furiante dietro un'immagine o una
donna; Goldsmith vi ha camminato lentamente suonando l'organetto,
col quale si guadagnava le spese del viaggio; Leopardi vi ha pianto
senza dubbio; Monti vi ha sparato le proprie rime inesauribili come
un fuoco di moschetteria allegro e superbo. Il duca Valentino
impadronendosi delle Romagne vi sognò la conquista d'Italia,
Vittorio Emanuele la percorse quattro secoli dopo, luminoso
nell'apoteosi di quel torbido sogno. Shelley e Guerrazzi vi
pensarono entrambi alla stessa Beatrice Cenci; Augusto Lepido e
Marcantonio vi si incontrarono per dividersi il mondo; Francesca da
Rimini e Galla Placidia vi hanno lasciato colla loro leggenda il
canto più bello e il più fino mosaico di ogni tempo;
Tasso ed Ariosto vi hanno meditato peregrinando la propria
rivalità; Lombardini e Paleocapa studiando i mutamenti del
suo territorio vi hanno cercato i primi profili della geologia
storica: Pio VII e Garibaldi vi sono passati egualmente espulsi da
Roma, Teodorico e Odoacre vi si sono contesi l'impero d'Occidente;
Astolfo coi Longobardi, Pipino coi Franchi v'iniziarono la lotta per
il potere temporale dei Papi.
Gli avvenimenti vi si susseguono agli avvenimenti; la via Emilia,
uno fra i più grandi fiumi della storia, corre sempre.
Le sue piene sono invasioni, i suoi straripamenti assumono nomi di
battaglie; presso i ponti de' suoi fiumi sorgono città e
villaggi. Dopo i Romani passano i Barbari, dopo i Barbari i
Crociati, dopo i Crociati gli eserciti di tutta l'Europa, che
vengono a battersi in Italia ancora centro della civiltà
mondiale. Talvolta il suo piano echeggia sotto il galoppo leggero
dei Numidi alleati dei Romani, cavalieri impetuosi come il vento dei
loro deserti e altrettanto mutevoli; tal'altra risuona sotto il cupo
ritmo dei cavalieri Normanni tremendamente gravi di ferro. I primi
emblemi guerreschi che vi guidarono soldati furono le aquile
d'argento date da Caio Mario alle legioni nella sua riforma
militare, l'ultimo che vi passa oggi è la croce rossa di
Savoia in campo bianco nell'iride dei colori nazionali.
Quando il medio-evo ebbe mutato tutto il mondo romano, e la croce si
sostituì lungo i margini della strada agli Dei Termini, i
colli della via Emilia si coronarono di castella e di torrioni. I
ladri, che l'avevano naturalmente infestata a ogni tempo, si
mutarono in bande di masnadieri guidate dal signore, e le
scaramuccie e i saccheggi per secoli la macchiarono di sangue; ma
anche allora seguitò ad essere bianca ed illare sotto la
gente che vi passava frettolosa obliando una storia millenaria per
gli affari d'un mattino.
Dove avvennero dunque le più grandi battaglie lungo la sua
linea? A quale svolta, da qual vicolo, su qual ciglio di campo si
distesero gli eserciti? Dove furono massacrati i feriti e seppelliti
i morti? La storia lo racconta, ma chi rammenta tutta la storia e
può dirsi passando per la strada: qui Giovanni Medici
arringò le Bande Nere, o Alberigo da Barbiano insegnò
le prime manovre a' suoi fanti? A qual punto della strada furono
commessi quei tremendi delitti, oggi dimenticati, che hanno fatto
inorridire tante generazioni? A quale altro tanta gente per noi
sconosciuta vi provò la maggior felicità della propria
vita?
Tutti sono passati, e secondo il proverbio di Salomone non vi hanno
lasciato più traccia del fumo nell'aria, del serpente sulla
pietra, della nave sul mare, dell'uomo sulla donna.
Nulla nulla nulla, ecco tutto!
Ogni rumore finisce fatalmente nel silenzio; quando finirà il
rumore della storia? Sarà in una sera che copra colla
pietà delle sue ombre la sconcia agonia degli ultimi
pellegrini, o in un meriggio che insulti col suo fulgore al tramonto
del pensiero umano? La natura, nella quale creammo il regno dello
spirito e alla quale imponemmo talvolta colle scienze le nostre
volontà di un minuto, sentirà in sè stessa la
nostra morte, o già preoccupata della nuova vita più
alta che dovrà succederci, avvertirà appena la nostra
ultima caduta come negli autunni quella delle ultime foglie?
Il piano della via Emilia e di tutta la sua pianura si abbassa: ai
calcoli più recenti il progressivo dislivellarsi del suolo
rispetto al pelo del mare sarebbe dai dodici ai diciotto centimetri
per secolo. Il pavimento del sepolcro di Galla Placidia è
sotto la comune alta marea circa un metro. Invano la terra rapita ai
monti dai ruscelli e portata al mare dai fiumi allunga il litorale e
sembra alzarsi sul mare; il mare indietreggia, ma si drizza
minacciando. La scienza sospesa non osa ancora decidere, quantunque
il pericolo cresca ogni giorno, dacchè gl'ingegneri della
Serenissima lo segnalarono primi nel secolo XV. È il suolo
che si abbassa sotto il peso della vita che porta, o il mare che si
eleva secondo l'ipotesi meteorica del Mayer, mentre la luna accelera
secolarmente il proprio viaggio nei silenzi del cielo?
I pesci dell'Adriatico passeranno un giorno sulla via Emilia come vi
passarono le legioni di Cesare e di Napoleone?
La strada si rifiuta forse a conservare ogni orma di viandante,
perchè destinata a discendere per sempre sotto il mare, le
orme umane non apprenderebbero nulla ai viventi di laggiù?
Forse!<
VII.
- Che cosa pensi tu dunque del Macchiavelli? Mi ha chiesto
improvvisamente Berti, volgendomisi dal caminetto con le molle in
mano e guardandomi con quella sua aria intelligente e curiosa.
Quindi senza darmi tempo di cominciare una qualsiasi frase di
risposta, si è alzato e prendendo di sul tavolo da notte uno
dei tre volumi del Villari, ha soggiunto:
- Li ho letti anch'io: è un lavoro largo e minuto. Tutta la
critica moderna lo ha encomiato; Macchiavelli vi è
seguíto giorno per giorno, passo per passo. La sua vita vi
è esplorata collo scandaglio, commentata colla finezza di un
avvocato e qualche volta colla penetrazione di un romanziere: il
disegno dei tempi, nei quali passa ed opera, è sicuro. Pare
che tutto vi sia detto; un volume descrive l'ambiente nel quale
Macchiavelli sta per entrare, due altri quello che vi pensa e fa.
E arrestandosi improvvisamente, colpito da una idea più
concisa per esprimere il tumulto di tutte le altre che il richiamo
di quei libri gli aveva destato:
- Sai che cosa mi è risultato dalla lettura attenta
dell'opera del Villari? Mi pare di aver sempre vissuto con
Macchiavelli e di non averlo capito.
- Ah! ho esclamato.
- Che te ne sembra?
- La stessa impressione che ne ho ricevuto io. L'opera del Villari
ha tutti i pregi e i difetti della scuola positivista alla quale
appartiene. La vita dell'uomo non può mai spiegare
interamente la vita del pensatore e dell'artista, come il quadro del
tempo non rivela mai tutto il mistero dell'individuo. Il Taine, ben
più potente del Villari, nella storia della letteratura
inglese, servendosi dello stesso metodo, ha fallito in faccia a
Shakespeare tentando di ricostruirlo. Ricostruire, ecco il motto
della scuola positivista; Michelet invece aveva detto: la storia
è una resurrezione. Hai letto lo Shakespeare di Victor Hugo?
No, non importa. Victor Hugo falsa Shakespeare col proprio riflesso,
ma penetra nella sua anima. Taine riunisce con dotta e sicura
analisi tutte le sue opere, come un anatomico riunirebbe saldandole
con fili di ottone le sue ossa, per dirvi: questo è
Shakespeare.
- E non sarebbe che il suo cadavere.
Un gruppo di amici è sopravvenuto deviando la nostra
conversazione.
- Studii? mi ha chiesto Fossa.
- No.
- Scrivi?
- Nemmeno.
- Non lo credo: è un pretesto per non dirci a che cosa lavori
o per non mostrarcelo. Macchiavelli! ha soggiunto pigliando dal
tavolo lo stesso volume preso da Berti. Sentiamo, sentite, si
è rivolto con scherzosa ironia agli amici: che cosa pensi tu
del Macchiavelli?
- O del Villari? ho risposto barattando un'occhiata col Berti.
- Che m'importa del Villari! Il giudizio di un giudizio è
come il racconto di un racconto, il secondo è sempre peggiore
del primo; non vi è che il terzo che essendo addirittura
insopportabile ci possa consolare dell'averli ascoltati tutte due.
Dimmi tu, piuttosto, che cosa pensi del Macchiavelli. Io non l'ho
mai letto, ma l'ho visto nel mio viaggio a Firenze, in Santa Croce:
mi è parso una vecchia testina di monello intelligente.
Intelligente e monello lo era di certo, ma forse qualcos'altro
ancora. Che cosa pensi tu del Macchiavelli?
L'insistenza di questa domanda cominciava a turbarmi.
- Napoleone avrebbe già risposto, ha replicato Fossa
sorridendo al sorriso degli amici, coi quali a ogni proposito cita
sempre Napoleone I.
- E Napoleone I avrebbe risposto in due parole? ha interrotto Berti.
- Già! e una sarebbe di più se ogni fatto non è
che un'idea.
- Ohè! filosofo....
- E Napoleone avrebbe detto giusto?
- Già.
- T'inganni, mio caro: nel Memoriale Sant'Elena Napoleone ha
giudicato Macchiavelli, in un periodo di molto imperfettamente.
- Io non l'ho letto e non lo leggerò mai; non ammetto
Napoleone che scrive.
- E così che cosa pensi tu del Macchiavelli?
- Troppo per potertelo dire qui.
- Allora sei nel mio caso, che non ne penso nulla e non ne posso
parlare affatto: parliamo dunque di Napoleone I.
Un urrah di sdegno allegro ha coperto quest'ultima minaccia di
Fossa, che sedendo si è messo invece a parlare dei propri
cavalli. Fuori nevicava. Malgrado che le fiamme brillino da tre mesi
nel caminetto, la camera non è molto calda e gli amici
debbono a ogni visita far crocchio intorno al fuoco. Io seguiva
coll'avidità di un infermo, da quasi quattro mesi segregato
dalla società, il loro cicaleccio che raccontava forse per la
centesima volta una storiella del teatro.
Poi se ne sono andati tutti insieme, ma Fossa rimasto ultimo colla
maniglia dell'uscio in mano, mi si è rivolto e:
- Che cosa pensi tu del Macchiavelli? Mi ha ripetuto burlescamente.
Bada che al mio ritorno mi dovrai una risposta; ti concedo di
restare a letto tutti questi giorni per scriverla se ciò te
la renda più facile.
Ed è fuggito ridendo.
Che cosa penso io dunque del Macchiavelli, di questa sfinge intorno
alla quale si affatica da tanto tempo il pensiero dei dotti, e che
mutata in simbolo sinistro esprime pei volghi quanto di più
profondamente perfido e serenamente cinico possa essere la natura
umana? Che cosa vi è di vero nella parola macchiavellismo per
Macchiavelli? Quale fu il suo pensiero nel pensiero del suo secolo,
nello spirito della storia? Ha egli meritato l'iscrizione
ampollosamente semplice che in Santa Croce lo dice superiore ai due
più grandi uomini dell'Italia, Dante e Michelangelo - Tanto
nomini nullum par elogium? - La sua azione nel mondo fu uguale alla
loro, e le sue scoperte ne mutarono il concetto come quelle di
Galileo, che gli è modestamente accanto nel medesimo tempio?
Certo che di lui possa chiedersi questo è già tale
complimento che vale poco meno dell'epitaffio fattogli dal Ferroni,
oggi ancora citato fra i più belli della letteratura
lapidaria.
Le vicende della vita e della fama del Macchiavelli si rassomigliano
molto. Entrambe furono contrastate dal tempo, aspreggiate dalla
miseria, quasi soffocate nell'oblio. Le sue opere maggiori stampate,
lui morto, non ottennero subito troppa stima; il pensiero non ne fu
giudicato grande, la forma perfetta. Solo il Principe colpì
lo spirito del pubblico, e mantenendovisi come nello spasimo di un
problema, parve salvare da una probabile dimenticanza il nome di
Macchiavelli. I pochi contemporanei amici del Macchiavelli che
l'avevano letto, non gli dettero, quantunque apprezzandolo, un
briciolo dell'importanza che doveva poi acquistare: l'autore stesso
non lo stimò mai tanto e non avrebbe osato ripromettersene la
celebrità fino ad oggi triste ma universale.
La battaglia, che contro questo libro incominciarono primi i
gesuiti, mutata presto in guerra, ne ebbe ogni vicenda gloriosa ed
infame. Tutti vi entrarono, grandi e piccoli; uomini lo spirito dei
quali doveva morire con essi, e uomini dei quali l'anima è
rimasta nella storia mondiale. Poichè la politica è il
motore e l'involucro della vita sociale, ognuno sentì il
bisogno di decidersi in faccia al problema del Principe. Ma il suo
concetto era vero nella politica umana? Il governo dell'uomo non
essendo che l'azione del suo spirito collettivo sul suo spirito
individuale, che debbono essere uguali sotto pena di essere
inconciliabili, gli aforismi della politica possono davvero non
essere che aforismi di psicologia?
La battaglia che il Principe ha sostenuto e sostiene ancora contro
tutti, decideva dell'onore dell'umanità: il Principe la
dichiarava naturalmente cattiva, essa si affermava naturalmente
buona.
La durata della guerra è in favore del Principe,
benchè la vittoria debba restare fatalmente
all'umanità.
Il Macchiavelli nacque nel secolo forse più ricco d'ingegni
per Firenze. I tempi erano grossi politicamente, la repubblica in
continuo pericolo: la forma politica del Comune stava per tramontare
in quella più larga e più alta degli Stati nazionali.
La Spagna aveva già compito la propria unificazione, l'opera
di Luigi XI in Francia era già sicura, Lutero preparava colla
Riforma la grande costituzione dell'Alemagna. In Italia l'equilibrio
studiato e ottenuto da Lorenzo il Magnifico, altrettanto fino
politico che poeta, era cessato: i Francesi l'avevano invasa e non
se n'erano andati che per ritornare.
Pisa ribelle a Firenze si avvicinava ad un'agonia senza gloria,
profetando nella propria fine quella di tutti i municipii ancora
liberi nei vecchi ordini, o indipendenti per le armi di qualche
signorotto isolato nella disgregazione del sistema feudale. Genova
era in preda alle ultime fazioni famigliali osteggiantisi per la
supremazia: Venezia erede della universalità e del governo
romano era cosmopolita nel commercio e aristocratica nel patriziato,
palladio e tiranno della sua vita più ampia che nei regni
recentemente riuniti, più florida che nei comuni meglio
dotati, più duratura che nelle stesse monarchie destinate a
prendere il posto delle repubbliche. La Romagna, la Marca e l'Umbria
lacerate dagli ultimi feudatari conniventi o contrastanti coi papi
vivevano nella miseria e nei massacri. Milano dopo il dramma astuto
e infelice del Moro si accorgeva di non avere ormai più
signore indigeno, e si preparava alla gloria umiliante di un
vicereame conservando nella nuova tendenza alla servitù la
cupidigia conquistatrice, che l'aveva resa nemica di Venezia e per
un momento quasi arbitra d'Italia. Al di sopra dell'Italia oltre le
Alpi si alzava l'ombra del sacro romano impero, autorità
mistica e brutale, che pesava ancora sulla coscienza italica come un
dogma, e discendeva tratto tratto su tutti i governi della penisola
come una rapina.
La Francia più piccola ma più unitaria della Germania,
nella quale la putrefazione della feudalità e il
disgregamento dei Comuni impediva quasi ogni coesione di Stato,
ricordava contro di essa le pretensioni imperiali di Carlo Magno,
studiando intenta l'Italia come futuro campo delle battaglie che
dovevano decidere quale sarebbe il primo popolo d'Europa. La Spagna
sbarcata a Napoli sconfiggendovi gli ultimi Angioini e sovrapponendo
la propria dominazione alla loro, vi aveva fondato una monarchia, la
quale malgrado l'ostacolo di Roma immobile e invincibile nel mezzo
d'Italia, non rinunciava alla brama di allargarsi in reame italiano.
Al nord di Genova tra le Alpi, alla testa di montanari indomiti
quanto astuti, poveri e capaci di tutto per arricchire, la casa di
Savoia piccola, poco pregiata, male conosciuta, chiamata per
disprezzo portinaia d'Italia, spiava notte e giorno colla passione
instancabile del cacciatore l'occasione d'impossessarsi di qualche
stanza nel palazzo che era pronta ad aprire a tutti gli stranieri.
Non vi era nazionalità, non stato, non governo, non politica
italiana. Il papato solo poteva tratto tratto sollevarsi e parlare
d'Italia o di giustizia, ma oltrecchè essendo universale per
istinto non avrebbe potuto costringersi nella storia italiana senza
annullarsi, i suoi istinti e le sue necessità di regno lo
costringevano a maggiori contraddizioni e a più
inintelligibili mostruosità. Talvolta il pontefice non era
che il re di Roma, usufruttuario di un regno per lui intangibile
come un fidecommesso; tal'altra un dinasta, che non potendo
trasmetterlo alla propria dinastia tentava d'ingrandirlo per cederne
così le accessioni. Poi il papa era pontefice capo della
cristianità minacciata ora dal solo scisma che dovesse
restare davvero importante nella sua storia.
Intanto il cinquecento si avanzava brillando. Tutte le arti rinate
con Dante, il più grande artista dell'umanità,
divenute adulte, si riunivano a Michelangelo quasi per finire come
avevano cominciato; l'erudizione aveva disseppellito
pressochè tutto il mondo classico e cominciava ad intenderlo;
Colombo scopriva l'America, Copernico dava il moto alla terra,
Lutero la libertà alla coscienza, Raffaello l'ultima bellezza
alla forma, Ariosto l'ultimo poema alla poesia; Giulio II era
l'ultimo guerriero del papato, Firenze doveva essere l'ultimo Comune
italiano.
La coscienza italiana era vuota e torbida al tempo stesso; nessuna
dignità di popolo o tradizione o ideale. Roma antica,
straniera all'intelletto e al cuore, non viveva più che nelle
memorie e nelle immaginazioni dei letterati e del volgo; la
religione, divenuta superstizione in basso, traffico ed impero in
alto, mescolata di magia, ignorante e scostumata, nata di una
tragedia sul Golgota, sembrava finire in un carnevale che era
un'altra tragedia per l'Italia e per la coscienza umana. La
filosofia ospitata dalla religione nella bufera del medio evo n'era
tuttavia la serva: San Tomaso guidato da Aristotile la
signoreggiava; la scienza, senza vero passato, non accennava ancora
a un sicuro avvenire. Però Copernico, Guttemberg, Colombo,
sconosciuti l'uno all'altro, si erano misteriosamente intesi per
guarantirla: la storia si dibatteva invano fra le fascie della
cronaca, la lirica morta nei giardini di Lorenzo il Magnifico era
già dimenticata, l'ultima epopea della cavalleria era
più che mezza satira, la prima tragedia e la prima commedia
non sarebbero state vitali.
Il rinascimento è un soldato, ha detto poeticamente il
Michelet: il rinascimento è un assassino, non ha osato dire
il Ferrari pur lasciandolo intendere, ma quando il Macchiavelli
entrò nella vita, gli assassinii erano ancora frequenti e i
grandi condottieri usciti dalla scuola braccesca e forzesca quasi
finiti. I venturieri esteri avevano già preso il sopravvento.
Nessuna figura di principe folgorava nelle armi, nessun generale
proseguiva la gloria di Niccolò Piccinino; l'ultimo soldato
d'Italia e il suo ultimo eroe, Giovanni Dei Medici e Francesco
Ferruccio erano ancora sconosciuti.
Ma l'Italia era nullameno l'unico paese nel quale brillassero la
civiltà e la ricchezza. Oltre le Alpi molte fiaccole
s'andavano accendendo per la tenebra medioevale senza che il loro
chiarore potesse vincerne la notte: al di qua delle Alpi invece il
sole dell'antica Grecia illuminava capolavori che avrebbero fatto
dubitare di sè stessa la coscienza greca. I fieri feudatari
mutati ora in pomposi signori riunivano la ferocia della barbarie
alla crudeltà della decadenza, mentre il popolo, piuttosto
cliente che vassallo, parteggiava per loro meglio che non li
servisse, e le classi sociali distinte come nel resto d'Europa erano
ravvicinate dal commercio più vivo che altrove,
dall'industria più progredita, dall'arte passione di tutti,
dalla religione complice delle passioni di ognuno.
La lingua, l'arte, il papato, l'antichità romana, il
progresso presente, la stessa mancanza di stato in tutti i governi
della penisola e la condanna che pesava sopra ognuno di essi di non
potere unificare l'Italia nè fondersi con altre nazioni;
Dante, Michelangelo e Colombo, ecco le glorie e le ragioni della
ideale unità della vita italiana, mentre la storia delle
altre grandi nazioni europee aveva già raggiunto o stava per
raggiungere l'unità politica.
Dante aveva conchiuso il medio-evo, Michelangelo riassumeva il
risorgimento, Colombo apriva l'avvenire: tutto il mondo si accodava
a questi tre italiani. L'Italia, palestra dell'Europa, non doveva
chiudersi in nazione per non negarle la propria civiltà.
Macchiavelli, è stato detto, fu la coscienza italiana che
nelle proprie contraddizioni meglio riflettè ed espresse le
antitesi di tale posizione storica.
Niccolò Macchiavelli nacque, come si direbbe oggi, di buona
famiglia: la casa non era ricca, il padre morì presto. Non si
hanno del giovine le solite notizie profetanti un grande avvenire;
fu educato assai bene come usavasi allora che la coltura era al
tempo stesso distinzione e passione di classe. Michelangelo a
ventinove anni aveva già compito parecchi capolavori,
Macchiavelli invece, non distintosi in Firenze tutta piena
d'ingegni, che fra un cerchio abbastanza ristretto d'amici, ottenne
a stento fra quattro concorrenti l'ufficio di segretario col titolo
di cancelliere della seconda cancelleria del comune. Il posto era
meno che grande, il grado non illustre, ed egli l'illustrò.
Marcello Virgilio Adriani, umanista importante, allora segretario di
Stato, lo predilesse: era gonfaloniere Piero Soderini, onesta
mediocrità che posta fra due tragedie, la cacciata e il
ritorno dei Medici, finì per sembrare comica a tutti.
La politica minuta, abile e feroce, di tutti i piccoli Stati
italiani era allora nella massima attività. Ogni avvenimento
non preveduto o mal calcolato poteva decidere dell'esistenza dello
Stato. Firenze divisa fra le parti pallesca e piagnone viveva di
ringhii; i nobili quasi tutti nemici della repubblica o nemici dei
Medici solo per rivalità; la plebe delle piccole arti ancora
memore delle lautezze medicee ne agognava il ritorno; le grosse arti
rappresentate dalla borghesia propendevano a libertà che per
loro era naturalmente impero nel comune.
Nessuna milizia, molte ricchezze, commercio incredibile, arte quale
i secoli posteriori più non videro e forse non vedranno; poi
Massimiliano imperatore di Alemagna, signore titolare del comune,
sempre pronto alla minaccia e a quietarsi per danaro, Ferrara preda
agognata da tutti e quindi pomo di discordia, Pisa ribelle e
guerreggiata, Alessandro Borgia a Roma, Francia sulle mosse per
calare in Italia, la Romagna contrastata fra i Veneziani e il Papa,
i Medici espulsi che mestavano in ogni imbroglio diplomatico e in
ogni diverbio cittadino.
Questa la condizione delle cose.
Il Macchiavelli giovane, agile nell'ingegno e nei modi, senza
orgoglio di classe o di carattere, libero da preoccupazioni di studi
o di gloria, assetato di azione per abbondanza di vita, fu presto
adoperato. Era adatto a tutto, nulla gli ripugnava. Non si
mostrò ambizioso nel profondo senso della parola, e non lo
era: non parve a nessuno uomo vero di parte, si accontentava di
essere usato osservando intorno a sè le cose e gli uomini.
Non aveva che una passione, la politica. Letterato non era e non fu
mai, come intendevasi allora; non aveva imparato il greco, passione
di tutti gli eruditi del tempo, sapeva il latino come ogni persona
colta, ma i forti latinisti d'allora avrebbero potuto sostenere che
lo sapeva male.
In Firenze tutta piena di artisti, tra un popolo di statue e un
sorgere quasi per incanto di palazzi e di chiese, era forse quegli
che se ne occupava meno; in tutte le sue opere non si trova un
periodo per le arti figurative, che costituivano allora la pompa e
dovevano restar la più alta gloria, la vera
originalità del secolo già decadente. I negozi
politici attiravano tutta la sua attenzione snodandogli lo spirito;
ma per sè stesso non faceva nulla. Eccellente impiegato,
arguto nella conversazione e sagace nelle pratiche, era senza
passioni: non si prescelse un partito, non aspirava a comando.
Preparare un disegno, scoprirne un altro, calcolare le
eventualità cittadine e italiane; comprendere e dell'aver
compreso una volta servirsi per comprendere ancora estraendone
regole, astraendo dal fatto e dalle persone per stabilire una
massima, avendo messo nello studio dell'una e dell'altra la maggiore
esattezza e il più vivo piacere: ecco il Macchiavelli dei
primi tempi.
Amava l'azione o per dir meglio l'esercizio, ma non era uomo
d'azione nel significato che si dà oggi a questa parola. Se
fosse stato altrimenti, nato non in alto, corto a danari quanto
proclive allo spendere e senza forti parentadi, avrebbe presto
dovuto comprendere che per salire davvero bisognava attaccarsi a
qualcuno che fosse al potere o stesse per giungervi, servendolo da
complice per diventare poi suo padrone. Non solo Firenze, ma tutta
l'Italia era allora piena di cotesti ambiziosi, che tramavano pel
principato, e osavano tutto per conquistarlo o conservarlo.
Guicciardini, di lui più giovane e meglio nato,
rinunciò non ancora trentenne a una dote relativamente grossa
per imparentarsi coi Salviati, famiglia potente, creandosi aderenze.
Ma Guicciardini era aristocratico e Macchiavelli democratico, l'uno
sentiva come un gentiluomo, l'altro si lasciava spesso andare a modi
e vizii plebei: entrambi osservatori eccellenti. Nel primo il
calcolo personale vegliava sempre, e una equazione involontaria del
proprio interesse con ogni avvenimento o disegno si formava in tutti
i giudizi; nel secondo il calcolo personale non sorpassava mai lo
stipendio e non si destava che a qualche maggiore ristrettezza
economica, mentre il suo pensiero si alzava sulle osservazioni per
ordinarle in serie e formarne un codice.
Quest'uomo, che quasi tutta l'umanità doveva condannare come
il teorico della immoralità, è un moralista: non
inculca il bene ma studia il male, pessimista come tutti i moralisti
veri. La sua passione suprema è l'analisi, il suo trionfo la
formula: un caso per lui non è bello se non perchè
è un problema, non è utile se non perchè
sciolto può preparare la soluzione di un altro. Un
disinteresse d'artista e di scienziato lo distingue da tutti coloro
che operano e studiano con lui. Egli s'oblia nella osservazione.
Del resto ha i costumi del suo tempo; non è ateo ma
irreligioso, prende le donne come un balocco; solo gli affari gli
paiono importanti, perchè allora gli affari decidevano spesso
della vita. Nella politica del secolo la frode e l'assassinio erano
mezzi talmente comuni, che la coscienza pubblica riconoscendoli
malvagi, non vi trovava più nulla di anormale, e Macchiavelli
li accetta. Il mondo andava così. Ma il cinquecento era, e si
vide bene nelle arti, una reazione del realismo sul misticismo,
nella quale la realtà diventava la sola verità.
Politicamente l'unico ideale possibile era la gloria del proprio
Comune, e Macchiavelli fonde con essa la propria passione politica,
alzandola così da poter scrivere per essa le più belle
pagine della letteratura nazionale, slargandola fino a fantasticare
un'Italia intera, servendosene come di una soluzione morale alle
osservazioni che le cose e gli uomini gl'imponevano fatalmente
all'ingegno.
Poichè la realtà della vita era così e non si
poteva cangiarla, il miglior modo di purificarla stava nel renderla
utile alla patria, entro la quale solamente gl'individui per natura
malvagi possono mutare sè stessi fondendo il proprio nel suo
interesse generale. Ma in lui questa conclusione derivava piuttosto
da un accordo spontaneo d'istinti, che da un processo tragico della
sua anima respinta duramente dalla realtà e costretta a
conciliarla in sè medesima per vivervi.
Allora Macchiavelli non meditava ancora sè stesso, come
più tardi nella disgrazia del ritorno mediceo, quando scrisse
per commissione del cardinale Clemente le storie; e s'abbandonava
alla spontaneità della propria natura con tutta la foga di
una gioventù, che vizii e passioni non avevano ancora domato.
Le sue legazioni incominciate presto non gli dettero mai vero
carattere di legato. La piccolezza della sua condizione che lo
impediva allora, non crebbe mai abbastanza per la stima che il
pubblico facesse del suo ingegno, da meritargli grado di
ambasciatore di Firenze.
La prima fu a Forlì presso Caterina Sforza, la seconda presso
il duca Valentino ad Imola. La forte e astuta donna, della quale
riveggo ora nella memoria lo stupendo ritratto del Palmezzani
conservato a Forlì nella biblioteca, battè il giovane
e forse presuntuoso diplomatico, che in una lettera dovette
confessare, e questa è una prova di forza, di essere stato
tenuto a bada per otto giorni senza nulla indovinare o sorprendere.
Il duca Valentino l'affascinò e diede la propria forma
agl'incerti fantasmi che si agitavano nel suo ingegno di pittore
della politica. Perchè Macchiavelli non fu mai veramente
altro.
Forse questa affermazione sconcerterà il volgo delle persone
colte e farà sorridere più di un dotto; nullameno,
dall'attento esame delle opere del Macchiavelli interpretate colla
sua vita, tale verità esce raggiante.
Non so se il duca Valentino fosse allora bello come lo dipinse
Raffaello al ritorno di Francia in costume di gentiluomo francese, e
quale nel divino ritratto posseduto dal principe Borghese a Roma
è tuttora. Oggi dopo quasi vent'anni risento ancora la prima
impressione del suo incontro, giacchè nel ritratto è
vivo e vi guarda e pensa. Ero solo in una delle immense sale della
pinacoteca Borghese: l'aria era umida e la luce si velava. Una
figura pallida attirò il mio sguardo da una parete. Sembrava
staccarsene ed inoltrare. Avevo in mano la tabella dei nomi dei
quadri e l'occhio mi cadde proprio sul numero di quel ritratto; il
duca Valentino. Diedi un balzo. Avevo letto il volgare romanzo del
D'Azeglio, e la brutta figura fisica e morale che egli vi fa del
Valentino m'era rimasta nell'animo; ero ancora un ragazzo. Raffaello
m'illuminò.
Quello era il ritratto di un grand'uomo: non ho più veduto
fisonomia così nobile, romantica e grande. Il ritratto
è a mezza figura colla faccia di tre quarti, un berretto
rotondo gli copre il capo: ha il giustacuore a righe, le maniche e i
calzoncini a piccoli sbuffi, ma si notano appena. Il suo viso
affascina. Un pallore che forse il tempo ha dato al quadro
gl'imbianca tutto il volto immobile in un pensiero che rende
più grande l'abituale superbia dei lineamenti: la fronte
s'aggronda sugli occhi ma liscia e impenetrabile quanto il marmo, il
naso leggermente arcuato fa pensare a quello di Napoleone I, le
labbra strette, più rosse, sembrerebbero una cicatrice: il
mento è quadro. I suoi occhi grandi hanno l'immobilità
dell'occhio degli uccelli rapaci, ma quella immobilità
è un effetto dell'anima. Tutta la sua fisonomia esprime la
volontà appena dissimulata dalla bellezza, resa simpatica
dall'ingegno.
Il duca Valentino ebbe comune coll'Aretino il fascino
dell'ascendente, e la metà delle sue imprese e della vita
d'entrambi rimane inesplicabile; ma sopra tutto fu il personaggio
più complesso del suo secolo. Suo padre, Alessandro VI, era
uomo di molto ingegno e politico non volgare, per quanto i vizii
della vita fra le necessità della famiglia e nell'indole dei
tempi gli facessero mutare troppo spesso i disegni e impiegarvi
mezzi eccessivamente ribaldi.
Il duca Valentino avrebbe potuto menare la vita più pomposa
ed epicurea del secolo, ma invece era dissoluto come Catilina,
bruciato dall'ambizione come Cesare. La sua natura aveva impeti di
tigre e lentezze di serpente, esigeva il comando, aspirava alla
gloria. Gentiluomo perfetto, fu l'ammirazione della Corte francese;
comprendeva le arti, viveva nella politica. Giovane capì
subito i vizii di quella del padre e si affrettò a giovarsi
del suo pontificato per costituirsi un regno. Essendogli fallito il
matrimonio di Milano colla principessa Carlotta, il suo occhio di
uomo di Stato non lo rese dubbio nella scelta: la Romagna sola,
sempre agognata dai papi, poteva essere conquistata; ma per questo
bisognava diventar capitano, destreggiarsi fra Firenze e Venezia
raggirando i migliori diplomatici del tempo, giovarsi della Francia,
tener l'occhio a Ferrara, non fallare un'occasione, mutar disegno ad
ogni evento, calcolare l'impreveduto e fronteggiare l'imprevedibile.
Il cinquecento riassumeva, disfacendolo, il medioevo. Dal Municipio
alla Signoria e al Regno tutte le combinazioni della libertà
popolare di fronte ai nobili e al re si amalgamavano contrastando
nell'Italia: gl'istinti e le vicende della nobiltà contro il
popolo e la regalità si agitavano ancora; la mancanza di
unità politica nella nazione deformava ogni ordine politico:
il frazionamento degl'interessi che il commercio divideva meglio che
non unisse, rendeva instabili tutte le relazioni; la tirannia
straniera poteva aprir l'adito a tutti i disegni preparando con
eguale facilità l'apoteosi e la decapitazione. L'Italia era
inerme. Per la troppo frequente sovrapposizione dei domimii barbari
e la loro fugacità e la mistura che ne era risultata, il
popolo sempre servo da secoli non era stato armato: la forma della
feudalità italiana, per essere l'impero lontano e il papato
suo nemico presente, non aveva potuto prodursi veramente militare
come al nord dell'Europa; poi l'Italia, agone sempre aperto di
guerre che oltrepassavano i suoi destini, non v'era intervenuta che
parzialmente, seguendo sempre il più forte e costituendosi in
varie provincie che di vittorie non proprie approfittavano per
ampliarsi. Così fra le battaglie di una guerra sempre diversa
di nome e di guerrieri e pur sempre la stessa, l'Italia era rimasta
perennemente ingombra di soldataglie, le quali disciplinandosi in
bande avevano cangiato la guerra in mestiere.
Era una nuova forma di oppressione per il popolo agricolo ed
industre, che non volle e non potè reagire. Il comune e la
feudalità dovettero quindi usare l'uno contro l'altra queste
bande, giacchè il nuovo armamento e la maniera del combattere
rendeva il popolo nullo in una guerra, nella quale cento uomini
d'arme bastavano a prendere una città. Allora sorse il
condottiero, che fu il tipo più originale e complesso nel
medio evo. La supremazia militare sopra un popolo inerme gli permise
di far tutto e di arrivare a tutto; egli solo aveva il monopolio del
coraggio e della forza, e riunendo tutti i problemi della diffidenza
universale poteva ad ogni istante essere l'arbitro di tutti.
Principi che non volevano armare nè il popolo nè la
nobiltà, repubbliche sempre in sospetto di una dittatura
militare, aristocrazie gelose della popolarità di un loro
vincitore, tutti reciprocamente disarmati avevano dovuto
reciprocamente accettare il condottiero. Allora sulla volontaria
umiliazione di tutti, questi si eresse gigante. La scure che
troncò il capo al Carmagnola non potè impedire a
Francesco Sforza di farsi signore di Milano: poco dopo Lodovico il
Moro era tradito da' suoi mercenari, e Firenze condannava invano
Paolo Vitelli, per finire tradita dal Malatesta. La politica
informandosi dal condottiero divenne vile, mentre principi e
diplomatici, lontani dal campo di battaglia, dovendo anzi tutto
assicurarsi di chi vinceva o perdeva per loro, finivano fatalmente
per correre più volontieri i rischii delle congiure che
quelli della guerra.
Il Valentino, mettendosi principe fra i condottieri, volle
diventarlo per conto proprio. Il suo problema a distanza di secoli
impicciolito nelle proporzioni storiche dell'Italia d'allora,
ricordò quello di Annibale: costituirsi un esercito per
impadronirsi dell'Italia. Se la famosa frase del carciofo non fu
vera, basta alla gloria, del Valentino che gli sia attribuita. Ma
incalcolabilmente superiore ai condottieri del tempo, che dagli
splendori di Francesco Sforza e di Niccolò Piccinino
precipitavano all'ultima decadenza, egli fu un politico profondo
come i migliori veneziani, efferato come tutti i tirannelli di
allora. Non bisogna dimenticare che gli Aragonesi, gli Estensi, i
Riario, i Bentivoglio, gli Sforza, i Comuni, i Pontefici, le
Repubbliche, tutti erano egualmente subdoli e feroci. Il pugnale e
il veleno erano in fondo a tutti gli amori e a tutte le diplomazie.
Il Macchiavelli mandato dalla Signoria al Valentino nella più
difficile crisi della sua conquista in Romagna potè
studiarlo. Tutti i condottieri gli si erano ribellati; egli
temporeggiò, li ingannò, li uccise tutti: era fatale,
era morte per morte. L'impresa della Romagna lo esigeva, l'Italia
politica approvò, Macchiavelli ammirò il coraggio e la
destrezza di quel processo. Il duca Valentino gli si
ingigantì nel pensiero. Infatti, quel figlio di papa gittato
nella tormenta della politica d'allora senz'altro appoggio che
quello precario del pontefice, e nullameno così forte da
pretendere a un regno; parato ad ogni fine, capace d'ogni mezzo,
gran signore, impenetrabile, romantico al punto da mescolare imprese
galanti a tragedie di guerra, non obbliandosi mai: sobrio e
dissoluto, spezzando impassibile i proprii migliori strumenti come
Don Ramiro appena gli si appesantissero nella mano, era bene la
più gagliarda figura italiana del secolo. L'orrore che adesso
in noi desta il solo suo nome era allora quasi tolto dai costumi del
tempo; solo la sua idea e la tragica costanza nel seguirla restavano
grandi. Involontariamente il Machiavelli lo paragonò a
parecchi eroi dell'antichità e il Valentino uscì
trionfante dal paragone: Agatocle non era certo nè maggiore
nè migliore di lui.
La relazione mandata dal Machiavelli alla Signoria sulla strage di
Sinigallia pare scritta sul marmo, tanto freddo ne spira; mentre il
suo disprezzo per Vitellozzo e Oliverotto, che non sanno
coraggiosamente morire, rivela più che ogni altra frase,
l'ammirazione inspiratagli dal Valentino impassibile nella buona
come nell'avversa fortuna.
La figura del duca dominò quindi tutta la vita del
Machiavelli, che la pratica della politica veniva riconfermando
nella necessità dei mezzi da lui adoperati. Lo studio di Roma
antica colla sua virtù puramente politica e la gloria
universale lo attirava invece nel sogno di una nuova Italia libera e
grande.
Ritornato a Firenze, la titubanza della Signoria e la timida
insufficienza del Soderini dovettero ancora fargli sentire
più vivamente quello che avrebbe potuto diventare il
Valentino signore di Firenze. Quindi ebbe altre cariche; provvide
all'ordinanza della milizia e vi accudì al punto di
fanatizzarsene e farne la base di tutto un sogno politico, la
ricostituzione dell'Italia mediante la costituzione di una milizia
nazionale. Poi fu mandato a Siena incontro al Cardinale di Santa
Croce legato del papa all'imperatore Massimiliano, che minacciava di
scendere in Italia a cíngere la corona imperiale. L'incarico
del Machiavelli era d'indovinare possibilmente dal legato quale
potesse essere l'animo dell'imperatore. Allora la Francia colla
sanguinosa repressione di Genova risorgeva in potenza, e
Massimiliano naturalmente suo rivale era una testa così
bizzarra da pretendere qualche volta di farsi persino papa; ma la
Dieta, lesinandogli uomini e danari, gli impediva anche quelle
imprese che sembrava consentirgli.
Massimiliano aveva chiesto a Firenze in nome dell'impero 500,000
fiorini. I Fiorentini che non potevano pagare così grossa
somma, temevano di negarla, e non avrebbero osato concederla per non
perdere l'amicizia francese.
Si pensò a mandare ambasciatori a Massimiliano, ma parve
finezza farli precedere da qualcuno che saggiasse il terreno. Il
Soderini nominò Machiavelli; ma questi era un subalterno.
L'orgoglio fiorentino protestò; fu mandato il Vettori. Il
Macchiavelli non era dunque arrivato, dopo parecchi anni di ufficio,
questi che doveva passare ai posteri per il più furbo dei
politici, a conquistare in Firenze nemmeno l'importanza di un
Vettori, volgare letterato e politicante, che solo la sua amicizia
con lui ha salvato dall'oblio.
Finalmente dopo molto armeggio il Soderini, che lo proteggeva,
riuscì a mandarlo al Vettori come corriere apportatore di uno
schema di accordo coll'imperatore, che il Vettori solamente doveva
giudicare se presentabile o meno. Dalle lettere del Macchiavelli
risulta che quel tenere a bada l'imperatore dilazionando il
pagamento, gli pareva altrettanto inutile che pericoloso; ma i fatti
gli diedero torto, poichè la tregua concordata nel Giugno
1508 fra Massimiliano e Venezia salvò i Fiorentini dal
pagamento.
Il Machiavelli scrisse su questo viaggio nella Svizzera ai confini
di Alemagna un rapporto, nel quale si è voluto vedere una
grande profondità politica, I Tedeschi ne sono andati lieti
per i complimenti alla Germania, gl'Italiani come di una scoperta
fatta da uno dei loro. Fra i primi il Gervinus, solito ad ingannarsi
sui letterati italiani, come nei giudizi sul Foscolo e sull'Alfieri,
giudicò, cedendo al fascino del patriottismo, questo rapporto
del Macchiavelli come un capolavoro di analisi sul governo tedesco e
sull'imperatore; mentre il Mundt con più fine accorgimento vi
notò l'influenza della Germania di Tacito; fra i secondi il
Villari facile ad ammirare il Macchiavelli, deve pur confessare che
le relazioni dell'ambasciatore veneto Quirini sono anche più
acute, e che il Guicciardini a parità di caso è sempre
più sicuro. La meraviglia davvero singolare di questo
rapporto è invece l'oblio della rivoluzione religiosa e
politica che agitava allora la Germania. Il Macchiavelli non sembra
nemmeno sospettare che la Germania sia in preda a una delle
più grandi rivoluzioni del mondo.
Le sue osservazioni sulle costituzioni svizzere e tedesche non
oltrepassano le forme militari e politiche apparenti: raccoglie dati
statistici, s'impressiona alla differenza del costume nordico,
robusto perchè feroce, coll'italiano corrotto per troppa
coltura, e ne fa un idillio di virtù nazionale che la
Germania era ben lungi dall'avere in quel tempo. I libri stessi di
Lutero, e lo studio fatto ora della grande riforma lo hanno
largamente confermato. In questo primo rapporto si scopre già
l'errore scientifico che informerà tutta l'opera del
Macchiavelli, il barattare sempre il Governo per lo Stato, isolando
le forme politiche dalle grandi ragioni sociali. La questione
religiosa d'allora, che conteneva tutta l'odierna civiltà,
gli sfugge quanto il cinquecento italiano collo immenso movimento
artistico, nel quale viveva. In quel rapporto da lui parecchie volte
rimaneggiato non fa alcun accenno alla storia tedesca; senza dubbio
l'ignora, ma trascurandola del tutto sembra giudicarla inutile alla
conoscenza del presente. Tutte le sue osservazioni sono sulla
superficie; della coscienza del popolo, delle idee che compongono la
sua civiltà, de' suoi bisogni spirituali, de' suoi ideali
nessuna preoccupazione. Vessel e Huss non gli richiamano al pensiero
Savonarola. Il Cantone svizzero non gli ispira alcun vero confronto
col Comune italiano, la feudalità teutonica e italica per
essere egualmente ostili al comune non hanno per lui essenziali
differenze. Se gli Svizzeri e i Tedeschi sono militarmente superiori
agli Italiani, egli spiega volgarmente tale inferiorità
nazionale colla corruzione del popolo e l'insipienza dei governanti,
senza sospettare che una causa più profonda, debba produrre
questi effetti che gli paiono cause.
Così nei Ritratti delle cose di Francia non avverte il moto
religioso che già vi fermentava e non analizza l'opera
compita da Luigi XI: nota il Parlamento ma non l'esamina, coglie a
volo la devozione e l'accentramento prodotto dall'eccessiva
unità di comando, contentandosi di ripetere sul carattere
francese le osservazioni di Giulio Cesare.
In questo torno il Machiavelli nominato commissario al campo di Pisa
intese quasi esclusivamente all'ordinanza della milizia,
confermandosi nelle idee che doveva poi esporre nei Dialoghi
dell'Arte della guerra; e siccome finalmente Pisa gli si arrese,
potè per la prima volta dopo molti anni di pratiche
politiche, sfruttando l'opera dell'illustre e sfortunato Giacomini,
acquistare in Firenze una certa importanza, la quale nè
durò nè crebbe. A traverso tutte le conflagrazioni
italiche d'allora il governo repubblicano del Soderini si
approssimava fatalmente alla morte. Infatti, dopo la battaglia di
Ravenna il cardinale Giovanni de' Medici, che doveva poi diventare
Leone X, l'assalì: il Macchiavelli si illuse sulla
vitalità del governo e sulla stabilità della propria
ordinanza, che a Prato fu ridevolmente sbaragliata dal primo assalto
degli Spagnuoli. I Medici rientrarono in Firenze, e il Macchiavelli,
impiegato subalterno ma fedele del governo vinto, fu licenziato.
Questo, che fu il maggiore avvenimento della sua vita, rivela il suo
carattere e il suo ingegno politico.
Democratico per istinto, Macchiavelli non aveva certo tempra
repubblicana; pittore della politica, non era politico vero,
giacchè a nessuno, anche minore di lui nell'ingegno, poteva o
doveva sfuggire l'inanità del governo del Soderini e la forza
crescente del partito dei Medici. Il Macchiavelli che disprezzava il
Soderini, e morto lo colpì col migliore dei proprii
epigrammi, lo sostenne sino all'ultimo per rivolgersi, appena lui
caduto, ai Medici chiamandoli bassamente padroni. Voleva così
ottenere da loro la riconferma nell'impiego, che invece gli fu tolto
in quelle prime ore della diffidenza. La sua condotta non fu quindi
nè abile nè forte: impiegato ligio al governo e senza
fede ne' suoi uomini si limitò, egli che poco dopo doveva
scrivere il Principe per consigliare ad un Medici l'arte d'imporsi
con qualsiasi mezzo, a conservare in quel trambusto che decideva
della fortuna e della vita di molti, il posto povero e inferiore di
segretario; e ne fallì persino il modo. La fedeltà nel
suo caso non poteva essere che eroica o volgare: politico del
cinquecento, doveva tradire la repubblica condannata
irremissibilmente a morte e cacciarsi nelle file dei Medici
nuovamente arbitri dell'Italia; repubblicano, doveva cadere colla
repubblica rinunciando all'impiego per esulare o congiurare. Invece
sorpreso come Soderini dagli avvenimenti, non si mostrò che
impiegato devoto a ogni padrone e preoccupato anzitutto dello
stipendio.
Ma per Macchiavelli, come per la maggior parte degli artisti,
scienza, religione, politica e filosofia, tutti hanno i proprii, la
fibra del carattere non corrisponde sempre all'ingegno, mentre il
suo ingegno stesso per essere speculativo si smarrisce nel tumulto
dell'azione, alla quale poi ripensando rifà così
facilmente il processo. Che cosa avrebbe detto il duca Valentino del
diplomatico, che doveva diventare il suo storico, vedendolo in
così triste arnese e con sì magra figura in mezzo ad
avvenimenti tanto facili a prevedersi e a sfruttarsi? Macchiavelli
decaduto dall'impiego rimase povero e sospettato. Il suo ingegno si
offuscò, la sua abilità venne meno. Incapace di
trovare adito ai nuovi padroni, dei quali non aveva saputo attirarsi
l'attenzione nè col tradimento nè colla resistenza,
ripiombava nell'oscurità e nella miseria con tutta la
famiglia. Ma la sua era meno l'amarezza di una grande ambizione
delusa che l'umiliazione di un gran disastro borghese. Le
necessità della vita quotidiana sopratutto lo esasperavano,
togliendogli di meditare un qualunque espediente per uscire di
quella povertà, ora che il cardinale Giovanni diventato Leone
X spiegava un fasto, che doveva poi restar celebre nella storia.
Tutti correvano a Roma, venturieri, letterati, artisti, intriganti
di ogni risma e capacità. Il nuovo papa, politicante come
tutti i Medici quantunque troppo inferiore a Giulio II, tramestava
moltissimi disegni. Una folla di segretari lo circondava; i
letterati arrivavano a sciami. Il Macchiavelli che sentiva di non
esserlo non osò muoversi, giacchè in Vaticano fra il
Bembo e il Sadoleto sarebbe parso un ignorante. Si limitò
quindi ad insistere presso il Vettori, legato a Roma, perchè
gli ottenesse la grazia di un qualsiasi impiego dai Medici.
Ma a ciò faceva ostacolo sopratutto l'ultima congiura del
Boscoli e del Capponi, infelicemente troppo simile a quella
dell'Olgiati in Milano e nella quale il Macchiavelli era stato
compromesso. Non già che egli avesse congiurato; il suo animo
non era da tanto, ma come fautore del Governo caduto, il suo nome da
quei giovani eroicamente sventati era stato scritto sopra una lista
di persone che speravano aderenti. Il Capponi e il Boscoli morirono
stoicamente; il Macchiavelli ricevette quattro o sei tratti di
corda, e riconosciuto innocente fu rilasciato.
Su questo imprigionamento e sulla tortura patita le fantasie
patriottiche, specialmente italiane della prima metà di
questo secolo, hanno tessuto tutta una storia di martirio, facendo
del Macchiavelli non solo un rivoluzionario moderno nato per
eccessiva precocità nel quattrocento, ma un eroe. Il vero
è che quasi all'indomani, poichè la lettera è
del 13 Marzo e le prime carcerazioni dei congiurati erano avvenute
il 18 Febbraio, il Macchiavelli scriveva al Vettori lagnandosi del
tristo accidente e scongiurandolo ancora di ottenergli qualche
impiego dai Medici; il vero si è, e molto brutto questa
volta, che in prigione compose tre sonetti indirizzati a Giuliano
de' Medici, in uno dei quali descrivendo il supplizio de' suoi
compagni di corda e la tragica attesa dei condannati a morte, egli
già sicuro di esserne fuori, usciva in questi versi
pochissimo belli anche letterariamente:
Quel che mi fè più guerra
Fu che dormendo presso l'aurora
Cantando sentii dire: per voi s'òra
Or vadano in malora,
Purchè vostra pietà ver me si voglia,
Buon padre, e questi rei lacciuol ne scioglia.
Il cinico egoismo di questa suprema imprecazione ai condannati
repubblicani che l'avevano compromesso, e l'umile preghiera al buon
padre Giuliano onde lo sciolga dai lacci, rivelano nel Macchiavelli
l'uomo incapace di forti azioni e di eroici sentimenti, che piombato
dalla nuova miseria in una impreveduta tragedia insultava e pregava,
calcolando magari che l'insulto ai compagni sarebbe presso il
tiranno più efficace della preghiera.
Ma qui finisce la vita politica del Macchiavelli e incomincia la
letteraria. Nella prima non fu certo un politico, e i Signori che
l'adoperarono e i contemporanei che lo conobbero, gli concessero ben
poca importanza: non previde e non diresse avvenimenti, non fu di
nessun partito e non se ne creò uno, cadde travolto nello
sfacelo del governo come tutti i servitori che non sanno nè
prevedere nè dividere nè profittare della ruina del
padrone. L'attività politica non poteva avergli insegnato
molto, giacchè non era mai riuscito ad applicare idee
proprie, e non s'impara davvero che governando: aveva molto
viaggiato, osservato, conversato, poco letto. Nella seconda
elaborò quanto aveva raccolto e vi aggiunse quanto di latente
si agitava nel suo spirito.<
VIII.
Si è affermato, e il Villari è uno degli ultimi e
più autorevoli in tale opinione, che con Macchiavelli
comincia davvero la scienza politica, tanto meravigliosamente
cresciuta in questo secolo. Se ciò fosse vero la gloria del
Macchiavelli varrebbe quella del Galileo, giacchè le leggi
della storia sono più difficili e non meno importanti di
quelle dell'astronomia; ma se il Macchiavelli fu un osservatore
solamente secondo al Guicciardini nello studio dei fatti politici e
diverso in ciò da lui tentò ordinarli nel Principe
entro una specie di sistema, non solo non ebbe nè coscienza
nè potenza di una vera costruzione scientifica, ma le sue
stesse osservazioni più spesso psicologiche che sociali gli
riuscirono monche e insufficienti all'argomento.
Il medio-evo aveva avuto due scuole politiche: l'una guelfa e
l'altra ghibellina. San Tomaso ed Egidio Colonna dominarono nella
prima, Dante Alighieri e Marsilio da Padova brillarono nella
seconda. Per San Tomaso la Chiesa era la sola vera unità
della vita che cominciata sulla terra si compieva in cielo: il Papa
riassumeva nella propria autorità questa unità e
doveva dirigere la storia verso il fine che la trascendeva. Per
Dante il fondamento della società è nel diritto, che
divino anch'esso, essendo la giustizia voluta da Dio, à
nullameno indipendente dalla religione e costituisce la base
dell'impero. L'Imperatore sintetizza in sè l'Impero come il
Papa la Chiesa: debbono armonizzarsi non sovverchiarsi; entrambi
universali ed indiscutibili, non dipendono che da Dio, del quale
hanno in deposito sacro l'autorità e la verità.
Malgrado parecchie buone osservazioni storiche sul mondo romano e le
inconscie ma innegabili tendenze alla emancipazione della
società laica dalla ecclesiastica, Dante non ebbe e non
avrebbe voluto avere il concetto dello stato laico, che molti
apologisti si ostinano ancora ad attribuirgli. Il suo dissidio con
San Tomaso rimane entro la cerchia incantata della scolastica, e il
suo impero è piuttosto un riflesso che un avversario della
Chiesa.
Con Marsilio da Padova, che la Germania sembra aver scoperto
all'Italia, appare invece e sfolgoreggia il concetto dello stato
moderno. Nel suo Defensor Pacis, il libro più meraviglioso
del medio-evo, la polemica lo porta così alto da volere
addirittura sottomessa la Chiesa allo Stato; quindi esamina i vari
ordini dell'attività umana, determina molte funzioni sociali,
separa il potere esecutivo dal legislativo emancipandosi primo
dall'autorità tirannica di Aristotile. La monarchia di
Marsilio è quasi una repubblica rappresentativa colla
sovranità assoluta del popolo: la Chiesa risiedente nella
universalità dei credenti e nelle Sacre Scritture non ha
alcun potere coercitivo nemmeno sugli eretici. Se Dante nella sua
Monarchia secondo la bella frase di James Bryce dettò
l'epitaffio dell'impero, Marsilio nel Defensor Pacis scrisse la
prefazione della riforma evocando dal futuro lo stato moderno. Certo
egli non poteva dir tutto, nè tutto bene come il Villari
vorrebbe, ma nessuno, il Macchiavelli compreso e venuto tanto tempo
dopo, disse di più. Dopo questa grande vittoria di Marsilio
sulla Scolastica, ottenuta con uno sforzo allora incompreso e oggi
ancora quasi incomprensibile(9), non vi furono altri grandi
tentativi. Fra l'Impero e la Chiesa non più così
compatti avversari, avendo involontariamente colle loro discordie
cooperato alla trasformazione dei Comuni in piccoli Stati entro i
quali l'equilibrio degli sforzi e la moltitudine delle minime
differenze favorivano in fatto la libertà, il grande dissidio
teoretico parve sopito. Quindi l'erudizione dissuggellò il
mondo classico traendone concetti e ragioni politiche prima ignote o
trascurate. L'antico Stato pagano, già rievocato da Dante,
abbacinò tutte le menti nel confronto involontario coi
piccoli Stati del tempo; la sua virtù politica
signoreggiò come ideale di grandezza storica la virtù
cristiana.
Ma i molti eruditi, che scrissero allora trattati politici, fecero
misture di massime cristiane e pagane piuttosto per esercitazione
rettorica e con intendimenti di sermone che con vero scopo di
battaglia politica o intenzioni di scienza. La quale doveva tardare
ancora troppi secoli a nascere. In quella lotta di minimi Stati, che
inermi e padroneggiati dai condottieri preferivano naturalmente la
guerra degli imbrogli a quella delle armi, era sorta intanto una
diplomazia ribalda ed astuta, nella quale lo studio degli uomini e
il conflitto degli interessi menavano inconsciamente all'esame delle
realtà storiche. Ma poichè mancava lo Stato italiano e
la coltura intellettuale non si appoggiava sulla base solida di una
coscienza nazionale, non era possibile trovare le vere leggi sociali
e la media dei singoli interessi, o dalla morale puramente
precettiva delta religione risalire al diritto per determinare di
qualche guisa i rapporti dell'individuo collo Stato. Poi la storia
avviluppata in quella molteplice tragedia di tutte le forme
medioevali dissolventisi non mostrava indirizzo; il Comune era
moribondo, lo Stato non nato, la Federazione impossibile,
l'unità inconcepibile, l'indipendenza dallo straniero un
desiderio mutevole negli interessi d'ognuno, la libertà
libera, secondo la bella frase di Macchiavelli sugli Svizzeri, un
mistero che solo l'unità dello Stato e l'eguaglianza politica
degl'individui potevano rivelare.
Macchiavelli e Guicciardini capitarono in questo mondo e lo
scrutarono.
Se San Tomaso ed Egidio Colonna avevano formulato nella loro teorica
il concetto dell'universale politico del medio-evo, Macchiavelli e
Guicciardini esposero in vari scritti le idee del particolarismo che
era la caratteristica del loro secolo. Nessuno di loro due fu
filosofo, ma cresciuti piuttosto nel disprezzo della filosofia che
il neo-platonismo del Ficino aveva finito di screditare presso gli
spiriti pratici, tendevano alla giurisprudenza senza raggiungerla,
come alla migliore scienza del particolare e alla vivente tradizione
di quella Roma nella quale tutti più o meno cercavano un
modello.
E da Roma s'inspirò la maggior opera politica del
Macchiavelli.
Ritiratosi, per evitare forse nuovi sospetti, nell'anno 1513 alla
sua piccola villa in Percussina e disperato dell'aspettarvi sempre
un ufficio non mai promessogli, si pose con più ardore allo
studio. La politica che aveva amato come una donna, e dalla quale
era stato respinto, lo perseguitava ancora con fantasmi e problemi.
Non essendo mai stato abbastanza forte per dominarla imponendole le
proprie idee, gli si acuiva ora naturalmente il desiderio di
penetrare il segreto delle sue, scoprendo i reconditi motori delle
sue così strane mutazioni e come si sviluppassero le sue
forme; perchè si vincessero l'una l'altra con perpetua
vicenda, in qual modo gli uomini cangiassero entro di esse e
sopratutto come vi si potessero mantenere. Era come una rivincita
della sua passione, l'estremo sforzo di un amante che cacciato dalla
bella la decompone analizzandola e si rialza vittorioso dell'averla
finalmente capita. Comprendere non è forse più che
volere? Il pensiero non è sempre maggiore dell'azione?
Il fondo artistico della sua natura fermentava. Tutte le
osservazioni e le esperienze di quei quindici anni d'esercizio
politico gli si risvegliarono(10). tumultuando nel pensiero. Era una
ressa nella quale nessun fatto andava perduto, nessuna idea restava
nascosta. Una luce bianca e fredda gli rischiarava la memoria, come
il sole fa a certi giorni limpidi d'inverno quando la terra è
tutta coperta di neve. Pensiero, anima, tutto gli si assorbiva nella
memoria. Firenze col suo interessante esperimento del nuovo governo
mediceo, e l'Italia stessa con tutta la sua tragedia di dolori e di
pericoli, non esistevano più; in lui la curiosità del
grande problema politico soffocava persino lo spasimo della
sconfitta. Non gl'importava più nulla di essere un vinto.
Voleva scoprire e sapere. Non era un filosofo e non si alzava troppo
smarrendosi nell'astrazione, come più tardi doveva fare Vico
cercando le massime leggi della storia; la sua era l'astrazione
artistica che non oltrepassa la psicologia e non dissecca mai i
fatti che analizza e non dissolve mai le forme che scruta.
Studiava la stessa politica, che aveva vissuto, fatta solamente di
passioni, di bisogni, di idee individuali. Tutto quanto trascendeva
l'individuo rimaneva inutile all'individuo stesso ed al problema. La
vita era una realtà. Lo Stato non essendo composto che di
individui, questi dovevano fatalmente contenere il secreto della sua
vita, giacchè ogni società è basata sulla
natura dell'uomo che pensa, sente, opera unicamente per sè. I
più forti s'impongono, i più deboli subiscono. Ma come
possono i forti imporsi? Studiando come e perchè i deboli
subiscano.
Così la storia diventa un immenso dramma di cui la sola
unità è nelle scene. Le parti non essendovi
prestabilite, ogni attore può impossessarsi di quella che
più gli talenta, salvo ad averne la forza. Una fantasmagoria
sanguinosa si apre dinanzi al pensiero, ma così incessante ed
immensa che il cuore non può sopportarla se non
concentrandosi in qualcuno de' suoi quadri, mentre l'intelletto,
cercando il nodo che stringe scena a scena, spia già quella
che finisce per indovinare la fine di un'altra che incomincia.
È come un'altra visione ariostea trasportata dal sogno della
cavalleria medioevale alla storia del mondo. I vari gruppi delle
scene e dei personaggi vi rappresentano gl'imperi e le repubbliche
dell'antichità. Le decorazioni contigue rimangono nullameno
distinte, formando ciascuna un mondo a parte. Ma in questo
caleidoscopio, che pare così vario e nullameno è
così uniforme, ancora un'altra somiglianza con quello
dell'Ariosto, giacchè la scena che vi si eseguisce è
sempre politica ed è sempre un uomo che vuol comandare ad un
altro che non vuol obbedire, solo l'eroismo di chi vince o di chi
perde, tanto più bello se di un capitano che si sacrifichi
per il proprio esercito o di un re che muoia per il proprio popolo,
può apprendere all'intelletto qualche entusiasmo. L'eroismo
allora sale oltre la virtù, la morte si complica di un
olocausto che esaltando l'esercito o il popolo pel quale è
compito gli assicura nuove vittorie. Ecco lo stato creato
dall'eroismo del tiranno e mantenuto dalla sua grand'anima.
Ma veniamo ai Discorsi e al Principe.
Alcuni critici hanno voluto crederle due opere senza relazione, ma
l'esame più superficiale di esse persuade subito che i
Discorsi furono la preparazione, dalla quale si formò il
Principe, per quanto premuto da un esterno bisogno, questo uscisse
prima di quelli. I Discorsi non sono un trattato e non hanno
costruzione scientifica: di essa il Macchiavelli non ha la
più piccola preoccupazione. Dovevano essere nel suo pensiero
un commento a Tito Livio, ma non gli riuscirono che divagazioni
sparse di riflessioni, interrotte da raffronti, da quadri storici,
da mezze biografie. Nessuna critica presiede al commento;
Macchiavelli accetta il racconto di Tito Livio come verità
accertata e indiscutibile. Sono divisi in tre libri, il primo dei
quali discute come si fondino e si ordinino gli Stati, il secondo
come s'ingrandiscano e si conquistino, il terzo come crescano e
decadino. La distribuzione della materia è confusa, il
richiamo da un libro all'altro, e l'inversione dello sviluppo quasi
continua.
Il futuro storico fiorentino nel grande storico romano, attraverso
la pompa magnifica dello stile, non cerca il critico o il filosofo,
ma l'espositore: tutto è uguale per lui, il racconto di una
magia e quello di una battaglia. La favola della fondazione di Roma
non lo mette in sospetto, la simbolica delle prime forme giuridiche
e politiche non nasconde nulla per lui quasi contemporaneo del
Sigonio, che stava per aprire all'erudizione la grande via della
critica. Macchiavelli non è nè un erudito nè un
giurista. Il segreto della storia romana starà per lui nella
vicenda delle guerre, nel gioco meccanico del governo. Dedicando
questi Discorsi al Buondelmonti, dice di mettersi per una via non
battuta da alcuno; ma questa originalità consiste per lui
nell'insegnare l'imitazione degli antichi anche nella politica,
mentre era già usata nella giurisprudenza, nella medicina e
nell'arte. Per progredire retrocede, anzi il progresso per lui non
esiste. La sua base essendo la psicologia nella quale l'uomo risulta
sempre uguale a sè stesso, il progresso è impossibile.
Non esamina la civiltà delle varie epoche, non ne interroga
le religioni, le arti, il diritto, l'economia: per lui la storia
è già perfetta come si trova in Tito Livio e gli
basterà per risolvere i problemi che si propone o gli vengono
a mano a mano suggeriti dalla lettura e dai ricordi.
Così l'origine, lo sviluppo, la morte d'uno Stato non
può essere che quella d'un Governo, nel quale i mutamenti
riusciranno inesplicabili separati dalla ragione della vita sociale.
Per Macchiavelli l'anima di un popolo non esiste, nel Governo solo
che lo regge sta il segreto della sua vitalità: se il Governo
non decadesse, il popolo sarebbe immortale.
Il concetto scientifico informatore di questi Discorsi, così
evidente per il Villari che nullameno ha dimenticato di dichiararlo,
non si vede. Se il Macchiavelli avesse avuto un vero temperamento di
scienziato, si sarebbe anzitutto preoccupato della forma e del
metodo del suo libro: se il suo ingegno avesse posseduto un'idea
originale, avrebbe intorno ad esso raggruppati tutti i fatti e li
avrebbe con essa interpretati. Ora l'idea originale gli manca come
storico, critico e politico. Dopo l'immenso monumento della Politica
di Aristotile, nella quale lo Stato è concepito ed esaminato
nella molteplice unità delle sue funzioni, il concetto
angusto del Macchiavelli che lo scambia pel Governo, non è
una originalità ma un errore.
L'uomo concepito dal Macchiavelli, indifferente ad ogni
attività che non sia politica o militare, pensa solo a
difendersi o ad aumentare la propria forza, cosicchè la
difesa, mezzo alla vita, ne diventa lo scopo e la formula finale.
Macchiavelli non imita Aristotile, lo ignora o non lo comprende.
Questi, fondando il metodo induttivo nelle scienze naturali e il
metodo storico nelle politiche, aveva affermato che i fenomeni della
natura e i fatti della storia andavano egualmente trattati.
Macchiavelli sembra non conoscere questo metodo che Leonardo da
Vinci aveva già usato e Galileo doveva fra poco perfezionare;
la sua induzione e la sua deduzione operano in un cerchio
così stretto che i fatti debbono snaturarsi per capirvi. Il
Villari trova ancora un'immensa differenza tra Macchiavelli e
Aristotile, e quindi un merito di originalità nel primo,
perchè mentre Aristotile già in possesso dell'idea
concreta dello Stato mette a scopo della sua Politica la ricerca del
migliore fra i governi, il Macchiavelli dichiara inutile questa
ricerca e vuole invece indagare quali essi sieno o possano essere;
ma per questo gli occorrerebbe l'idea dello Stato, e non avendola
nemmeno quale la possedeva Aristotile, non solo tale indagine gli
rimane impossibile, ma lo condurrà a maggiori errori.
Aristotile trovò lo Stato greco quasi immedesimato colla
religione e l'emancipò, esaminandolo, come un fatto naturale
e dichiarando l'uomo un essere essenzialmente politico; il
Macchiavelli prescinde anch'egli dalla religione, ma invece di
svincolare lo Stato lo isola, lo amputa, ne fa un meccanismo
governativo, che muove sè stesso senza ricevere e quindi
senza poter comunicare ad altri il proprio moto.
La Politica di Aristotile è una delle tappe più
gloriose nella storia del pensiero umano, forse il monumento
più grande delle scienze storiche; i Discorsi del
Macchiavelli non furono e non saranno mai che discorsi di un grande
ingegno vagante nella storia colla penetrazione dell'arte politica e
di una varia esperienza personale.
I Discorsi cominciando dal ragionare delle origini delle varie forme
di governo s'appropriano, traducendolo, tutto un brano del settimo
libro delle Storie di Polibio: le applicazioni che il Macchiavelli
ne fa alla storia romana concludono a questo, che Romolo avrebbe
potuto fondare diversamente Roma e diversamente informarne la
storia, ma che i Romani risultarono così da lui costituiti e
così durarono per gli scopi che dovevano realizzare. Secondo
Macchiavelli la religione fu causa precipua della grandezza dei
Romani, non per il suo contenuto, ma per avere conservato buono il
costume; così la corruzione della religione cristiana
organizzando la Chiesa a Stato diventò invece la vera cagione
per la quale l'Italia non si potè mai riunire in nazione. E
questo è un doppio errore del Macchiavelli, poichè i
Romani furono un popolo pochissimo religioso e l'Italia non fu mai
nazione nemmeno sotto di loro, durante la repubblica perchè
non ancora unificata, nella monarchia perchè spezzata poi in
provincie.
Quindi Macchiavelli arriva presto alla sua teorica prediletta, che
suggeritagli dalla politica vissuta e verificata secondo lui dai
racconti di tutte le storie, finisce non solo per sembrargli giusta,
ma decisiva. - Ove si deliberi della salute della patria non vi
è più nè giusto nè ingiusto. - L'uomo di
Stato è al di sopra della morale. Ma questa verità
essenziale nello Stato, che retto dalle leggi storiche non
può soggiacere alla moralità delle leggi private, egli
l'applica ai governi e ai tiranni senza accorgersi di scemarne il
valore e di mutarne i risultati nell'applicazione. Poscia le
tendenze democratiche gli si intromettono nel ragionamento
guastandolo ancora: fra Catilina e Cesare per lui la differenza
è solamente nel successo. La grandezza di Cesare gli sfugge
perchè uccisore di una repubblica.
Strana contraddizione nell'autore del Principe che ammirava il
Valentino!
Prosegue quindi ad esaminare la condotta dell'uomo di Stato, quando
governi un popolo universalmente corrotto e intenda mutare la forma
del governo passando dalla tirannia alla libertà o viceversa;
e i suoi consigli e le sue osservazioni sono sempre della stessa
maniera: atterrire o corrompere. Il governo dello Stato si muta in
governo delle passioni o dei vizi dei governati. Talvolta le sue
frasi sono terse ed acute come un pugnale, ma l'argomentazione non
gli si consolida; la causa della mancanza di nazionalità
dell'Italia è sempre per lui la corruzione, alla quale non
vede altra speranza o rimedio che la tirannia di un grand'uomo.
Coglie a volo il guasto prodotto dalla putrefazione del feudalismo
nella vita italiana e scorgendone immune Venezia crede che
ciò dipenda solo dalla diversa forma della sua aristocrazia.
Quando si tratti di fondare un Regno, secondo lui bisogna disfare e
rifare tutto, abbattere città e fabbricarne, tramutare da
provincia a provincia i popoli come praticava Filippo di Macedonia:
mai vie di mezzo. Per governare una città sottomessa vi sono
tre soli modi: ammazzare i capi dei tumulti, rimuoverli, far fare
loro la pace: l'ultimo è il più pericoloso, il primo
il più sicuro. Questa è la sua scienza politica buona
in tutti i secoli e con tutti i popoli. Quando la forza non basti,
bisogna aiutarla colla frode, che da sola può vincere spesso
mentre la forza da sola non vince mai; ma qui pare lo colga qualche
scrupolo e cerca di spiegare il significato di questa frode,
diminuendo il valore di quanto aveva prima affermato. Il capitolo
delle congiure è uno dei più belli perchè
schiettamente psicologico: quindi ritorna al problema della
fondazione o dell'ampliamento dello Stato, affermando pessimo quello
tenuto dalle repubbliche del medioevo che imponevano una
servitù peggiore di quella stessa delle monarchie. Ma questa
profonda osservazione, già fatta dal Guicciardini, non gli si
slarga e non gli rivela la necessità che condannava tutte le
repubbliche di allora, alle quali invece propone tre vie d'ampliare
lo Stato: imitare gli Svizzeri e gli Etruschi, i Romani, gli
Spartani e gli Ateniesi. Ottimo dei tre il modo romano.
Al principio del terzo libro si ferma per dire che i governi e le
istituzioni per vivere lungamente debbano essere ordinati
così da poterli spesso richiamare ai loro principî;
frase mal capita e peggio combattuta da Gino Capponi, e di poco
valore giacchè è ancora un accenno all'ipotesi
iniziale del grand'uomo che fonda profeticamente lo Stato per la
storia avvenire, e peggio ancora perchè misconosce una volta
di più l'azione fatale della vita dello Stato sul governo. Ma
il richiamo al principio informatore dello Stato il Macchiavelli lo
afferma più facile sul popolo che sopra un principe, facendo
così contro tutti e con accento e entusiasmo democratico
l'apoteosi del popolo, nel quale solo riconosce la capacità
di mantenere le leggi, che il principe è più atto a
dettare. In varî altri capitoli sparsi per l'opera si occupa
già della milizia stabilendo le idee, che svilupperà
poi nell'Arte della Guerra, e condannando anzitutto le compagnie di
ventura, peste e rovina d'Italia; ma non si propone e non si spiega
il problema della loro esistenza. Ha una fede illimitata nella
costituzione e nella bontà delle milizie cittadine malgrado
le crudeli e quotidiane smentite dei fatti, che provavano
l'impossibilità di costituirle e la loro nullaggine in faccia
alle bande di ventura: disprezza assolutamente le armi da fuoco e le
fortezze che dovevano di lì a poco creare la nuova tattica e
la nuova strategìa.
Da questa preparazione uscì il Principe: questi fu la figura,
i Discorsi rimasero il fondo del quadro.
Evidentemente la cosa non poteva andare diversa nello spirito del
Macchiavelli. Quelle scorrerie attraverso la storia di Tito Livio
prodotte dalla sua passione per la politica del tempo nella quale
era stato battuto, dovevano conchiudere a un'impresa. La sua critica
senza metodo scientifico non era che una riflessione circoscritta
nei fatti storici e animata dai loro sentimenti. Macchiavelli
osservatore artistico della politica e da essa trascinato a
diventarvi attore subalterno aveva dovuto naturalmente prendere la
propria facoltà di osservare per la potenza di agire, e
battuto duramente nella lotta invece di ricredersi rientrando in
sè stesso, alzare piuttosto la propria singolare
capacità di analisi fino alle pretese di farne una scienza.
Ma di questa non aveva nè il temperamento nè la
conoscenza dei limiti nè la coscienza del metodo.
Quei Discorsi così slegati, soliloquio più atto a
persuadere sè stesso che a convincere gli altri, non potevano
bastare all'energia del suo spirito: bisognava condensarli in un
sistema o in una figura. Macchiavelli era artista e scrisse il
Principe. Un personaggio fra i molti conosciuti nella pratica del
suo ufficio gli si era imposto tiranneggiandolo e lo tiranneggiava
ancora - il duca Valentino, eroe e genio di quella politica, della
quale egli credendo di essere il maestro doveva restare il
letterato. Il duca Valentino era l'uomo più complesso del suo
secolo, e teneva alla Chiesa e al Principato, alla milizia e alla
aristocrazia, alla politica e alle battaglie. Ultimo nella storia
dei piccoli principi medioevali, slargava l'ambizione fino al sogno
d'un Regno italico, riflesso dei grandi Stati nazionali che si
costituivano allora in Europa, sulla coscienza italiana. Il
Valentino aveva sentito il bisogno di schiacciare e di dissolvere le
ultime forme feudali attaccando Principati e Comuni, disciplinando
colla propria forza, che diventava quasi virtù, tutte le loro
forze disgregate.
La sua figura ritta dinanzi allo spirito del Macchiavelli illuminava
le sue osservazioni, coordinando le riflessioni confuse che gli si
sarebbero forse imbrogliate nella meditazione. Il Valentino aveva la
chiarezza dell'azione; era il sistema fatto uomo, il secolo
individualizzato.
La fantasia del Macchiavelli, così facile ad accendersi pel
fuoco dell'interna passione, s'infiammò: in poco tempo come
sotto gli occhi del duca interruppe i Discorsi e scrisse il
Principe. Nemmeno questo è un trattato, ma una biografia di
lui, spesso sottintesa, frequentemente raccontata a brani,
richiamata con esempi, narrata e costrutta con osservazioni e
massime riassunte dalla sua opera e dalla sua vita. Lo stile di una
trasparenza di cristallo è squillante e tagliente. I due
sogni di Macchiavelli, il grand'uomo e il grande Stato si fondono
nel Principe, ma egli vi coopera, ne è la mente che spiega
l'opera fatale del temperamento. Il duca Valentino è
l'inconscio, Macchiavelli la coscienza. Nessun dubbio lo turba,
è sicuro di sè stesso: agisce nella realtà; il
cinquecento era così. Ma egli e il duca sono sulla soglia di
un mondo futuro, alla vigilia di costituire l'Italia: il duca
Valentino ne sarà il nuovo Cesare, più fortunato
dell'antico costretto ad uccidere la repubblica romana; quanto a
Macchiavelli non vi è nome cui paragonarlo nella storia e
resterà Macchiavelli. La gloria splende di già.
Nei Discorsi il suo ingegno non sempre sicuro divagava richiamato
ogni istante alla realtà della storia presente; nel Principe
la realtà lo fortifica fino a renderlo invincibile e a fargli
quasi dimenticare la storia antica. Guicciardini aveva potuto
contestargli trionfalmente le sue osservazioni sui romani e sui
greci, ma nell'analisi di quel mondo moderno, nelle affermazioni
tratte dalla vita del duca Valentino e di tutti coloro che gli
avevano somigliato, nessuno lo contraddirà. Il suo Principe
è il duca Valentino ingigantito, trasfigurato da tutti i
principi italiani vissuti nella politica, della quale questi era
stato la maggiore figura.
L'arte non ha moralità propria, poichè deve entro
sè stessa lasciar libera la manifestazione di quella dei
fatti raffigurati; così il Principe non ha morale.
Macchiavelli inconscio e sereno come tutti i grandi artisti muove la
propria figura nelle massime e colle massime dell'ambiente nel quale
gli si è presentata.
Il libro è piccino e compatto come un getto. Originale sino a
non essere paragonabile a nessun altro anteriore e posteriore, ha
tutto il fuoco e l'improvvisazione inconsapevole di un capolavoro.
Il Principe è un ritratto in cui ogni massima è un
lineamento: il cinquecento politico posa davanti al suo pittore.
Macchiavelli senza saperlo lotta con Leonardo, con Raffaello e con
Tiziano, i tre grandi ritrattisti d'allora, e il realismo della sua
ideale figura è più sicuro che non nei ritratti del
duca di Ferrara, della Gioconda e di Leone X. L'entusiasmo di una
idealità trascendente sostiene il nuovo pittore e gli
comunica nell'opera quella magica poesia, che tutti i grandi pittori
di quel tempo avevano. La figura del suo Principe terribilmente
sinistra, impassibile e serena, ha sulla fronte i vapori luminosi di
un sogno - costituire uno Stato nazionale, rifare l'Italia. -
Questo desiderio vago di tutte le coscienze d'allora, acuito dalle
sofferenze della politica interna e dal risveglio della coltura
classica, diventa in Macchiavelli passione. Artista della politica,
porta la propria anima in una politica che fatalmente non poteva
avere coscienza: pare la fusione dell'assurdo e invece è la
fusione della vita. Il suo libro che dovrà essere tanto
discusso non è discutibile perchè i ritratti non si
discutono; prendetelo per un trattato e non varrà che ben
poco e non sarà più intelligibile.
Così fu preso.
Certo il Macchiavelli intendeva di fare un trattato o di riunire un
codice, e qui sta la grande contraddizione della sua natura,
l'inconscio della sua arte. Petrarca disprezzava i propri sonetti e
si stimava un epico: Macchiavelli si crede prima un politico, poi
uno scienziato della politica e non ne è che l'artista.
L'ammirabile chiaroveggenza, la sicurezza d'analisi sugli uomini non
gli hanno giovato nella pratica. L'arte invece è una seconda
vista: può fallare un individuo, ma coglie il tipo e
ricostruendolo nella idealità di un ritratto sorpassa coloro
che meglio avevano conosciuto e trattato l'uomo reale. Balzac il
più grande psicologo dei tempi moderni, il più fino
pittore di tutte le furfanterie sociali, fu sempre vittima di tutti
i furfanti. Quella insufficienza del Macchiavelli nell'azione che
gli faceva spesso sbagliare gli uomini e le cose così ben
maneggiate dal Guicciardini, è adesso abbondantemente
compensata dall'inimitabile rilievo, col quale disegna i caratteri
del suo secolo e trascendendolo nelle tendenze e nei sogni lo inizia
al futuro.
La prosa non esisteva ancora e Macchiavelli la crea e la perfeziona
nel medesimo tempo; ma il miracolo è così grande che
passa inosservato. La coscienza nazionale mancava ed egli nel
Principe le offre il quadro di sè stessa insinuandole nelle
più intime latebre il ferro rovente della nazionalità.
È un sogno! non importa: il sogno è la prima forma dei
fatti storici e ne rimane l'ultima.
Il Principe non si può analizzarlo, bisogna leggerlo; per
decomporlo come molti hanno fatto, bisogna crederlo un trattato
secondo l'illusione del Macchiavelli, e allora non è
più che una congerie di massime monche, tronche, superficiali
ed immorali! Come trattato, benchè più serrato nelle
parti e solido nella struttura, ha tutti i difetti dei Discorsi;
come opera scientifica è senza metodo. Siamo ancora alla
confusione fra Governo e Stato, all'oblìo di tutte le
attività sociali, al concetto del popolo senz'anima
collettiva: nessuna vera intuizione dei tempi moderni, nessun
profondo esame dello stato d'Italia, non un accenno alla Riforma
tedesca, alla scoperta d'America, a quella di Copernico, della
stampa, della polvere. Col formulario del Principe non solo non si
fonda uno Stato italiano, ma non si governa nessuno Stato; colla
pretesa di massime capaci per tutti i casi non se ne risolve alcuno.
Nel Principe il processo è sempre quello di un piccolo
tiranno esercitato da congiure di trivio o di palazzo, intento a
conquistare qualche terra vicina, pronto ad ogni efferatezza per
vincere e per vivere. Il fondo di esso è la barbarie feudale,
il suo ambiente il feudalismo in dissoluzione fra i Comuni, Roma e
l'Impero.
La scienza della politica non ha molto da imparare nel Principe di
Macchiavelli, la storia del cinquecento non può farne a meno:
il libro rivela il secolo nel quale vi è posto per ogni
meraviglia. Macchiavelli e Ariosto vi si ignorano, Michelangelo e
Raffaello non vi si comprendono: l'uno è l'ultima grand'anima
italiana e assomiglia a Dante, l'altro non somiglia a nessuno,
è ingenuo, fa tutto, imita e trasforma tutti, trova la
varietà e la perfezione della bellezza in un secolo che non
sente e non crede più nulla. De' suoi letterati nessuno
vivrà tranne i due che lo sono meno, Macchiavelli e
Guicciardini nella prosa: nella poesia i due meno applauditi,
Ariosto e Tasso. Nessuno s'accorge ancora della rivoluzione
già incominciata, Lutero fa sorridere, Venezia non teme
dell'America, Roma di Copernico, i letterati abbominano la stampa, i
soldati non credono alla polvere. Giulio II grida: fuori i barbari,
Massimiliano vuole farsi papa, San Pietro è costrutto colle
indulgenze, le statue antiche valgono più dei santi, il
progresso della coscienza storica deriva dal guardare indietro al
mondo romano, le Corti sono accademie di letterati e antri di
assassini, il Vaticano è un teatro di buffoni, la filosofia
una rugumazione di Aristotile divenuto indigeribile, la letteratura
una imitazione che solo il lazzo della satira e la lezia della
pedanteria animano. Il Principe di Macchiavelli, apoteosi del
tiranno, codice dell'assassinio, finisce colla più generosa
apostrofe alla libertà rimasta nella letteratura nazionale e
con quattro versi della più eroica fra le canzoni del
Petrarca.
Ma appena finita l'opera quel mirabile accordo della fusione dei
contrarii nello spirito dell'artista finisce, e riappare l'uomo che
credendosi sempre un maestro della politica si muta in subalterno.
Quindi Macchiavelli pensa di dedicare il libro a Giuliano dei
Medici, pel quale Leone X stava intrigando un principato. A questo
modo Macchiavelli sperava di poter diventare il Mentore del nuovo
Telemaco. Ma procrastina tanto che Giuliano muore. Allora risolvendo
di dedicarlo a Lorenzo vi antepone una lettera e forse non manda mai
nè l'uno nè l'altro, giacchè non si è
mai saputo se Lorenzo accettasse la dedicatoria o prendesse
conoscenza della scrittura.
L'uomo nel Macchiavelli è sempre al di sotto dello scrittore.
Sebbene il Macchiavelli avesse nel Principe la più
trasparente chiarezza, il libro, appena stampato lui morto, diede
luogo alle più disparate e direi quasi alle più
disperate interpretazioni. Il Mohl ne ha compiuto il migliore elenco
fino al 1858, il Villari lo ha proseguito sino ai nostri giorni, ma
finchè visse il Macchiavelli, le poche copie che girarono
manoscritte del libro non destarono scandalo: le opinioni e le
massime del Principe erano quelle medesime del tempo. Il secolo non
aveva una coscienza morale che potesse offendersene, mentre la sua
coscienza storica vi si vedeva mirabilmente ritratta. Guicciardini,
che aveva combattuti i Discorsi non protestò contro il
Principe, Leone X consultò poco dopo Macchiavelli sulla
politica generale e sulle condizioni di Firenze; Clemente VII
più tardi gli commise le storie. Nifo di Sessa, volgare
filosofo, tradusse in latino il Principe, alterandolo per dedicarlo
come scrittura propria a Carlo V, finchè il Blado nel 1531,
cum gratia et privilegio, di Clemente VII e d'altri principi,
stampò Discorsi e Principe.
Ma quando Firenze cadde, dopo l'eroica resistenza, per l'ultima
volta sotto i Medici, lo spirito politico cominciò ad
osteggiare il Principe, prendendolo per un codice vero della
tirannide, e l'evidente intenzione consigliatrice e scientifica del
Macchiavelli parve infame. Il secolo cominciava a mutare: la morte
politica aveva messo nell'anima di Firenze qualche reazione di vita
morale. Del resto la pretesa del libro di essere un trattato, la sua
stessa forma, la contraddizione che nello spirito del Macchiavelli
l'aveva prodotto, dovevano essere un problema insolubile fino a
quando la critica moderna ricostruendo il cinquecento e
comprendendone il carattere per mezzo della prospettiva e del
raffronto cogli altri secoli, potesse assegnare all'arte ciò
che vi si oppugnava come scienza, spiegando nel Macchiavelli le
antitesi della sua natura amalgamate colle contraddizioni del suo
tempo. Certo per la gente volgare, che divide gli spiriti in
categorie, riuscirà piuttosto difficile non riconoscere nel
Macchiavelli che un grande ed incompiuto artista, mentre il titolo e
la materia delle sue opere sembrano tanti argomenti per negarlo; ma
la storia è tutta piena di quest'ingegni che congiungono le
più disparate attitudini, di queste indoli meravigliose che
agiscono nelle zone più opposte del pensiero. E poichè
lo spirito è uno e la divisione fra scienza, arte, filosofia,
religione è in gran parte formale, ognuna di esse ha uomini
insigni che nella forma dell'una inconsciamente lavorano la materia
dell'altra. Di tutte le classificazioni degli uomini la migliore
resterà sempre quella del temperamento spirituale, che
aiutato dalla interpretazione della loro vita spiegherà
meglio di ogn'altra le loro opere.
Ora il Macchiavelli nella sua vita fin qui analizzata non fu
nè un politico nè uno scienziato: nel resto che doveva
vivere vedremo che non si mutò. Discorsi e Principe non sono
produzioni di un vero spirito scientifico, giacchè in tal
caso l'intenzione e la tessitura mostrerebbero il tentativo logico
per stabilire veri principii generali, le angoscie del metodo,
l'impersonalità voluta se non raggiunta dell'opera. Discorsi
e Principe hanno invece caratteri essenzialmente opposti. La materia
loro certo è scientifica, ma la materia non è l'opera,
nè la scienza nè lo scienziato.
Che il Macchiavelli avesse vere attitudini di scienziato sarebbe
insensatezza negarlo e furono appunto quelle che gl'impedirono di
svilupparsi grande artista, ma aveva troppe attitudini artistiche
che gli contrastavano l'equilibrio e l'astrazione necessaria alla
scienza. Fra una legazione e l'altra scriveva i Decennali, cronaca
sua e degli avvenimenti in versi mediocri; in ogni ritaglio di tempo
tentava un Capitolo, in prigione nella peggior crisi della sua vita
scriveva sonetti, nell'esilio alla campagna, dalla quale dovevano
uscire le sue due opere maggiori, s'abbandonava a una corrispondenza
la più artistica del secolo per la forma dei racconti e delle
cose. Le sue qualità politiche essendo le più
duramente negate dai fatti e dalla poca stima dei contemporanei,
egli vi condensa tutto lo sforzo dell'ingegno; crea uno stile, una
lingua, ammonticchia ritratti, osservazioni, formule, apostrofi,
ironie, eloquenze; sa essere breve come Tacito, largo come Livio,
mentre l'istinto realista della sua natura e la sua poca educazione
classica in quella necessità di vivere nella vita politica lo
rendono il letterato più vivo e moderno del tempo. Ma appunto
perchè troppo fuso col proprio secolo, che i secoli
immediatamente posteriori non comprenderanno animati di un'altra
coscienza, Macchiavelli e il Principe vengono mal giudicati. La
ribalderia di questo diventa ribalderia di quello; il problema
morale che per Macchiavelli nell'opera non esisteva, ne rimane il
solo, gl'altri essendo tutti dileguati coll'ambiente che li aveva
prodotti.
Se Macchiavelli avesse veramente fatto opera di scienza, il problema
morale nel Principe avrebbe esistito anche per lui; egli doveva
distinguere la moralità pubblica dalla privata, quella della
storia da quella della vita, e poichè quest'ultima non
può farne a meno e la politica è parte di essa,
cercare quale potesse essere la sua morale. Il Principe in un vero
trattato scientifico non avrebbe potuto avere la personalità
assorbente che ha nell'opera del Macchiavelli, quella unità
che in lui fa sparire potere legislativo ed esecutivo, polizia e
diplomazia, diritto, guerra, tutto. Nel fuoco della sua creazione
artistica il Macchiavelli era così poco scienziato che non se
ne accorse nemmeno. Domandargli se il Principe dovesse essere morale
sarebbe stato come domandare a Cellini se le sue modelle erano
oneste. Infatti allora nessuno glielo domandò fra i tanti
amici che lo lessero. Mutati i tempi gl'esuli fiorentini non gli
perdonarono nè i favori nè i consigli dei Medici; i
nuovi cortigiani si adontarono de' suoi sentimenti(11) democratici,
i protestanti gli rinfacciarono l'irreligione, il cattolicismo si
offese de' suoi attacchi alla chiesa.
Ma la battaglia durata intorno al Principe, inutile per l'arte e per
la scienza, giovò alla morale. A traverso le infinite
stravaganze delle interpretazioni e le bizzarrie delle accuse e
delle difese tutti riconobbero che nella politica vi è
fatalmente una morale. Quale?
Primi all'attacco furono i gesuiti che fecero bruciare in effigie il
Macchiavelli ad Ingolstadt e ottennero da Paolo V di mettere le sue
opere all'indice: Carlo V e Caterina de' Medici lessero il Principe,
Enrico III e Enrico IV si disse lo avessero indosso quando furono
uccisi; Richielieu lo meditò, Sisto V ne fece di sua mano un
sunto. Quindi entrarono in lizza i protestanti, pei quali
Macchiavelli, che non s'era mai occupato della Riforma e non aveva
nemmeno presentito il problema della libertà di coscienza,
era diventato l'oracolo del dispotismo. Al Gentillet troppo
superficiale nel criticarlo succede il Bodino quasi profondo, ma
Bacone da Verulamio e Giusto Lipsio lo difendono; il Campanella,
bizzarra mistura di misticismo e di realismo, stravagante sino ai
confini del genio ed eroico fino all'olocausto, lo maledice.
Cristina di Svezia, stramba e violenta figlia di un eroe del quale
aveva in parte ereditato l'ingegno, annota di propria mano il
Principe; Federico II di Prussia gli contrappone l'Antimacchiavello
facendo il ritratto del vero e virtuoso sovrano, senz'avere per
questo compreso il ritratto del Macchiavelli; Napoleone I che si
trova personalmente nella condizione del duca Valentino, se si
moltiplichi la Romagna per l'Europa, invece lo ammira pur sentendone
l'angustia. Prima di Rousseau che nel Principe vede un tiro giuocato
dal Macchiavelli ai tiranni esponendo i principii fatali della loro
condotta, Alberico Gentile aveva già trovata questa
interpretazione, che Foscolo appoggiato sull'Alfieri doveva cantare
in versi immortali: e questa interpretazione, una delle più
false, dilaga quando il patriottismo italiano s'impossessa della
figura del Macchiavelli. Poi in Germania col Bollmann comincia una
critica più seria: il Raumer e lo Schlegel credono di trovare
la sorgente degli errori di Macchiavelli nel concetto pagano che
egli aveva dello Stato, ma il Principe così spiegato non
è meno impossibile nel paganesimo che nel cristianesimo.
Ranke, il grande storico, è il primo a comprendere che il
Principe, ispirato dai tempi, senza di essi diventa inintelligibile:
s'accorge che non è un trattato e che il modello ne fu Cesare
Borgia, ma finisce col credere che il Macchiavelli scrivendolo
davvero per Lorenzo dei Medici, nella disperazione di rianimare
l'Italia osasse così propinarle il veleno. E non è
vero che il libro fosse scritto per Lorenzo dei Medici, nè
che il Macchiavelli perfettamente conscio e quindi in disaccordo
colle massime del Principe, si buttasse a questo eroismo. Due anni
dopo il Leo notò benissimo che il Principe era più che
altro una pittura storica dei tempi, e limitando a più giuste
proporzioni il patriottismo del Macchiavelli il quale non poteva
davvero credere alla immediata costituzione di uno Stato nazionale,
stimò falsamente che il libro, invece di sorgere
spontaneamente dal suo spirito, gli venisse suggerito dal calcolo
basso di ottenere un impiego giustificando i Medici.
Il primo saggio compiuto sul Macchiavelli fu quello del Macaulay,
che pubblicato nella Rivista di Edimburgo suscitò entusiasmi.
Scrittore splendido e fine il Macaulay era nullameno troppo poco
filosofo per l'argomento: buon giudice letterario esagerò
affermando la Mandragola un capolavoro shakspeariano e
giudicò invece assai bene la superiorità dello stile
del Macchiavelli su quello del Montesquieu; descrisse il carattere
italiano, come usavano e usano ancora gli stranieri, per conchiudere
che la corruzione del popolo italiano e del Macchiavelli era la
chiave dell'enigma del Principe. Secondo il Macaulay le massime
generali sono senza valore e il solo merito di quelle del
Macchiavelli sta nell'essere più applicabili delle altre; ma
via di questo passo non si accorse di annullare l'opera che
intendeva spiegare e con essa tutta l'importanza delle scienze
morali. Il Gervinus in largo e minuto studio storico
anatomizzò invece tutte le opere del Macchiavelli, per
ripetere nella spiegazione del Principe quello già detto dal
Ranke, illustrando col proprio patriottismo germanico il supposto
eroico patriottismo del Macchiavelli. Lo Zambelli nelle sue
Considerazioni del Principe sembra riprendere con maggiore sicurezza
la tesi del Macaulay, provando contro di lui la corruzione europea
pari se non maggiore di quella dell'Italia, ma poi tira a scemare
l'odiosità del Valentino colla solita necessità
pratica e collo scopo patriottico, spiegando come il Macchiavelli,
morto il Valentino, disperato del proprio sogno tornasse a
fantasticare la repubblica. E repubblicano lo dipinse il Guerrazzi
nell'Asino e nel primo capitolo dell'Assedio di Firenze mettendogli
in bocca un discorso che il Macchiavelli per primo non avrebbe
compreso. Il Desanctis critico più famoso che forte, nella
sua storia della letteratura italiana girò per un lungo
capitolo intorno al Macchiavelli e al Guicciardini senza intendere
nè la natura artistica del primo nè quella politica
del secondo, divagando in inutili teoremi morali e in confuse
riflessioni storiche. Con ben altro ingegno il conte di Cavour alla
prima lettura delle opere postume del Guicciardini lo giudicò
sicuramente per vero politico contro e al disopra del Macchiavelli,
del quale però non ha lasciato verun giudizio scritto.
Solo fra tutti Giuseppe Ferrari in un ammirabile opuscolo che il
Villari non si è nemmeno degnato di citare nel suo lungo
catalogo sui giudizi dati del Macchiavelli, quantunque valga per lo
meno i tre volumi da lui consacrati al Segretario fiorentino, coglie
con stupenda ed irresistibile critica tutti gli errori del
Macchiavelli come legislatore storico politico e l'influenza su lui
del secolo; ma trascurando il lato artistico della sua natura,
è costretto a scemargli troppo l'ingegno nelle molte
insufficienze storiche e legislative; mentre, spaventato quasi dal
risultato della propria critica e seguendo la trascendenza del
proprio pensiero filosofico, cerca poi di provare come da quegli
errori derivassero tutte le verità della scienza politica
moderna, ricostruendo in una visione profetica il Macchiavelli
distrutto da una analisi troppo chiaroveggente.
Ma fra tutte queste più o meno illustri opinioni
inconciliabili, la figura del Macchiavelli resterà sempre un
enigma finchè si voglia crederlo un filosofo che fonda un
sistema: le sue innegabili qualità di scienziato disperse,
impedite dal suo temperamento artistico non potranno mai in lui
riunirsi per giustificare la sua stessa pretesa alla scienza. La sua
opera esprime la contraddizione della sua vita, entrambe quella dei
tempi. Così all'indomani dell'aver voluto consigliare Lorenzo
dei Medici col Principe senza nemmeno conoscerlo o se fosse almeno
uomo da comprendere il consiglio, interrogato sul governo di Firenze
da Leone X, seguendo la propria natura democratica gli suggeriva di
ristabilire la repubblica: consiglio ridicolo dato a Leone X che
l'aveva uccisa, assurdo ed impraticabile nella condizione dei tempi.
Il Guicciardini invece consigliò ai Medici gli espedienti e i
modi che convenivano al loro problema.
Ma questa contraddizione nel Macchiavelli non è disperato
patriottismo, bensì urto di facoltà spirituali e di
tendenze che in lui non arrivavano ad armonizzarsi. Così
nella vita fu volgarmente buono e non commise ribalderie: natura
piuttosto arida, scarsa di sentimenti e quindi ironica, non si
macchiò nè di danaro nè di sangue: ammiratore
del Valentino e consigliere a tutti delle sue maniere non avrebbe
poi avuto il coraggio di servirlo. Dimandare dunque se Macchiavelli
fu onesto o disonesto, è supporlo un filosofo che stabilisce
un sistema: invece artista, colpito dalla fatalità assassina
della politica di allora, vi ragionò sopra descrivendola
senza oltrepassarla,
Il vero problema della morale nella politica Macchiavelli nè
vide nè poteva vedere mancandogli la visione sintetica di
tutte le forme dello Stato; sentì solamente che la piccola
morale privata non era quella della storia di nessun tempo, e non
scorgendone altra in essa non pensò a cercarla. La storia gli
parve ripetizione dei medesimi fatti prodotti dalle medesime
passioni. La filosofia della storia rappresentata nella Bibbia colla
elezione del popolo ebreo, quella schizzata da Zenone o da
Sant'Agostino nella Città di Dio non potevano piacere a lui
irreligioso e realista, incapace di sollevarsi tanto sopra ai fatti
da vederli sparire in una idea; il cristianesimo che pure metteva un
disegno nella vita, egli cinquecentista non l'intendeva, la critica
non era ancora formata, l'erudizione non aveva che cominciato il
proprio lavoro. Il quadro era angusto ma il suo sguardo non
riuscì a sfondarlo, quindi osservazioni e conclusioni tutto
gli riuscì falso.
Ma l'arte vera più confacente alla sua natura lo riprese.
Quindi(12) lo vedremo dopo un libro sull'arte della guerra, ultima
illusione della sua capacità di Governo, scrivere molte
commedie, un romanzo politico, una storia, una novella, una satira,
un dialogo sulla lingua, molti capitoli, alcuni canti
carnascialeschi; ritornare un momento sulla scena politica per
prendervi qualche abbaglio e morire.<
IX.
Il libro dell'Arte della Guerra deriva come il Principe dai Discorsi
e in certo modo ne è il complemento; il Principe impersonava
il sogno di uno Stato nazionale, il libro sulla milizia era lo
studio del miglior mezzo per conquistarlo. Ma questo sogno non prese
mai nella mente del Macchiavelli i contorni più o meno
precisi di un disegno; il Guicciardini, che lo aveva egualmente
accarezzato, in una ammirabile pagina ne dimostrò a sè
stesso tutte le impossibilità politiche e storiche.
Così rimase sogno che dopo aver inspirato al Macchiavelli le
pagine più belle andò a morire in un troppo vantato
sonetto del Filicaia per risorgere nei Carmi del Foscolo.
Macchiavelli ammesso nella brigata dotta ed aristocratica degli Orti
Oricellarii, rimasta poi celebre nella storia, vi contrasse illustri
amicizie che gli permisero di arrivare fino a casa Medici. In quel
circolo, nel quale capitavano uomini di guerra, concepì la
forma del suo libro che è un lungo dialogo immaginato tra
Cosimo Rucellai, Zanobi Buondelmonte, Battista della Palla e Luigi
Alamanni nel 1516, quando il Colonna ritornò a Firenze dalla
guerra finita di Lombardia. La forma artistica del libro rivela
l'indole dello scrittore: le sue idee sono quelle medesime dei
Discorsi e del Principe, le sue illusioni e le sue pretese quelle
stesse contratte occupandosi dell'Ordinanza nell'Assedio di Pisa.
Soldato non era, guerre non aveva mai vedute giacchè
l'assedio di Pisa e la rotta di Prato non meritano tal nome.
Comincia deplorando l'errore funestissimo che in Italia separando la
vita civile dalla militare aveva creato le compagnie di ventura, ma
di questo errore così pieno di problemi storici invece di
cercare la spiegazione, enumera piuttosto le conseguenze; compito
facile ed inutile allora per l'infelice esperienza di tutti.
Vorrebbe una milizia nazionale nella quale non si facesse il soldato
per mestiere, e con uno dei soliti paragoni riunisce i tempi di
Attendolo Sforza e di Braccio da Montone a quelli di Cesare e
Pompeo: ma entrando presto in materia imita o traduce addirittura il
famoso libro del Vegezio. Non ammette altro modo di guerra che il
romano, ma cercando di rifarne gl'ordini mescola la legione col
battaglione svizzero, riproduzione della falange greca, e le scema
così quella mobilità e capacità ad atteggiarsi
prontamente sopra ogni terreno, che rappresentava tutto il progresso
dei romani sui greci. In quel mondo del cinquecento con altri
costumi e diversa coscienza propone il servizio militare per tutti e
l'educazione della gioventù alla romana. A questo punto,
siccome uno degli interlocutori domanda perchè gli antichi
ebbero maggiori virtù politiche e libertà dei moderni,
Macchiavelli risponde: perchè erano repubblicani e pagani.
Per lui il cristianesimo è ragione assoluta di decadenza
politica; la differenza della individualità pagana e
cristiana gli sfugge ancora. La sua poca stima della cavalleria e la
grande importanza della fanteria sono idee romane: così pure
la battaglia che dispone teoreticamente al terzo libro, nel quale si
ride delle artiglierie. Nel quarto nel quinto e nel sesto ragionando
dei movimenti dell'esercito e del suo alloggiamento, il Macchiavelli
che di guerre non ne aveva vista alcuna, segue sempre l'esempio
romano. A proposito delle pene militari, egli politico che pure
avrebbe dovuto conoscere gl'italiani di allora, propone che a modo
dei romani e degli svizzeri siano date popolarmente: consiglio che
parrebbe ridicolo in bocca di ogni altro e che nella sua riesce
addirittura inesplicabile. Finalmente nel settimo libro parla delle
fortificazioni, ma nella sua niuna fede alle artiglierie e nella sua
ignoranza della ingegneria, non arriva nemmeno al punto che la
scienza d'allora aveva toccato: quindi mette in bocca al Colonna il
ritratto del capitano ideale componendoglielo al solito con esempi
di storia; e chiude colla inevitabile invocazione al principe
liberatore.
L'opera scientificamente non ha dunque nè originalità
nè valore; è un ritorno agli ordini antichi piuttosto
ispirato da un sistema di idee letterarie e storiche che da vera
conoscenza della materia. Così Macchiavelli studiando il modo
e la difficoltà di comporre un esercito invece di guardare
intorno a sè per vedere che differenza presenterebbero la
Romagna, la Toscana, il Reame o Venezia si contenta di tradurre un
brano di Vegezio sul soldato ideale: trattando della educazione
guerriera, secondo la sua teoria l'uomo è sempre uguale e un
cittadino del foro romano e un borghese del mercato fiorentino hanno
le stesse attitudini; il cristianesimo, che aveva dieci secoli di
guerre non interrotte, è per lui antimilitare e nullameno non
cerca come controbilanciarne l'influenza; l'Italia non ha coscienza
nazionale e tuttavia egli crede possibile riunirla in un esercito;
vi sono armi nuove da fuoco, imperfette che non pertanto hanno
già mutato parte della tattica, e non ne tien conto; non vi
erano più generali italiani di gran nome, le bande stavano
per finire, gli stranieri occupavano più che mezzo il paese,
i Comuni più che inermi erano inetti alle armi, ed egli
astrae da tutto. Risuscitare i romani ecco ancora il suo sogno
d'artista; essi avevano coi loro ordini militari conquistato il
mondo, e coi loro ordini militari l'Italia del cinquecento avrebbe
riconquistata sè stessa.
Ma se gl'ordini militari romani avevano prevalso nel mondo antico
era dipeso dalla inferiorità dei sistemi militari degl'altri
popoli incapaci di ordinarsi come i romani per troppe ragioni
d'indole e di civiltà, ragioni che l'Europa del cinquecento
non avrebbe più avuto contro l'Italia. Il ritorno dell'ordine
romano imitato naturalmente da tutti i popoli, lasciando intatte le
loro differenze avrebbe conservato in faccia ad essi
l'inferiorità militare dell'Italia.
L'argomento del Macchiavelli, che gl'italiani nei combattimenti
isolati riuscivano spesso superiori agli stranieri, non provava la
maggiore attitudine della nazione d'allora alle armi, ma piuttosto
un effetto delle guerre continue e delle compagnie non mai
congedate, nelle quali i migliori individui potevano raggiungere la
perfezione degli antichi gladiatori romani.
E coll'Arte della Guerra e colla vita di Castruccio Castracane si
chiude il ciclo politico-letterario del Macchiavelli.
In cotesta vita, che molti credettero una vera biografia e fu poi
chiamata un romanzo, il Macchiavelli andato a Lucca per affari di
certi mercanti fiorentini, sempre signoreggiato dalle idee e dalla
figura del Principe, ripensando ai casi di Castruccio, il miglior
generale del medio evo, ne compose un racconto come quelli di
Diogene Laerzio e di Diodoro Siculo, mescolando il vero
all'immaginario, amalgamandovi in un ammirabile getto le gesta di
Agatocle. Nel racconto breve ma letterariamente perfetto la figura
del duca Valentino è sempre dietro a quella di Castruccio, il
quale si muove nullameno con personalità tanto viva da far
credere quel romanzo una vera storia. Gli amici degl'Orti
Oricellarii ammirati del nuovo stile consigliarono il Macchiavelli a
scrivere storie e gli ottennero dallo Studio, cui era capo allora
come vescovo pro tempore il cardinale Medici, la commissione di
scrivere quella di Firenze in due anni con cento fiorini all'anno.
Macchiavelli si accinse subito agli studi preparatorii, ricusando
l'offerta fattagli dal suo antico padrone Pietro Soderini di andare
segretario presso Prospero Colonna con duecento ducati d'oro di
provvisione e le spese. Era questo uno spiraglio che gli si apriva
finalmente sulla politica, nella quale l'illustre capitano era
attore importante; ma il Macchiavelli ancora atterrito dalla
congiura del Boscoli, e sapendo che i Soderini congiuravano coi
francesi per cacciare i Medici, rimase a Firenze nel codazzo del
cardinale Giulio, al quale ripropose il disegno offerto a Leone per
il ripristinamento della repubblica. E nemmeno s'accorse che quegli
ben più fino politico di questi, domandando tali disegni a
tutti intendeva di saggiare la pubblica opinione, niente disposto a
largheggiare di libertà con Firenze; chè anzi i
più giovani ed ingenui frequentatori degl'Orti Oricellarii,
ai quali le declamazioni del Macchiavelli avevano scaldato il
sangue, avendo congiurato contro il Governo, il cardinale fu
prontissimo a reprimere la rivolta, decapitandone senza pietà
due fra essi. Il Macchiavelli, nel quale il cardinale Giulio aveva
fiutato la natura puramente letteraria incapace d'azione malgrado i
grandi discorsi, non ne fu nemmeno disturbato, mentre dal canto suo
non si mosse a favore degli amici proscritti.
Il suo patriottismo che doveva essere tanto decantato si scoperse
anche questa volta di puro intelletto senza cuore e senza carattere.
L'antico segretario di Pietro Soderini contro i Medici non volle
seguirlo nella congiura da lui e dal fratello cardinale tramata a
favore di Firenze, per non perdere coll'incipiente protezione dei
Medici la provvisione delle Storie e la calma necessaria alla sua
vita di letterato. Impiegato e cliente subalterno, la fede della
quale si vanta così spesso nelle lettere, non è che
troppo spesso docilità e poltroneria. Forse la viltà
dei tempi lo scusa, quantunque anche allora vi fosse chi sentiva
altamente e sapeva arrischiare la vita per idee, nelle quali
Macchiavelli con artistica sincerità non realizzava che la
bellezza incomparabile del proprio stile.
Quando il Macchiavelli si pose alle Storie, dice benissimo il
Villari, v'erano in Firenze due scuole di storici, quella del
Villani nella quale proseguivano annalisti e diaristi, e l'altra
degli eruditi con alla testa Leonardo Aretino e Poggio Bracciolini
non molti anni addietro segretari entrambi della Repubblica.
Spregiatori della cronaca, pur nella forma rispettandone la
divisione per anni, costoro avevano mirato alla dignità
classica solamente trasformando ogni minima scaramuccia in battaglia
e vestendo tutti i personaggi alla romana. Quindi in essi non
critica degli avvenimenti, non ritratti, non aneddoti che mostrino
il carattere dei tempi: l'aggruppamento dei fatti, determinato
sempre da ragioni letterarie e decorative, finisce quasi ad
annullarli. Nullameno questo esercizio rettorico della storia aveva
inconsciamente condotto gli eruditi nel dilatarsi del campo storico
verso la critica filosofica e filologica.
Flavio Biondo infatti v'era già entrato stampandovi un'orma
di leone, ma scrivendo egli pure in latino per dispregio della
lingua volgare. V'erano quindi storie di materia italiana
piuttostochè storie italiane.
Al tempo del Macchiavelli, però, col nobilitarsi della lingua
italiana e lo studio profondo che della politica aveva
necessariamente iniziato la diplomazia di tutti i Governi, era
cresciuto in tutti il desiderio di una storia che dettata nella
lingua corrente e basata sulla realtà dei fatti ne fosse
insieme specchio e spiegazione. Il Guicciardini giovanissimo, che
del proprio secolo era senza forse colui che meglio doveva
esprimerne il carattere e comprenderne i bisogni, aveva già
scritto una Storia Fiorentina, rimasta inedita sino quasi ai nostri
giorni, nella quale preludendo maestrevolmente alla sua futura
grande Storia d'Italia, forzava primo il passaggio dalla cronaca
alla storia. Chiaro, più elegante nello stile che non dovesse
poi esserlo in seguito, con un giudizio già maturo in tutti i
fatti e un'esperienza precoce di tutti gli uomini, sebbene non
avesse allora che ventisett'anni e non fosse per anco entrato nelle
pubbliche pratiche, analizzava già l'avvicendarsi dei
partiti, metteva a nudo i caratteri, determinava le passioni degli
avvenimenti. Imparziale coi Medici ammirava Savonarola, ricercava i
documenti originali, esponeva le leggi, citava persino le frasi
testuali delle ambascerie. Certo a lui pure sfuggiva la parte
impersonale degli avvenimenti, troppo violentemente tirato dalle
forti qualità della sua natura realista e politica; ma questo
difetto in lui comune col Macchiavelli e col secolo, non era come
nel suo rivale peggiorato dalle licenze di una fantasia teorizzante
sui fatti e contro i fatti. Guicciardini aristocratico potè
in seguito lasciarsi cogliere dalla passione della forma che era
allora l'aristocrazia della letteratura, e mal sicuro nel gusto
falsare il proprio giovane stile nell'imitazione ciceroniana; ma
politico e storico nato non si curò mai di poesia, non
scrisse come il Macchiavelli Commedie e Decennali fra quella ressa
di tragedie che componevano allora la politica, non divagò
dietro pretensiose e false teorie come nei Discorsi, non ebbe mai il
sogno fantasmagorico del Principe, non si atteggiò a capitano
precettore di guerra, non eccitò a libertà per poi
abbandonarla timidamente in faccia al pericolo, non mendicò
impieghi, non predicò la necessità della furberia; ma
profondamente furbo, privo di coscienza come il suo secolo, coperse
eminenti cariche, si rivelò uomo di gran Governo e non fu
veramente vinto che vecchio da Cosimo II, politico ben altrimenti
terribile del cardinale Giulio che aveva potuto così
facilmente giocare il Macchiavelli colla proposta delle Riforme,
accettando poi da lui con scettica indifferenza la dedica delle
Storie piene di odio contro il papato e di riserbo cortigiano per
Casa Medici.
Nel Proemio alle Storie il Macchiavelli annuncia subito il pensiero
che lo dirige e sul quale baserà il proprio edificio: se
l'Aretino e il Poggio «duoi eccellentissimi storici» non
avevano parlato che di guerre esterne, tacendo delle civili
discordie, delle intrinseche inimicizie, e dei loro effetti, egli
intendeva riparare all'errore «perchè nessuna lezione
è utile a coloro che governano quanto quella che dimostra le
cagioni degli odii e delle divisioni, massime in una città
come Firenze, in cui le divisioni furono per nome infinite;
portarono esigli, morti, devastazioni e pur non poterono impedire la
prosperità della Repubblica; anzi pareva che
l'aumentassero.»
Il principio e l'intenzione delle Storie è dunque quello
medesimo dei Discorsi, del Principe e dell'Arte della Guerra: una
lezione di politica data agli uomini di Stato, una verificazione
delle teoriche che Macchiavelli ha stabilito nelle opere precedenti.
Guai ai fatti che le contraddiranno! L'artista politico non è
mutato ma sta per ingrandirsi: il campo che gli si apre davanti
è così vasto che il suo ingegno vi si può dare
carriera, l'innegabile originalità del suo proposito storico
nel quale Guicciardini lo ha preceduto senza che egli lo sappia, non
gli viene da una meditazione filosofica della storia, ma dalle
tendenze del suo spirito e di tutta la sua vita. I grandissimi
modelli antichi, Tacito e Livio, non sono più presenti al suo
pensiero e non gli compariranno che ad intervalli per suggerirgli
qualche forma di stile o disegno di orazione: fiorentino, i suoi
autori sono i cronisti che l'hanno preceduto. L'Introduzione
generale che premette alle Storie, falsa nelle proporzioni
architettoniche come vestibolo enorme di piccolissima casa, non
sarà che un esercizio artistico, un ritardo volontario
intorno a qualche massima o a qualche personaggio, una imitazione ed
un plagio di Flavio Biondo e di Leonardo Aretino.
Il Villari costretto a notarvi la poca o nessuna originalità
così nella erudizione come nell'ordinamento dei fatti, vi si
ripiega giustamente sul merito letterario. Una figura però vi
campeggia troppo simile al duca Valentino nel Principe e come questi
salvatore d'Italia, Teodorico re degli Ostrogoti. La solita
esaltazione riprende il Macchiavelli che, pur copiando dal Biondo,
per idealizzare il proprio ritratto tralascia quanto gli nuoce e
svisa addirittura fatti importanti, come l'espulsione di ogni
italiano o romano dall'esercito decretata da Teodorico.
Ma presto il Macchiavelli arriva all'altro concetto determinante le
sue Storie, la facilità colla quale l'Italia avrebbe potuto
riunirsi in nazione se i papi non l'avessero invincibilmente
mantenuta divisa per rabbia di regno. E qui è il Villari che
si riscalda ammirando il coraggio di questa affermazione in un libro
ordinato dal papa, e la sincerità dell'uomo che poi tutto il
mondo doveva ostinatamente negare: ma poco dopo confessa egli
medesimo che eroismo non vi fu mentre Clemente VII non mostrò
nemmeno meravigliarsi della cosa, così i tempi erano scettici
e scarso il sentimento religioso nel Vaticano. Senonchè il
concetto del Macchiavelli per essere diventato popolare quando il
patriottismo dovette per riunire l'Italia osteggiare il papato, non
è storicamente meno falso. L'Italia non fu mai nazione. I
Romani la conquistarono senza fonderla con sè medesimi nella
repubblica; durante la monarchia fu pareggiata alle altre provincie
conservando in sè stessa tutte le differenze che l'animavano.
La civiltà romana divenuta troppo presto universale
coll'assorbimento della civiltà greca, non potè
attendere la fioritura italiana e non ebbe quindi nè arte
nè scienza nè filosofia nè religione veramente
originale; la sua grandezza derivò dalla giurisprudenza e
dalla politica. Poi nel franare dell'impero i barbari ruinando
sull'Italia vi portarono e vi produssero altre differenze. Rotta
l'unità romana, l'unità cristiana anche più
universale ed astratta non poteva riunire l'Italia. La lotta
ricominciò fra la Chiesa e l'Impero: quella malgrado tutte le
proprie contraddizioni era per la libertà, l'Impero per la
tirannia; l'infallibile istinto storico fece guelfo il popolo e
ghibellina l'aristocrazia feudale. Il Macchiavelli lo nota ma non
arriva a comprendere neppure confusamente la vera posizione e
l'azione storica del papato nel medio evo. Il suo pregiudizio
irreligioso lo trascina, la sua inettitudine alla filosofia e alla
critica lo paralizza. Egli che considerava il popolo senz'anima come
cera in mano al Principe legislatore, non poteva nemmeno sospettare
che la nazionalità derivasse dalla unità delle
coscienze individuali. Così gli sfuggono tutti gli elementi
spirituali del cristianesimo, del quale si ostina a non vedere che
gli eccessi penitenziari e le mostruosità rituali. Per lui le
crociate, il più gran fatto del medio evo, che iniziava tutto
l'avvenire, è opera di Urbano II, il quale odiato a Roma
ripara in Francia e vi predica contro gl'infedeli: le sole
conseguenze di esso sono la fondazione dei due ordini di cavalieri,
Templari e Gerosolimitani, e poche conquiste in Oriente. Nella
grande contesa fra papato ed impero non vede Gregorio VII, figura
gigantesca di cui l'ombra potè per un momento coprire tutto
l'impero, mentre in ogni avvenimento scorge poi sempre una causa
personale. Considera la religione solamente nella forma della
Chiesa, la civiltà nell'azione di un Governo, l'uno e l'altra
più volentieri ancora riassunte in personaggi politici.
Sfiora la lotta dei Comuni col Barbarossa, tace dell'immenso
sviluppo dato da Federico II alla civiltà del mezzogiorno,
nomina appena i Vespri Siciliani, le discordie dei Guelfi e dei
Ghibellini, le vicende del Reame di Napoli per non perseguitare che
i pontefici e i capitani di ventura, fermandosi solo ai fatti che
aiutano le sue teorie dei Discorsi e del Principe.
Questa l'Introduzione generale tanto vantata dai suoi apologisti; la
quale se si prescinda dal merito letterario troppo in essa ancora
disuguale quantunque a certi punti singolarissimo, non contiene
nessun'idea, non inizia nessun metodo che possa attribuire al
Macchiavelli un grande posto fra gli storici.
Il secondo, terzo e quarto libro abbracciano la storia di Firenze
dalla sua fondazione sino al trionfo dei Medici, ma dell'origine del
Comune dice appena poche parole per saltare subito alla tragedia di
Buondelmonte nel 1215, dalla quale crede erroneamente derivare la
divisione della città in Guelfi e Ghibellini. Il Villani da
cui copia condensando con ammirabile potenza letteraria, e Ricordano
Malaspina avevano pur narrato prima del triste caso una serie di
guerre fra il Comune fiorentino e i baroni del contado, che vinti e
costretti a vivere nella città vi avevano portato colla
ferocia dei costumi la crudeltà di un odio di razza. Il
Macchiavelli, tratto dal suo bisogno di mettere sempre una causa
drammaticamente personale ad ogni avvenimento politico, muove dal
caso del Buondelmonti, ma più acuto del Villani che andava
smarrendo il filo della grande contesa, s'accorge subito che dietro
i Guelfi e i Ghibellini non stanno solo l'Impero e la Chiesa,
bensì la feudalità e il popolo: l'una rappresentante
la razza dei vincitori sovrappostasi alle genti latine
nell'invasione, l'altro ancora in gran parte latino malgrado la
mistura del sangue e nemico inconciliabile della feudalità
per la tradizione del suo passato e la necessità del suo
futuro. Ma anche qui il Macchiavelli non arriva ad abbracciare tutto
il problema, giacchè non cerca nemmeno di cogliere i veri
rapporti della feudalità italiana coll'Impero e le sue
affinità colla vita italiana, e fuorviato dall'odio alla
Chiesa travisa l'opera del papato, del quale l'alleanza col popolo
diventa un assurdo inesplicabile.
Inesatto nelle date, poco scrupoloso dei fatti, sospinto dalla
passione politica verso le epoche che maggiormente si presteranno
alle considerazioni e alle teoriche che lo signoreggiano, analizza
distrattamente la Costituzione del Primo Popolo, oblia la
Costituzione precedente dei Consoli e la Costituzione del
Potestà: quindi narra rapidamente il ritorno dei Ghibellini,
l'ingrossare continuo dei Guelfi, il mal ripiego della politica
ghibellina per ottenere il favore del popolo aiutando la
costituzione(13) delle arti Maggiori e Minori, il magistrato dei
Priori che affretta la rovina dei nobili, gli Ordinamenti di Giano
della Bella che la compiono. Così prostrati i Ghibellini,
sorgono i Guelfi che si dividono in Bianchi e Neri per suddividersi
ancora vinti i Bianchi in Grandi e Popolani; la contesa fra
l'aristocrazia e la democrazia muta nome e terreno conchiudendosi
egualmente colla vittoria del popolo.
Ma se il Macchiavelli vede un certo nesso logico in queste
discordie, non ne afferra bene l'idea e non ne sbroglia gli
aggruppamenti che per lui hanno sempre come causa prima una scena
drammatica. Poscia narrato dì Corso Donati e delle guerre con
Uguccione della Faggiola e Castruccio Castracani come di avvenimenti
casuali, entra nell'episodio del Duca d'Atene con sì calda
eloquenza che dimenticando ogni proporzione nel quadro aggiunge
episodi, inventa discorsi, s'allunga in considerazioni, drammatizza
ogni circostanza per conchiudere alla terribilità
dell'eccidio con una descrizione non meno terribile. In questo
secondo libro, come nota egregiamente il Villari, sta il secreto
della storia di Firenze; però se il Macchiavelli lo avverte a
quando a quando e qualche piccola parte ne scopre, non è men
vero che in lui come nei cronisti dai quali copia, le passioni, il
valore e la fortuna sono sempre la ragione unica degli avvenimenti:
l'idea dei quali risulta nel suo racconto piuttosto dal modo col
quale il suo istinto artistico signoreggiato dalla loro seria logica
li coordina, che non sorga in lui da vera coscienza filosofica di
storico.
La letteratura storica è già nata preparando in
sè stessa la storia; alla prima è bastato il
letterato, alla seconda occorrerà l'uomo.
Col terzo libro, che va dal 1353 al 1414 e al quale il Macchiavelli
premette, e seguitò poi nel costume, una specie
d'introduzione filosofica richiamando una teoria dei Discorsi,
comincia lo studio della decadenza della repubblica e il conseguente
sorgere dei Medici. Gli autori prediletti sono questa volta
Marchionne di Coppo Stefani e Gino Capponi, ma su questo nuovo
terreno meglio adatto all'indole sua il Macchiavelli procede
più cauto e forte. Il paragone fra Roma e Firenze, che apre
il libro, è al solito così forzato che il Villari
stesso ne conviene, mentre dalla profondità delle susseguenti
osservazioni nelle quali molti si sono perduti ammirando non
sfolgora nessuna idea. Il racconto si costringe tutto nella contesa
fra gli Albizzi ed i Medici. La posizione dei primi vi è
assai bene studiata, ma non appena entra in scena Salvestro dei
Medici favorendo le arti Minori contro le Maggiori e sollevando
destramente il tumulto dei Ciompi, per profittare poi solo della
rovina degli Albizzi nella reazione succeduta naturalmente al
tumulto col simultaneo abbassamento delle arti Maggiori e della
plebe, si direbbe che un'inconscia antipatia scoppi tra il fine
politico borghese e il terribile politico del Principe. La presenza
del Valentino turba ancora lo spirito del Macchiavelli al punto di
fargli idealizzare la mediocre figura di Michele di Lando, docile
strumento in mano di Salvestro, e di non lasciargli comprendere
tutto il merito della politica di quest'ultimo così abile e
paziente e sicura che nelle Storie Fiorentine non se ne era ancora e
forse non se ne vide più l'esempio. Gl'istinti democratici
trassero il Macchiavelli a trasfigurare Michele di Lando, come la
politica di semplice intrigo, senz'armi e senza gloria troppo
diversa da quella conquistatrice del Valentino, gli dispiacquero in
Salvestro. Oramai nel Macchiavelli la teorica politica e la forma
drammatica si erano talmente fuse che a lui stesso non riusciva
più di separarle. D'altronde la sua avversione ai Medici, dai
quali colla cacciata dalla Signoria e le conseguenti miserie aveva
pur ricevuto quattro o sei tratti di corda, malgrado i riguardi
dovuti per quell'ultima commissione di scrivere le Storie, traspare
dal libro. Così nel quarto pel quale si giova moltissimo
delle Storie Fiorentine di Giovanni Cavalcanti altrettanto false
nella forma che vere nei fatti, riprendendo l'analisi della contesa
fra gli Albizzi e i Medici sembra non volersi accorgere della
politica di Giovanni Medici, non meno fina di quella di Salvestro e
velata anche da maggior bonomia. Quindi alla sua morte gli fa tenere
ai figli Cosimo e Lorenzo un discorso privo di senso per dissuaderli
in nome della virtù dall'aspirare al principato; e morto, gli
fa un insolito e volgare elogio di uomo caritatevole quanto
prudente. Discorso ed elogio sono presi dal Cavalcanti. Se non che
l'averli solo corretti nella forma e il ricusarsi a studiare
veramente la politica di Casa Medici, mentre nella Introduzione
generale si era fermato troppo a lungo per le proporzioni del libro
ad esaminare quella analoga di Matteo Visconti contro i Della Torre,
mostra fin troppo che la paura dei nuovi padroni gli toglie il
coraggio della sincerità storica.
Quell'eroismo che al Villari era sembrato di vedere nel Macchiavelli
fieramente avverso alla Chiesa scrivendo per commissione di un papa,
scompare trattandosi di narrare come Casa Medici rovinasse la
repubblica impadronendosene con mirabile costanza di buone e pessime
maniere. Il lirismo repubblicano del Macchiavelli ammutolisce: la
sua fierezza di pensatore e di scrittore si ammansa, e ritorna
l'uomo della congiura del Boscoli, il letterato di Clemente VII che
non osava più parteggiare contro di lui pei Soderini in
favore della repubblica. Nè con questo intendo rimbrottare
aspramente il Macchiavelli di non essere stato un eroe, ma solamente
di ribattere quegli apologisti che tirano a mostrarlo troppo
maggiore nell'ingegno e nel carattere che veramente non fosse. Nel
racconto della lotta suprema fra Rinaldo degli Albizzi e Cosimo de'
Medici si scoprono nel giudizio del Macchiavelli una falsità
e una costrizione insolita; fa di Cosimo il ritratto più
umano, non vuole affermare la sua mira costante al principato, vede
nell'ipocrisia della sua condotta una virtù piuttosto che un
mezzo per raggiungerlo, s'intenerisce quasi per la sua prigionia
all'Alberghettino e pel suo confino in Padova, non ha una frase per
la repubblica morente, non ammira nemmeno l'altera risposta
dell'Albizzi, nella quale sono pure, ed egli stesso forse ve le
mise, parecchie delle sue frasi favorite.
Il periodo di Casa Medici così importante nella storia
fiorentina è dunque in certo modo evitato dal Macchiavelli
che non solo scansa di giudicarlo, ma vi si rattiene da quelle
considerazioni che false storicamente la più parte, rivelano
l'animo suo e qualche volta accennano a veri tentativi di critica
filosofica.
Nei libri seguenti che costituiscono l'ultima parte delle Storie, il
disordine della composizione e il cortigiano riserbo in faccia
all'opera dei Medici degenerano in menzogna. Dopo aver accennato col
solito disprezzo alle due scuole braccesca e sforzesca, che allora
dividevano le guerre italiane sotto gli ordini dei due più
grandi capitani del secolo, Francesco Sforza e Niccolò
Piccinino, ed avere assai malamente raccontate le loro imprese nello
Stato della chiesa, viene al ritorno trionfale di Cosimo e vi si
imbroglia descrivendone le circostanze. Il suo odio democratico
trapela dalla sua prudenza di letterato cortigiano, mentre la
passione dell'analisi politica gli viene soffocata dalla paura di
uomo povero alla mercede dell'ultimo papa dei Medici. Poi divaga in
altre guerre italiane. Valendosi dei Commentari di Neri Capponi,
descrive il gran torneo militare fra Niccolò Piccinino al
soldo del duca di Milano e Francesco Sforza generale della Lega, e
neppure qui l'odio ai capitani di ventura abbandona il romanziere di
Castruccio Castracani, che non s'accorge d'avere davanti due
soldati, ai quali solo i migliori dell'antichità sono
paragonabili. Almeno Francesco Sforza nel mutarsi di venturiero in
capitano sembrerebbe a prima vista dovesse sedurre la sua
immaginazione; senonchè il Machiavelli dimentica a questo
punto tutta la sua ammirazione pel Valentino, politicamente un
imitatore dello Sforza, per abbandonarsi ai propri istinti
democratici, denigrando in questi l'uccisore della repubblica
ambrosiana. Eppure Francesco Sforza accarezzava nel forte pensiero
il sogno di farsi re d'Italia, che altri forti prima di lui avevano
ripetuto. Nel 1240 è Ezzelino da Romano che si vanta di voler
fare in Italia più che Carlo Magno, e muore prigioniero;
Mastino II della Scala ottant'anni dopo conquista tutte le terre di
Ezzelino collo stesso proposito, e fallisce. Castruccio Castracani
militarmente maggiore d'entrambi soccombe del pari, poi Ladislao re
di Napoli, poi i Visconti i Medici i Borgia, ogni condottiero, ogni
trionfatore, re e papi, tutti sono tormentati dal sogno di un regno
italico infrangendo il patto medioevale fra papato ed impero, e
nessuno vi riesce.
L'acciecamento del Macchiavelli contro i capitani di ventura
è tale che dopo aver messo in ridicolo le loro battaglie
affermando che nessuno vi morisse, nega perfino l'ingegno politico
dello Sforza. Ritornando nel VII Libro a Cosimo dei Medici, il quale
aveva pur condotto Firenze con meno valore al medesimo punto che lo
Sforza Milano, muta ancora linguaggio: attenua i mali del nuovo
governo o li attribuisce a malvagità di partigiani che Cosimo
vecchio non riesce a frenare; e quando Cosimo muore si ferma a
fargli l'elogio. Non una parola di biasimo, non un accento di dolore
per la morta libertà di Firenze: accennando alla protezione
da lui concessa alle lettere e alle arti, non trova nè modo
nè tempo di analizzare quell'epoca unica nella storia del
mondo. Poi le sue contraddizioni aumentano ancora. Dopo avere
attribuito arbitrariamente l'assassinio di Niccolò Piccinino
ad un complotto tra Francesco Sforza e Ferrante d'Aragona,
raccontando della congiura tramata contro Piero dei Medici, uomo
meno che mediocre, ne travisa romanzescamente le circostanze per
fare di lui un grande personaggio. Il medesimo ripete nell'altra
congiura del Nardi e del Nerone a Prato contro Lorenzo e Giuliano,
inventando l'episodio della voluta impiccagione del Potestà
alla finestra del Palazzo e il suo discorso per liberarsene e la
seguíta liberazione colla sconfitta dei ribelli. È
strano l'oblìo non solo di ogni verità storica ma
persino di ogni possibilità drammatica nei discorsi, che il
Macchiavelli inventa tratto tratto secondo le bizzarrie
dell'immaginazione per ì personaggi delle sue Storie. La
congiura scoppiata contro Galeazzo Visconti duca di Milano è
invece narrata con molta efficacia, quasi preparazione a quella dei
Pazzi contro Lorenzo e Giuliano, che occupa buona parte del Libro
VIII, ed è forse letterariamente il miglior brano delle
Storie. Le quali si chiudono colla morte e l'elogio di Lorenzo, di
cui non osa riconoscere la tirannìa e non comprende intera
nè la grandezza artistica nè quella politica. Il
Guicciardini invece nella Storia Fiorentina scritta a ventisette
anni lo giudica tiranno amabile nei modi, inferiore a Cosimo nella
politica, governante col sospetto e premuovendo la corruzione. Tutto
questo è da lui scritto colla massima calma, senza amore alla
libertà o rispetto pei Medici.
I due grandi storici del secolo s'incontrano l'ultima volta per
dissentire come quasi sempre. Il confronto dei loro ingegni e delle
loro opere è così facile che nessuno ha potuto
evitarlo e nullameno fino a ieri nessuno ha saputo ben precisare le
loro vere nature. Macchiavelli parve grande e diventò
popolare per la profondità dell'ingegno politico: il suo
cognome si mutò in nome a significare con terribile
complessità tutto quanto la scienza, l'arte, la natura, la
società possano in un uomo solo condensare di valore
politico. Guicciardini nelle scuole e nella coltura comune non era
che un letterato cinquecentista, dalla frase italiana entro un
periodo ciceroniano, e quindi un classico. Macchiavelli era il
pensatore e Guicciardini lo scrittore, l'uno il filosofo l'altro
l'artista, quegli l'uomo di stato questi il letterato; la
verità invece è nel contrario.
Le ultime opere inedite del Guicciardini e i migliori recenti studi
sul Macchiavelli cominciarono ad invertire i giudizii. Il grande
politico, il grande storico è Guicciardini, l'artista il
letterato lo scrittore è Macchiavelli. Le sue Storie
Fiorentine non s'alzano troppo come metodo e concetto sulle cronache
donde sono tratte, non iniziano critica, non hanno principio
filosofico, non intendimenti elevati. Tutti i difetti e i pregi
artistici del Macchiavelli vi si accoppiano con troppo maggiore
prevalenza dei primi. La materia vi è mal distribuita, non
sicuri i fatti, non sinceri i giudizii, non ben tratte le
conseguenze. Il loro disegno è così angusto che nulla
vi cape: la vita vi si compone di battaglie consciamente falsate la
più parte e di congiure drammaticamente e spesso falsamente
narrate. Il periodo dei Medici vi è condotto in modo da non
capirvi nulla. Un urto continuo d'istinti democratici, di teoriche
tiranniche, di pregiudizi militari, di romanzesche invenzioni, di
concioni e di scene vi disordina gli avvenimenti che riassunti
sempre nelle persone e nella forma politica vi diventano
incomprensibili. Il vanto di correggere l'Aretino ed il Poggio
coll'analizzare le cagioni intime e cittadine dei mutamenti nei
governi non è certo realizzato; che se qualche volta lo
sembri è piuttosto fortuito incontro o fuggevole accenno che
proposito di sistema.
Invano i suoi ammiratori per resistere al paragone col Guicciardini
hanno voluto sostenere che l'ampiezza del campo è nel
Macchiavelli tanto maggiore, questi arrivando dalla decadenza
dell'impero romano fino a Lorenzo il Magnifico e quegli da Lorenzo
sino alla morte di Clemente VII; mentre nell'uno la lunghezza del
periodo storico è piuttosto nel tempo che nelle Storie
composte di pochi brani arbitrariamente staccati e tra loro cuciti
con scarsi avvenimenti allineati e narrati a capriccio; e nella
Storia d'Italia dell'altro se più breve il periodo è
ben più vasto il campo. Gli avvenimenti sono simultanei, il
loro aggruppamento più difficile, più complessa la
loro logica, più molteplici le conseguenze. Mentre il
Macchiavelli può sbrigliare e sbriglia la propria fantasia in
episodii immaginarii o si attarda sui fatti che gli piacciono,
s'abbandona a teoriche, cede ad antipatie, tace per riserbo, chiude
gl'occhi per paura; il Guicciardini coll'impassibilità, che
l'altro consigliò sempre e non ebbe mai, ripensa la propria
vita nella propria epoca e ne vede l'ordine, lo riproduce, lo
analizza. Diplomatico di prima forza, intimo dei più grandi
personaggi, per lui non ci sono secreti: senza opinioni morali e
senza sogni patriottici vede subito nei fatti il loro significato
immediato; conosce l'Europa quanto l'Italia; non ama nessuno, non
ammira che sè stesso. Di questo difetto, rimproveratogli
accortamente dal Ranke, trionfa però facilmente. Il proposito
politico che nel Macchiavelli risulta da troppo eterogenea congerie
di qualità filosofiche, scientifiche e artistiche è in
lui espressione di una natura non d'altro capace e di null'altro
occupata. Politico prima che storico non scrisse che quando non
potè più agire. Ma nell'azione era riuscito
altrettanto bene che male il Macchiavelli. La sua superiorità
nella politica si ripete nello studio della medesima. Se le Storie
del Macchiavelli non avessero l'insuperabile pregio dello stile e
non fossero tutte piene di bellezze letterarie non sarebbero
così lette, e come hanno giovato meno delle cronache alla
ricostruzione delle epoche narratevi e non molto più di esse
alla scoperta dell'idea e del metodo storico, così non
avrebbero avuto maggiore fortuna. La Storia del Guicciardini
malgrado la pesantezza dello stile e la falsità del gusto
letterario è rimasta il più gran passo fatto nelle
scienze storiche dopo i romani. Nessuno dei maggiori storici antichi
avrebbe potuto seguire con sì infallibile penetrazione e con
tanta profonda sagacia la politica di quel tempo unico nella storia
del mondo, che aveva tutte le corruzioni di una decadenza nelle
fermentazioni di un rinascimento.
Solo un italiano in Europa poteva esserne capace e fra tanti
italiani egualmente culti nessuno era meglio adatto di un
fiorentino. I Veneziani non ebbero che uomini di governo e
ambasciatori: la loro repubblica compatta e sicura disciplinava
troppo presto e troppo fortemente gl'ingegni per lasciar loro la
libertà necessaria allo storico; Firenze teatro ai maggiori
mutamenti, primissima sede della gran contesa guelfa e ghibellina,
centro dei migliori ingegni, e che condannata ad esaurire la vita di
comune prima delle sue grandi rivali aveva anche minore coscienza
politica, era meglio atta a produrre lo storico italiano. Ma
città dell'arte accanto allo storico mise l'artista della
storia: il critico ne nasceva già a Modena, il filosofo ne
nascerebbe fra non molto a Napoli; Sarpi doveva esserne il primo
combattente, Giannone il primo martire.
Ma il momento del Macchiavelli e del Guicciardini rappresentanti
nella Politica e nella Storia la mancanza di coscienza passò
presto. E quando colla Riforma cominciò a formarsi l'uomo
morale e il cattolicismo si riformò e le scienze mutarono il
concetto della natura e il mondo non fu più l'Europa e la
stampa centuplicò le idee e alle tragedie cinquecentiste
della passione successero i drammi del pensiero ricostituendo la
spiritualità e l'intimità della vita, il Davila e il
Bentivoglio assistenti colla impassibilità del Machiavelli
alle stragi di Fiandra, o giudicanti colla neutralità del
Guicciardini le infamie dei re francesi o spagnuoli, parvero
abbominevoli e lo furono. La Politica era già costretta ad
avere una coscienza come il popolo e la Storia a riunirle in
sè stessa.
Ma fra tutti questi lavori di letteratura storico-politica il
Macchiavelli non perdè la passione dell'arte vera. In ogni
ritaglio di tempo andò riprovandosi in varii generi, dalla
commedia alla satira, dai canti carnascialeschi alla novella. In
nessuno riuscì a sorpassare la mediocrità, se si
eccettui la Mandragola, commedia intorno la quale si urtarono in
ogni tempo i più disparati giudizii e per la quale oggi i
giornali iniziano un'impresa di esumazione.
La contesa sul teatro italiano è ormai troppo vecchia e
sciaguratamente troppo risoluta contro di esso perchè
convenga ancora risuscitarla: l'Italia non ebbe e non avrà
quindi teatro nazionale. Le ragioni di questo difetto bisogna
cercarle nella storia dalla quale si rileva la sua natura. Nella
civiltà romana non vi fu arte veramente originale e
nazionale. Popolo destinato nel disegno della storia del mondo a
stringervi la prima unità, i romani non vi recano quindi che
le qualità militari e politiche necessarie allo scopo:
nessuna poesia ha cullato di canti la loro infanzia e non hanno
epopea; la loro religione e i loro Dei sono l'espressione del
più volgare antropomorfismo: la loro anima è arida, ma
il loro senno è sicuro quanto il loro coraggio. Hanno la casa
e il governo. Siccome la fatalità li spinge sul mondo vi
marciano e lo conquistano. La loro originalità è la
politica e creano lo Stato: la loro filosofia è la
giurisprudenza e stabiliscono la giustizia, la loro astrazione
è la personalità dell'individuo e dello Stato. A
contatto coi greci dei quali debbono assimilarsi e spandere le idee,
la grandezza intellettuale di questi li soggioga di buon'ora; prima
ancora che possano fiorire i loro scarsi germi naturali l'imitazione
li schiaccia o li inaridisce. Poi la loro vita nel lungo periodo
della conquista è troppo piena d'azione, troppo riassunta
nella sola azione politica, perchè vi sia posto per le arti;
gl'Italioti sottomessi da loro perdono la libertà, la
prosperità, la coscienza necessarie alle arti. Essi invece
incapaci di sentirne la spiritualità le ammirano come lusso o
decorazione di vittorie colla cupidigia rozza del soldato. Come
cittadini invece le spregiano considerandole appannaggio di popoli
deboli e corrotti.
Le feste e i divertimenti romani erano militari: il teatro che vi
cominciò tardi fu di gusto plebeo, quasi degradante, autore e
attore erano schiavi dei meno apprezzati. Solo coll'invasione della
coltura greca, il teatro crebbe d'importanza perdendo ogni speranza
di originalità. Poichè ogni arte ha d'uopo di
libertà individuale e d'una certa compiacenza della vita,
quando la civiltà romana vi sostituì invece la
coscienza del proprio ferreo dovere politico, l'arte
s'arrestò. Nel migliore e più vero periodo
repubblicano mancò quindi la letteratura. Solamente allo
sparire della civiltà nazionale sotto le molteplici tendenze
ellenico-cosmopolite, la letteratura comparve a Roma manifestandosi
grecamente in opposizione collo spirito nazionale; ma le esigenze
della scuola vi sopraffecero gl'impulsi della natura, mentre
l'imitazione anticipando sulla creazione atteggiava scuole e teatro
antiromanamente e rivoluzionariamente. I primi autori romani sono
greci come Livio Andronico, greche anch'esse di soggetto e di forma
le prime produzioni, commedie non tragedie. Il teatro era quindi
null'altro che un divertimento popolare, nel quale mancavano la
coscienza e lo spirito. E poichè il teatro greco era in
decadenza, l'imitazione romana fu la corruzione di una corruzione,
con questo di aggravante che la grossolanità romana doveva
gualcire quanto la decadenza greca aveva avvizzito.
Filemone di Soli e Menandro posano da modelli; Nevio, Plauto,
Terenzio per non citare che i migliori sono i copisti. Nevio
è il più originale, Plauto ha maggior vena, Terenzio
miglior sentimento nella forma. Dopo di loro la commedia decade
ancora: nè il sentimento nazionale, nè il costume
politico, nè il carattere romano, nè l'epoca storica
la consentivano. La scuola che generò e educò tutte le
arti romane produsse più tardi la tragedia sullo stampo di
Euripide, poeta decadente, dal quale gl'imitatori latini nullameno
rimasero infinitamente lontani.
Dai romani bisogna venire al rinascimento per trovare ancora la
commedia. Sopravvissuta nel popolo fra le atellane, mummificata
nella tradizione letteraria ricomparve nelle sacre rappresentazioni
per uscire poi dalle chiese e, ricoprendosi colle maschere che
sintetizzavano la giovialità e il carattere speciale del
popolo, riprendere il corso delle proprie rappresentazioni col nome
di commedie dell'arte. Una coscienza nazionale e popolare che avesse
bisogno di essa per rappresentare a sè medesima le proprie
passioni, una società che volesse riprodursi col doppio senso
della critica e dell'arte non v'era; l'individualità italiana
forse troppo mista, senz'altra tradizione che il cosmopolitismo,
scarsa nella fede religiosa, scema nella coscienza politica, colla
vita troppo concentrata e contrastata da non potervisi mai affermare
in una forma precisa, non potè ottenere in sè medesima
la libertà e la condensazione necessaria alla commedia.
Rappresentarsi significa ripensare, risentire sè medesimo
nella individualità singola e collettiva con tanta forza e
con tale chiarezza di visione da diventare sdoppiandosi in certo
modo il creatore di sè stesso. L'individualità
italiana non ebbe questa forza. Il teatro moderno doveva sorgere in
Inghilterra, dalla nazione nella quale l'individualismo era il
carattere più spiccato della vita e della storia, riassumendo
tutte le sue potenze spirituali. Cosi l'Inghilterra non ebbe epica e
non avrà mai nè filosofia nè musica. La potenza
della sua obiettività così necessaria al teatro la
rende inferiore nelle facoltà più alte come la
filosofia, che è l'astrazione del pensiero, e la musica
suprema impersonalità del sentimento.
La formazione del teatro italiano ebbe dunque due massimi ostacoli;
il popolo era troppo basso nella vita, i letterati troppo fuori di
essa. Quindi gli eruditi preferirono Terenzio miglior letterato a
Plauto maggior artista. Si cominciò a tradurre e a
rappresentare, le accademie pullularono. A Ferrara dove il romanzo
cavalleresco amalgamandosi coll'erudizione classica trovò la
sua vera forma, dalla mistura di Plauto e Terenzio con pochi
elementi nazionali nacque la commedia italiana. D'entrambi fu padre
il maggior poeta del secolo Lodovico Ariosto.
Ma se nel Bibbiena, nel Lasca, nel Berni il Decamerone riverberava
una certa vita licenziosa e buffonesca da potere qualche volta
simulare la vita comica, nelle commedie dell'Ariosto vissuto sempre
fuori di tale ambiente in un mondo tutto pieno di erudizione,
l'imitazione classica soffoca ogni spontaneità esaurendo
l'azione in un puro gioco meccanico. Basti per esempio paragonare il
suo Negromante col prete di Varlungo o col frate Cipolla del
Boccaccio. La sua Cassaria che fece urlare al miracolo e i Suppositi
sono rifazioni di Terenzio e di Plauto; migliore assai la Scolastica
di contenuto e più agile nella forma, e nullameno pittura di
superficie, rappresentazione incosciente di gente senza coscienza.
La Calandria che oscurò la fama dell'Ariosto, ricopiata dai
Menecmi di Plauto non vi aggiunse di proprio che l'oscenità
negli equivoci entro una forma esteriormente nuova, con un dialogo
abbastanza vivo di frase per quanto strascicato nella forma. La sua
maggiore originalità nella storia è rimasta la
qualità e il grado del suo autore, prima segretario di Leone
X poi cardinale di Bibbiena. Dopo di essa la Mandragola del
Macchiavelli doveva restare il tipo vero, l'ultimo e unico progresso
di quel teatro.
Intorno a questa commedia oggi ancora fioccano critiche acerbe ed
elogi passionati. Alcuni sostenendola come sola gloria del teatro
nazionale portano nella sua difesa tutto l'accanimento di un
patriottismo agli estremi, altri la denunciano come opera immorale
che basterebbe da sola a disonorare l'epoca nella quale fu prodotta
e applaudita. Infatti recitata, come tutti sanno, al Vaticano fra un
pubblico di cardinali e di dame vi ottenne le più festose
accoglienze. Ma tutto ciò non è critica.
Il Macchiavelli s'era già provato prima della Mandragola, che
doveva restare la sua migliore opera d'arte, in altra commedia, le
Maschere, andata poscia perduta, imitandovi da lungi le Nuvole del
gran padre Aristofane.
L'azione della Mandragola che par suggerita da un fatto avvenuto a
Firenze, ha luogo nel 1504 ma fu scritta nel 1512 ai giorni meno
lieti del Macchiavelli: questa circostanza rivela sempre più
l'animo dell'autore, che poteva consolarsi di un insuccesso politico
con una commedia. Infatti così accenna nel prologo.
Il fatto si racconta in due parole.
Callimaco giovane fiorentino, vissuto vent'anni a Parigi, sentendovi
celebrare la bellezza e la virtù di Lucrezia moglie di Nicia
Calfucci è ritornato a Firenze per vederla, e si è
innamorato. Non può avvicinare Lucrezia, la sa onesta. Il
marito vecchio scemo si danna di non averne figliuoli. Mezzano di
questo amore entra un tal Ligurio, scroccone ammesso in casa
Calfucci, al quale Callimaco promette danari se riesca a procurargli
l'amore di Lucrezia. Il mezzo è questo. Callimaco si finge
medico possessore di una ricetta, bevendo la quale Lucrezia
resterà incinta, ma l'uomo che l'avvicinerà la prima
volta ne morrà. Bisogna dunque persuadere a Lucrezia la
pozione e al dottor Nicia di agguantare il primo gaglioffo che passi
per strada a notte presso la casa, di bendarlo, d'introdurlo nel
letto maritale al buio, e prima che spunti il giorno, sempre
bendato, portarlo fuori di casa che non possa mai sapere dove abbia
passata la notte e con quale donna.
Si capisce naturalmente che quel gaglioffo vorrà essere lo
stesso Callimaco. Nicia acconsente presto, le difficoltà
vengono dalla Lucrezia. Allora si mettono in gioco la mamma e il
confessore che la persuadono. Si dispone lo stratagemma il quale
riesce, gli amanti s'intendono, Nicia non intende, e tutti insieme
vanno in chiesa a farsi benedire da frate Tìmoteo che ha
procurato l'adulterio.
Questo l'ordito. L'intenzione e veramente più satirica che
comica, la satira ancora più caricatura che satira. L'amore o
meglio l'appetito che Callimaco sente di quella donna non è
vero, la stessa esagerazione di venire da Parigi a quei tempi per
vederla e la prontezza dell'incendio al primo incontro, la
fraseologia che Callimaco usa col mezzano, descrivendogli la propria
passione e nella quale non trova né gli accenti del cuore
nè le parole del vizio, lo dimostrano. Callimaco, mal
disegnato, non è nè un innamorato nè un
libertino: parla, si muove, si agita, sembra appassionato e non lo
è; l'espediente al quale ricorre, non urta la sua coscienza
d'innamorato e non sorride alla sua depravazione di dissoluto. Egli
è vuoto sotto tutto quell'apparato di azione, freddo con
tutto quel calore di frasi. L'amore è più
contradditorio quando domina una coscienza, il vizio vi è
più calmo. Callimaco è un manichino per Macchiavelli
che concepisce la propria commedia come una burla, nella quale il
vero e solo personaggio è il burlato. La Mandragola non
deriva da Plauto o da Terenzio ma dal Boccaccio: è la
sceneggiatura di una novella.
Nicia è un imbecille, parente, discendente di Calandrino:
Macchiavelli ha presente allo spirito i migliori tipi boccacceschi,
qualche cosa dell'antica ed eterna gaiezza fiorentina gli scoppietta
nell'anima. Il suo Nicia non è un uomo, ma una caricatura,
che egli si diverte a caricare di ridicolo: lo fa ricco
perchè possa essere frodato, dottore per farlo asino, marito
per farlo cornuto, quasi impotente per farlo padre; ma accarezzando
troppo questa figura del Nicia la mano gli si aggreva. Macchiavelli
non è Boccaccio, il critico e il dialettico non sono in lui
rattenuti dalla mano dell'artista. Nicia troppo imbecille arriva
all'incoscienza e perde ogni interesse: egli, che non saprà
mai la burla e non sarà mai al caso di scoprirla, le toglie
ogni sapore; viene così a mancare il pericolo che non riesca,
il pregio quando sia riuscita. La commedia non rivela nulla
dell'intimità fra Nicia e la moglie, che possa fare vivo
contrasto colle intenzioni di Callimaco: se Nicia è una
caricatura, la quale non ha altra vita se non quella che la burla di
cui è oggetto gli comunica, Lucrezia, che vi fa da scopo, non
è che un'ombra. Nella sua posizione di donna giovane, bella,
ricca, maritata a un vecchio scemo che non può nemmeno
renderla madre e la deve tremendamente annoiare coll'assidua
presenza e la senile gelosia, a rovescio di Callimaco che è
tutto azione, ella non si muove, non parla, non sente, non pensa.
È come un fantasma: arriva, si ferma, se ne va dalla scena
senza lasciarvi orma e senza avervi fatto nulla. È più
che la passività, siamo all'inanità.
Macchiavelli avrebbe potuto scegliere fra i molti caratteri
femminili per Lucrezia, ma per torsi d'imbarazzo non gliene ha dato
alcuno; persino la femmina è morta in lei è non
risorgerà che in un gesto impaziente all'ultimo atto. La
resistenza che ella oppone alla madre, incaricata nel complotto di
persuaderle la pozione, non erompe nè dalla coscienza
nè dal temperamento: è un'altra forma della
passività colla quale Macchiavelli l'ha composta, e Lucrezia
resiste meno ancora per scrupolo che per insegnamento religioso.
Ella non ha nè cuore, nè sensi, nè testa.
La madre, che nella commedia è del medesimo stampo e della
medesima pasta, riesce anche meno disegnata, senz'altro rilievo che
quello attribuitole dalla parte. Non sospetta della burla, non
s'offende dell'espediente come non si era afflitta della posizione
creata alla propria figlia con Nicia. Lucrezia è quindi
condotta da lei al confessore per sottoporgli il caso e accettare la
di lui decisione.
Qui riappare il solito Macchiavelli. Il mediocre imitatore del
Boccaccio scompare, la burla s'interrompe e una figura s'inoltra
nella commedia riempiendola. Se Nicia era la preoccupazione
artistica del Macchiavelli, Frà Timoteo ne è il
proposito critico. Il terzo atto, che si apre con un monologo
magistrale, ha subito una scena breve e stupenda. Frà Timoteo
cicaleggia con una fante; il dialogo non potrebbe essere più
vero, le due figure più vive. Macchiavelli deve averle colte
nella vita o sorpreso quel dialogo che ripete. La scena rapida
è piena di rivelazioni: i costumi, i tempi, tutto vi è
espresso; quella fante è uno schizzo che farebbe meraviglia
ed invidia al Boccaccio, Frà Timoteo una figura disegnata
colla verità dei migliori quattrocentisti.
Ma la fante se ne va portando seco la maggiore verità della
commedia. Timoteo resta e si muta. Nicia e Ligurio, che arrivano, lo
persuadono tosto: il frate non oppone loro nè gli scrupoli
della coscienza, nè i riserbi della furberia. Alla prima
parola di denaro si abbandona; non è uomo, non è
frate: pel primo il mercato sarebbe infame, pel secondo un
sacrilegio, per entrambi quella posizione di manutengolo
susciterebbe difficoltà di testa se non di cuore, di avarizia
se non di paura. La prontezza, la schiettezza ribalda del frate,
così ben disegnato nell'apertura dell'atto, non sono umane;
non ha un dubbio sulla secretezza dei due compiici, non ha uno
scrupolo sull'obbrobrio dell'azione, non un'incertezza riguardo alla
docilità delle due donne, non una vera passione di avaro che
tremi di commozione in faccia all'oro o qualche altro vizio cui
quell'oro sia necessario. Non mercanteggia, non si accanisce sulla
somma, non sdrucciola sulla lubricità della scena, non si
diverte della scempiaggine di Nicia; è cinico senza
l'acredine e la sensualità del cinismo. Perchè
acconsente egli? Pel danaro: e perchè vuole il denaro? Non si
capisce. Non ha la passione del proprio convento, non confessa di
avere altri vizi. L'ironia troppo viva delle frasi, colle quali
persuade Lucrezia, è piuttosto del Macchiavelli che sua.
Frà Timoteo in quel lenocinio non si scalda il sangue.
Rimasto solo, filosofeggia secondo il costume del Macchiavelli, ma
senza rivelare altri lati del proprio carattere.
Anche qui il filosofo e il critico dei Discorsi e del Principe hanno
appesantito la mano dell'artista. Frà Timoteo, per farlo
troppo privo di senso morale, è rimasto del tutto senza
coscienza, caricatura non ritratto di frate. L'odioso in lui toglie
il vero. Come frate corrotto ha poca ipocrisia, come uomo ipocrita
non abbastanza corruzione, giacchè le sue azioni non hanno
scopo e non conducono lui a un risultato. Il denaro guadagnato in
quell'impresa per lui non soddisfa alcun bisogno preciso; la
gratuità del male ne scema la credibilità e
l'importanza.
Macchiavelli ha sfogato in Frà Timoteo il suo odio e il suo
disprezzo per il clero, guastando la migliore figura della sua
migliore commedia.
Se Nicia gli si sciupa nella esagerazione di una imitazione dal
Boccaccio, Frà Timoteo gli si àltera sotto la penna
per le considerazioni che dai Discorsi e dal Principe gli ritornano
alla memoria; invece di compiacersi in lui come ogni artista si
compiace creando, egli si diverte a odiarlo, a renderlo più
brutto, facendolo diventare impossibile. Il critico insiste dove
l'artista doveva appena sfiorare. Per colpire l'istituzione del
monachismo sfonda l'uomo nel quale la raffigura.
Il complotto immaginato da Ligurio, vacua figura evidentemente
staccata dal teatro romano, trionfa: in una scena abbastanza viva,
ma eccessivamente giocosa, Callimaco vestito da gaglioffo e
fingendosi mezzo ubbriaco, si fa sorprendere da Nicia, da Ligurio e
da Frà Timoteo che lo bendano, lo aggirano, lo trascinano
sino al letto di Lucrezia.
La burla è riuscita, ma non produce alcuna impressione; era
troppo facile. Callimaco è un falso innamorato, Nicia
un'imbecille incredibile, Lucrezia un fantasma, la madre un'ombra,
Frà Timoteo una caricatura, Ligurio una maschera: non un uomo
o una donna sono vivi nella commedia, la quale rimane una novella.
Come tale, coi gusti e coi costumi del tempo, sarebbe divertente in
una brigata di artisti e di signori, di gentildonne e di monsignori
che non domandano di credere ma di ridere, non vogliono la
verità ma la baia; l'esagerazione e l'inverosimiglianza in
questo caso sono redente dalla arguzia di un motto, dalla
scabrosità di una situazione, dall'arditezza di una proposta.
La novella si ode e non si vede. Per essere ricordata le basta un
razzo finale in una risposta, l'oscenità o la delicatezza di
una qualunque soluzione. In una novella non tutti i personaggi hanno
obbligo di essere vivi basta che essa sia tale come racconto per il
divertimento che dà ascoltandola, per l'impressione che
lascia ascoltata. Nella commedia, troppo più alta, non
è così. La vita ha da esservi intera e l'azione,
svolgendovisi, deve mostrare il fondo dei caratteri che vi agiscono.
Macchiavelli non lo sospetta nemmeno. Poichè l'arguzia
boccacciesca del suo carattere e l'acredine satirica del suo spirito
avevano bisogno di uno sfogo, scrisse la Mandragola sui modelli
d'allora, transigendo fra le novelle del trecento e le commedie
romane, mirando solamente a divertirsi e a divertire. Non volle e
non fece pittura di società. Solo Frà Timoteo lo
trasse più lungi che non avrebbe dovuto andare, irritando
tutta la sua irreligione di politico e di uomo; invece di colpire il
frate colla invettiva, Macchiavelli lo deformò colla
caricatura. Lo scopo per lui era egualmente raggiunto.
Ma l'elegante e briosa agilità dello spirito del Macchiavelli
apparisce nel monologo che, trascinato Callimaco in casa di Nicia e
quindi interrotta l'azione contro i vecchi precetti rettorici,
Frà Timoteo pronuncia raccontando argutamente a sè
stesso che cosa faranno quella notte tutti i personaggi di
quell'imbroglio. Era impossibile vincere più bellamente una
difficoltà allora invincibile, dicendo con più
graziosa mordacità cose più indicibili.
Al mattino per tempissimo Callimaco è cacciato dalla casa di
Lucrezia, che si alza assolutamente diversa da come vi si è
coricata. Il fantasma, la donna, la femmina che non pensava, non
sentiva, ha mutato di colore e di accento: i suoi occhi scintillano
forse perchè è anche più pallida, le sue
maniere sono brusche, è ancora un po' nervosa. Nicia, che le
si accosta tutto ilare, è respinto da un gesto violento di
disprezzo che quasi lo rovescia. Qui Macchiavelli è davvero
grande artista. La ribellione, l'odio al vecchio rispettato sino
allora, che scoppiano improvvisamente, inconsciamente, nel cuore di
Lucrezia e si condensano per l'impossibilità di qualunque
altra espressione in un accento più stridulo delle solite
parole, nell'irritazione irrefrenabile di un gesto, sono uno di quei
tratti comici che bastano a stabilire la natura di un ingegno. In
Macchiavelli v'era del grande artista malgrado che nessuna delle sue
opere sia artisticamente grande.
Finalmente arriva Callimaco, accolto con festa da tutta la famiglia,
e si va in chiesa a ringraziare Dio.
Di questa commedia, che Macaulay nel suo Saggio su Macchiavelli
è stato può dirsi il primo a circondare di gloria
mettendola al di sopra di quelle di Goldoni e uguale quasi alle
migliori di Molière, si dissero le cose più strane.
Siccome Macchiavelli aveva scritto i Discorsi e le Storie, opere
gravi, vi si vollero vedere grandi intenzioni politiche e si
affermò che la Mandragola era la commedia di una
società della quale il Principe era la tragedia. Bella frase,
null'altro che frase. La Mandragola non è una commedia nel
vero significato di questa parola giacchè vi manca il
primissimo elemento dei caratteri, che la sceneggiatura e il dialogo
vivissimo non possono sostituire. Nata da una novella, rimane
novella, malgrado l'abilità della scena: concepita a burla,
arriva alla caricatura senza passare per la satira. Perchè
satira fosse, le occorrerebbe quella coscienza che manca nell'autore
e negli attori. Recentemente Ruggero Bonghi volle vedervi la
condizione e il concetto che allora si aveva della famiglia; ma la
società del cinquecento, priva di coscienza politica e
licenziosa di costumi, non arrivava a questa empietà morale,
o almeno le classi medie cui apparteneva il Macchiavelli e che
avrebbe inteso dipingere nella commedia, non erano così.
Certamente non vi sono nella Mandragola intenzioni morali malgrado
alcune critiche alte e minutissime nel personaggio di Frà
Timoteo, ma nessun severo o amaro proposito presiedette alla sua
concezione. Essa non è la riflessione d'un grande spirito o
l'opera inconscia del genio che scolpisce sè stesso e il
proprio tempo in un'opera d'arte, bensì uno spasso artistico,
di una natura artistica tutta piena di qualità
contradditorie, la quale non trova nulla, non inventa nulla,
nè figure, nè idee, nè forma, ma combina e
maneggia con maggiore sicurezza quelle che tutti usano: Una sola
cosa è miracolosa nella Mandragola, il dialogo. Giammai
commedia o racconto nella letteratura italiana lo ebbero tale;
Macchiavellì creatore della prosa ne esaurisce tutti i
generi, in tutti egualmente perfetto. Fu la verità del
dialogo che fece sembrar viva la commedia, la vivacità delle
parole che animò i personaggi. Macchiavelli che scriveva come
pensava, senza falsarsi attraverso modelli classici, fece nella
propria commedia parlare gli attori come nella vita; ecco il solo
miracolo, e non è dei più piccoli.
Ma l'Italia non poteva e non doveva avere teatro. Se la Mandragola
fosse stata una vera opera d'arte, la sua vita si sarebbe ripetuta e
comunicata ad altre opere; invece rimase sola. I capolavori solitari
sono impossibili e inconcepibili. Così quando Machiavelli
ritentò la prova nella Clizia abbandonando l'ispirazione del
Boccaccio per l'imitazione di Plauto, secondo la tendenza degli
eruditi non riuscì che a peggiorare il proprio modello:
nell'Andria si limitò a tradurre assai bene Terenzio, ma poco
forte nel latino, non l'intese sempre sicuramente.
Delle altre opere minori del Macchiavelli scritte in quegli stessi
anni non è il caso di parlare molto. Nell'Asino d'Oro,
inspirato da Apuleio, l'intenzione di satireggiare Firenze
s'impaluda nelle solite considerazioni politiche senza trovare un
accento di vera satira: la forma è inelegante, il verso
slombato. Nei Capitoli il migliore è quello dell'Occasione,
il peggiore quello dell'Ambizione, tutti egualmente inquinati di
ragionamenti teoretici; invece i suoi Canti Carnascialeschi
richiamano involontariamente alla memoria quelli di Lorenzo il
Magnifico, per far poi nel confronto ben magra figura. La novella di
Belfegor arcidiavolo, nella quale la solita critica volle vedere una
satira di Macchiavelli ai tormenti ricevuti dalla moglie, buonissima
donna che egli amò sempre, è invece presa dal libro
turco dei Quaranta Visiri derivato da fonte araba e questa da
indiana, del quale il Macchiavelli ebbe forse conoscenza, almeno
oralmente, per mezzo dei mercanti fiorentini allora in gran
commercio con Costantinopoli. Macchiavelli stesso aveva colà
un nipote; ma la novella non ha che un valore letterario.
Singolare per acume di buon senso è il Dialogo sulla lingua,
che se non profetizza tutta la scienza filologica come vorrebbe il
Villari, è nullameno la più notevole scrittura di tale
argomento per allora.<
X.
La battaglia di Pavia richiamò sulla scena politica
Macchiavelli.
Clemente VII, che gli aveva commesso le Storie, era succeduto ad
Adriano VI sul trono di Leone X, del quale era stato segretario
così accorto e stimato che pareva, secondo il giudizio del
Guicciardini, piuttosto guidare il papa che servirlo. La politica
era allora intricatissima per opera del papato, che mirando alla
propria ricostituzione si mutava di guelfo in ghibellino, tenendo
dalla Francia e dall'imperatore, imbrogliando sè medesimo
colle pretese dinastiche dei varii papi, ma in fondo seguendo la
politica che la sua Storia e il suo istinto gl'imponevano.
Macchiavelli in quel giuoco non aveva compreso nulla. Pieno di tutti
gli istinti del risorgimento, che tendeva alla costituzione delle
nazionalità esaurendo le forme feudali colla unità
delle monarchie e dell'impero, fuorviato dal sogno di un'Italia
libera, non intese la posizione che le faceva la grande contesa
della Francia coll'impero e del papato con ambedue. Nè guelfo
nè ghibellino non penetrò entro la logica di nessuno
dei due partiti. Il movimento del Savonarola, insurrezione guelfa
contro il pontefice aiutata dai sentimenti repubblicani del Comune e
dal nuovo spirito religioso latente in tutti gli spiriti non
gl'inspira che una lettera mezzo satirica, nella quale Savonarola
è un furbo impostore che tira a comandare. La seconda calata
francese di Luigi XII, che annulla per sempre tutte le speranze del
risorgimento italiano mutando Milano e Napoli in una parentesi di
forze straniere che soffocano l'Italia, non gl'ispira un lamento,
non gli svela il secreto della politica italiana: più tardi
nel 1502 a Rouen parlando col cardinale d'Amboise, primo ministro di
Luigi XII, per impegnarlo ad estendersi in Italia combattendo il
papa, consiglia di piantarvi colonie in Lombardia tramutandone gli
abitanti: consiglio di storia antica e di odiosa
impossibilità politica. Anche questa volta non s'avvede che
il movimento guelfo è favorevole alla Francia, la quale deve
secondarlo per poter conquistare. Col permesso di Luigi XII i Borgia
opprimono i feudatari della Chiesa per costituirsi uno stato;
Machiavelli inviato da Firenze presso il Valentino, lo vede
all'opera, s'entusiasma d'ammirazione, dimentica
l'impossibilità della sua impresa che alla morte di
Alessandro VI doveva urtare nella politica impersonale del papato,
inverte la propria posizione di legato fiorentino per proporre alla
Signoria di aiutare il Valentino in una conquista che già la
minaccia. E quando Giulio II detronizza, imprigiona Cesare Borgia,
Macchiavelli non comprendendo che la Chiesa trionfa sola fra gli
Stati italiani del risorgimento attribuisce la catastrofe del duca
alla fortuna.
Giulio II prosegue la politica del papato e dei Borgia risuscitando
tutti i vecchi diritti della Chiesa; e Macchiavelli non vede in lui
che un prete prepotente ed armato, che ogni principe italiano
potrebbe rattenere e che il signor Baglioni ha fatto male a non
pugnalare immortalandosi. Giulio II stringe la lega di Cambray e
prostra Venezia per strapparle l'esarcato di Ravenna; avutolo, si
volta con Venezia contro la Francia per conquistare Ferrara, Parma e
Piacenza: mutatosi in ghibellino favorisce i Medici contro i guelfi
a Firenze, gli Sforza contro i guelfi a Milano e ingannando tutti,
forse sè stesso, urla: fuori i barbari!
Macchiavelli non prevede il ritorno dei Medici come non aveva
previsto il trionfo di Giulio II in quella politica prettamente
papale. Salito al pontificato Leone X, il primo consiglio ch'egli
dà in una lettera al Vettori è di richiamare Luigi XII
alla conquista di Milano, ricadendo così fra le due
occupazioni spagnuola a Napoli e francese a Milano distruggendo
tutta l'opera di Giulio II; e questo per premunirsi contro il
pericolo immaginario di una conquista svizzera. Non suppone nemmeno
che Leone X debba seguire la politica del suo antecessore
complicandola colle aspirazioni regali della propria casa.
Perfino il tentativo del concilio di Pisa contro Giulio II, che in
quell'epoca fra Savonarola e Lutero poteva pure ad un pensatore
politico ispirare qualche riflessione, non ne suggerisce alcuna
degna di un grande ingegno al Macchiavelli; il quale rituffato dalla
sua buona sorte nella vita privata, potè scrivendo i
Discorsi, il Principe, le Storie, la Mandragola acquistare nella
letteratura quella gloria che la politica gli contendeva
giustamente. Nessuno ha colto con maggiore profondità e
finezza di Giuseppe Ferrari tutti questi errori politici del
Macchiavelli.
La battaglia di Pavia dando a Carlo V una supremazia incontestata su
tutta l'Europa gli subordinava pure la politica del papato.
Perciò Clemente VII alleatosi per abbassare la Spagna con
Francesco I, dopo la prigionia di questo, rimase solo contro il
vincitore irritato. La posizione era terribile; se i pericoli della
Riforma non avessero costretto papato ed impero ad allearsi, tutta
l'opera di Giulio II andava forse perduta. Il problema politico si
avviluppò allora così stranamente che Guicciardini, la
miglior testa del secolo, vi si sgomentò. Per resistere
all'imperatore si pensò ad una Lega italica contro di lui,
aiutata dalla Francia. Clemente VII ne pareva invasato, tutti
aderivano, la Francia prometteva; ma l'uno non si fidava dell'altro,
nessuno aveva fede in nessuno, tutti trattando fra loro della Lega,
per tenersi aperta una porta, ne avvisarono Carlo V. Quindi ebbe
luogo la congiura rimasta nella storia col nome del Moroni, che ne
fu il mestatore e che consisteva nell'offrire(14) al Marchese di
Pescara la corona di Napoli e il grado di generalissimo della Lega.
Il Moroni, finissimo diplomatico meglio che grande politico, non ne
conchiuse altro che perdervi provvisoriamente la libertà per
opera dello stesso Marchese di Pescara, che glie la ridonò
morendo. Congiura e lega concepiti come espedienti finirono
naturalmente in un aborto.
Il Guicciardini allora Presidente della Romagna coll'incarico di
pacificarla, fra le cure del nuovo difficilissimo governo, nel quale
mostrò le più eminenti qualità politiche, non
solo non perdeva di vista gli avvenimenti, ma preveduto mirabilmente
l'esito della battaglia di Pavia, ne aveva anticipatamente dedotte
tutte le conseguenze con tanta singolare nettezza di visione da far
prendere i proprii giudizi per profezie.
A lui venne mandato dal papa il Macchiavelli, che recatosi a Roma
per ottenere qualche altro sussidio alle storie s'era fatto
riprendere dalla smania di azione politica e dalla vecchia utopia
della Ordinanza. Sognava già di sollevare il popolo e di
lanciarlo armato ed invincibile contro gli eserciti di Carlo V. Il
Guicciardini naturalmente ne sorrise: opporre Giovanni dalle Bande
Nere con un esercito raccogliticcio, e come raccoglierlo? a Carlo V;
un condottiero al padrone della Spagna, dell'Impero, delle Fiandre,
di Milano, di Napoli, dell'America, vincitore esasperato della
Francia, ecco quanto seppe concepire l'ingegno politico del
Macchiavelli. Così discutendo col Guicciardini sulla
prigionia di Francesco I, egli sostenne che Carlo V o non l'avrebbe
liberato mai, o che Francesco I, sarebbe poi stato fedele alla
propria parola e avrebbe rinunziato al ducato di Milano:
Guicciardini affermava precisamente il contrario, e la storia gli
dette prontamente ragione.
Macchiavelli partì desolato da Faenza, giacchè
l'assicurazione datagli dal Guicciardini, che la Romagna, guerriera
d'istinti, era meno che atta per le proprie divisioni di guelfi e
ghibellini a dare un esercito, recideva l'ultima ala al suo ultimo
sogno. A Firenze si distrasse ancora occupandosi della
rappresentazione delle proprie commedie, tenne corrispondenza col
Guicciardini, e tanto fece che fallito il disegno dell'Ordinanza e
l'altro su Giovanni dalle Bande Nere, ottenne di essere cancelliere
e procuratore della commissione nominata dal Consiglio dei Cento per
la fortificazione delle mura. Ma anche questa volta, sebbene
l'aiutasse Pietro Navarro, il primo ingegnere militare d'allora, la
sua febbrile attività non potè vincere il disaccordo
degl'ingegneri, nè ottenere danari all'opera. Era destinato
che Firenze non riuscirebbe a difendersi se non nell'entusiasmo
della libertà e sotto lo scudiscio della disperazione, e che
un ingegnere ben altrimenti grande del Macchiavelli, Michelangelo
Buonarotti, fortificherebbe le sue mura.
I tempi ingrossavano, Carlo V per impadronirsi dell'Italia doveva
inoltrarsi coll'esercito, ma difettava di danaro: Francesco I uscito
di prigione contro le supposizioni del Macchiavelli armava; il
cardinale Colonna, nimicissimo di Clemente VII, alla testa di 800
cavalieri e di 3000 fanti irrompeva nella città eterna per
imprigionarvi il papa, che potè a stento riparare in Castel
S. Angelo, e furioso della fallita impresa saccheggiava chiese e
palazzi cardinalizi. Il papa scese a patti, il cardinale abbandonato
da Carlo V si ritirò a Grotta Ferrata, chiamandosi tradito.
Intanto i soldati di Clemente fuggivano sotto Siena, Frundesberg nel
Tirolo alla testa dei lanzichenecchi giurava di venire a Roma per
impiccarvi il papa, e il Guicciardini luogotenente generale
pontificio non riusciva a persuadere il duca d'Urbino, generale di
Clemente VII, a più risoluta azione in tanto frangente. Il
papa irresoluto non si decideva nè alla pace nè alla
guerra.
Macchiavelli andò due volte al campo della Lega per conto
della Signoria, e ne tornò sconfortato: tutto andava a
rifascio. Firenze esposta ai primi colpi poteva essere da un giorno
all'altro presa e saccheggiata. Intanto gli imperiali comandati dal
Borbone, congiuntisi ai lanzichenecchi avanzavano su Bologna: il
duca di Ferrara, il grande artigliere d'allora, sempre minacciato
dalla politica assorbente del papato li spalleggiava. Firenze
abbandonata dal papa, che trattava coll'imperatore, mandava di nuovo
Macchiavelli al Guicciardini; il quale non riuscendo a smovere il
duca d'Urbino dal proposito timido o traditore di non attaccare
gl'imperiali, promise di accorrere al primo pericolo della patria
colle genti del papa, anche malgrado la volontà del duca
generale. Ma gl'imperiali presero tumultuando la via di Roma. Allora
il papa concluse una tregua col Lannoy, vicerè di Napoli,
impegnandosi a reintegrare i Colonna e a ritirare le armi dal
Napoletano, lasciando il reame a Carlo V, Milano allo Sforza e
pagando 60000 ducati al Borbone, il quale si sarebbe ritirato. Il
popolo romano indignato si ribellò: il Borbone, che aveva
ordini secreti di procedere, dichiarò insufficienti per il
suo esercito i 60000 ducati, e passò il Reno presso Bologna.
Nessuno ci capiva più nulla. Il povero Macchiavelli, vecchio
e ammalato, ritornò a Firenze, nella quale il terrore di un
assalto e lo sdegno contro il cardinale Passerini, reggente pel
papa, erano al colmo. Bastò l'occasione di un tumulto
provocato da un soldato perchè tutti si levassero al grido di
popolo e libertà. Si dichiararono decaduti i Medici e
ripristinata la repubblica. Ma il cardinale Passerini accorse alla
riscossa con pochi archibugieri e colle guardie medicee assediando
il palazzo; si temeva una strage e non ne fu nulla: tutto parve
finito con una promessa di perdono generale e l'elezione di nuova
Signoria. Poco dopo arrivò la notizia del sacco di Roma e del
papa prigioniero in Castello: allora il tumulto mutandosi in vera
rivolta, il cardinale dovette andarsene coi due pupilli, Ippolito e
Alessandro dei Medici, mentre si proclamava la repubblica.
Questa fu per Macchiavelli l'ultima e la maggiore disgrazia.
Già repubblicano col Soderini, quindi piaggiatore dei Medici
cui dedicava il Principe e le Storie, loro servo fino allora senza
prevedere la nuova e suprema rivoluzione repubblicana, fu sospetto a
tutti; la sua vita, il suo carattere, la mutabilità delle sue
opinioni, tutto lo accusava. Invano oggi il Villari e molti altri
vorrebbero difenderlo ripiegandosi sul patriottismo delle sue vaghe
aspirazioni a uno stato nazionale, e sulla fatalità che lo
aveva costretto a servire casa Medici; il patriottismo necessario
d'allora non poteva essere compensato da un patriottismo immaginoso
e immaginario come quello del Macchiavelli, che non fece mai nulla
nemmeno per esso e lo disdisse troppe volte e non arrivò a
dargli mai i contorni di una vera utopia. Firenze non era e non
poteva essere l'Italia; l'infedeltà alla repubblica
fiorentina non era scusabile con un'aspirazione a una repubblica o a
una monarchia italiana. Poi nulla giustificava la servilità
del Macchiavelli verso i Medici così nelle Storie, come nel
Principe; solo l'egoismo e i bisogni domestici di un letterato di
molto ingegno e di poca coscienza potevano spiegarla. E a quei
tempi, nei quali fazioni e partiti si combattevano e si esiliavano
ancora a vicenda, la fede alla propria parte era tuttavia abbastanza
sentita in tutti. Macchiavelli servì fedelmente tutti i
padroni, ma non serbò fede a nessun principio. La mollezza
del suo carattere e lo scetticismo del suo spirito come gli
scemarono il valore politico nell'azione, così gli tolsero
quello morale nella vita. I repubblicani di quest'ultima repubblica,
nata in tanto difficile ora per morire tragicamente, dovettero
guardare con disprezzo questa figura di vecchio impiegato e
letterato, che credendosi un gran politico aveva sempre dato a tutti
consigli non mai seguiti da alcuno e che nelle crisi dolorose della
patria aveva sempre separato il proprio dal suo interesse. La
congiura del Boscoli, nella quale egli aveva fatto così magra
figura, non poteva essere dimenticata: il rifiuto opposto alla
congiura Soderini doveva essere noto.
I duecento fiorini delle Storie a lui commesse dal Medici e nelle
quali i Medici erano falsati ed elogiati, saranno sembrati a
più d'uno di coloro, che si disponevano a morire per Firenze
repubblicana, come il prezzo di un tradimento, il danaro di Giuda.
E la coscienza del proprio torto oppresse il Macchiavelli. Scartato
dalla nuova commissione per la difesa delle mura, dimenticato nella
nomina del nuovo segretario dei Dieci della Guerra e che fu certo
Tarugi, un ignoto rimasto ignoto, mentre egli si era illustrato nel
medesimo ufficio, non protestò. Egli, lo scrittore più
eloquente del secolo, il letterato che avrebbe bastato alla sua
gloria, non scrisse su ciò una sola pagina, grido sublime di
dolore e di amore di patria. Il suo patriottismo soccombette. Era
quello il grande momento per una grande anima. La tragedia che
minaccia ogni uomo nella vita lo aveva finalmente colto: la patria
risorta per morire diffidava di lui, non voleva morire con lui.
Nessun'offesa, nessun maggior dolore per una coscienza di cittadino
e di poeta. Respinto dalle cariche, isolato dalla diffidenza,
colpito dai dispregi, vecchio, povero, solo con se stesso, col suo
ingegno, col suo cuore, colla sua anima, Macchiavellì avrebbe
potuto, sentendosi grande e calunniato, scrivere il proprio
testamento politico e dettare così l'epitaffio per la tomba
che aspettava la repubblica fiorentina.
Non lo fece, non lo poteva fare. Egli era una piccola anima in un
grande ingegno.
Quando, morta la repubblica, Buonarotti si trovò costretto a
servire i Medici, si nascose per lungo tempo a tutti nella loro
cappella e scolpì sulle loro tombe le più tragiche
figure, che vanti ancora la storia dell'arte: così
sfogò il proprio dolore, e interrogato lo spiegò in
una quartina, che Dante invidierebbe e vale sola tutta l'opera
letteraria del Macchiavelli.
Ma Buonarotti era un genio, e il genio deve avere l'intelletto pari
al cuore.
Dopo quest'ultimo sfregio, sciaguratamente meritato, Macchiavelli
ammalò e morì con tutti i conforti della religione. Fu
suprema ipocrisia, suprema indifferenza, che consente nel costume
universale, o una vera conversione? Forse un po' di tutto,
perchè le opinioni del suo ingegno non bastarono forse alla
debolezza del suo carattere nell'ora estrema.
Sepolto in Santa Croce nella sua cappella gentilizia, non ebbe pompa
di funerali nè rimpianto di popolo. La sua famiglia si
estinse presto; la cappella, passata in altre mani, cadde in tale
abbandono che non si potè più indicare il luogo
preciso della sua sepoltura. Quasi tre secoli dopo per opera di lord
Cowper, auspice Leopoldo, si fece la prima grande edizione delle sue
opere, e gli si eresse nella stessa cappella un piccolo monumento,
sul quale il dottor Ferroni pose l'ampollosa iscrizione:
TANTO NOMINI NULLUM PAR ELOGIUM.
E Dante e Buonarotti e Galileo, che gli dormono accanto, dottor
Ferroni?!
Poichè di ogni uomo, per quanto grande, una parte muore,
quale è dunque nell'opera del Macchiavelli quella che rimane?
I suoi Discorsi hanno davvero fondato la scienza storica, il suo
Principe stabilito la scienza politica, le sue Storie iniziato il
metodo storico? Lo si è affermato molte volte, ma nessuno de'
suoi più ferventi ammiratori è riuscito a provarlo.
Come reazione al medioevale concetto mistico della vita i suoi
Discorsi non sono che una negazione; all'ipotesi della legge divina
Macchiavelli sostituisce come verità suprema la realtà
effimera del fenomeno. La sua teoria è quindi più
angusta e più falsa della precedente. La sua storia non ha
perciò altra legge che la gravità di un fatto, il
quale ne sposta o ne schiaccia un altro. La sua legislazione
prescinde dal diritto, il suo Principe è la soppressione di
ogni governo nella unificazione personale di tutti i poteri. La sola
idea che in esso valga è la negazione della moralità
privata nell'azione storica ma negazione impotente che non si
converte in affermazione trovando quale possa essere la
moralità della storia. Macchiavelli non sente che
l'umanità non può essere diversa dall'uomo; se
l'individuo ha una morale, l'umanità deve averne un'altra, e
ambedue sono egualmente vere. Il loro antagonismo apparente nella
vita dovrà conciliarsi nella storia.
Macchiavelli sacrificò egli le proprie teorie all'ideale
della patria? La sua utopia, se pure può chiamarsi
così, fu in lui coscienza di filosofo o di uomo? Come
coscienza filosofica sarebbe stata sistematica, come coscienza umana
sarebbe stata operosa; Macchiavelli la contradisse in tutte le opere
e la dimenticò sempre nell'azione. Una utopia e un disegno,
la sua fu un'aspirazione. Desiderare uno stato nazionale non
è concepirlo; concepirlo allora sarebbe stato trovare una
combinazione inattuabile ma organica, nella quale tutti gli Stati di
allora o si fondessero o si confederassero in un corpo, mettendo in
questo corpo una coscienza, tracciando una legislazione, coordinando
le varietà nell'unità, le differenze nelle funzioni,
le funzioni nei poteri. Macchiavelli espresse l'aspirazione che era
in tutti gli spiriti colti di allora, potè appassionarvisi
meditando o fantasticando, ma non passò mai dal sogno al
disegno, dal disegno allo studio dei mezzi.
Le sue Storie non afferrarono nè il concetto del medio-evo
nè quello del rinascimento. Il medio-evo per raccontarlo
bisognava intenderlo, e Macchiavelli lo sopprime. Il medio-evo
è il mondo delle invasioni sul mondo romano, col
cristianesimo sul paganesimo, colla scolastica sopra Aristotile, col
papato sopra la chiesa, coll'impero sopra la feudalità, colla
nuova individualità sopra l'antica, con un'altra unità
nella storia, un altro principio e un altro fine in entrambe. Il
mondo antico ebbe la città, il mondo nuovo ha il comune: il
mondo antico si basava sulla servitù, il mondo nuovo sulla
libertà; in questo l'uguaglianza spirituale preparava tutte
le altre, in quello le differenze storiche distrussero tutte le
forme nelle quali si erano realizzate. Il mondo barbaro si riunisce
nelle invasioni, il mondo cristiano nelle crociate. Macchiavelli,
che cita una volta sola Dante, non sospettò il medio-evo. Le
sue Storie sono una successione di drammi, nei quali la politica
è al tempo stesso anima e decorazione.
Il risorgimento è un fiore che spunta sopra un albero che
muore.
Il mondo di S. Tommaso e di Dante, di Gregorio VII e di Barbarossa,
delle crociate e delle invasioni, della fede e delle barbarie, dei
santi e dei vassalli, dei signori e dei comuni, dell'imperatore e
del papa scompare; l'uomo moderno libero nella coscienza, nella vita
e nella storia s'inoltra. Tutto rovina intorno a lui; Copernico gli
dà il cielo, Colombo l'America, Lutero la libertà,
Guttemberg la cultura universale colla stampa, Cesalpino il moto nel
sangue, frate Bacone l'uguaglianza militare colla polvere, gli
artisti il senso della vita, gli eruditi i secreti della tradizione,
gli scienziati la padronanza della natura, i filosofi la
sovranità del pensiero. Nel risorgimento la prima tendenza
politica è la nazionalità, conseguenza della
individualità: si costituiscono i regni sulla base delle
razze, nell'orbita del possesso storico. Per arrivare
all'unità bisogna quindi passare per l'unificazione, che
avrà un processo dispotico. Ecco la necessità che
uccide i comuni. Il dispotismo per sopprimere tutti gli antagonismi
deve divorare tutte le Signorie: la sua livellazione produrrà
l'eguaglianza, e la sua pressione fortificherà la coscienza.
L'Italia, che ha troppe e troppo antiche differenze, non
potrà costituirsi in uno Stato solo: le piccole Signorie si
fonderanno in reami e ducati; lo straniero è necessario a
quest'opera. La contesa fra papato ed impero è esaurita, il
papato dovrà battersi colla Riforma, più tardi unito
ad essa contro la scienza.
L'Italia nel risorgimento non è conquistata come credette il
Macchiavelli; non è lo straniero che la soggioga, ma italiani
che combattono contro italiani. I minimi governi scompaiono, e siamo
allo stato col sovrano e col suddito.
L'Italia allora non era guerriera ma artistica, commerciale,
industriale, erudita; la sua coscienza era fiorentina, veneziana,
milanese, genovese, napoletana, non italiana; il suo ideale non
poteva essere diverso. Solo nell'orbita di un maggiore Stato,
nell'uguaglianza sotto un re potevano fondersi queste diverse
coscienze in una sola. Le ultime passioni d'allora erano medioevali,
libertà di comune, odio di fazione. L'Italia, i cui eserciti
si battevano così male, aveva dei partigiani che si battevano
fin troppo bene; tutta piena di eccellenti capitani, aveva dei
venturieri e non una milizia.
Il risorgimento sfuggì al Macchiavelli. Predilesse la
repubblica quando diventava impossibile, credè al Valentino
che era l'ultima espressione del principe fuso col condottiero,
sognò la milizia quando cessava la patria, lo Stato mentre
mancava ancora la nazione, offrì ai Governi futuri la
politica dei Governi passati, non s'accorse che la religione stava
per rinnovarsi, il diritto per prodursi, la libertà per
regnare. E il suo regno dovendo essere nella coscienza, la
libertà religiosa era la prima.
Come i suoi Discorsi sono senza l'idea del progresso, così il
suo Principe è senza quella della morale, e le sue Storie
senza l'altra del diritto, e la sua arte senza passione.
Macchiavelli nel proprio secolo è uno straniero; se ne ha i
vizi, non ne ha le idee e non ne sente le passioni. Ha l'istinto del
nuovo, ma non lo afferra e si avviluppa in contraddizioni
insolubili; chiarissimo nella visione dei fatti, l'intorbida appena
ne cerca la ragione: realista, è un sognatore. Non comprende
e nessuno lo comprende, vuole agire e non può, insegnare e
non gli si bada; consiglia il dispotismo ed è un democratico,
adora il proprio comune e vorrebbe una patria italiana, odia Roma e
non si volge verso Lutero: è un artista e non parla mai
d'arte, è un indipendente sempre in cerca d'un padrone, un
libero che ignora la libertà.
Così diventa a sè stesso e agli altri inesplicabile,
ma la sua spiegazione sta nel suo secolo, nel quale muore tutto il
medioevo e nasce il mondo moderno. Egli vi è il vertice di
tutte le contraddizioni, la vittima di tutti gli antagonismi. La sua
coscienza era solo nell'intelletto, la sua infallibilità
nell'istinto; vuole l'impossibile e l'impossibile diventa la
verità del futuro; si stima un politico e rimane un
letterato. A Boccaccio, a Petrarca non era succeduto altrimenti;
divennero celebri per le opere cui davano meno importanza, il
Canzoniere e il Decamerone. Del resto questa incoscienza è la
caratteristica del tempo. Uno solo, il più grande fra i
grandi d'allora, sente il vuoto e la morte intorno a sè: la
sua anima è tragica, Michelangelo Buonarotti. La
diversità delle sue attitudini e la varietà delle sue
opere non lo distraggono come Leonardo, la bellezza non lo appaga
come Raffaello, la ricchezza non lo soddisfa, la gloria non lo
consola. In un secolo dissoluto è casto, in un'epoca
irreligiosa sente sopratutto la religione; ha tutte le fierezze di
un cittadino nella dignità dell'uomo. Rimane scapolo, non
lascia figli.
Come Dante, il suo grande antecessore, sovrasta al medio-evo,
Michelangelo domina il risorgimento; entrambi tragici ma sereni,
riassumendo il loro tempo, sono universali.
Il cinquecento, che pare tutto corruzione, ha pure una grande
sanità nel popolo, che Michelangelo rappresenta: ecco
l'avvenire.
La generazione che sta per sorgere avrà tutta la coscienza
che manca a quella che tramonta; Campanella, Telesio, Bruno, Tasso,
Sarpi, Galileo, filosofi, scienziati, storici, poeti, tutti
diventeranno martiri nella coscienza e per la coscienza. Tragedia e
carnevale sono finiti, comincia il dramma. La vita diventa una
conquista del mondo interiore ed esteriore. La Mandragola e il
Principe non si capiscono più; alla delicatezza della forma
è succeduta quella del sentimento.
L'indagine si sostituisce alla ipotesi, la prova alla
autorità; il papato, che aveva accettato la dedica dei libri
di Copernico e di Macchiavelli, processa Galileo, pugnala Sarpi,
imprigiona Campanella, brucia Bruno. Le corti respingono Tasso, il
grande poeta che muta l'eroe classico e il cavaliere romanzesco nel
gentiluomo moderno.
Ma nessuno di questi grandi scrittori, nemmeno il Galileo, supera il
Macchiavelli nella prosa. Quasi sempre più fluido, spesso
più limpido del Macchiavelli non ne ha l'eloquenza, il
rilievo, la sicurezza dei moti bruschi ed improvvisi. La prosa del
segretario fiorentino considerata nel suo tempo è un miracolo
di potenza e di originalità. Non vi si sentono influssi
latini nè contorsioni scolastiche, tutto vi è vero,
tutto vi è fuso; ha la bellezza greca alla quale non occorre
la grazia e che ignora gli ornamenti. Pensiero e parola, frase e
periodo, tutto è colato in un solo getto: l'argomento, che vi
si svolge, l'avviluppa, la conduce seco, l'anima e n'è
animato. Il colore viene alle parole dalle cose, la sonorità
vi è ritmata sul sentimento senza che una volontà
straniera o un gusto posteriore l'àlteri per abbellirla.
Macchiavelli, che non era un letterato nel senso attribuito allora a
questa parola, e che credendosi un politico non scriveva per
scrivere ma per esprimere il proprio pensiero reso lucido
dall'evidenza della percezione artistica e dalla sicurezza di una
dialettica che nessun dubbio filosofico inceppava, trova senza
cercarla, come doveva fatalmente accadere, la prosa italiana. Se
fosse stato più artista, forse non avrebbe saputo sottrarsi
al gusto dell'epoca; se fosse stato un filosofo o un vero politico,
le difficoltà della materia gli avrebbero disturbata
l'armonia della forma. L'entusiasmo col quale si obliava nelle
proprie teorie e la passione che metteva nei fatti loro favorevoli,
erano la sua coscienza e la sua verità di scrittore,
giacchè senza l'una e senza l'altra non si può
esserlo.
Macchiavelli si è contradetto spesso, ma non ha mentito mai a
sè medesimo; nessuno fu meno macchiavellico di lui.
La sua prosa è uno specchio, il quale riflette tutto il suo
pensiero con tale nettezza che a nessuno può venir in testa
di credere che fra quella e questo l'ipocrisia abbia calato i
proprii veli.
Che se questa gloria di aver fondato e perfezionato nel medesimo
tempo la prosa italiana paresse troppo scarsa agli ammiratori del
Macchiavelli, la gloria di Dante fondatore della poesia non dovrebbe
sembrar loro molto maggiore, giacchè fra prosa e poesia la
differenza non è poi grande quanto il volgo immagina, essendo
entrambe egualmente necessarie alla vita del pensiero nazionale. E
alla prosa solo Macchiavelli deve la popolarità delle sue
sentenze, che luoghi comuni al suo tempo la coscienza non
potè poi ratificare e nullameno lette una volta non uscirono
più dalla memoria nemmeno di coloro che le respingevano
dall'intelletto. Questa immortalità della bellezza se non
vale quella della verità, non è seconda a
nessun'altra, e Macchiavelli smentito dalla storia, abbattuto dalla
scienza, misurato dalla critica, non più temuto o vagheggiato
dalla coscienza moderna, può rimaner calmo nella sicurezza
dalla propria gloria, poichè fino a quando in Italia si pensi
e si scriva la mente di tutti ricorrerà involontariamente
alle sue opere, invidiandone quella bellezza d'espressione, nella
quale sola il pensiero trova la coscienza di sè medesimo e
l'immortalità.<
XI.
Pare strano a me stesso: in questo libro incominciato come sfogo
agli orribili spasimi della mia malattia, non riesco a parlare di
me. Un orgoglio intrattabile mi vieta di gettare in pascolo al
pubblico dolori che hanno talvolta vinta la mia volontà e
fiaccato il mio carattere, giacchè mi sembrerebbe in tal modo
di elemosinare coi lenocinii della frase quella compassione, che gli
accattoni di mestiere tentano coi lenocinii della voce.
Ho scritto cento pagine sul Macchiavelli in venti giorni, ma
d'allora non ho più toccato la penna.
La primavera è tornata, sono ancora a letto. Mi hanno
seppellito per tre volte la gamba entro una parete di gesso e mi
hanno detto di restare calmo.
Quando potrò alzarmi la debolezza sarà tale che
dovrò per qualche mese usare le gruccie.
Così rientrerò nella vita.
Vi sono dei giorni che sento sollevarsi dal fondo dell'anima dei
turbini di collera, che fischiano e ruggono come il Simoun
può fare nel deserto. Tutta l'energia della mia
volontà non può nulla su la mia gamba ferita: per
muoverla debbo chiamare la povera Lucia, che me la solleva come un
tronco. E tutto questo perchè? Se avessi ricevuto nel
ginocchio una palla di falconetto come Giovanni dalle Bande Nere,
alla buon'ora! ferita e morte avrebbero un significato; invece sono
caduto come l'ultimo degli imbecilli, e quanto soffro e tutto il
tempo necessario a guarire è dolore e tempo perduto.
L'inutilità della sofferenza, ecco il dolore del dolore!
Alzate dunque un patibolo davanti ad ogni morente, giacchè
val meglio essere ucciso che morire; nel primo caso è una
lotta, nel secondo un esaurimento; la tragedia è un diritto
dell'uomo, la morte è una fine da animale.
Quante volte mi sono inteso chiedere che cosa sia la tragedia e
quanti libri si sono scritti per spiegarla! Ma domanda e risposta
egualmente malinconiche confondevano tragedia e morte. No, non
è vero. La tragedia non è la morte, ma la morte umana,
nella quale lo spirito discende colla coscienza della propria
immortalità. Sapendo di morire l'uomo è il solo che
non muoia nella natura. L'animale si esaurisce: esso non sa
nè come nè quando sia nato, ignora le leggi della
vita, non si domanda se il paesaggio nel quale passa abbia un
passato, e che cosa sia venuto a rappresentarvi. L'uomo invece
interroga, apprende; tutto passa nella natura, ma ciò che
è passaggio in essa diventa serie nel suo pensiero; la serie
gli dà la legge, la legge gli rivela il secreto. Appena lo
spirito pensa sè medesimo, ripensa il mondo
nell'antichità della sua geologia e nell'eternità
della sua durata. Solo l'eterno può pensare
l'eternità.
Ma lo spirito è nell'uomo e non è l'uomo: colui che
pensa non è pari al proprio pensiero; il pensiero si realizza
in lui e non è lui. L'uomo morrà e il suo pensiero
sarà immortale, ecco la tragedia. La morte accade dunque
dentro di noi e sotto di noi. Il nostro spirito può contare i
passi coi quali si avvicina, studiare il riflesso della sua ombra
sulla nostra fisonomia, analizzare le impressioni del suo freddo nel
nostro organismo. I sentimenti che nel nostro spirito soffrono e
gridano non sono della sua natura, ma saliti dal fondo della nostra
animalità si sciolgono come vapori nella impassibilità
adamantina del suo cielo.
Che cosa importa al sole delle esalazioni, che incapaci di salire
fino a lui ricadono in pioggia a fecondare i campi, che il sudore di
tutte le generazioni umane non basterebbe ad inumidire?
La prima tragedia si svolse sulla terra col primo uomo. Era egli un
animale perfezionato o una statua animata dal soffio di Dio? In ambo
i casi la tragedia fu uguale, giacchè animale era diventato
uomo col pensiero, statua riteneva il pensiero che l'aveva
vivificata. Ma nella sua coscienza di primo sentì egli tutto
ciò che sarebbe accaduto nella sua posterità? In
questo mondo, che forse lo guardava colla stessa meraviglia onde era
da lui spiato, vide egli l'immensità del teatro che doveva
accogliere le tragedie di tutti i suoi nascituri? Quando il sole
tramontò la prima volta a' suoi occhi, pensò egli che
la morte doveva essere come l'ombra? E quando la luna sorse a
diradarla, comprese egli che l'ombra e la morte non erano che
apparenze come tutte le negazioni?
Lo stormire delle foreste e il murmure del mare gli parvero voci
come la sua, nelle quali più grandi parole esprimessero un
più grande pensiero?
In questo secolo si è potuto rifare la preistoria, ma chi ci
darà la psicologia del selvaggio? Chi analizzerà i
sentimenti che la sua lingua non può tradurre e hanno
impresso sulla sua faccia quella terribile immobilità
contemplativa, davanti alla quale la temerità della nostra
analisi, che ha decomposto Dio, si arresta interdetta?
Poi la tragedia divenne storia appena l'uomo invece di battersi
colla natura si battè con sè medesimo. Alla terribile
seduzione dell'ignoto, colla quale la natura attirava il selvaggio
negl'antri delle selve e nelle voragini del mare, la storia
sostituì l'attrazione delle idee, e gl'individui si
avventarono verso di esse, generazioni intere si slanciarono, popoli
innumerevoli si precipitarono, e muoiono ancora gli uni sugli altri
per estrarle dagli abissi dello spirito, donde fiammeggiano
cerulamente come le stelle nelle alte notti sull'oceano. Tutto passa
e non ne resta nella scienza e nella coscienza che un'idea: ideale
per le genti che volevano conquistarla, ricordo per le genti che
l'hanno ereditata.
Il popolo più grande nella storia è il più
tragico, l'ebreo, che si immola al conquisto di Dio: l'uomo
più grande è Cristo, che si lascia uccidere per
diventare Dio, e lo diventa.
Tutto è tragedia. Se il popolo vi è inconscio e nel
giubilo delle proprie forze vi agisce obbliando la fine, la tragedia
diviene epopea, e allora il suo canto ha la sonorità delle
onde, l'impeto del venti, la trasparenza del cielo. Ovunque l'epopea
è uguale a sè stessa. L'uomo vi si muove in una
superba giocondità, che lo rappatuma colla natura da lui
chiamata a parte del suo trionfo sulla idea nella quale si
trasfigura: ma l'epopea è breve e non si rinnova mai
più. Pochi popoli vi arrivarono, nessuno vi è
ritornato. E non appena il canto epico finisce, comincia il coro
tragico. La grande idea, nella quale l'anima del popolo sperava di
quietare, diventa un promontorio da cui si scorgono più
radianti lontananze, una stella dal lembo estremo della quale si
vedono carovane di stelle migrare per l'infinito.
E la tragedia riappare nella severità del proprio pensiero,
mentre il suo ritmo è spezzato dai singhiozzi dei morenti
sotto lo spasimo della nuova disillusione. Ma se nell'epopea il
popolo si era sollevato in massa, slanciandosi collo sforzo di un
sentimento comune verso il prossimo ideale che lo inondava di luce e
di calore, nella tragedia vera il popolo guarda aggrondato in cupo
silenzio i suoi più intrepidi eroi ripetere soli quel conato,
che tutti avevano fatto e che a tutti per un momento era sembrato
trionfare.
È l'era dei grandi individui. Qualunque sia l'idea alla quale
s'immolano o il fatto nel quale soccombono, la loro tragedia non
muta: mentre tutto il popolo guarda nell'immobilità della
stanchezza o nel terrore della disperazione, essi soli osano
levarsi. Che la loro fronte sia coperta da un elmo o da un'infula,
la loro mano armata di spada o di compasso, si avanzano verso la
morte. Il progresso umano esige in quell'ora il sacrificio dei
migliori, perchè solamente la loro morte può rendere
intelligibile a tutti il secreto della legge che la storia sta per
rivelare.
Ma al momento culminante della tragedia il popolo, che non capisce
quasi mai, maledice l'eroe morente per lui. È questa la
suprema differenza della tragedia colla epopea. Nell'una l'eroe
è acclamato prima della battaglia, sostenuto in essa da tutti
i voti, pianto dopo di essa da tutti gli occhi: nell'altra l'eroismo
è come un insulto alla impotenza del popolo, che spia quindi
arcigno la lotta cercando nella catastrofe una ragione alla propria
inerzia.
Eppure di tutti i destini individuali il più degno d'invidia
è il più tragico.
Se nell'epopea l'eroe rappresenta il popolo, nella tragedia lo
riassume, giacchè vi compie la vita della propria generazione
iniziandola in quella della generazione non nata. L'epopea è
un meriggio, la tragedia un'aurora, nella quale la esultanza della
luce erompe dalla lacerazione delle tenebre.
La tragedia antica, la massima rimasta nell'arte, ha per tema un
Dio, non in quanto è tipo religioso ma per quanto si mescola
nella vita umana e vi opera. Amore ed eroismo vi sono quindi
espressi con un'altezza di sentimento e di linguaggio quali l'arte
posteriore non seppe nemmeno più comprendere. Le prime
battaglie significate nelle prime tragedie esprimono o la lotta che
l'individuo spirituale impegna colla natura, e vi brilla il raggio
giocondo dell'epopea; o quelle che impegna con sè medesimo, e
sono la vera tragedia nella quale la vittoria o la morte diventano
egualmente impossibili. Ercole può acquetarsi nell'amore o
morirvi: Prometeo è immortale, e non può nè
vincere, nè morire, nè essere liberato. La battaglia
che il suo spirito ha cominciato coll'infinito ricomincerà a
ogni ora, in ogni uomo, in ogni popolo. Tutti vi saranno uguali.
Nell'epopea la gerarchia sembra costituire o almeno risultare
dall'eroismo; nella tragedia il grande pensatore e il selvaggio,
l'austero e il dissoluto, il mistico che crede a tutto e lo scettico
che dubita di tutto, saranno egualmente trattati. Se la loro ragione
cercherà di evitarla, il loro istinto la troverà nelle
proprie profondità; la tragedia è nel pensiero umano,
che limitato dalla propria umanità sente l'infinito e
l'eterno non potendo nella propria forma momentanea essere nè
l'uno nè l'altro.
E mentre la prima tragedia si ripete nella immobilità dei
proprii dati a traverso tutte le generazioni, scoppiano fra di esse
i drammi storici composti di tragedia e di epopea. In essi l'urto
non è più fra il pensiero umano e il pensiero cosmico,
ma fra il pensiero storico di una generazione e quello della serie
alla quale essa appartiene. Il ritmo dei periodi e delle forme
storiche regola i mutamenti della scena e delle parti; i maggiori
individui dì ogni generazione non recitano che nei prologhi e
nei finali, giacchè il loro ufficio è doppio e debbono
significare in sè stessi la morte e la risurrezione. La loro
vita si diffrange in questo sforzo per ricomporsi nella
idealità del tipo storico.
Nessuna generazione di popolo è quindi senza tragedie. La
loro sceneggiatura potrà variare dall'olocausto
all'assassinio: i personaggi avranno o crederanno di avere in
sè stessi scopi ben più piccoli di quelli pei quali
muoiono(15), e daranno della loro inevitabile sconfitta finale
meschine ragioni di più meschini errori commessi; ma la
fatalità delle idee, che per tragica spira discendono
dall'infinito spirituale nella realtà storica, saranno le
vere cause delle loro catastrofi.
A distanza di secoli le grandi vittime si rimandano il medesimo
grido di dolore e di orgoglio; a distanza di continenti e di mari le
cime tragiche si veggono l'una l'altra, e Cristo morente si volge
verso il Caucaso, e Napoleone da Sant'Elena guarda verso il Golgota.
I più grandi uomini, che conchiusero o iniziarono le
più grandi epoche, soccombettero nelle più disperate
tragedie, Mosè morì sul Tabor, Cesare sotto il pugnale
di Bruto, Alessandro nelle acque del Cidno: Colombo, che scopre
l'America, ne ritorna carico di catene, il rogo brucia quasi tutti
coloro che agitano nelle tenebre la fiaccola del pensiero, il
trionfo è negato a tutti quelli che vincono nel campo
dell'idea. La tragedia del pensiero umano col pensiero cosmico
ricompare nei drammi storici, nei quali il grand'uomo non può
interamente assorbire nè la generazione che spinge nel
futuro, nè indovinare quella che ne evoca; e allora tutto
quanto rimane fuori di lui, o dietro alle sue spalle nella storia
del suo popolo, o davanti alla sua fronte oltre i raggi de' suoi
occhi nel destino del popolo che sta per sorgere, si congiunge sul
suo capo come un'immensa vôlta che si abbassa e lo schiaccia.
Una più tragica necessità aggiunge ancora la commedia
alla tragedia. Quindi tutte le generazioni innumerevoli dei piccoli
si addossano feroci al grand'uomo per rattenerlo lungo la via, o
insinuare almeno nell'eroico dolore della sua meditazione lo spasimo
della loro mordacità animalesca; e lo odiano come non possono
odiarsi fra sè medesimi, e lo perseguono col coraggio che la
coscienza del numero dà agli insetti e l'inconscio
dell'istinto ai bruti. Dietro al tallone di ogni Achille vi è
sempre un Tersite, a fianco di ogni Sigfried vi è un Hagen.
La commedia ride delle ferite che prodiga senza accorgersene, e ha
ragione; ma ride anche di quelle di cui s'accorge, e ha torto.
Nullameno, le sue bassezze sono necessarie all'altezza della
tragedia per attirare l'attenzione di coloro, che migrano nella
storia e guardano continuamente indietro per rinvigorirsi il
coraggio di andare avanti.
Mentre la tragedia segna il passaggio di un periodo ad un altro, e
quindi ha per ragione di dolore e di grandezza la differenza fra la
totalità di quanto una generazione morente consegna a quella
che nasce e la piccola originalità che vi aggiunge,
differenza e contraddizione che spiegano il disprezzo delle
generazioni pei proprii grandi troppo preoccupati del futuro; la
commedia invece è tutta circoscritta nella vita storica della
generazione che la produce. E come non può abbracciare tutta
la sua vita, giacchè cogliendone l'agonia si muterebbe in
tragedia, così in quella stessa dell'individuo non può
cogliere che un momento, il quale isolato diventa falso. La commedia
non esprimerà mai tutto l'uomo, non potendo farlo morire: ma
se non può farlo morire, non può nemmeno farlo vivere.
La vita comica nell'arte e nella natura non sarà mai che un
frammento ingannevole della vita reale.
Se la commedia tripudia nella gioia del proprio istante, presto si
cangia in farsa; se pensa nel proprio tripudio e sale fino alla
satira, tramonta tosto nella tragedia. Essa non è dunque che
un sorriso su due labbra fatte per parlare o in due occhi aperti per
vedere.
L'efficacia delle rappresentazioni comiche e tragiche è
quindi profondamente diversa: il riso suscitato dalle prime inclina
l'anima verso il piacere irreflessivo del sentimento, l'angoscia
eccitata dalle seconde l'innalza sulla cima più alta del
pensiero, scoprendole il destino del quale vive e del quale deve
morire.
Nessun grand'uomo è passato senza tragedia nella storia.
Quando la catastrofe non potè livellare la sua testa alle
altre colla mannaia, la sua vita sopportò tutta la
contraddizione che parve mancare alla sua morte. Il presente fu per
tutti i grandi uomini una carcere, donde spingevano il pensiero nel
passato e nel futuro: il loro linguaggio non era quello dei discorsi
loro indirizzati, la loro parola suonava come un'eco che rispondesse
ad echi lontani. Sulla loro fronte, che di rado il diadema
segnò del proprio peso, le rughe s'impressero ben presto; i
loro occhi avevano e comunicavano l'abbarbaglio d'invisibili
visioni. Invano talora i piccoli impietositi offersero loro con
ingenua vanità il conforto della propria ammirazione: una
superba malinconia isolava quegl'inconsolabili e metteva sulle loro
labbra un triste sorriso perfino nel tumulto dei maggiori trionfi.
No, non compiangete, non adorate! Lasciate Cristo morire sulla
croce: tutta la vostra riconoscenza non vi farà penetrare nel
secreto della sua bontà; lasciate Socrate bere la cicuta: il
perchè del suo eroismo resterà sempre un mistero per
voi che non l'avreste fatto; lasciate Dante errare nell'esilio:
cacciato da Firenze discenderà nell'altro mondo; lasciate
Colombo ritornare dall'America carico di catene: egli che
l'emancipa, ne riporta le catene all'Europa che deve spezzarle;
lasciate Napoleone morire a Sant'Elena: egli che ha liberato
l'Europa dal dispotismo, ultimo despota deve finire prigioniero;
lasciate Garibaldi esulare a Caprera: egli ha fatto l'Italia; che
cosa potreste voi fare per lui?
Che cosa v'importa se Galileo diventa cieco e Beethowen sordo? Non
sono già gli occhi che scoprono i segreti della natura, o le
orecchie che ne sorprendono le armonie. Che cosa v'importa se
Camoëns muore all'ospedale e Giannone in carcere? I loro poemi
e le loro storie non saranno per questo meno liberi, poichè
la fortuna della vita non ha mai influito sulle opere dei grandi.
Essi vivono soli: anche quando il mondo li acclama si sottraggono
per un invincibile orgoglio alle ovazioni. Vittor Hugo si rifugia a
Guernesey, Carlyle si chiude nel proprio studio come in una cella,
Wagner erra per tutte le campagne come un bandito.
Lasciate passare la tragedia del pensiero e andate piuttosto a
criticare quella dell'azione. Ieri è morto Gambetta,
fondatore della terza repubblica francese, giovane, nell'apoteosi
della vittoria: Bismark, il suo gigantesco rivale, ha taciuto e
forse per ciò tutti gli altri hanno parlato sul destino di un
uomo, che diventerà un'epoca nella storia del proprio popolo.
Cavour morì come Gambetta; Mazzini, che era già stato
vinto prima, venne a spirare in Italia come le rondini vecchie
tornano, potendo, a morire sotto il tetto della casa nella quale
nacquero. Che cosa hanno pensato tutti questi grandi all'ultima ora,
mentre i piccoli ciarlavano sapientemente della loro opera e
cercavano fra sè stessi il loro successore? Vela, scolpendo
la testa di Napoleone I morente, è forse riuscito ad
esprimerne il supremo pensiero in un dolore che i muscoli non
sentono più e in un'idea che la morte non può colpire:
ma il tragico capolavoro rimane per sempre un mistero, perchè
una maschera non è un viso, nè una espressione della
sua fisonomia tutto il suo pensiero.
La tragedia artistica non può contenere tutta la tragedia
spirituale nella propria azione.
Se Cristo non avesse predicato ed agito, forse che non sarebbe stato
Cristo egualmente? O forse che Cristo non pensò oltre quello
che disse e non volle oltre quello che operò? La sua tragedia
nella storia non è dunque che una scena di quella che in lui
si svolse, e forse la sola accessibile al mondo e quindi la
più bassa. Il Cristo vero è quello che non conosciamo,
ma indoviniamo confusamente attraverso le sue opere e le sue parole.
La tragedia artistica ha per limite e quindi per negazione l'azione.
Eschilo ebbe d'uopo d'una favola per scrivere il Prometeo, che gli
riuscì grande oltre i confini della medesima.
La tragedia del pensiero balenò allo sguardo di Shakespeare
quando scrisse l'Amleto, poichè l'infelicità del suo
principe danese non deriva già dall'assassìnio del
padre o dall'incesto della madre, ma dalla contraddizione di una
coscienza eroica col mondo, nel quale anche fuori della propria
famiglia avrebbe trovato gli stessi dolori e gli stessi delitti.
Amleto non è un malato, padre di tutti i futuri romantici
come si è preteso; allora non sarebbe tragico, perchè
nella tragedia occorrono due forze egualmente libere. Ma è
l'uomo che si libra col pensiero al di sopra della propria
condizione, oltrepassando i confini del proprio tempo, sfondando le
convenzioni della morale e della religione per affacciarsi fra le
loro rovine all'infinito. Il suo dolore è profondo ma sano,
come sicura la sua opera e puro il suo amore.
Ma neanche a Shakespeare fu concesso di rappresentare la tragedia
del pensiero: il suo abbozzo rimasto nella storia dell'arte accanto
al Prometeo di Eschilo non è che ombra ed eco.
Se l'arte potesse giungere nelle proprie rappresentazioni alla
tragedia del pensiero, i suoi tipi, troppo più alti di
Prometeo e di Amleto, si chiamerebbero Satana e Cristo: ma Dante si
è esaurito nella caricatura del primo e tutto il
cristianesimo si è estenuato nella spiegazione del secondo.
E vi è nella vita e nella storia una posizione più
tragica di tutte quelle trovate dall'istinto artistico, nella quale
periscono i grandi uomini indarno preparati dalla natura ai grandi
avvenimenti. Non è vero, non è possibile nemmeno come
ipotesi che i massimi genii sieno soli e un tegolo caduto per caso
sulla testa di un ragazzo, che si chiamava Cesare o Napoleone,
potesse arrestare o deviare la storia del mondo. Bisogna che nel
disegno della storia molti individui fossero capaci di quella stessa
funzione, nella quale uno solo appare per ragione di unità.
Nessuno ha mai saputo o saprà mai in qual luogo o in quale
circostanza la storia avesse dato la posta a questi grandi
sconosciuti e per quale accidente, uguali nelle forze e nella
coscienza delle intenzioni, arrivassero a tali distanze di tempo che
il primo diventò l'unico, e l'ultimo non fu sospettato da
alcuno. Forse il fatto che li rattenne fu frivolo e l'ostacolo
leggero, perchè la storia non avendo più specialmente
bisogno di alcuno fra essi era indifferente ai loro nomi. La loro
giovinezza ebbe le medesime ansie e i medesimi sogni; la loro vita
era scissa: saranno sembrati stravaganti se non pazzi ai mediocri
ragionevoli che li circondavano. Ma quando venne l'elezione e
l'eletto si chiamò Cesare, tutti gli altri innominati
sentirono il coperchio del sepolcro racchiudersi sopra la loro
anima.
Perchè si parla dunque ancora della Maschera di ferro, di
questo povero gemello di Luigi XIV, che morì alla Bastiglia
senza aver mai potuto mostrare il volto? Non è dunque una
maschera il viso di ogni uomo grande, al quale gli avvenimenti non
consentono di mostrarsi? Che cosa è più il pugnale di
Bruto o lo scoglio di Sant'Elena, che conchiudono una vita gloriosa
nella quale l'individuo assorbì tutto un mondo, dinanzi a
questa prigionia nell'ombra e nel silenzio sofferta dai rivali, cui
fu contesa l'espressione del pensiero e l'azione della
volontà?
Dov'è il poeta che scenda in questo abisso e sappia poi
descriverlo? Da chi sarà compreso questo poeta
degl'incomprensibili? Perchè Michelangelo e Kant, vecchi, a
distanza di secoli pronunciano la stessa parola: sono stanco?!
Immaginate Cristo muto e paralitico, e ditemi se l'impotenza ad
agire non sarebbe stata per lui più straziante di tutti gli
strazii che la fantasia de' suoi credenti ha poi accumulato nella
sua passione?
Ah! non turbiamo con questa tragica curiosità la tragedia di
coloro, che portarono nella eternità il rimpianto di avere
inutilmente vissuto!
Una strana leggenda circola nei giornali sopra Emilio de Girardin,
Da quando giovinetto ebbe i primi sogni di gloria egli non chiuse
più la porta del proprio appartamento. Una notte un amico va
a trovarlo per un bisogno improvviso. Suona, il portinaio della casa
gli apre, infila correndo le scale, arriva all'uscio di Girardin:
è socchiuso. Un sospetto lo turba, ma non si ferma, entra. La
camera è buia, Girardin dorme. Al rumore si sveglia.
- Ah!
- Come mai, esclama l'amico che aveva già acceso un
fiammifero, il tuo uscio è socchiuso?
- Lo lascio sempre così.
- Perchè?
Un lampo passò negl'occhi di Girardin:
- Se fosse chiuso, il solo ritardo necessario ad aprirlo potrebbe
farmi perdere l'occasione suprema della mia vita.
L'altro, che non comprese, alzò le spalle.
Un giorno a Girardin vecchio fu chiesto col sardonico sorriso della
gente seria, se adesso chiudeva l'uscio.
- Ieri per la prima volta: ho compiuto i settant'anni. Troppo tardi!
Troppo tardi, l'ultima parola di tutti i destini falliti.<
XII.
Pur troppo è vero!
Il 26 Gennaio Ras Alula ha sorpreso la colonna De Cristoforis,
spiccata da Monkullo per soccorrere il maggiore Boretti assediato in
Saati, e l'ha distrutta sulle alture di Dogali. Tutti i giornali
sono frementi della truce novella: la Camera ha tumultuato, il
popolo si è scosso per le piazze all'odore del sangue.
È parso come un vento infocato del deserto che passi per la
frigida e grigia atmosfera del nostro inverno, sulle nostre
coscienze, che dopo le vampe luminose della epopea garibaldina si
erano adagiate nel crepuscolo secolare della nostra vita di
servitù.
L'impresa d'Africa, se pur merita questo nome, nacque secretamente
fra le file diradate del partito, che Cavour aveva con
temerità pari alla destrezza condotto alla doppia vittoria
sull'Austria e sulla rivoluzione. L'audace statista, che aveva
arrischiato la spedizione di Crimea, non sospettò forse,
morendo, che i suoi epigoni sarebbero costretti a ritentarne la
caricatura sulle coste africane memori ancora del nome romano.
Nessuno in paese e alla Camera dubitò sulle prime della cosa:
si parlava di una striscia di lido comprata sul Mar Rosso, di una
specie di rada, nella quale le future navi del nostro futuro
commercio coll'Oriente avrebbero potuto riparare. Di sbarco, di
guerra, di conquista neppure una parola; quella sabbia se valeva
poco costava anche meno.
Poche capanne vi formavano un villaggio: selvaggi mendichi respinti
da guerre interne, o indefinibili mercanti, o avventurieri
abbandonati dalle navi di tutto il mondo, vi formavano una
popolazione senza fisonomia e senza passato.
Quando si seppe che il Governo vi aveva spedito una brigata di
carabinieri, fu per tutto uno scoppio di lazzi; le caricature
fioccarono nei giornali, si rideva allegramente di una
meschinità che avrebbe dovuto impensierire. Poi vi furono
compromessi coll'Egitto, fortilizi abbandonati dalle sue truppe alle
nostre: quindi Massaua di villaggio si mutò improvvisamente
in capitale senza contrada nè popolo; si discusse di una diga
che ne allacciasse l'isoletta al continente, di fortificazioni che
dovevano proteggerla da nemici allora insupponibili.
E la gente rideva ancora.
Poscia si aperse l'Esposizione di Torino, mercato delle poche
ricchezze dell'arte italiana, nella quale un villaggio medioevale
costrutto colle leggi prospettiche di un scenario, col suo castello
medioevale in fondo, improvvisato, falso, più meschino di un
balocco, più ridicolo ancora dell'idea d'onde era nato,
più labile forse dello stesso scopo cui era destinato, fu la
sovrana meraviglia e il vanto più orgoglioso. Gli affreschi
vi erano dipinti sulla tela, ma i camerieri vi portavano le assise
degli antichi servi. Il castello, invece di sorgere sui monti
armonizzando con essi la propria architettura, era nascosto nel
fondo di una pianura oltre il Po; le case che vi conducevano non
avevano che la facciata, ma in compenso nelle loro botteghe
imitatamente vetuste artieri moderni abbigliati all'antica vi
facevano per la curiosità dei passanti, addottrinati da
appositi ciceroni, le stoviglie di un tempo. Era una mascherata
nella quale arte e scienza, storia e patria facevano la più
umiliante delle figure.
E parve alla stampa che giammai il genio italiano avesse avuto
più nobile e meravigliosa fantasia.
A quel castello, nel quale alcuni illustri sedotti da tutte le
amabilità della lode, dovevano tenere conferenze sulla vita
spirituale e storica del quattrocento, capitarono non meno vilmente
e ipocritamente mascherati alcuni indigeni di Massaua, una specie di
regina con un paio di guerrieri. Era il Ministero, che imitando per
profondi concetti politici la profondità concettosa del
Comitato della Esposizione, il quale fabbricava in fondo ad un
vicolo di Torino un castello alpigiano nelle proporzioni di un
ninnolo per iniziare i borghesi del nostro secolo ai segreti del
quattrocento, mandava in giro per le grosse città italiane
tutta la dinastia e tutto il popolo della sua nuova compra massauina
vestiti come i pagliacci che girano per le fiere nei carrettoni; ma
dinastia e popolo non erano ancora abbastanza numerosi per riempirne
uno solo.
Allora la gente non rise più, si compiacque. Si
cominciò a credere che la costa comprata fosse più che
una costa; nelle fantasie si accrebbe il numero degli armati
speditivi dal Governo: l'antico orgoglio delle conquiste
sopravissuto nella rettorica di tutti i nostri secoli, si
levò nuovamente per affermare che il Ministero, malgrado le
meschine apparenze da lui date all'impresa d'Africa, fosse composto
di grandi uomini intorno ad una grande idea.
Intanto l'Africa aumentava di anno in anno il proprio fascino sulla
coscienza italiana. Le sue notizie correvano attraverso quelle del
resto del mondo, respingendole, per entrare prime nello spirito di
tutti. L'ultimo dei Napoleonidi, fanciullo infelice ed imbecille,
era andato a morire, coscritto inglese, all'estremo capo dell'Africa
contro una popolazione superba e feroce che l'aveva trucidato.
L'immensa epopea del primo impero, depravata in lurido dramma dal
secondo imperatore, finiva in un meschino e sanguinoso aneddoto
entro un lago d'erba nell'interno dell'Africa. Il primo Napoleone
era morto alto sull'Oceano nel cospetto del mondo; l'ultimo
soccombeva sotto le zagaglie di pochi selvaggi, perchè
cavallerizzo timido ed inesperto non era riuscito ad inforcare la
sella del proprio cavallo fuggente.
Poi Gambetta, il Dittatore che colla gloria delle proprie sconfitte
aveva riparata l'infamia della resa di Sèdan, ritentava
l'esperimento delle armi francesi contro i Crumiri oltre i confini
dell'Algeria: la Spagna vegliava sul Marocco, l'Inghilterra stava
fisa all'Egitto colla mano fremente sulla corda dei propri cannoni.
L'Olanda minacciava di voler risottomettere i suoi Boeri, la Francia
risaliva il Senegal, il Belgio con abilità di mercante e
sapienza di scienziato si preparava alla conquista del Congo,
accodando il proprio re al più intrepido dei viaggiatori del
secolo, l'americano Stanley.
Mentre il Governo italiano comprava qualche chilometro di arene
lungo il Mar Rosso e menava per le piazze le mascherate de' suoi
nuovi cinque sudditi, ogni mattina i giornali italiani levavano
l'inno augurale a giovani viaggiatori che partivano per l'Africa.
Nessuno prima li conosceva e in un attimo diventavano celebri. Una
gloria improvvisa e malinconica circondava il loro nome, un
interesse tragico rendeva prontamente noti tutti i particolari della
loro spedizione. Nessuno sapeva bene a che cosa intendessero,
arrischiando così le loro floride vite, ma ognuno si sentiva
lusingato dalla intrepidezza dei loro propositi, sperando non so che
da questi viaggi senza ritorno nel cuore dell'Africa rimasto sempre
chiuso a tutti gli sforzi della civiltà mondiale. E nullameno
non erano nuovi nè l'idea nè il fatto di tali
spedizioni. Anche trascurando quelle continue dei missionarii, che
hanno tanto arricchito in questo secolo le scienze archeologiche, vi
furono audaci in ogni tempo, che malati della nostalgia dell'ignoto
esularono verso tutte le contrade inesplorate e vi soccombettero o
ne ritornarono senza destare nell'anima della nazione la profonda
emozione appresavi dall'addio dei nuovi viaggiatori.
Qualche cosa era dunque avvenuto fra l'anima europea e africana che,
riavvicinandole, le predisponeva ad innamorarsi l'una dell'altra. La
separazione storica dei continenti già vinta dalle religioni,
dai commerci, dalle immigrazioni, dalla scienza aveva dunque cessato
coll'apertura del canale di Suez. L'Africa, diventando un'isola, si
riuniva all'Europa, giacchè dalle sponde del nuovo canale
l'espansione europea si sarebbe allargata, oltre i suoi immensi
deserti, fin sopra i suoi favolosi altipiani. Dopo aver tagliato il
suo istmo l'Europa risalirebbe i suoi fiumi, e forse fra non molto
congiungendo con un altro canale le fonti non troppo discoste dello
Zambese e del Congo la spezzerebbe in due grandi isole per
irradiarla della propria civiltà da tutto il littorale e dal
centro. Un immenso progetto allaga già il deserto di Sahara e
convertendolo in mare vi crea sulle sponde fecondate una cintura di
città pari a quella del Mediterraneo; le ferrovie cingono fin
d'ora tutte le coste africane con un monile di ferro, entro il quale
l'Africa prigioniera della civiltà non può ricusarne
più i beneficii.
Ma l'Africa antica, quale appariva alla sbigottita fantasia europea
di pochi secoli fa, non è ancora tutta vinta. Il suo clima
è una vampa, il suo deserto un infinito, la sua
aridità una maledizione: oltre i suoi deserti un baluardo
d'inaccesse montagne, sulle quali echeggia il ruggito del leoni, ne
fende il centro, che la vecchia geografia chiamava Nigrizia. Che
cosa vi era dunque in questo centro? Le fantasie dell'arte e della
scienza vi si sbizzarrirono nelle più orribili ipotesi, nei
sogni più spaventevoli. La civiltà dell'Egitto non era
stata africana ma mediterranea, fecondata dall'acqua, solcata dal
Nilo(16) e aperta sul mare: la Nigrizia, aggravandovisi, aveva
sinistramente atteggiato la sua così spirituale religione.
Ora si sa che oltre quei monti vi sono territorii incantevoli, sui
quali vive la più feroce razza che forse il sole abbia
annerito. Una feudalità selvaggia vi sminuzza l'impero in
minime tirannie, una sanguinaria incoscienza vi fa della guerra
l'unica industria e della strage il supremo divertimento: i suoi
monumenti sono ancora di teschi, le sue vie segnate da ossa.
L'antica favola delle Amazzoni vi è ancora una verità
nell'impero del Bahomey, che ha il proprio esercito composto di
donne: i sacrifici di Moloch, nausea e spavento dell'antico mondo,
vi si celebrano ancora ai funerali dei re, nei quali si trucidano
migliaia di mogli e di servi.
L'Africa, che ha avuto una civiltà propria sulle coste oggi
ancora efficace nella civiltà mondiale, giacchè senza
Tebe ed Alessandria la storia è impossibile; che da molti
secoli ospita l'Europa sui proprii lidi ripetendovi in molte
città la gloria solitaria di Cartagine; che si è
lasciata penetrare dai due massimi sforzi religiosi, cristianesimo e
maomettanismo; difesa nel centro da monti e deserti egualmente
inaccessibili, vive ancora nella più atroce preistoria. Per
essa tutto quanto avvenne nella storia del mondo non è
avvenuto: i nomi dei più vasti imperi, degli eroi più
sublimi, tutte le glorie di tutti i popoli, tutte le creazioni di
tutti i pensieri è come se non siano state. La sua vita
è ancora nel suo sole che brucia il sangue e dissecca
nell'anima tutti i sentimenti; il suo popolo vive nudo come i suoi
deserti e con una coscienza arida del pari. Nascere, uccidere,
morire, ecco tutta la sua vita. Cielo e terra non hanno poesia di
misteri per lei: Dio è il sole, la terra eterna, che divora
quanto produce, la sua religione. La forza è il diritto, il
fatto la sola verità. Quanti miliardi di vittime in quante
migliaia di anni ha consumato la preistoria africana, che immobile
nelle proprie idee rudimentarie si ripete colla disperata monotonia
di un vagito e di un rantolo, di un bambino che nasce e di un uomo
che è ucciso?
Finchè la storia ignorava la preistoria, questa poteva durare
fra le bellezze della natura e l'incendio del sole come uno dei
tanti alberi mostruosi del suo clima o delle troppe fiere della sua
fauna; ma quando la storia dilatandosi irresistibilmente verrebbe a
battere colle proprie onde al suo confine, la preistoria incapace di
aprirsi volontariamente, doveva essere sfondata e allagata. Storia e
preistoria si batterono ovunque, sempre colla vittoria della prima.
Le armi della storia erano infinite; quelle dell'altra solamente
due, la freccia che vola e la mazza che schiaccia. La storia
è un esercito e la preistoria una massa immobile e tempestosa
nel medesimo tempo, senz'altra forza che il suo peso e il suo urto.
Mentre quella si avanza per esploratori, poeti della redenzione che
si inoltrano alla scoperta dei bruti umani, questi alla repentina
presenza dei loro scopritori o li adorano o li scannano: ma dietro
al missionario, che sperava convertirli, arrivano l'industria ed il
commercio che li sopprimono. Il frate in cerca di anime pel cielo
diventa così il segugio del colono, che ha bisogno di
uccidere il selvaggio per fecondarne il terreno colla propria
civiltà.
L'Europa, che quattro secoli or sono discendeva dalla vecchia
caravella di Cristoforo Colombo all'America per costringerla ad
entrare nell'orbita storica, decisa a distruggervi quanto il suo
contatto non vi potrebbe rinnovare, assedia oggi l'Africa per tutte
le coste, sulle quali ha già improvvisato miracolosamente
molte città. Ma se una volta all'avanguardia del suo esercito
non v'erano che missionarii anelanti a piantare la croce del loro
Dio su tutte le terre, oggi la sua conoscenza storica più
adulta manda viaggiatori egualmente intrepidi a scoprire nuovi paesi
per le storie future.
L'attrazione è universale ed irresistibile. Tutto l'istinto
poetico delle nuove generazioni si volge verso nuovi mondi. Mentre
la scienza e l'arte ricostruiscono quello antico, la vita aspira ad
un mondo futuro: l'Europa centro della storia è piccola agli
europei. I popoli, che vi si sono costituiti e vi si stanno
esaurendo nei loro periodi, sono spinti a cercare una rinnovazione
sopra terre vergini; la preistoria deve cedere alla storia tutte le
contrade, nelle quali la natura consenta a ricevere il quadro
storico.
Oggi, che sono tracciati tutti i suoi confini e ritratte tutte le
sue fisonomie, il mondo è troppo angusto perchè la
preistoria possa ancora occuparne tanta parte: rispettarvela,
suppunendola uguale alla storia, sarebbe un negare la
legittimità dell'origine e dello sviluppo di questa.
L'Italia fu la prima ad esercitare una grande influenza sull'Africa.
L'antichissima civiltà egiziana non aveva avuto scopo
africano, ma cresciuta sul Mediterraneo e sul Mar Rosso era una
stazione, dalla quale l'oriente per immensa curva saliva verso
l'Europa. Dopo l'Egitto venne la Palestina, poi la Grecia, poi Roma.
Roma fu il centro del mondo; l'Egitto vi aveva mirato come l'India,
come la Persia, come la Grecia. Roma ritornò dappertutto
restituendo nella unità del proprio pensiero il concetto
frammentario a lei venuto da ogni parte. Infatti il Cristianesimo vi
si fermò suggellandovi l'universalità per tutta la
durata della storia.
Roma distrasse Cartagine, ma fecondò Alessandria; ridusse
l'Egitto a provincia romana attirando l'Africa nella storia
universale. D'allora, l'azione italica sull'Africa fu continua:
tutto il commercio africano fu coll'Italia, il Cristianesimo vi ebbe
Santi Padri e concilii, vi mandò crociate, vi si battè
coll'Islamismo, e unito con lui penetrò nei deserti. L'Africa
ebbe quindi due centri fuori di sè stessa, Roma e la Mecca;
il suo Egitto risorse meno africano dell'antico; i suoi imperi
litoranei fiorirono guardando oltre il mare all'Europa,
Dopo le antiche barche fenicie le prime flotte che cinsero l'Africa
furono italiane: i pennoni di Amalfi e di Pisa, di Genova e di
Venezia, di Roma e di Firenze si gonfiarono superbamente ai venti
dei deserti. Primi i Veneziani nel secolo XV offersero ad un sultano
di tagliare l'istmo di Suez, miracolo di audacia allora, miracolo di
scienza oggi e che senza forse si sarebbe avverato anche allora.
Mentre Colombo e Vespucci scendono in America, Cadamosto, veneto,
penetra nel Senegal e nella Gambia: la conquista saracena respinta
dall'Europa è proseguita in Africa. Ma se l'Islamismo vi si
immobilizza, il Cristianesimo vi si inoltra; la civiltà
sorpassa il primo, urge il secondo, gli centuplica le forze, gli
slarga il programma, gli concretizza l'ideale.
Poi il movimento italico s'arresta, mentre l'Europa prosegue.
Inglesi, portoghesi, francesi passano pel solco segnato
dagl'italiani; gli ultimi barbareschi sono distrutti, la tratta
degli schiavi negata: il segreto del Nilo è rivelato, i
viaggiatori s'incrociano nei deserti e si salutano con un grido di
trionfo; prima di morire, l'uno affida all'altro le proprie
scoperte. L'Africa è vinta, l'Europa ne ha la carta.
Conoscere il campo del nemico non è già averlo preso?
Napoleone, l'ultimo Cesare dell'Europa, all'indomani della grande
rivoluzione francese che dilata la rivoluzione cristiana, discende
in Egitto, mostra ai proprii soldati le Piramidi di Sesostri, e alla
loro ombra sconfigge gli ultimi soldati dell'Islamismo, che incapace
di più espandersi voleva mutarsi in barriera. L'Egitto passa
dalla Turchia, ultima forma dell'oriente, all'occidente: l'Asia, che
l'aveva difesa per migliaia d'anni, abbandona per sempre l'Africa
all'Europa.
Una dinastia macedonica s'improvvisa un trono in Egitto con
barbarica imitazione della monarchia napoleonica, ma non vi dura se
non il tempo necessario all'Europa per la soluzione del grande
problema dell'istmo, tagliato il quale soccombe nella più
ignobile delle sconfitte.
Intanto l'Italia, che sta per sorgere, prosegue coll'Egitto l'antico
commercio e le sapienti relazioni: Rosellini ne disegna forse le
tavole migliori, Belzoni e Caviglia penetrano nelle Piramidi e
scoprono le tombe degli antichi re: Servolini, un mio compatriota,
succede a Champollion e tenta superarlo nella interpretazione dei
geroglifici. Passalaqua riporta a Torino la prima mummia: ieri un
altro italiano, l'illustre Maspero, disseppelliva quella del grande
Sesostri, il conquistatore centenario, e ne leggeva nelle fascie
l'iscrizione al mondo meravigliato. Ad Alessandria e al Cairo la
colonia italiana se non la più numerosa è la
più importante: oltre l'Egitto altri italiani s'inoltrano.
Piaggia, Antinori, Gessi risalgono il Nilo e origliano e stringono
le ciglia verso il centro dell'Africa. Ma la gloria di traversarla
sarà divisa fra Stanley e Pellegrino Matteucci, il mio eroico
e mite compagno di scuola.
Stanley ha raccontato con epica e superba sobrietà il proprio
viaggio; Matteucci invece ne è morto a Londra, mentre si
disponeva a ritornare trionfante in Italia, forse per scriverlo.
Solo con un compagno, quasi senza aiuti, egli, intraprese questa
spedizione, per la quale il suo avversario americano non aveva nulla
risparmiato. Matteucci non aveva ancora trent'anni. Era stato prima
verso la terra dei Gallas e il sole gli aveva annerito il viso,
accendendogli così l'anima che in Europa si sentiva
straniero.
Il deserto lo attirava, immenso, mobile, biondo, pieno di abbarbagli
come il mare, ma senza la sua trasparenza che è un inganno e
la sua schiuma che pare una malattia. Il silenzio del mare è
un tumulto paragonato a quello del deserto. Mentre il cielo sotto le
vampe del sole s'arroventa come il metallo e diviene quasi bianco,
il deserto assume tutti i toni dell'oro, liquido e vaporante dove il
vento agita lieve le sabbie lontane, unito e caldo nelle distese
inerti, opaco nei seni delle ondulazioni, vecchio addirittura entro
l'orma stampata dall'ambio del camello o dai salti del leone. Essere
solo nel deserto, del quale non si conosce la carta e pel quale
forse nessuno è ancora passato, neppure dai selvaggi che
errano a' suoi confini! Essere il primo uomo per gli animali, che vi
scorrazzano e che ignorano l'uomo come i selvaggi ignorano la
civiltà!
Appena si entra nel deserto tutto il mondo della nostra memoria e
del nostro sentimento dilegua. In alto mare il vascello, sul quale
si naviga, è ancora quel mondo che abbiamo abbandonato: tutte
le sue gerarchie, le sue scienze, le sue industrie, le sue miserie,
le sue glorie vi si trovano condensate, e quindi più vive e
vibranti. Per essere veramente soli in mare bisogna naufragarvi,
altrimenti la barca è un compagno. Solamente nel deserto si
è soli. Là bisogna camminare, vincere, esaurire
l'immensità di quello spazio: si ritorna come al primo giorno
della creazione, si procede inermi ed intrepidi: tutto è luce
e fiamma, e il pensiero brilla e fiammeggia.
Matteucci, che aveva visto il deserto nel primo viaggio, n'era
rimasto fatalmente innamorato.
Ripartì superbo e malinconico.
Qualche cosa forse lo avvertiva che quello era il viaggio della
morte. Ne' suoi occhi, che all'abbarbaglio del sole africano avevano
acquistato una vivezza per noi strana, passavano dei lampi; la sua
fronte era minacciosa, il suo gesto aveva talvolta delle ampiezze,
che a noi le nostre città e le nostre campagne egualmente
rasserrate non consentono. Ci disse addio con uno squillo nella voce
che a me parve un appello. Matteucci era un cristiano dei primi
tempi, che aveva potuto traversare con noi l'università senza
che la sua fede trepidasse un momento. Forse s'era innamorato del
deserto perchè nella sua sfolgorante immensità sentiva
meglio Dio.
Il deserto lo ha ucciso.
Un anno intero è durata la lotta del viaggiatore col deserto,
dell'atomo coll'infinito. Non sappiamo nulla di questa epopea e non
la sapremo mai, nè possiamo colla temeraria fantasia
riprodurcela. Che cosa è un giorno nel deserto con
quell'arena, con quel sole, con quel cielo, quando nessuno ci vede e
nessuno ci ascolta, quando si può ridivenire vili senza
avvilirsi ad alcun occhio; quando si può piangere ed è
inutile, o si può essere ancora impassibili e quest'eroismo
pel quale la gloria non esiste può rimanere sopraffatto
istantaneamente dal primo leone che passa o dal primo insetto che
vola? E la notte col terribile freddo della evaporazione quando le
sabbie nelle quali si è coricato si assiderano e non si ha
che lo stesso mantello che al meriggio ci riparava dal sole, e le
stelle si affacciano nel cielo diventato di un sereno vitreo, e il
deserto è ancora biondo ma percosso da urli di animali
vaganti per la notte in caccia? Dove sarà l'Oasis? Dove ci
coglieranno le febbri, giacchè la febbre sale il giorno dalle
sabbie fra i baleni e vi ridiscende la notte colla rugiada!?
Un anno durò quella marcia, e il deserto si esaurì e
le sue Oasis si perdettero in lontananza e apparvero fiumi,
territori fertili, valli di paradiso. Tutta la preistoria fu
attraversata e il deserto ricomparve, i monti si drizzarono vergini
ed inaccessibili, i laghi si distesero immensi come mari non ancora
solcati dall'uomo, tutte le fiere passavano fuggendo dinanzi agli
occhi del viaggiatore. Uccelli strani dai colori incredibili e dalle
immense ali si libravano attoniti sulla sua testa, le nuvole degli
insetti urtavano nel suo volto, le serpi scivolavano sotto ai suoi
piedi. E avanti avanti: la febbre entrata nel sangue dell'intrepido
viaggiatore glielo bruciava la notte e glielo gelava il giorno. Ma
la marcia proseguiva sempre. Le centinaia e le migliaia di
chilometri restavano dietro a lui; il centro era oltrepassato,
un'altra spiaggia e un altro oceano lo attendevano. L'Africa era
vinta, la gloria conquistata, L'Italia aveva scoperto un nuovo
mondo. Il viaggiatore, che si sentiva morire, voleva vivere; l'anima
gli raddoppiava le forze. Le ultime tappe furono senza dubbio
sublimi di eroismo. Lacero, sfinito, marciava sempre; adesso contava
i giorni, e la distanza scemando sembrava aumentare alla sua
impazienza. Morire allora sarebbe stata una indegnità da
parte di Dio, ma il credente era sicuro e Dio non lo
abbandonò.
Toccò la spiaggia, una nave francese raccolse lo sconosciuto
e lo sbarcò a Londra. Quando il mondo seppe della sua
traversata si alzò un urlo di ammirazione: l'indomani ne
scoppiava un altro di dolore. Pellegrino Matteucci era morto delle
febbri prese nel deserto.
L'Italia si scosse e fece un glorioso funerale alle spoglie del
Pellegrino; ma Pellegrino Matteucci aveva avuto compagno nella
traversata il tenente Massari, che l'Italia dimenticò presto
avendolo prima scarsamente applaudito. Adesso il nome di Matteucci
è scritto sopra una linea rossa che traversa il continente
africano e si chiama via di Pellegrino Matteucci; tutta la sua
gloria e la sua opera è in questa riga rossa, che i ragazzi
guarderanno indifferenti nei loro atlanti, ma che resterà
sull'Africa come la cintura onde è avvinta alla storia.
La morte di Pellegrino Matteucci non fu sola nè inutile.
Altri si slanciarono sulle sue orme e quasi tutti perirono; Chiarini
Giulietti, Bianchi, Porro furono trucidati. Cecchi più
fortunato mutò l'epopea in romanzo cavalleresco e rimase
cinque anni prigioniero amato dalla regina di Ghera, preparando pei
poeti dell'avvenire uno di quegli ammirabili temi che ebbero
nell'antichità i poeti della Persia e della Grecia.
Ma intanto che gli eroi morivano, il Parlamento e il Governo come
inconsapevoli di questa tragica e storica attrazione dell'Africa
sull'Italia sembravano persino dimentichi della loro compra
massanina, o interpellati da qualche generoso negavano ogni
solidarietà colla morte di quei precursori.
Quindi la nazione sembrò sollevarsi così sdegnosa che
il Governo credette di passare dalla compra alla conquista.
La vendetta della strage di Bianchi ne fu il pretesto: non si ebbe,
non si volle, non si osò avere alcuna idea. Eppure il momento
era storicamente solenne. Dopo secoli e secoli la bandiera italiana
tornava minacciando sui mari che sembravano averla dimenticata, e
non era la bandiera di Venezia o di Genova che aveva scoperta
l'America e salite le mura di Costantinopoli, non la bandiera di
Roma papale che aveva annichiliti i Turchi a Lepanto, ma la bandiera
d'Italia che sventolando sull'asta delle antiche aquile romane
riprendeva la loro via. Dacchè le aquile romane erano state
uccise dallo stormo degli sparvieri nordici, il mondo non ne aveva
viste altre, e nullameno eternamente memore del loro volo le aveva
eternamente cercate sulla cima di tutti i pennoni e di tutti i
vessilli, che lo percorrevano trionfando. Il nuovo stendardo
italiano portava nell'iride dei più espressivi colori il
simbolo redentore della croce.
Tutti gli sforzi millenari dell'Italia per costituirsi in nazione,
il sangue de' suoi eroismi e le tragedie del suo genio non miravano
che a questo giorno nel quale rientrando, attrice immortale, nella
storia dopo essersi circoscritta nei confini del proprio diritto,
veleggerebbe un'altra volta sui mari portatrice di nuova
civiltà.
Il popolo sentì, senza dubbio, la grande ora quando fremente
d'inesprimibile emozione si accalcò sul porto salutando con
epico orgoglio i soldati che tornavano in Africa. Sì,
tornavano in Africa, perchè da tremill'anni durava la lotta
fra l'Africa e l'Italia, e l'Italia vi aveva già vinto
Annibale, imprigionato Giugurta, sottomessi i Tolomei, vinti i
Saraceni, dissipati i Barbareschi; perchè l'Italia, altra
volta sintetizzando tutta l'Europa e profetandone l'avvenire, vi si
era battuta contro tutto lo sforzo dell'Oriente e aveva vinto. La
guerra ricominciava. Poichè l'Europa stava per aprire tutta
l'Africa, l'Italia risorta non poteva, non doveva mancare
all'impresa. I suoi soldati avrebbero ancora ritrovato su quelle
arene le orme degli antichi padri: l'Africa destinata alla
civiltà era quindi votata alla sconfitta.
Ma Parlamento e Governo, l'uno più meschino dell'altro, non
compresero nulla dell'immenso significato dell'impresa: il Governo
intese a sminuirla dandole aspetto di rappresaglia contro pochi
ladroni; l'opposizione non vi scorse che uno sperpero di pochi
milioni, e guaì le solite doglianze sulle miserie del popolo.
L'ingresso trionfante dell'Italia nella storia mondiale
contemporanea si mutò in una entrata di soppiatto, senza
coscienza di sè medesima e con troppa coscienza de' suoi
più grossi vicini che la spiavano.
Il momento della gloria si cangiò in un momento di vergogna.
Garibaldi, Mazzini e tutte le coscienze eroiche della rivoluzione
erano morti; una volgare democrazia snaturava la grandezza del loro
genio e del loro carattere nelle più miserevoli
interpretazioni; non si voleva nessuna guerra coll'Africa
riconoscendole lo stesso diritto nazionale dell'Italia; si
confondevano storia e preistoria, si pareggiavano le loro diverse
epoche e le loro contradditorie personalità. Si dimenticava
che se i più civili non avessero sempre conquistato i
più barbari, la civiltà non sarebbe mai cresciuta: che
se Alessandro non avesse invaso l'Asia, la fusione fra Oriente e
Occidente non sarebbe avvenuta: che se Roma non avesse assoggettato
tutto il mondo, lo spirito greco non l'avrebbe penetrato e la sua
unità non si sarebbe costituita: che se il Cristianesimo non
avesse debellato tutte le idolatrie, non si sarebbe stabilito: che
se i barbari non avessero invaso l'impero romano, il medioevo non si
sarebbe avverato: che se le crociate non avessero assalito
l'Islamismo, l'Europa feudale vi sarebbe soggiaciuta: che se la
Spagna e l'Inghilterra avessero rispettata la nazionalità
degli indigeni americani, adesso l'America non sarebbe quasi pari
all'Europa e la scoperta di Colombo non le avrebbe giovato
più che l'essere già stata tanti secoli prima scoperta
dai groenlandesi, dai giapponesi e dagl'indiani. Nutrita del
principio di eguaglianza morale e politica, la democrazia non
comprendeva che tale alta verità diventava falsa applicata
fuori del proprio periodo storico a popoli barbari: che il loro
contatto cogli inciviliti, reso oggi inevitabile, doveva
costringerli alla guerra come a un saggio della loro
potenzialità. O resisterebbero all'urto, difendendo la loro
nazionalità coll'assimilarsi rapidamente le nostre industrie
e le nostre scienze, o perirebbero. La storia, anzichè
consacrare l'intangibilità di nessun popolo, ha sempre
distrutti tutti quelli, che non potevano entrare nel suo disegno.
La redenzione dell'Africa non è già quella degli
africani attuali, ma la sostituzione di una più alta vita
alla loro: che se essi non possono raggiungerla hanno vissuto fin
troppo vivendo inutilmente.
Per penetrare nel centro dell'Africa bisogna quindi conquistare
tutti i suoi imperi litoranei; l'Europa e più particolarmente
le sue nazioni adagiate sul Mediterraneo non hanno altra missione.
L'Europa, che non lo fu mai, non può essere oggi scopo a
sè stessa. Se la terribilità di questo processo
storico iniziantesi fatalmente colla guerra e colla distruzione
irrita l'ammalata sensibilità di quei recenti cultori del
diritto, che sognano la diffusione della civiltà con mezzi
esclusivamente pacifici, giudicando popoli circoscritti da migliaia
di anni nell'inferiorità della propria razza siccome capaci
d'intenderli e di mutarvisi così da poter servire nei periodi
storici che succederanno al nostro; questa terribilità
è antica e fatale quanto la storia stessa. L'Europa che per
tre secoli si è rovesciata sull'America creandola, ora preme
sull'Africa e punta sull'Asia per aprirle. La razza bianca disputa
il terreno alle razze inferiori chiamandole alla propria
civiltà: quelle che non rispondono sono condannate, quelle
che resistono saranno distrutte.
L'Italia, stata due volte il centro del mondo e risorta oggi
nazione, non può sottrarsi a quest'opera d'incivilimento
universale, di cui le tragedie per essere inevitabili diventano
incolpevoli. La storia segue la stessa morale e lo stesso diritto
della natura nel trionfo della forma più perfetta e dell'idea
più alta: e poichè vincitori e vinti saranno
pareggiati dalla stessa morte, la disparità del loro
trattamento scompare nella idealità conquistata.
L'odierna democrazia, che negando ogni impresa come quella d'Africa,
vorrebbe che Francia, Inghilterra e Russia abbandonassero a
sè medesimi i popoli conquistati, lasciandoli ricadere nella
immobilità del loro stato storico, invece di ritenerli
forzatamente nella mobile orbita della storia mondiale e
costringendo quelli incapaci di mutarsi o troppo numerosi per essere
prontamente distrutti a contribuire colle loro ricchezze allo
sviluppo della civiltà europea, non si è certo chiesto
il perchè della terza resurrezione italica. Evidentemente la
storia non può averla consentita nel solo interesse degli
Italiani dopo averla negata a tanti altri popoli che come noi
soccombettero in altre epoche. Se l'Italia è ridivenuta
nazione, il secreto di questo fenomeno storico sta nella
necessità che la storia mondiale può avere della sua
opera e nella facoltà del nostro popolo a prestarla.
Ma se la democrazia abbandonata dal grande spirito rivoluzionario
non capì l'impresa d'Africa, impigliandosi nelle
contraddizioni del diritto politico col diritto storico, non meno
inetti si mostrarono coloro che accettandola le imposero i brevi
calcoli dell'interesse industriale e, facendo pompa di scienza
nell'analisi de' suoi possibili vantaggi, conclusero a rigettarla
perchè nel nuovo libro mastro l'entrata non sarebbe stata
pari all'uscita. E rifecero quindi la critica delle colonie provando
come tutte costassero più di quanto rendessero, ma
dimenticando di chiedersi come mai tutte le nazioni fossero potute
tanto facilmente cadere in un errore di semplice aritmetica. Nessuno
di loro sospettò nemmeno che l'interesse industriale e
commerciale fosse una illusione necessaria nella storia per produrre
il fatto delle colonie, le quali, come modo di propagazione civile
avevano per iscopo non già lo sviluppo di una nazione ma la
creazione di un'altra. Le colonie piantate ad immense distanze non
furono mai e non sono ancora che stazioni e fari facilitanti alla
storia la sua marcia pel mondo. Nemmeno i recenti luminosi esempi
moderni parvero bastare. Quindi si affermò che le colonie non
andavano fondate perchè appena grandi si emancipavano, come
oramai ha fatto tutta l'America, quasi che la trasformazione
trionfante di questa in popolo originale non fosse lo scopo
recondito e il premio supremo delle sue prime colonie. Non si sa
ancora abbastanza che la storia di ogni paese è non solo
coordinata, ma soggetta alla storia universale, e che ogni impresa
vi oltrepassa sempre l'interesse di chi la compie, lasciandogli per
sola grandezza quella di adempierla bene.
L'impresa d'Africa per l'Italia era la prima conseguenza del suo
risorgimento. Potenza storicamente e geograficamente mediterranea,
uscendo di sè stessa non poteva agire che in Africa; alla
politica de' suoi uomini di Stato scegliere il momento più
opportuno, il lido più adatto a discendervi colla più
sapiente preparazione.
Ma l'Italia, scivolata dopo la morte di Cavour nelle mani di uomini
meschinamente parlamentari, dovette eseguire il proprio ingresso in
Africa con Agostino Depretis, volgare rivoluzionario costituzionale,
che aveva contrastato accanitamente nella Camera Subalpina la
spedizione di Crimea al grande statista. Giammai il corso storico
esercitò sopra un individuo più crudele ironia: colui
che aveva negato al Piemonte di diventare Italia, associandosi colle
maggiori nazioni nella guerra contro la Russia, dovette vecchio
spingere l'Italia in Africa associandola alle grandi potenze
mondiali.
La sua vita politica tutta circoscritta nel Parlamento aveva
limitato fatalmente il suo ingegno, rendendogli più
malleabile il carattere e instancabile il temperamento. Fra i
capitani di Alessandro, come Giuseppe Ferrari chiamò con
sdegnosa ironia i successori politici del conte di Cavour, egli non
ebbe dapprima importanza. Il giacobinismo, che rimase sempre la
parte più nobile del suo spirito, lo rendeva sospetto e
inadatto in quei momenti tanto difficili per la monarchia, nei quali
bisognava esautorare la rivoluzione attirando con ogni favore
nell'orbita costituzionale la grossa maggioranza retriva del paese.
Il Cavour, che aveva iniziata l'opera con meravigliosa destrezza,
era morto troppo presto, ma i suoi migliori scolari la perseguirono
credendola meno un espediente necessario alla consolidazione del
fatto rivoluzionario che una vera legittimità del principio
monarchico più alto della rivoluzione medesima.
La tradizione politica e moderata, nella quale il Cavour aveva agito
slargandola, era ancora viva nel nuovo partito costituzionale, che
considerava come nemici i rivoluzionari. Depretis rimase dunque
sospettato e subalterno: la sua indiscutibile abilità
parlamentare non gli permise di stare a paro con Minghetti e con
Ricasoli, il miglior borghese e il miglior aristocratico del nuovo
governo, nè di abbinarsi col Rattazzi, che solo aveva potuto
rivaleggiare col Cavour e in alcune qualità forse lo
superava.
Ministro a più riprese, possibile in tutti i gabinetti di
mezzo carattere, capace di disimpegnare qualunque funzione come a
reggere ogni portafoglio, insinuante, indifferente sui mezzi
politici e privatamente onesto, avido di attività più
che di azione, ambizioso di potenza meglio che di gloria, si
destreggiò per quindici anni fra i successori del Cavour,
abili partigiani, che istintivamente retrivi avrebbero voluto
immobilizzare la rivoluzione nei propri sentimenti. Ministro della
Marina nel 1866 per una di quelle fantasie della nostra infanzia
costituzionale, che prendendo i portafogli per balocchi se li
distribuiva al di fuori di ogni tecnica capacità, subì
se non preparò colla propria imperizia il disastro di Lissa;
prima sconfitta che una flotta veramente italiana patisse dopo
migliaia di anni. Inattivo durante la intrepida e profonda
combinazione di Mentana tentata dal Rattazzi, arrivò a Roma
lasciando a Quintino Sella, ultimo giunto nella fazione moderata e
migliore di quanti v'erano rimasti, la gloria di spingere il
Ministero reluttante su per la breccia di porta Pia. A Roma il
partito costituzionale, che con Cavour aveva assunto di disciplinare
la rivoluzione entro le forme parlamentari, italianizzando la
monarchia piemontese coll'insediarla in Firenze e nazionalizzandola
col sollevarla sino al Campidoglio, doveva esaurirsi.
La sua transazione storica, iniziata nel Parlamento piemontese e
proseguita in quello nazionale, aveva raggiunto il proprio scopo
logorando ogni varietà di uomini e d'ingegni. Del vecchio
mondo italico nelle nuove generazioni non restava più nemmeno
il ricordo; tutte quelle necessità di accomodamento e di
concessioni, spesso trascorse oltre il ridicolo o discese troppo
spesso fino sotto la viltà, erano non solo cessate, ma
diventate inintelligibili alla nuova critica non giustificavano
più nè la bassezza di certi metodi nè
l'ignominia di parecchi risultati. La monarchia accettata dalla
maggioranza come una forma ancora idonea alla vita nazionale, non
era più venerata per tradizioni domestiche o considerata per
pregiudizi di educazione come unico rifugio contro le ferocie
ribalde della rivoluzione. Il nuovo re doveva conquistare
personalmente l'adesione dei propri sudditi per regnare, o
accontentarsi altrimenti di essere tollerato come una forma poco
nociva per la nazione sino al momento opportuno per sostituirla.
Con Roma capitale l'Italia era organicamente e storicamente
perfetta. Se qualche lembo de' suoi confini stava ancora fra le mani
dell'Austria, secolare nemica, alla prima bufera che ne minacciasse
l'impero eteroclito, l'Italia saprebbe abilmente e valorosamente
riconquistarlo.
La lotta dello Stato colla Chiesa passava colla conquista di Roma
dalla politica alla scienza, giacchè il diritto nazionale,
ormai invincibile sul Campidoglio, avrebbe rispettato e imposto
rispetto al diritto religioso.
La politica del Governo entrando in Roma doveva dunque murarsi,
poichè la stessa rivoluzione dalla forma filosofica di
Mazzini e epica di Garibaldi(17) scendeva ad un'altra più
precisamente politica ad impararvi i metodi parlamentari e a
ricorreggervisi con studio più calmo nelle scienze. Tutti i
rappresentanti del vecchio partito moderato erano caduti lungo la
via, o caddero toccando Roma. La loro fine fu triste. Malgrado gli
eminenti servigi resi e la gloria del tempo nel quale avevano
operato, il paese li dimenticò vivi, non li curò
moribondi, non li compianse morti. Il difetto della loro opera,
maggiore nelle intenzioni che nei risultati, giustificò
l'indifferenza della nazione; la quale sentiva come tutti
quegl'illustri avessero meno lavorato per lei che per la monarchia,
mentre lo spirito dell'avvenire stava ancora nella rivoluzione
lasciatasi generosamente immolare alla gloria e all'utilità
della monarchia. La morte di Garibaldi e di Mazzini lacerò
tutte le coscienze, quella prematura di Cavour le aveva sbigottite:
la morte de' suoi successori così varii di ingegno, alcuni
così egregi di carattere, tutti così benemeriti di
lavoro, non destò nè paure nè rimpianti. La
nazione sicura di sè medesima non poteva turbarsi per la
morte di uomini, che non avevano voluto fondersi con lei. Mentre la
piazza rimaneva calma, forse la corte diventava pensosa.
Agostino Depretis, superstite di tutti quei morti, fu il loro erede
universale.
Ma nel troppo lungo arringo parlamentare, il giacobinismo del suo
spirito e della sua prima educazione si era logorato. L'immensa
eredità della politica monarchica avviluppò il suo
ingegno e schiacciò il suo carattere. Così iniziando
la sua ultima carriera di statista con largo programma di riforme,
alle quali venne gradatamente fallendo, non vi pose dentro alcun
nuovo concetto, e non comprese quanto la monarchia di re Umberto
fosse diversa da quella di Vittorio Emanuele. Eppure a nessuno dei
successori di Cavour era toccata la fortuna di aprire un nuovo
periodo nella storia italiana. La terza Roma entrava nel mondo con
Agostino Depretis. L'epopea e la tragedia del risorgimento erano
conchiuse, tutte le contraddizioni conciliate, tutte le differenze
etnografiche e storiche fuse: un'altra Italia con nuova coscienza,
con diverso aspetto, alzandosi sulle Alpi guardava l'Europa.
Mentre la Francia trascinata dall'ultima forma del cesarismo
napoleonico a combattere l'unificazione della Germania per un falso
ricordo della politica di Richelieu e di Luigi XIV, sostenendo il
papato e rinnegando nella propria tradizione lo spirito
rivoluzionario, era stata schiacciata dal maggiore dei disastri, e
dibattendosi convulsamente fra le insidie degli ultimi legittimisti
e le violenze dei recenti anarchici abbandonava la direzione della
politica europea per costituire la propria repubblica; mentre la
Germania, avendo d'uopo ancora per unificarsi della più
arcaica forma imperiale, doveva tergiversare a ogni ora in ogni
questione, smentendo ed usando tutti i principii al coordinamento
politico del proprio fatto; mentre l'Austria minata dal germanesimo
e dal panslavismo, povera, eterogenea, battuta, non aveva conservato
altra unità che la dinastica e altra forza che la tradizione:
mentre la Russia si educava nell'immenso duello fra nichilismo e
assolutismo, e l'Inghilterra rientrata nella propria isola scemava
la propria azione europea per accrescerne la propria attività
cosmopolita; era il momento per l'Italia, giovane, forte, figlia ed
erede della rivoluzione francese, di entrare in Europa capitanando i
diritti e le aspirazioni dei popoli. Ella sola, non vincolata da
tradizioni, con una storia più lunga e gloriosa di ogni
altra, poteva mettersi al centro della rivoluzione francese
maturandola in Europa.
L'Italia, necessaria per ragioni d'equilibrio, era invincibile:
nessuno avrebbe potuto attaccarla senza suscitare una guerra
europea. Appoggiata sulla Francia, colla Spagna di dietro,
banditrice della rivoluzione, avrebbe avuto tutti i popoli con
sè; la sua influenza, la sua potenza sarebbero
miracolosamente cresciute. Bismark preso fra la Francia e la Russia,
poco aiutato dall'Austria, non sarebbe più stato onnipotente;
la sua immensa opera germanica, ancora poco compatta e troppo
combattuta fra la tradizione imperiale e lo spirito rivoluzionario,
fra il particolarismo dell'antica feudalità e l'antagonismo
delle religioni cristiane, gli avrebbe impedito di occuparsi tanto
dell'Europa.
Era il grande momento dell'Italia! Cavour lo avrebbe compreso,
Rattazzi l'avrebbe osato; Depretis non comprese e non osò.
La sua politica estera, ammalata di monarchismo, osteggiò la
Francia perchè repubblicana, appoggiandosi a Bismark, mentre
questi aveva bisogno d'appoggi; trascinò il re a Vienna per
ottenergli lo sfregio di una visita non restituita. E questo insulto
dovremo pur vendicarlo! Al congresso di Berlino si presentò
come subalterno e mendico, e fu accettato per tale. All'interno
tutta la sua politica mirò alla disorganizzazione suprema dei
partiti, i quali naturalmente disorganizzati dal nuovo momento
storico, nel quale avevano a ricomporsi mutando base e metodo, si
disciolsero. Fu il regno della confusione e dell'atomismo.
Maggioranze e minoranze si addensarono e si rarefecero non lasciando
nuclei; le migliori tradizioni rivoluzionarie, i più alti
sentimenti politici s'infransero: abilità suprema fu il
trionfo nelle votazioni, ultimo scopo la durata del Ministero. E in
esso, con triste novità d'esempio, passò e
ripassò una folla di uomini mediocri che venivano ad
annullarvisi, mentre Depretis solo durava, Proteo indefinibile ed
inafferrabile, che tutti condannavano e nessuno poteva colpire;
politicante monarchico, che comprometteva la monarchia opponendola
alla rivoluzione e sacrificandole le glorie e gl'interessi della
patria,
Nullameno l'Italia doveva agire. Questa necessità, facendosi
a mano a mano più intensa, forzò la politica di
Depretis: Bianchi era stato trucidato, la spedizione d'Africa fu
risoluta. Ma se la Francia, insignorendosi di Tunisi, era stata
rapida e sicura; l'Inghilterra, conquistando l'Egitto, violenta e
superba: l'Italia fu depressa e timida. Non si osò parlare,
si temette di provveder troppo, si lesinarono i denari più
necessari, si negarono le truppe, si economizzarono i bastimenti.
Non era l'Italia, non una grande nazione che agiva: parve si
aspettassero permessi, si cercasse di non essere avvertiti, non si
volesse essere giudicati.
A dirigere l'impresa Depretis con servile cinismo aveva chiamato il
conte di Robilant, soldato mutilato e diplomatico peggio che
impotente, il quale, ambasciatore a Vienna, aveva procurato al Re lo
sfregio di visitare come un vassallo, al quale non si rendono le
visite, l'imperatore d'Austria. Mentre occorreva un uomo di Stato
forte ed abile, l'Italia non ebbe che un parlamentare logoro e un
diplomatico monco.
Un immenso palpito di passione e di orgoglio sollevò tutti i
cuori italiani, quando salparono i primi bastimenti. Il mare era
bello, il cielo sereno; Napoli sublime, distesa sovra i suoi colli,
salutava augurando i vascelli che s'allontanavano, fisa al fumo
delle vaporiere come al fumo d'imminenti vittorie. Finalmente!
L'Italia, che dopo le umilianti sconfitte di Custoza e di Lissa si
era con immensi sforzi d'economia e d'ingegno ricostituita una
marina e un esercito, li avventava sull'Africa.
Urràh! marinaio, tu porti la fortuna d'Italia! Urràh,
marinaio! Le navi sparirono all'orizzonte e tutto ricadde nel
silenzio.
Solo di quando in quando si avevano notizie di minimi fortilizi
costrutti, di brevi acquedotti scavati, di capanne nelle quali i
soldati basivano dal caldo. Erano pochi, stavano inerti. Il Governo,
per sapiente economia, non aveva nemmeno allacciato il teatro della
guerra con un cavo sottomarino a qualcuno delle grandi stazioni
telegrafiche.
Intanto la democrazia riprendendo il cicaleccio femminile
s'impietosiva sulla sorte dei soldati, o spropositava sul diritto
dei selvaggi; il Governo inoperoso dimenticava l'impresa pel
quotidiano dibattito parlamentare. Bande nomadi, racimolate dal
più feroce e dal più abile dei generali abissini,
scorazzavano minacciose sui confini del nostro campo, marcato da
fortilizi sprovveduti, mal difeso da truppe così scarse, che
non potevano nemmeno comunicare fra loro senza pericolo.
Invece di vendicare l'eccidio di Bianchi, il nostro piccolo esercito
assisteva inerte alla nuova strage della spedizione del Porro, che
il Ministero non osò considerare italiana, e alla cattura
dell'ultima missione Piano e Salimbeni, mandata secretamente dal
Governo stesso. Una immensa malinconia di una viltà nè
voluta nè meritata si aggravava sulla nazione: le antiche
diffidenze lasciate dai disastri di Custoza e di Lissa risorgevano
nella coscienza popolare; si dubitava dell'esercito regio,
s'invocava il nome di Garibaldi morto, ma più vivo e grande
che mai nello spirito di tutti. Dov'erano adesso i suoi garibaldini
di Montevideo e di S. Pancrazio, di Marsala e di Digione? Dov'era
morto Nino Bixio, tigre fra i leoni, così violento che solo
Garibaldi poteva frenarlo, e così intrepido che egli stesso
lo guardava ammirando? Dov'era Alfonso Lamarmora, ultimo cavaliere
del Conte Rosso, che con diecimila Piemontesi aveva resistito a
ottantamila Russi, strappando eroici applausi ai primi soldati del
mondo, i Francesi che avevano sempre vinto, e gl'Inglesi che non
avevano mai perduto?
Depretis in quello stesso momento strangolava con pessimo contratto
le ferrovie italiane, e Robilant mandava le navi dell'Italia risorta
a minacciare la Grecia, che aveva dato un balzo sotto il calcagno
del Sultano.
Poi, ieri, improvvisa come una bufera calda di sangue e di sole,
arrivava la truce novella: la nazione agitata da funesti
presentimenti, che la scipita e bugiarda parola del conte di
Robilant aveva avvelenato tentando quetarli, si drizzò
convulsamente come ferita al cuore, il Parlamento parve destarsi; il
Ministero allibì. Un telegramma di sconfitta, che i giornali
inglesi avevano già avuto, era giunto finalmente a Roma.
Depretis, pallido, lo lesse balbettando alla Camera.<
Massaua, 23 Gennaio 1887.
Perin, 31 Gennaio 1887.
Il 24 Ras Alula lasciò Ghinda accampandosi a Sud-Est di
Saati, che attaccò il 25, ma fu respinto dopo tre ore di
combattimento. Nostre perdite, quattro feriti e cinque morti. Le
perdite degli abissini sono sconosciute.
Il 26 tre compagnie e cinquanta irregolari partiti da Monkullo per
vettovagliare Saati, furono attaccate a mezza via. Dopo parecchie
ore di combattimento, la colonna fu distrutta. Novanta feriti sono
già ricoverati all'ospedale di Massaua. Mi riserbo spedire
particolari esatti circa le perdite e i feriti.
Causa l'eccessiva estensione della nostra linea, ho richiamato i
posti di Saati, Wuà e Arafali. Ras Alula sembra essere
rientrato a Ghinda, causa le gravi perdite e i numerosi feriti, e
probabilmente anche per attendere l'arrivo del Negus, che si dice
essere in marcia.
Il Maggior Generale
Genè.
Una battaglia era dunque scoppiata, nella quale tutti gli italiani
erano periti. Un nugolo di abissini, impetuoso come il vento dei
loro deserti, aveva sorvolato le aride montagne del nostro confine
militare, travolgendo, rovesciando una delle nostre colonne,
spiccata da Monkullo a difesa di Saati, avamposto assalito il giorno
prima da Ras Alula.
La guidava il tenente colonnello De-Cristoforis, e si componeva di
tre compagnie distaccate da varii reggimenti; in tutto forse un
cinquecento uomini. Non avendo potuto trovare i cammelli necessarii
al trasporto delle munizioni chieste dal comandante di Saati, non
era potuta partire che alle 5 antimeridiane. Per unica artiglieria
scortava due mitragliere. La marcia era rapida.
I soldati, consapevoli dell'attacco di Saati, camminavano fieri e
guardinghi; erano tutti giovani di venti anni, usciti ieri dalle
case paterne, che non avevano mai provato il fuoco. Il silenzio
solenne del pericolo, la prima emozione dell'eroismo stringevano le
loro coscienze. Avevano lasciato Monkullo; sarebbero giunti a Saati?
Le due compagnie rimaste a Monkullo attendevano: un eguale pericolo
le minacciava. Ras Alula dov'era? Dove sarebbe piombato dopo la
ritirata di Saati? Le sue forze erano relativamente immense, i suoi
soldati feroci. Tutti sapevano che il maggiore generale Genè,
da molti mesi chiedeva invano rinforzi al Ministero impigliato entro
un ignobile dibattito parlamentare.
Alle 11 antimeridiane il capitano Tanturi riceveva due biglietti dal
colonnello De-Cristoforis, il primo, datato ore 8,30, diceva: che
giunto presso Dogali aveva cominciato il fuoco contro il nemico
immensamente superiore di numero, e che le mitragliatrici si erano
spezzate; il secondo, datato ore 9,30, dichiarava: che senza un
aiuto di uomini e di cannoni non poteva più muoversi.
Dalle nove alle undici la tragedia doveva essersi compita.
Il capitano prese una mitragliatrice, una compagnia, e partì.
A che scopo? Con quale idea? Se Ras Alula aveva attaccato la colonna
De-Cristoforis, a quell'ora doveva già averla distrutta. Una
compagnia e una mitragliatrice non potevano certo ristorare le sorti
della battaglia. Partì: Mohamed Nur, che doveva seguirlo coi
basci-buzuc, vi si ricusò naturalmente; otto soli fra essi
s'accompagnarono coll'interprete Raduc.
Era una marcia verso la morte.
Lasciamola raccontare a lui.
«..... Poco dopo le tombe di Dogali vidi una cassa di
mitraglia senza polvere e spolette, e quasi nel medesimo tempo i
basci-buzuc, che erano in esplorazione, segnalavano la presenza del
nemico. L'interprete, interrogati due indigeni, mi disse che tutti i
nostri erano stati massacrati, e che gli abissini erano ancora
numerosissimi ed in posizione.
«Ciò mi sembrò esagerato, come di fatto (essendo
l'interprete poco dopo fuggito pieno di paura), e proseguii la
marcia. Giunto là dove la valle si allarga di un poco, gli
esploratori tornarono di corsa avvisandomi che si avanzavano
cavalieri abissini. Presi immediatamente posizione facendo staccare
la mitragliera e formando la compagnia in quadrato. Nello stesso
tempo mandai tre soldati nella direzione ove era stato segnalato il
nemico. In questo mentre l'interprete e parte dei basci-buzuc
scomparvero. I soldati tornarono presto dicendomi che non avevano
visto altro che tre o quattro cavalieri abissini correre velocemente
verso Saati. Per essere più sicuro mandai il tenente Sartoro
con una piccola pattuglia sulla mia destra, e questi ritornò
riferendomi che non vi erano nemici, ma che aveva visto basti da
cammello, un cammello morto, casse di cartuccie vuote, scatolette di
carne, ecc. Nello stesso tempo feci arrestare un pastore Saortino
che si trovava ivi presso nascosto.
«Questi, interrogato, alla meglio mi fece capire che gli
abissini avevano attaccato i nostri, indicandomi anche la posizione
da questi occupata. Immediatamente feci riattaccare la mitragliera e
mi diressi a quella volta. Nessun segno lungo il cammino oltre
quelli citati di uno scontro: solo cinque o sei tombe scavate di
fresco indicatemi dal Saortino come quelle di abissini morti poche
ore innanzi. Sul primo monticello, prima posizione occupata dai
nostri, vidi un soldato ferito che mi disse trovarsi i nostri poco
più su e tutti morti. Non credei alla funesta notizia e corsi
con la compagnia sul sito indicatomi. Dietro la cresta del
monticello superiore vidi l'immensa catastrofe. Tutti giacevano in
ordine come fossero allineati!»
Capitano, questa frase resterà immortale come la battaglia.
Tutti giacevano in ordine, allineati, morti sulla grigia altura,
dalla quale avevano resistito tre ore senza volgersi indietro. Erano
vestiti di bianco, insanguinati. Il sole alto sull'angusta vallata
dardeggiava impassibile infiammando i loro cadaveri col calore e col
colore della vita, ma nessuna voce turbava il superbo silenzio della
loro morte. La storia Italiana doveva trovarli là, allineati
sulla soglia dell'Africa, nell'eroismo di un atteggiamento che il
nemico stesso non aveva osato scomporre fuggendo dopo la strage; e
così resteranno eternamente nella gloria della poesia! Il
primo capitolo della nuova storia mondiale d'Italia doveva essere un
canto epico.
L'Africa è vinta. La Persia invadendo la Grecia trovò
alle Termopili Leonida coi trecento Spartani, li schiacciò,
ma fu respinta: il coraggio è di tutti i popoli, ma l'eroismo
è solo di quelli che debbono vincere; l'eroismo di
De-Cristoforis assicura la vittoria all'Italia, Non si muore
così, quando non si è che un soldato e la bandiera,
intorno alla quale si è raccolti, può indietreggiare o
essere strappata senza lacerare la coscienza nazionale. L'eroismo
è una rivelazione improvvisa, che illumina le anime nell'ora
della morte e ne toglie ogni paura, ogni desiderio mondano.
Urrah, colonnello! Lo ha raccontato qualcuno dei feriti, che voi,
ultimo a cadere, credeste già morto. La battaglia, nella
quale Dio solo vi guardava, è già passata nella
storia: tutto è noto; la vostra estrema parola, il vostro
saluto prima di morire ai fratelli morti è stato raccolto da
tutto il mondo.
Fu un agguato imprevedibile, inevitabile. La vallata era angusta; vi
ritraeste sul colle. Gli abissini sorgevano da ogni banda, volanti
su cavalli sfrenati. Le loro urla sembravano venire dai deserti;
erano confusi come il turbine. Un abbarbaglio di fiamme bianche
vampeggiava sulle pelli dei loro scudi e sul ferro delle loro armi.
Non era possibile contarli; erano troppi per essere battuti, troppi
ancora per non sopraffarvi. Erano l'Africa selvaggia, nuda e nera
nel sole, che sitibonda di sangue uccide quando perde, uccide quando
trionfa, perchè la morte è il suo solo pensiero e la
sua unica sensazione. Il suo ruggito, circondandovi, era come quello
de' suoi leoni, quando sentendosi sicuri della preda drizzano la
bruna criniera coll'occhio metallico scintillante al raggio del
sole.
Bisognava morire! La battaglia era impossibile, altrimenti la
vittoria sarebbe stata sicura.
Alto sul colle, col vostro drappello allineato come i gladiatori
sotto il palco del Cesare romano e salutanti prima di trucidarsi,
voi guardaste oltre il nemico, attraverso l'Africa, al di là
delle sue montagne e de' suoi deserti, che i viaggiatori italiani
avevano bagnato di sangue, ma pei quali un giorno passeranno
fischiando le vaporiere.
L'Africa, prigioniera delle proprie coste, si difendeva invano
assalendovi.
I soldati sono pallidi, l'ombra della morte è passata sotto
quel sole che da molti mesi non conosce le nubi e ha scolorato i
loro volti.
Nessun testimonio, nessuna speranza. La morte sola, orribile come
l'aspetto di quella moltitudine turbitante, che si solleva da ogni
parte e armata di pochi fucili rapiti in altre carneficine avventa
già le prime palle. Sul drappello bianco il silenzio si
stende come una tenebra.
Morire! L'Italia lontana non sa nulla di questo momento, l'Africa
presente non lo comprende: solo la storia, che lo ha voluto,
dovrà raccoglierlo; ma essa pure, divina memoria della vita,
non potrà narrarne lo schianto del supremo ed improvviso
dolore, mentre nessuno sopravviverà per confessarlo. Quel
colle, arido e grigio, non è che un immenso altare, sul quale
il sole africano chi sa da quanti secoli aspettava immobile ì
vapori dell'imminente olocausto. Una reminiscenza indistinta dei
più grandi sacrifici della storia si alza da tutte le
coscienze, vacillando come le ombre di un crepuscolo oltre il quale
fiammeggia la luce insolita di un altro giorno; uno spasimo di
minime ed irresistibili contrazioni stringe i cuori che stanno per
perdere tutti gli affetti e le memorie della vita.
Urrah! colonnello, fuoco!
Il drappello alto, allineato tuona: non è una battaglia, ma
una tragedia. Gli eroi sono pallidi, bianchi come le statue e fermi
del pari; il fumo della moschetteria che li avvolge sventola sulle
loro teste come un'immensa bandiera, attraverso la quale il sole
accende capricciosamente le iridi di tutti i vessilli del mondo. I
loro movimenti sono ritmici, giacchè nella loro
impassibilità l'orgoglio è succeduto alla speranza.
Siccome non possono arrendersi, resistono con quel forte sentimento
della morte che scoppia in ogni uomo, quando sente che la sua vita
è già conchiusa e non difende più che la
propria personalità.
E il fiotto nero dell'Africa si addensa, discende da tutti i colli,
ondeggia e rugge. I cavalli vi nuotano furiosamente nitrendo, o vi
scorrazzano invasati dinanzi come sulla ripa di un torrente che
dilaghi. Un orribile tumulto vi copre il(18) gemito supremo dei
morenti e le strida dei feriti. Infatti, da tutti i suoi lembi si
veggono uomini fuggire con altri uomini morti o moribondi sulle
spalle, come naufraghi strappati ai suoi vortici, entro i quali
terribili figure di donne infuriano confusamente tra il
lampeggiamento delle armi e lo scintillio dei colori sventolanti su
tutto quel nero. Non vi si distingue nè ordine nè
forma: non è un esercito, non è un'orda, ma una
moltitudine in una caccia, che l'agguato ha preparato e la strage
deve compire. Hanno poche armi da fuoco e si avanzano carponi,
balzando come le tigri, strisciando come i serpenti dietro ogni
asperità del terreno, evitando il fuoco della moschetteria,
che cade sovra di essi come una grandine regolare ma sempre
più rada. Colla destrezza meravigliosa dei selvaggi, senza
guida di capitani hanno largamente circuito quel colle e attendono
che l'eroico manipolo abbia finito le cartuccie per slanciarsi
all'assalto. Sarà come un soffio del Simoun, uno schianto
d'uragano. La sicurezza della vittoria centuplica la ferocia della
loro attesa, guardando quel drappello ancora allineato, bianco sul
colle grigio, immobile sotto il sole e davanti alla morte.
Ma il fumo della moschetteria, giacchè le mitragliatrici si
sono infrante ai primi tiri, non è più che un velo
leggero sulla loro fronte rotto qua e là e macchiato di
sangue.
Il terribile momento passa entro tutte le anime come un freddo di un
altro mondo: sono inermi. I pochi che bruciano ancora le ultime
cartuccie, sembrano con esse gettare un appello disperato ai
compagni abbandonati come essi nei radi fortilizi di quel confine, o
inerti a Massaua spiando sul mare il sorriso di una vela o di una
bandiera italiana. Ma l'Italia è troppo lontana, oltre due
mari, nell'incanto della sua eterna bellezza che le fa dimenticare
persino i soldati morenti per lei sul primo lembo del deserto
africano.
- Italia, Italia! è la loro suprema invocazione fu il grido
supremo di sfida, col quale risposero all'immenso ruggito abissinio.
E disparvero.
Quel turbine nero li urtò aggravandosi sopra di loro come una
nuvola, entro la quale non si distinse più nulla, ma nella
quale l'ultimo gruppo che difendeva il colonnello, udì ancora
il suo ultimo comando di salutare quelli che erano già morti:
- Presentate le armi!
Le presentarono e caddero con esse intorno a lui, che aveva trovato
per tutti una di quelle parole, che traversano i secoli come una
meteora lasciandovi una traccia inestinguibile.
Quando quella nuvola si dileguò, tutti giacevano in ordine
come fossero allineati.
Era tempo.
L'Italia, troppo facilmente schiacciata nei moti del 21 e del 31,
battuta per tutte le sue città e le sue campagne nel 48,
scarsa vincitrice nel 59 a lato della Francia che la risollevava nel
cospetto della storia, sconfitta miserevolmente nel 66 sulla fatale
pianura di Custoza e nelle acque di Lissa; l'Italia, alla quale
Garibaldi non aveva potuto infondere li cuore, Mazzini il genio,
Cavour il senno; che entrata nel 70 a Roma di sorpresa mentre
l'Europa preoccupata dell'immane duello franco-germanico non le
badava e l'impero napoleonico, protettore del papato, ruinava nella
ignominia di Sedan, da sedici anni stava china davanti a tutte le
potenze, quasi vergognosa di aver compito la propria unità
stracciando un trattato che la coscienza di nazione avrebbe dovuto
vietarle di firmare; l'Italia trascinata a Vienna come damigella
dell'impero austriaco, accettata a Berlino come una riserva
dell'impero germanico, irrisa dal papato, mal rappresentata dal
Parlamento, peggio governata dai Ministeri, aveva d'uopo di un
eroismo nazionale che risollevandole la fronte le riassicurasse la
coscienza. Vissuta, prima di risorgere nazione, nella servitù
di ogni forte e nella gloria di un passato al quale nessun presente
o futuro di popolo potrà mai somigliare; cresciuta accattando
aiuti e dispregi e tremando della propria rivoluzione, perfino sotto
la corazza degli ultimi re di Savoia ai quali si sottometteva per
incorreggibile abitudine di servitù; discesa ipocritamente da
Torino a Firenze per salire trepidamente a Roma; sospinta dalla
legge storica dell'Europa all'impresa africana senza comprenderne
nè il carattere nè volerne la grandezza, aveva d'uopo
che un drappello de' suoi soldati trasformandosi in eroi le provasse
che nelle vene del suo popolo ferveva ancora il sangue latino e che
la rivoluzione, per la quale era rinata e dalla quale aveva
rifuggito, proseguiva nell'impresa d'Africa sospingendola col
proprio soffio.
Quei cinquecento soldati, che prigionieri di un'immensa moltitudine
non avevano nemmeno rivolto il capo per cercare istintivamente il
lido lontano di Massaua, erano l'Italia nuova. Parlamento,
Ministero, Monarchia, tutto disparve in loro, davanti a quest'Africa
selvaggia che voleva respingerli, e sorpresi si disponeva a
trucidarli. Indietreggiare era sottomettere la loro coscienza
all'istinto di quei selvaggi, che si battevano per non diventare
uomini.
Non bastava morire, poichè la morte era inevitabile, ma
bisognava morire colla impassibilità di un orgoglio nel quale
la morte non è più una sconfitta, con un valore che
provasse ai nemici quanti africani valesse un solo soldato d'Italia.
L'Africa antica incatenava le proprie legioni per impedire loro di
fuggire: l'Africa moderna, ancora uguale all'antica, vedrebbe un
manipolo più compatto che se stretto di catene resisterle tre
ore e cadere simultaneamente conservando nella morte l'allineamento
della battaglia, simbolo dell'ordine superiore della loro vita.
Questo eroismo non aveva uguale e non poteva averlo come inizio di
epoca nuova. Leonida difendendo le Termopili non ebbe che l'eroismo
della passione; i Maccabei non superarono Leonida, i Fabii non
sorpassarono i Maccabei. In tutti gli eroismi immortalati dalle
cronache o consacrati dai poemi la passione è l'anima quando
la disperazione non è tutta la forza; nei cinquecento di
Dogali l'immobilità della battaglia e della morte provano una
coscienza sollevata al di sopra della vita da una di quelle
rivelazioni improvvise, che la storia fa nell'anima di un popolo.
Si sentirono grandi, e lo furono.
Il loro colonnello, crivellato di ferite, ravvolto nell'immenso
turbine africano, riassunse morendo tutto il loro orgoglio per
gettar loro un saluto, che nè Rama nè Achille,
nè Sigfried nè Orlando avrebbero compreso.
- Presentate le armi!
e gl'ultimi feriti, forse poveri contadini degli Abruzzi o della
Sicilia, lo compresero e presentarono le armi ai loro morti,
offrendosi inermi agli ultimi colpi dei sacrificatori.
La poesia immortale ha protetto la vita di uno di quegli oscuri eroi
per salvare dall'oblio quella parola che nessuno de' suoi più
grandi poeti, da Valmiki a Firdusi, da Omero a Dante, da Shakespeare
a Hugo nelle più fervide ispirazioni del genio avevano saputo
trovare, e che l'eroico colonnello pronunciò davanti ai
proprii morti nell'oblio del mondo, per la civiltà del quale
moriva.
E nell'Italia, istupidita nelle viltà privilegiate della sua
borghesia costituzionale, vi fu chi non credendo a questa parola
l'analizzò per giudicarla inventata. Da chi? Dal povero
soldato che avrebbe mentito per la gloria del proprio colonnello
morto. Ebbene: dite a Carducci che ceda a quel ferito il proprio
posto di primo poeta d'Italia, perchè se quel soldato ha
mentito è molto maggior poeta di lui. Andate a Caprera e
ripetetela sulla tomba di Garibaldi: egli la crederà e
perdonerà forse all'Italia che, lui morto, ha ancora dei
De-Cristoforis, di aver negato per riguardi cortigiani e vaticani il
rogo al suo cadavere.
Ma la tragica solennità di Dogali non ha potuto sollevare la
nazione dal fango della sua vita politica. Mentre i superstiti, sui
quali la ferocia degli abissini si abbandonò alla più
selvaggia demenza di sangue, erano trasportati a Massaua,
tagliuzzati evirati, deformati, il Parlamento s'imbrogliava nella
procedura contro il Governo non osando cacciarlo. Depretis è
ancora presidente del Consiglio, il conte di Robilant dimissionario
è adulato perchè non se ne vada, Ricotti ministro
della guerra, politicante insidioso quanto inetto generale,
più d'ogni altro colpevole della catastrofe di Dogali, rimane
ancora alla testa dell'esercito, che avrebbe costretto al disonore
d'una sconfitta se l'eroismo della morte non l'avesse trasformata in
gloria immortale.
Il generale Genè da lui costretto ad allargare la linea
militare del confine, assottigliandone fino all'assurdo la difesa,
ha richiamato gli avamposti e si trincera in Massaua. Dopo aver
romanamente risposto a Ras Alula minacciante con barbara iattanza di
trucidare la spedizione Salimbeni catturata prima della battaglia,
se tutta l'Africa non fosse immediatamente sgombra d'italiani: che
considerava morti i prigionieri e s'affretterebbe a vendicarli;
dietro ordini del Ministero, adesso impaurito da un probabile
scoppio di ira popolare all'annunzio di altre vittime, ha dovuto
mancare alla propria parola e mercanteggiare col barbaro e
consegnargli un migliaio di fucili sequestrati ad un suo mercante e
cedergli cinque capi di tribù assaortine a lui nemici e
riparati nel nostro campo sotto la protezione dell'onore italiano.
E Ras Alula li ha fatti immediatamente massacrare, e dei nostri tre
prigionieri riscattati con tanto sacrificio d'infamia, non ne ha
liberato che due.
Ora i giornali annunziano che Depretis accoglie nel ministero
Francesco Crispi, l'audace rivoluzionario che preparò la
spedizione di Marsala, e senza dimettersi, giacchè morente di
troppo lunga malattia, gli consegna la direzione del potere. La sua
implacabile vanità di parlamentare non gli permette dunque di
morire semplice cittadino come Lamarmora che vinse alla Cernaia,
Garibaldi che trionfò dappertutto, Lanza che entrò
sulla breccia di Porta Pia. E così morrà. I funerali
splendidi di tutti gli onori dovuti al presidente dei ministri
saranno la sua ultima compiacenza di moribondo: tutte le
rappresentanze della Camera, del Senato e della Corte accerchieranno
la sua bara, ma la nazione severamente impassibile non avrà
un palpito per l'ultimo e il peggiore dei politici, cui in difficili
momenti dovette affidare le proprie sorti, mentre i reggimenti
allineati lungo la via al comando:
- Presentate le armi,
crederanno di udire la voce del colonnello De-Cristoforis morto
sulle alture di Dogali, e imitando il suo eroismo le presenteranno.<
XIII.
Sono passati quattordici mesi dalla caduta.
Mi sono alzato, ho zoppicato, sono stato due volte nell'estate ad
Abano. È un paese squallido: gli stabilimenti immensi e
deserti aspettavano invano i soliti forestieri, che la paura del
cholera scorrazzante per la provincia ha dispersi. Vi ho fatto
novanta fanghi in quarantacinque giorni, conquistando l'ammirazione
di tutti gl'inservienti, che non ricordavano d'alcun altro tale
follia.
E come tutte le follie è stata inutile.
Ora sono di nuovo a letto per un mese, ma il mio amico Loreta,
l'illustre clinico bolognese, mi ha giurato sul suo onore di
gentiluomo che fra non molto guarirò perfettamente.
E sia.
Intanto i vescicatorii applicati sul ginocchio mi costringono da
quindici giorni alla più dolorosa immobilità.
Nelle Assemblee del sabato Boguet narra di una contadina, che
recandosi ad una di quelle tragiche veglie, nelle quali tutto il
popolo raccolto intorno ad una congrega di streghe invocava da
Satana la consolazione della vita invano redenta da Cristo, si
fermò a lungo considerando una pietra solitaria. Era di
notte; la luna alta nel cielo inondava di melanconico splendore la
campagna. I boschi tacevano. Per la distesa dei prati un silenzio
d'ineffabile stanchezza si dilatava fino alle più remote
lontananze, che sembravano naufragare in una tenebria trasparente.
Era il secolo XV. La lunga tragedia medioevale aveva esaurito
perfino il dolore nella coscienza popolare. Tutto aveva pesato sul
popolo, le invasioni, le crociate, le feudalità, l'impero, la
chiesa: ogni miseria aveva avuto il proprio sopravvento ed era stata
soprafatta da un'altra: tutte le speranze erano morte nelle anime
cristiane. I campi abbandonati non producevano più le messi
necessarie alla esistenza umana: le case non riparavano più
gli abitanti, sui quali il signore poteva sempre stendere la mano
per strappare loro il primo fiore o l'ultimo frutto della vita.
L'antica passione pagana, che alla decadenza di Atene e di Roma
aveva spinto il popolo alle feste dionisiache, restava sola negli
spiriti cristiani: Satana, l'eterno nemico sconfitto da Cristo sul
Golgota, si drizzava dal fondo di tutti i cuori con un sorriso di
dolorosa simpatia. No, non era vero che egli fosse il malvagio. Il
paradiso terrestre non aveva mai esistito, perchè Dio non
aveva mai amato l'uomo condannato da tutta l'eternità a
lavorare per vivere, a far soffrire la propria madre per nascere.
Dio che puniva i bambini delle colpe dei padri era stato in ogni
tempo coi potenti, coi crudeli che spremevano dai dolori del popolo
i piaceri della ricchezza e del comando; e s'era fatto fabbricare
chiese dorate, mentre il popolo non aveva nemmeno capanne, voleva le
gemme per gli altari, la seta per gli addobbi, le decime per i
preti, la servitù verso i signori. Dio era il nemico, che
nessun dolore aveva mai impietosito, nessuna preghiera commosso,
nemmeno quella di suo figlio morente sulla croce per espiare la
condanna dei popoli che dovevano ancora nascere.
E Satana, il grande ribelle precipitato dal cielo perchè non
aveva voluto adorarvi il tiranno, diventava l'amico del popolo, il
suo eroe più antico, non fiaccato nemmeno dalla onnipotenza
di Dio. Egli solo poteva ancora offrire qualche consolazione agli
infelici, liberandoli da tutti gli scrupoli del peccato che
toglievano loro perfino l'uso delle proprie carni; egli solo, che
non s'era curvato al Signore del cielo, poteva rialzare la fronte
del popolo troppo piegata davanti ai padroni della terra.
La passione di Cristo non era nulla in faccia a quella di Satana
condannato al fuoco eterno: la passione di Cristo non aveva
consolato nessun dolore, tolta nessuna miseria.
Il mondo era sempre così, i poveri sempre poveri.
E allora tutti i cuori si volgevano al più antico infelice,
che non aveva mai ricevuto conforto, che aveva sorriso sdegnosamente
della redenzione di Cristo e lo invocavano, lui il dannato che li
aspettava nell'inferno, chiedendogli un atomo di felicità, un
atomo di gioia.
Anche la terra era ammalata di dolore: d'inverno soffriva il freddo
come i poveri, aveva tutte le loro malattie e tutta la loro fame.
Adesso non produceva più. La grandine e il fulmine non
cadevano sopra di essa che dal cielo.
Dio lontano, in alto, superbo ed insensibile, non domandava che
incensi, non esigeva che ringraziamenti.
La demenza tragica delle antiche orgie dionisiache scoppiava in
tutti gli spiriti travolgendovi misteri e riti cristiani; si
chiamava Satana, si volevano i suoi miracoli, la sua incarnazione di
un momento nella strega, l'emancipazione di tutta la vita e di tutta
la natura dalle leggi di Dio. Era la rivolta della debolezza
costretta a sfogarsi nella empietà.
Le feste si facevano di notte perchè il sole era di Dio. La
luna abbandonata e fredda poteva sola comprendere l'abbandono della
terra. Era come il delirio doloroso di tutti quei lavoratori che per
generazioni di generazioni si erano estenuati a fecondarla e
vedendola estenuata com'essi volevano consolarla. Sentivano i suoi
lamenti nei boschi, il suo silenzio disperato nei prati, il suo
pianto lento nelle rugiade.
La terra piangeva, la terra soffriva. Il suo destino era come quello
del lavoratore: i signori le calpestavano nelle guerre e nelle sue
caccie le poche messi, le abbattevano le quercie per i loro
castelli, le uccidevano i più miti animali per allevare i
più infesti.
La terra pativa immobile, chissà da quanti secoli.
E quella contadina sorpresa da una angoscia di pietà guardava
la pietra solitaria, che il sole e il ghiaccio avevano tanto
bruciata: quante grandini, quante pioggie l'avevano sferzata! La
pietra non poteva muoversi. La sua faccia pallida in quel lume di
luna era tutta corrosa, bucherata come quella dei poveri vaiuolosi,
con una lebbra arida che solo il vento di quando in quando spazzava.
Quella pietra era lì abbandonata senza speranza, senza
consolazione.
Ella si chinò.
- Che cosa fai?
- La volto.
L'altra contadina, che era con lei, ebbe un tristo sorriso.
- Povera pietra! come dev'essere stanca di stare sempre sul medesimo
lato.
Come sono stanco io pure di stare sempre immobile!
*
* *
Stamane è venuto il mio editore per chiedermi un libro nuovo;
gli ho mostrato il manoscritto sul tavolo da notte.
- Già finito?
- Libri come questi lo sono sempre.
Lo ha preso e se n'è andato sorridendo:
- Appena il libro sarà stampato ella sarà guarito.
- Accetto l'augurio e possa fare il libro migliore strada della mia.
Fine.<
INDICE
Don Giovanni Verità
La via Emilia
Niccolò Macchiavelli
Tragedia
Dogali
Ex Imo
----
1() Nell'originale "infermo". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
2() Nell'originale "sarcerdote". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
3() Nell'originale "Gerusalmente". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
4() Nell'originale "vacana". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
5() Nell'originale "Senonche". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
6() Nell'originale "nell'ingnobile". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
7() Nell'originale "magnaminità". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
8() Nell'originale "rimproverarlielo". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
9() Nell'originale "imcomprensibile". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
10() Nell'originale "risvegliarano" [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
11() Nell'originale "sensentimenti". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
12() Nell'originale: "Quiudi". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
13() Nell'originale "costitutuzione". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
14() Nell'originale "ofrire". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
15() Nell'originale "muiono". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
16() Nell'originale "Nido". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
17() Nell'originale: "Gairbaldi". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
18() Nell'originale "li". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]