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ALFREDO ORIANI
(OTTONE DI BANZOLE)
QUARTETTO
BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
1919
DIAPASON
Caro Bariè,
Casola Valsenio 17 dicembre 1881.
Ho finito or ora il libro, e riprendo la penna per dedicartelo.
Quando, fra qualche mese o qualche anno sarà stampato, chissà quali
avventure, sorprendendo le nostre vite e divertendone la direzione
apparente, potrebbero impedirmi di farlo. Forse la malinconia che
c'invade, allorchè l'opera ancora tiepida della nostra mano,
separandosi improvvisamente da noi, ci abbandona come un emigrante
mal in arnese, il quale salpi verso ignote miserie, è uno dei
sentimenti più amari ed inesprimibili. La generazione ideale, poichè
più alta nella vita della generazione animale, è quasi sempre più
lunga, sempre più dolorosa; quindi se il bambino prosegue quasi
nella esistenza del padre, e sviluppandone i disegni, che la
trascendono, vi si incorpora, il libro appena nato si contrappone
all'autore con una personalità già perfetta ed indipendente. E,
mentre quello sembra colla prova della nostra virilità darci l'altra
di una nuova ricchezza, questo ci lascia nella lassitudine
dell'esaurimento un senso più vivo della nostra debolezza. Che egli
muoia prima di noi o ci sopravviva, e la sua fortuna sia come quella
di un avventuriero, il quale diventa imperatore o portinaio; che
egli passi fra la gente come un'apparizione di bellezza e di gloria,
ovvero come un accattone, il quale mendica un'occhiata e riceve un
sogghigno; che le sue mille edizioni, o le sue mille copie lo
diffondano attraverso tutti i climi, al disopra dei monti e al di là
dei mari, ovvero avvizziscano nell'ombra muffosa di un magazzino di
libreria per finire sui banchi del commercio, come certi miserabili
finiscono sul banco delle assise, non ci appartiene più e non ci
conosce. Sarà forse ricevuto colla più nobile accoglienza dove nulla
al mondo potrebbe decidere quelle stesse persone a riceverci;
discenderà fin dove, per quanto intrepidi nella curiosità ed ottusi
nel senso, non consentiremmo giammai a discendere: libero come un
trovatello non sentirà nè riconoscenza, nè ingratitudine: avrà una
patria ed una lingua, una civiltà ed un popolo, ma come molti
trovatelli, i quali ripetono la sciagura donde nacquero, se avrà
figli, saranno bastardi.
Il sentimento melanconico di cotesto abbandono ha probabilmente
generato fino dalla antichità la prefazione, questa parola di
rimpianto e di amore, che quasi tutti gli deponiamo sulla fronte,
come l'ultimo bacio per una partenza senza ritorno. E mentre egli si
smarrisce nella lontananza infinita dei casi, noi torniamo a
rincantucciarci nel nostro angolo, e se pensiamo ancora a lui in
qualche ora di tristezza, o ci voltiamo talvolta di soprassalto
udendo pronunciare il suo nome; quando passarono molti anni
incontrandoci su qualche tavolo straniero, o la sua idea parandocisi
innanzi al pensiero come la prima volta che l'amammo e fu nostra,
stentiamo forse a riconoscerla, come molte delle donne, che ci
parvero belle un giorno e che credemmo di amare.
Già Pascal lo ha scritto da due secoli, che volendo giudicare
l'opera propria, appena fatta è troppo presto, dopo è troppo tardi:
prima vi siamo ancora dentro, dopo non possiamo più rientrarvi;
laonde val meglio seguire l'andazzo dei padri, che fatti i figli,
lasciano a loro medesimi la cura di vivere, e forse danno così alla
società i suoi più robusti individui. Perchè dunque vi è ancora chi
scrive libri? Sono il bisogno di un'espansione individuale, o
l'espressione di un bisogno collettivo? Se belli, forse l'uno e
l'altro; se brutti, forse egualmente ancora; ma infermi nati di una
malattia saranno le più miserabili creature fra i viventi, non
avranno nemmeno la pietà, che consacra i deboli, la guerra, che
inorgoglisce i tristi.
E mentre nella solitudine del mio castellaccio, in mezzo a campi
coltivati da migliaia di anni, circondato dalle forme embrionali di
una civiltà, alla quale molte altre contribuirono, fra gente di
contado e di villa, e i giornali che recano la sera le notizie del
mondo, e i mercanti che il venerdì vi conducono la retroguardia dei
suoi infiniti interessi, mi isolo qualche mese e scrivo un libro;
tu, spirito fine e gentile, nato per vivere fra pareti rivestite di
arazzi e respirare l'aria profumata delle serre, sei lontano, nella
antica Chersoneso. Il vento, che ti arriva dalle lande superiori, è
carico di indefinibili sentori: le montagne, che laggiù
asserragliano l'orizzonte, sono forse del Caucaso, e hanno dato il
nome alla nostra razza; la terra, che mediti riabbellire
coltivandola, fu già coltivata dai greci, che vi mandarono le prime
colonie, per cingere tutti i seni del Mediterraneo colla
passamanteria delicata della loro civiltà. Intorno a te la pianura
ha l'ondulazione sconfinata di un mare: gli alberi, la vegetazione
tozza o sregolata di una natura, che l'uomo non ha ancora epurato o
contenuto; il primo grano, che ti sei seminato fra i piedi, agiterà
le spiche all'altezza della tua testa fra sei mesi; i puledri, che
già accorrono al suono della tua voce di padrone, discendono da quei
cavalli arabi, che portarono trionfalmente per tutta l'Asia e fin
dentro i confini dell'Europa la religione voluttuosa ed austera del
grande Maometto. Il paesaggio, che circoscrive il tuo pensiero e
contorna i tuoi sogni, è quello stesso di tremila anni fa, quando i
Greci vi discesero esuli di una vita, che il pensiero rendeva già
troppo grave, per rituffarsi nella natura, e rifiorirvi nella sua
eterna giovinezza.
Al pari di te avevano una fantasia popolata di statue, l'intelletto
carico come una trireme, il cuore educato da grandi sentimenti e
spossato da grandi passioni. Dotati di un genio indefettibile
ripeterono la Grecia su quei lidi, coprirono il mare di barche, le
sponde di templi, la terra di olivi e di viti; l'arte innamorata di
loro non volle abbandonarli, e decorò tutte le loro opere: la
filosofia, che avevano fuggita come un etèra di malvagie influenze,
ma di seduzioni irresistibili, venne a cercarli nell'esilio, e si
assise nobilmente superba, severamente ciarliera in mezzo ai loro
circoli. Poi i Romani, che avevano sconfitto gli ultimi Etoli,
passarono per quei remoti sobborghi di Atene, come un'orda brutale
che distruggendo disciplinava, e il sorriso, che l'uomo aveva dato
alla natura sulle spiaggie dell'Eusino, disparve. Più tardi un poeta
innamorato ed infelice vi ramingò condannato dall'ira di un
imperatore e dalla civetteria di una principessa; più tardi ancora,
i Romani diventati Greci un'ora prima di morire, abbandonarono la
loro terribile città conquistatrice per venire sull'Ellesponto, che
i primi Greci avevano sentito così bello, e spirarvi mollemente in
una musica di profumi e di colori, di parole e di baci. Quindi
dall'Asia, che Milziade aveva respinto, ed Alessandro invaso per il
primo, ruppe un'onda incontenibile di cavalli e di bandiere; la luna
parve discesa dal cielo e procedere tremenda alla loro testa: il
grido delle battaglie echeggiò oltre Roma fino a Tule, oltre
Babilonia fino a Pechino; il fumo degli incendi si disciolse in
pioggia fino sulle steppe della Mongolia e sulle dune della
Brittania. Poi un immenso baleno, bianco come quello di una
scimitarra, albeggiò sulla cupola di Santa Sofia, quando la
mezzaluna vi si rizzò nella sua fredda gloria di pianeta, e la croce
disparve dalle costellazioni di quel cielo così azzurro.
Chersoneso era una baia, la Grecia una penisola; la prima era stata
dimenticata, la seconda era appena un ricordo.
Ma oltre quelle sponde, che i Greci avevano benedette della loro
presenza, e alle quali il mare diceva le novelle di tutte le altre
terre, si stendevano solitudini più grandi di tutti quegli
avvenimenti, più terribili allo sguardo che non tutte quelle
tragedie al pensiero. La fama raccontava di montagne, che la neve vi
aveva alzate e che il ghiaccio vi aveva rese eterne; qualche volta
in un rombo lontano lontano sembrava di ascoltare fracasso di fiumi,
lunghi come una vita e vasti come un pelago; talora un cavaliere, in
costume irreconoscibile, si affacciava al confine della landa come
un'apparizione misteriosa, gettava uno sguardo su quel mondo già
vecchio due volte, e spariva in un turbine di vento con un galoppo
fantastico. Quel cavaliere, cui l'immaginazione trepidante dava il
nome di Sarmata, era l'avvenire, e adesso è il presente. Il Sarmata
si chiama Russo; ha sconfitto l'altro ieri l'ultimo Cesare romano,
che gli aveva mosso contro da Parigi, e si è fermato ieri per la
seconda volta sotto le mure di Bisanzio: egli è l'ultimo vincitore
nella storia dell'Europa, l'ultimo impero nella geografia
dell'Occidente.
Sgraziato come tutti i colossi e senza verginità di adolescenza come
tutti i mostri, egli è passato dalla infanzia alla virilità, dalla
crudeltà della selvatichezza alla ferocia della civiltà. Privo di
tradizione e quindi di ideale, la sua unità è un'agglomerazione, la
sua vita un istinto, la sua forma un embrione, la sua potenza una
massa, la sua difesa la natura, la sua ricchezza gli viene dalla
atonia di ogni sentimento e dalla brutalità di ogni bisogno. A volta
a volta nomade e contadino come l'arabo, il cielo gli negò
coll'azzurro la bontà del cuore, il sole non gli accese coi raggi la
generosità nel pensiero: quindi il freddo, che restringe tutti i
pori, gli racchiuse per sempre l'egoismo nell'anima, e la neve, che
confonde tutte le fisonomie, gli intorbidò le forme dell'intelletto.
L'uniformità della natura pesò sulla sua società: i gruppi umani
apparvero disseminati nel suo impero come i gruppi degli alberi per
le sue steppe, poi come gli uccelli unirono gli alberi col loro volo
di landa in landa, i cavalli congiunsero gli uomini colle loro corse
di provincia in provincia; e lontano, al di là degli occhi, al
disopra del pensiero, come una montagna dalla vetta invisibile, il
trono e l'altare furono una visione bianca e fredda, terrifica ed
incompresa. Dalla sua cima la legge ruinò e si distese come un
vento, che inclina tutte le piante e rugge agli angoli di tutti i
tetti; sulla sua cima lo czar, fantasma sublime ed ignoto, aperse la
mano a benedire come un pontefice e la strinse per brandire la spada
come un imperatore: e d'allora la croce di Ivano il Grande sfolgorò
contro la luna falcata di Maometto secondo, e la lotta fra la
costellazione e il pianeta ricominciò più violenta ed implacabile.
Prevalse la croce, giacchè se una bufera d'inverno può prostrare le
forze della primavera, questa non potrà mai prevalere contro la
rigidità dell'inverno. Il Nord è invincibile nella sua corazza di
ghiaccio, ma sarà sempre torbido nella sua aureola di neve. Impero
vasto forse più che il romano, esso è un oceano di terra, nel quale
qualche grossa città pare un'isola e qualche bella provincia un
arcipelago: come il romano, racchiude molti popoli, ma in questo
diverso, non ha nè detrito di civiltà, avanzi di religione o macerie
di storie, colle quali covare una nuova èra mondiale. Cresciuto ai
confini della vera Europa potè, esercitando una specie di
contrabbando sulla frontiera, impadronirsi di qualche idea, ma la
sua è una cultura artificiale, e prima che il sole la schiuda
naturalmente sulla sua immensa superficie, dovranno passare altri
secoli, nè forse il sole vi sarà mai caldo abbastanza. Se Pascal ha
avuto torto affermando che la giurisprudenza varia coi gradi del
meridiano, Bukle ha avuto ragione constatando che la civiltà è
soggetta alle leggi del calorico, e non può salire al disopra di un
certo grado di latitudine. Nullameno un fermento, ancora mal
giudicato, fa oggi gonfiare la crosta di questo impero, che la
geografia misurando ha trovato quasi pari al chinese, sebbene la
statistica sommando lo trovasse di tanto inferiore; si direbbe che i
suoi frequenti terremoti siano una palpitazione di vulcani i quali
rompendo fra poco il loro fragile coperchio, lanceranno fino al
cielo una spuma di lava e di fiamma. Lo squilibrio, che la
differenza di popolo nella differenza di clima deve arrecare alla
regolarità delle sue funzioni, e l'antagonismo tra la forma feudale
della sua gerarchia e la forma democratica della sua cultura; la sua
stessa estensione, per la quale la volontà della legge si rilassa
inevitabilmente come una corda troppo lunga, e l'altezza
inaccessibile del trono, che diventa così il centro misterioso di
tutta la sua vita, ma il mistero responsabile di tutte le
contraddizioni: forse la miseria della minoranza più spirituale
colata sopra la povertà della maggioranza quasi bruta, come una
putrefazione di germi precoci sopra un marciume di germi serotini; e
forse una sofferenza, alla quale occorreva la uniformità di un tale
impero per diventare più forte di lui, essendovi egualmente
uniforme, hanno prodotto questo fermento sotterraneo per tutta la
Russia, i terremoti che subissano la reggia non potendo rovesciare
il trono, i vulcani che avventano bombe invece di lapilli, e questa
rivolta, nella quale i ribelli hanno la terribile ubiquità dei
fantasmi, e il motto della quale è il più incomprensibile nella
storia, e il più assurdo nella vita - NIKIL - . Forse Napoleone
portando inconsciamente la rivoluzione francese in tutta la Europa
per stabilirvi il proprio impero, ve ne lasciò la semenza in quella
orribile ritirata, l'ultima epopea dell'Occidente, che ha trovato un
pittore ed aspetta ancora un poeta: forse l'impero russo vi perirà,
e dai suoi frammenti, come da quello dell'impero romano, nasceranno
tante nazioni. Ma a rovescio dell'altro, che aveva i nemici alla
periferia, esso li ha al centro; quelli erano barbari e questi sono
civili; i primi portavano un sangue giovane ad un cervello esausto,
ad un cuore caduco; i secondi infonderanno idee mature ad un
cervello adolescente, ad un cuore quasi animale.
E mentre nell'aria vibrano i fremiti della tempesta e la terra ti
sussulta sotto i piedi, tu alzi appena il capo, e guardando al nord,
ti stringi nelle spalle. Scettico, ma forte come un greco, tu sai
che la vita è ancora più piccola che breve, che le tue pianure sono
fertili, i tuoi cavalli veloci, i tuoi servi laboriosi. Sia che la
croce e la mezzaluna si urtino un'altra volta sui tuoi campi, o una
rivoluzione te ne cacci; che la tua provincia diventi un regno e il
tuo villaggio una capitale, e lo schiavo di oggi si faccia padrone
di domani, tu, greco, ammetti con Aristotile che vi saranno sempre
degli schiavi, sai che la vita è breve, e la necessità del mietere
non deriva dall'aver seminato, ma dal dover macinare. Uscito dalla
società per rientrare nella natura colla stessa facilità, onde
leggendo si passa da Swinburne ad Esiodo, tu vi hai recato la calma
della ragione nella pace dell'istinto, la semplicità di un raffinato
nella innocenza di un ignaro: e quando tutta l'Europa guarda verso
l'America, tu, nipote di Colombo, hai guardato verso la Russia. Ora
la tua vita chiusa entro la rivoluzione dell'anno agricolo non ha
altra varietà che le stagioni, altro scopo che una messe, altro
avvenire che questo scopo medesimo. La terra coltivata esprimerà il
tuo pensiero, il benessere dei tuoi contadini attesterà il tuo
piccolo regno. Così ispirandoti ad un verso di Virgilio, il tuo
poeta antico prediletto, attui l'ultima scena del Faust, il tuo
poema moderno preferito, ed immergendoti nella vegetazione di una
terra vergine, purifichi il tuo spirito da tutte le malattie
ereditarie delle nostre vecchie civiltà.
Ed ora che la natura ti ha reso straniero al mondo, esule, nobile e
felice, non ti dolga se il migliore dei tuoi amici venga a parlarti
di battaglie ideali, ostinandosi nella guerra, alla quale ti sei
sempre rifiutato. Forse a qualche ora della notte o del meriggio,
quando il tuo spirito riposa, un'immagine del mondo abbandonato ti
sovviene ancora e svanisce; o nelle tue lunghe escursioni qualche
fiore innominato o qualche canzone selvaggia ti hanno già ricordato
i nostri fiori dal nome sapiente, le nostre romanze dal ritmo
squisito. Che se migliaia di miglia ci allontanano e due mondi
diversi ci separano, la nostra amicizia non ne sarà per questo meno
intima, o il nostro commercio meno stretto. Gettati dalla natura nel
medesimo stampo, e condannati dal destino alla medesima vita,
sebbene tu abbia potuto eludere la condanna, ci saremo pur sempre
presenti; e mentre tu mi troverai spesso a vagabondare pe' tuoi
campi, io t'incontrerò sovente fra i miei libri, nella luce di un
pensiero o nel sorriso di una frase, nell'ombra di un quadro o nelle
pieghe di una statua.
Quando prima di partire per il tuo nuovo mondo mi scrivevi
dissuadendomi da questa inutile e crucciosa guerra letteraria, le
condizioni della nostra presente letteratura entravano forse per
gran parte nel tuo saggio e malinconico consiglio. Se è sempre
triste il nascere, vi sono epoche, nelle quali è tristissimo nascere
uomo di pensiero o di azione.
Nei periodi di un fatto o d'un'idea ve ne sono alcuni che ci
sollevano, altri che ci lasciano affondare, finchè un nuovo gettito
sotterraneo non gonfi l'onda e l'innalzi fino al raggio del sole. La
prima metà del nostro secolo fu per l'Italia una delle più belle
fioriture d'ingegni, una delle messi più ricche di caratteri. La
necessità sempre più crescente della rivoluzione metteva negli
eletti della vita una vera forza di rappresentanza, che le finzioni
parlamentari hanno poscia cercato inutilmente d'imitare, e che non
raggiungeranno giammai. Ognuno di essi sentiva di riassumere qualche
bisogno, o di esprimere un'idea nazionale; quindi molti furono i
grandi, moltissimi gli illustri. Come se l'Italia volesse
conquistarsi l'ammirazione dell'Europa per strapparle in un applauso
il permesso di risuscitare, profuse i pensatori e gli artisti, i
martiri e gli eroi; laonde dopo la rivolta del '31, esplose la
insurrezione del '48, scoppiò la rivoluzione del '59. L'epopea fu
così meravigliosa, che parve un miracolo, e resterà una favola; ma
nessuno ha ancora osato fare il computo di tutti i sacrifici, che vi
contribuirono, di tutti gli ingegni, che vi cooperarono. Vi furono
libri che valsero battaglie, battaglie che nessun libro saprà mai
narrare: si udirono motti che erano poemi, si fecero poemi, dei
quali nemmeno un motto fu scritto. Accanto ai colossi del pensiero
si drizzarono i giganti dell'azione, le corone dell'alloro furono
posposte alle ghirlande del martirio, il sangue fu scialacquato come
il danaro, le parole ebbero efficacia di fatti, i fatti prontezza di
parole. E il sogno colorato dalla luce di tante fantasie si
solidificò, come per incanto, sotto lo sforzo di tutte le volontà,
mentre l'Europa guardava attonita dalle Alpi, e Roma si levava
trasognata sul Tevere. Ma appena compiuto il prodigio, tutti si
mirarono in faccia e nessuno più si riconobbe; quasi tutti i
caratteri si ritirarono, quasi tutti gl'ingegni rimasero; gli eroi
diventarono militari, i martiri si cangiarono in impiegati. L'epopea
finiva fatalmente alla commedia, dacchè l'idea si era tradotta nel
fatto, e il sentimento si riabbassava verso il senso. Era una legge
della vita e della storia. Ma allora quelli, che avevano fatto
l'Italia, cominciarono a sentirsi vecchi e ad essere riconosciuti
per tali dai sorvenienti, leggeri e rapaci come tutti i saccomanni
dopo la battaglia: l'arte e la filosofia, la politica e la milizia
trionfanti non piacquero più, e si chiese del nuovo. L'ingegno, che
si era manifestato così splendidamente nei padri, i figli se lo
supposero volentieri, e guardando ai rivali d'oltr'alpe, si
accinsero a sorpassarli nelle opere, come li avevano raggiunti nella
vita. Ma la nazione aveva esaurito creandosi forse l'ingegno di due
età, e i novatori d'Italia diventarono i plagiarii dello straniero.
La generazione del '49 mancò nella storia del nostro pensiero.
Fortunatamente l'ombra del monumento eretto sul suo confine lo
nascose, e i posteri non s'accorgeranno forse della lacuna. Ma
poichè l'impotenza rende malvagi e il sacrifizio ingrati, i nuovi
scrittori risero dei vecchi, Guerrazzi fu troppo asmatico, Manzoni
troppo cristiano, Niccolini troppo rettorico, Leopardi troppo
classico. Il dualismo fra la scuola toscana e la scuola lombarda
divenne scisma, e le eresie avvamparono nelle sue polemiche. Intanto
nessun nuovo campione discendeva bene in armi nell'agone a
percuotere sugli scudi dei vecchi tenitori di campo. Qualche paggio
faceva bensì prova di destrezza giocarellando con una mazza, o un
catafratto, chiuso nell'armatura pesante della erudizione, si
pavoneggiava tutto solo; o un cavaliero, montato sopra un magro
cavallo, tentava un giro al galoppo e, cascando ai primi passi col
cavallo sul petto, giaceva. Finchè i tenitori di campo rimasero,
malgrado le vanterie dei torneadori e le grida della folla, non vi
fu nemmeno un duello, ma uno ad uno quegli scudi terribili furono
levati. Sul primo c'era scritto Arnaldo da Brescia, sul secondo
Assedio di Firenze, sul terzo Promessi Sposi. Uno solo, toscano alla
parola, vestito classicamente, con un elmo tedesco sulla testa,
aveva osato farsi largo fra la ressa e percuotere sprezzantemente
col proprio scudo, nel quale era scolpito un Satana, sullo scudo di
Manzoni. Se non che uno scudiero, dal volto smorto e gli occhi
rossi, veniva in quello stesso momento a levare lo scudo glorioso:
il vecchio guerriero era morto senza sapere della sfida. L'audace
aveva troppo tardato.
Quindi egli rimase solo, e fu primo.
Ma questo illustre, per il quale ogni aggettivo comincia oggi a
parer piccolo, e che seguaci fanatici invocano col nome ridicolo di
pontefice, si era faticosamente educato alla stessa scuola degli
antichi, fra le ombre incappucciate del primo rinascimento. I suoi
giovani canti erano sembrati echi di perdute ballate; poi la
rivoluzione, strappandolo a quei sogni toscani, gli aveva insegnato,
coll'eroico linguaggio dei fatti, nuovi ritmi e nuove parole.
Nullameno ignorato od incompreso per molti anni, invece di
capitanare il nuovo movimento, parve ne continuasse un altro; mentre
i giovani volontarii della letteratura, che avevano forse lasciato
allora le bandiere del Garibaldi, ne cercavano un altro egualmente
splendido, ma altrettanto facile. Invece il nuovo duce, che varcate
le Alpi scrutava in quel momento per la Germania, preludendo alle
teoriche ed ai trionfi di Moltke, affermava la necessità di una
profonda dottrina per ogni ordine di milizie, e di una grande
tradizione per una grande arte. Naturalmente i giovani volontari non
intesero, o sdegnarono, e l'austero superbo rimase senza esercito.
Intanto due capitani di ventura levavano il campo a rumore: uno era
vestito da bardo, l'altro da menestrello. Il primo coi panni
sciattati, un mantello reale, ricamato di perle e schizzato di fango
neglicentemente gettato sulle spalle, coi capelli che gli
svolazzavano da un elmo fantastico, si abbandonava alla stupenda
dolcezza del proprio canto, e cantava di tutto. Aveva la voce
maschia e molle, le note piene, le cadenze quasi sempre leziose: ma
le canzoni salivano dalle sue labbra con un volo inesauribile di
insetti in un raggio di sole, e la sua fronte, sulla quale le
visioni passavano come le nuvole in cielo, aveva una ineffabile
espressione di malinconia. Bardo e capitano fu troppo l'uno per
poter essere l'altro, nobile e bello non cercò d'ingrossare il
proprio seguito, e procedette combattendo e cantando come un eroe di
Ossian. La gente lo chiamava Prati, i giovani imparavano le sue
canzoni, i critici insultavano il poeta e la sua poesia. L'altro
menestrello era una figura femminea. Portava le scarpette scollate,
le calze di seta, il giustacuore a sbuffi con un cuore, trafitto da
una freccia d'oro, ricamato sul petto, e un berrettino con due penne
di airone, che gli ricadevano sui ricci profumati della
capigliatura. I suoi occhi avevano il languore spasimante di un
paggio, le sue dita erano cerchiate di anelli come quelle della sua
dama; e toccando il mandolino con una grazia piena di civetteria si
avanzava occhieggiando ai balconi. Un giorno, da una finestra
inghirlandata di vasi, una mano bianca gli aveva gettato un mazzo di
viole, ed egli le portò sempre sul petto. Quelle viole diventarono
la sua poesia, il loro profumo fu tutto il suo pensiero, ed il suo
sentimento. La gente lo chiamava Aleardi, le donne cantavano le sue
romanze, i critici basivano di ammirazione in faccia alla sua poesia
ed al poeta.
Ma dietro loro, nel corteo variopinto, più di una figura e di una
testa avrebbero dovuto attirare l'attenzione. Due vecchi, Mamiani e
Tommaseo, dalla fronte alta e serena, procedevano a braccetto dietro
la medesima idea e la medesima musa: il primo aveva pur trovato
qualche canto, oggi perduto, e che sarà forse rintracciato fra un
secolo; il secondo aveva dato il volo a qualche inno, che pochi
avevano letto, ma che molti avevano ammirato, come un anello, che
tentava di congiungere filosofia e religione, la tradizione
dell'arte antica col sentimento dell'arte moderna. Però l'Uberti,
malgrado i grandi sforzi, non potè uscire dal manipolo tumultuoso
dei Tirtei da bivacco, i quali seguitavano le loro storpie canzoni
senza l'accompagnamento delle fanfare ed il rullo dei tamburi: e
quindi un levita ed un alfiere, irrompendo dalle file, parvero
raggiungere per un momento i due acclamati capitani. Il primo era
Zanella, il secondo Praga: questi morendo nominò eredi lo Stecchetti
ed il Boito, all'uno lasciando la sensualità famigliare, all'altro
la stramberia immaginosa. Zanella invecchiando sentì morirsi intorno
quasi tutte le proprie poesie. Eppure pensatore modesto aveva avuto
qualche nuovo ed elevato pensiero, cesellatore paziente aveva dato a
qualche strofa la solida eleganza di un bronzo, la finitezza
squisita di una orificeria. L'altro fu più una poesia che un poeta.
Il tremito convulso della mano gli guastò quasi sempre il disegno, o
gli intorbidò il colore, mentre il suo pensiero, che avrebbe avuto
la grazia della leggerezza, prendeva volentieri la goffaggine della
gravità; e la pretensione dell'orgoglio falsificava l'ingenua
violenza o la mollezza nervosa del suo sentimento. Nullameno egli fu
nuovo, e più semplice sarebbe stato originale.
Intanto Rovani, discendendo la parabola luminosa dei suoi Cento
Anni, arrivava fatalmente alla Giovinezza di Cesare, abbandonato da
Tarchetti e da Nievo, che gli si erano serrati attorno per un
momento. Ambedue erano morti presto, ambedue prima di spegnersi
ebbero o parvero avere un'ora di astro. Forse il raggio della pietà
accresceva la luce della loro gloria, e la morte incontrata
all'avanguardia parve al resto dell'esercito un segno di vittoria.
Il primo scrisse perchè sentì, ed il suo stile peccò come il suo
sentimento; il secondo pensò e sentì ciò che scrisse, ed il suo
stile avrebbe forse potuto mantenere ciò che aveva promesso.
Tarchetti è diventato un martire nel martirologio della boemia,
Nievo è dimenticato persino dai cronisti dell'arte. E mentre il
romanzo si contorceva nella culla, il dramma e la commedia si
contorcevano nell'agonia. Giacometti, ingegno vasto, ma corroso
dalla rettorica, aveva ceduto il campo ai sorvenienti: Cicconi,
sbocciato e caduto come un fiore, non aveva lasciato dietro sè che
alcune foglie secche: Gherardi del Testa tentava ancora di celiare:
Ferrari costruiva impalcature, per le quali i personaggi salivano
come manovali, la schiena carica di tanti frammenti di una tesi:
Torelli, un novizio, che alla prima prova era parso un maestro,
ridiventava mano mano uno scolaro; Marenco imperversando pestava
idillio e tragedia; Bersezio credendo di dipingere qualche scena non
si accorgeva di pitturare appena una quinta, e il nostro teatro
italiano era sempre uno scalo dell'arte francese. Però la sua
illusione abbacinava il pubblico, che intronato dai critici
gazzettieri, cominciava a credere nella nuova arte.
Allora due nuovi scrittori comparvero nell'arringo: un bozzettista,
che si fece poi viaggiatore: un novelliere, che salì fino al
romanzo, De Amicis e Verga. Al primo salto oltrepassarono tutti e
nessuno li ha ancora sorpassati. Quegli s'impossessò della fibra
scossa dall'Aleardi, ed ottenne un secondo trionfo di lagrime.
Soldato formò dei soldatini di piombo per il pubblico, che ne
impazzì, perchè piangevano senza perdere la vernice: li depose nel
proprio libro come dentro a una scatola, e il libro diventò una
strenna. Tutti vollero averlo, la bottega dell'editore fu messa a
ruba. Ma nessuno di quei soldati era dell'esercito che aveva fatto
l'Italia, nessuno aveva la fibra dei veterani del trentuno, nessuno
l'impeto lirico dei ribelli del quarantotto, nessuno il sentimento
epico dei volontari del cinquantanove. Invano Garibaldi aveva difeso
Roma da tutta l'Europa, invano Lamarmora più tardi aveva salvata la
medesima Europa alla Cernaia, e le aveva per prezzo del servizio
dimandato l'Italia; invano tutti i villaggi erano clamorosi di
soldati e di racconti guerreschi, gli eroi ed i martiri caldi di
entusiasmo e di ferite: De Amicis invece di vedere e di ascoltare,
aveva monturato i versi dell'Aleardi, e ne avea fatti tanti soldati.
Nullameno i paesaggi salvarono le figure dei quadri, e la madre del
figlio fu la più nobile e fortunata risorsa dello scrittore. Verga
più coraggioso e più acuto sfiorò appena l'idillio e cercò il
dramma. I suoi primi libri furono più un ricordo che una scoperta,
ma imitando gli altri finì per trovare se stesso; e oggi, dopo un
raccoglimento di qualche anno, ricompare più severo e più italiano,
mentre Fogazzaro tenta di oscurarlo colla sua Malombra, Faldella
vezzeggia ancora nei racconti, Barrili trova lettori per le proprie
immutabili favole, orlate della stessa immutabile frangia di
riflessioni; Capuana ne cerca per i suoi nuovi e piccoli esperimenti
naturalisti, e il Pratesi quasi ignorato ne merita.
Che se il romanzo aspetta ancora il proprio grand'uomo, il teatro
ieri ha perduto uno dei suoi migliori, che molti credevano tale,
Cossa è morto improvvisamente. I suoi primi saggi passarono
inosservati, poi diede il Nerone, e l'Italia che giustamente si era
appena voltata all'Arduino del Morelli, ed avrebbe dovuto voltarsi
al San Paolo del Gazzoletti, svenne quasi d'entusiasmo davanti a
questo capolavoro di una sera. I critici da giornale unirono in coro
teorie ed applausi; si parlò di arte nuova, di uomini, che sulla
scena venivano dopo tanti secoli a sostituire i personaggi, di una
storia e di una vita, che uscirebbero rinnovellate da quest'arte. I
drammi successivi, per quanto poveri, non valsero a smagare queste
promesse, alle quali il poeta nella sua contegnosa modestia non
aveva forse mai pensato, e il nome e l'arte del Cossa invasero
pubblico e scena. Ingegno lirico senza profondità di sentimento nè
elevatezza di pensiero, invece di concepire un dramma trovò spesso
una scena, ve ne mise altre intorno, e lo fece; ma sempre lirico
ripetè le stesse figure o le stesse idee, sostituendo una stampiglia
ad un'altra, applicando alla storia la piccola pittura di genere
invece della grande pittura accademica. Se non che a forza di
impicciolire i personaggi, li fece quasi passare per uomini e
credere vivi, benchè campati nel vuoto e moventisi per una scena,
nella quale l'impero romano, reso con un processo di decalcomania,
aveva appena il valore di una ornamentazione da piatti. Come tutti i
piccoli, che la piccolezza inconsapevole rende temerari, affrontò
tutte le epoche, si attaccò a tutti i colossi, Mario e Nerone,
Cleopatra e Messalina, Beethoven e Ariosto, Giuliano l'Apostata e il
Duca Valentino, alla repubblica di Rienzi e a quella di Cirillo,
mettendo sempre un'epoca intorno ad un individuo, come si mette la
paglia attorno ad un bicchiere, perchè non si rompa; poeta senza
verso, dopo che Foscolo e Manzoni avevano scritto i versi dell'Aiace
e dell'Adelchi; drammaturgo senza potenza di evocazione; artista,
che del teatro aveva imparato la decorazione ed il macchinismo. Non
avendo fiato per le tragedie, credette di salvarsi chiamando drammi
le proprie, ma in questi drammi, ai quali la volgarità della forma
avrebbe pur sempre conteso l'esistenza, non seppe convenire le vere
fisonomie tragiche, le fatalità psicologiche o storiche, da cui
solamente il dramma si forma. Ma il pubblico ristufo dei
gentiluomini apocrifi del Ferrari si apprese ai romani falsi del
Cossa, e contrapponendo per un istante l'uno all'altro i due
scrittori, li riunì come due amici nel medesimo applauso. La fortuna
di questi romani usuali ne attirò altri: drammi e romanzi
pullularono. Tito Vezio e Spartaco tornarono col Castellazzo e col
Giovagnoli per mettersi il nostro sentimento moderno sotto la loro
tunica antica. Cavallotti, condannato dal destino alla rivolta in
politica ed alla imitazione in arte, per essere originale seguendo
il Cossa, andò in Grecia; ed egli, il poeta più sgraziato nella
forma, rappresentò il popolo più poetico della terra: non pensando
che scrivere una tragedia greca dopo Eschilo era una follia, e
bisognava chiamarsi Shakespeare o Goethe, perchè la follia potesse
essere genio; dopo Sofocle era un'imprudenza e bisognava essere un
poeta come Foscolo, perchè la profonda umanità del sentimento e la
irresistibile bellezza del verso la facessero perdonare. Ed invece
parmi che a Milano l'Aiace fosse fischiato la prima volta. Col
Cavallotti si unì il Salmini, ingegno rozzo, ma più forte; artista
forse altrettanto scomposto, ma più serio. Ed ora è morto egli pure.
Poi fra tutti questi rantoli di tragedie il Giacosa mise il riso
gaio di una fiaba, che per un'ora trionfò di tutto e di tutti;
senonchè temperamento delicato e spirito fine, salito trionfalmente
dalla leggenda medioevale alla commedia goldoniana, volle essere
tragico, come i tragici, che aveva quasi fatto dimenticare, ed
allora il vincitore fu vinto. Ma col Giacosa avevano già preluso il
Martini ed il De Renzis tentando i proverbi; però, se il primo
valeva infinitamente più del secondo, nessuno dei due ricordò
nemmeno da lungi il Marivaux o il Musset: invece di cammei fecero
delle stampe, non furono abbastanza poeti per avere le perle,
abbastanza orefici per saperle legare. Quindi il Martini arrischiò
il racconto, e piacque; il De Renzis pretese al romanzo, e decadde.
E in questa catena di opere e di scrittori, che doveva legare il
teatro italiano moderno al teatro italiano antico, che l'Italia non
ha mai veramente avuto malgrado il Goldoni; nella quale Cossa colava
il il bronzo delle statue antiche, Ferrari la ghisa dei mascheroni
moderni, l'ultimo anello fu il solo, che non si rompesse sotto lo
sforzo della critica. Il teatro popolare, che colle radici piantate
nel cuore del popolo, fuori di ogni abitudine classica, prosperava
più forse per un rigoglio di natura, che per una coscienza
artistica, trovò nel Gallina il proprio instauratore. Il quale,
giovandosi col tristo esempio del Torelli, che aveva fatto accettare
sulla scena il proprio dialetto italiano, v'impose il vernacolo di
Goldoni; il pubblico accorse, applaudì, non osò sentenziare fra
questo principiante e i decani, fra quest'arte fresca e quell'arte
decrepita, ma l'incertezza del pubblico fu il maggiore dei trionfi,
giacchè per la prima volta il pubblico si trovava in faccia a del
nuovo. Gallina aveva vinto, il teatro era nato: ma siccome i bambini
non divertono che per una mezz'ora, quelle sue commedie, penetranti
come un vagito e graziose come un sorriso, non potevano, e non
possono bastare alla vita di un teatro.
Nè questa guerra nell'arte fu solo di uomini, chè sull'orme di Sara
e di Ouida, due inglesi della colonia italiana, molte donne, che
l'esempio della principessa Trivulzio ed il più alto ancora della
Lorenzi non aveva scosso, entrarono in lizza. Ma siccome le donne,
che pensano, sono una rarità nel loro sesso; così le donne, che
scrivono, debbono avere il valore di una grande eccezione nel
nostro: una scrittrice o è molto o è nulla; le nostre non furono che
troppe. In un secolo, al quale la Stäel apre la soglia, George Sand
illumina il meriggio, Giorgio Elliot rinchiude le porte del
sepolcro, la donna che vuol perdere il proprio sesso, facendosi
scrittrice, deve barattarlo con un'immensa gloria sotto pena di fare
un contratto altrettanto dannoso che ridicolo. Certamente il
pensiero non ha sesso, ma la sua è una fatica talmente maschia, che
le donne non possono sopportarla, o sopportandola, vi si snaturano.
Ed ecco l'arte dell'Italia fatta dirimpetto all'arte, che ha fatto
l'Italia.
Che cosa è il Nerone in faccia all'Adelchi? l'Arduino di Ivrea in
faccia all'Arnaldo da Brescia? Che cosa sono i Rossi ed i Neri del
Barrili in faccia all'Assedio di Firenze? Una volta i filosofi
italiani si chiamavano Rosmini, Gioberti, Romagnosi: l'ultimo
scolaro di quest'ultimo, grande quanto il maestro, il Ferrari, è
morto ieri, e nessuno se ne è avveduto. Come si chiamano oggi i
filosofi d'Italia? Ho letto Vera, e l'enormità di Hegel mi ha
ispirato una calda ammirazione per l'interpetre; Ausonio Franchi,
che Michelet battezzò il primo logico del secolo, si è ritirato
dalla lotta; Augusto Conti, sentimento greve e ragione leggera,
scema l'imponenza dell'autorità e il prestigio della poesia alla
vecchia causa, che difende: Ardigò applica a se stesso la teorica
della evoluzione, e di canonico si trasforma in ateo; Bovio, una
nebulosa nella scuola, è diventato una nebbia nel Parlamento. E gli
altri? Messedaglia e Correnti hanno trovato per la loro scienza una
delle prose più belle del tempo; il Villari, spirito saldo ed acuto,
preludia vigorosamente nella critica e nella storia; il padre Tosti
mantiene il magnifico stile italiano di una volta, l'abate Fornari
incolla l'abate Cesari sull'abate Gioberti, il Minghetti risente del
Costa, il Tabarrini unisce al profumo dell'eleganza antica i sentori
della vita moderna, il Bonghi, mente vasta e profonda, prodiga
osservazioni e consigli talmente buoni, che nemmeno egli stesso sa
praticare. Chi dunque alza una bandiera, la quale raccogliendo tutti
gli sparsi manipoli, rannodi un esercito? Dov'è la lingua vera?
quale è lo stile vivo? Manzoni prima di morire si abboccò col Bonghi
su questo: che ne decisero dunque? Chi ha ragione, la piazza o la
scuola, la tradizione o la vita? Certo col linguaggio della scuola
non si può esprimere tutto, ma col linguaggio della piazza è
altrettanto certo che non si è intesi da tutti. E non per tanto lo
stile è tutta l'arte, perchè in pari tempo parola e frase, colore e
disegno, ombra e luce, forma e sostanza. Quale oggi di tutti questi
giovani ribelli, che disprezzano il passato e i passati, scrive una
pagina come alcune del Tommaseo, o detta solamente un periodo, che
si riconosca fra centomila, e sia forse il più bello, come uno
qualunque del Mazzini? Profeta, apostolo e condottiero, la missione
e l'epopea della sua vita gli contesero di essere forse dei
primissimi fra gli scrittori del secolo, e non per tanto d'Italia fu
il più nuovo ed il migliore. Immaginoso come il Niccolini ebbe il
calore del Guerrazzi, colla fluidità del Manzoni e la precisione del
Tommaseo: italiano dei tempi futuri, sarebbe parso un contemporaneo
agli italiani del secolo d'oro, e nullameno le sue erano idee, alle
quali egli primo aveva dovuto trovare una formula italiana. Filosofo
etico come Socrate, non entra e non entrerà nella storia della
filosofia del nostro secolo, che si inizia con Kant, sale fino ad
Hegel, ridiscende fino a Spencer; ma se in lui la elevazione del
sentimento superò quasi sempre l'altezza del pensiero, la perfezione
del suo linguaggio ispirerà sempre una ammirazione malinconica, come
se nella fiamma dello stile, col quale doveva riscaldare tutto un
popolo, egli gettasse, sacrificatore disperato, colla sua vita di
uomo la sua immortalità di artista. Ed oggi il Saffi, modesto Aronne
di questo Mosè, che ha potuto morire nella terra promessa, conserva
tuttavia nella devota interpetrazione del recente evangelo un raggio
di quella purezza, che l'anima sembra comunicare alla parola, un
residuo di quella efficacia nella frase, che il maestro gli apprese
scaturire dalla sincerità del pensiero e dalla rettitudine della
intenzione. Mazziniano meno ligio alla nuova legge, ma che pagò col
proprio esilio e col sangue dell'eroico fratello la fede all'Italia,
Giovanni Ruffini, del quale i giornali recano oggi la mesta notizia
della morte, dovette farsi inglese per vivere del proprio ingegno e
della propria gloria. La patria ingrata non lo conobbe che tardi, e
non mandò nessuna rappresentanza ai suoi funerali. Scrittore del
tempo eroico, quando lo scrivere era un combattere, egli parve dopo
artista altrettanto fine, ma la sua arte, sempre mazziniana
d'ispirazione, rimase ottimista, difendesse l'Italia o un'idea,
sognasse una patria od una virtù. E nullameno fu posposto al
D'Azeglio ed al Grossi, pei quali vi furono monumenti, oggi già più
vecchi dei loro libri già morti. L'Ettore Fieramosca ed il Marco
Visconti contemporanei del Dottor Antonio destarono un entusiasmo,
che dura tuttavia in rispetto, malgrado che il primo fosse una
degenerazione dei poemi guerrazziani, e il secondo rappresentasse la
putrefazione del genere Walter Scott, che Manzoni, con uno sforzo
allora incompreso e adesso ancora quasi incomprensibile, aveva
alzato quasi sino alla maniera del Balzac. Ed oggi, che i violenti
attacchi del Carducci alla lirica manzoniana hanno quasi reso di
moda il disprezzo del grande poeta e romanziere, che fu naturalista,
per usare questa nuova parola, quando solo Balzac lo era senza
teorizzarne, e Zola sognava forse nell'utero materno, si osano
citare a modelli il D'Azeglio ed il Grossi, la nullità del pensiero
ed il lattime del sentimento: dai quali derivò la teorica dei buoni
libri, eretta a dogma dai manzoniani. Per essa la moralità privata
deve valere l'ingegno pubblico dell'autore, e la misericordia delle
intenzioni ogni altra qualità di fantasia e di sentimento, di forma
e di sostanza. Così la critica minuscola, ridotta dai giornali a
sacerdozio come l'arte, crea e distrugge le effimere riputazioni sui
giornali sbocciati. La grande critica tace: Settembrini,
temperamento storico ed ingegno sistematico, è morto: il De Sanctis,
temperamento poetico ed ingegno filosofico, dopo aver messo la
psicologia a base della critica, sostituì troppo spesso la
intuizione all'analisi; quindi i suoi ritratti diventarono teste, e
le pretese lezioni di anatomia si cangiarono troppo sovente in
speculazioni metafisiche, nelle quali il tempo storico era appena un
colore, e il simbolismo dell'idea toglieva quasi ogni significato
alla varia composizione umana dell'individuo. Il Carducci, lirico ed
erudito, volle essere critico, e lo fu splendido e forte come in
tutto ciò, che ottiene sempre dalla sua volontà. Forse se non il
genio, poichè dei primi fra i primi del mondo, egli ha comune nel
secolo col Balzac la nobile ed incalcolabile energia della volontà,
colla quale coltivando instancabilmente il proprio terreno è
arrivato a farne un ricco giardino, sebbene la sua flora originaria
non fosse nè troppo varia, nè molto opulenta. Ma egli vi trasse semi
da tutti i climi, le palme dell'Africa e gli abeti della Germania,
le rose della Grecia ed i gazuma dell'America; vi educò la vite
colla stessa perfezione dei vignaiuoli francesi, amò l'edera e si
compiacque ad incoronarne le vecchie statue dissepolte, colle quali
andava ornando i viali. Ma nella critica preferì la necroscopia alla
diagnostica, i morti ai vivi, simile in questo al D'Ancona, che
spinse la passione dell'anticaglia fino alla ghiottornia dei più
minuti particolari, sprecando non si sa se più ingegno o dottrina;
mentre il Zendrini, morto da poco, scambiava la propria cultura per
una capacità critica, e il Massarani sdottrineggia ancora pigliando
l'arte per la riprova di una teoria morale, piuttosto che per una
totale rappresentazione della vita: il Trezza svapora in una
fraseologia nebbiosa, il Franchetti nell'Antologia oscilla fra il
buon senso ed il buon gusto, il Nencioni in articoli brevi e
talvolta bulinati corregge l'influsso delle letterature straniere
sulla nostra, analizzando gli esempi che la più parte invocano senza
conoscere. Così, mentre la critica diventata embriologia nel Bartoli
studia con amore sapiente le origini della nostra letteratura, e
falsa o sdegna l'opera contemporanea, il verso che tubava ieri
coll'Aleardi, zirla adesso col Fontana, parla collo Stecchetti,
sorride col Panzacchi, stuona col Rapisardi, abbaia col Cavallotti,
novella col Giacosa, si libra col Zanella, esulta ancora col Prati,
crea col Carducci. Questi risuscita miracolosamente gli antichi
metri latini, e vince nella prosodia una battaglia combattuta
infelicemente da altri ingegni in altri secoli, ma il pubblico
applaude senza gustare: Rapisardi, invidioso della risurrezione,
profana il sepolcro dell'epopea, e ne trascina sulla piazza il
cadavere purulento. Quando alla vita scema lo splendore manca il
rispetto alla morte: i forti sono prudenti, i deboli sfacciati. E
tra il Carducci e il Rapisardi, un poeta ed un ingegno, Renato
Fucini è ancora l'uno e l'altro, sebbene il Porta gli sia ancora
troppo al disopra e il Belli ancora molto innanzi. Ma primo fra i
nostri lirici viventi, il Carducci pretende di essere l'ultimo nella
storia e nella nostra lirica, poichè essa muoia: e già la musica,
questa lirica della lirica, agonizza. Verdi, il superstite
dell'immortale quadriglia, ricorregge colla mano tremula le opere
della giovinezza, come un vecchio capitano ama di riforbire egli
stesso la spada, che non può più cingere: il Boito ha impiegato
dieci anni a scrivere il Mefistofele e riposa sugli allori
guadagnati contro il Gounod: il Gobatti, giovane e fortunato
condottiero dei Goti, ha d'uopo ancora di nuove battaglie e di nuovi
trionfi. La musica classica è quasi obliata malgrado il valore dei
suoi tre ultimi campioni, lo Sgambati, il Bazzini, il Rinaldi; nella
piccola musica si adora il Tosti, e si misconosce il Gordigiani, si
chiedono romanze da salone, le quali girino sulle casse dei
pianoforti come tanti scarabei luminosi, invece di libellule, che
balzino nei raggi del sole e vi scintillino. Così il canarino vince
l'usignolo, e il profumo dei fazzoletti copre l'olezzo dei fiori.
Ed ecco l'arte dell'Italia fatta alla sbarra del mondo e della
storia.
Certo la grande questione pregiudiziale della lingua ha
efficacemente contribuito alla attuale miseria, epperò sorvolandola,
penso collo Zola, che la nuova lingua dovrà uscire dalla officina
del giornale, se nella scuola la tradizione contende il passo alla
vita. Naturalmente occorrerà un lungo processo, ma diggià
sull'incudine dell'articolo quotidiano qualche lamina viene
superbamente battuta. La necessità di trovare un nome per ogni nuovo
oggetto ed una formula per ogni nuova idea, egualmente compresa da
tutti con uguale prontezza, ma specialmente uno stile agile e
nervoso, elegante nella semplicità della eleganza moderna, colla
fluidezza di un discorso e la correzione di un testo, predomina il
giornale. Fiume e cloaca, che raccoglie ogni rivo e ogni scolo, come
l'orchestra sognata da Berlioz, ha tutti gli strumenti e tutte le
voci; effimero ed immortale come la vita, ne ha la stessa unità
multiforme; è la forza più grande del nostro secolo, e ne sarà la
gloria. Il giornale è essenzialmente moderno. La lingua, che in
fondo non è se non un dialetto epurato, vi è in continua fusione; le
parole vi si rompono e vi si formano fra un rombo assordante, un
lavoro minuscolo ed assiduo, al quale cooperano migliaia di operai
senza nome, mentre pochi direttori si aggirano fra di loro,
sorvegliando con orgoglio di padroni. Molti articoli, che oggi si
leggono già negligentemente, avrebbero fatto strabiliare inserti
nelle pagine di un libro di trent'anni fa. Nullameno pochi sono
ancora coloro, ai quali si possa riconoscere il merito vero di
stilisti, sebbene, come osserva giustamente il Martini, il
miglioramento nello scrivere comune italiano cominci ad essere
sensibile. Tra i primi il Martini stesso, il De Zerbi, il Panzacchi,
diversi di opinione e di indole; il primo forse ancora troppo
toscano, il secondo ancora scorretto, il terzo italiano veramente,
più fino di gusto e più forte di studi. Ingegno alato si posò
dappertutto per involarsi appena posatosi; nato oratore come pochi,
poeta che potrebbe tradurre nel verso più di una musica gentile,
mentre tutti gli storpiano in musica le sue delicate romanze;
critico, pel quale nessuna musica ha molti misteri, quella dei
colori e delle note, della poesia e della prosa. Egli è celebre ed
avrebbe potuto essere glorioso, se la pagana serenità del suo
spirito, e l'ateniese indolenza del suo temperamento fosse stata
guasta da un solo vizio: la vanità. Intorno ad essi altri molti
vanno sorgendo, ma parlando di stilisti non posso citare nè il
Ferrigni, nè il Petruccelli della Gattina. Il primo, costretto ad
una moltiplicazione miracolosa di articoli, si sorregge collo
spirito, come gli operai estenuati si rinforzano coi liquori; il
secondo discende ancora nel giornale, come in un campo chiuso, a
commettervi qualche prodezza colla vanteria di un vecchio
giostratore. Pensatore senza sistema, dialettico senza metodo,
artista senza forma, egli ha reso quasi cosmopolita il proprio
ingegno: conosce tutte le lingue, meno l'italiana, ha difeso tutte
le idee ed abbandonate tutte le opinioni. Ma la sua fibra, che nè
gli anni, nè le apoplessie poterono fiaccare, è ancora della vecchia
razza, che ha fatto l'Italia. Quando Petruccelli della Gattina sarà
morto, nessuno si accorgerà della sua perdita, nullameno di tutti i
giovani, oggi illustri, che piglieranno il suo posto senza dirlo,
nessuno vi porterà la stessa ricchezza di cognizioni ed altrettanta
forza d'ingegno.
E scioccamente i giovani letterati si lagnano ora della loro fortuna
nel popolo, giacchè la sorte non fu mai più lieta ai novizi. Quelli
che battono il teatro si dolgono perchè la società non abbia ben
contornata la propria fisonomia come in Francia, dove il salone
uniforma costumi e linguaggio, quasichè la società dovesse esistere
per l'arte, e non questa per quella; mentre nella stessa Francia i
grandi scrittori, da Balzac a George Sand, da Zola a Flaubert,
cercarono i loro modelli fuori dell'ambiente falso del salone,
falsato ancora peggio dal Dumas e dal Feuillet. Tutti gli altri del
romanzo e del melodramma, del canzoniere e della tragedia guaiscono
sulla indifferenza crudele del pubblico, mentre questi, che teme
istintivamente la miseria della nostra arte, ne ricusa la coscienza,
ed è pronto ad acclamare delirando ogni più vaga apparenza di
grandezza. Applaude ancora al Ferrari: per dieci anni ha messo Cossa
sugli altari, ed oggi paga una sottoscrizione per erigergli un
monumento; si sollevò come un sol uomo alla marcia trionfale dei
Goti, ha imparato a mente tutte le canzoni dello Stecchetti, batte
perfino le mani ai greci di Cavallotti. Giammai vi fu epoca nella
quale la celebrità fosse più pronta, e la gloria più facile. Tutti i
grandi sono morti, tutti i seggi sono vuoti. Lo Stecchetti oggi è a
fianco del Carducci, come il Leopardi trenta anni or sono era a
fianco del Manzoni. Che se malgrado queste eccellenti disposizioni,
cui la storia dovrà un giorno trovare piuttosto ridicole, nessun
nuovo nome sorge dalla folla, si è che nessuno arriva nemmeno ad
essere la larva di uno scrittore; e quando non si tocca la vita è
più spregevole che pietoso il lagnarsi della immortalità. Muoia
domani il Carducci, e dovremo per decoro di patria augurarci che le
Alpi, le quali non poterono mai trattenere gl'invasori, trattengano
la nostra letteratura dal commercio europeo. Che avrebbero dunque
esclamato questi pigmei, i quali implorano istantemente il pubblico
di farli grandi, poichè la natura non volle, se invece di capitare
oggi, che il minimo della statura nella leva è diventato il massimo
della statura nell'arte, fossero nati ottanta anni or sono fra i
colossi, che hanno fatto l'Italia, ed ella avesse detto loro, come
disse a Rossini, a Leopardi, a Manzoni: siate la mia gloria in
Europa, poichè io debbo con questa ricomprarmi la libertà; mentre la
Francia aveva Balzac e Hugo, la Germania Gian Paolo Richter ed
Heine, l'Inghilterra Dikens e Thakeray, la Polonia Mickiewitz, la
Russia Gogol e Puskin, l'America Pöe e Longfellow?
Se domani avremo una guerra, Cavallotti potrà essere il Petöfi, come
lo è stato il Berchet? Non sanno dunque costoro, che dopo la Grecia
l'Italia è artisticamente la più grande nazione, che l'Europa è il
continente più piccolo per la geografia, ma il più grande per la
storia, che l'America passa già dall'industria all'arte attraverso
la scienza, e che per rappresentare il pensiero di un popolo anche
in un solo e nel più piccolo dei momenti, bisogna essere ben grande,
e quando non si ha questo onore doloroso non bisogna commettere la
sciocchezza di augurarselo, o peggio la viltà di mentirlo? Quando
Castelar combattendo la elezione di Amedeo di Savoia a re di Spagna
opponeva la storia spagnuola alla nostra, conchiudendo ad ogni
periodo del discorso col pesante ritornello: siete piccoli! aveva
torto; ma noi eredi di una rivoluzione, che non avremmo mai saputo
compiere, possiamo e dobbiamo ripetercelo amaramente sul volto,
perchè la prima speranza di un risorgimento sta nella coscienza
della propria prostrazione.
E ora che la natura ti ha ripreso dalla società, e il vento della
steppa t'invola ad uno ad uno i ricordi d'Italia, t'immagini tu come
sia la nostra coscienza nazionale? Mentre Garibaldi è ancor vivo
crederai che in noi sia spento il senso epico della nostra
rivoluzione? Nullameno, sventura od infamia, è vero. Quando Vittorio
Emanuele morì all'improvviso, parve che il cuore della nazione desse
un balzo, e da tutte le labbra rompesse un tremendo singulto: egli
era l'Agamennone della nostra Iliade, il simbolo più sintetico della
nostra idea. L'individuo non montava, e fosse stato pur pazzo, nullo
come suo nonno, o inferiore come suo padre, poichè con lui si era
trionfato e in lui s'incontravano la tradizione romana e l'italiana,
il concetto dei pensatori e la visione dei poeti: poichè aveva
riassunto tutte le forze, quella di Garibaldi e di Cavour, di
Mazzini e di Cattaneo: poichè aveva fuso il regno di Piemonte con
quello di Napoli, la repubblica di Genova con quella di Venezia, il
ducato di Milano con quello di Firenze; poichè aveva riaperto Roma,
chiusa dai papi al mondo civile; poichè infine tutto quello che si
era voluto, e che si era fatto, aveva dovuto passare attraverso lui,
come per un perno, che intrecciando i fili, torce la corda; tutti
coloro, che la miseria di partito non abbassava sotto il livello del
cittadino, dovevano convenire in questo simbolo, che uscendo dalla
vita per entrare nella storia, prendeva la consacrazione della
irrevocabilità. Cattolici e repubblicani, conservatori e socialisti,
l'unità italiana doveva imporsi a tutti ed essere accettata da tutti
come un campo, dal quale si erano scacciati i barbari e che restava
libero ed aperto ad ogni coltura. E parve che fosse così. Quindi una
voce, alla quale tutti risposero, invocò un monumento, che fosse
testimone eterno di un'ora già passata, ma che resterà una stazione
nel viaggio della civiltà. Si apersero sottoscrizioni, e tutti
sottoscrissero, poveri e ricchi, vecchi e fanciulli. La mente
raggiava, il cuore batteva. Ma quando il monumento dovè uscire dal
sentimento per concretarsi nell'idea e tradursi nella forma, nessuno
più si comprese. Le opinioni irruppero, i disegni fioccarono, le
commissioni moltiplicorono i pareri e i dissensi. Nullameno vi era
una idea vecchia di migliaia di anni, destinata a viverne altre
migliaia, che era tutto il nostro passato, in nome della quale
eravamo risorti, perchè con essa eravamo vissuti, perchè per essa il
mondo aveva vissuto con noi. E questa idea era il Campidoglio. Come
ora fosse sconciato non caleva; il Campidoglio era pur sempre il
Campidoglio, il vertice più alto della civiltà antica, il primo
centro della unità mondiale, che l'idea cristiana non osò occupare,
e fece bene, poichè essa era un'idea religiosa, e il Campidoglio è
un'idea civile. Roma era stata saccheggiata molte volte, distrutto
il suo impero, ma nessuno di quei barbari trionfatori aveva osato
fermarsi sul Campidoglio e diventarvi una statua. Se Giulio Cesare,
al quale l'Italia deve ancora un monumento, che le consacrerebbe il
primato fra le nazioni, l'avesse occupato, nessuno avrebbe potuto
porsi al suo fianco: ma l'imperatore Marco Aurelio vi è appena una
decorazione, incomparabile artisticamente, e senza storico valore.
Perchè dunque tutti non hanno gridato: in Campidoglio, in
Campidoglio!? Perchè quest'idea non venne ancora in mente ad alcuno?
Perchè non si è sentita la necessità di riannodare la nostra storia
all'antica, mantenendo la grande tradizione romana, che pure è la
sorgente di tutta la vita moderna? Perchè rompere la serie dei
periodi nella eterna idea dello stato, abbandonando il Campidoglio,
che la repubblica di America ha dovuto copiare per ingrandire con
questo simbolo il proprio fatto? Perchè lo stato moderno non risale
il Campidoglio per provare alla chiesa la propria indipendenza, e al
mondo la eternità del loro dualismo parallelo e fatale? Rienzi, che
sognò forse primo la nuova Italia, morì sui gradi della scalea
capitolina; perchè Vittorio Emanuele, che ha riparato la sconfitta
di quel vinto sublime, non la monta, e mettendosi sul piedestallo di
Marco Aurelio, calmo altrettanto, non mostra al mondo che tutte le
epoche storiche si verificano solamente in Campidoglio, e che la
libertà moderna per essere immortale deve prendere il posto
dell'antica?
Forse metteranno Vittorio Emanuele in una piazza recente di Roma;
così il rappresentante di tutta la nostra epopea sarà trattato come
i rappresentanti delle sue fasi, poichè Cavour, Mazzini e Garibaldi
dovranno egualmente occupare una piazza romana, ed allora col
sentimento epico della rivoluzione avremo perduto la coscienza della
nostra storia. E poichè ad ogni errore di testa, ne segue fatalmente
un altro di cuore, e quando la testa si annebbia, il cuore marcisce,
si sono invitati perfino gli stranieri al concorso per questo
monumento, che costerà nove milioni, come se si trattasse di una
grand'opera decorativa e non di un simbolo, che l'unità monarchica
del fatto costringe nell'unità individuale del re; mentre avvenuto
colla unità repubblicana, il simbolo avrebbe avuto una unità
allegorica; come se a questo monumento, che noi facciamo a noi
stessi, perfino i manovali e la sabbia non dovessero essere
italiani.
Ed ecco, mio nobile esule, come la letteratura è prostrata in
Italia, perchè, figli di ribelli conquistatori, noi abbiamo questa
ciera da domestici, accattiamo originali da copiare nei libri e
nelle leggi, e antesignani nelle scienze e nella filosofia,
nell'arte e nell'industria, anche quando eravamo servi dello
straniero, oggi liberi ed italiani non abbiamo nè l'orgoglio del
passato, nè la dignità del presente. Forse non si è osservato
abbastanza come i figli dei grandi uomini siano quasi sempre al
disotto della media, in contraddizione con tutte le leggi
biologiche: ma forse questo fenomeno, che dipende dall'enorme
consumo di forze, onde si distinguono le grandi vite, si verifica
egualmente nei popoli. Dopo la rivoluzione dell'ottantanove e
l'impero napoleonico, due immense combustioni di pensiero, la
Francia fu esausta e cadde sotto la restaurazione, un governo anche
più piccolo nelle idee, che nei fatti; ma la decadenza fu effimera,
e i bambini nati a quell'epoca, composero quella splendida fioritura
d'ingegni, che va oggi morendo. La vita è immortale, e le giornate
del tempo sono senza numero: però ogni giornata è chiusa fra due
crepuscoli, e il nostro meriggio durò dal quarantotto al
cinquantanove. Forse i grandi scrittori, che dovranno mantenere la
nostra gloriosa tradizione sono già nati e tempestano nelle scuole
elementari: fors'anche qualcuno dell'avanguardia a quest'ora si
dibatte nei primi dolori del genio e dubita di se stesso, come tutti
i forti. Coraggio, incognito infelice! Al pari di te noi tutti
provammo le angoscie del dubbio e le ebbrezze della fede, delirammo
di orgoglio e di umiltà, nel nostro secreto ci credemmo gli ultimi
ed i primi. Come tu fra poco, avventammo il nostro libro primo nato,
quasi uno squillo di fanfara in un mattino di battaglia; ma noi ci
battevamo sotto l'eccelso monumento eretto dai nostri padri e la sua
ombra agghiacciò il nostro entusiasmo. Ci sentimmo piccoli e deboli.
Come gli egiziani moderni, che guardando le piramidi millenarie non
hanno più nemmeno il coraggio di alzare una casipola, e spiegano
lungo le vie le stuoie per dormirvi, noi scrivemmo articoli e
bozzetti, romanze e canzoni, radunammo parecchi materiali e finimmo
per servirci sopra. Invano gli stranieri ci derisero, invano i
superstiti di quell'epoca gloriosa ci incuorarono: colle forze ci
venne meno la fede, ed allora ridemmo, perchè il sorriso della
incredulità cela spesso il sogghigno della impotenza. Chiunque tu
sia, che applaudiranno domani, tu sarai fatale a noi tutti, giacchè
i nostri abbozzi spariranno nelle tue opere, e i nostri nomi si
perderanno dentro il fracasso del tuo. Larve del diluculo noi
spariremo all'alba; manovali innominati, che ammassammo la sabbia ed
i mattoni, moriremo appena arrivi l'architetto del nuovo monumento.
Questo è il destino di tutti i deboli, che la natura dispone a
gradini nella sua scalea, sulla cima della quale non arrivano che i
forti; embrioni compassionevoli, noi vivremo nella vita del genio,
che realizzerà la nostra forma, come tutti i malati e gli incompleti
vivono della vita che i robusti fanno alla umanità.
Non ridere, incognito superbo, del nostro sogno, che tu dovrai
attuare; il nostro dolore è comico, il tuo sarà tragico, ma pur
sempre dolore.
Allorchè un contadino montato sopra uno dei tuoi puledri russi, che
qui vincono tutte le nostre corse, ti recherà dalla città più vicina
questo mio nuovo libro, parmi d'intendere fin d'ora il tuo
malinconico ed amichevole: ancora! e ancora un errore, giacchè non è
nemmeno un vero quartetto! Ma non ti dolga troppo dei tuoi saggi
consigli, poichè l'effetto oramai ne è maturo. Entrato, tu sai
perchè, in questa guerra letteraria, promisi sempre a me stesso di
non morirvi: concepii un disegno, e lo attuai. Vinto ad ogni
battaglia ed insultato come tutti i vinti, non scesi mai, nè
scenderò alla scempiaggine della replica, alla bassezza del lamento:
i vinti hanno torto. Altri sarà più fortunato, perchè più forte:
pochi più sinceri ed intrepidi. Poichè ogni pompa dell'arte mi era
contesa per la miseria dell'ingegno, ebbi l'orgoglio della nudità
del mio pensiero; dissi tutto, forse dissi male, però dissi. Nella
società due sole persone possono essere senza riguardi, il lazzarone
ed il principe, ed essendo liberi, sono forse i meno sfortunati:
lazzarone del pensiero, io volli essere pari al principe nella
libertà, e se le mie parole dovevano andare perdute, non compresi
perchè avessero ad essere menzognere.
Questo libro è il principio della fine.
Domani comincerò il Sì, e sarà l'ultimo della serie concepita dieci
anni fa. Tu ne conosci le idee, e ne indovini meco la sorte. Sarà la
suprema battaglia perduta, dopo la quale, anche essendo buon
patriota, mi sarà permessa la ritirata; la coscrizione non dura
adesso che tre anni, io ne avrò passati dieci sotto le armi. Un
proverbio dice che una bella ragazza non può dare più di quello che
abbia, e gli scrittori buoni o cattivi non sono in migliori
condizioni; laonde raggiungerò forse la tua vita di coltivatore,
lasciando ad altri lo sfracellarsi inutilmente il cranio contro le
porte bronzee della gloria, o l'aprirle validamente coll'appoggiarvi
solo un dito.
I deboli tentando la prova sono eroici, ostinandovisi diventano
ridicoli. Forse, anzi senza forse, la prova è già fallita, ma la
costanza non è composta altrimenti della caparbietà, e non è facile
nè a chi le ha, nè a chi le giudica, il distinguerle nettamente.
A rivederci dunque.
Quando il tuo cavallo russo ti sprofonderà galoppando dentro la
steppa, e il tuo occhio si riposerà nell'infinito della pianura, e
il verde della terra e l'azzurro del cielo si fonderanno in una sola
sensazione entro il tuo cuore, in una sola idea entro il tuo
cervello, ricordati, se puoi, l'amico lontano, del quale la fantasia
prediletta è sempre stata di partire dal mondo sopra un cavallo
nero, stellato sulla fronte. È una fantasia senza significato, ma
che mi appare sempre al pensiero, nella stanchezza di una
meditazione, o nella noia di una distrazione. Mi sembra di vedermi
innanzi il cavallo sellato, e di avere agli occhi il deserto. Il
cavallo è alto e leggiero, la criniera gli tocca i ginocchi, la coda
gli batte i garretti: è senza testiera, la sella è piccola, il
deserto è sconfinato. In sella adunque e al galoppo:
Allons, capitaine, appareillons pour l'infini
come urlava il marinaio di Baudelaire alla morte.
In sella ed al galoppo, ecco adesso la tua vita: a rivederci dunque,
nobile esule, a rivederci forse nella steppa, nel silenzio della
natura, nel deserto del mondo, nella solitudine dell'infinito.
Ottone di Banzole.
VIOLINO
Annottava.
Egli andò lentamente verso la scranna, sulla quale aveva posato il
violino; lo prese, ne saggiò l'accordatura, ed avvicinandosi un
altro passo alla finestra, senza rivolgere il capo, incominciò a
suonare così:
Poichè siamo soli in questo gabinetto, mettetevi là, su quella
poltrona, ed ascoltatemi. Fra poco sarà notte: adesso il cielo è
opaco come un mare e silenzioso come un deserto. Avete mai
riflettuto su quest'ora del vespro, quando tutto sta per sparire, e
nulla è ancora scomparso? Vi è mai sembrato di perdere in quest'ora
la coscienza del mondo, e di sentirvici come un pellegrino, il quale
cammina alla ventura, distratto dalla curiosità del viaggio, ma
rattristato dal mistero del proprio pellegrinaggio? Guardatevi
attorno. Tutto questo bel gabinetto, di cui ogni mobile è come un
capitolo di romanzo o un canto di poema, nel quale avete accumulato
tutti i comodi della vostra eleganza ed i capricci della vostra
fantasia, non lo si vede quasi più; i colori della tappezzeria sono
periti, le forme dei mobili si sono dileguate. I quadretti, che
rivestivano addirittura le pareti, hanno perduto i personaggi delle
loro scene, e le statuette di Sassonia se ne sono andate lasciando
sulle scarabattole un mucchio biancastro di ghiaia. Un'ombra di
sotterraneo è sorta a poco a poco dagli angoli, come dai canti più
inesplorati del vostro cuore si sono forse sollevati dei ricordi, e
ha occupato tutto l'ambiente: la grande specchiera si è spenta,
l'orologio non batte più. Perchè non l'avete caricato, signora? È da
un pezzo? A qual minuto della vostra vita si è arrestato? Ve lo
ricordate nemmeno? È stato al minuto, che Mefistofele aveva promesso
a Faust, e al quale Faust non credeva? e voi, signora, più fortunata
di Faust, e più bella di Margherita, ci avete creduto? Quando il
cuore, che è l'orologio della nostra vita, si ferma, perchè
l'orologio del tempo seguiterebbe? Io non lo so se il tempo sia una
forma vacua o una realtà, nella quale si muova la nostra vita; non
so se, come fu detto anticamente, sia la misura del moto; ma se lo
fosse, perchè non si arresterebbe, quando la nostra vita si arresta
sul vertice di un minuto, dal quale abbraccia tutto il proprio
paesaggio? Amore e ragione hanno di questi minuti, sui quali
arriviamo qualche volta, e dai quali discendiamo come dalla cima di
uno scoglio nell'oceano, mentre i mostri marini ci seguono colla
gola spalancata e le rondini tessono sul nostro capo cogli ultimi
raggi del sole il velo ondeggiante del loro volo. Cantare
coll'usignolo o volare colla rondine, ecco un destino. Quando il
sole è partito per un altro mondo e la luna galleggiando per il
cielo, come un avanzo di naufragio sulle onde, dà una fisonomia di
ammalato al paesaggio, allora l'usignolo canta invisibile nel
fogliame. Egli è solo. Nel giorno tutti ciarlano e si muovono. Egli
ha aspettato il silenzio di tutti per il proprio monologo, al quale
non chiede e non spera risposte. Il suo canto vario ed inesauribile
ha l'accento di tutte le passioni e l'eco di tutti gli accenti. Fra
gli accordi più pigri di una fantasticheria, a volta a volta getta
una invocazione così ardente ed acuta, che traversa il silenzio
della notte, come in fondo all'orizzonte un lampo di calura solca la
tenebra dell'infinito. Egli si ascolta e si risponde: può darsi che
ami, ma siate sicura, non ama che l'amore. Non è vero che richiami
la propria compagna e la inviti alle nozze notturne sotto i raggi
della luna e le esalazioni dei fiori. La sua è una poesia più vasta
e più alta, il suo canto un romancero, dove gl'inni svolazzano fra
le elegie, e lo strambotto interrompe spesso la modulazione
cadenzata di una saffica. Come un poeta seduto sulle macerie di una
morta città egli canta nel silenzio e nel deserto: attinge in se
stesso l'ispirazione, trova nel proprio cuore le ragioni di essere
mesto od allegro, e mentre la vita gli passa innanzi coi suoi mille
problemi e le sue mille contraddizioni, egli le coglie a volo, e le
libera nuovamente in un trillo o in una corona. Solo come tutti i
grandi spiriti, non gli basta la solitudine e cerca il secreto; si
nasconde nell'albero più foglioso, nella macchia più bruna, canta
tutta la notte, e all'alba, quando tutti si ridestano, cerca un
fitto anche più cupo e si nasconde. L'arte è così. Che cosa
farebbero nel mondo dei lavoratori la poesia e la musica? Avete mai
osservata la luna a giorno alto? Invece di un astro pare un cencio,
un avanzo di quegli aquiloni di carta, che i fanciulli lasciano di
marzo salire nel cielo. Ma anche il giorno ha il suo poeta, piccolo
e a bruno come tutti i poeti del nostro secolo. Perchè mai nel
nostro secolo la poesia è così triste mentre la vita è così florida?
Forse l'usignolo ha ragione, o signora; la poesia ha bisogno della
notte, come la musica del silenzio. Guardate il poeta del giorno
come sta in alto. Ve l'ho detto; è vestito a bruno e non canta;
appena appena incontrandosi con qualcuno scambia un saluto sommesso,
come gli avvisi dei barcaiuoli pei canali di Venezia. Ma invece di
cantare vola sempre. Le sue ali sono come due remi, la sua coda come
la barba di Mefistofele. Non scende a terra, perchè se vi scendesse,
non potrebbe più alzarsene: ha le ali troppo lunghe. Vi sono molti,
signora, che non possono stare per terra, vi cresca la polvere od il
fango, e una volta precipitativi, debbono morirvi di fame guardando
in alto. La rondine vola. Essa è libera; il falco non è abbastanza
agile per raggiungerla, il cacciatore quasi sempre troppo superbo
per tirarle contro. E la rondine vola dalla mattina alla sera,
quando l'aria è ancora umida dalla rugiada della notte, quando bolle
nel meriggio, quando ondula al vento del vespro: vola sempre,
s'innalza a picco, si abbandona strisciando, si libra e volteggia,
si arresta e si disserra, destreggia e precipita, si piega sopra
un'ala come una gondola, sopra un fianco, parte per lungo viaggio e
ritorna, leggiera ed instancabile, muta e bruna, a stormo e sempre
sola. Ed è sempre allegra. Come l'usignolo è inesauribile nel canto,
essa è infaticabile nel volo: l'usignolo canta perchè è il poeta
della notte e del pensiero, essa vola perchè è il poeta del giorno e
dell'azione. Solo il vespero è senza poeta. L'allodola, che trilla
così lieta al mattino, si è già riparata nel nido, la cicala ha
mandato il suo ultimo saluto al sole, e i grilli attendono forse le
lucciole nascoste nel grano. È l'ora dell'agonia, sentite la campana
che l'annuncia. La sua voce lenta e solenne si perde nell'ombra come
la vita, ma i suoi rintocchi sono contati come gli ultimi minuti del
morente. Fra poco cesserà, l'aria sarà più fosca, e i morenti
saranno morti. Avete mai pensato che questa stessa campana
annunzierà forse la nostra morte? Voi siete bella, siete bionda,
siete fresca: i vostri occhi scintillano come un lago, il vostro
cuore olezza come un giardino: non vi ricordate di quando eravate
bambina, non vi rammentate più che un giorno non sarete più donna?
Eppure, signora, non vi è meriggio senza ombra, per quanto intenso
ed abbagliante: sul mare si disegna l'ombra delle navi che
viaggiano; sul deserto si stampa l'ombra degli uccelli che migrano.
Ma voi siete troppo felice nella vostra bellezza, e la felicità è
gemella dell'obblio. Quanti uomini di quelli, che passandovi
innanzi, si sono inginocchiati ai vostri piedi come ad una immagine
miracolosa, vi ricordate, signora? Molti forse vi hanno amato, e
coloro, che parlavano meno, vi amavano di più. Viandanti stracchi o
scoraggiati si accompagnarono con voi per qualche miglia; non so se
tutti erano belli, ma tutti avrebbero voluto esserlo per
accompagnarvi sempre. La loro anima era forse carica di speranze
morte, il loro cuore un nido di desiderii neonati: viaggiatori
giovani o vecchi, col raggio dell'alba o coll'ombra del vespero
sulla fronte, guardavano verso di voi come al sole, che è la guida
di tutti i pellegrini, l'astro di tutti i viventi, il focolare di
tutti gli assiderati. Lungo la via senza meta e che bisogna pure
percorrere, il solo piacere è di fermarsi sopra una pietra miliare
all'ombra di un albero e barattare con un compagno i discorsi lenti
e malinconici del viaggio. Poi si prosegue per la strada polverosa,
nella quale il vento cancella le orme, e i passeggeri non cessano
mai. Dove vada tutta questa gente, nessuno lo sa, ma tutti fanno la
medesima strada per cadere ad un'ora misteriosa in uno dei suoi
fossi, e restarvi. Forse molti di coloro, che vi offersero il
braccio, vi sono già caduti, e voi non ricordate nemmeno il loro
nome: molti proseguiranno in gruppo per dimenticare nel chiasso di
una conversazione la faticosa necessità del cammino, o avranno a
braccio un'altra donna e le ripeteranno le stesse parole, che vi
dissero un giorno. Il vento della sera si è alzato e susurra fra gli
alberi del giardino. Sentite come i grilli canticchiano e i
gelsomini odorano. Il gelsomino è il fiore della notte; nel giorno o
è chiuso o avvizzito, o morto o non nato: aspetta l'ombra per
schiudersi, il fresco per olezzare. Allora tutti i suoi bottoni
sbocciano e come l'usignolo apre il concerto dei propri odori.
Gl'insetti randagi del giorno dormono nell'erba, gli uomini sono
ricoverati nelle case. È per la delicatezza del suo odore, o per la
singolarità di non odorare se non la notte, che ne avete fatto il
vostro fiore prediletto?
Certo la donna non è mai più bella che nella notte, perchè l'amore
cerca le tenebre ed il riposo, l'olezzo e la voluttà. Una volta ho
veduto un gelsomino sul vostro tavolo da notte e non me lo sono più
dimenticato. Una folla di rapporti fantastici fra il suo colore ed
il vostro, fra il vostro alito ed il suo, mi occupò istantaneamente
lo spirito; poi vi chinaste a respirare il suo profumo, e mi parve
che gli diceste qualche cosa. Era una confidenza? Non lo so, e
nullameno la compresi. Il linguaggio non ha centomila espressioni,
delle quali la migliore non è certo la parola? Tutto non parla nel
mondo? L'universo non è come un discorso, nel quale ogni individuo
rappresenta una sillaba? La solidarietà misteriosa, che unisce tutti
i viventi, non lega forse le loro voci, e non sarebbe strano, che
mentre tutti si scaldano al medesimo sole e respirano la medesima
aria, non parlassero un medesimo linguaggio, e non componessero un
coro? Se invece di restare in questo gabinetto discendessimo in
giardino, come voi udite senza avvertirla la voce del grillo, egli
udrebbe senza badarvi la mia, ascoltando la voce di qualche sua
compagna. Fra la moltitudine degli effluvii e dei discorsi ciascuno
sceglie quello che gli si indirizza, e vi risponde; ma la sinfonia,
che risulterà inevitabilmente dall'accordo di tutte le voci e dalla
innumerevole partitura di tutti gli strumenti noi non possiamo
sentirla più del moscerino, che ronza, o del bue, che mugge. Se vi
fosse una montagna, dalla cima della quale abbracciare tutto il
paesaggio della terra ed intenderne il concerto infinito,
v'inviterei meco a salirla, e fosse pure alta o scoscesa, vi terrei
sempre per mano ripetendovi: salite! Quando l'aria diventasse troppo
rada, per impedirvi di accorgervene, vi direi: guardate come la luce
è pura! Se l'altezza vi desse le vertigini, vi mostrerei la cima,
ripetendovi: salite! Se il freddo vi gelasse la fronte, allora
forse, solamente allora oserei dirvi: non sentite, signora, come la
mia mano brucia nella vostra! E saliremmo: l'aquila vi vedrebbe
senza paura passare rasente il proprio nido, perchè voi, signora,
avete la più dolce fisonomia di questo mondo: dalla vetta di un
pinacolo il camoscio ci indicherebbe con un fischio il sentiero più
sicuro e più breve; la rosa delle alpi, questo mistico fiore, che
vive di neve e di sole, di bianco e di azzurro, tremerebbe di
confusione vedendovi, perchè voi siete più bianca della sua neve,
perchè i vostri occhi sono più azzurri del suo cielo, perchè i
vostri capelli sono più biondi del suo sole. E saliremmo sempre: gli
abeti bruni come la folla degli uomini ed egualmente clamorosi
stormirebbero al basso; i ghiacciai arderebbero in alto con un
incendio di colori e di scintille, di raggi e di baleni. Non vi pare
che sarebbe una bella ascensione? Talora guadagnando un monte si
guadagna un cuore. Invano la montagna sarebbe levigata come uno
specchio o irta come una lima: le nostre mani avrebbero una presa
più fina di quella di una mosca, e più forte di quella di un
artiglio: io vi farei arco delle spalle e vi ripeterei sempre:
avanti, excelsior! Se ci siamo alzati più in su dell'aquila, saliamo
ancora, perchè i raggi della luna si posano dove non arrivano i
piedi dell'aquila, e i raggi discendono invece di salire: il sole
passa al disopra della luna, le stelle migrano al disopra del sole,
il pensiero vola al disopra delle stelle, Dio sta al disopra del
pensiero. Ormai tocchiamo la vetta; salite meco e fidatevi, perchè
ho giurato di riaccompagnarvi nel mondo quale ne siete uscita, e la
mia parola è sicura come voi siete bella.
Poi arrivati sulla vetta mi sederei ai vostri piedi e guardandovi
negli occhi vi direi: eccoci giunti, o signora; chinate pure lo
sguardo ed ascoltate la musica, che si innalza fino a noi coi vapori
attratti dal sole. I vapori ricadranno in pioggia, ma la musica
svanirà lentamente nel silenzio dell'azzurro. Benchè soli come
Satana e Cristo, non temiate che vi tenti. Il mondo non parve bello
al Nazareno, poichè il mondo non è bello se non da vicino come tutte
le piccolezze: da questa cima i suoi imperi fanno appena una macchia
di paesaggio e le sue più enormi città un mucchio di ghiaia. Siamo
soli, signora, ma talmente in alto che non ci resta più che
l'orgoglio dei nostri cuori, e la serenità dei nostri pensieri. Non
vi sentite più grande così? Ma se credendo alla mia parola e
accettando la mia mano acconsentiste a seguirmi su questa cima così
perigliosa ed eterea: se almeno questa volta desideraste ciò che
desiderai, voleste ciò che volli, faceste ciò che feci, qui
nell'azzurro, che le nubi non hanno mai contaminato, dove l'aria non
svia più i raggi del sole, e nessuno ci ascolta, perchè gli uomini
sono troppo in basso e le stelle troppo in alto; questo secreto che
porto da lunghi anni come una luce nella mente, come un tesoro nel
cuore, come una catena alle mani, sul quale avete tante volte
soffiato e non si è spento, nel quale cacciaste tante volte le dita
gettandone all'aria le perle e non è scemato, sotto la quale i miei
polsi hanno tante volte sanguinato strappando, e non l'hanno
rotta... ve lo dirò, qui, solo, senza lagrime, senza parole, con uno
strido acuto, supremo:
Ah!
Il cantino si è rotto, signora, ma un violino come una barca non si
arresta per la rottura di una corda. Poichè siamo soli in questo
gabinetto mettetevi là, su quella poltrona, ed ascoltatemi. Oramai è
notte: il cielo è opaco come un mare e silenzioso come un deserto.
Avete mai riflettuto a questi due infiniti, che rinchiudono
l'orizzonte creandolo? Eppure l'orizzonte è la cornice di ogni
quadro. Nella indefinibile unità del suo colore trema una confusione
di tinte indefinibili. Da lui il zaffiro ha preso il turchino, lo
smeraldo il verde, l'ametista il violetto, il topazio il biondo, il
rubino il lampo sanguigno, la perla il pallore, l'opale le iridi;
voi, signora, lo splendore e la mobilità, la leggerezza e le nuvole.
- Fatti un abito di taffetà, poichè la tua anima è cangievole come i
suoi colori - disse una volta Shakespeare ad una donna, ed ella
forse gli rispose con un sorriso più ricco di espressioni, che non
di tinte il taffetà. Riso e sorriso, ecco la vita, signora. Se il
sole fosse così bello, perchè gli uomini avrebbero inventato gli
ombrelli, e Dio ne avrebbe loro suggerita l'idea colle nuvole? Se il
cielo ci fosse destinato, perchè gli avrebbero negato l'aria,
rendendolo sordo? Se il genio non fosse una colpa, perchè sarebbe
costantemente infelice, e se l'amore non fosse una brutalità, come
tutti gli animali vi si accorderebbero? La poesia è una noiosa
menzogna, e la prova ne sta in questo, che le signore vi si
annoiano. Invano si è voluto spiegarlo col paragone del flauto, il
quale della musica, che gli fanno suonare, non sente se non la
incomoda ripienezza del soffio, giacchè nella poesia dell'amore, chi
dei due sia l'istrumento, se l'uomo o la donna, si debba ancora
sapere. E poi gli strumenti non si giudicano sempre con facilità.
L'asino non è mai passato per un eroe, e nullameno colla sua pelle
si coprono i tamburi, e coi tamburi si indicono le battaglie. Le
pecore, che belano così poco, benchè il belato sia uno dei linguaggi
più facili, prestano le loro viscere ai violini, che se ne fanno le
corde. E quando un grande suonatore vi suonerà un pezzo di
Beethoven, o io stesso col singhiozzo nell'anima vi parlerò col mio
violino per dirvi così tutto quello, che non oso; e voi forse
cesserete per un istante di sorridere - le mie lagrime saranno forse
sincere, ma i miei lamenti saranno di un altro povero morto: voi non
potrete ancora comprendermi, ed io sarò un pazzo, perchè bisogna
essere pazzo per sperare che una budella esprima ciò cui non basta
una lingua, e una corda possa altrimenti giovare che ad impiccarsi.
Se i Romani avessero conosciuto il violino, forse vi avrebbero fatto
le corde con budella di schiava; e chissà se non fossero stati
migliori dei nostri, e la storia dell'arte non vantasse uno
Stradivarius di più. Come le lettere avevano gli schiavi per i
dizionari, la musica avrebbe avuto gli schiavi per gl'istrumenti; la
scienza, compiacente come sempre a tutte la tirannie, avrebbe forse
trovato nelle fanciulle circasse la fibra migliore per i cantini; e
voi, signora, ascoltandoli avreste sorriso come adesso col vostro
bel sorriso di corallo, perchè il corallo è colore di sangue. Riso e
sorriso, ecco la vita. Il sole fa sorridere le labbra delle nuvole,
che avventano la folgore, come le goccie di rugiada, che incoronano
le rose: le stelle sorridono di tutti i miopi, che le puntano coi
telescopii, e ridono di tutti i ciechi, che piangono non vedendole:
i vecchi sorridono dei giovani, che hanno la saggezza di essere
folli, e i giovani ridono dei vecchi, che hanno la follia di essere
saggi: il credente sorride dell'ateo, che ha la sventura di essere
solo in questo mondo, e l'ateo ride del credente, che avrà la
disgrazia di essere male accompagnato nell'altro. Riso e sorriso,
che mostrano sempre i denti, perchè dopo il bacio vi è quasi sempre
il morso. E voi, signora, preferite mordere o baciare? Forse l'uno e
l'altro, forse baciare quando vi mordono, e mordere quando vi
baciano, per contraddire sempre, perchè la contraddizione è il primo
sintomo della forza e il primo beneficio della libertà. Se così non
fosse, perchè i piccoli negherebbero sempre i grandi, e le donne
avrebbero sempre ingannato gli uomini? Poichè la contraddizione è
l'essenza della vita individuale, l'amore, che la perpetua, è
costretta a servirsi egualmente del bacio e del morso. Solo negli
animali morde il maschio, e negli uomini la femmina: variante
misteriosa, che indica forse negli uni il pudore di quella, e negli
altri la debolezza di questo. E poichè la debolezza conduce spesso
alla tirannia, gli uomini dopo i ginecei inventarono gli harem, come
dopo il vino i liquori; invenzione sciagurata, che toglieva la
conquista all'amore, ed impediva il bacio per evitare il morso.
L'amore ha d'uopo di libertà, come la luce di ombra per produrre il
colore; giacchè non è vero che l'ombra sia nemica della luce, come
afferma Mefistofele, e dovesse appiattarsi nella profondità dei
corpi, quando raggiò la rivale. Non è vero che quando il sole
discende dal suo carro di gloria, per mescersi famigliarmente colle
stelle, essa ricompaia e ricopra astiosamente l'universo; e non è
vero che nel principio fossero le tenebre, e che alla fine saranno
le tenebre. L'ombra invece è innamorata della luce e la segue
dappertutto. Mentre i colori si posano ovunque scintillando,
osservate come l'ombra si sdraia voluttuosamente sotto a tutti i
corpi, e col proprio contrasto raddoppia la loro vivezza: quando il
meriggio discende, l'ombra si allunga, sale per lo stelo dei fiori,
per il tronco degli alberi con una leggerezza amorosa, e li avvolge
nel proprio vapore; come voi, signora, avrete molte volte riposto
negli astucci i brillanti, che ad un ballo vi avevano fatto prendere
per una bella notte stellata. Non è vero che l'ombra detesti la
luce, e la menzogna sia nemica della verità, giacchè non si
bacerebbero così spesso sulla medesima bocca e con tanto trasporto.
Avete mai veduto due gemelle vestite con altrettale eguaglianza? Se
la verità è il sole della vita, la menzogna ne è l'ombra; e per la
strada del pellegrinaggio, quando la fatica ci ha affranti e la
polvere riarsi, l'ombra di un albero è pure la sola speranza ed il
solo ristoro. Che sarebbe di noi tutti, se costretti alla verità,
dovessimo sollevare sempre il velo sulla cuna delle nostre
intenzioni, o alzare il coperchio sulla tomba dei nostri ricordi? Se
io dovessi confessarvi tutte le ragioni, perchè m'incanto a
guardarvi, e voi tutte le altre, perchè vi lasciate guardare? Poichè
i costumi sono la gentilezza delle nazioni, i complimenti sono la
bontà degli individui: ma, come il bello ideale nella pittura non è
che la correzione del brutto nel vero, il buono ideale nella vita
non ci viene che dall'oblio volontario del cattivo. Mentite dunque,
signora, poichè la misura della bontà consiste nel bene che si
prodiga, e la natura diede per noi alle donne la menzogna e la
bellezza. Profondete gli sguardi ed i sorrisi, i giorni e le notti;
gettate a piene mani speranze e soddisfazioni, ricordi ed oblii;
sminuzzate l'amore per moltiplicare gli amanti; invece di essere un
sole immobile nella vanità della propria mole, siate la cometa, che
vaga per l'empireo, ed ha un saluto per tutte le stelle. Bella come
la primavera, siate così piena di grida e di fiori, abbiate la foga
dei suoi balli, dei suoi canti, la sua gioventù eterna, che dà poco
e si contenta di meno, ma che colora e profuma, accorda e solleva,
scorazza e non fugge. Poichè tutto è menzogna nella vita, mentite
voi pure, signora; mentite come mentono il pianto del bambino, che
finge di arrivare fra noi dal cielo degli angeli, e il pianto del
moribondo, che è sicuro di ritornarvi: come la povertà, che ha il
medesimo sole della ricchezza, la ricchezza, che ha le medesime
malattie della povertà; la scienza, che non sa nulla come la
religione; l'arte, che ha tutti i difetti della vita, la vita, che
ha tutte le impotenze dell'arte. Mentite pure se tutto mente; la
gioia, che esagera se stessa per affliggere l'invidia; il dolore,
che si macera per desolare la pietà; la pietà, che offrendosi ad
ognuno, non si dà mai per riserbarsi a tutti; l'imbecillità, che si
arroga i diritti del genio; il genio, che nell'amarezza della
propria vanità si dichiara imbecille. Bisogna pur mentire, signora,
per essere amabili, e lasciarsi ingannare per essere felici. Che
importa la fine? Vi è forse una fine? Riso e sorriso! ma sorridendo,
aprite tanto le labbra, che vi si possa gettar dentro un bacio, e
spalancando le braccia, badate di chiudere gli occhi come la carità,
che è la prima di tutte le virtù. L'elemosina consola più il ricco
che il povero, perchè quegli non dà che il superfluo, mentre questi
non riceve nemmeno il necessario; la fede giova più all'incredulo
che al credente, poichè il primo vede sempre il secondo nella pania
delle sue stesse sciagure; la speranza frutta meglio a chi la dà che
a chi la raccoglie, giacchè l'uno ne è il padrone e l'altro ne è il
servo. Vedete bene, signora, che nella nostra divisione la giustizia
ha dato a voi tutto, e a me solamente il resto, a voi un palchetto
di prima fila, e a me un posto nell'orchestra. E quando voi
apparivate e tutte vi guardavano, io ero laggiù talmente lontano,
che nemmeno il vostro pensiero poteva raggiungermi. Allora non so
cosa mi accadesse nell'anima, ma, come se una bufera mi si
scatenasse nel cervello, mi sentivo dei lampi dentro gli occhi e dei
sibili alle orecchie. Quindi riafferravo disperatamente il violino,
e mentre tutta l'orchestra reboava, e la luce dei mille fanali
sembrava incendiare le decorazioni della scena, solo, senza più
vedere nè intendere ricominciavo delirando a suonare. Nella effimera
onnipotenza di quell'impeto, mi pareva che il mio violino coprisse
tutti gli altri, e le sue note mi turbinassero sulla testa come
tante faville e sopra un vulcano. Ogni crina del mio arco aveva la
potenza di una corda, ogni corda dell'istrumento la sensibilità di
un viscere vivo. Io stesso vibravo per ogni fibra, ma innalzandomi
al disopra di tutta l'orchestra, vedevo la vostra dolce figura
salire sempre più in alto, come camminando la notte per un bosco si
vede la luna scavalcare ad una ad una tutte le cime degli alberi.
Poi la visione mi si cangiava: ero nella tenebra, un vento gelato mi
soffiava sulla fronte, le corde mi si irrigidivano sotto le dita
come le gomene di una nave. L'ultima raffica strappava la vela,
l'ultima onda di canto sommergeva il ponte, l'ultima stella spariva
dietro le nuvole, l'ultima speranza cadeva sul cassero come un
gabbiano sbattuto dalla tempesta nella alberatura: l'ultimo atto era
finito, e la gente se ne andava. Io solo era rimasto nell'orchestra,
voi sola eravate seduta nel palchetto. La lumiera salendo squarciava
il zodiaco dorato. Allora un'orribile tentazione di suonare, perchè
vi voltaste, mi artigliava il cuore: senonchè le dita, raggrinzite
convulsivamente sulla tastiera, non sapevano più scorrere; e voi mi
rivolgevate indolentemente le spalle. Finalmente ero rimasto ultimo
nel teatro, io, che era l'ultimo anche fuori. Essere solo non è
forse essere l'ultimo, come essere primo non significa essere solo?
E questa giustizia mi faceva ridere di un riso muto, di pazzo, che
invece di muovere la bocca agita le mani, e brancola, stritola, coi
polmoni gonfi, il cervello in fiamme, il cuore che gli urla, tutte
le fibre tese, vibranti come tante corde, che si romperanno ad ogni
scoppio, perchè anche le corde si schiantano:
Ah!
La seconda corda si è rotta, ma una suonata come una impiccagione
non si sospende per la rottura di una corda. Poichè siamo soli in
questo gabinetto, restate là, su quella poltrona, ed ascoltatemi. È
notte. Il cielo si è fatto buio come un mare, e silenzioso come un
deserto. Avete mai riflettuto, voi, che sarete stata per tanti il
loro più grande pericolo, ai pericoli del deserto e del mare, dei
miraggi e delle sirene? Eppure nessun miraggio ha il fascino dei
vostri occhi, e nessuna sirena la soavità della vostra voce. Quando
tutti vi hanno detto che siete bella, lo avete saputo solamente
allora, e quindi troppo tardi per ricordarvi dei primi, troppo tardi
ancora per ringraziare gli ultimi? Perchè, se il genio si ignora
spesso, la bellezza si conoscerebbe sempre! Volete che vi descriva
col mio arco, come il pittore lo oserebbe col pennello? Non ho più
che due corde, ma noi pure siamo in due, e se fallo, voi ne avrete
sempre una per sferzarmi, io quell'altra per punirmi. Lasciatemi
provare, e se vi conosco più della gloria, che non ho ancora
raggiunto, non vi dispiaccia di ascoltarmi. I vostri capelli d'oro,
biondi come l'oro della sua aureola, sono più lunghi del mantello
incantato, sul quale essa vola sempre dinanzi agli avvenimenti.
Quantunque neri più che l'ombra di un sepolcro, i vostri occhi
risplendono come una fiamma; nessun fiore è più colorito del vostro
sorriso, nessun frutto forse più sapido della vostra bocca. Leggiera
come una rondine e forte come un falco, il vostro volo ha la grazia
di uno scherzo e l'impeto di una minaccia; ma come l'orizzonte, del
quale avete preso la leggerezza e le nuvole, siete inafferrabile e
mutevole. I profumi vi attirano, i colori vi innamorano: vi ho
veduto sulle vesti tutte le tinte dell'iride, vi ho odorato sulla
testa tutte le fragranze della terra, dai sentori acuti del tropico
agli olezzi morbidi delle serre, dalle essenze sapienti del lambicco
agli olezzi morbidi del deserto. Ho veduto la vostra testa sorgere
da un abito di raso bianco, coi capelli bagnati di stille, che erano
perle, come una rosa delle alpi spunta sulla neve: vi ho veduta più
pallida nel rosso che eccita i tori, più candida nel bruno che
adombra la morte, più florida nel giallo che è il colore della
ricchezza. Ho veduto il vostro collo rifulgere come quello di una
colomba fra i bagliori dei brillanti, e sanguinare come per un colpo
di ghigliottina fra le gocce dei coralli. Talora i vostri abiti
avevano la fluidezza di un velo, tal'altra i panneggiamenti duri del
marmo; il velluto vi cadeva attorno colla pesantezza di un
cortinaggio; la seta vi rideva addosso con una gaiezza scoppiettante
ad ogni più piccolo moto: i merletti vi gettavano un'ombra diafana,
come i loro ricami, sul seno e sui polsi. Quando camminavate, tutta
la vostra persona si animava; i vestiti le si drappeggiavano sopra
con un discernimento da artista; seduta, avevate delle pose da
regina e da tigre, da statua e da sogno. Il vostro piede piccolo, ma
fatto per calpestare tutto ciò che gli altri ammirano, le pellicce e
i mosaici, i fiori e gli affetti, si posava dovunque egualmente
imperioso; la vostra mano, sempre molle e profumata, esprimeva il
torpore terribile di un agguato, come la stanchezza soave di una
carezza: facevate dei dialoghi, che parevano soliloqui: avevate dei
silenzi, che somigliavano ai dialoghi, distrazioni che occupavano
tutti, attenzioni che distraevano ognuno. Ricordo per gli uni e
speranza per gli altri, lodata in pubblico e calunniata in secreto,
amata colla veemenza del corpo che esige e coll'impeto dell'anima
che invoca; secreto che tenta, contraddizione che punge, mistero che
arrovella, eravate allora, come adesso, una eccezione senza regola;
una signora bianca e bionda, nobile e fine, delicata ed
infrangibile, che essendo forse cattiva piaceva a tutti, o essendo
forse buona non soddisfaceva ad alcuno. Le onde della ammirazione
rompendosi incessantemente ai vostri piedi, non arrivavano mai ad
appannarvi la fronte colle proprie spume; l'alcione, che annunzia
con profetica pietà la tempesta, a farvela rivolgere verso i nuovi
pericoli. Quando la bufera di una dichiarazione vi soffiava sul
volto, colla stessa furia del vento lacerando una vela, i vostri
capelli si alzavano appena colla leggerezza di una nebbia dorata dal
sole, e gli ignari credevano che fosse l'alito del vostro ventaglio.
Se la notte aggiungeva la poesia delle proprie tenebre a quella
della tempesta, e i naufraghi guardavano verso di voi coll'ultimo
raggio della speranza, nell'ultima luce del pensiero, il vostro
occhio diventava immobile come una stella, e gli ingenui credevano
che foste distratta. E all'alba, quando tutti questi naufraghi della
notte, che avrebbero dovuto galleggiare cadaveri sulle onde, se ne
andavano tranquillamente nelle lancie, salutandovi da lungi sul
ponte, un sorriso bianco come un lampo vi passava sulle labbra. La
festa era finita, amiche e innamorati dileguavano, e voi ritornavate
sola nel vostro appartamento. Simile agli esuli del genio chiusi nel
loro pensiero, voi passate per la società, velata nella vostra
bellezza, lasciandovi dietro una traccia di profumi e di desiderii.
Tutto vi appartiene. Come per gli idoli dei santuari più celebri,
gli omaggi e i tributi si ammassano sul vostro altare; i fiori della
primavera e i frutti dell'autunno, le primizie del cuore ed i
capolavori dell'ingegno. Ma forse nella vostra alterigia vi pare
soverchia compiacenza lo scegliere, ed accogliete collo stesso
disprezzo l'offerta del povero e del ricco, dell'inetto e del
grande. Inettitudine e grandezza d'altronde sono spesso sinonimi.
Solo la bellezza sempre sentita è sempre ben giudicata. Nell'immenso
lavorio del mondo essa è lo scopo unanime, la speranza di tutti, il
premio di pochi. Per voi, signora, l'uomo, questo lavoratore
immortale, che soccombe sempre e non smette mai, allunga i giorni e
si accorcia all'opera la vita: per voi ha traversato i deserti, o ha
tolto i diamanti alle sabbie, le penne allo struzzo; o è salito fino
al polo e ha raggiunto una volpe turchina per farvene un manicotto.
Per voi nelle fabbriche si storpiano i fanciulli e si estenuano gli
adulti: per voi si tesse il vetro e si solidifica la canepa, si
domano i cavalli e il vapore, si inventano le navi e i palloni, si
forbiscono le parole e le spade, si cesellano le coppe e i pensieri,
si verniciano le carrozze e i sentimenti, si ricamano i metalli e le
liriche. Per voi l'oro diventa un talismano e le gemme tante goccie
di vischio; le nuvole si cambiano in un tulle, i fiori scompaiono
nelle essenze e ricompaiono nella cera; per voi si tempra l'acciaio
e si stemprano i caratteri, l'elefante si lascia sdentare perchè il
suo avorio intarsi l'ebano del vostro letto, le immagini schizzano
dai marmi e si colorano sulle tele, le visioni passano nei poemi e
parlano nelle musiche, la scienza numera, l'arte inventa,
l'industria uccide, la pace snerva, la guerra diserta. Per voi la
storia è una serie di drammi, dove si mutano le parole e durano le
scene, si alternano le decorazioni e si ripetono le catastrofi; per
voi i desiderii piangono come i ricordi, e le loro lagrime grandi
come gli occhi sono più amare di un veleno; per voi le speranze sono
azzurre come il cielo ed agitate come il mare; per voi le gioie sono
più vaste di un desiderio e più labili di una rimembranza, iridate
come una lagrima, pronte come un veleno, piene di canti come il
cielo e di naufragi come il mare. Nella tenda del deserto e nella
casetta di ghiaccio, nel wighwam del selvaggio e nel palazzo
dell'incivilito, nelle foreste dove l'uomo è ancora un animale, e
nelle città dove non è più che una cifra; nella piroga del cannibale
e sul vascello dello scienziato; sulle vette dell'Imalaya, dove non
pascolano che i vapori, e nei cimiteri della storia, dove non
vegliano che le rovine; sotto le fronti contuse dal diadema,
circoncise dalle cesoie, scalpate dal coltello; dentro i cuori che
ignorano, i cuori che apprendono, i cuori che rammentano; sulle
stuoie d'oriente e sui guanciali di occidente, dove l'uomo pensa e
sente, crea e distrugge, voi siete la prima idea e il bisogno
supremo, la voluttà nella vita e l'aspirazione oltre la tomba;
perchè siete la bellezza, e la donna, che è la bellezza della
bellezza, come Dio, è il pensiero del pensiero. E voi siete
dappertutto, vi troviamo dovunque: chine sulla nostra culla o sul
nostro feretro per gettarvi un sorriso; sul nostro cuore ad
origliare, sul nostro pensiero ad aizzarlo; eravate dietro a noi
come una sorgente dietro a un ruscello, ci siete dintorno come la
luce, dinanzi come un mare. Se vi scacciamo per un momento dal
cervello, vi troviamo subito nel cuore; se vi esiliamo dal futuro,
vi incontriamo nel passato; se ci cadete dai sensi come un peso
troppo greve, ci salite nella mente colla leggerezza di un sogno. Il
nomade del deserto scorge i vostri occhi nel miraggio delle sabbie,
il marinaio travede la vostra figura nella bruma dell'oceano, il
modesto vi cerca nella quiete del proprio riposo, l'ambizioso
nell'orgia dei propri trionfi; siete sopra tutti i golgota, a piedi
di tutte le croci, per ricevere il saluto estremo dei santi; in
tutti i circhi ad insultare dai gradini le ultime convulsioni dei
martiri. Voi riempite le Tebaidi di anacoreti e le biblioteche di
libri, la notte di ombre, e i giorni di sogni; vi sdraiate su tutti
i troni e per tutti i fanghi, coprite egualmente di baci tutte le
mani ruvide che eseguiscono e le delicate che ordinano, le forti che
abbattono e le più forti che elevano; abbandonate egualmente coloro
che partono e coloro che restano; generose e crudeli pei vincitori e
pei vinti; lievi come il nevischio e gravi come la valanga, farfalle
nell'aria, lombrichi sulla terra, istinto nel sangue, amore nel
cuore, ideale nella mente. La vostra parvenza azzurreggia nelle
fiamme sulla fucina del fabbro e sul fornello dell'alchimista; passa
come una larva sulla carta, dove il geografo ritrae i lineamenti del
mondo, e dove il generale segna le tappe delle sue vittorie: per
quanto il poeta s'innalzi nel proprio volo oltre i calcoli sublimi
dell'astronomo, è sicuro di rinvenirvi ritta sull'orlo di una stella
coricata indolentemente sullo strascico di una cometa. Perfino il
filosofo, che oltrepassa il poeta di più ancora che non egli lo
scienziato; quest'incompreso che sta nell'incomprensibile, ed è
un'idea che vive nell'idea; che di lassù vede gli avvenimenti della
nostra storia, come di quaggiù l'astronomo vede le stelle;
quest'uomo, che ha obliato tutto il mondo per impararne le leggi, e
non ha voluto sentir nulla per poter pensar tutto, egli pure vi
trova lassù nel sesso di una parola, nella desinenza di un nome, e
riprecipita sulla terra per prosternare ai vostri piedi, che
lasciano l'orma sulla polvere, una fronte, sulla quale le stelle
sarebbero superbe dì comporsi in corona. Voi conoscete il vecchio
emblema del drago che uccide il leone, dell'astuzia che vince la
forza, poichè ve l'ho veduto spesso al dito sopra un anello: e voi
avete sempre vinto, poco importa se la vostra vittoria di donna fu
nell'impedire ad un uomo una nuova conquista del pensiero. Gli
imperi ideali non crollano come gli imperi storici? La tirannide di
una teorica dura forse più che quella di una dinastia, i sistemi
della filosofia più che i trattati della politica, i monumenti della
poesia più che i templi della religione? Se ogni popolo ha il
proprio dio, quante divinità mancano allora nel pantheon delle
mitologie? Se ogni generazione ha un grande poeta, quanti poeti
mancano nella storia della letteratura? Tutto passa, anche il
passato, tutto muore anche i cadaveri: il tempo spiana le ruine, il
vento dissipa la polvere dei sepolcri meglio chiusi, e non resta che
il presente, questo minuto, che cade incessantemente dall'orologio
della eternità, e si colora cadendo come una bolla di sapone nel
sole. Invano chini sull'orlo del mondo tentiamo talora di
sorprendere il suo tuffo nell'oceano delle età, o rientrando
precipitosamente in noi stessi cerchiamo la sua traccia nella nostra
vita; giacchè le ombre non lasciano vestigia, ma l'ombra continua
imputridisce e corrode. Ad ogni attimo, che ci scivola addosso, gli
atomi della nostra esistenza si disgregano, e si separano come tanti
pellegrini ad un crocicchio, alcuni portando seco, attraverso
infinite migrazioni, una scintilla, colla quale comporrano nuove
vite. Avete mai riflettuto come ci salgono nella mente le passioni,
o come ci discendono nel cuore le memorie? Non so, ma parmi che le
passioni sorgano in noi dagli abissi della animalità, mentre le idee
ci colano nel sangue dagli abissi dello spirito. Il cielo non è un
abisso come il mare? E talvolta mi sembrava che il dio misterioso
della creazione mi avesse dalla eternità seppellito nel profondo
della vostra anima, e che a certe ore mi levassi, e per un filo più
sottile del più sottile fra tutti i fili cominciassi la più strana
salita. Nell'ombra cieca di quelle latebre sentivo muoversi una
infinità di ombre, fantasmi forse di vite passate, larve forse di
vite future; ma sulla bocca del pozzo, più lungo che nella più
profonda miniera, la vostra bella testa rutilava in un nimbo di
luce. Salivo. Le mie mani stringevano con una energia inesprimibile
quel filo, che non avrebbero nemmeno dovuto sentire; il respiro mi
si faceva affannoso, gli occhi mi si dilatavano come quelli di un
felino. Le ombre sfiorandomi come per guardare il fortunato, che
montava alle regioni della vita, mi gettavano nell'anima un
raccapriccio senza nome: la vostra luce attirava colla stessa forza
del sole, che raggira i pianeti. Avete mai provato in fondo al cuore
una ondulazione insensibile, un moto lento di spirale, che
s'innalzava sempre colla continuità e colla leggerezza di un'ombra?
Ero io. Alle volte giungevo talmente in alto, che le ombre mi
restavano laggiù sotto i piedi, e passavo fra gli ospiti del vostro
cuore. Erano molti, alcuni li ho poi riconosciuti nella vostra
società. In cima la luce cresceva, e cresceva la bellezza del vostro
viso; l'aria cominciava a discendere satura di profumi, trepida di
suoni. Ma a quella luce la mia corda diventava bionda come un filo
di sole: una volta, che salii fino quasi al cratere, la riconobbi
per uno dei vostri capelli. Però senza che le forze mi mancassero,
quando già ricevevo il bacio dell'aria sulla fronte, e sentivo gli
ospiti del vostro cuore bisbigliare sotto di me come una platea di
spettatori, e colla testa sotto alla vostra stavo per chiedervi in
un altro bacio il battesimo della vita, improvvisamente il vostro
capello si rompeva:
Ah!
La terza corda si è rotta, signora, ma il suicidio è ancora
possibile quando ne resta una. È notte: il cielo è bruno come un
mare e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto che il
silenzio è nero e l'ombra è silenziosa, e quando si riuniscono sul
mondo fanno la notte, quando si congiungono sopra un uomo fanno la
morte? Il vento della sera non soffia più, le stelle hanno
naufragato nelle tenebre, le voci sono sprofondate nel silenzio.
Poichè il mondo si è dileguato, e siamo soli in questo gabinetto,
rimanete ancora per pochi istanti su quella poltrona, ed
ascoltatemi. L'infinito e la eternità ci circondano; il primo è
buio, la seconda immobile. La luce è un moto nella tenebra, il tempo
un moto nella eternità; furono e quindi non saranno, l'infinito e
l'eternità sono. Noi passiamo, voi proseguirete, io mi fermo.
Ascoltatemi. Non ho più che una corda per esprimermi, ma non ho più
che una parola da dire, l'estrema e l'unica, e quando l'avrò detta,
il silenzio non sarà per questo più profondo, nè l'oscurità più
fitta. Non è forse la sola consolazione per chi parte di non
abbandonare alcuno, e per chi muore di non lasciare infelici? Se
così non fosse, il mondo non sarebbe sempre un ululato di funerale,
poichè la morte vi è incessante? Vedete bene che potete ascoltarmi,
signora, se la vostra memoria non sarà nemmeno costretta alla
gentile pietà dell'eco. Sono solo, la mia cuna fu deserta, come sarà
dimenticato il mio sepolcro: non ho che il violino per parlare e il
violino per vivere. Ignoro le sillabe, non so comporre una parola;
le mie sillabe sono le note, le mie parole le battute; i miei
periodi scritti in cifra, come tutti quelli che contengono un
secreto, sono una varietà del linguaggio. L'aristocrazia non è una
varietà in un popolo? Però di tutte le arti la mia è la più
infelice, perchè la più mortale; e mentre di un terremoto restano
almeno le ruine, non un'eco rimane di una grande suonata. Soli di
tutti gli uomini, la nostra vita è un sopravvivere a noi stessi e
alla nostra gloria, che muore posandoci sulla fronte una corona,
della quale i fiori avvizziscono al contatto dei nostri capelli.
Quindi nessun artista desta il nostro entusiasmo, e soccombe più
disperatamente sotto la lapidazione dell'applauso. Io sono solo, non
come voi, signora, che siete sola, perchè siete al disopra, ma
perchè ho il nulla sulla testa e il vuoto sotto i piedi; perchè
cammino e non proseguo, sono partito e non arrivo, creo e non formo.
Il sole della mia vita illumina, ma non riscalda; l'orezzo dei miei
meriggi è senza riposo, come l'ombra delle mie notti senza sonno.
Fra coloro che possono, coloro che vogliono e coloro che sanno, io
solo vorrei quello che non posso, e non so quello che voglio: quando
desidero non mi è lecito sperare, quando spero non desidero più. Il
mio passato non si dilegua, il mio futuro non giunge. Il sorriso
scivola sulle mie labbra, come sulla superficie di un vetro; i
dolori passano dentro il mio cuore invisibili, come i mostri nella
profondità del mare. Le prime illusioni della giovinezza svanirono
come i vapori iridati dell'alba, le ultime illusioni della mia
virilità come le nuvole nella notte. Ma se nella serie drammatica
l'egloga è il vagito, l'idillio il sorriso, la commedia il riso, la
tragedia il rantolo; quattro forme che comprendono tutta la vita,
come le quattro corde del mio violino esprimono tutta la musica:
osservate come il vagito ed il rantolo, il cantino ed il basso, la
corda dello strido e la corda del gemito siano gli estremi della
gamma. L'egloga è il vagito che cerca, l'idillio il sorriso che
trova, la commedia il riso che prende, la tragedia il rantolo che
lascia. Nella commedia la coscienza si eleva sugli altri, e li
ferisce: nella tragedia supera se stessa e si suicida. Così voi,
signora, siete al disopra del mondo, e ne ridete; ma siete al
disotto di voi stessa, e v'ignorate. Ah! non vi lusinghi l'altezza
dello scoglio, e contentatevi della vostra magnifica terrazza piena
di aranci e di magnolie. Sulla cima dell'Etna Empedocle è più alto
di Aristofane sul palco del proprio teatro, ma per discenderne non
gli resta più che gettarsi dentro al vulcano. E vi è una vetta
ancora più alta dell'Etna, alla quale pochi potranno salire, e dalla
quale nessuno può discendere. Di là si scorge la carovana della
umanità passare per il panorama dell'infinito, come una carovana di
camelli nel deserto, atteggiando una labile coreografia di fatti e
di sogni. Quella è la cima del Nirvana, un monte di dolori più alto
del Davalaghiri gettato sul Everest, del Chimborazo gettato sul
Davalaghiri, sul quale la indifferenza sta eternamente. Un uomo solo
vi è arrivato e si chiamava Bouddha; ma noi spiriamo tutti sui
gioghi più bassi della tragedia, mentre egli ci guarda sublime di
insensibilità dibatterci nelle spirali della vita, bambini col riso
convulso di un solletico, uomini col riso straziante di una
convulsione. Egli vede la rivolta di tutti e la rissa di ognuno
contro il medesimo problema; la folla che stramazza nel piano, i
pochi che rotolano dai dirupi, l'arte che soccombe di angoscia, la
scienza che muore d'inanizione, la filosofia che s'inerpica e si
arresta morente ad ogni minuto, la religione che precipita
agonizzante di scheggia in scheggia: mira la rivelazione del nulla,
suprema verità, nelle anime; quelle che si contraggono nello
strazio, che si gelano nell'orrore, che si frantumano nella
disperazione, che si dissolvono nella coscienza del dolore
universale: guata la santa indignazione dei martiri e la collera
virile degli eroi, l'avvilimento contenuto dei buoni e il motteggio
funebre dei tristi, la desolazione incredula di quelli che pregano e
lo spavento credulo di quelli che bestemmiano, quelli che uccidono e
quelli che generano, quelli che nascono e quelli che muoiono; ma di
lassù, dalla cima del Nirvana, nella indifferenza dell'infinito,
dell'assoluto, della insensibilità. Discendiamo, signora, o se ci è
fatalmente conteso, restiamo, voi sul carro di Tespi, io sul Caucaso
di Eschilo: là almeno si ride, qua almeno si piange; ma più in alto,
fra il Caucaso ed il Nirvana, vi è ancora meno aria che fra la luna
ed il sole; un etere sottile, che impedisce la vita e non produce la
morte. Poichè la nostra esistenza è una scala, alla quale rompiamo
giornalmente i gradini, montandoli; e quindi la commedia non può più
discendere fino all'idillio, nè l'idillio sino all'egloga: poichè
non mi è dato invitarvi sulla mia tragica balza, lasciate almeno che
vi miri laggiù in tutta la vostra bellezza di donna, e la vostra
festività di commedia. Sgranate le perle del vostro riso, lanciate i
trilli del vostro canto, vibrate i raggi dei vostri occhi;
moltiplicate il numero delle vostre feste ed aumentatene la pompa;
mettetevi la corona d'oro sulla testa e il manto di porpora sulle
spalle; togliete all'alba i colori e al mare i riverberi, e fatevene
una bellezza, la quale stordisca il desiderio e confuti il paragone,
accechi la memoria ed aromatizzi il pensiero. Solo sul mio dirupo vi
guarderò non visto e non cercato. Nel silenzio della notte, quando i
venti dormivano negli antri e le stelle vegliavano nel cielo, le
oceanidi venivano a frotte sotto lo scoglio, i capelli verdi fluenti
sulle spalle bianche del candore della perla, ed offrivano a
Prometeo il ristoro del loro compianto, la distrazione del loro
chiacchierio. Ma nessuno degli spensierati, che solcano, cantando,
il mare, ha mai diretto la prora verso il mio Acrocerauno. Da molti
anni vi sono solo e ignorato, come le ceneri di Biorn lo scandinavo,
il primo che scoperse l'America, e che i compagni seppellirono sopra
un promontorio di Vinland. Egli il primo era partito per un nuovo
mondo senza sapere quale si fosse l'antico, nè dove giungessero i
suoi confini; la sua barca bruna come il mistero, che affrontava,
aveva tre vele come sono tre le virtù: era leggiera come la poesia,
e piccola come la fortuna di tutti coloro che inventano. Nessuno
sapeva forse del viaggio, nessuno sospettava l'impresa: forse il
capitano non volle nemmeno confessarla, e, issando la vela, credette
di salpare per l'infinito. Ora egli dorme sulla cima di un
promontorio sconosciuto, e l'amante del poeta scandinavo porta il
nome di un mercante fiorentino. E che importa la gloria? Quando le
brezze del mare porteranno su quella cima il fumo delle vaporiere e
le canzoni dei naviganti, il vecchio marinaio non alzerà nemmeno la
testa per rispondere con un sorriso: perchè egli sa da molti secoli
che tutte le navi arrivano al medesimo porto, la morte, e che tutte
le gioie di una traversata non valgono la quiete di un sepolcro.
Rimanti dunque sul tuo scoglio, sublime marinaio! La tua conquista
fu più vasta di quella di Cesare, e ben maggiore il tuo coraggio.
Invano gli uragani, che ti strapparono la vela, volevano farti
piegare la fronte; o i mostri, che addentavano meravigliati la
carena della tua nave, tentavano rattenerla nel suo viaggio fatale.
Ma quando la terra del mistero, lacerando i veli di un mattino,
sfolgorò ai tuoi occhi di profeta, il tuo cuore, che aveva resistito
a tutti i colpi della fortuna, fu percosso mortalmente, e, guardando
la cima più alta di una scogliera, l'additasti ai tuoi compagni di
eroismo: là. E là ignoto così alla patria, che avevi abbandonato,
come all'altra che hai scoperto, senza poesia e senza storia, tu sei
il più grande fra i grandi, se la grandezza di un imperatore si
misura a quella del suo impero, e la statura di un cadavere a quella
della sua fossa. Non hai tu l'America per regno, e l'America per
sepolcro? Io non ho nulla, un violino ed una corda; la ricchezza di
ogni impiccato, un legno ed un laccio. Il vento della notte si è
quetato: sentite come il silenzio pesa nell'ombra, e come l'aria si
è fatta densa. Avete mai pianto, signora? Avete mai fatto piangere?
La ferita che sanguina e il dolore che lagrima, non essendo mortali,
sono quasi sempre curati; ma la scienza non ha rimedi per le ferite
incruente, nè la pietà consolazioni per i dolori muti. Non vi sono
ospedali per i malati dell'anima, non vi sono ricoveri per gli
invalidi del pensiero. Voi siete bella e ricca, nobile e giovane.
Nata nell'accampamento dei conquistatori, sotto una tenda di seta,
siete sempre passata per il mondo nei carri della vittoria. Le
livree dei vostri servitori sono più splendide del mio abito di
rapsodo; i cavalli della vostra calesse avrebbero potuto servire per
la biga di Cesare. Quando, sola o a braccio di qualche principe, vi
chinate a cogliere un fiore del vostro giardino, non avete mai
pensato che centomila povere donne errano pei campi cercando un filo
di gramigna, o frugano coll'unghia la terra per scovarvi una patata.
Buona come tutti quelli, che ignorano, siete naturalmente
insensibile come tutti quelli, che non hanno sofferto. Il vostro
appartamento è ammobigliato come la più doviziosa fantasia di poeta:
il vostro cuore è gremito di una folla sfarzosa come un teatro.
Qualche volta vi sono entrato, ma come uno straniero, al quale la
volgarità dell'abito non attirava nemmeno l'attenzione; e ne sono
uscito poco dopo come uno straniero che non aveva amici fra quella
folla. Sempre che v'incontro, mi pare che voi passeggiate per il
mondo, ed io vi viaggio col violino sul dorso, facendomene il giorno
un istrumento per vivere, la notte un guanciale per dormire. Nato
fra gli schiavi, mi toccò l'ufficio anche più miserabile di
divertire i padroni con la musica, come le schiave mie sorelle con
la loro bellezza. Esse mi ammirano e mi disprezzano, io non li
disprezzo e non li ammiro. Fra lo scoppio degli applausi non sento
mai una voce che mi parli, nelle sospensioni più anelanti del
silenzio non veggo nessun volto, che mi comprenda; i fantasmi delle
mie musiche traversano invisibili le sale, e si perdono al di fuori,
nella notte, come una processione di defunti. Quanti ne avete
contato, signora, questa sera? Forse uno, forse meglio nessuno. Un
solitario non è forse un incompreso, altrimenti perchè sarebbe
solitario? Nullameno il mio braccio non fu mai più potente, nè la
mia anima più commossa. Avevo ancora una speranza nel cuore, povera
ammalata, alla quale non aveva giovato il sole di nessun clima e la
brezza di nessun mare, e che è morta di freddo, come muoiono tutti
gli ammalati. Avete sentito l'ultimo rantolo della sua voce,
l'ultimo sguardo dei suoi occhi? Essa è morta in questo gabinetto,
mentre voi non l'ascoltavate nemmeno morire! Ascoltatemi dunque -
Addio, ultimo vapore del mare disseccato, ultimo rumore della terra
deserta. Figlia della fede, che illumina, e della carità, che
riscalda, tu sei morta nelle tenebre, come la fede che è una luce, e
nell'acqua, come la carità che è un fuoco. Che avresti tu fatto
nella solitudine del mio pensiero, che avresti tu detto nel silenzio
del mio cuore? Addio dunque, figlia primogenita dell'ideale, sorella
cadetta del dolore. Il cielo è nero, il tempo è freddo. Dove vuoi tu
che ti seppellisca? Nel deserto, il Simoum verrebbe a scoprirti,
dopo che le sabbie avrebbero corrosa la tua bellezza di morta: nel
mare, sei troppo leggiera, e galleggeresti eternamente alle pioggie
ed al sole. Poichè non ami più il canto degli uccelli e il profumo
dei fiori, l'oasis non ti è sepolcro conveniente: e giacchè sei
morta per tutti, il mausoleo dell'arte coi suoi cadaveri di marmo
non potrebbe ricordarti a nessuno. Nullameno mi bisogna pur
seppellirti. Se il cielo non può ricevere il tuo spirito, perchè tu
eri una virtù della terra, e la terra non può ricevere il tuo corpo
di vapore e di luce, ti depongo sotto questo boabab antico, e ti
abbandono. Dormi adunque in pace, tu, che vegliavi anche nelle mie
notti; riposa dunque nel sonno, tu, che non eri mai stanca. Addio
per sempre. Addio, speranza, che salisti per tutte le sfere della
vita; addio, granito, che diventasti terra; terra, che diventasti
fiore; fiore, che diventasti colomba; colomba, che diventasti donna:
addio, donna, che fosti rassegnazione; addio, uomo, che fosti
costanza; addio, amore, che fosti generazione; addio, generazione,
che volevi essere immortalità; addio, speranza, che sei vissuta e
sei morta, sei morta e non risorgerai. Senza lagrime, perchè le
lagrime sono dei fanciulli, e tu sola in me sapevi piangere: senza
lamenti, perchè i lamenti non erano che l'espressione della tua
impazienza, e adesso sei paziente, perchè sei morta, ti depongo qui
nell'abbandono. Addio, passato, che dilegui; futuro, che dissipi;
presente, che ti risolvi. Addio, speranza; addio, mamma della mia
morte; addio, figlia della mia vita. - Adesso il mio strumento non
ha più che una corda, e la mia vita un giorno; però se si romperanno
ad un tempo, la corda farà forse più rumore della vita. Tutto è
finito, vi ho detto tutto; e voi non potete aver compreso. Forse se
sapeste che la mia vita è sospesa a questa corda, e che io stesso
col coraggio del giustiziato, il quale accelera il proprio
supplizio, l'ho tentata con tutti gli sforzi; se poteste sentire
come cede, e cosa dicono i suoi stridori, e cosa tace il mio
silenzio: se in quest'ultimo minuto, coll'audacia di chi ha davanti
a se stesso l'eternità, solo, nell'ombra che è già la morte, e nel
silenzio che è già l'oblio, vi urlassi la mia indicibile parola,
rompendo nel suo singulto la corda:
Ah!
E la corda si ruppe con uno schiocco violento. Egli alzò la testa,
che teneva piegata sulla tastiera, e lasciandosi cadere l'arco con
un gesto trasognato, andò lentamente ad abbattersi sopra una
poltrona.
La notte era buia, il gabinetto era nero.
Allora la signora, levandosi adagio, venne ad appoggiarsi come una
visione alla spalliera della poltrona. Una pallidissima aureola
bionda parve tremarle sulla testa. Poi si chinò sopra di lui colla
lentezza di un'ombra, s'intese un soffio, e l'aureola si spense.
VIOLA
Ero solo.
Nel salone, immenso come tutti quelli dei palazzi antichi ed
illuminato da tre lumiere di Murano vecchio, cento fiammelle di gas,
al posto delle candele, aprivano le grandi ali di farfalle
riempiendo tutto l'ambiente di un chiarore bianco e crudo. Le spalle
delle signore e le camicie degli uomini avevano un riverbero
marmoreo, una tinta unita e fredda, che respingeva gli sguardi. Il
salone era rosso, i mobili dorati. Un odore sottile, che le sottane
delle signore agitavano come un vento, pareva alzarsi dai fiori del
tappeto, che lo scalpiccio di tutti quei piedi non poteva avvizzire.
Benchè animatissima, la festa non era che al principio; molte
bellezze nubili vi sfolgoravano, ma si notava ancora l'assenza di
due o tre glorie del matrimonio, solite ad arrivare sempre le
ultime, o per un calcolo sapiente di civetteria, o per
quell'orgoglio dei sovrani di non apparire tra la folla, se non
quando questa prova finalmente il bisogno di un capo, e di andarsene
quando comincia a perderne la coscienza. Il valtzer, precipitando in
una ripresa piena di scoppi, aggirava tutta quella massa silenziosa
di ballerini, che abbracciati senza guardarsi nemmeno, si parlavano
forse con una quantità di piccole strette. E solo, sopra un divano
dominato da una mensola carica di fiori ed avvolto quasi fra il
panneggiamento di una tenda damascata, la quale sdraiava sul tappeto
una magnifica frangia tutta ad ovoli e a fiocchi, io guardavo.
Donna Augusta lasciò il proprio ballerino ad un'altra signora, e
venne a cadere quasi stancamente sul mio divano. Era vestita di
nero, nuda le spalle, con uno strascico leggiero come una nuvola e
lungo come quello di una cometa. Alcuni grappoli di bacche rosse,
colti come lì per lì ad una siepe, le disegnavano le pieghe
dell'abito, stirandolo alle ginocchia e rialzandolo ai fianchi per
formare la caduta della coda, dalla quale spuntava la trina di una
sottana, diafana e bianca come un merletto di galaverna; mentre un
grossissimo corallo brillantato le faceva sulla nuca da capocchia
all'anellone delle treccie nere, e un'altra collana di coralli della
più bella tinta sanguigna, un rosario di sangue, le ravvivavano il
candore del seno, umido in quel momento come il marmo di una chiesa.
Ella s'abbandonò sulla spalliera, percuotendosi il mento colle piume
nere del ventaglio, sospeso alla cintura per una minima catenella
d'oro. I monili delle sue braccia, formati da tante pallottole di
corallo infilate in un cordoncino di seta, si urtarono con un suono
sordo di gragnuola; e il brillante, che incappellava il perno del
ventaglio, le gettò nell'ombra della mano un balenio labile ed
acuto.
- Pensate forse all'ode di Byron sul ballo, voi, che non ballate
come lui? - mi si rivolse improvvisamente con uno dei suoi moti più
vivaci, che parevano sempre seguitare un discorso.
- No.
- Siete funebre: davvero che il vostro abito nero, come dice Musset,
pare un abito da lutto.
- In questo caso le bacche del vostro potrebbero essere goccie di
sangue. Avete ucciso qualcuno con una parola o con un sorriso?
- Ah! - esclamò - passarono quei tempi. La tragedia è stata espulsa
contemporaneamente dal teatro e dalla vita; la commedia trionfa
dapertutto. Le passioni oggi sono ridicole, i capricci appena
tollerati, purchè brevi. Voi altri uomini non amate più, cercate di
scegliere: noi...
- Di preferire.
- Se fosse possibile, benchè sia quasi sempre troppo faticoso.
E si gettò addietro in una posa, che diede una mollezza di più alla
sua lassitudine. Poi girò l'occhio sulla folla, e, cogliendo a volo
l'attitudine goffa di un ballerino, me l'accennò con un sorriso. Era
allegra; le spalle, alzandosele ancora nelle ultime violenze del
respiro, le facevano aprire la bocca e mostrare due file di denti,
bianchi come quelli di un cagnuolo. Ad un tratto mi si appressò, e
piantandomi negli occhi i suoi occhi verde-mare, pieni di ombre e di
guizzi:
- Se indovino me lo confesserete? datemi la vostra parola. Voi
cercate un romanzo.
- Piccolo.
- Una novella allora.
- Ma che lo fosse davvero.
Ella alzò le spalle alla freddura.
- L'avete trovata?
- Sapete bene che cercando non accade mai.
- Lo so - rispose con un'inflessione quasi grave nella voce. Quindi:
- Lieta o malinconica?
- Mi è indifferente.
- E il titolo l'avete?
- Sì.
- Quale?
- La Viola.
- Mio Dio, è un po' fuori di stagione: mutiamo fiore.
- Impossibile, perchè è un istrumento.
- Ma se non conoscete la musica!
- E quindi me ne occupo per non essere un'eccezione.
- Come la volete lunga?
- Quanto un capriccio.
- Bella?
- Altrettanto.
- Allora vi contentate di poco: i capricci non sono belli che prima
e dopo.
- A rovescio delle commedie, che non divertono se non
negl'intervalli: la solita differenza fra l'arte e la vita.
- Quanti personaggi?
- Pochi, uno per corda basterà.
Ella sorrise.
- Sapete che mi divertite!
Io m'inchinai al complimento, ed ella proseguì:
- Ditemi almeno che cosa ne farete?
- La metterò fra altre tre, Violino, Violoncello e Contrabbasso,
dentro un libro.
- Che naturalmente chiamerete Quartetto.
E si distrasse ancora.
- Voi, che ve ne occupate come romanziere - mi si rivolse gravemente
dopo qualche minuto - avete ancora trovato un amore vero, di quelli,
che uccidono per forza propria, e non per una circostanza drammatica
ed esterna? Nel nostro secolo si ama poco, nella nostra classe non
si ama più. Guardate questa folla; le signore sono slavate, gli
uomini volgari. Se, ripetendo il celebre scherzo di Locke,
applicassimo il fonografo a questo salone, e potessimo leggere
domattina le conversazioni di questa notte, forse capiremmo anche
meglio il perchè di questa osservazione, diventata quasi impossibile
a forza di essere comune, che nella nostra classe non si ama più.
- Di chi la colpa?
- D'entrambi; di noi signore, che non sappiamo più ispirare; di voi
altri signori, che non sapete più sentire. La nostra bellezza, che
era delicata, si è fatta fievole; la nostra anima leggiera divenne
futile. L'estrema volubilità della moda ci assorbe tutto il tempo,
giacchè usciamo di casa due o tre volte al giorno, e dobbiamo
improvvisare almeno sei abiti per stagione. Quindi la nostra vanità
è senza requie, ed oramai senza soddisfazione. Vedete: oggi non vi è
quasi più differenza di classe; la moglie dell'affittaiuolo veste
come la moglie del principe che affitta; sono state educate nel
medesimo convento, si servono della medesima sarta e delle stesse
beneficenze. Le carrozze cominciano ad essere senza stemma, come le
carte da visita, come le livree senza galloni, i guardaportoni senza
mazza. I saloni per riempirsi hanno dovuto spalancare porte ed usci
alla folla promiscua dei teatri; quindi nessuno vi dominò più. Le
grandi dame ricusarono di sgrossare gl'invitati ben ricevuti e mal
graditi, e trovarono più superbo il deriderli segretamente,
subendoli in pubblico; le piccole signore vi continuarono le
intimità del collegio, i borghesi vi raccolsero i rimasugli delle
antiche buone maniere, e se ne decorarono; i popolani arricchiti,
più rozzi e più forti, vi perdettero la loro forza originale ed il
loro danaro acquisito. Le loro figlie sposarono i nobili decaduti o
derubati; i loro figli si abbeverarono di umiliazioni, ed impararono
a scrivere firmando le cambiali di coloro, che sulla onorabilità già
offuscata del proprio nome li introducevano nelle case patrizie,
dorate dall'oro antico ridorate dall'oro moderno. Una volta il
salone era come una scuola superiore di buon gusto, l'anticamera
dell'accademia per i letterati, o del parlamento per i politici: gli
artisti vi arrivavano trionfando, il danaro redento da una
prodigalità sontuosa e benefica. Oggi non è più nulla: vi si parla
poco, vi si ama punto. Guardate: in tutti i saloni si giuoca; ma non
ai giuochi d'azzardo, dove le maniere si formerebbero ancora nella
necessità di mentire la propria forza o la propria fortuna, sibbene
a bezigue o a picchetto. La bigotteria legittimista o mazziniana ha
tolto lo spirito di una volta alla galanteria, la sincerità alla
frivolezza: non si confessano più gli amanti, ma si palesano; lo
scandalo, che spesso era la rivelazione di una bella originalità, e
quindi accolto col sorriso, oggi è implacabilmente scacciato: e nel
secolo, dove il matrimonio fu proclamato un contratto, e i principi
del sangue in esilio sposano le figlie dei biscazzieri, non si
permette più ad una signora di darsi per nulla, ad un uomo di
offrirsi per intero.
E un sorriso di leggiera ironia chiuse questa maschia invettiva.
Donna Augusta si raccolse un momento, quindi seguitò senza darmi
tempo di rispondere:
- Che cosa venite a fare nella nostra società? Voi non avete le
qualità necessarie per descriverla: non vedete come tutto vi è senza
fisonomia, faccie e discorsi, azioni e sentimenti? Non vi è più nè
una bella donna, nè un gran gentiluomo. Ieri un duca ricusava di
battersi con un deputato, adducendo per pretesto la religione, come
se il duello, invenzione cristiana, non fosse sempre stato un
privilegio dell'aristocrazia. A questa festa non si è osato
d'invitare la marchesa ***, perchè fuggita dal marito, e i giornali
ne hanno parlato. Guardate in tutta questa folla; non vi è nè un
poeta, nè un artista, nè un filosofo, nè un uomo di stato. Individui
senza nome proprio, nè di famiglia, sono ammessi e fanno la legge;
perchè oggi col suffragio universale la legge è il numero;
l'aristocrazia non osa più essere se stessa, la borghesia, che ha
conquistato il pensiero e il denaro, non è ancora arrivata a
preferire quello a questo; invidia i nobili, che ha sconfitto e li
scimmieggia; ne questua le parentele, ne mendica gl'inviti. Se
domani la plebe facesse una rivoluzione, i banchieri del nostro
secolo non saprebbero morire come i baroni del secolo passato; la
religione non ha più nè un apostolo, nè un pensatore; la politica un
riformatore od un tiranno. Non sorridete: bisogna bene che anche noi
donne impariamo a fare un discorso, adesso che si sta discutendo la
nostra capacità elettorale in parlamento. Sapete perchè
l'aristocrazia non ama e non lavora, la borghesia lavora e non ama,
la plebe ama e lavora? Perchè l'aristocrazia è morta, la borghesia è
moribonda, la plebe è giovane, ed ha ancora davanti a sè un
avvenire.
- Siete anche voi del partito di Schopenhauer come le signore
tedesche: l'amore è il veicolo della vita?
- Forse meglio, la vita stessa: chi non vive non può amare, perchè
non ha nulla da trasmettere.
- Così votereste per la repubblica.
- Giammai, è una forma antiquata. Tutte le repubbliche, che hanno
vissuto, furono oligarchiche, le moderne non vivranno. In America,
osservate, è appena l'amministrazione di un'immensa colonia; in
Francia, un interregno; in Isvizzera, una parrocchia. Roma ha
conquistato il mondo, Venezia raccolse la tradizione di Roma: Victor
Hugo con tutta la enormità del proprio ingegno non ha potuto nemmeno
rendere commovente l'agonia della seconda repubblica francese:
Gambetta colle sue spalle da Ercole non sosterrà la terza. Solo la
Comune ha saputo morire come Sardanapalo; e, quando si muore così,
si rinasce.
- Forse.
- Perchè in basso, al disotto di noi, che viviamo di tradizione e di
etichetta, di lusso e di incredulità, la plebe crea ad ogni attimo
il proprio presente, lavora per tutti e crede in se stessa. Come non
crederebbe nel moto essa, che è il vapore? Talvolta, sola in
carrozza, mi diverto a confrontare le figure che incontro. Quale
differenza fra coloro, che ordinano, e coloro, che ubbidiscono! Noi
signore, colla personcina esile e la pelle bianca per difetto di
sangue, non avremo mai figli capaci di lottare coi discendenti delle
popolane dalle carni bronzine e le spalle poderose. I nostri figli
non montano nemmeno più a cavallo, non tirano di scherma. Evitano
l'università, perchè vi troverebbero negati i loro privilegi, mentre
i borghesi vi studiano tutte le scienze per dominare fra il popolo.
Ma neppur essi vinceranno. Noi avevamo un principio ed eravamo un
tipo: accampati sulle rovine dell'impero romano, dovevamo mantenere
la disciplina nei barbari vittoriosi, e ripigliare la civiltà dai
vinti: e l'abbiamo fatto. Quando l'aristocrazia sentì scemare la
propria efficacia nel popolo, si condensò e produsse la monarchia:
noi abbiamo durato qualche cosa come una dozzina di secoli, il mondo
moderno è l'opera nostra. Ma la borghesia nata nell'ottantanove è un
assurdo. Noi avevamo diviso il mondo in due classi, ufficiali e
soldati: essi vi hanno aggiunto quella dei fornitori, e vorrebbero
che il loro denaro valesse come il sudore dei soldati e il sangue
dei generali. Perchè terzo stato? Perchè non il quarto, il quinto,
tutti gli altri, sino a tornare nell'antica divisione, da un canto i
lavoratori delle braccia, dall'altro quelli della testa? Se noi
fummo qualche volta la rapina, essi sono il furto; se noi fummo la
violenza, essi sono la frode; se noi fummo la distruzione, essi sono
la fame. Ma noi almeno eravamo belli. Paragonate, voi artista, i
nostri palazzi colle loro case, le nostre chiese coi loro teatri, il
nostro onore colla loro probità. Voi sapete che il genio non può
mentire, perchè la menzogna è un'infermità. Ebbene, confrontate le
nostre letterature: per i nostri ritratti occorrevano dei Dante e
degli Shakespeare, mentre per loro oggi bastano dei Flaubert e dei
Zola. La superiorità dell'artista non è solo nell'ingegno, ma nel
modello: la scultura greca è più bella della nostra, perchè i Greci
erano più belli di noi come popolo.
Ma in quel momento cominciava una quadriglia, e il ballerino venne
ad inchinarsi davanti a Donna Augusta. Era un bel giovane biondo,
dalla fisonomia signorile e macilenta. Donna Augusta me lo mostrò
con un'occhiata, quasi a commento delle proprie osservazioni, e
levandosi con grazia inimitabile mi gettò in un sorriso la promessa
di ritornare. Rimasi solo, ancora nel turbine di quella sua
conversazione. Non era strana, perchè conoscevo Donna Augusta da due
anni, e le avevo già scoperto sotto l'apparente frivolezza della
vita un colto ed originale talento di pensatore. Come si facesse a
legger tanto, e ad aver tanto imparato, era un mistero: ma ella era
al corrente di tutto, dell'ultima moda e dell'ultimo libro. Fra
gl'inglesi preferiva Carlyle, fra i tedeschi Stirne. Però nei
circoli eleganti nessuno lo sospettava nemmeno: ricordavano ancora
la sua celebre avventura, un romanzo a mille variazioni, con un
illustre defunto, al quale era mancato il tempo per diventare un
grand'uomo, un deputato morto alla sua prima campagna come Hoche; ma
i più la credevano una delle solite signore, che hanno imparato le
lingue estere dalla governante, e sanno suonare passabilmente il
pianoforte. D'altronde un piccolo difetto confermava il pubblico in
questo giudizio. Donna Augusta rideva sempre. Era un sorriso
nervoso, che le increspava la piccola bocca ad ogni minuto, dinanzi
a tutti: un sorriso, che era forse una timidezza sopra tutta
quell'audacia, un impaccio invincibile nella sua insuperabile
disinvoltura.
In quel momento Donna Augusta ballava la quadriglia con tutta la
foga di una giovinetta e la voluttà educata di una gran signora. Il
ballerino, porgendole la mano, le diceva sempre qualche motto, al
quale ella rispondeva con un sorriso, torcendosi lo strascico
intorno agli stivalini, alzandosi sopra la sua onda nera colla
grazia di un'ondina e gli atteggiamenti labili di una visione.
Quindi, incrociandosi colle amiche, alitava una parola nel loro
cicalio profumato, o coglieva a volo tutte le risorse di una posa,
distribuendo i favori di un gesto, accettando gli omaggi di uno
sguardo. Il suo abito nero fra tutti quei cilestri e quei rosa era
di un effetto quasi eccessivo, di un risalto, che le attirava
involontariamente tutte le occhiate e il peso di tutte le
osservazioni. Poi mi distrassi, e le sue ultime parole mi
risuonarono ancora all'orecchio nella loro stravagante verità. Era
forse la prima volta in un salone, che una signora osasse non solo
pensarle, ma dirle. Infatti quella festa, colla sua allegria di
veglione e la sua famigliarità di club, era brutta: le signore
parevano tanti figurini di moda, gli uomini tanti camerieri. Il
salone enorme colla volta dipinta dagli Zuccari, i cornicioni
frastagliati, i mobili dorati, le porte scolpite, faceva pensare ad
un'altra gente, ad altri costumi, quando le dame erano in
guardinfante, ed i cavalieri in cappa. Pochi ufficiali facevano
tintinnire le rotelle degli speroni, poche gemme rutilavano fra
quella confusione di colori. Gli uomini vestiti di nero formavano
una cintura funebre intorno al gran quadrato della quadriglia, come
intorno ad un catafalco: le signore stecchite, come tanti manichini
entro le loro corazze di seta, non agitavano che la testa, un viso
di bambola, cogli occhi lucidi, la bocca rosea, le spalle acute, il
seno pallido. E movendosi con una compostezza automatica formavano
certe figurazioni incomprensibili, aggruppandosi e sciogliendosi
mutamente, in un ballo senza musica e senza danza, l'ultima
goffaggine del sussiego, l'ultima creazione dell'impotenza.
Donna Augusta mi passò vicino.
- Ceneremo assieme: fate preparare.
Ubbidii.
Quando la quadriglia fu terminata, un cameriere ci aveva già
disposto dinanzi un tavolino nero, grande quanto un bacile, con due
piatti.
- Portatemi dunque dell'acqua - ella ordinò. - Ancora un sintomo; io
sono astemia, il vino è troppo forte per noi.
- Ecco che negherete pure il vino dell'aristocrazia.
- Sicuro! - insistè con uno scoppio del suo sorriso.
- Ad un'aristocrazia, che ha avuto una parte così brillante nella
nostra rivoluzione!
- Ricasoli ha inventato il Chianti.
- Siamo giusti: contiamo, sono molti: Cavour, Manzoni, Niccolini,
Leopardi, Mamiani, Cibrario, Sclopis, Manin, D'Azeglio, Lamarmora,
Pallavicini, Capponi, Dandolo.
- Questi sono i nobili: potreste contarne altri, ma sarebbero ancora
individui. Anzitutto la nostra non fu una rivoluzione: una
rivoluzione è un'idea nella storia della umanità, la nostra fu un
fatto. Per parlare di aristocrazia, l'Italia ne aveva tre: una a
Torino, una a Napoli, una a Roma. Quella di Torino si è battuta per
il re, come se si trattasse di una conquista, e non era che una
egemonia; quella di Napoli lo ha abbandonato nella sconfitta, come
ha fatto quasi sempre per tutti i propri re; quella di Roma, la più
grande, che avrebbe potuto essere un'oligarchia, perchè in ogni
famiglia vi è ancora una tradizione di regno, non ha capito nulla, e
non si è mossa. Nessuno dei nobili, che mi avete citato, rappresenta
la propria classe, come da Chateaubriand a Montalambert in Francia
gli scrittori aristocratici rappresentano la propria. Solitari nello
studio, volontari nella rivoluzione, come la chiamate voi.
L'aristocrazia è morta, osservatevi intorno.
- Questo è il suo funerale - dissi ripreso dalla mia idea.
- I perduti non ne hanno: essa è rimasta addietro nella storia, come
un reggimento di veterani in una grande marcia sforzata. Almeno
avesse avuto una Beresina!
- Le occorreva un Napoleone.
- Ogni avvenimento si proporziona i propri uomini. L'aristocrazia
non ha avuto un generale, perchè non era un esercito; un uomo
politico, perchè non era una classe; un oratore, perchè non era un
sentimento. Se l'aristocrazia non fosse stata morta, avrebbe dovuto
capitanare il moto della penisola, essa, che avanti di ogni altro
poteva avere il senso dell'unità. Prima che Mazzini predicasse la
fratellanza fra le provincie italiane e la insegnasse nelle
congiure, un marchese di Napoli e un barone di Torino erano già
fratelli, perchè erano uguali. Il privilegio serviva loro di unità.
Bisognava che l'aristocrazia italiana dopo il primo regno italico
avesse aperto gli occhi, e, presentendo i nuovi tempi, vi si fosse
acconciata, acconciandoseli. In nessuna nazione del mondo la nobiltà
è numerosa e storicamente importante come in Italia: ogni città di
provincia conta ancora la propria dinastia. Tutto era possibile ad
una classe, che avrebbe avuto per sè le campagne, e non avrebbe
avuto contro nessuna altra forza di ricchezza, perchè la gente
industriale non era ancora organizzata. La borghesia rivoluzionaria,
una avanguardia di scienziati e di poeti, affamata di libertà,
febbricitante di entusiasmo, ma in fondo ammalata di vanità come
tutti gli eroi, si sarebbe battuta furiosamente sotto la nostra
bandiera, perchè non avremmo avuto che ad aprire le nostre fila, e a
decorare coi nostri titoli i suoi più illustri capitani per
mantenerle la disciplina, e toglierle ogni voglia di ribellione.
Allora non vi sarebbero stati che due soli interessi in azione:
quello del popolo, che è il benessere materiale: quello
dell'aristocrazia, che è il benessere intellettuale. Invece si unì
coi preti, e credette di impedire la rivoluzione disprezzandola:
doppio errore, che produsse due deformità: il clericalismo, che si
batte oltre i confini della religione; il legittimismo, che si batte
entro la piccola cerchia monarchica per difendere nel re i propri
minimi privilegi di cortigiano. Ah! è sempre stato il mio sogno.
- Il vostro sogno di gloria e di amore.
- Noi avremmo oggi un senato più numeroso della camera, pieno di
grandi nomi e di uomini superiori; amministreremmo tutto il paese, e
non vi sarebbero ladri nell'amministrazione; serviremmo
nell'esercito, e i nostri contadini si batterebbero come leoni col
loro signore alla testa. Avremmo un re, che sarebbe nostro pari,
come un presidente repubblicano è pari con tutti i cittadini; tutte
le glorie e tutte le grandezze, anche il papato, che avremmo
subordinato alla patria, come fece sempre Venezia. Ma Venezia era
un'oligarchia, e l'oligarchia è la nobiltà nel patriziato. Invece
abbiamo degli ufficiali, che si arruolano per trenta scudi al mese;
dei deputati, che speculano sul loro mandato; dei consigli comunali,
che sono camorre; dei saloni, i nostri saloni, che paiono sale
d'ospedale, dove si raccolgono tutte le anemie del corpo e le tisi
dell'anima. Confessate, voi, che non avete la goffaggine di essere
uno dei soliti liberali, che era un bel sogno!
- Bello come l'impossibile, che è la grande tentazione dei tiranni e
delle donne. E voi adesso, invece di essere qui, sareste a Roma, nel
vostro palazzo che sarebbe una reggia, più regina della moglie del
re, perchè l'impero della donna è di inspirazione e di influenza, e
bisogna essere unicamente donna per averlo. Madame Recamier ebbe un
impero ben più vasto di madama Staël. Come le principesse del
rinascimento avreste la vostra corona di poeti e di scienziati, di
politici e di capitani; sareste un idolo ed un oracolo; gentile come
Lucrezia Borgia e terribile come Caterina Medici, riverita come
Vittoria Colonna e amata come Imperia. Il vostro salone sarebbe un
olimpo, il pantheon di tutte le grandezze, il tempio di tutte le
glorie. Avreste le spade di Vittorio e di Garibaldi nella stessa
panoplia, le bandiere della Cernaia e di Montevideo, di Goito e di
Calatafimi nello stesso trofeo. Nel vostro circolo avrebbero
discusso Curci e Gioberti, Cavour e Mazzini, e verrebbero adesso a
stringersi la mano papa Pecci e re Umberto, mentre Morelli vi
cercherebbe una testa di madonna, Boito penserebbe al suo Nerone,
Carducci ad un'ode pagana, e Vera, il grande hegeliano, mostrerebbe
ad Ardigò, il nuovo positivista, il trionfo del proprio sistema sul
vostro, la necessità dei contrari e la loro fusione.
Ma ella non mi ascoltava nemmeno. Si era abbandonata nuovamente sul
divano, la faccia immobile in un pensiero. La eletta e delicata
vigoria del suo corpo si esprimeva in quell'attitudine con una
potenza, che faceva ricordare il sublime ritratto di Agrippina; ma
il suo viso più corretto nelle linee si dilatava alla fronte per una
più vasta vita cerebrale. I suoi occhi, grandi e tagliati a
mandorla, avevano una profondità dolcemente appannata, come a certe
ore del mattino l'aria vela tremolando la cavità di una forra. Le
sue spalle erano larghe e il suo seno ampio, benchè la cintura le
serrasse troppo la vita, divenuta eccessivamente sottile sotto la
pressione continua della moda. A che pensava in quel momento donna
Augusta? Le dicerie sulla sua relazione con quell'illustre defunto,
che l'Italia ha già dimenticato, e che passò attraverso il
Parlamento come una cometa fra una folla di astri minori, mi
ritornarono allora nella memoria. Quelle idee, frammenti di un
antico mondo, colle quali uno spirito audace aveva forse sognato di
ricostruirne un altro, e che ella gettava alla rinfusa contro la
società moderna, come un grande artista si divertirebbe amaramente a
scagliare negli ornati gessosi dei nostri edificii i rottami di un
antico cornicione in terra cotta, mi parvero come le reminiscenze di
un amore sconosciuto fra due grandi anime, le strofe mutilate di un
poema rimasto inedito in un secolo, che non sente più l'epopea. Ella
me ne aveva discorso altre volte, ma come per incidente, vibrando il
bagliore di un'osservazione nel crepuscolo brumoso delle solite
conversazioni. In quel momento ella aveva forse abbandonato la
festa, e vagava come uno spirito, che non ha ancora potuto morire,
per un cimitero silenzioso. La sua fronte troppo vasta per una
donna, e che ella, malgrado le esigenze della moda, mostrava sempre
nella sua orgogliosa nudità, aveva l'arditezza di una cupola gettata
sopra un tempio; mentre il suo candore, che aveva resistito a tutto,
pareva come la casta ragione del suo orgoglio.
Gli invitati sparpagliati per l'immenso salone, a gruppi, presso un
divano, intorno a una poltrona; le signore sedute, gli uomini quasi
tutti in piedi rumoreggiavano fra un tintinnio di piatti e di
bicchieri, di posate e di risa; intanto che i camerieri,
superbamente gallonati, passavano e ripassavano fra di loro come
tanti dignitarii in mezzo ad un popolo. Per un momento, colle
signore nascoste da tante cinture di uomini e che non mostravano se
non una macchia stuonata dell'abito, il salone mi parve come una
enorme tavolozza, sulla quale aspettassero dei mucchi giganteschi di
colori. Sebbene il vento circolasse liberamente dalle finestre
aperte, l'aria troppo satura di profumi s'aggravava sul respiro, e
le cento fiammelle a gas vibravano un calore accecante di meriggio.
L'animazione della festa era al colmo, i fiori cominciavano ad
avvizzire, la musica taceva, i discorsi si alzavano stormendo con un
suono secco di pioppi. Lo scoppio di una bottiglia di champagne
tuonò.
Donna Augusta mi guardò. Mi affrettai ad alzarmi, e, inchinandomele
senza dir altro, le offersi il braccio. Ella mi guardò ancora, e si
levò. Traversammo quasi inosservati il salone: nell'anticamera le
avvolsi intorno al petto uno scialle chinese, miracolo di
un'industria, che vanta forse trenta secoli di studii e di
progressi; ella mi lasciò fare, se ne accomodò i capi sulle braccia,
stringendoselo con una sola ondulazione su tutta la persona. Si
assicurò in una mano il mazzo dei gelsomini, il ventaglio
nell'altra, quindi rivolgendomi il capo respirò potentemente l'aria
più fresca dell'anticamera.
- Grazie - mi disse poi, infilandomi da se stessa il braccio per
discendere lo scalone.
Io non risposi.
Il servitore gallonato, che aspettava all'ultimo pianerottolo, ci
riconobbe e corse a chiamare la carrozza. Era scoperta: non dovemmo
attendere neanche un minuto. Ella vi salì colla leggerezza di un
levriero e per risparmiarmene il giro si sdraiò a sinistra: montai.
Ella ordinò al cameriere, che chiudeva lo sportello:
- Al lago.
La notte era tiepida, la luna sorgeva allora. Traversammo la città
senza dire una parola. I cavalli, due superbi trottatori, battevano
sonoramente l'unghia sul ciottolato, trasportandoci colla rapidità
di una visione: ma appena fuori delle mura il vento della campagna
ci richiamò colla sua dolce sensazione. Ella cangiò posa, scambiò
meco un'occhiata, e seguitò a tacere. Io aspettavo. Il nostro
silenzio, leggero come il venticello, aveva la medesima mitezza
della campagna e la stessa soavità del crepuscolo lunare. Ella
pensava sempre. La tappezzeria bruna della carrozza e l'abito nero
davano alla sua testa come una sembianza di statua, alla quale i
riflessi dorati dello scialle chinese parevano tessere un'aureola
evanescente. La campagna era bruna e profonda. L'ombre frastagliate
degli alberi cominciavano a ricamare la strada aperta dal solco
raggiante dei fanali: i domestici in serpa stavano immobili. Il suo
mazzo di gelsomini avvizzito dal bollore della festa esalava un
odore più acuto ed insieme delicato, che mi distrasse. Era l'aroma
del suo pensiero femminile, o il preludio di ciò, che forse mi
avrebbe detto fra poco? Infatti si raddrizzò leggermente sul
cuscino, mosse la testa, e con quell'accento trasognato, che in lei
sembrava uscire da un lungo soliloquio, mi domandò:
- Ci pensate ancora?
Non compresi.
- Allora ecco la vostra novella.
Involontariamente mi sfuggì un atto troppo vivo di curiosità, ella
lo represse con un sorriso, e chinò il capo colla civetteria dei
grandi oratori, che preparano una improvvisazione. Il trotto dei
cavalli, cadenzato e poderoso come un rullo, avvolgeva la carrozza e
dava il prestigio di una confidenza a quanto ella stava per
narrarmi. La luna tardava a sorgere: ella incominciò nell'ombra a
bassa voce:
- Vi ricordate la prima volta, che vi presentai alla duchessa di
Campiano? fu ad una festa di ballo nelle sale dell'ambasciatore di
Germania: quella sera la duchessa era anche più bella del solito,
era vestita di bianco, stellata di diamanti. Mi pare che poco dopo
veniste a dirmi molto bene della duchessa come donna e come dama; ma
non mi sovvengo che me ne abbiate più parlato. Voi partiste, ella
morì dopo tre mesi. Nessuna meglio di lei incarnava il tipo tanto
studiato e così poco capito della gran dama moderna: ne aveva tutte
le qualità e tutti i difetti, i caratteri tradizionali e le
espressioni contemporanee. Nata in una delle famiglie più nobili e
più ricche di provincia, era cresciuta a Firenze in mezzo agli
splendori delle ricchezze, alle sontuosità dell'eleganza. La conobbi
maritata, ed ignoro la sua infanzia; ma so che, essendo figlia
unica, non fu posta in convento, e che sua madre in gioventù non era
stata meno bella, nè meno elegante. Il suo fisico ve lo rammentate
senza dubbio, il suo morale non lo avete certamente nè indovinato,
nè studiato. Ella aveva ventitre anni, due bambine, sei milioni di
dote, un marito. Educata in un ambiente aristocratico al disopra del
mondo, come il suo palazzo antico era al disopra di tutte le case
circostanti, ella non ne sapeva nulla; sembrava istruita ed era
ignorante, non aveva letto nessun libro forte, nè riflettuto ad
alcun problema umano: non sapeva la storia di nessun popolo e di
nessuna idea. Dolce nel carattere come tutti quelli, che non
incontrarono mai difficoltà; nervosa fino alle lagrime e
all'entusiasmo, non aveva mai provato una qualsivoglia profonda
emozione di pietà o di ribrezzo, di odio o di amore. Però aveva
un'affabilità irresistibile ed una insolenza incantevole, le maniere
morbide e i sentimenti duri: credeva nella religione senza sentirla,
accettava i giudizi della propria classe al momento che imperavamo,
come ne aveva appreso i modi, e li avrebbe forse istintivamente
cercati per la delicatezza innata del suo organismo. Superba fino ad
infrangere le leggi dell'etichetta per affermarsi più vivacemente,
ma umile e tremante davanti ad ogni pregiudizio; colla freschezza di
tutti i bisogni e la decrepitudine di tutte le idee; di una
storditaggine, che andava fino alla poesia, e di una osservanza, che
oltrepassava la meticolosità; mettendosi naturalmente al centro di
tutto senz'altra attrazione che quella delle rose, il colore e il
profumo; adorando le feste e i ricevimenti, nutrendosi di occhiate e
di sorrisi, non concependo nulla al disopra di se stessa, e non
curando quanto poteva essere al disotto; sapendo di essere bella e
ricca, nobile e giovane, di possedere tutto e di potere esigere il
resto, di essere un'arbitra in casa ed una sovrana fuori; era
felice. Il suo egoismo, che aveva la profondità dell'inconscio e la
ingenuità dell'esperienza, essendo una grazia, poteva parere un
diritto: la sua bellezza aveva una gracilità, che la rendeva più
poetica, e dalla quale il mondo interpetrava facilmente la
delicatezza dell'anima. Del resto l'avete veduta. Ma quello, che
tutti sentivano e nessuno formulava, era la sua coscienza di gran
dama, di unicamente dama: vergine senza lirica, sposa senza
passione, madre senza fanatismo. Le sue bambine non erano per lei
che due gioielli, i più carini, fors'anche i più preziosi, ma
solamente una decorazione; suo marito nient'altro che il suo stesso
nome e la sua posizione sociale. La vita vera per lei si componeva
del palazzo e della villa, del salone e della carrozza, di tutte
quelle compiacenze minime e quotidiane, che attirano i privilegi
della ricchezza e dell'aristocrazia, dalla servilità dei domestici
alle deferenze dei signori più cospicui, delle persone più illustri.
La sua vanità, sempre tesa come quella di una cantante, le faceva
subordinare tutta la propria esistenza all'approvazione del
pubblico, che affettava di non curare; ma il pubblico era per lei di
due sorta: quello della piazza, al quale faceva la corte, perchè lo
temeva; quello dei saloni, che le faceva la corte, perchè la
desiderava. Come le sue eleganze sorpassando la moda non arrivavano
mai all'arte, il suo gusto, raffinato senza cultura e senza
elevatezza, avrebbe preferito un sopramobile ad un quadro, uno
scialle ad un arazzo. Il carattere dominante della sua eleganza e
l'ultimo verbo della sua coscienza era la distinzione; questa parola
tutta moderna, che vale da sola un dizionario, e contiene tutte le
nostre malattie e le nostre superiorità, i nostri sentimenti secreti
e le nostre preferenze confessate. Che cosa è davvero questa
distinzione, la quale si applica indifferentemente al colore di una
stoffa e alla punta di una scarpa, al portamento di una donna e alle
forme di un cavallo? Nè Baiardo, nè Vittoria Colonna, che mi avete
citato, sarebbero oggi distinti per gente di salone: forse Olimpia
Pamphili, se si occupasse meno di politica; ma Paolina Borghese col
suo bel corpo di marmo e la sua bell'anima di ferro, no certamente.
La bellezza distinta deve essere gracile o almeno angolosa, ma senza
idealità nella delicatezza, nè vigore nella angolosità; il profilo
di Napoleone primo parrebbe troppo arcigno, la testa della
principessa di Lamballe troppo vaporosa. L'affermazione, comune
oggi, che le statue greche vestite sarebbero brutte, esprime tutto
il contenuto della distinzione moderna; la quale non vuole più il
nudo e non sente più il forte, preferisce la decorazione alla
semplicità, la mortificazione della fisonomia alla sua calma
olimpica o alla sua maestà eroica. I gentiluomini emigrati a
Coblenza, che trovavano ridicolo Charette, il quale si batteva e
vinceva per loro. La duchessa di Campiano, che accusava Garibaldi di
non avere un aspetto signorile, non osando più rinfacciargli la
umiltà della nascita! Così ogni vera originalità viene condannata,
poichè attesta una superiorità; mentre la distinzione non è che una
supremazia collettiva come un marchio effimero di grandi decaduti
fra la folla dei sorgenti. Quando i Greci non ebbero più nè potenza,
nè libertà, nè arte, nè filosofia, rimasero il secreto della
eleganza; sbertarono i Romani, loro padroni, col nome di barbari, e
i Romani risposero chiamandoli greculi. Forse allora fu inventata la
distinzione, come una rivincita dei vinti contro i vincitori,
l'ultimo orgoglio di una razza moribonda, l'estremo vanto di una
impotenza, nella quale sopravvivevano i ricordi e svanivano i
residui di un'êra immortale. Oggi noi siamo greculi fra il popolo,
che ritorna romano. Castellani nel medio evo, potentotti all'alba
del rinascimento, principi al suo meriggio, signori al suo tramonto,
perimmo nella rivoluzione francese. Fino all'ultimo, quando cessammo
a poco a poco di essere noi la civiltà, la proteggemmo; e l'arte e
la scienza, l'industria ed il commercio, tutto fu nostra clientela.
Adesso una immedicabile incapacità ci condanna al più ignobile dei
parassitismi, siamo senza testa e senza cuore, senza funzione nello
stato e senza carattere nella nazione. Il disprezzo del denaro, che
era stata la nostra ultima virtù, è perito colla nostra ricchezza;
accattiamo gli impieghi e vendiamo i blasoni: sopprimete la
monarchia, che ci dà ancora qualche onorificenza nei balli di corte,
e saremo senza prestigio. Solo l'aristocrazia inglese, sorta
l'ultima, quando la nostra, la più antica, cominciava a decadere, ha
ancora una qualche coscienza di se stessa; ma la rivalità di
opulenza coi grandi industriali la costringe alle stesse avare
cupidigie, alle ferocie della grande cultura contro i poveri
contadini; e mentre i mercanti uccidono gli operai nelle fabbriche,
i lordi disertano la Scozia e l'Irlanda. Però la nobiltà inglese ha
un orgoglio, e noi non abbiamo che una vanità. Essa crede alla
propria superiorità naturale, e quindi empie le proprie fila di
tutti gli aristocratici del caso, nati nelle soffitte e che
giganteggiano fra la plebe; giacchè l'aristocrazia o è un fatto
naturale o è nulla: noi invece ci siamo chiusi nella sua forma
storica, e vi ci siamo incadaveriti, rinnegando il principio, che
l'aveva creata, e faceva la sua forza. Quando il cristianesimo
bambino si contrappose alla filosofia greca, Tertulliano gli salvò
la vita nel terribile confronto con una sola parola: tutto ciò che
vi era in essa d'immortale era un prodromo del cristianesimo:
l'aristocrazia doveva ad ogni generazione ripetere il motto di
Tertulliano alla plebe, e strappandole ad uno ad uno i suoi grandi,
dire loro: voi mi appartenete. Invece la nostra vanità li ha
respinti; mentre essi erano belli, noi volemmo essere distinti;
mentre essi erano forti, noi ci vantammo di essere eleganti; mentre
essi lavoravano, noi dichiarammo umiliante ogni lavoro. Essi
inventarono il vapore, e noi perdemmo il coraggio di domare un
puledro; svilupparono le scienze, e noi abbandonammo le scuole;
mantennero l'arte, e noi abbassammo gli artisti al livello degli
artigiani. Andammo ancora a teatro, ma unicamente per far pompa di
una indifferenza insultante, arrivando infallibilmente dopo il primo
atto e partendo al penultimo: leggemmo i loro libri, ma senza
spremerne il significato, come si odorano i fiori in certi momenti
di distrazione, o li accettammo come un omaggio dovuto alla nostra
regalità, un passatempo prodigato alla nostra noia. E per
l'illusione logica di tutti coloro che sopravvivendo a se stessi si
credono i soli a vivere, battezzammo la nostra congregazione col
nome di alta società, il nostro mondo coll'aggettivo di grande. Poi
costretti all'appariscenza del lusso, non avendo più alcuna
apparenza di grandezza, fummo più condiscendenti verso il danaro che
verso l'ingegno; non dimandammo la fedina criminale all'usura, e
chiedemmo al genio il suo blasone. Le signore presero per propri i
colori della tisi, non ispirarono più passioni e non ne sentirono;
bandirono dalla vita l'idillio ed il dramma per lasciarvi una
commedia senza spirito, una satira senza profondità. Per essere
veramente dame cessarono di essere donne: ebbero una religione senza
pietà, una fede senza luce; furono senza patria, perchè non avevano
più famiglia; senza poesia, perchè erano senza vita. Ah! me ne
dimenticavo quasi, la duchessa di Campiano era così.
E donna Augusta si raccolse un istante.
- Quando conobbi la duchessa di Campiano la sua bellezza era in
fiore, e la sua celebrità cittadina nel massimo frastuono. La sua
vita, vuota di sentimenti e di azioni, era occupata febbrilmente
dalle visite e dai balli, da tutte le necessità mondane delle sue
innumerevoli relazioni e dei suoi trionfi. Colla casa piena delle
più abili cameriere, non pensava mai che alle eleganze della
toletta, alle soddisfazioni delle più minuscole vanità. La duchessa
di Campiano non aveva salone. Dava due o tre grandi balli
nell'inverno, qualche mattinata, qualche rarissima serata, se
qualcuno o qualche cosa gliene fornivano il pretesto, perchè non
sentiva nè il raccoglimento della famiglia, nè l'intimità di una
corte. Le occorreva la folla sempre e dappertutto. I suoi trionfi di
decorazione avevano d'uopo di una luce da palcoscenico, del fracasso
di una grande orchestra, dell'applauso di una platea; e quindi le
conveniva mutare spesso di pubblico per non stancarne la sensibilità
di spettatore e permettere a se stessa il bis di qualche abito o di
qualche piccolo motto. Come una prima donna nella retroscena di un
teatro fra la folla degli inservienti e degli istrioni senza nome,
la duchessa di Campiano era sempre sola nel suo palazzo e fuori,
camminando circonfusa di una superbia indefinibile, passando come
una visione che non scaldava i cuori e non ottenebrava le menti;
leggiera ma inconsistente, profumata ma insipida, insensibile ma non
sentita. Tutti la vantavano, e nessuno l'ammirava. Aveva dello
spirito, e i suoi motti non restavano; era bella, e non aveva ancora
destata una passione.
Ma ella non se ne accorgeva. La necessità di questa prova, che è una
tentazione degli spiriti elevati, ella non la sospettava nemmeno; la
unanimità dei complimenti le attestava la propria eccellenza, le
temerità di qualche uomo, che come baleni da una nuvola troppo
carica di elettrico le scattavano attorno, le provavano la sua
onnipotenza di donna. Non avendo mai riflettuto, non aveva mai
dubitato: invece di osservare, guardava; invece di cercare,
accoglieva. Ella era dappertutto; non avrebbe permesso ad un ballo
di essere citata senza avervi fatta una apparizione; ai bagni, non
si sarebbe lasciata passare un'onda al di sotto senza sollevarvisi.
Come una regina, aveva nominato le proprie dame di corte, quattro o
cinque signore, alle quali gettava gli avanzi dei propri trionfi, e
che la decantavano dovunque per dichiarare la propria intimità con
lei e col suo genere di vita. Una sola volta disse meco di volersi
comporre un salone, ma le difficoltà ne la spaventarono; e non vi
sarebbe riuscita. La povera duchessa avrebbe dovuto far ballare
tutte le sere per divertirsi e per far divertire. Ella non lo
voleva, e il duca non glielo avrebbe permesso malgrado la sua grande
condiscendenza. Essi vivevano quasi separati in un commercio molto
amabile ed insieme molto freddo. Il loro matrimonio, determinato da
mille ragioni di interessi, non aveva avuto naturalmente che il
significato di una associazione, nella quale la galanteria era
potuta arrivare sino alle conseguenze dell'amore. Del resto il duca
era un gentiluomo molto distinto, che sapeva dirigere un ballo come
guidare un tiro a quattro, e avrebbe disimpegnato nobilmente
qualunque carica a corte. Non aveva voluto essere deputato; ma,
appena l'età glielo permettesse, sarebbe senatore. Che cosa egli
medesimo facesse e di che vivesse, era un mistero: era non so cosa
in municipio, qualche cos'altro in molte banche, presidente di una
società operaia o simile, per quella solita contraddizione del
popolo, che odia i signori, e non sa far niente, se non sono almeno
in apparenza alla sua testa; ed ecco un sintomo della legittimità
dell'aristocrazia. Ma il duca lasciava la massima libertà alla
duchessa. La conobbi e mi piacque: ella mi preferì per un certo
tempo, perchè con tutte le smanie secrete di sovranità, aveva un
bisogno ancora più secreto di essere dominata e di obbedire. Come a
tutti i satelliti le occorreva un astro, intorno al quale gravitare;
e prima che entrassi nella sua intimità, era quasi a discrezione di
una cameriera. La duchessa, che parlava moltissimo come tutte le
signore senza spirito, mi raccontò presto tutta la sua vita e le sue
idee, con la ingenuità di chi non può nemmeno sospettare di aver
torto, perchè non vede il contrario. Non era nè felice nè infelice,
ma era contenta senza volerlo ammettere, per quella condiscendenza
volgare verso il dolore, che è in tutti i discorsi sulla vita. Forse
qualche volta si annoiava, ma era una lassitudine dei nervi, più che
una stanchezza dello spirito, una disoccupazione della testa,
piuttosto che un vuoto nel cuore. Siccome si afferma che il cervello
di noi altre donne è più piccolo di quello degli uomini, avrei
voluto vedere quello della duchessa, perchè fra il cervello di noi
signore e quello delle altre donne ci deve essere altrettanta
differenza. Benchè facciate il romanziere, non saprete mai misurare
il cervellino di una dama, e farne la nomenclatura delle idee. Un
uomo solo, il più gran genio del nostro secolo, Balzac, ci ha
ritratte con una verità insuperabile ed insultante, impassibile ed
immortale. Voi, mio caro Di Banzole, perderete dieci volte la vita
prima di apprendere a decomporre la più semplice delle nostre
fisonomie, a risolvere la più facile delle nostre contraddizioni.
Forse il piccolo è più difficile del grande, forse il microscopio ha
più secreti del telescopio. Nemmeno le grandi donne vi riescono:
guardate la Stäel, George Sand, Giorgio Eliot, Elisabetta Browning,
e paragonatele a Balzac. Le loro analisi femminili sono le più
monche e le più false della letteratura moderna: o romanticismo
tragico della prima maniera, o romanticismo casalingo della seconda;
analisi vera mai. Quante volte Balzac deve aver sorriso dall'alto
della sua immensa opera di titano, osservando le grandi scrittrici
del nostro secolo salire sulle montagnuole dei giardini per
imitarlo, e credere così di riuscirvi. Non si giudica se non ciò che
si è oltrepassato; non si ritrae se non quello che ci è sottoposto:
noi donne non possiamo comprenderci, e gli uomini non lo possono del
pari, se non alzandosi al disopra del rapporto, che li unisce con
noi. Dante, Shakespeare, Goethe, Balzac... Anche voi altri siete in
pochi. Ma se i primi tre sorpresero i generi e le specie, il quarto
fece ancora meglio, e sorprese le famiglie e gli individui. Oggi si
vorrebbe fare di più, e Zola studia le malattie; ma ciò è molto
meno, perchè le eccezioni sono più facili della regola, ed hanno
fatalmente minore estensione e minore profondità. E voi, Di Banzole,
dove tendete col vostro povero lirismo filosofico, che non riscalda
e non rischiara, che ha tutti i difetti della lirica e della
filosofia, quando vogliono diventare drammatica? Voi, che siete
sempre al di là del vero, e al disotto del bello: povero romanziere
di una nazione, che non ne ha avuto che uno, e non ne ha più; che
credete alla necessità di scrivere, mentre potreste fare come me,
che racconto solamente...
- Raccontate dunque.
- È vero. Quasi rimpetto al palazzo della duchessa di Campiano,
all'angolo di una casetta antica colle bifore, appoggiato ad un
pilastro di granito rosso, stava sempre un povero zoppo. I suoi
cenci pieni di colori e di buchi avrebbero entusiasmato un pittore,
la sua testa fatto fantasticare più di un poeta. Una gran barba, che
cominciava a brizzolarsi anzi tempo, gli saliva fino agli occhi, e
gli scendeva sul petto. I capelli gli uscivano a ciuffi dalle
orecchie, e quando si traeva il berrettone per tenderlo col gesto
umile del mendicante, gli si vedevano incollati sulla fronte, come a
certe figure delle stampe antiche. Era zoppo da una gamba, pallido e
sofferente. L'enormità del suo piede infermo, tutto fasciato di
stracci, spiegava forse l'espressione macilenta del suo viso, e la
malinconia del suo sguardo. Aveva gli occhi neri, oblunghi, di un
taglio squisito e di una profondità mistica. S'appoggiava su due
gruccie; una lunga, imbottita, che gli sorreggeva l'ascella; l'altra
piccola, a bastone, sulla quale la sua mano si era deformata nella
lunga e faticosa pressione. Da qualunque finestra del palazzo
Campiano vi affacciaste, eravate sicuro di trovarlo accanto al suo
pilastro, la fronte china, le spalle curve. Quando pioveva, si
riparava sotto l'arco della porta più vicina, e vi restava
invariabilmente sino all'ora di notte. Quindi se ne andava a passo
lento, e mi ricordo di aver sentito più di una volta
dall'appartamento della duchessa la percossa cadenzata delle sue
stampelle, che nella notte rimbalzava sino ai vetri delle nostre
finestre. La mattina tardi, mai prima delle nove, ricompariva al suo
posto. Non chiedeva l'elemosina che alla gente ben vestita, ma la
dimandava col gesto: si spiccava appena dal pilastro, allungando uno
dei bastoni, si protendeva, abbassava la testa, alzava gli occhi con
una attitudine da martire. Il suo berrettone, scuro e senza fiocco,
era di quelli, che usano i carrettieri nella campagna romana. Ma non
ringraziava altrimenti che battendo gli occhi e non invocava mai il
nome di Dio. Forse la distinzione delle sue maniere, Donna Augusta
ebbe un sorriso, e la sua poca importunità gli valevano la
tolleranza delle guardie, e un ricolto quotidiano abbastanza
abbondante. Però egli non mutava mai vestito; solamente nell'inverno
si ravvoltolava in un mantello vecchio, a doppio bavero, con un
grosso fermaglio a catenella di ottone, e si metteva due guanti a
maglia senza dita. Il pallore di quel po' di faccia scoperta gli si
faceva livido, e l'occhio gli si velava di una lagrima diacciata. Ma
nemmeno allora, sotto il peso di quella nuova miseria, apriva la
bocca, o faceva un gesto di più. Per una di quelle solite
contraddizioni, che sono quasi sempre un'insolente ironia, si
chiamava Prospero; e i monelli, che qualche volta avevano cercato
inutilmente irritarlo, lo avevano battezzato Prosperaccio. A pochi
passi, svoltando, v'era la chiesetta di santa Barnaba, nella quale
la duchessa andava quasi sempre la domenica a messa. La messa era
alle undici e mezzo. Appena ella usciva a piedi del portone,
Prospero, che spiava chissà da quanto tempo, si raddrizzava alla
meglio, tirava indietro il piede ammalato, e si cavava il berrettone
come i devoti all'avvicinarsi del viatico. La duchessa ne sorrideva
nel suo interno, e gli dava invariabilmente mezza lira. Ma neanche a
lei Prospero aveva mai detto grazie colla voce. Se fra giorno la
duchessa usciva a piedi, sola, e passava dall'altro canto della
strada, Prospero non le andava incontro ad importunarla; restava
addossato al proprio pilastro, dritto nella posa più composta, e si
cavava il berrettone senza curarsi che la duchessa lo vedesse o no,
e gli rispondesse con uno dei suoi invisibili cenni del capo. Se la
duchessa gli passava vicino in compagnia di qualche amica, Prospero
si traeva rispettosamente il berrettone, ma non lo allungava. La
duchessa colpita da questa discrezione piena di buon gusto lo aveva
elevato a suo primo povero, e ne aveva parlato colle signore.
Qualcuna era passata apposta di lì per conoscere Prospero, gli aveva
fatto l'elemosina, ricevendo lo stesso ringraziamento muto, e
riportandone la stessa buona impressione. Ma a poco a poco Prospero
era entrato nel palazzo di Campiano. Non che vi avesse mai posto il
piede, ma aveva attirato l'attenzione dei domestici, sempre pronti a
sorvegliare le preferenze dei padroni; e la sua sorte se ne era
ancora avvantaggiata. Le cameriere gli davano qualche soldo, gli
sguatteri qualche avanzo. Egli accettava tutto cogli stessi buoni
modi, ma non parlava che con una vecchia guardarobiera, la quale,
passandogli innanzi, si fermava sempre a dirgli qualche cosa. Non so
qual genere di amicizia fosse la loro, ma ella se ne vantava cogli
altri servitori, e aveva potuto parlarne anche colla duchessa, che
aveva sorriso. Prospero, raccontava la vecchia, le dimandava sempre
nuove della salute della signora duchessa, parlava di lei come di
una santa, e le augurava tutte le felicità; una volta aveva persino
chiesto se era contenta al mondo, e se andava bene in famiglia.
- Figuratevi, tutti l'adorano.
- Lo credo bene - aveva risposto Prospero; poi aveva strizzato gli
occhi soggiungendo: - e col signor duca?!
- Ma si adorano: non vi è mai stato marito e moglie che si amino di
più.
La duchessa sorrideva sempre di questo racconto, che l'altra le
ripeteva ad ogni caso, con intenzione maligna, mentre invece chissà
cosa aveva raccontato a Prospero sulle relazioni intime della
duchessa col duca.
Infatti la loro freddezza non poteva essere un secreto nel palazzo.
Il duca allora aveva una ballerina celebre, che gli costava più di
uno scandalo. E poco a poco io stessa mi ero interessata a quel
povero zoppo. Qualche frase della duchessa, la miseria pittoresca
degli abiti di lui, l'espressione quasi mistica della sua faccia, il
suo contegno, la immobilità della sua vita, lì, all'angolo di quella
casa, mentre tutta Firenze gli si agitava incessantemente intorno,
me lo richiamavano tratto tratto alla mente con una di quelle
insistenze inesplicabili, le quali ci producono la sensazione
indefinibile di qualche cosa, che stia per aggiungersi alla nostra
vita, di un altro filo, che entri nella nostra trama. Ma quando gli
passavamo innanzi colla duchessa, siccome gli guardavo nella faccia,
egli evitava costantemente, e con una specie di paura, il mio
sguardo. La duchessa invece arrivava qualche volta perfino a
sorridergli. Una domenica di primavera, che ritornavamo da una
visita, la duchessa aveva un mazzo di viole bianche ad un bottone
del cappotto: quella mattina ella era di una gaiezza eccessiva:
appena vide Prospero si cercò in tasca il portamonete, ma non
trovandoselo, si sbottonò il cappotto:
- Poveraccio! - esclamò col suo riso inimitabile - dammelo tu,
Augusta.
Gli eravamo già davanti. Prospero, che si era tratto rispettosamente
il berrettone vedendoci spuntare all'angolo della strada, si curvava
già per il suo inchino, quando la duchessa nel riabbottonarsi il
cappotto perdette una viola. Malgrado la difficoltà di
quell'attitudine e della gruccia, colla quale si sorreggeva,
Prospero si precipitò per raccoglierla con tale violenza, che gli
strappò un urlo sommesso di dolore; si rialzò pallido come uno
spettro, e mentre stavo per aprire il mio portabiglietti, ci disse
con accento cavernoso:
- Se la mi permette, tengo questa.
La preghiera andava alla duchessa, ma era rivolta a me. Lo sentii, e
sentii che Prospero mi temeva. La duchessa soffocò una risata al
complimento, lo ringraziò con un moto di testa come avrebbe risposto
in un salone alla galanteria di un principe del sangue, e passammo
oltre. Ne scherzò meco lungo tutta la strada, poscia non ne parlammo
più. Poco dopo io partii per Ostenda. Quando ritornai, qualche cosa
era accaduto fra il duca e la duchessa. Una sera d'estate, che
uscendo dal Niccolini si erano fermati a prendere un sorbetto al
Bottegone, una ragazza ed un vecchio vennero a piantarsi davanti al
loro tavolino. Il vecchio suonava la viola, la ragazza cantava
accompagnandosi sulla chitarra. Quella ragazza, l'ho poi vista molte
volte, era di una rara bellezza, sebbene già avvizzita. Si diceva
spagnuola, e vestiva il costume andaluso come lo acconciano in
teatro, ma forse non era che siciliana. I capelli di un nero senza
nome, pieni di ondulazione e di lampi, le incorniciavano con
civetteria di ritratto il volto livido ed ovale. Aveva una fronte
molto alta, con due sopracciglie troppo sottili, ma di una grande
purezza di disegno, sopra due occhi, dei quali era impossibile
immaginare gli eguali. Erano così profondi, che di primo tempo non
se ne sentiva la grandezza: avevano le palpebre quasi lunghe come la
frangia della gonnella, e una luce che teneva dell'abbarbaglio. Il
naso leggermente ricurvo colle narici palpitanti le dava un profilo
da uccello di rapina, mentre le labbra, rientrando, le lasciavano
trasparire la bianchezza stridula dei denti di porcellana. Era di
mezza statura, le spalle piuttosto curve, i fianchi arcuati, le
braccia lunghe; ma il busto, a colori sotto la baschina nera, le
rialzava il seno con una temerità, che aveva quasi della violenza, e
dava al difetto delle sue spalle e dei fianchi tutta la
provocazione, che possono contenere questi due deliziosi difetti.
Infatti il suo collo era curvo come le sue spalle; pareva tutta un
po' curva, col seno troppo alto come le donne, che sapendone
profittare, vi mettono col piccante di una sincerità la tentazione
di tutte le interpetrazioni. Quindi camminava quasi sempre a testa
china, appoggiandosi naturalmente la chitarra sul grembo turgido
come il seno. Spesso pure si guardava i piedini, i più piccoli che
io abbia visto, calzati invariabilmente di una scarpetta scollata,
di pelle bronzina, sopra le calze di una tinta molto pallida. Ma
quando guardava era un'impressione di luce come il muoversi di uno
specchio, dentro al quale mille lingue di fiamme vampeggiassero e
svanissero. Però la sua voce stridula sarebbe stata insopportabile
senza la stravaganza di quel costume, e la poesia della sua figura.
A Firenze le avevano messo nome la Gitana, ed era l'avvenimento di
tutti i caffè. Una folla di ragazzi e di donne la seguivano di uno
in altro più per vederla che per udirla. Ella cantava una romanza
spagnuola, o togliendo di mano al vecchio, un insipido figurante, la
viola, vi suonava alla meglio un fandango. Quando aveva finito si
traeva di tasca un piattino bianco, e andava disinvoltamente in
giro, destreggiandosi tra le frasi e le occhiate. La prima sera il
duca e la duchessa si erano fermati ad udirla quasi con piacere; ma,
tornandosi a casa la sera dopo, allo svoltare di una strada avevano
trovato la Gitana. Il duca, pretestando di essere aspettato altrove,
aveva lasciato la duchessa al portone, ed ella si era naturalmente
immaginato che ritornasse sulle orme della Gitana. Infatti era stato
così. La duchessa, che non poteva essere gelosa, non si sarebbe
occupata di questa nuova avventura, se il duca non si fosse
imprudentemente mostrato la notte in ogni caffè di Firenze dietro la
Gitana, come un novellino. Le amiche della duchessa si affrettarono
quindi a pungerla con nuove malignità; e, malgrado che ella ne
ridesse con una gaiezza fino ad un certo punto sincera, la sua
indifferenza non giunse a togliere ogni alimento alla loro
cattiveria. O il duca impazzisse davvero, o qualche cosa di funesto
dovesse cadere sulla famiglia Campiano, il suo carattere si era
fatto piuttosto chiuso, perdendo così col bell'umore la sua sola
grazia. Un'altra sera, al Bottegone, che la marchesa Erminia
d'Armillara era colla duchessa e col duca, la Gitana venne a
postarsi davanti al loro tavolino. Io ero a pochi passi col povero
Rattazzi. La Gitana aveva rinnovellato il proprio abito,
conservandone ed arricchendone il costume. La baschina nera ricamata
in oro sfolgorava, il busto aveva un balenio d'iride, le calze erano
di seta, e un magnifico fornimento di corallo rosa le ornava la
testa ed il collo, i polsi e gli orecchi. M'ingannai o mi parve che
ella mettesse una speciale intenzione nel prescegliere il tavolino
della duchessa, la quale naturalmente finse di non accorgersene.
Quella sera i tavolini erano più affollati, la gente gremiva il
marciapiede: sarà stata circa un'ora; non passava più alcuno per la
strada. Tutta quella gente che si era fermata al caffè veniva da
teatro. La Gitana cantò una romanza napoletana, come un complimento,
che ella spagnuola facesse all'Italia, e che la goffaggine del suo
accento straniero rendeva più grazioso. La canzone aveva il colore e
la nudità del mezzogiorno. Il pubblico, in quell'ora per la maggior
parte di giovanotti eleganti, l'accolse con una simpatia clamorosa:
e quindi s'intesero dei bisbigli, che scoppiarono al finale in un
motteggio di applausi. Ma tutta quella folla aveva penetrata la
oltraggiosa intenzione della Gitana; la presenza della duchessa
atteggiava quasi drammaticamente la volgarità della scena. Il duca,
che non poteva non provare quella tensione, profittando del cicalio
della duchessa colla marchesa D'Armillara, per una delle sue morbose
vanità di scandalo, si mise francamente a guardare la Gitana. La
quale cantò la romanza più malamente del solito. Si volle il bis, la
replicò, la dovette replicare ancora, e andò in giro. La duchessa,
che non perdevo d'occhio, ebbe un'occhiata sublime di indifferenza
quando la Gitana le si presentò col piattello: mi sembrò che l'altra
trasalisse, ma certo trasalì la folla, che passò istantaneamente
dalla parte della duchessa. La Gitana proseguì la questua sotto il
nuovo peso di tutti gli sguardi e la percossa di tutte le parole, e
si fermò davanti a noi. Il povero Rattazzi la guardò attraverso i
suoi occhiali usi a scrutare dappertutto, la prese, la gittò dentro
uno dei suoi motti, profondi e freddi come un pozzo. In quel momento
alla luce di un fanale scorsi Prospero appoggiato all'angolo del
Duomo, che seguiva collo sguardo la Gitana. Non so perchè fremetti.
Poi la Gitana prese dal vecchio la viola e suonò la nuova canzone di
Piedigrotta con una posa più corretta di artista: salutò, partì,
gran parte del pubblico fece altrettanto. Allora me ne andai io pure
senza parlare alla duchessa. L'indomani ricevetti un suo biglietto
pressante; risposi che non avrei potuto sull'atto, e che a sera
sarei passata al suo palazzo. Mi aspettava: era agitata, una collera
fredda le balenava dagli occhi. Senza darmi nemmeno il tempo di
interrogarla, mi raccontò come il duca volesse invitare la Gitana
per la loro ultima serata d'addio agli amici, prima di partire per
Sesto Fiorentino. La duchessa aveva sulle prime creduto ad uno
scherzo di cattivo genere, ma egli si era fatto serio, mettendosi a
spiegarle tutte le ragioni in favore della propria proposta. Certo
la Gitana era tutt'altro che una buona cantante, ma essendo
spagnuola, col costume spagnuolo, suonando dei balli di Spagna,
offrendo così l'occasione di improvvisarne qualcuno colle nacchere,
diventava più che possibile in una serata di amici, che l'avrebbero
presa come un anticipo sui divertimenti della campagna. E il duca
tornava sullo scherzo con quella persuasione dei propositi
deliberati, che fanno sentire sotto la gaiezza dell'accento
l'irritazione di uno sforzo. La duchessa offesa più nel suo orgoglio
di dama, che nella sua dignità di donna, si era opposta con
risolutezza sprezzante, senza degnarsi neppure di cercare se sotto
quella sconvenienza si nascondesse una abbiezione. La discussione,
lunga e difficile per se stessa, si era finalmente conchiusa in un
alterco; ma siccome il duca non poteva addurre altre spiegazioni a
questo capriccio che la propria volontà, la duchessa aveva allora
dovuto provarne la percossa come donna. La sua testa ne aveva
rintronato, immaginandosi subito che quello fosse un proposito della
Gitana per mettersi meglio in voga, una condizione infame che gli
avesse messo ai propri favori. Qualunque altra donna al posto della
duchessa avrebbe trovato nello sdegno o nel dolore della propria
coscienza la forza di umiliare o di convincere quell'uomo: sarebbe
stata solenne nel silenzio, e eloquente nelle parole; avrebbe avuto
di quelle frasi che tolgono il respiro, di quelle osservazioni che
dissolvono ogni pertinacia. Ella non trovò nulla. Non contrappose
che la propria vanità di dama, non invocò che le convenienze
dell'etichetta: poi gittandosi nell'ironia, senza osare di
strappargli il secreto, volle flagellarlo col ridicolo di ricevere
condizioni chissà da chi e a che prezzo, mentre tutta Firenze ne
rideva. Il duca, che non mancava al tutto di spirito, l'aveva
rimbeccata; i sarcasmi erano arrivati fino alle insolenze, le
insolenze quasi alle minaccie. Ella già impaurita aveva allora
dichiarato che ritirerebbe gl'inviti: egli l'aveva guardata
freddamente negli occhi, e l'aveva sfidata a questo coraggio. Quello
sguardo l'aveva atterrata. Il duca se n'era andato intanto che ella
scoppiava a piangere; e in quel momento, raccontandomelo, le lagrime
le tornavano nuovamente agli occhi. Sulle prime aveva pensato di
dare la serata, e di mancarvi con un pretesto qualunque; ma poi
aveva riflettuto che la sua assenza renderebbe anche più viva
l'ingiuriosa presenza della Gitana nel suo salone. Era pallida,
cogli occhi gonfi, la testina arruffata e spiritata. La inanità
della sua natura si rivelava tutta in quel frangente, guadagnandovi
quasi una grazia di bambino. Le idee più strane, i divisamenti più
inconcepibili le si affaccendavano nel discorso; poi ne smarriva il
filo, e si abbandonava a lagnanze di un comico irritante. L'ascoltai
pazientemente. Però siccome non le rispondevo, alla fine
s'inciprignì anche meco. Le amiche l'abbandonavano. Invece non
volevo che vedere a qual partito si appiglierebbe; ma non ne
trovando, conchiuse quasi sbadatamente di avermi mandato a chiamare
perchè le dissuadessi il marito. Allora le feci notare la
sconvenienza di invocare un estraneo in questo loro pericoloso
dissenso; se non che mi interruppe, e passandosi la mano sulla
fronte con un gesto carino, inesprimibile di superbia, disse:
parliamo d'altro. Quindi si mise per altri argomenti senza però
diventar più calma. Eravamo nel suo salotto favorito, una scatola di
raso, un astuccio delicato per una preziosa pupattola. Malgrado il
turbamento di quella giornata, ella aveva trovato il tempo per una
toletta dolcissima, di un buon gusto minuzioso, che finiva di
togliere alla sua figura ogni supposizione di forza, per lasciarla
come dentro un vapore bianco, un'aria profumata. Nessuno dei suoi
lineamenti esprimeva un pensiero, nessuna delle sue contrazioni
tradiva una passione. Allora la richiamai al primo discorso,
promettendole di fare ogni possibile per distogliere il duca dal suo
tristo capriccio, se le circostanze me ne porgessero il destro. Ella
mi enumerò quindi tutte le necessità dei riguardi mondani, il
rispetto del nome, del salone, degli invitati, e conchiuse:
- Infine anch'io sono donna.
Quando uscii dal palazzo rividi Prospero non più appoggiato al suo
pilastro, ma dirimpetto al portone. Erano le dieci. L'osservai
meravigliata di quella sua ora insolita, e mi parve che egli pure mi
esaminasse; ma i miei cavalli partirono rapidamente, e lo perdei.
L'indomani mi fu impossibile vedere il duca; assunsi qualche
informazione, e seppi che tutte le sere andava dalla Gitana, la
quale abitava il pianterreno di una casipola a S. Spirito. Recandomi
quindi dalla duchessa, per strada, vidi la guardarobiera stretta in
colloquio con Prospero al solito pilastro. Credetti che si trattasse
di una confidenza, perchè parlavano in fretta, a bassa voce,
Prospero cogli occhi fissi al suolo, come chi stia per prendere una
risoluzione, l'altra con gesti concitati, guardandosi spesso
intorno. Quando mi scorse, sussultò, ne diede l'avviso a Prospero,
che levò repentinamente la testa, scambiarono ancora una parola, e
si separarono. Ma la vecchia forse temendo che la interrogassi,
invece di entrare a palazzo, tirò oltre. La duchessa non era in
casa. Ripassando dinanzi a Prospero mi sembrò che fosse più pallido
e sofferente, si trasse rispettosamente il berrettone, ma non me lo
tese. Io stessa ero nervosa: nella sera Rattazzi venne a vedermi, e
mi distrasse. Eravamo alla vigilia dell'ultima spedizione di
Garibaldi a Roma, vi basti questo. Rattazzi mi espose il proprio
piano, nel quale il pubblico non doveva capir nulla, come infatti
avvenne, e che doveva attirargli, sulla sua piccola testa di
grand'uomo, la esecrazione temporanea di tutto il paese. In quel
momento Rattazzi era persino bello: i suoi occhi bruni ed acuti come
la punta di un succhiello avevano attraverso gli occhiali un
dardeggiamento assiduo ed insopportabile; le sue frasi scattavano,
la sua ossuta figura di scheletro pareva slogarsi a certi gesti
terribili ed imprevisti. Il duca e la duchessa colla miserabilità
dei loro dissidii mi passarono quindi di mente; ma all'indomani la
Gazzetta d'Italia annunziava che la Gitana era stata uccisa nella
notte, tornandosi a casa, per un viottolo presso S. Spirito, da un
accattone zoppo, che si chiamava Prospero. Compresi subito che
doveva essere lui. Il giornale raccontava tutti i particolari della
tragedia. Pareva che da qualche notte lo zoppo pedinasse
instancabilmente la Gitana; e più d'una volta, fermandola per
chiederle l'elemosina, avesse tentato di parlarle: ella gli aveva
badato poco o punto, finchè l'ultima sera aormandola sempre a poca
distanza, Prospero l'aveva raggiunta per quel viottolo deserto. Era
oltre mezzanotte, non passava anima viva. Prospero si era levato il
berrettone colla sinistra, tenendolo umilmente; ma la Gitana,
importunata, gli si era rivolta di mal garbo, e il vecchio suonatore
lo aveva minacciato. In quello stesso punto Prospero si era
allungato improvvisamente vibrandole una orribile coltellata nel
seno: la Gitana era caduta gittando un urlo straziante, il vecchio
si era slanciato; ma, vedendo l'altro col coltello fumante, aveva
pensato meglio di darsela a gambe, mentre Prospero, che, perduto
l'equilibrio, si reggeva a stento sul bastone, traboccava egli pure
sul corpo insanguinato della Gitana. La strada era deserta, il
vecchio suonatore scomparso cacciando stridi da spiritato. Che cosa
si fossero detti quei due in quel momento nessuno lo sapeva; ma
quando sopravvennero le guardie, e fu prontamente, la Gitana era
morta. Due seconde coltellate, una alla gola e l'altra al cuore
l'avevano quasi dissanguata; Prospero, che le aveva lasciato il
coltello nell'ultima ferita, tentava di rialzarsi sulla gruccia.
Alle interrogazioni violente delle guardie, e a tutte le irruenze
dell'altro vecchio, che vedendolo disarmato voleva finirlo, non
aveva risposto una sola parola; solamente aveva osservato che
ammanettandolo non avrebbe potuto camminare; e si era lasciato
condurre al primo corpo di guardia. I questurini avevano raccolto la
chitarra rotta ed insanguinata; il coltellaccio omicida era
terribile, un'arma da beccaio perfezionata da un assassino. Vi ho
ripetuto tutti questi particolari perchè mi si sono fissati uno ad
uno nella mente. Ma quale era la causa di un simile delitto? La
Gazzetta, che vi consacrava un lungo articolo colla compiacenza
propria dei giornali per i delitti misteriosi, moltiplicava le
congetture più drammatiche, finendo per attaccarsi all'ultima, che
Prospero fosse disperatamente innamorato della Gitana. Intanto
prometteva per l'indomani altri dati sulla vittima, che pareva una
signora napoletana, costretta da una passione infelice a quel povero
e tristo mestiere. Tutta Firenze non parlò che del trucissimo caso,
e del lungo articolo della Gazzetta; la curiosità cittadina fu
eccitata, gli altri giornali intervennero, e allora le ipotesi e le
spiegazioni si urtarono. Ognuno conosceva qualche lembo del secreto,
qualche circostanza decisiva; fu un pettegolezzo assordante e
feroce. Quel dopo pranzo la duchessa era venuta a trovarmi e non
aveva dissimulato la propria allegria. Mi assicurò che Prospero era
proprio lui, e che era innamorato della Gitana. Siccome lo aveva
letto nella Gazzetta, lo aveva già creduto. Avrebbe desiderato
parlarmi del duca, ma voleva essere interrogata, e non lo feci.
Allora l'inconscia brutalità del suo egoismo, che in quella
tragedia, forse degna di un grande poeta, non vedeva se non il
trionfo legittimo di un'etichetta, mi irritava contro di lei.
Domenica sera la sua ultima serata non avrebbe una stonatura! Ma
fossi troppo aggrondata, o ella sentisse confusamente in me la
cattiva impressione dei suoi discorsi, e ne temesse qualche scoppio,
mi fece ancora un complimento, e se ne andò. Seppi che la sera di
quel giorno il duca partì per Sesto Fiorentino. L'avventura ben
altrimenti sanguinosa di Mentana mi fece presto scordare di
Prospero; quando, molti mesi dopo leggendo nella stessa Gazzetta il
resoconto del discorso di Rattazzi, quel capolavoro che durò tre
giorni e che io andavo religiosamente ad ascoltare dalla tribuna
diplomatica, mi cadde sott'occhio l'annunzio della causa di
Prospero. Era per l'indomani. Difendeva un avvocato di nome ignoto
come accade sempre per i poveri; un giovane, che adesso è una
piccola celebrità ed un piccolo talento. L'indomani Rattazzi non
parlerebbe. Decisi quindi che sarei andata alle Assise. La sera
m'incontrai da Gino Capponi colla duchessa, la quale aveva pure
letto l'annunzio, e si sentiva la medesima voglia: concertammo di
esservi insieme. Era una magnifica giornata. Andando a prendere la
duchessa nella mia carrozza, rividi il pilastro abbandonato di
Prospero, e tutti i particolari e le congetture della catastrofe mi
si affollarono torbidamente nell'anima.
Un mistero così profondo, che nessuno l'aveva ancora penetrato e che
non si scoprirebbe nemmeno al processo, stava forse in fondo a
quella tragedia di strada. Perchè Prospero aveva ucciso la Gitana?
La supposizione che fosse innamorato mi pareva, non so perchè,
assurda: ma ero altrettanto sicura che Prospero l'aveva uccisa per
conto proprio, e per una ragione non vile. In quel momento la sua
fisonomia mistica e indolorita di martire, condannato a vivere del
proprio martirio, mi riappariva al pilastro, e mi commoveva. La
duchessa, vestita con un'audacia piena di colori, abbottonandosi in
quell'istante un lunghissimo guanto, mi si rivolse, e col suo
accento leggero:
- Ti ricordi, Augusta - proruppe - la mattina della viola?
Quando entrammo alle Assise la folla ingombrava i pressi e lo
scalone: era un viavai, un romorio confuso e crescente. I ricordi si
risvegliavano, la causa minacciava di farsi grossa. Potemmo a stento
aprirci il passo, e coi biglietti d'invito essere introdotte nella
tribuna. La sala era così gremita che le teste vi formavano un
ciottolato; le signore abbondavano, alcuni avvocati illustri erano
nei posti distinti e nelle tribune. Guardai Prospero. Nè la sua
faccia, nè i suoi abiti erano cangiati. Stava seduto sulla ignobile
panchina, la gruccia distesa lungo la gamba, e l'altro bastone fra i
piedi: non pareva nè turbato, nè avvilito. Col berrettone a fianco e
la testa nuda conservava il solito contegno rispettoso; solamente
quella depressione dei capelli, che gli cadevano sulla fronte,
lasciandogli quasi calva la nuca, gli dava un'aria anche più
mistica. Il suo giovane avvocato in toga era più pallido e più
nervoso di lui. Naturalmente egli dubitava di se stesso, mentre
l'altro era sicuro della propria condanna. L'arrivo della duchessa,
una delle glorie mondane di Firenze, produsse un movimento nella
folla: le teste si agitarono e si volsero; quindi corse un bisbiglio
insensibile, che ella colse a volo come un profumo. Il suo volto
sfavillò. In quel momento Prospero si torse verso di noi e vide la
duchessa, che innanzi a me coll'abito vivacissimo attirava tutti gli
sguardi. Una vampa di rossore gli bruciò istantaneamente sulla
faccia, poi si fe' pallido, e rimase su lei coll'occhio sbarrato. La
duchessa, che guardava giù nel pubblico col canocchiale, non aveva
ancora osservato il reo. Il cancelliere seguitava a leggere l'atto
d'accusa, mentre sul tavolo, dinanzi al presidente, il coltellaccio
omicida gettava qualche bianco riverbero, che finì per attrarre gli
occhi della duchessa. Ella me lo indicò con un gesto di orrore,
riportando istintivamente lo sguardo sull'accusato. Quando il
presidente, un vecchio in capelli bianchi, cominciò
l'interrogatorio, si fece nel pubblico un silenzio di statua:
Prospero tentò di sollevarsi sulle gruccie, il presidente lo invitò
con parole gentili a rimaner seduto, ma egli volle alzarsi
egualmente, e si atteggiò come al pilastro. La sua figura di
mendicante impietosiva, il suo piede enorme entro quel fagotto di
stracci sembrava rendere impossibile tutto il racconto dell'accusa.
Nessun lineamento della sua fisonomia, nessuna attitudine del suo
corpo tradiva lo sforzo di un'ipocrisia, o una qualunque tendenza
sanguinaria. Un fremito di pietà e di simpatia corse nel pubblico.
Prospero disse nettamente, con voce cavernosa di malato, il proprio
nome, e quando il presidente gli domandò se ammetteva di aver ucciso
la Gitana, alzò gli occhi verso di noi, e rispose:
- Sì.
- E la ragione?
Prospero abbassò la testa, come allorchè ringraziava dell'elemosina,
e non disse altro, solamente fece un gesto di stanchezza. Il
presidente se ne avvide, e gli ripetè l'invito di sedere, che questa
volta egli accettò. Quindi non aperse più bocca. Invano il
presidente mise tutto in opera, esortazioni, consigli, minacce,
spiegandogli come quel mutismo potesse nuocere alla giustizia, e a
lui stesso nell'animo dei giurati. Prospero sembrava ascoltarlo
attentamente, ripeteva ogni tanto quel cenno, che poteva parere ad
un tempo di ringraziamento e di scusa, ma non parlava, non si
muoveva. Tutti gli occhi della gente erano conversi in lui, tutti i
pensieri, e tutte le volontà di quella massa gli pesavano addosso.
Furono cinque minuti drammatici e febbrili. Prospero vinse. Il suo
avvocato, il Pubblico Ministero stesso lo esortarono con parole,
nelle quali vibrava una persuasione sincera, una benevolenza quasi
eccessiva: ma egli ripetè ad entrambi il suo cenno umile, quasi di
rammarico, e non parlò. Il pubblico affaticato da quella tensione
ruppe in un chiacchierio fragoroso, mentre il presidente dava la
parola all'accusa. Il magistrato fu limpido e tagliente; riassunse
con sobrietà di grande oratore il fatto, urtando nel mistero di quel
mutismo senza curarsi neanche di sfondarlo con un'ipotesi e concluse
per l'assassinio premeditato senza circostanze attenuanti. Prospero
fu impassibile. Toccava all'avvocato. La sua estrema pallidezza e il
suo volto convulso attrassero persino l'attenzione dell'accusato.
L'esordio fu rettorico ed infelice; ripetè senza profitto per
l'accusato il racconto dell'accusa, andando innanzi sulle frasi,
affettando un talento di romanziere, che analizza dipingendo e trova
nell'analisi l'argomento della difesa. Poichè non si scorgeva un
movente al delitto, dunque mancava. Prospero era pazzo.
A questo punto Prospero intervenne, e gridò risolutamente:
- No.
- La ragione dunque? - ripetè il presidente.
Prospero non gli si volse nemmeno, ebbe un gesto d'indifferenza, e
si cacciò la mano in seno ricadendo nel silenzio di prima; mentre
tutta la folla guardava verso l'oratore, cui l'interruzione aveva
arrestato bruscamente a mezzo di un periodo. L'avvocato stentava a
rimettersi.
In quel momento, io che guardavo Prospero, lo vidi trarsi di seno la
mano, e spiare verso di noi: la duchessa osservava con un mezzo
sorriso l'impaccio dell'avvocato; Prospero teneva in mano il
cadavere di quella viola, che ella aveva perduto un anno prima, e
della quale allora non si ricordava più.
Prospero abbassò lentamente la testa, come se la piegasse sul
patibolo.
La duchessa non aveva veduto, io sola avevo compreso.
E donna Augusta tacque.
- La viola? - proseguì.
- La viola! - ella replicò con atto nervoso - non vi basta questo
per la vostra novella? La viola gliela vidi cader di mano; ma la
duchessa non lo ha mai saputo, perchè se glielo avessi detto ne
avrebbe insuperbito, e non lo meritava.
La notte era tiepida, il lago ancora lontano.
- Ritorniamo - disse donna Augusta e ne diede l'ordine al cocchiere.
Quel racconto l'aveva così agitata, che me la sentivo fremere
vicino. La luna alta sopra la carrozza dava alla sua faccia come il
pallore di una lunga emozione, che da quel racconto prolungandosi
attraverso altri ricordi si perdesse in un tetro presentimento. Ma
la curiosità mi rimorse, e senza badare alla sua meditazione:
- Prospero fu condannato?
- Ah! - ella proruppe con un impeto quasi sdegnoso - siete dunque un
romanziere da epilogo, il quale accompagna tutti i suoi personaggi
fuori del dramma, sino alla tomba, per convincere bene il lettore
che si tratta di un fatto vero e che egli non vi ha colpa, se
sciaguratamente il fatto fosse brutto. Ma, mio povero Di Banzole -
proseguì con ironia sibilante e sferzandomi il volto cogli sguardi -
non avete dunque ancora compreso con tutto il vostro lirismo
filosofico che il dramma avviene negli individui, ma non è l'opera
speciale di nessuno di loro; che essi vi entrano senza capirlo, vi
periscono senza saperlo, ne escono senza accorgersene: che in fine
vi hanno la parte della grandine nella tempesta? Che cosa ne è dei
suoi grani? Poichè avete tanto bisogno di saperlo, il loro
diacciuolo ridiventa acqua, l'acqua vapore, il vapore diacciuolo,
quindi grandine e daccapo la tempesta. Che cosa è il dramma? Voi
dovreste saperlo più di me, giacchè ne scrivete; ma nessuno lo ha
ancora ben definito: scoppia nella vita degli individui come in
quella dei popoli, qualche volta dura un'ora, qualche volta un'êra.
La storia di Roma non è un dramma? Il cristianesimo non è un dramma,
come il Giulio Cesare di Shakespeare, nel quale il protagonista
muore al primo atto? Dove trovate una tragedia in cinque atti più
bella della vita di Napoleone? Il primo atto in Italia, il secondo
in Egitto, il terzo a Mosca, il quarto a Waterloo, il quinto a
Sant'Elena. Nella vita dell'umanità ogni popolo è forse un
personaggio: ebbene, voi, che v'interessate ai drammi, avete ancora
indovinato la trama di questo, riconosciuto quali siano i primi
attori? Quante comparse mute, o delle quali nessuno ricorda più
adesso le poche parole! Il dramma è molto ricco, poichè muta spesso
di scena: il primo atto è stato tutto in Asia, il secondo in Europa,
il terzo è cominciato col secolo in America. Dove sarà il quarto?
Chi eseguirà il quinto? A chi è destinato questo spettacolo enorme,
del quale l'illuminazione costa tanti soli, e nel quale il mutamento
di una scena significa quasi sempre l'eccidio di una razza? Il
dramma individuale è ben piccolo paragonato al dramma storico, alla
tragedia umanitaria; ma tutto è forse riassunto nel dramma
individuale. Non sono le gocce, che fanno il mare, i vapori, le
nuvole, quindi la grandine e i diacciuoli, dei quali volevate sapere
il destino come quello di Prospero? Prospero è perito nell'urto di
due estremità. L'ultimo della plebe amava la prima
dell'aristocrazia: nella impossibilità di congiungersi, quegli, che
si moveva, si sarebbe rotto infallibilmente; ecco il dramma e la
catastrofe. Il dramma non riposa sopra un'opposizione di due
individui, che non possono nè separarsi nè unirsi, e, della quale la
risoluzione avviene nel terzo termine, che è la loro razza? Non vi
ricordate più che tutto è triplo, la trimurti indiana, che passa
trinità cristiana; il triangolo, che diventa l'emblema di Dio e il
cappello del prete; i tre momenti dell'idea brahminica ed hegeliana,
le tre grazie e le tre virtù; il parlamento, che è triplo, senato,
camera e corona; la famiglia, che è tripla, padre, madre e bambino,
o marito, moglie ed amante...
E rise gaiamente. Ma poco dopo arrivavamo in città: il suo palazzo
apparì.
- Salite? - mi domandò quando l'ebbi aiutata a discendere.
- Vi ricordate la canzone della Gitana?
- No.
- Allora, buona notte.
Ella sorrise amichevolmente e mi tese la mano. Gliela strinsi,
m'inchinai, e mi avviavo già per l'atrio, quando ella mi richiamò
con un grido:
- Di Banzole!
Tornai indietro: ella era già in cima al primo pianerottolo.
- Perdono: quella viola bianca, ora me ne rammento, era zoppa.
E disparve con un ultimo sorriso d'ironia.
VIOLONCELLO
La casa era nel fondo di una strada umida e buia, a cul di sacco:
aveva tre piani e due finestre cogli scuri verdi ad un battente
solo. Nè di giorno nè di notte la strada s'illuminava mai di un bel
raggio; il sole vi passava al disopra, la luna vi si ratteneva
sull'orlo dei tetti, come respinta dal tanfo grasso che ne saliva,
mentre l'ombra addensata da tutti quegli sfondi sembrava piena di
agguati e di abbandoni. Era d'estate. Le case purulente di quella
muffa, che pare una malattia vergognosa dei muri, e non si trova
quasi mai nelle campagne, dove il sole e l'aria mantengono in ogni
miseria una certa quantità di salute, erano piuttosto alte. Le
finestre, abbandonate penzoloni sui gangheri in attitudini
patibolari, non si chiudevano nemmeno di notte, forse perchè
l'aspetto esterno delle case tradiva fin troppo l'aspetto interno
delle famiglie, e il pudore se n'era da gran tempo involato
coll'anima di tante speranze morte e le visioni di tanti desiderii
vivi. Dalle soglie logore dall'uso e calcinate dal fango un'ombra
greve irrompeva fino al rigagnolo della strada, dando quasi quasi la
medesima tinta scura ai sassi, sui quali passavano pur tuttavia i
riverberi indeboliti del giorno e i passi di tutta la gente. Le case
si rassomigliavano tutte; appena qualcuna di un piano solo e
coll'impanata invece dei vetri, pareva un abituro campestre. Difatti
in quel quartiere, egualmente separato dalla città e dalla campagna,
v'era uno strano miscuglio di persone e di mestieri;
un'agglomerazione di braccianti e di operai, che non dovevano
nemmeno riconoscersi fra loro. La strada si vuotava rapidamente al
mattino, e si riempiva lentamente la sera. Nel giorno qualche donna
in ciabatte la traversava o la percorreva: qualche vecchio passava
adagio e si allontanava come una miseria, che non sa più dove andare
e vagola ancora per poco. Fiacchieri e biroccie non arrivavano mai
sino in fondo al muraglione, che la chiudeva. La strada non aveva
chiesa. Ma il rigagnolo, nel quale sovrannuotavano immondizie di
ogni sorta, esalava fetidi vapori, specialmente se il tempo si
mettesse alla pioggia, o il lungo sereno fosse arrivato al secco.
Allora diventava una fila di pozzanghere, alimentate giornalmente
dall'acqua delle finestre, che lasciavano nelle ineguaglianze del
ciottolato una poltiglia nerastra, piena di bave e di fili, di
insetti e di residui. E la notte, alla luce dei fanali, da quelle
pozzanghere invisibili prorompevano bagliori metallici, mentre certe
masse chimeriche, attirate e respinte dai lampioni, riempivano
tratto tratto la strada. E su dai sassi della strada, fuori delle
porte, giù dalle finestre, per tutta la tenebra della sua lunghezza
venivano un tanfo umidiccio e viscoso, un silenzio morbido, nel
quale s'affondavano le case coi loro abitatori ignoti, sino al
muraglione, che la separava prudentemente da tutto il resto del
mondo.
Era già notte. Un ragazzo si arrestò un istante alla vetrina del
caffè, dalla quale usciva un inquieto rumorio di istrumenti; parve
indeciso, si trattenne, e, come per sottrarsi ad una tentazione
troppo forte, se ne spiccò con un salto. Sempre lungheggiando i muri
arrivò senza incontrare anima viva alla penultima casa, ne infilò la
porta aperta, bussò nell'uscio di faccia, all'ultimo piano. Una
donna gli aperse.
- Hai fatto tardi! - gli disse, guardandolo amorosamente con voce di
strana dolcezza - dove ti sei fermato?
Intanto egli si era cavato il berretto, avvicinandosi al tavolo,
dove la donna cuciva a macchina. Il lume a petrolio riparato da un
cappello bucherato, di carta verde, gli illuminava la faccia
incorniciata da una magnifica capigliatura bionda, tutta a ricci.
Egli stette così, come dubitando di dire qualche cosa, poi la donna
gli alzò gli occhi in volto con muta interrogazione.
- Hai fame?
- Adesso poi: sono stato a teatro.
La notizia parve così stravagante, che la donna si voltò di
soprassalto.
- A teatro - seguitò il ragazzo ridendo - ; ecco, dietro il vicolo,
ma si sentiva lo stesso. Non vi era nessuno: si sentiva come di
dentro, l'orchestra, i cori, poi di quando in quando la voce della
donna. Come dev'essere bello il teatro! facevano la Norma.
E il ragazzo sospirò. Quindi la donna si alzò per servirgli da cena
ripetendogli:
- Hai fame?
- Sì.
Il ragazzo aveva forse tredici anni, era alto e magro. Benchè non
ancora formato e vestito miseramente, la finezza della pelle e la
delicatezza dei lineamenti lo rendevano già singolarmente bello. Due
occhi bianchi, ma enormi, colle palpebre molto lunghe, gli
illuminavano la faccia tinta del più soave incarnato, con una bocca
fresca e un mento piccino come quello di una donna. Nei capelli
arruffati gli si riconosceva ancora la discriminatura, che forse
quella donna gli faceva ogni mattina, ricacciandogli i ricci dietro
le orecchie rosee dagli orli ribattuti. Era vestito di una giacca
logora al bavero ed alle orlature, di un paio di calzoni più chiari
della giacca, e di un corpetto a maglia, quantunque la stagione
cominciasse già a farsi tiepida; ma il ragazzo era freddoloso, e si
lasciava volentieri ovattare coll'egoismo minuscolo dei fanciulli
troppo amati. A vederlo non si sarebbe creduto un popolano, o almeno
non lo era che alle estremità; le mani troppo grosse per i polsi,
colle dita schiacciate e le nocche salienti, e i piedi, che
s'indovinavano male sotto la rozza calzatura. Ma la sua bocca aveva
una dolcezza quasi ancora da bambino, mentre la parte superiore del
viso era già di uomo. Qualche cosa gli dilatava gli occhi e la
fronte alta, sporgendo sull'arco delle sopracciglia, ed era come una
luce incalorita dai riverberi dei capelli, più fini della seta, e di
un biondo così puro che avrebbero fatto invidia ad una polacca. Poi
la donna lo chiamò nell'altra camera. La cena era già pronta sopra
un tavolino, con un tovagliolo e pochi piatti; egli sedette, mangiò
di buona voglia, rispondendo a monosillabi, mentre ella lo
sorvegliava amorosamente assaporandogli sul volto la gioia sensuale
di ogni boccone.
D'improvviso egli scappò a dire:
- Cosa siamo dunque noi al mondo?
- Siamo i poveri.
- Siamo gli ultimi!
- Non si è mai l'ultimo, perchè dopo i poveri ci sono i malati, dopo
i malati ci sono i morti.
La donna era giovane. Un erpete rosso-cupo le deturpava il sorriso
della bocca rischiarato da due grandi occhi pieni del lume placido
di una lampada. Non aveva altro; il resto della fisonomia sarebbe
stato ripugnante senza quella espressione di profonda tenerezza e di
mite rassegnazione. I capelli pettinati con estrema cura e coronati
da un vecchio nastro di velluto nero le lasciavano già trasparire la
cute biancastra: le spalle le sporgevano in arco, mentre il petto le
rientrava con una pietà malaticcia sotto quel corsetto di flanella a
scacchi rossi e nerognoli. Era una povera figura colle mani
rachitiche e il collo grinzoso, nel quale un buon osservatore
avrebbe distinto il battito pericoloso di una vena: non aveva forse
ventott'anni, era secca, scarna, cogli occhi troppo belli e la voce
troppo dolce, sebbene appannata da un'invincibile reuma di petto,
che era forse una bronchite. Aveva lo sguardo estatico e la parola
lenta; ma ogni qualvolta egli le cacciava nelle pupille il razzo
bianco dei propri occhi, o la ravvolgeva nel turbine caldo e
romoroso di una scappata, lo sguardo le si velava come per resistere
al penetrante prestigio di quel ragazzo, che oramai cominciava a non
esserlo più. Allora il suo viso storto a sinistra si illuminava di
un intimo sorriso; ella si rigettava adagio sulla spalliera bianca
della sedia, una mano sul tavolo, la testa sopra una spalla, e
sospirava.
Ma la cena era finita; ella s'alzò, ripiegò il tovagliuolo, rimise i
piatti nella madia, soffiò via le ultime briciole dal tavolino,
mentre Giorgio si alzava stirandosi le membra come un gattino.
- Tu hai sonno questa sera - ella disse guardandogli negli occhi - .
Se domani mattina ti alzi mezz'ora prima a studiare, ti lascio
andare a letto.
Giorgio non se lo fece dire due volte. Il letto era nella cucina, in
un angolo, un letticciuolo di legno con una coperta fiorata di
percalle, e un piumino rosso sui piedi a fioretti trapunti. Aveva un
comodino di fianco, una madonna coll'ulivo benedetto al disopra.
Nell'altra parete la tafferia calata faceva da seconda tavola; c'era
una piccola madia in un cantone, la scaffa nell'altro con sopra la
rastrelliera dei piatti. Alcune casseruole di rame sospese alla
cappa del focolare gli davano una qualche speranza di cucina; un
tavolinetto esagono nel mezzo serviva a tutti gli usi. E con tutto
ciò quella cucina era un modello di mondezza. Il ragazzo si spogliò
in un batter d'occhio, gittando uno ad uno i panni sul letto, finchè
rimase in camicia colle scarpe: se le trasse, lesto, senza usare le
mani, e prima che la donna, occupata a comporre gli abiti sopra una
sedia, avesse il tempo di fare la piega, era già sotto le lenzuola.
Vi si agitò qualche minuto coi brividi del freddo, raggomitolandosi,
la testa affondata nel cuscino, e chiuse gli occhi. La donna gli
rimboccò la coperta sotto il materasso, gli accomodò e gli distese
la piega del lenzuolo con compiacenza prolungata, senza che egli
sembrasse nemmeno accorgersene; poi il ragazzo spalancò
improvvisamente gli occhi, ed allungò le labbra. Ella si chinò,
ricevette il suo bacio sulla fronte, glielo rese, lo contemplò
un'ultima volta e: - Dormi - disse.
Egli si strinse nelle spalle, e l'altra uscì tirandosi dietro la
porta.
Quell'altra camera piccola e bianca, con un lettino, un armadio, un
tavolo per la macchina da cucire, era la sua: aveva una sola
finestra colle tende, il pavimento rotto. Posò il lume sul tavolo, e
si sedette guardando l'uscio della cucina per aspettare che Giorgio
si addormentasse.
Allora il suo volto perdette la dolcezza di poco dianzi, e una
contrazione penosa le stirò gli occhi senza poterne trarre una
lagrima. Forse una mezz'ora passò così, poi si levò col viso sempre
egualmente triste, ed, aprendo adagio adagio l'uscio della cucina,
ascoltò. Un raggio del lume, filtrando per la porta, le mostrò
Giorgio nella stessa posizione, colla testa mezzo nascosta fra il
cuscino ed il lenzuolo. Lo sentiva respirare. Allora s'inoltrò sulla
punta dei piedi fino al capezzale, e stette contemplandolo nella
tenebra. Ma lo vedeva come in un raggio di sole, coi capelli biondi
pieni di sorrisi, gli occhi bianchi come due fiori animati, il viso
dolce ed aristocratico, che faceva spesso soffermare i passanti la
domenica quando uscivano insieme a spasso: un viso di fanciullo e di
giovinetto, lucente di poesia e di avvenire; lo vedeva dormire sul
lettino sotto i propri occhi, in una posa di uccellino, respirando
un alito soave, riposando, sognando, calmo e felice sotto la sua
protezione invisibile e senza sentirla.
- Se morissi troppo presto - mormorò piangendo finalmente una
lagrima, e piegandosi a sfiorargli i capelli: ma un pensiero anche
più angoscioso gliela abbruciò istantaneamente, e stringendosi con
una mano la fronte, mentre si rialzava quasi con un senso di
ripugnanza sdegnosa:
- Anche tu! anche tu! morirò magari troppo tardi... povera Anna!
Quindi tornò al lavoro. Anna era una ragazza abbandonata nel mondo.
Aveva appena conosciuta la madre, e il padre le era morto da molti
anni lontano, a Nizza, dove suonava il violoncello nel teatro
comunale. Ella aveva ricevuta la notizia quasi senza piangere,
perchè il padre, o per la professione, o per abitudini malsane di
vita, non si era mai occupato di lei: ella aveva imparato il
mestiere della sarta, e ne viveva mediocremente. Cresciuta sola,
coll'anima troppo bella, e il corpo troppo brutto, era diventata
misantropa per eccessiva tenerezza; e poichè i rudi e immondi
contatti della società la disgustavano, a poco a poco rinunciò a
fare da sarta, prese la clientela di un grande magazzino da
biancheria, e cucì a macchina. Così non usciva quasi mai di casa:
andava a prendere il lavoro, e lo riportava, guadagnava poco e
faceva dei risparmi. E perduta nel fondo della propria miseria
fisica e sociale, senza guardarsi dintorno per non desiderare quello
che non potrebbe avere, si era come rassegnata al proprio destino.
Era così. Fuori il mondo aveva delle città e delle campagne, i monti
ed il mare, i fiori e gli uccelli, l'amore ed il lusso: vi erano dei
signori in carrozza e dei mendicanti senza scarpe, tutta la vita e
tutta la natura; ma era fuori, lontano. Ella non guardava e non
ascoltava, giacchè nelle sue poche intimità col mondo ne aveva preso
fin troppo disgusto. Poi aveva poca salute, una sensibilità così
tarda e squisita, che nel mondo non avrebbe potuto vivere; ma sola
nella propria camera, colla macchina, senza un vaso sulla finestra,
nè un uccellino in gabbia, lavorando tutto il giorno, e coricandosi
stanca, era quasi contenta. Non aveva nè rammarichi nè speranze, non
pensava nè agli uomini nè a Dio, simile ad un fiore non sbocciato
per alcuno in un angolo ignorato, con una tinta troppo pallida per
essere mai scoperto, o un sapore troppo recondito per attirare
gl'insetti vagabondi.
Una volta si era ammalata, e non aveva chiamato il medico: la febbre
le era durata molti giorni, e quindi più nulla.
Nella casa non aveva relazioni, si faceva la propria cucina, e dava
il resto del pranzo ad una vecchia, che veniva una mezz'ora tutte le
mattine a tirarle l'acqua e a farle i più grossi servigi. La vecchia
era golosa, e si ubbriacava spesso, ma Anna non se ne curava; e
d'altronde le parlava pochissimo. I risparmi li portava ogni tre
mesi alla cassa, e sommavano già a qualche centinaio di franchi.
Quando non lavorava leggeva; ma invece di leggere dei romanzi come
tutte le sue pari, preferiva i viaggi, come un'occhiata gettata
distrattamente al di fuori, così da lontano, che lo spettacolo
perdeva le tentazioni. E a forza di togliere ogni rapporto ed ogni
ideale alla propria vita se la era resa più leggiera: infatti non
aveva durata. I giorni potevano essere dieci come mille; essa non li
guardava venire, giacchè non le avrebbero apportato nulla; non si
voltava a vederli passare, perchè non le avevano portato via nulla.
Abitava ad una finestra, dove il sole non veniva quasi mai, in una
strada senza sfondo, in un quartiere dove nessuno la conosceva, e
nessuno passava.
E a poco a poco si era fatta pigra, si alzava più tardi la mattina,
si coricava più presto la sera, viveva di latte e di erbaggi. Un
giorno ebbe l'idea di comperarsi una macchina da caffè, ed ebbe un
vizio: il caffè col latte a colazione, a pranzo, e a cena.
Un altro giorno, tornando dal magazzino, la vita, che aveva evitato
così bene fino allora, la investì e la sopraffece. Un giovane
l'aveva guardata e l'aveva seguita: poi un'altra volta la fermò
addirittura; era molto bello, abbastanza ben vestito. Allora in lei
accadde un rivolgimento profondo e terribile: da tutte le fibre del
cuore le irruppero i sentimenti dell'amore, in tutti i muscoli del
corpo le palpitarono i fremiti della giovinezza; si sentì sollevata
a tutte le altezze, gittata a tutti i venti, immersa in tutti i
raggi; fu come se una goccia sopra un sassolino della spiaggia fosse
ripresa dal mare, e partecipasse istantaneamente alla immensità
della sua estensione, a tutte le vibrazioni della sua eterna
mobilità.
Poi lo sbalzo di un'onda ricacciò ancora la goccia sopra un
sassolino della spiaggia. Il giovane l'aveva amata due mesi per
mangiarle quei risparmi, e l'aveva bastonata prima di abbandonarla.
E strano, ella riprese il proprio equilibrio. Ma un nuovo bisogno,
che passandole attraverso come una tradizione le si prolungava
davanti indefinitamente, la tolse alla solitudine di prima: il mondo
afferrandola e ballottandola crudelmente per un attimo l'aveva
buttata alla natura, la quale s'impossessa di tutto e non cede
nulla. Anna aveva abortito dopo quattro mesi dall'abbandono; e la
maternità, destandole l'amore nella coscienza, l'aveva come rimessa
nel quadro della creazione. Allora invece di ritirarsi dal mondo, vi
ritornò con un'altra necessità di parlare e di sentirsi rispondere,
di essere buona ella che non era mai stata cattiva, di essere madre
ella, che non poteva essere donna.
Il suo amore si era dissipato come uno di quei temporali, che
intristendo all'alba cielo e terra, si risolvono in uno scoppio,
dopo il quale il sole sfolgora e gli uccelli cantano. Finalmente
viveva.
Quell'uomo non lo vide più. Invece contrasse qualche amicizia, e il
suo dramma essendo rimasto ignorato, il suo ingresso nel mondo potè
essere senza scandalo.
In quell'anno conobbe la mamma di Giorgio, giovane ancora, inferma,
e sempre nei rimpianti del proprio passato di mezza signora, perduto
dietro un uomo, che l'aveva amata tirandosela dietro nella miseria.
Poi egli ne era morto, estenuato dal lavoro e dai rimbrotti.
Giorgio, bello come un serafino, non bastava al cuore di quella
donna ammalata di egoismo; la quale sentendosi peggiorare, volle
essere portata al nuovo ospedale, dove la raccomandazione di una
signora le aveva fatto sperare un'assistenza piena di distinzione. E
là era morta. Anna aveva adottato Giorgio. Quindi cominciò per
entrambi una nuova vita. Ella gli aveva fatto un letticciuolo nella
cucina, ed un immenso posto nella propria anima. Tutti i rumori
folli e le compiacenze chiacchierine della maternità invasero la
casetta: due o tre vasi di fiori vennero sul davanzale della
finestra, un canarino vi portò la propria gaiezza di bel forestiero,
colle piume dorate da un sole più caldo, e il canto appreso da una
primavera più bella della nostra: un gatto vi aggiunse un'altra
fanciullezza coi giuochi acrobatici e le malvagità carezzevoli. Il
deserto fu popolato, la famiglia composta. La domenica, quando
uscivano a spasso, la gente si fermava ad ammirare quel bel bambino
e quella buona donna, accompagnandoli con un sorriso pieno di
benevolenza: fuori per la campagna la natura era una festa.
Quell'immenso verde li accoglieva da ogni parte, il cielo aveva
delle trepidazioni di lago, il vento delle ondate di profumi; poi,
quando ritornavano a casa per la strada umida e buia, il canarino
lanciava dei razzi scoppiettanti di note, e il gatto trovava delle
parole rauche di gioia, mentre i fiori sulla finestra sembravano
pieni di una curiosità affettuosa per i fratelli lontani lungo i
margini dei fossi e fra gli spini delle siepi.
I primi anni passarono così. Giorgio andava alla maestra, Anna
lavorava più di prima, facendo egualmente qualche risparmio, perchè
fra tutti quattro, col canarino e col gatto, un po' di riso e di
latte, qualche frutto e qualche erba bastavano a nutrirli.
Poi Giorgio si rivelò.
Ella lo aveva collocato presso un sarto come garzone, dicendogli per
incoraggiarlo che così potrebb'essere ben vestito; ma il ragazzo
annoiato mortalmente della bottega, dove lo strapazzavano troppo
spesso, perdeva le lunghe mezz'ore per istrada ascoltando gli
organetti, o dietro un gruppo di suonatori ambulanti. Quindi
guardava con ammirazione i loro vecchi istrumenti pieni di gobbe e
di malattie: le trombe avevano delle raucedini da invalidi, i
clarinetti delle gutturalità cavernose, i violini mettevano degli
stridori spasmodici; ma da tutti quei corpi infermi prorompeva una
musica chiassosa, una foga di ballo, nella quale la canzone
dell'amore tradito metteva a quando a quando un sentimento di
malinconia, una soavità sensuale di martirio. E le faccie riarse dei
suonatori, sotto i capelli unti e scoloriti dal sole delle grandi
strade, avevano un'indifferenza gioconda di chi non serve a nulla e
non appartiene a nessuno; una esultanza di festa inesauribile,
offerta a tutti, accettata da pochi e nullameno pagata con una
elemosina universale. Non erano quasi mai più di tre, qualche rara
volta con una donna, più spesso con un ragazzo. Allora Giorgio
stentava a frenarsi, e, mentre quegli andava in giro col cappello,
invece di buttargli un soldo, che non aveva, si sentiva tentato di
dirgli:
- Vengo con te?
Ma i ragazzi avevano tutti un'attitudine stanca, una fisonomia
triste, che lo facevano pensare.
E allora in casa cominciò a suonare.
Il primo strumento fu un pettine dentro un foglio di carta, poichè
gli organini di latta, a rucchette, costavano fino a dieci soldi, e
lasciavano tutte le voci alzarsi insieme ronzando. Il pettine invece
bastò per qualche tempo. Era una musica fra il suono ed il canto,
che frantumandosi fra quei denti come fra le corde di un'arpa, si
ripercuoteva nella carta dando già un suono metallico, una
diffusione cristallina alla sua voce. Egli vi ripetè quanto udiva
per strada con entusiasmo di fanciullo e di principiante; ma sopra
tutto furono canzoni d'amore dalla cantilena dolce e le cadenze
affaticate, nelle quali moriva qualche cosa che avrebbe dovuto
vivere, sospirava qualche cosa che non aveva potuto respirare.
La mattina presto e la sera dopo pranzo la musica non cessava mai;
una ad una tutte le suonate della strada dovevano passare dentro
quel pettine e svolazzare nella camera con uno starnazzo infernale,
mentre la macchina seguitava a cucire col suo fracasso di telaio, e
l'Anna, emaciata dal lavoro, si curvava sulla tela nell'ombra del
paralume.
Ma neanche questo durò. Il pettine, che l'accompagnava in tasca
dappertutto, un bel giorno fu abbandonato per lo scacciapensieri,
uno strumento, che par fatto di uno scorpione, ed ha il ronzio di
un'ape. Egli vi si perfezionò rapidamente, poi lo smise per la piva,
e giunse non si sa come a possedere un organetto col mantice a pezze
e le note raffreddate. Allora gli parve di entrare per davvero
nell'arte. Non era più la sua voce incanalata o battuta in un arnese
qualunque, una specie di soliloquio, nel quale prevedeva e sapeva
già tutto; ma un dialogo vero, dove le risposte dell'organetto
avevano una varietà piena di ribellioni e di misteri. Bisognava
cercare le note una a una, raggrupparle sotto uno sforzo della
volontà, nella forma di un pensiero. La lotta era accanita.
L'orecchio, che aveva ritenuto e come contrassegnato tutti i suoni
di una canzone, al primo accento di un tasto trovava la traccia
della nota vera; e quindi principiava come una caccia. Le mani
correvano febbrilmente sulla tastiera, le note vibravano
inabissandosi dentro la cavità misteriosa del mantice, ma un dito le
afferrava, l'orecchio le ormeggiava, il pensiero tagliava loro la
strada, e le ricacciava su, in frotte, sotto i tasti, facendole
passare per le feritoie, quasi nel dolore di una stretta, nella foga
di una carica.
Se non che le note erano poche, e la canzone, così aitante per
strada, usciva storpia dall'organetto. E l'Anna cominciava a
protestare. L'organetto con tutti quegli stridori di chiavistello
diventava a volta a volta così straziante, che ci voleva tutto
quell'affetto tiranno pei bambini e l'amabilità di Giorgio, perchè
ella si frenasse nella voglia di scaraventarglielo fuori dalla
finestra. Ma il ragazzo fingeva di non accorgersene, o se la
irritazione di lei giungeva al colmo, si alzava, e, abbracciandole
il collo, le dava un gran bacio negli occhi.
- Ma vuoi dunque diventare un suonatore?
- Sì - aveva risposto colla fronte aggrottata sul cattivo
istrumento.
Ma dopo alquanti giorni l'Anna si stizzì davvero. Giorgio era venuto
a casa con un violoncello da contadino, comprato per quattro lire in
una cocomeraia. Il ragazzo era talmente sudato, che ella ne tremò.
Giorgio non rispondeva, posò per terra l'istrumento più grande di
lui, e, appoggiando le spalle alla tastiera per sostenerlo, si volse
finalmente. Aveva tutte le scarpe infangate, la giacca spaccata
sotto le ascelle; ma una speranza indefinibile, un orgoglio di prima
conquista gli raggiavano sulla fronte.
Questa volta Anna fu violenta.
- Chi ti ha dato i quattro franchi? - proruppe dopo un gran fracasso
di parole e di minacce.
- Beppe; ma gli ho detto che gli lascio le mie due settimane.
- E tu come farai a mangiare?
Giorgio, che aveva resistito fino allora, riparando il violoncello
col proprio corpo, a questa ultima osservazione si sentì vacillare,
ed abbassò la testa.
- Non sai che bisogna guadagnarsi il pane? - ella ripetè
coll'accento duro della povera gente.
Ma il volto dianzi così animato di Giorgio esprimeva una tale
angoscia di umiliazione, che ella fu presso a commoversi, e non osò
seguitare.
Ci fu un istante di silenzio. Due lagrime, grosse come gli occhi,
gli rotolarono lentamente per le guancie: ma ad un tratto sollevò il
volto, e scuotendone i ricci colla energia di un'ispirazione:
- Quando avrò imparato, guadagnerò.
- Morirai prima - fe' l'Anna ingrossando la voce: - a suonare
quell'istrumento viene la tosse, e si sputa sangue. Anche l'altro
giorno hanno portato al camposanto un bambino come te, e lo hanno
seppellito dentro la cassa dell'istrumento.
- Aveva imparato? - proruppe Giorgio.
Ella titubò.
- Io imparerò, io!...
Ma non imparò.
Invece, poichè la vocazione gli si faceva ogni giorno più manifesta
ella gli pagò una specie di maestro, vecchio suonatore di orchestra,
già amico del padre, e col quale aveva conservato una certa
relazione. Ma Giorgio dovette andare egualmente a bottega, perchè
Anna col suo buon senso di massaia non voleva illudersi sulle voglie
impetuose ed effimere della fanciullezza. Giorgio vi si acconciò di
buon grado. Sulle prime non doveva prendere che due lezioni la
settimana; ma colla seduzione della propria incantevole natura ebbe
presto innamorato il vecchio celibe, che vivendo solo come un orso
era naturalmente pazzo per i bambini. Gaspare, che abitava in un
quartiere povero come quello dell'Anna, quantunque meno remoto, era
pieno di piccole manie; adorava la musica, e non vi era mai riuscito
a nulla. Roso da una invidia benevola per i veri suonatori, e dopo
aver sognato per tutta la vita di entrare nell'orchestra del teatro
comunale, per una di quelle arcane ferocie del destino era ancora a
suonare nei teatri secondari, dove il direttore di orchestra si
mutava tutti i giorni, e i cantanti recitavano male, come egli
diceva da gran tempo col solito motto. Egli aveva dunque accettato
quella proposta come un complimento; e rivoltosi al ragazzo, che lo
guardava con ammirazione mista di terrore:
- Ah! tu vuoi suonare? - aveva detto prendendogli un pezzo di
guancia fra le dita ed aggrottando i sopracigli smisuratamente
lunghi - ah! tu vuoi suonare il violoncello, vecchio brigante? Non
sei di cattivo gusto per la tua età. Il violoncello è il primo
istrumento del mondo, è tenore, baritono, soprano, contralto, tutti
insieme con un petto solo: basta un petto solo, veh! per far tutto.
Si fa anche tutto con una corda sola, ma allora si sa proprio
suonare.
- Sì?! - ripetè Giorgio, che beveva con avidità quelle parole
incomprensibili.
- Sì, eh! tu capisci, e va bene; ma bada che con una corda sola è
più facile impiccarsi che suonare il violoncello. Basterà se impari
con tutte. Studierai?
- Sempre, voglio diventare come voi.
- Ah! - esclamò il vecchio colpito da quest'elogio innocente, il
primo di sua vita; e chinandosi da tutta l'altezza della propria
statura di pertica, colle rughe che gli drizzavano tremolando i peli
bianchi della barba, prese il bambino fra le braccia e lo baciò.
Giorgio, punto atterrito da quel bacio, glielo rese con una stretta
al collo. L'amicizia era fatta.
Allora fu convenuto del prezzo, e il vecchio Gaspare si lasciò
andare quasi volentieri fino alla miseria di cinque franchi il mese.
- Mi direte poi se ha una vera disposizione - gli disse l'Anna
all'orecchio, mentre il ragazzo era andato nell'angolo a guardare il
violoncello dentro la cassa aperta.
- Non dubitate, me ne intendo io.
L'Anna aveva riaccompagnato Giorgio dal sarto, ammonendolo di essere
più buono, adesso che per contentarlo ella dovrebbe lavorare due ore
di più tutte le notti. E l'Anna, che era nella effusione
sentimentale del benefizio, seguitò a parlargli del presente e del
futuro, stringendogli la manina, che teneva fra le proprie, con tale
emozione, che egli stesso ne fu preso, e si mise a piangere
silenziosamente a testa bassa.
- Andiamo, andiamo - borbottò tutta confusa di abbandonarsi così per
strada, e di avergli fatto troppo sentire il peso della nuova
grazia. Ma Giorgio rialzò la testa, e guardandola cogli occhi
lagrimosi:
- Imparerò io, non dubitare - le disse con accento vibrato.
Quel giorno stesso il sarto avendolo licenziato mezz'ora prima,
Giorgio si cacciò a corsa per strada, ed arrivò ansante alla porta
di Gaspare: era socchiusa, la spinse, e si fermò nel mezzo della
saletta male illuminata dalla luce sporca del cortile. La differenza
di temperatura e di atmosfera lo destò da quel sogno, e stava già
per sottrarsi non visto e vergognoso, quando l'uscio della cucina si
aperse, e Gaspare gettò una forte esclamazione:
- Cosa fai lì, brigante - gridò indovinando di già a mezzo, ed
ingrossando la voce per ischerzo.
E si avanzò verso di lui.
Giorgio vedendolo avvicinarsi così minacciosamente, con una calotta
nera sulla testa, dalla quale gli sfuggivano agli orecchi due ciuffi
grigiastri di capelli, il collo avvoltolato in un fazzoletto nero,
tutto il corpo dentro un antico soprabito, che gli si drappeggiava
sinistramente su quella magrezza di spettro, ebbe un fremito
nell'anima.
Egli non capiva ancora la bontà di quella faccia grottesca coi baffi
dritti a spazzola, e due occhi cilestri, già appannati dalla
vecchiaia, che fra quelle sopracciglie parevano due viole nell'ombra
e negli spini di una siepe.
- È troppo presto: sarai già scappato di bottega, birichino?
- No: il padrone mi ha mandato via prima.
- E allora? - incalzò, levando la mano come per volerlo percuotere,
ma con celia così evidente, che anche Giorgio se ne accorse.
Giorgio abbassò gli occhi, e stringendosi dentro gli abiti colla
moina adorabilmente imbarazzata dei fanciulli, che desiderano e
tremano contemporaneamente, non rispose.
- Va pur là, devi essere un buon capo.
Un odore di soffritto, che veniva dall'uscio socchiuso della cucina
con uno scoppiettio grillettato, attrasse involontariamente
l'attenzione del fanciullo.
- Sei dunque venuto a pranzo? - disse ironicamente il vecchio
Gaspare, cogliendo a volo quel movimento, e voltandosi egli pure
verso la cucina, dove stava forse per bruciarglisi qualche
intingolo.
- No, no - rispose vivamente il fanciullo col rossore della
vergogna, e girando gli occhi verso il violoncello nell'ombra del
cantone:
- Volevo sentir suonare; - eppoi subito dopo congiungendo le mani ad
una preghiera di grazia inimitabile:
- Vada là, suoni, suoni.
E gli tese le mani.
Il vecchio vacillò.
- Va via, va via - fe' attirandolo come per dargli un bacio, e
resistendovi: - corri a casa, e di' che pranzi con me: questa sera
avrai la prima lezione.
Giorgio studiava con frenesia. Il suo orecchio era così fino, e le
sue mani assecondavano così bene ogni atto del pensiero, che la
musica pareva discendergli lungo il braccio e passare sul
violoncello, piuttosto che salire dalle sue corde.
Quando Gaspare, per meglio apprenderglielo, insisteva lungamente
sull'alfabeto musicale, egli si sentiva come preso d'impazienza; ma
appena l'altro toccava il violoncello, la sua attenzione arrivava ad
una immobilità, che gli produceva sulla memoria gli effetti
prodigiosi della fotografia. Si ricordava ogni scambio di dita, ogni
movimento di braccia con tale precisione, che, diventato sordo di un
tratto, avrebbe potuto integralmente riprodurre la lezione. Per lui
tutto diventava ritmo. In preda ad una fissazione non cercava e non
sentiva che la nota; per lui un'associazione di idee era
un'associazione di suoni, nè più nè meno che per il pittore ogni
oggetto è una sintesi di colori. Quindi colla freschezza sensistica
del ragazzo distingueva tutta una scala dentro l'oscillazione di una
nota, e decomponendola involontariamente come in un prisma cercava
la quantità vera di ogni suono; ma tutto ciò piuttosto per un impeto
d'istinto, che per una coscienza di pensiero. E come la fantasia
imbarcandosi talora sopra una parola, ma lontano lontano attraverso
regioni già scomparse dalla storia, egli si allontanava
misteriosamente sulle oscillazioni di una nota, l'orecchio teso come
una vela al vento e l'anima più bianca della vela addossata nella
sua conca. La gente, non accortasi sulle prime del mutamento, prese
quindi a risentirsene, quando le sue disattenzioni diventarono
addirittura distrazioni, nelle quali si perdeva lunghissimi tratti.
L'Anna taceva o si limitava a qualche amorevole rampogna, ma il
padrone, un uomo sulla quarantina, di aspetto bilioso e di umore
sempre nero, passava oltre, ed erano scappellotti, che gli
rintronavano gli orecchi come colpi di piatti.
Intanto viveva una vita stranamente operosa, giacchè l'Anna lo aveva
persuaso a studiare molte altre cose per figurare un giorno
decentemente nel gran mondo. Si alzava ogni mattina per tempo,
faceva le lezioni, poi andava a bottega, e la sera da Gaspare prima
del teatro: quindi tornava a casa, e fino alle dieci era musica.
Giorgio non aveva nè compagni nè amici: viveva solo, non parlava
quasi mai, ma quella precoce e sfrenata attività cerebrale gli aveva
di già mutata la fisonomia. Gli occhi gli si erano fatti più grandi,
la fronte più alta, le guancie più pallide, di un pallore quasi
cereo, sotto al quale le vene azzurrine sembravano nervature di
corolla. Il collo, forse troppo esile per sostenere il peso di
quella testa, si era piegato leggermente a sinistra, le spalle gli
si erano ingobbite, mentre i magnifici capelli biondi, troppo lunghi
per la sua età, gli cadevano ancora in anella, e davano alla sua
testa una rassomiglianza meravigliosa col suonatore di violino di
Raffaello. E con quei panni poveri e trasandati, i calzoni a
pillacchere, che gli battevano sulle scarpe spelate, la giacca più
lunga da una parte, un cappello piccolo rigettato sulla nuca, quando
passava per istrada cogli occhi inchiodati sui ciottoli, o in alto
nella dilatazione di uno sguardo, che non vedeva già più, molte
signore si voltavano ad esaminarlo con ammirazione pensosa.
Egli non sapeva nemmeno di essere bello.
Un desiderio lo corrodeva atrocemente senza che osasse aprirsene
coll'Anna, della quale cominciava a comprendere gl'immensi
sacrifici. Anzi talvolta pensava rabbrividendo a quella sua vita di
ragno, sempre cogli occhi sulla tela, il naso affilato dalla
malattia, curva sul manubrio della macchina, le spalle negli orecchi
e le mani scheletrali piantate sul tavolino come una branca di
sparviero. Sempre che entrasse in casa, la trovava nella stessa
posizione, ed ella si voltava sorridendo.
Giorgio avrebbe voluto un violoncello, magari cattivo, su cui
sfogare il tumulto, che gli intronava la testa. A volta a volta gli
pigliava una smania di prove sopra qualche nota o un gruppo, che si
torturava ad intrecciare mentalmente di cento guise, per fonderlo
poscia in uno scoppio o diffonderlo in una lontananza: poi nella
questua quotidiana per le strade raccoglieva troppi motivi, che
Gaspare non gli permetteva mai nelle lezioni, giacchè il suonare a
mente, diceva lui, guastava l'orecchio e la mano, il sentimento e la
testa. Ma gli esercizi del vecchio metodo, col quale Gaspare era
diventato suonatore di ultima fila, non bastavano più a Giorgio.
La sua prodigiosa attitudine finiva talvolta per spaventarlo.
- Chi ha inventato la musica? - gli chiese un giorno il ragazzo.
Gaspare rimase sconcertato, e dopo lunga esitanza rispose con un
sorriso:
- Dio.
- Bravo! - esclamò il ragazzo alludendo all'inventore.
Adesso Giorgio aveva trovato un altro grande divertimento.
La sera sulle otto, all'ora del teatro, andava dietro un vicolo, nel
quale arrivavano a quando a quando dei brani di opera. Il vicolo era
quasi buio e deserto: egli si appoggiava alla parete nell'ombra di
una porta, ed ascoltava colla fronte in alto, quasichè dai tetti del
teatro s'involassero col soffio della musica le visioni fantastiche
della scena. Così le ore gli passavano come minuti. Ma per quanto i
suoi sensi fossero fini e l'anima li acuisse ancora, gli accadeva
troppo spesso di precipitare nel silenzio dopo di essersi innalzato
sulle ali di qualche nota, o di aver turbinato in un pieno
tempestoso di orchestra. E allora il dramma, che si agitava lungi
nelle profondità imperscrutabili di quei muri, pareva inabissarsi
sinistramente nel buio di un sotterraneo. Quindi colla fantasia del
ragazzo proclive alla fola, e i sensi sureccitati da quelle crisi
violente di musica e di silenzio, si creava una fantasmagoria fosca
di visioni: si sentiva il freddo del terrore sulla fronte, vedeva
l'ultima luce di un velo bianco nelle tenebre, ascoltava la ressa
spaventosa di un passo nell'ombra, un tintinnio lugubre di
ferraglia, che discendeva nelle spirali del buio; e, trattenendo
involontariamente il respiro, si stringeva al muro, mentre il vicolo
gli si allungava davanti nella notte, e il fanale lontano del gas
non illuminava alcuno col suo chiarore rossastro. Gli pareva di
essere solo, perduto in una sciagura misteriosa: ma d'improvviso
scoppiava un altro canto, l'orchestra si appressava colla sonorità
trionfale di una banda, i cori arrivavano colla giocondità del loro
accordo indebolito attraverso i muri come un rumore discreto di
festa, nella quale la voce pura del soprano sparpagliava dei mazzi
di note o si alzava in un inno luminoso come un razzo. Poi uno
strepito copriva tutto come un ululato di bosco, un fracasso di
uragano prigioniero entro una sala, e che stia quasi per sbalzarne
la volta. Il pubblico applaudiva: le teste si agitavano, gli occhi
balenavano, le mani si percotevano l'una l'altra con rabbia demente,
mentre una donna vestita di bianco e d'oro, ritta sui lumi della
ribalta come sopra i gradini di un altare, curvava lievemente la
fronte raggiante di un vapore di gloria. Allora anch'egli vedeva
attraverso i muri, come se si trovasse nella sala; i palchi erano
pieni, le signore si sporgevano dai parapetti, metà della platea era
in piedi: un'onda di teste rimbalzava e cadeva quasi giù dall'orlo
del loggione pieno di urla, l'orchestra era muta, e i suonatori
cogl'istrumenti in mano guardavano dentro il palcoscenico,
illuminato come il palazzo di un sogno, ricco come la reggia di un
imperatore immaginario. Poi una tenda calava su tutto quell'incanto
e la reggia spariva. Ma il frastuono della sala cresceva, la
tempesta diventava bufera, si udivano grida di trionfo e singulti di
naufragio; i lumi roteavano, le teste della platea fluttuavano come
la schiuma di un'onda, i veli delle signore tremolavano come
altrettante alberelle fiorite che si sfrondino tra il profumo, i
bastoni percossi sul pavimento imitavano le vibrazioni secche della
gragnuola. L'uragano cresceva, aveva delle folate e delle raffiche,
degli aneliti e dei vortici, finchè la tela s'involava ad un ultimo
scoppio, e riapparivano la reggia e la regina. Allora era un
trionfo, una demenza di evviva, una girandola di sguardi, una
pioggia di sorrisi bianchi come i gelsomini; i cortigiani erano
scomparsi e le musiche tacevano.
E Giorgio ritto per aria, nel mezzo della sala, simile all'angelo
del lampadario dorato, si sentiva spingere dal vento di tutti quegli
applausi verso il palcoscenico, sul quale la regina si ritirava
l'ultima volta nella maestà del suo paludamento bianco e oro, mentre
le ovazioni stormivano ancora, e la tela si abbassava lentamente
sugli ultimi fremiti della tempesta.
- Ah! - ruggiva Giorgio scagliandosi sul palcoscenico, di cui non
restavano più che il basamento della grande sala e i mobili, intanto
che il pubblico, in piedi per andarsene, gli aveva già voltato le
spalle.
Ma il telone gli precipitava sul collo come il ferro di una
ghigliottina.
Il pubblico non era più quello.
- Ah!
Con quest'esclamazione Giorgio si toglieva quasi sempre dal vicolo,
accorgendosi di aver fatto tardi. E nella notte quelle visioni di
gloria lo inondavano di splendori. L'ideale della sua arte, così
poco mondano per se stesso, si vestiva di quella decorazione, mentre
col violoncello fra le ginocchia gli pareva di sospendere ai fili
invisibili delle proprie note migliaia e migliaia di anime
sconosciute. Allora una grande ascensione avveniva nel suo cuore,
come se un altro spirito vi si alzasse nel rossore di un'alba
polare, e le parole del violoncello diventassero il suo divino
linguaggio.
Ma ormai Giorgio ne sapeva quanto il maestro, che per quella
assimilazione involontaria delle nature incompiute, le quali credono
di svilupparsi nelle nature più ricche, assistendole, considerava
come propri i suoi progressi. Infatti Giorgio aveva tutto ciò che
mancava a lui e nelle proporzioni più giuste; la misura, il senso
fine, il sentimento contenuto ed elevato, l'attitudine fisica,
questa materialità tremenda ed incomprensibile, che fa uscire
accenti sovrumani dal gozzo di un cantante imbecille, e toglie al
più gran genio di poter esprimere, altrimenti che scrivendolo, il
proprio canto. Perfino il difetto delle mani troppo grandi lo
favoriva. Un giorno finalmente Gaspare gli permise di portarsi a
casa il violoncello per far sentire all'Anna la romanza del tenore
nel terzo atto del Faust. Giorgio avrebbe voluto che Gaspare
assistesse all'esperimento, ma egli ricusò per una modestia, che era
una grossa superbia. Anna strabiliò alla novità inaspettata, ma come
intese quella musica di Giorgio, il cuore le sobbalzò. Giorgio aveva
una fisonomia signorile, alla quale l'ispirazione di quel momento
aggiungeva un significato romantico. Ella ascoltò colle lagrime agli
occhi, e il cuore grosso di una gioia, che era quasi un dolore. Era
strano, era impossibile, che Giorgio potesse suonare così, fosse
così bello!
Gli anni erano passati inavvertiti. E il loro spirito confuso
cercava a tastoni le date nella memoria per misurare la strada
percorsa e contare i giorni vissuti col povero orfanello, allevato
da lei per carità di madre sterile. Ma quando Giorgio all'ultima
nota della romanza le cacciò gli occhi negli occhi col raggio
dell'artista, ella si sentì ferita, e si allentò sulla sedia. Una
rivoluzione le scoppiava nell'anima, accumulatavi insensibilmente
nei lunghi giorni solitarii col ragazzo, che le diventava uomo alle
sottane, e le gettava negli orecchi le modulazioni di tutte le voci,
le voci di tutte le passioni.
- Dio! che cos'è? - esclamò Giorgio, correndo ad abbracciarla - non
sei contenta?
L'Anna trasalì, e lasciandosi cadere la testa sul petto soffocò un:
- Oh!
Giorgio tremava, ma ella si levò impetuosamente, lo respinse, e andò
all'armadio. Giorgio non l'aveva mai veduto aperto. Anna si cercò
febbrilmente la chiave in tasca, e spalancandolo alla fine, gli
mostrò dentro una cassa di violoncello: l'altro frenò appena un
urlo. Con un forza nervosa, che non si sarebbe mai creduta nel suo
corpicciattolo, essa l'afferrò, la trasse dall'angolo, la posò per
terra con una mano sola, e girando convulsamente la chiavetta, che
era ancora nella toppa d'ottone, scoperse un magnifico violoncello.
La cassa era foderata in felpa verde, scolorita.
Giorgio si era appressato.
- Eccolo! - gli disse con un gesto quasi solenne.
- Era di mio padre, bada! Sai che ti amo molto per dartelo... e
tu... - ma un nodo di tosse, che pareva un singhiozzo, le soffocò la
voce, squassandole il petto. Una vampa di rossore le salì
dall'erpete delle guancie sino alla fronte; ella chiuse gli occhi, e
con accento fioco, il volto annebbiato da un cordoglio
inesprimibile, proseguì adagio:
- Mio padre mi ha sempre detto che è un istrumento prezioso, è un
Albani. Mio padre era primo suonatore nell'orchestra del teatro
comunale, dava dei concerti, e avrebbe potuto diventare un signore:
invece è morto lontano, nella miseria, lasciandomi questa sola
eredità. Ho voluto tardare a dartelo, perchè volevo essere sicura
che saresti un suonatore: ora ti credo. Tu sarai più bravo di lui,
io non me ne intendo, ma lo sento nel cuore. Ecco la mia eredità, ti
ho dato tutto.
Giorgio ebbe un singulto.
- Non piangere - ella proseguì con voce sorda; - forse verrà anche
la tua volta, ma tu almeno potrai piangere sul tuo violoncello. Io
no...non posso... - esclamò agitando la testa, e dando in un grido,
che tentò invano di nascondere sotto una risata.
- Porta via - soggiunse allungandoglielo - : va di là in cucina, e
suona quello che vuoi.
Così dicendo tornò al lavoro. Giorgio rimasto coll'istrumento in
mano, istupidito e commosso, non sentiva nè il fracasso procelloso
della macchina, che pareva rompersi sotto le pedate, nè il soffio
sibilante di quell'anelito, che la faceva quasi rassomigliare ad una
locomotiva.
Poi si distrasse, e, lasciando l'istrumento appoggiato ad una sedia,
le venne dinanzi. Anna aveva il naso sulla tela; le mani le
tremavano convulsamente.
Ella non gli badò.
- Anna - susurrò il ragazzo, allungando la mano sulla tela per
pigliarle una mano; le strinse una palma fra le dita, e, curvandosi,
aspettò che levasse il viso.
La macchina proseguiva a corsa.
- Anna! - replicò più forte, vibrando di tutto quel trasalimento.
Ella rallentò il pedale.
- Tu sei la mia mamma.
- La tua mamma non ti amava.
Ma come pentita fermò la macchina, e gli guardò in faccia. Tutti e
due avevano le lagrime agli occhi.
- Vuoi un bacio? - esclamò Giorgio colla grazia di un bambino, che
non ha nulla di meglio da offrire.
- Andiamo, sì, l'ultimo.
Da quel giorno l'umore dell'Anna fu più ineguale. La mattina non
andava più in cucina a farlo alzare, non lo aiutava più a vestirsi,
non gli dirigeva più le solite ammonizioni di portarsi bene a
bottega e di non sprecare i pochi soldi delle mancie. Invece lo
trattò da uomo, quasi col rispetto dovuto ad un dozzinante. Ma egli
non se ne accorgeva, accettando quel miglioramento con un senso di
egoismo soddisfatto; e a poco a poco fu meno diligente a bottega.
Il padrone in fine di settimana gli trattenne due franchi. Giorgio,
che ne aveva già fatti altri tre di debito per comprare della
musica, rimase con pochi soldi in tasca, e non si arrischiò di
consegnarli all'Anna, come faceva sempre: ma ella non mostrò di
notarlo. D'allora tutto il danaro fu speso in musica; Gaspare gli
prestò la propria, se ne fece prestare da altri per lui, che passò
le notti intere a suonare col sordino, o accennando semplicemente le
note coll'arco, ed ascoltandole nel pensiero. Non dormiva, non
mangiava quasi più. Dal canto proprio l'Anna, che era sempre vissuta
di un becchime da uccello, smise anch'essa di mangiare: l'erpete,
allargatosi mano mano, le nascondeva un altro rossore più cupo nello
scavo delle gote. E quel lavoro ostinato cresceva sempre. Adesso
ella si alzava più presto e si coricava più tardi, cucendo dei monti
di roba, curva sulla macchina, gli occhi appannati da quell'eterno
riverbero della tela, sulla quale di notte il lume a petrolio
stendeva la propria luce oscillante e veemente. E poichè la lunga
abitudine la dispensava quasi da ogni attenzione, ella si lasciava
come scorazzare da quel rotolio, che le toglieva di vedere o di
sentire tutto il resto. Solamente nella estenuazione della fatica
qualche volta abbandonava improvvisamente regolo e pedale; e allora
la sua faccia, insensibile nel lavoro come quello di un automa,
prendeva un'aria di rassegnazione mal doma, con una fiamma rossa
negli occhi. Ma non parlava quasi mai, nemmeno seco stessa, come i
solitarii, o tutt'al più con un gesto, un sorriso, che erano tutta
una fisonomia, il riassunto sublime di un discorso desolante.
Un giorno, portandosi alla bocca un pezzo di tela per trattenere un
insulto di tosse, vi lasciò una bava sanguigna. Rimase un istante
pensierosa, poi un sarcasmo le contrasse la bocca.
- Ohi! - esclamò - la gioventù, l'amore e la morte hanno il medesimo
segno.
Ma, invece di riprendere il lavoro, si buttò sul letto.
Giorgio arrivò a casa più presto, e, trovandola coricata, sbigottì.
- Stai male?
Ella saltò a sedere sul letto col volto infiammato.
- Perchè? no.
Poi Giorgio le narrò come Gaspare avesse tanto parlato di lui col
direttore d'orchestra, che questi aveva promesso di venirlo a
sentire, e quindi ci poteva essere la speranza di un concerto alla
Società filarmonica. Pronunciando queste parole, il cuore di Giorgio
batteva come un pendolo.
- Sarà il principio della tua fortuna.
- E anche della tua.
Ella si era seduta sulla sponda del letto.
- Fai ancora all'amore? - gli domandò improvvisamente - già i
compagni ti avranno messo su.
Giorgio ebbe una vampa di rossore, e si coprì di tale confusione,
che l'Anna comprese la sua verginità, ed ebbe un brusco movimento.
- Allora bisogna che tu sia ben vestito; con questi stracci non ci
puoi andare al concerto. Domani mattina dirai al padrone che ti
prenda la misura di tutto un abito nero: il nero ti farà parere un
signore; perchè vedi, me ne intendo io, ho fatto la sarta. Colla tua
pelle bianca e i capelli biondi... Saprai poi salutare, quando vieni
fuori, a tutta la gente, che ti guarda negli occhi...? Figurati che
la sala sarà piena, ci saranno delle signore e delle ragazze, che ti
batteranno le mani.
- Suonerò bene, non aver paura.
- E quando tornerai in questa miseria, ti parrà di soffocare e
penserai che tutte quelle belle signore, che ti guardavano, saranno
nei loro appartamenti parlando forse di te. Sono sicura che
incontrerai, ma poi ti sembrerà di star peggio, qui, solo con me.
- Tornerò a suonare - rispose Giorgio coll'ingenuità dell'egoismo: -
darò degli altri concerti.
- Anderai a girare il mondo?
- Sì, sì.
- Allora guadagnerai dei quattrini; i signori ti faranno dei
complimenti, e ti inviteranno a pranzo per sentirti suonare dopo.
- Non ci andrò - ripetè con un impeto d'orgoglio.
- Perchè?
- La mia musica vale di più: non è già un divertimento.
Anna si arrestò; poscia guardandolo con malinconia:
- E quando sarai famoso?!
- Presto - replicò Giorgio, che non comprese il significato della
domanda.
- Va a suonare, va.
Era vero. Il direttore d'orchestra venne a casa di Gaspare, e si
mostrò poco commosso. Incoraggiò il ragazzo a proseguire, ma notò
subito molti difetti di scuola e di interpetrazione: i tempi non
erano sempre giusti, le note affettavano una smanceria di linguaggio
umano, i bassi avevano poca profondità. Solo gli acuti gli
piacquero.
- I vostri acuti sono perlati - disse finalmente; - avete superato
una grande difficoltà.
Quindi Gaspare gli si raccomandò per un concerto, dipingendo alla
propria maniera la posizione di Giorgio, ed insistendo con tale
servilità, che l'orgoglio del ragazzo cominciò a sanguinare.
Il direttore promise così così, ingrandendo gli ostacoli, il
pubblico che era svogliato, i concerti giù di moda, e sfruttati da
tutti i grandi suonatori vaganti; nullameno procurerebbe, e disse al
ragazzo di andare da lui per la risposta decisiva e per intendersi
sulla musica. Egli aveva scritto un concerto per violoncello e
pianoforte, ancora inedito, che potrebbe servire a meraviglia.
- Anzi, anzi - esclamò Gaspare - sarà una magnificenza.
Quando il direttore fu andato via:
- Vuole che suoni la sua musica, ecco perchè!
- Eppoi se non è bella, mi darà la colpa - ruppe improvvisamente
Giorgio.
- Come siamo superbi! - rispose Gaspare, che in fondo divideva il
dispetto del ragazzo per la freddezza del direttore; ma
fortunatamente tutto andò per la meglio. Giorgio accettò di suonare
quel concerto, una povera imitazione di Vieuxtemps, aggiungendovi
un'elegia di Fumagalli, e la sublime romanza del Tannhauser. Per un
ragazzo era fin troppo. Aveva un mese di tempo, Gaspare s'incaricava
di tutto.
- Tu studia e lascia fare.
Fu convenuto che Giorgio per quel mese non andrebbe a bottega;
Gaspare avviserebbe il padrone, e l'Anna non ne saprebbe nulla fino
all'ultima sera.
Giorgio doveva passare tutte le giornate in casa di Gaspare
studiando.
Allora tutta la sua espansione cessò. Colla precocità di tutti i
grandi artisti egli intuiva di già la vita in ogni rapporto
coll'arte: quel concerto doveva essere la sua prima e più importante
affermazione. Bisognava stordire il mondo per regnarvi poscia. La
musica era la più grande delle arti, il violoncello il migliore
degli strumenti. Egli lo sapeva e tutti lo dicevano, ma, appunto per
questo, guai se non arrivasse ad esprimersi come sentiva, a far
piangere come aveva pianto tante altre volte suonando!
Egli non sapeva ancora darsi la formula della perfezione, che
sognava, e nella quale dovevano sparire scrittore e suonatore,
partizione e strumento, la nota diventare una parola, e la parola un
verbo. Allora solamente la musica era musica, quando diceva ciò che
tutte le altre arti non possono, e parlando un linguaggio
intelligibile a tutti, quantunque intraducibile per ognuno,
ricordava alla coscienza ciò che essa non ha mai saputo, ma forse
sempre presentito.
Giorgio sentiva tutto questo in confuso e, se non misurava sempre
l'altezza cui la passione dell'arte lo spingeva, ne aveva già le
vertigini e il freddo. Più spesso lo sviluppo del linguaggio
musicale lo preoccupava dolorosamente. Egli lo avrebbe voluto col
rilievo della plastica e la luce dei colori: quindi il pianoforte,
colle sue note già fatte, di una misura e di un accento immutabile,
non era per lui nemmeno un istrumento. Invece il violoncello aveva
tutti i fremiti della carne e le vibrazioni del pensiero: ma come la
parola parlata, la sua parola ritmica doveva dir tutto e mostrar
tutto. Da qual cuore usciva dunque quell'elegia di Fumagalli? Era il
primo singhiozzo, o l'ultimo rantolo del dolore? Quelle lagrime
cadevano colla rugiada dell'alba, o con quella della sera? Gli occhi
avevano la profondità del cielo o quella del mare, cerulei o neri?
Cercavano in cielo, o scrutavano sotto terra? Quando egli suonava
quell'elegia gli pareva di vederne la donna, conosceva il suo
dramma, udiva la musica nel suo cuore, e la ripeteva sul violoncello
senza sapere come o perchè.
Ma la sera del concerto quella evocazione della sua anima doveva
essere visibile a tutti, lì, presso lui, vestita come un angelo,
colla veste troppo lunga, che le si ammassava ai piedi, e il corpo
spossato.
Quel fantasma era una ossessione, che non lo lasciava più.
Gaspare gli andava dicendo:
- Studii troppo, ti ingrosserai la mano e l'orecchio.
Finalmente arrivò la vigilia del gran giorno.
In quel mese l'Anna era talmente deperita, che quando Giorgio se ne
accorse rimase sgomento. Nullameno ella gli aveva cucito sei camicie
alla moda e due cravatte di raso nero, che lo fecero piangere di una
tenerezza mista quasi di rimorso. L'Anna si era forse uccisa a
lavorare per lui; infatti non le restavano più che la pelle e le
ossa, con due grandi occhi azzurri giù nella profondità dell'orbita,
brillanti di una luce intollerabile. La sera, quando Giorgio tornò
di bottega coll'abito nuovo, ella pretese che se lo provasse, e gli
accomodò con civetteria di donna il nodo della cravatta e i riccioli
sulla fronte. Ma dopo un lungo esame concluse che il soprabito era
mal fatto.
- Quando sarai ricco, bada di vestir sempre bene - esclamò con
un'ammirazione malinconica, che lo fece arrossire; quindi:
- Adesso va di là in cucina; lascia qui il violoncello, ed entra
come se questa fosse la sala. Io mi metto là in fondo; tu entri, fai
l'inchino al pubblico, ti accomodi a sedere, e suoni. Ti voglio
vedere.
- Perchè non vieni al concerto?
- Io, così! finiresti col vergognartene.
Giorgio, che si sentì penetrato troppo, fin dove non voleva arrivare
egli stesso, abbassò il volto; ma ella proseguì:
- Devi entrare disinvolto, sai? Non t'impacciare, il mondo è senza
simpatia per quelli che lo temono, senza pietà per quelli che lo
fuggono. Vediamo, va.
Giorgio andò: stette nella cucina due secondi, poi aprì l'uscio, e
si avanzò superbamente fino alla sedia, presso alla quale aveva
lasciato il violoncello; fece un piccolo cenno col capo, e si adattò
l'istrumento fra le gambe, saggiandone l'accordatura.
- Vuoi che suoni? - disse smettendo la posa teatrale, e
rivolgendosele con un sorriso.
- No - ella rispose trattenendo uno sbocco di sangue.
Quindi aperse il comò; ne trasse uno scudo, e glielo offerse.
- Divertiti, va a teatro.
- Ma perchè mi fai tutto questo? - proruppe commosso ed umiliato da
quella bontà inesauribile.
- Dà mente a me, distraiti; domani sera suonerai meglio, altrimenti
stanotte non dormirai.
- Allora mi spoglio.
- Mai; avvezzati l'abito addosso, se no domani sera parerai
impacchettato.
Giorgio uscì trionfante, e l'Anna si buttò sul letto piangendo.
Si sentiva morire! Un gran bollore di sangue le montò dai polmoni
con una nausea calda: potè appena nello spasimo afferrare il vaso da
notte, e lo empiè mezzo. Un pallore cinereo le si diffuse sotto quel
rosso ecchimosato dell'erpete, e le fe' una fronte di morta. Ricadde
sull'origliere. In un mese la tisi, aiutata da quell'atroce lavoro
della macchina, l'aveva uccisa senza uno scoppio di tosse. Anna lo
sapeva. Era notte, il lume a petrolio ardeva sul tavolo: la camera
era quieta, fuori la strada silenziosa. Allora le parve di non
essere più nel mondo, e un pianto a goccioloni le cadde dagli occhi,
mentre l'anima costernata le si sdraiava in fondo alla coscienza
come dentro al sepolcro. Riassunse tutta la propria vita con uno
sguardo, una vita grigia e taciturna, di lavoro automatico, in una
stamberga, in fondo ad un quartiere abbandonato, dirimpetto ad un
muraglione, che le toglieva ogni prospettiva. Ella non aveva
vissuto, non aveva avuto nè mamma nè babbo, non aveva visto nulla,
nè posseduto nulla. Era calata lungo la corrente dei propri giorni,
come per uno di quei fossi metà ignoti e metà sotterranei: adesso il
fosso era secco, e sovra i margini del suo pantano nemmeno un fiore
agonizzava. Poichè non aveva avute speranze, non aveva rimpianti. Il
sepolcro era per lei un'altra camera, in un quartiere abitato da
gente ignota, perchè nessuno è più ignoto dei morti. Così il
crepuscolo della sua giornata tramontava nella notte, e l'ombra dei
suoi giorni si perdeva nella eternità. Tutto questo era giusto, ma
era stato altresì inutile. Ella, che non aveva parenti, era senza
santi. Però in quell'infinita oscurità dell'indomani, che le si
diffondeva già intorno, e in quell'ultimo dolore del corpo
singhiozzava con tale passione, che quel dolore da solo non avrebbe
potuto produrre. E, cercando spasmodicamente colla testa dove
riposarla, girava gli occhi nella curiosità desolata dei moribondi!
Anna aveva dunque vissuto?
Poi nel fosco e freddo paesaggio del passato distinse qualche
sprazzo di luce, qualche angolo fiorito: un uccello cantava da una
siepe, un sorriso balenava da una pozzanghera. Poi arrivavano rumori
di festa, e la gente cominciava a passare; uno si era fermato,
mentre il sole irrompeva con tutta la potenza del proprio incendio.
Quindi il sole impallidiva, e passava altra gente: erano donne e
bambini, sorrisi e sarcasmi, grida e chiacchierii; una monotonia
inesauribile di attività minute in una immensa società misteriosa.
Anna aveva dunque vissuto?
Bisognava morire. Ma perchè soffrir tanto? In ultimo la vita si
divide; una metà guarda indietro: cosa faranno coloro, che lasciamo?
Una metà guarda innanzi: dove andremo noi, che partiamo? Ella
pianse, poscia il dolore le si calmò in una specie di sonnolenza.
Non dormiva; il silenzio della camera le pesava sul respiro, la
fiamma del lume a petrolio le bruciava nel petto. Le pareva
impossibile di poter confessare: ho vissuto! e subito dopo morire.
In quel momento ella sentiva come non mai prima la poesia
irresistibile della vita e del moto. Voleva essere in due anche lei,
perchè tutti sono in due nella vita, la sposa ed il marito, la madre
ed il figlio. Ella invece, avendo dovuto esser sola, non era mai
stata nulla. Quindi il mistero del mondo si complicava del suo
piccolo destino, il dramma eterno della vita colla sua effimera
tragedia. Perchè dunque non aveva mai potuto amare ed essere amata?
Tutte le forme dell'affetto le si erano perciò agglutinate
mostruosamente nella coscienza: aveva ancora le tenerezze della
bambina, le simpatie della giovinetta, le affezioni della ragazza,
le passioni della donna; poi tutte le soavità dell'amicizia e
gl'impeti dell'amore, le idolatrie della madre, e le bramosie della
sposa, gli entusiasmi della vergine, e le gelosie della ganza. Ella,
che aveva vissuto tanti anni così calma, credendosi quasi una donna
dell'altro mondo, cominciava a comprendere di essere come tutte le
altre. Perchè dunque morire? Perchè aveva dovuto suicidarsi con quel
lavoro della macchina? Perchè le avevano fatto inghiottire tutte le
amarezze, e adesso le facevano sputare tutto il sangue? Perchè
dunque c'era Dio?
Morire, abbandonare Giorgio nel mondo senza esperienza e senza
aiuto!
- Giorgio! - mormorò fiocamente spalancando gli occhi e avventando
come un grido in faccia ad un invisibile interlocutore.
Giorgio non venne a casa che tardi, ella lo sentì, ma finse di
dormire. Il ragazzo rimase due minuti a guardarla con una tenerezza
piena di apprensioni, e andò a coricarsi in cucina. L'indomani
Giorgio era invitato da Gaspare; passò la giornata fuori.
Benchè si sentisse molto male, l'Anna si era alzata per non
scoraggiarlo: vegliò al suo abbigliamento, e, appena sola, tornò a
letto. Contro tutte le istanze di Gaspare stesso aveva rifiutato di
assistere al concerto, prestando per suprema ragione la mancanza di
un vestito adatto. Fu l'ultimo giorno. Lo sfinimento di tutte le
forze le dava la rassegnazione dell'impotenza. Quindi scrisse una
lettera, che era il suo testamento, se la nascose sotto il
capezzale, e ricoricandosi disse con un mesto sorriso le stesse
parole di Byron:
- Adesso dormiamo.
La finestra era socchiusa: il gatto era scappato fin dal gennaio
dietro una misteriosa avventura di amore, il canarino era morto coi
primi freddi dell'anno.
Ella se ne ricordò, e il malinconico destino di quel povero uccello,
vissuto sempre in gabbia, che non aveva conosciuto nè la patria
lontana, nè la nuova dove avevano trasportati prigionieri, chi sa da
quanti secoli, i suoi avi, le parve pieno di triste affinità col
proprio. Anche il canarino non aveva avuto nè nido nè figli: perchè
dunque era vissuto?
Dopo una lunga meditazione, nella quale si rimproverò di essere
stata la sua carceriera, se ne distolse susurrando:
- Beh! tanto è finito.
Non ci pensava: tutto le moriva in cuore, anche il problema della
vita. Allora ebbe un letargo, era già morta.
Passarono molte ore, poi si destò come ad un richiamo.
- Il concerto?!
Erano circa le sei della sera.
D'improvviso tutto quell'egoismo dell'agonia svanì, e rientrando
precipitosamente nel mondo vi riconobbe tutti i viventi. Fu un
tumulto. Il concerto, Giorgio, il suo trionfo, l'amore di madre e di
donna, che gli portava e che sembrava già morto, tutto rifulse in
quell'ultimo crepuscolo. Rivide Giorgio, e le parve di abbracciarlo
stretto per portarselo nella eternità. Ma in quell'abbraccio si
sentì mancare il respiro: le mancava davvero.
Allora colla ostinazione e l'avvedutezza dei moribondi si stese sul
letto, e vi rimase cercando di raggranellare tutti gli atomi delle
proprie forze; fece una provvista di aria e di pensiero, stette
ancora chi sa quanto così; quindi lasciandosi scivolare dal letto
con una circospezione indefinibile, adagio, a passi insensibili per
consumare meno energia, arrivò al tavolino.
Voleva scrivergli una lettera.
Quando sentì di riuscirvi, mise un sospiro di gioia, la più intensa
di tutta la sua vita. Era quasi felice nel sentimento poetico della
propria morte: un chiarore di aureola le imbiancava il volto.
Scrisse un pezzo, poi chiuse la lettera, e, sorridendo come una
bambina, tornò a letto.
- Ora è proprio finita.
Ma poco dopo intese aprire violentemente la porta; Giorgio entrò
rosso ed ansante.
- Fra un'ora incomincia - esclamò - . Sono scappato, volevo vederti.
Ella, che non capì quella curiosità affettuosa, le diede un
significato tragico.
- Non aver paura, morirò dopo - disse con voce quasi insensibile.
- Vieni?
- Sento di qui.
In quel momento, animato dalla corsa e dall'emozione, Giorgio era
bellissimo: non sapeva bene quello che si facesse: distingueva
appena gli oggetti. La espressione morente dell'Anna gli sfuggì.
Ella chiuse gli occhi abbacinata dalla sua visione.
- Scappo.
E scappò senza attendere la risposta.
Era notte: un chiarore pallido, filtrando per la finestra, bagnava
cinque o sei mattoni del pavimento, il grugno brunito della macchina
e lo specchietto della parete avevano a quando a quando un raggio.
Tutti gli altri mobili erano spariti, la piega del lenzuolo,
prolungandosi verso terra, faceva una chiazza indecisa nell'ombra.
Anna sonnecchiava: per un momento le parve di udir suonare, poi più
nulla.
Aveva freddo, ma non ebbe la forza di ravvoltolarsi addosso le
coperte, e si tirò solo un lembo del lenzuolo sul volto. La notte e
il freddo crescevano, il chiarore si appannò, poi si spense del
tutto nella camera.
Non si intese più nulla.
Alle undici il rumore di un fiacchero, che si fermava alla porta,
salì: poco dopo Giorgio rientrava col violoncello in una mano, e il
fiammifero nell'altra. Era raggiante, si accostò premurosamente, ma
udendo il suo piccolo respiro rantoloso, e vedendole gli occhi
chiusi, non osò chiamarla. Anna si teneva con una mano il lenzuolo
sulla bocca, l'altra le pendeva abbandonata lungo la sponda del
letto.
Stette così infra due di narrarle tutto, le sale, il pubblico, la
propria paura, poi i primi applausi, applausi sempre, un trionfo,
una demenza, i signori che gli stringevano la mano, le signore che
lo guardavano cogli occhi inumiditi: e Gaspare, il suo padrone, il
sarto che era venuto in camerino a dargli un bacio e a dirgli che
gli regalava il vestito. Ma l'Anna aveva gli occhi chiusi, e il suo
piccolo respiro rantolava insensibilmente fra le fila del lenzuolo.
Giorgio guardava sempre col fiammifero, riparandolo coll'altra mano.
Appoggiò il violoncello alla testiera del letto come per farle
capire, se si destava, di essere tornato, e sulle punte dei piedi
andò in cucina.
Era così affaticato da tutte quelle emozioni, che si addormentò.
Quando si svegliò la mattina, era solo.
L'Anna era morta; non aveva più il lenzuolo sul volto, ma il
lenzuolo era macchiato di sangue.
Gaspare aveva ospitato Giorgio.
Sciaguratamente la lettera trovata sotto il capezzale dell'Anna non
giovò a nulla; alcuni parenti lontani s'impossessarono dei pochi
mobili, senza che si trovasse un avvocato per difendere la causa
dell'orfanello. D'altronde nè Gaspare nè Giorgio insistevano; questi
si portò via i panni, la musica, il violoncello, ed entrò con
Gaspare nell'orchestra sotto il solito direttore; poi un impresario
gli offerse di fare un viaggio per l'Italia e per l'estero dando
concerti. Giorgio accettò con entusiasmo. Però i loro conti
fallirono quasi interamente. Quindi da Venezia, la terza stazione
del pellegrinaggio, entrarono in Germania già decaduti dalle prime
pretensioni, fermandosi in tutte le città, e adattandosi alle
esigenze della speculazione per fare quattrini. Se non che quella
vita, tanto sognata, finì presto per mortificargli, colla passione
della musica, la squisita sensualità artistica. Ogni giorno si
faceva più malinconico, non parlava, ricusava tutte le sollecitudini
dell'impresario, il quale per tenerlo allegro avrebbe voluto
visitare i luoghi dove transitavano. Invece di passare come uno
straniero poetico e fatale incantando la gente, e lasciandosi dietro
una lunga commozione di ricordi, si accorgeva di non essere che un
povero ragazzo in mano ad un mercante, il quale lo faceva suonare
negl'intervalli delle commedie in tutti i teatrucoli, e, urgendo il
bisogno, gli avrebbe fors'anche imposto le birrerie. Fortunatamente
l'impresario, una natura di boemo, metà speculatore e metà
dilettante, che aveva vissuto la più strana vita di avventure, si
compiaceva troppo nella mobilità di quel vagabondaggio per pensare
molto a sfruttarlo. Quindi trattava Giorgio da camerata, dandogli
volta per volta pressochè la metà vera dell'incasso; e mentre egli
la spendeva il più presto possibile in bagordi, ai quali aveva la
prudenza di non invitarlo, per non compromettergli la salute,
Giorgio la riponeva quasi integralmente.
La sua sola e grande spesa erano i vestiti e le biancherie; voleva
scendere ad un albergo più che decente, arrivare e partire sempre
dal teatro in carrozza. Ma sebbene fosse oramai un uomo, era ancora
vergine o quasi, giacchè l'attività incessante dell'anima gli
produceva come un'inerzia nei sensi. Vestiva di nero, come gli aveva
consigliato l'Anna, e, unico malvezzo della professione, portava i
capelli in una pioggia di riccioli sulle spalle, i quali
gl'incorniciavano romanticamente la magnifica testa, fine nella
bocca, altera e quasi brusca nell'altezza e nella convessità della
fronte. Una lanuggine trascurata gli metteva un pallido color
d'ambra sul pallore quasi cereo delle gote, che un largo cerchio
turchino sotto gli occhi solcava con una patetica espressione di
malattia. L'impresario, sui cinquant'anni, aveva ancora tutta la
giovinezza ostinata di certi dissoluti, e si ubbriacava di donne e
di vino, trovando sempre, diceva lui, il manico, pel quale pigliava
le cose e le persone. Ma se acchiappava non sapeva tener stretto, e
peggio s'innamorava tuttavia come un fanciullo. A Gratz si legò con
una serva di birraria, bella ragazza, bionda come Giorgio, e che
Giorgio detestò quasi subito. Quindi una rottura. Giorgio, che
s'accorgeva di non ricevere più la metà degli incassi, disgustato da
quella facilità di amori, se ne lagnò aspramente con lui; la
servetta volle interloquire ad insolenze, e l'impresario fidandosi
sulla propria superiorità di guida, che sa la lingua del paese, con
un ragazzo abbandonato, inesperto e quindi nella impossibilità di
ribellarsi, sbraveggiò. Giorgio allora lo guardò con disprezzo,
avvertendolo che si sarebbero separati.
- Voi? Non trovate neanche la stazione per andarvene, povero coso!
Giorgio gli voltò le spalle senza dir altro.
La mattina per tempissimo, colla prima corsa, partì; ma, ancora
fanciullo, nel timore di essere inseguito, invece di ritornare,
proseguì verso Vienna. Rimase due giorni nascosto in un piccolo
paese; quindi diede volta per l'Italia. Rivide Venezia, tutto il
Veneto, a piccole tappe, senza aprir mai la cassa del violoncello; e
si trattenne a Milano. Da Milano discese a Firenze, gironzolò per
tutta la Toscana, finendo per fermarsi a Scarperia sotto
l'Appennino. L'incantevole paesello lo innamorò, non era ancora la
primavera: i monti bianchi di neve si alzavano a picco,
prolungandosi indefinitamente come un muraglione che dividesse due
mondi. Era un paesaggio severo ed aggradevole, romito e gentile. Una
mattina entrò in una piccola osteria, a mezza strada, fra il paese e
la montagna. La strada vi faceva un gomito, e a poca distanza una
casetta nuova, con dinanzi due aiuole ed una cancellata di ferro,
sorgeva in mezzo ad un orto. Tutta la sua facciata era coperta di
pianticelle rampicanti. Forse l'ortolano, che l'abitava, era pure il
padrone dell'orto. Giorgio rimase pensieroso a guardarla dall'uscio
dell'osteria, mentre gli ammanivano il pranzo.
- Potreste alloggiarmi qui? - domandò all'ostessa, che era venuta a
chiedergli se gli piaceva il pecorino nella minestra.
Ma ella, che dalla fisonomia e dagli abiti lo prendeva per un gran
signore, si scusò della povertà dell'osteria, buona appena per i
pecorai della montagna: quindi Giorgio la interrogò sulla casetta di
contro. L'ortolano presente si mescè al dialogo, e convenne di
affittargli una stanza.
- Quella di mio figlio: l'ho messo nel seminario di Firenzuola.
Il prezzo fu di dieci franchi al mese, l'ostessa per altri quaranta
s'incaricò del pranzo: era il mese di marzo, e il seminarista non
doveva tornare a casa che sulla fine del settembre. Giorgio fu
contentissimo: l'ortolano andò subito coll'asino a prendere i bauli
dall'albergo; e quella sera stessa, prima di coricarsi, Giorgio potè
contemplare lungamente dalla finestra i monti bianchi di neve. La
cameretta era piccina, colle tende. La famiglia dell'ortolano si
componeva della moglie, una donna sulla quarantina, una bambinetta,
due garzoni, poche galline, quattro mucche e due grossi cani
pastori.
In casa credevano di avere un inglese, che sapesse l'italiano.
Per alcuni giorni Giorgio non aprì ancora la cassa del violoncello.
Dal primo istante tutti si erano innamorati di lui per la sua
ammirazione della vita campagnuola; l'ortolana specialmente per la
sua ghiottornia del latte: poi l'olio, il pane e il vino, queste tre
perfezioni della Toscana, che egli lodò con entusiasmo sincero, gli
dettero il prestigio di un gran signore, che sa essere giusto col
paese e colla povera gente.
Ma Giorgio, che voleva evitare ogni soverchia famigliarità, stava
malinconicamente chiuso nella modesta cameretta, o uscendone a
passeggiare, rispondeva breve e garbato con un sorriso più dolce di
ogni risposta.
Aveva poco più di duemila franchi, due anni quindi di vita oziosa e
tranquilla, ignoto a tutto il mondo, studiando fra quella dolce
natura. In viaggio aveva comprato molti libri. Fece un disegno di
vita, e vi si conformò abbastanza scrupolosamente. Aveva pressochè
diciott'anni, ed era solo al mondo, come il più giovane garzone
dell'orto, un trovatello di Firenze.
Allora la rivoluzione, che fermentava da lungo tempo nel suo
spirito, scoppiò. Rimeditando il viaggio in Germania, ne risentì una
profonda umiliazione per se medesimo e per l'arte. Gli parve di
essersi degradato ad un'apostasia, e che il pubblico avesse avuto
fin troppa ragione di accoglierlo così freddamente. Infatti il mondo
era tutto pieno di rapsodi come lui, che viaggiavano solleticando
gli orecchi, come gl'impresari dei teatrucoli meccanici solleticano
gli occhi. Non era così la musica, non era così il violoncello. Poco
prima di morire l'Anna gli aveva detto che se ne sarebbe fatta
sepolcro, e vi avrebbe abitato per tutta l'eternità: come mai aveva
egli potuto suonarvi dunque dei valtzer, e gettare nel raccoglimento
divino di quella morte la volgarità chiassosa di un ballo? Che cosa
ne aveva detto l'anima della morta chiusavisi volontariamente per
seguirlo dappertutto? A questo pensiero un rimorso, che era quasi
una paura, gli addentava il cuore, mentre il suo spirito cercava di
rifugiarsi in un nuovo e più alto concetto dell'arte. Il bisogno di
una formula, che spiegasse l'essenza della musica, lo urgeva, senza
che il suo ingegno troppo esaltato ed insieme troppo povero di
nozioni positive potesse arrivarvi. Secondo lui la musica era nata
ultima nella storia dell'arte, quando il poema era già morto con
Dante, e il dramma con Shakespeare: gli antichi non l'avevano
nemmeno sospettata. Era nata quando la poesia del popolo tramontando
nella poesia dell'individuo diventava lirica con tutta la varietà
dei ritmi e delle passioni.
Ma come la lirica era la quintessenza della poesia, la musica era la
quintessenza della lirica, giacchè solo la melodia degli accenti e
la composizione misteriosa delle sillabe producevano nella massa il
suo sentimento. Egli non sapeva la storia del linguaggio, ma
l'inventava così: prima il gesto, poi il suono, poi la parola, poi
la poesia, poi la musica: la musica, l'ultimo sforzo del linguaggio
umano, che esprimeva quanto le altre forme non avrebbero saputo o
potuto. Era quindi nata dopo che le tre grandi manifestazioni del
linguaggio, la linea, il colore e la parola, si erano esaurite; dopo
che la poesia si era ammutolita in faccia all'ultimo dubbio, e la
religione aveva sospirato sul cadavere dell'ultima speranza. Allora
dalla cima della piramide umana, alla quale tutti i popoli avevano
portato un sasso o lasciato un rabesco, la musica aveva alzato
l'ultimo canto della vita. Essa era ancora là, misteriosa come la
vita medesima, riassumendone tutte le armonie, e ripetendole.
Secondo lui nel mondo la poesia rappresentava l'infanzia della
musica, come il graffito era forse ad un tempo l'infanzia della
pittura e della scultura: ma la musica era inoltre tutta l'anima del
linguaggio. Che altro aveva determinato l'accordo delle vocali e
delle consonanti, l'allinearsi delle sillabe, il disporsi delle
parole? La musica era l'architettura del linguaggio umano, mentre la
poesia non ne era che l'ornato: la musica sentiva le convenienze
intime e i rapporti misteriosi dei suoni colle idee: essa scriveva i
periodi larghi e maestosi delle storie, le strofe leggiere per i
conviti, raggruppava i versi degl'inni e dava loro il volo delle
freccie; gettava le ottave dei poemi come gli archi dei portici,
tirava le linee degli esametri come le linee dei cornicioni; tutto
il linguaggio era un'orchestra, prosa e poesia, periodo cifrato e
periodo scritto, le stesse leggi e gli stessi principii; la parola
vi era sempre regolata dal tempo come la nota; e poi le gamme e le
serie, e poi la musica ancora, sempre e dappertutto, nelle linee e
nei numeri, nell'uomo e nella natura, nella eternità e
nell'infinito.
E il suo spirito si smarriva sbigottito fra questo caos di idee,
come il viaggiatore per le rovine di un antico mondo geologico.
Quindi tutti i problemi della coscienza venivano a tempestare in
quel problema artistico. Prima di possedere la musica come arte,
l'umanità l'aveva avuta come ricordo o presentimento divino. L'anima
dei primi abitatori, abbandonandosi al rumore dei fiumi, aveva nella
inesauribilità di quel suono trepidato la prima volta nel sentimento
dell'eterno: il bianco è un unisono di colori; il tuono una nota,
che nessuno può fare se non Dio; l'amore, la gloria, i funerali, il
paradiso... musica, null'altro che musica. Forse nell'ultima
giornata della storia essa sarebbe il linguaggio dominante.
E allora, quasi l'ammasso informe di quelle idee mal nate e mal vive
fosse già disposto nell'ordine di un sistema, si lanciava d'un salto
alla musica moderna. Siccome l'epopea era discesa da gran tempo nel
sepolcro, e il dramma era più che morto negli ultimi tentativi per
risuscitarlo, la musica melodrammatica doveva essere morta del pari.
Le necessità della scena l'avevano sempre soffocata, giacchè un
dramma ha più efficacia in prosa che in verso, in verso che in
musica. Nel dramma primeggia la rappresentazione della verità
esterna, e quindi il linguaggio dell'arte che evoca un fatto, deve
possibilmente essere lo stesso, col quale il fatto avveniva nella
storia. Gli uomini parlano non cantano, la vita storica è azione e
non sentimento. Egli negava il melodramma, e più ferocemente ancora
la lirica musicale rifatta sulla lirica poetica. Perchè ripetere
colla musica ciò che si è già potuto dire colla poesia? Poi nel
melodramma prevaleva fatalmente la voce umana, mentre Beethôwen
aveva pur dovuto confessare di non potersi costringere nella sua
piccola gamma. L'uomo non poteva essere che un istrumento nella
grande orchestra della natura, o tutto al più una specie di
condensatore, nel quale passavano le varie forme della musica.
Quindi l'arte doveva significare l'azione reciproca dell'uomo sulla
natura, e della natura sull'uomo.
Ma questa concezione, dandogli le vertigini orgogliose di una
scoperta, impiccioliva ancora la sua piccola personalità di
violoncellista. Ormai non ammetteva più che la forma orchestrale
colle voci umane discese ad istrumento di canto o di accompagno:
nessuna scena, ed un'orchestra immensa in un teatro enorme. Là
doveva eseguirsi la musica del nuovo genio, forse già nato, perchè
quando una rivoluzione è iniziata, poco sta ad arrivarne il
conduttore. Da Beethôwen a Berlioz il gran concerto e la grande
sinfonia tendevano alla trasformazione del teatro e del gusto
musicale. Wagner per difendere il dramma aveva dovuto innalzarlo nel
mito, la grande regione musicale, trascinandosi dietro il mondo
nell'ascensione. Ma dopo Wagner ogni altro dramma sarebbe
impossibile collo sviluppo assorbente dell'orchestra nell'opera. Ciò
era fatale e provvidenziale; le corde di una gola non potevano
prevalere contro quelle di un violino. Da questo egli deduceva la
subordinazione di ogni individuo nell'opera immensa dell'orchestra.
Oggi che tutte le grandi arti erano morte per l'eccessiva importanza
dei singoli artisti, e il libro aveva ucciso il monumento secondo la
terribile frase di Hugo, solo la musica poteva ottenere
l'annichilamento di mille volontà nel prodigio della sinfonia. La
sinfonia era l'ultimo monumento della civiltà, l'ultima cattedrale
della religione.
Poi la musica conteneva tutto. Berlioz non aveva scritto la
Dannazione di Faust, Beethôwen la Tragedia di Cristo, Haidn il Poema
della Creazione? E in tutte queste opere le parole avevano appena un
valore di spunto per la frase musicale. I quartetti di Boccherini,
di Mozart, di Mendelsonn, di Goldmark non valevano le poesie di ogni
altro poeta? Chopin non era stato il sentimento poetico più squisito
del nostro secolo? Schumann e Raff non avevano scritto senza parole,
l'uno il Carnevale, e l'altro il Fiore misterioso?
Così proseguendo a sbalzi gettava il ponte di una induzione su due
nozioni fragili e lontane, avventava un giudizio nella mischia
indistricabile di mille contraddizioni. Aveva letto troppi libri
negli ultimi mesi, quindi un capitolo di Wagner, il trattato sulla
istrumentazione di Berlioz finirono di sconvolgergli la testa. Ma
coll'energia, che si attinge quasi sempre dalla coscienza del
sacrificio, si inabissava intrepidamente nelle conseguenze più
profonde e gelate del proprio sistema. Adesso un suonatore non
poteva essere più che un istrumento, nel quale passava qualche filo
di musica, un rigagnolo destinato a formare un fiume e ad ignorarne
il corso.
Come dunque aveva egli osato di credersi un artista per avere
espresso un pensiero o una passione di altri?
Comporre la propria musica e suonarla, ecco l'ultimo sogno. Gli
antichi rapsodi, i meno antichi trovieri non inventavano assieme
musica e poesia; non erano poeti, attori e suonatori ad un tempo?
L'arte consisteva tutta nell'idea, epperò l'eseguire non era un
creare, ma un trasmettere.
Giorgio volle essere artista. Aveva diviso la musica in epica e
lirica, sinfonia e ode, quartetto e romanza. Egli sarebbe un lirico.
Allora non ebbe più requie. Pensò di scrivere il proprio romancero,
e di suonarlo in un nuovo pellegrinaggio pel mondo; e siccome nei
mesi passati in orchestra con Gaspare, il direttore gli aveva
appreso alcune lezioni di contrappunto, credette che potessero
bastargli. Come tutti i giovani ribelli, egli non ammetteva quasi
regole di sorta. In tale fermento di spirito trascorse un mese.
Quando gli parve di aver trovato la nuova maniera, scrisse una lunga
lettera esplicativa a Gaspare, che gli rispose con entusiasmo,
lagnandosi solamente della loro separazione. E il suonatore scrisse
musica. La sua prima romanza fu per l'Anna, una melodia semplice e
lenta, nella quale agonizzava un gran dolore, e che malgrado alcune
reminiscenze classiche era piuttosto bella. Un'armonia grave e
monotona vi imitava il crepuscolo della sera, ricordando la
semplicità di un povero destino operaio: poi alcune strida
esprimevano quella terribile vigilia dell'Anna sul letto e la
rivelazione terribile ed impetuosa, che ella aveva provato della
vita; quindi l'armonia si prolungava attenuandosi, interrotta ancora
da un singhiozzo, e si spegneva nelle lontananze dell'oblio come
nella oscurità della tomba.
La prima volta, che la suonò per intero, l'ortolana, sola in casa,
ne fu talmente compresa, che gli entrò in camera tra meravigliata e
piangente.
Giorgio, che non era soddisfatto dell'opera, l'accolse freddamente,
e le disse di averla scritta in tre giorni.
- In casa mia?
La buona donna non ne rinveniva.
- Le è morto qualcuno? - chiese poi - : io ho subito pensato al mio
primo bambino.
Allora Giorgio palpitò e, appena uscita la Rosa, scrisse nel petto
del violoncello, sotto la cordiera, questa epigrafe
/* QUI GIACE ANNA VENTURI. */
Il sepolcro dell'Anna aveva quindi l'iscrizione.
Poscia compose un'altra romanza per Gaspare, che, avendola mostrata
al direttore d'orchestra, si intese rispondere come fosse piena
zeppa di errori grammaticali. Gaspare non volle crederlo; la portò
al professore di contrappunto, una gloria del Liceo, il quale,
riconoscendovi molto ingegno, ripetè presso a poco lo stesso
giudizio. Allora Gaspare coll'anima addolorata aveva scritto a
Giorgio di non fidarsi della propria testa per quanto buona, e di
venire al liceo per impararvi davvero il contrappunto. La lettera
lunga dieci facciate, era piena di contorsioni affettuose.
Giorgio sorrise sdegnosamente, e si disse che cominciava la
persecuzione. Se i vecchi professori non l'avessero rinnegato, egli
non sarebbe stato un vero rivoluzionario dell'arte.
«Ciò che è grande non cresce veramente che dopo negato», pensò col
celebre verso di Hamerling, che aveva trovato recentemente in un
libro.
E Giorgio non mandò altra musica al povero Gaspare.
Faceva una strana vita: s'alzava per tempissimo e si coricava tardi.
Tutto il giorno lo passava fuori per la campagna col violoncello sul
dorso, cosicchè i villani, incontrandolo, stupivano di questo
signore, benissimo vestito, colle spalle cariche di una gran cassa
come un facchino. Ma sopratutti l'ortolana non cessava dalle dolci
rimostranze.
- L'aria della montagna è buona - ella diceva - ma il vento ben
capriccioso.
Giorgio aveva finalmente concepito il proprio poema. Se Haidn aveva
scritto Le Stagioni, egli scriverebbe Il Giorno. Il giorno non era
tutta la vita, poichè la vita non è se non una successione di
giorni? Voleva dipingere il preludio dell'alba, le prime tinte
opaline, poi le note acute dei rossi sprizzanti dal fondo ancor buio
della notte, l'accordo lento dei gialli, l'insistenza tremula dei
violetti, dietro i quali bolliva un gorgoglio mano mano più
balenante. E allora i boschi stormenti con un fremito indebolito di
contrabbassi salgono di tonalità, gli alberi isolati accordano il
loro murmure, le siepi seguitano col sordino, i fiori allungano le
smorzature. Il gran concerto delle voci sale. I torrenti incalzano
col pieno delle riprese, le allodole ripetono i motivi del flauto,
il fringuello schizza delle note di ottavino, il bue apre dei
muggiti di clarone, gli armenti arrivano con tutta una banda di
clarinetti, alla quale gli uccelli mescolano il pizzicato dei
violini; e la sinfonia pastorale di Beethôwen si diffonde dalla
terra al cielo in un dialogo infinito, cui l'uomo aggiunge un'altra
musica, l'idea.
L'alba è piena, il mondo è desto. Poi in mezzo ad un accordo fuso
come un unisono, fra uno scoppio abbagliante di gloria, spunta il
sole. Tutto sussulta, i colori balzano sugli oggetti, gli occhi sono
rivolti in alto. Il mattino riprende la propria festa; i fiori e gli
alberi si salutano, tutte le conversazioni del giorno innanzi
proseguono, si rintrecciano le commedie degli amori. Le api col
vizio mattinale di tutti gli operai bevono i primi bicchierini nelle
corolle rugiadose, e il gallo batte l'ali con uno strido dispotico.
Solo l'uomo lavora, ma la sua canzone s'innalza gioconda nel mattino
fra il rumore degli istrumenti. Quindi i cavalli passano tintinnando
colla sonagliera, l'asino raglia stuonato come un corista, il
postiglione getta dalla cima dell'alpe lo schiocco della sua frusta,
come una battuta di nacchere nel ballo. Il sole monta, è già
mezzogiorno. L'ombra sfinita si raggomitola ai piedi degli alberi, i
lavoratori meriggiano al rezzo setacciato di una quercia. Per la
strada deserta, come nella notte, non passa più che il ramarro, o le
lucertole scherzano sopra un pilastro arroventato, mentre dagli
alberi, presso e lontano, il coro delle cicale cresce con vibrazione
uniforme ed instancabile. Laggiù in fondo l'aria turbina, il cielo
pare di metallo bianco: una solitudine ardente si distende sul
mondo. Ma in quel silenzio soffocante i gatti vanno a sdraiarsi al
sole, e i cani scuotono la bocca bagnata guardando al padrone, che
disteso per terra apre involontariamente le braccia e chiude gli
occhi. È l'ora dell'amore. La voluttà s'innalza nell'aria come da un
braciere, e cade dalle foglie coll'ombra come un refrigerio. Il
vento vellica tutte le labbra, il sonno intorpidisce tutte le
coscienze. Il sole stesso è immobile: la sua grande pupilla di leone
ha un dardeggiamento insopportabile, una fissazione dissolvente. E
per la solitudine silenziosa le cicale invisibili rumoreggiano come
per coprire discretamente l'anelito di qualche parola, intanto che
le messi ondulano, le piante sonnecchiano, gli animali riposano, il
sole guarda, il vento sospira, e l'ombra si allunga adagio. Quindi
un fremito passa per tutta la natura. Gli armenti escono dai boschi
ai prati, il bue ritorna al campo, i viandanti ricominciano a
passare per la strada, gli uccelli volano e cantano, l'uomo canta e
lavora. Il sole e l'ombra discendono riavvicinando tutti i viventi.
Il cielo è tornato turchino, le foglie hanno dei sorrisi più calmi,
ogni linguaggio un accento più mite. E a poco a poco i toni si
raffreddano. I boschi s'infittano, le vette dell'Appennino si
abbrunano, le cicale accordano il loro accompagnamento stridulo col
murmure delicato del vento e il susurro più commosso degli uccelli.
Ecco il vespero col raccoglimento della sua malinconia e il
crescendo del suo pallore. Il sole brucia ancora un istante sulla
montagna, l'ombra ha tutto allagato, e la canzone del lavoratore
s'interrompe nell'aria fresca tra i richiami dei passeri. È l'ora
dell'agonia e della musica umana: mentre la tenebra s'inoltra sul
mondo, l'uomo si avanza nell'infinito. Allora la voce gli si
affievolisce, e dal cuore misteriosamente commosso gli si alza il
canto della sera. Come la natura finisce nell'uomo, la sinfonia
conchiude alla elegia fra l'umidore della rugiada, che pare un
pianto, e la prima luce delle stelle, che non è ancora un sorriso.
Il murmure roco delle foglie somiglia ad un brontolio di trapassati;
laggiù i lumi vagabondi delle lucciole simulano il corteo di un
funerale, che gli ultimi rintocchi dell'avemaria abbiano annunziato
nella sera. La tenebra arriva colla morte, i dubbi cadono dalle
stelle. E nella dissoluzione di questo mondo, che gli svanisce
dintorno, l'uomo, che non osa parlare, si rifugia nel canto. Gli
ultimi ricordi gli prorompono col volo delle nottole da tutti i vani
della memoria, le ultime larve sfuggono nell'ombra sempre più densa,
le ultime voci si acquetano in un silenzio sempre più lungo. L'uomo
non sente più, pensa; l'elegia, che era come la sua orazione sul
giorno morente, diviene il soliloquio del suo pensiero.
Così Giorgio aveva sentito e creato il proprio poema. Ma appena si
propose di scriverlo cominciarono le difficoltà. Conoscendo troppo
poco il contrappunto ed avendone l'istinto, gli scoppiava ad ogni
passo nella coscienza il bisogno delle regole negate. Invano per
facilitarsi l'ispirazione usciva fuori alla campagna come un
pittore, e vi restava le intere giornate; che dovette accorgersi ben
presto come l'andare in cerca d'impressioni o di idee prestabilite
fosse un'altra follia. Allora colla reazione dei caratteri nervosi
si chiuse in casa, dicendosi che ogni sensazione per riuscire
artistica doveva subire una lunga incubazione. Per tre mesi rimase
invisibile a tutti, scrivendo una pagina e stracciandola cento
volte, passando lunghe settimane a perfezionare sul violoncello una
nota imitativa. Egli voleva rendervi tutta l'orchestra non solo, ma
tutte le voci della natura, dai cori dei boschi ai pieni dei
torrenti, dall'accompagnamento insensibile degl'insetti agli a solo
dell'usignuolo. E, mentre si stremava contro queste impossibilità,
un orgoglio caldo gli andava salendo al cervello, come se in quella
ignorata casetta di ortolano egli preparasse una nuova epoca per
l'arte, e quella buona gente dovesse apprenderlo un giorno e fare su
di lui una leggenda. Quindi fra di loro si faceva più volgare e più
povero per raffinatezza di vanità.
Ma un giorno fu quasi per tradirsi col più giovane garzone
dell'orto, che avendogli portato da Firenze un grosso pacco di carta
da musica, gli domandava a cosa servisse.
- A tutto - concluse Giorgio troncando il discorso, che aveva già
cominciato.
Con questo però il poema non andava innanzi. Allora pensò di farne
la partitura per orchestra. Le intestature riuscirono incredibili:
Quercie e Pioppi, Il Fiume, I Grilli, Il Sole. E si mise subito a
scriverle per impossessarsi bene della natura di ogni istrumento, e
farlo poscia passare nel corpo del violoncello. Fu un lavoro
accanito e doloroso, nel quale lo sorprese l'inverno. Ma per quegli
sforzi l'umore gli si faceva sempre più nero; mentre i lunghi
esercizi, massime di notte, quando scendeva di letto e si metteva a
studiare il canto di qualche uccello, cominciarono ad irritare la
gente di casa. L'ortolana, così commossa alla prima romanza, era
adesso più insofferente di ogni altro.
Giorgio non le rispondeva o faceva un sorriso di compassione.
Anche l'inverno passò. Giorgio, che per vegliare al caldo aveva
dovuto rifugiarsi nella stalla delle mucche, sentì la primavera con
un impeto di gioia. Aveva scritto e rifusa nel violoncello tutta la
partitura, un enorme volume diviso in tre libri: Alba, Meriggio,
Sera. Tutti tre formavano un concerto di almeno cinque ore. Giorgio
ne era talmente entusiasmato, che fra quelle dolcezze di primavera
consentì perfino a suonare in un ballo di parrocchiani, dove tutti
rimasero inebbriati: quindi il mondo lo riattirò. Conchiuso quel
lavoro colossale, provò così vivamente il prurito di parlarne, che
prese a frequentare il grande caffè di Scarperia, dove la sera
convenivano, coi pochi signori del paese, molte altre persone di
buone maniere. Naturalmente Giorgio trasse dai bauli gli abiti
belli, e parve loro un gran signore, anche dopo essersi confessato
per un artista rifuggitosi in quella incantevole solitudine per
accudire ad una grand'opera. La vanità terrazzana ne fu soddisfatta,
il segreto di Giorgio circolò, e tutte le ragazze parlarono dei
magnifici capelli lunghi del suonatore.
Una sera Giorgio intese annunziare l'arrivo di una famiglia
americana, immensamente ricca, alla grande villa presso la casetta
dell'ortolano. Parlavano di una ragazza bellissima e stravagante.
Tutti raccontavano le sue follie, che a Giorgio parvero, com'erano,
le più naturali del mondo; ma, avendo voluto dirlo, dovette
accalorarvisi.
- Ah! - esclamò un uomo, che cominciava a diventar vecchio, bella
testa di campagnuolo dorata dal sole e animata dalla malizia di
mercato. - Ella, signore mio bello, s'innamorerà, glielo predico io.
- Bravo, signor Simone! - risposero in coro.
Giorgio rimase interdetto: poco dopo uscì dal caffè col cuore
agitato. Era una notte tiepida. Venne fuori del paese sovra
pensieri, e si trovò involontariamente davanti alla villa, che la
bella incognita doveva occupare l'indomani, a duecento metri dalla
casetta dell'ortolano. Allora per uno di quei tristi ed
inesplicabili presentimenti si disse che quella donna gli sarebbe
fatale; il sangue gli diè un tuffo, la fantasia gli si accese. Era
di primavera, le stelle della notte sorridevano, le acacie
all'ingresso del villaggio mandavano a quando a quando un soffio
pimentato, le tuberose e le gardenie della villa esalavano un odore
più esotico, un sentore aristocratico e strano. Giorgio si sedette
sul muricciuolo del cancello; la notte e la primavera lo
ubbriacavano. Per molte ore i suoi sensi furono in orgasmo e il suo
pensiero non si staccò dalla bella incognita, alla quale si
compiacque di attribuire una fisonomia di regina, bruna, cogli occhi
enormi, il portamento e le forme superbe. Si coricò quasi all'alba.
La mattina presto era già in piedi ben vestito, ma gli americani non
arrivarono che sul vespro senza che egli potesse vederli. Quella
sera invece di andare al caffè scrisse una romanza con questo
titolo: «A te».
Per uno dei soliti casi di vicinato egli potè divenire presto amico
dell'incognita, e frequentare la sua villa. La fanciulla non era
bella: bionda con due occhi cilestri, un naso all'insù, un musetto
rotondo, di un colorito smagliante. Si erano conosciuti alla cascina
dell'ortolano, dove era entrata un mattino col babbo, vecchio
negoziante arricchito, grasso e bonario, per mangiare delle fragole
col latte. Giorgio in quel momento suonava a bella posta. La
relazione presto fatta divenne presto intima, perchè Giorgio ebbe
per loro il pregio di una scoperta. In casa tutti amavano la musica;
Mary, si chiamava così, suonava il piano ai genitori, che,
ascoltandola in estasi, ripetevano sempre lo stesso elogio per la
musica italiana, la prima del mondo. La madre stava per Verdi, il
padre per Bellini; Giorgio invece li disprezzava entrambi, e
d'italiani non ammetteva che due antichi, un grande ed un colosso,
Palestrina e Marcello. Laonde accaddero frequenti discussioni, nelle
quali Giorgio rivelò volentieri il proprio secreto. Allora tutto si
mutò a suo riguardo, e mentre prima l'avevano giudicato un povero
diavolo, buono per divertirsene in campagna, dopo lo riguardavano
col rispetto ossequioso, che talvolta i borghesi milionarii, di
temperamento delicato, hanno per gli artisti in genere. Giorgio non
disse tutto, nè della propria famiglia, nè come vivesse: solo
confessò di essersi ritirato in campagna per scrivere un'opera, che
ricusò di mostrare malgrado tutte le seduzioni e le moine. E una
volta che Mary ne lo stuzzicava, rispose alteramente che la sua non
era musica da signorina.
La ragazza ne fu punta.
Frattanto in quella villa e in quella vita di agiatezza raffinata
Giorgio si svestiva della prima ritrosia. Tutti parlavano bene
l'italiano ed amavano l'Italia: avevano servitori e carrozze,
cavalli da sella e due bei cani da caccia. Giorgio era invitato a
pranzo quasi tutti i giorni, lo tempestavano di biglietti, lo
soffocavano di cortesie. Egli lasciava fare. La mamma sedotta dal
suo aspetto aristocratico e da quel suo abbandono misterioso nel
mondo voleva essere la sua nonna: il padre lo portava seco a caccia,
e gli parlava delle Ande a proposito dell'Appennino, Mary diventava
sempre più buona. Sul principio aveva avuto delle maniere piene di
bruscherie, che lo irritavano, quando pigliandolo improvvisamente
dentro una frase insidiosa voleva penetrare nel secreto della sua
vita. Giorgio si vergognava di essere povero e plebeo. Poi poco a
poco divenne malinconico, e cominciò a sottrarsi a qualche pranzo,
ad evitare qualche scampagnata. In paese non compariva quasi più, o
scansava studiosamente il gran caffè, dove lo dicevano già
innamorato. Infatti lo era e al punto, che toccando raramente il
violoncello, non suonava più che quell'ultima romanza.
Giorgio non aveva suonato alla villa se non per accompagnare Mary
nell'Ave Maria del Gounod, la quale naturalmente egli giudicava
molto al disotto dell'altra del Cherubini, o dell'Arcadet a sole
voci. Ma la signora Edvige, la mamma, che non conosceva queste
ultime due, ed era fanatica del Gounod, aveva troncato sdegnosamente
a mezzo tutti i paragoni. E una notte, quando Giorgio suppose che i
genitori dormissero, avendo veduto il lume alla finestra di Mary,
aperse il piccolo cancello del bosco sempre socchiuso, e venne a
nascondersi nell'ombra di una siepe col violoncello. La notte era
molto buia. Egli attese lungo tempo, poi suonò la romanza «A te» con
tale passione, che alla fine gli venne da piangere, e dovette
scappare. Gli era parso di sentirsi a mezzo la romanza chiamare
dalla voce dell'Anna. L'indomani non osò presentarsi alla villa,
quell'altro giorno nemmeno, finchè ricevette una lettera di Mary e
della signora Edvige, le quali, fingendosi scherzosamente inquiete
sulla sua salute, gliene domandavano novelle, e lo invitavano a
pranzo.
- Di chi è quella romanza, che avete suonato l'altra sera sotto le
mie finestre? - gli chiese improvvisamente Mary.
- La signora Edvige ha sentito? - egli susurrò a precipizio.
- Ma certo - rispose Mary con indifferenza - : scommetterei che è la
vostra.
- Appunto.
- Andate a prendere il violoncello e tornate subito a suonarcela -
disse con quell'affettazione d'impero, che andava così bene al suo
visetto.
Dovette ubbidire, se non che avendo paura non la suonò come quella
notte.
La signora Edvige e il padre lo guardavano, Mary era distratta.
Quando Giorgio ebbe finito, dopo i soliti complimenti dei due
vecchi, Mary s'impossessò della musica. Giorgio, che rimetteva già
l'istrumento nella cassa, tese la mano; ma ella guardandolo
arditamente:
- Non è per me? - domandò.
Giorgio impallidì.
Mary si gettò attorno uno sguardo, vide che non erano sorvegliati,
gli stese rapidamente una mano, allungandogli il volto e mormorando:
- A te?
Giorgio non capì o non si arrischiò di cogliere quel bacio.
Da quel giorno furono amanti. Egli si sentiva scoppiare d'amore e
d'orgoglio, ella era allegra come prima, e cominciava già a
canzonare la sua aria fatale. Parlavano spesso di musica senza
intendersi, perchè Mary non la pigliava che come un divertimento,
col quale interrompere gli altri, e Giorgio invece come la più alta
manifestazione del pensiero religioso. Laonde nell'amore egli non
sognava che conversazioni mute guardandosi negli occhi, effusioni
sentimentali, baci al lume di luna, mentre nel suo orgoglio di
povero plebeo avrebbe voluto vedersi ai piedi quell'ereditiera di
milioni offerentesi con una trepidazione di terrore.
- Mi amerai sempre, sempre? - le domandava spesso cogli occhi gonfi.
Ella rispondeva di sì col suo più bel sorriso, e poco dopo gli
parlava di un viaggio in America, dove resterebbe forse due o tre
anni. Giorgio non osava insistere; una volta ella gli disse
leggermente:
- Vieni anche tu?
- Non posso - mormorò Giorgio, pensando alla spesa, ed obliando in
quel momento le risorse del violoncello.
- È vero, non ci pensavo.
Un'altra volta, che erano al piano, avendo provato la canzone del
salice nell'Otello, Giorgio nella soave vanità d'impietosirla cesse
finalmente, e le raccontò la propria vita, le sofferenze da bambino,
la mamma morta all'ospedale, l'eroismo, il martirio dell'Anna. Ma
Giorgio, combattuto ancora dalla falsa vergogna della miseria,
raccontava così male che Mary, invece di sentirsene tocca, finì
quasi col riderne.
- Sarà stata innamorata di voi!
Giorgio rimase colpito dall'osservazione e peggio da quel voi, che
non avevano mai usato nella loro secreta intimità. Troncò il
racconto, ma tornando al violoncello non seppe resistere alla
compiacenza di spiegarle, come ne avesse fatto il sepolcro romantico
dell'Anna, e vi avesse incisa l'iscrizione. Questa volta Mary non si
tenne.
- Bello! - esclamò curvandosi vivamente per leggere l'iscrizione.
- Questa invece è brutta: se me lo aveste detto, vi avrei disegnato
delle magnifiche lettere. Datemi quel temperino che almeno le
accomodi.
E piegandosi sulla cordiera, si mise realmente a correggere gli
sgorbii. Giorgio non poteva osservare quello che facesse, ma il
legno così grattato metteva tali stridori di lamento, che il
pensiero gli corse all'Anna moribonda, mentre dalla figurina di
Mary, quasi accovacciata sul violoncello, gli veniva un'emanazione
odorosa e penetrante.
Mary si volse ridendo:
- Leggete
/* qui giace anna venturi «suonate per lei» */
Aveva aggiunto monellescamente: ma vedendolo rannuvolarsi, e fare
come un gesto di minaccia, fuggì sghignazzando per la porta.
Da quel giorno cominciarono gli attriti secreti; ella, che affettava
di esser gelosa di quella morta, e gliene rinfacciava ad ogni
momento l'affetto; egli, che sentiva in quei rimproveri una punta
avvelenata di scherno per la propria miseria di artista, mentre
tutte le bramosie dell'uomo gli si destavano impetuosamente dinanzi
a quella donna, che aveva col fascino morbido della sensualità tutte
le lusinghe laceranti della civetteria. Ogni giorno si accorgeva di
amarla di più e di rovinarsi per quest'amore, che gl'imponeva di
vestirsi sempre a festa e di non pranzare più alla bettola. Adesso
l'ortolana doveva cucinargli un pranzetto, che egli aveva la
scortesia di trovare costantemente poco buono. Una volta
indispettita ella lo punse sull'americana, e Giorgio proruppe in una
scena.
Intanto l'amore non inoltrava; non si erano ancora baciati, non
avevano parlato di matrimonio.
Giorgio volle metterne il discorso una sera, ed ella rise, perchè la
mamma voleva farle sposare qualche signore toscano, che avesse un
gran titolo.
- Non ci penso neanche, verrà poi - ella concluse.
A Giorgio parve di morire. Un avvilimento pieno di rancori gli
rovinò sulla coscienza, e non parlò più. Mary sembrava non
accorgersene, la signora Edvige colla faccia rosea, incorniciata di
capelli bianchi, illuminata da una grande espressione di bontà,
vegliava in quel momento su di loro come sopra due fidanzati. E
quella mamma così buona non aveva capito quell'immenso amore per sua
figlia! Ma Giorgio era povero, senza parenti, senza posizione, senza
nome: se lo confessava, e subito dopo l'orgoglio di artista gli
saliva al cervello, bruciandogli le lagrime degli occhi. Paganini
non aveva sollevato l'Europa guadagnando milioni e milioni? Paganini
aveva forse più ingegno di lui? Quindi un odio ancora voluttuoso, un
disprezzo feroce e carezzevole gli veniva per Mary, una donna, che
non sapeva indovinare quello che egli sarebbe forse tra poco.
Giorgio ignorava ancora che la donna è quasi sempre così, e non può
amare gli uomini superiori se non a patto di abbassarli. Ma se nella
propria alterezza di artista avesse forse potuto consolarsene,
essendo povero e plebeo si arrovellava di restarle socialmente
inferiore; mentre la signora Edvige, parlandogli dei futuri
concerti, si dichiarava sua protettrice, e s'incaricava fin d'ora
della vendita dei biglietti, promettendogli con certo accento
particolare grandi incassi.
Quando arrivò il mese di luglio, alla villa si discusse dei bagni.
La signora Edvige preferiva Pegli, il babbo Viareggio: Mary non
consultò nemmeno Giorgio, e la mamma, invitandolo, gli disse che a
Viareggio sarebbe forse possibile qualche concerto.
- M'incarico io di prepararvi il pubblico, ne avrete fin troppo, e
potremo mettere il biglietto al prezzo che vorrete. Io ne sono
pratica; spesso la stagione delle acque vale quella dell'inverno.
Giorgio era rosso come una bragia, ma l'accento della signora Edvige
era così sincero e benevolo, che egli comprese di non potersi
offendere. Fortunatamente Mary sopravvenne, e, distraendo la mamma,
gli diede il tempo di rimettersi. Mary parve non accorgersi del suo
imbarazzo.
- E così venite? - insistè la signora Edvige.
Egli balbettò alla meglio di aver incominciato un altro poema, e di
voler restare nella solitudine per finirlo.
Dopo otto giorni la villa era deserta.
Rimasto solo, Giorgio si sentì abbandonato come la prima volta alla
morte dell'Anna. Per molti giorni stette chiuso in camera a piangere
disperatamente la partenza di Mary fra mille altri dolori di uomo e
di artista. Gli pareva di essere un esiliato nel mondo, senza
famiglia e senza patria, senza mestiere e senza denaro. Adesso non
credeva più neanche alla musica. Che cosa era l'arte, se avendola
avanzata di un passo col poema, essa non gli aveva servito nemmeno a
soggiogare la piccola testa di Mary? In che consisteva la sua
sovranità, se gli artisti dovevano essere sempre poveri e spregiati?
E le ultime parole della signora Edvige sul concerto gli cadevano
nel cuore come tante goccie di piombo. Non v'era dunque differenza
fra il musicista e il saltimbanco? La gente veniva egualmente a
vedere o ad ascoltare, gettando la stessa elemosina a chi lo
divertiva? Poi Mary gli riappariva, ed egli l'amava appunto perchè
era una smentita continua al suo orgoglio, alle sue delicatezze
giovanili, alle sue sincerità popolane. Mary camminava sopra di lui
come per un campo, stracciando i fiori e lacerando le frondi.
L'amava ella? Cosa faceva a Viareggio? Con chi parlava? Con chi
rideva? Mille volte al giorno Giorgio soccombeva alla tentazione di
andarla a vedere, e di tornarsene incognito; mille volte sul punto
di partire aveva paura, e restava. Era una vita d'inferno. Ad ogni
ora veniva a guardare la villa abbandonata sperando di incontrarsi
col giardiniere e così di penetrarvi: se ne ricordava i particolari
più minuti, i discorsi più insipidi, le scene più effimere. Il
giardiniere, accortosene, lo canzonava; nel caffè grande di
Scarperia facevano peggio. Una sera, che Giorgio vi entrò, le
punture furono tali e tante, che accadde una scena. Giorgio dopo di
essersi schermito colle insolenze tirò un bicchiere alla testa di un
avventore, un uomo sulla quarantina, fortunatamente senza colpirlo,
e lo sfidò a duello. La gente, che si era interposta fra i due,
aveva quasi voglia di bastonarlo, e gli rise in faccia alla sfida:
nel villaggio l'uso del duello non esisteva. Giorgio tornò a casa
lagrimoso, e non ardì più di mostrarsi in paese, dove il suo alterco
prese proporzioni enormi, e la sua passione per l'americana
l'aspetto più grottesco. Mangiava appena, non dormiva più. La notte,
due fantasmi inseparabili gli venivano sempre al capezzale, Anna e
Mary: Anna non era più gobba, non aveva più quell'erpete sulla
faccia, ma i suoi begli occhi di martire brillavano come la stella
del mattino.
Mary invece diventò la fidanzata del marchese Soderini, uno dei
grandi nomi della Toscana, giovane, bello e povero, che rialzava con
questo matrimonio l'antica fortuna della propria casa.
Se Giorgio non ne morì, fu perchè non si muore di dolore; se non ne
ammalò subito, la sua vergine giovinezza era ancora troppo forte.
Mary non gli aveva più scritto, nessuno si ricordava più di lui,
nemmeno il vecchio Gaspare. Allora i disegni più infantili di
vendetta gli passarono dinanzi; andare a Viareggio, apprendere per
dove erano partiti, poichè si diceva che viaggiassero, seguirli
travestito in ferrovia, all'albergo, ucciderli col medesimo pugnale,
ed uccidersi. L'ebbrezza del sangue gli saliva al cervello, la
sinistra poesia del delitto gli entusiasmava l'immaginazione. Mary
avrebbe impallidito vedendolo, gli si sarebbe buttata alle ginocchia
pentita, innamorata, perchè quel matrimonio era forse una violenza
dei suoi genitori; e allora egli le imponeva di fuggire, tornavano a
viaggiare, vivendo di concerti, passando dappertutto come una
visione di musica, un fantasma di amore. Oppure se Mary non l'amava,
come non lo aveva forse mai amato, imporle un'ultima notte d'amore,
un'ora sola di voluttà nel fondo di un sepolcro, e poi al mattino,
quando sorgeva il sole, abbassarne il pesante coperchio di marmo, e
dormire.
Ma le difficoltà dell'esecuzione impedivano ogni disegno. Pensò di
morire da solo, gittandole nell'anima il rimorso di un delitto, e
non vi si decise, perchè era troppo ed insieme troppo poco, e per
farlo avrebbe avuto bisogno della sua presenza, cadendole ai piedi
insanguinato. La necessità di un dramma lo perseguitava: non voleva
morire nell'ombra, dileguare nel silenzio. La sua bella testa di
giovanetto pigliava una fisonomia dolorosa di sonnambulo,
un'espressione di martirio. La notte, invece di coricarsi, usciva
pei campi, estenuandosi in corse folli, addormentandosi poi sotto un
albero in un sonno pieno di fantasmi e di singhiozzi. E in casa,
dove lo spiavano da qualche tempo, cominciavano a stancarsi di lui,
che era mezzo matto, che bisognava un giorno o l'altro aspettarsi
qualche cosa di grosso; la sua passione per la signorina americana
avrebbe meritato gli scappellotti, quelle stranezze quotidiane
peggio ancora. L'ortolano voleva cacciarlo addirittura, ma la donna
lo proteggeva ancora. E una volta, che ella volle parlargli, Giorgio
sulle prime andò in bestia, poi ruppe in un pianto disperato, che
fece piangere anche lei; quindi le cadde colla testa in grembo come
un bambino.
- Dunque non ha proprio nessuno al mondo?! - Giorgio non rispondeva.
- Si faccia coraggio, passerà: noi poverette abbiamo più cuore, ma
le signore... si figuri... Povero signorino!
Finalmente si ammalò. Il medico constatò una minaccia di tifo, che
fortunatamente svanì in meno di dodici giorni, durante i quali Mary
tornò alla villa col fidanzato. Giorgio non lo seppe, e non seppe
nemmeno che la signora Edvige mandasse a prendere sue notizie. Poi
un mattino il servitore mancò, perchè i padroni avevano saputo
tutto. Appena Giorgio potè alzarsi, ed imparò quel ritorno, volle
partire, così ancora convalescente, malgrado ogni rimostranza. Pagò
generosamente tutte le spese e gl'incomodi di cui era stato causa,
fece i bauli, e sopra una vettura noleggiata a Scarperia partì per
Firenze. Erano le quattro dopo pranzo, col sole velato, il vento
fresco. Passando dinanzi alla villa, sperava che Mary sarebbe alla
finestra e lo vedrebbe pallido come un moribondo, che andava a
morire lontano da lei; quindi si era sdraiato nella posa più
pietosa, la sua bella testa sopra una palma, senza cappello, coi
ricci biondi che gli svolazzavano al vento, il violoncello a fianco
nella cassa, il suo piccolo bagaglio metà legato sulla serpa, metà
dietro le ruote. Le finestre della villa rimasero chiuse. Invece
presso Scarperia fece alzare il mantice della carrozza per non
essere veduto attraversando il paese. La sera sull'imbrunire giunse
a Firenze.
Il suo primo pensiero fu di scrivere una lettera a Mary. Vi passò
attorno la notte, e finalmente al mattino era compiuta; sedici
lunghe facciate, un'elegia ed una requisitoria scritta colle lagrime
e col sangue. La rilesse ancora una volta inorgogliendone, ed uscì
per impostarla. Era più calmo, si cercò quel giorno stesso una
cameretta, e vi si rifugiò.
La lettera a Mary rimase senza risposta. Era il mese di settembre
coi giorni ancora lunghi e caldi: Firenze abbandonata dai forestieri
e dai fiorentini sembrava quasi più bella. Tutte le sere Giorgio
andava a vedere tramontare il sole dal cimitero di S. Miniato, e si
sentiva una gran voglia di morire con lui in un magnifico vespro,
cogli occhi incantati nei suoi ultimi raggi, e gli orecchi pieni
dell'ultimo addio, che la terra gli mandava. Poichè nessuno lo
conosceva, o gli indovinava dal viso il suo dramma, nessuno doveva
udire il suo poema; egli sarebbe venuto a bruciarlo nel cimitero,
fra mezzo ai grandi morti nel silenzio della notte. Questo tetro
pensiero, che era ancora un pensiero di amore sebbene non volesse
confessarlo, gli faceva battere il cuore ad ogni signorina dalla
fisonomia straniera, a cui s'imbattesse. Tutte le notti i suoi sogni
partivano per Scarperia, e ne ritornavano singhiozzando. Poi il
mattino, aprendo la finestra, cercava involontariamente cogli occhi
il bianco profilo di quella magnifica villa.
Nullameno Firenze cominciava ad interessarlo. Uno dei suoi luoghi
favoriti era il Mercato Vecchio, una città microscopica dentro la
grande, una topaia dentro il portentoso capolavoro di una
cattedrale. Egli ci viveva col popolo, mangiando alla stessa cucina
economica e succolenta, abbandonandosi alla novità musicale di quel
gergo, melodico come un canto. Talvolta pure si metteva dietro a un
suonatore ambulante, e gli dava sempre un soldo, spremendo un'acuta
voluttà dagli sguardi curiosi del povero rapsodo, il quale si vedeva
perseguitato da quel bel signore, e non sapeva che quel signore era
forse il primo violoncellista del mondo. E a poco a poco la musica
lo riattirava. Il pretesto di quel poema, opposto alla signora
Edvige, per sottrarsi ai bagni, gli ritornava alla memoria, e una
sera seduto sul piedistallo del David in faccia al sole morente,
guardando le prime ombre discendere dai colli decise di scrivere la
Notte. In quei giorni si legò con un giovane fiorentino, piccolo e
bruno, boemo come lui. Pareva poverissimo, ma era allegro,
chiacchierava bene e volentieri. Alle prime parole simpatizzarono,
alla fine della colazione erano intimi. Giorgio, che dalla morte
dell'Anna non si era più sfogato, si gettò nel cuore del nuovo
amico, parlandogli da solo per due ore, piangendo e bestemmiando;
mentre l'altro ascoltava mano mano più severo, rispondendo appena
con qualche parola. Egli si chiamava Momo Martelli, un nome
diventato celebre nella letteratura di questi ultimi anni, e che
allora si nascondeva dietro varie maschere di pseudonimi.
Momo taceva. Lo lasciò effondersi liberamente sulle proprie
sciagure, ma al capitolo dell'arte protestò energicamente. Momo non
era uno dei soliti boemi, che si credono novatori per ciò solo che
sono ribelli; aveva ancora un sincero entusiasmo pei vecchi
capolavori, e lacerava con mordace ironia la inane vanagloria dei
nuovi artisti, che, dopo aver deriso il passato, lo copiano. Per la
prima volta Giorgio si trovava di fronte a un ingegno giovane come
il suo, ma più colto e più forte: quasi quasi se ne adontò. Momo
aveva delle frasi più dense di pensiero, e lo stringeva così forte,
che Giorgio inferocito della sconfitta gli disse con uno scatto di
orgoglio:
- Vieni domani, ti farò sentire il mio Giorno.
- Lo sentirò al concerto, che darai: io discuto volentieri
un'opinione, non un'opera coll'autore. C'è il pericolo di non
capirsi, e quasi sempre la sicurezza di guastarsi. In pubblico non è
così: il nostro giudizio si integra di tutte le sensazioni dei vari
temperamenti. Piuttosto domani ti porterò un libro di Balzac; se
questo non ti salva, tu sei perduto - aggiunse con un sorriso, che
voleva essere scherzoso ed invece era triste.
La mattina Giorgio ricevette il piccolo volume, e lo rilesse due
volte con un tremito sempre maggiore di sentimenti e di idee.
Avrebbe voluto veder Momo per parlargliene, ma non riuscì a
trovarlo; gli andò a casa, lo cercò per Firenze, salì due o tre
volte alla Laurenziana, dove gli aveva detto di capitare sovente, e
alla fine del quinto giorno lo sorprese in una delle solite bettole
di Mercato Vecchio.
- Così? - chiese Momo.
- Gambara è morto pazzo, ma aveva ragione.
- Me lo immaginavo - e non volle intendere altro.
Invece parlarono di dare un concerto ai primi della stagione
d'inverno. Momo tornò alla carica, perchè il concerto fosse, secondo
il solito, con accompagnamento di orchestra; ma Giorgio fu
irremovibile.
- L'orchestra sono io.
Questa volta Momo non sorrise, disse che s'incaricava di far cantare
i giornali, dove scriveva, e nei quali aveva moltissimi amici. La
sala sarebbe una delle solite.
- Se tu mi sei contro?! - disse Giorgio ammirato di quella facilità.
- Mio caro, nel mondo bisogna avere due opinioni su tutto, forse per
essere perfetti - seguitò con ironia - bisognerebbe avere anche due
morali. Io ti condanno, ma lavorerò perchè il pubblico ti assolva,
e, se ci riesco, il pubblico avrà preso a prestito la mia opinione
invece che quella di un altro. Mio caro, il pubblico di tutte le
sale, non bisognerebbe mai dimenticarselo, siccome giudica sempre
sopra una prima sensazione, ha bisogno che qualcuno gli prepari il
proprio giudizio; i critici da giornale non servono ad altro, e se
vogliono fare di più, cessano di essere capiti. Forse riusciremo, ma
la tua vittoria non sarà per questo una vittoria decisiva nel campo
dell'arte.
E questo concerto divenne il tema delle loro conversazioni e dei
loro sforzi.
Momo, maggiore di cinque o sei anni, e che allora lavorava ad un
romanzo, buscandosi la vita quotidiana cogli articoli di giornale,
era di una compiacenza inesauribile. Firenze cominciava a
ripopolarsi, Mary non era ancora tornata da Scarperia. Quando ebbero
fissato il giorno del concerto, Momo aprì la crociata nei giornali a
favore dell'amico con una serie di articoli sopra la musica moderna,
sul Berlioz, e sul Rinaldi, questo illustre italiano incognito
solamente in Italia; e Giorgio, che non approvava le sue idee
artistiche, giungeva quasi a lagnarsene. Il giorno spuntò. Giorgio
non dormiva da parecchie notti, era sparuto e nervoso come un
malato; aveva indossato una nuova marsina del miglior taglio, e per
gentile superstizione l'ultima delle sei camicie, che la povera Anna
gli aveva cucito per il primo concerto. Momo, che si era accorto di
quel convulso, non lo lasciò tutto il giorno, e fece inutilmente
ogni sforzo per distrarlo. Mano mano che s'avvicinava l'ora, Giorgio
si rabbuiava e non parlava più: per strada i grandi cartelli
colorati, col suo nome a lettere cubitali, gli davano dei sussulti.
Passando davanti al campanile di Giotto:
- Se la mia musica fosse così, credi che la capirebbero? - disse
Giorgio.
- Credo di sì.
- T'inganni, le creazioni fantastiche non sono intelligibili che
alle fantasie.
E non parlarono più.
La gente e le carrozze assiepavano la porta del palazzo del
concerto: essi passarono inosservati, e per una porticina secreta
furono nel camerino, dove li aspettava il violoncello. Alcuni amici
di Momo, musici e giornalisti, vennero poco dopo; si sentiva il
rumorio della sala come uno stormire discreto di fronde, dall'uscio
socchiuso penetravano dei soffi profumati.
Giorgio era pallido come un morto.
- Avresti paura? - gli mormorò Momo all'orecchio.
- È un fiasco!
- Lo berremo - rispose Momo con gaiezza affettata.
- Sì, perchè sarà avvelenato.
Fu l'ultima parola. Accordò il violoncello, ordinò al cameriere di
portarlo sul palco, ed attese. Gli amici rientrarono nella sala.
Giorgio e Momo rimasero soli. Erano entrambi febbricitanti: Giorgio
camminava su e giù, guardò all'orologio, quindi fermandosi dinanzi a
Momo aprì le braccia. Egli comprese, vi si gettò, e si dettero un
bacio come per un ultimo addio.
Giorgio entrò nella sala. Fu un'apparizione. Quella sua figura
delicata e signorile destò un murmure di simpatia; arrivò colla
testa alta, prese il violoncello, fece un inchino quasi orgoglioso
al pubblico, e si assise. La sala era gremita, le signore
abbondavano in mezzo ad una moltitudine di colori. Ma con tutta la
sua iattanza Giorgio non osò di alzare gli occhi. La sala era
inondata di luce, si sarebbe udito il fluttuare di un velo: Giorgio,
che dava il concerto a proprie spese, vi aveva impiegato gli ultimi
danari riuscendo ad una discreta decorazione. Incominciò: la mano
gli tremava talmente, che le prime note quasi non s'intesero; poi si
rimise, e attaccò il preludio. Alla terza frase il pubblico fremè.
Gli uomini ascoltavano, le signore guardavano: la musica, una
descrizione a tocchi sobrii e risentiti, fu subito compresa, e
proseguì crescendo di colorito e di vivacità come l'alba: si udiva
il vento del mattino, si discerneva lo stormire delle piante, il
risvegliarsi simultaneo e nullameno graduale di tutta la natura. Ma
quando nell'incalzare di tutte le voci e nel lampeggiamento di tutti
i colori rifulse il sole, la frase, che si era innalzata
ingrossandosi di tutti gli altri accordi, ebbe uno scoppio così
potente, che il pubblico urlò. Giorgio provò la percossa voluttuosa
di quell'applauso, e senza badarvi proseguì lo sviluppo della frase
rompendola in cento razzi, in una pioggia di sorrisi e di colori,
che sembravano cadere nella sala come tante faville di girandola,
tante foglie vaganti di fiori. Allora gran parte del pubblico,
levandosi come per respirare meglio la freschezza di quel mattino,
applaudì con nuovo impeto, e Giorgio dovette sorgere egualmente per
ringraziare. Quindi girando gli occhi nella sala, non vide che teste
luminose in un'agitazione di marea. Mary col fidanzato guardava
dalla seconda fila; era ancora più bella, coi ricci biondi, che
avevano lo splendore dorato di un raggio. Giorgio vacillò, ricadde
sulla sedia, e involontariamente si passò la mano sul volto.
Riprese, ma la definizione così viva dell'alba perdeva nella luce
crescente la propria chiarezza, sminuzzandosi in un chiacchierio
affaccendato di tutti i piccoli viventi. Invano il violoncello
moltiplicava i miracoli della imitazione, ripetendo la stessa parola
in tutti i linguaggi, chè alla descrizione mancava pur sempre
l'insieme di un'idea, e quindi la intelligibilità della
rappresentazione. Giorgio aveva voluto esprimere intimamente tutti
gli individui della natura, dimenticando che l'uomo non intende che
l'uomo, e animando l'universo non può dargli che la propria vita.
Che se nel dramma il protagonista diventa drammatico solo perchè lo
si riguarda momentaneamente isolato da tutti gli altri uomini, e si
separa il suo destino singolare dal fato comune; nella sinfonia
invece tutti gli esseri della natura debbono perdere la
individualità delle loro sensazioni per esprimere un'idea o un
sentimento umano. Giorgio invece aveva voluto riprodurre
integralmente nel proprio poema l'anima di tutti i viventi, e
piuttosto che una sinfonia n'era risultato un tumulto. Ma come in
quest'audacia stava la vera originalità della sua composizione e
ogni speranza della battaglia, l'orgoglio esaltato gli dava
un'incredibile energia di attacco. Curvo sull'istrumento, che i
lunghi capelli gli piovevano romanticamente dalla fronte, ne provava
tutti i fremiti e tutte le vibrazioni. Non vedeva più la luce della
sala, non sentiva più il calore umano di quella folla. La sua
immaginazione si era perduta nei quadri del poema, come un
viaggiatore nella visione dei propri ricordi. Allora appunto il sole
si fermava sul meriggio con un immenso abbarbaglio di fornace.
L'aria oscillava, la terra si screpolava, tutte le piante erano
immobili. Nell'oppressione ineffabile di quell'ora Giorgio si sentì
oppresso; il respiro gli si fece più difficile, il braccio gli cadde
quasi penzoloni lungo le gambe. Il sudore della spossatezza gli
bagnava la fronte. Gli pareva che le corde del violoncello si
fossero allentate. Poi in quello sfinimento improvviso tutti
l'abbandonarono, non seppe più bene dove fosse, cosa facesse. Come
viaggiatore, che, traballando per la stanchezza, cerchi di cadere
all'ombra di un albero, egli andava involontariamente ad abbattersi
sotto la malinconia dei suoi giorni più tristi, finendo quasi per
provare una specie di benessere in quel languore esausto del
meriggio. Ma il vento tornava a far stormire le frondi, Giorgio si
ascoltava intorno un susurro. Non si ricordava più da quanto tempo
suonasse. Il susurro sorgeva dal pavimento con uno scalpiccio di
piedi, uno stridio di sedie mosse qua e là; un sibilo di parole
correva tra le file delle poltrone smorzandosi nel fiotto dei
ventagli, nell'accento soffocato di un'esclamazione, mentre il
fruscio degli abiti delle signore imitava le prime impazienze del
vento nell'ora del temporale, e la percossa di qualche canna le
prime battute della grandine. Giorgio lo avvertiva. Ma intanto che i
sensi gli si ottundevano nella stanchezza, la coscienza gli si
rischiarava nella visione della realtà. Sciaguratamente poema e
concerto non erano nemmeno a mezzo. Allora l'impossibilità di
giungere in fondo lo colpì in mezzo al cuore come una palla. Non vi
era più scampo, egli stesso era prostrato, le dita non gli
rispondevano più agli atti del pensiero. Il meriggio era appunto la
pagina più faticosa e difficile nell'esecuzione. Il suo cuore ebbe
una suprema convulsione di ferito, le sue tempia si lacerarono in
uno scoppio. Il mormorio del pubblico cresceva di minuto in minuto,
vi si distinguevano i fremiti della collera, i soffii gelati
dell'ironia; tutte le bocche avevano una moina insultante, tutti i
gesti un'intenzione malevola. E mentre lo stesso dolore di quelle
trafitture gli comunicava un'ultima suprema energia, un nome gli
squillò nell'orecchie: Mary. Giorgio alzò il capo.
In quel momento Mary si arrovesciava sulla spalliera della sedia,
colle piume del ventaglio fra i denti, guardando il marchese
Soderini, che le terminava nei capelli la frase di uno scherzo. Gli
occhi di Mary schizzarono come uno scintillio sul volto di Giorgio;
il pubblico, vedendolo alzare il capo, era rimasto intento.
Giorgio impallidì come uno spettro, rimase cogli occhi sbarrati nel
volto di Mary, che non riusciva a soffocare la propria ilarità;
quindi facendo all'improvviso un gesto orribile, inesprimibile di
follia si alzò, brandì il violoncello come un violino, e fuggì a
precipizio per l'usciuolo.
Il camerino era vuoto.
Il cappello a cilindro stava solo nel mezzo del tavolo. Giorgio non
vide nemmeno la cassa dell'istrumento, si cacciò il cappello in
testa, e si precipitò per scappare: la sala rumoreggiava. Ma in
quella rientrarono nel camerino il cameriere e Momo, pallido egli
pure come un morto. Giorgio aveva una fisonomia insostenibile;
respinse il cameriere con un gesto, respinse Momo che gli tenne
dietro, e sempre col violoncello in mano irruppe nel corridoio, calò
le scale. Momo tentò due volte di trattenerlo parlandogli: il rumore
della sala cresceva, alcuni signori cominciavano già a discendere.
Giorgio saltò addirittura gli ultimi gradini, vide un fiacchero
dirimpetto al portone, vi corse, vi gettò il violoncello, e quando
fu seduto, non ebbe ancora la forza di parlare.
- La cassa? - esclamò Momo, guardando l'istrumento, per una di
quelle sensazioni della realtà, inevitabili anche nelle più violente
tempeste dello spirito.
Giorgio si voltò di soprassalto, e con un'occhiata che intendeva ben
diversamente la sua domanda:
- Domani - rispose.
Fu la sola parola di tutto il tragitto: Momo aveva dato al cocchiere
l'indirizzo di Giorgio, ma quando il fiacchero si arrestò, Giorgio
prese il violoncello, e impose a Momo di restare. Si era ricomposto,
o pareva; solo la voce gli tremava ancora.
- Rimani: ho bisogno di essere solo - disse con accento sicuro.
Momo fe' un diniego col capo.
- Tu hai paura che mi ammazzi - seguitò l'altro con uno strano
sorriso - per loro?!
Momo insisteva: allora Giorgio tornò a sedersi, e parlò così
lucidamente, con tale tranquillità, che l'altro dovette arrendersi.
Solamente nel salutarlo gli appressò gli occhi agli occhi per
studiarne bene lo sguardo, e ripetè:
- Lasciami salire.
- No - disse l'altro risolutamente tendendogli la mano, ed entrò
solo in casa.
Salì le scale al buio, la camera era al terzo piano. Quand'ebbe
acceso il lume, si guardò involontariamente nella specchiera sopra
il canterano, e la sua fisonomia stravolta gli fece così male, che
tutta la collera gli riavvampò. Aveva la faccia di un'immobilità
marmorea, la bocca ringrinzita da un tremito di paralisi. Con un
moto violento si slanciò sul violoncello, lo afferrò con ambe le
mani per il manico, ed alzandoselo sopra la testa lo sbattè con
rabbia demente a più riprese per terra. Un'ira selvaggia gli
centuplicava la forza nelle braccia, mentre le schegge balzavano
grandinando nelle pareti, e le corde slacciate sibilavano per l'aria
attorcigliandoglisi alle mani con movimenti viperei. Ma egli
proseguiva, inebriandosi di quel dolore feroce, attraverso il quale
sentiva confusamente di commettere un'insensatezza e un'infamia. La
piccola camera pareva in tempesta: il pavimento traballava, i vetri
delle finestre tintinnivano: una voce tuonò dal piano sottoposto
senza che Giorgio l'intendesse.
Colle mani sanguinolenti dalle ferite delle chiavi, seguitava a
percuotere il troncone del manico per terra, trasportato dall'impeto
di quella furia, colla bocca, che aveva finalmente trovata la
contorsione del pianto.
Ad un tratto lasciò cadere il troncone, e si chinò a raccogliere una
carta. Era una lettera. Cogli occhi che leggevano a stento, gli
parve di riconoscere il grosso carattere dell'Anna.
Il cuore gli si arrestò così bruscamente, che cadde quasi in
deliquio. Era proprio il carattere dell'Anna, la lettera doveva
essere nascosta entro il violoncello.
Allora, sotto la pressione di una nuova paura, strappò il suggello.
La lettera era senza busta.
/* «Caro Giorgio, */
«Ti scrivo prima di morire. Ecco, tu adesso sei al concerto, ma io
ti sento di qui. Troverai il mio testamento in un'altra lettera
sotto il capezzale; con essa ti lascio la mia poca miseria,
pregandoti di conservarla anche quando sarai diventato un signore,
come un ricordo del bene che ti ho voluto, dopo che ti era morta la
mamma, e ti ho raccolto.
«Eri bello come un angelo, povero Giorgio! Ogni giorno ti facevo
sempre più mio come se ti avessi fatto davvero. Tu non puoi
ricordartene, perchè i bambini sono senza memoria, ma io mi rammento
di tutte le tue cattiverie; ogni mattina ti alzavi più cattivo per
me. Dopo che hai avuto il violoncello, io non ho contato più nulla.
Tu sei bello e di una razza di signori: io sono brutta, di povera
gente, e mi sono ammazzata a lavorare per te. Cosa vuol dire? non ci
pensiamo più. Quando sarò morta, fa conto, come ti ho detto, che mi
abbiano seppellita dentro il violoncello: te l'ho dato come il capo
più caro della mia miseria, tientelo come una reliquia. Adesso, a
pochi minuti dalla morte, non ho più vergogna di dirtelo, perchè lo
saprai quando sarò spirata: io ti amo, Giorgio. Ti amo come il mio
bambino, se ti avessi fatto, come il mio amante, se avessi avuto da
te un altro bambino. Ma sono vecchia per te; ho trentasette anni,
sono gobba, e non potrei ispirare che un poco di pietà. Figurati se
non l'ho capito subito! Ora, che parlo per l'ultima volta, voglio
parlare. Diventerai un signore, avrai tante belle donne, che ti
ameranno: io non te lo posso impedire, e non lo vorrei: ma pretendo
un posto nel tuo cuore, un cantuccio dove non ci sia nessuno, e dove
tu verrai tutte le volte che avrai bisogno di una mamma, o di una
sorella. Io sarò sempre lì; mentre le altre donne ti faranno delle
carezze, o tu ne farai a loro, io ti aspetterò lì colla tua musica;
tu dopo farai il confronto fra noi e loro, e ci amerai di più.
Nessuno al mondo ti vorrà mai bene come meriti, e come hai bisogno.
Si dice che i moribondi vedono nel futuro; bada dunque alle mie
parole: nessuno ti amerà come io ti ho amato. Se un giorno non te ne
accorgi, non sarai un gran suonatore.
«Non ho più forza di andare innanzi.
«Quando leggerai questa lettera sarò morta: prendila come la
preghiera della mia agonia.
«Sta attento. Io non so dove si vada dopo morti, ma fa conto che ti
vegga sempre, e se un giorno tu dovessi dimenticarmi, o suonare un
altro violoncello, che tu sia maledetto da Dio, e non sappia più nè
dove andare, nè dove stare come Caino. Egli non aveva ucciso che suo
fratello; tu avresti ucciso tutta la tua famiglia nella tua Anna.
«Ti saluto, e credimi per sempre la tua
/* «ANNA VENTURI.» */
All'ultimo periodo la calligrafia era quasi illeggibile.
Giorgio aveva scorso quella lettera cogli occhi balenanti, e un
convulso, che gli faceva tremare tutto il corpo a verga a verga.
Aveva i capelli irti, una specie di bava alla bocca. La sua
fisonomia era diventata orribile nel terrore, la fronte imperlata di
sudore, il corpo raggricciato in una contorsione di vecchio e
insieme di bambino.
Quando l'ebbe finita, rimase egualmente fiso, cogli occhi che non
leggevano più, la ragione schiacciata nel cervello da un gran dolore
improvviso. Tutti i muscoli gli battevano.
- Oh! - mormorò con gesto disperato, tentando di slacciarsi la
cravatta per poter singhiozzare; ma non vi riuscì.
Allora barcollando, metà ebbro e metà svenuto, andò tastoni verso il
letto, e vi cadde. Ansimava, gli battevano i fianchi, gli sibilava
il respiro. Tutto l'impeto di quella convulsione gli si addensava in
una necessità di pianto, che gli gonfiava il petto, martellandogli
il cranio. Furono pochi minuti di uno sforzo e di uno spasimo
supremo. Era caduto bocconi sul letto colle braccia distese sul
cuscino, le gambe floscie, che gli tremavano.
Ad un tratto gli mancarono, e cascò pesantemente per terra. Non
gridò nemmeno, ma poco dopo s'intese un rantolo.
Non aveva potuto piangere...
Se andate al manicomio di Bologna l'illustre professore Roncati vi
mostrerà un pazzo interessante. È un bel giovane biondo, coi capelli
lunghi, la fisonomia nobile e triste. Il professore, che aveva avuto
l'idea di un'orchestra, voleva farne di lui il direttore; ma Giorgio
si scusò, spiegandogli a lungo l'impossibilità di ottenere qualche
cosa di buono con simili elementi.
- Ma ho tutti gl'istrumenti - insisteva il professore.
- La musica è un accordo di pensieri prima che d'istrumenti. I pazzi
non si accorderanno mai.
- E tu sei pazzo? - gli aveva chiesto ridendo.
- Non lo so: gli altri sono senza testa, io invece sono senza cuore.
Ecco la sua pazzia; dice che non lo ha più, e non si ricorda dove lo
abbia perduto. Ma se gli fate osservare che gli batte sotto la terza
costola sinistra, egli vi guarda con due grandi occhi, fa un pallido
sorriso, e ripete invariabilmente:
- Batte, ma non suona.
CONTRABBASSO
Il teatro Brunetti era già pieno. Una folla incredibile lo stipava
da cima a fondo. Nella platea, un ciottolato di teste slavate da un
immenso riverbero, i colori vampeggiavano qua e là sui cappellini
delle signore; mentre un ondeggiamento sollevava ancora qualche
fila, appena un nuovo arrivato volesse allinearvisi, o una qualunque
curiosità serpeggiasse. Non si discerneva più nulla, nè differenza
di persone, nè diversità di posti. Solamente la riga delle poltrone
guernite in felpa rossa, serrate dagli altri scanni, che l'altezza
delle loro spalliere diventava quasi invisibile nell'accavallamento
di tutte quelle teste, aveva ancora qualche punto sanguigno. E dalla
porta, sotto l'ombra della prima galleria, che i becchi di tutto il
teatro non giungevano a diradare; fra le due gradinate, gremite
quanto la platea e perdute egualmente in una penombra di cantina,
nuovi flotti venivano a schiacciarsi contro le ultime panche con un
vocìo soffocato di violenza. Ai lati dell'orchestra, più numerosa
del solito e piena di un'animazione febbrile, salivano altre due
file di persone, che gl'inservienti in livrea gialliccia non
riuscivano a trattenere, e le quali ostinandosi contro ogni evidenza
a trovar posto, si serravano sotto le colonne fra le gradinate e le
panche. Un moto sordo di pigiamento dava un tremolìo quasi
minaccioso alla base del teatro, che le esili colonne di ghisa
inargentata parevano sostenere con uno sforzo supremo. Ad ogni
istante, fra la gente già seduta, qualcuno si alzava in piedi per
respirare a pochi centimetri più in alto, e si girava intorno uno
sguardo meravigliato. Il caldo era soffocante, l'aria torbida.
Nullameno la folla cresceva, le teste si moltiplicavano assiduamente
a tutti gli ordini; la ressa alle porte dell'orchestra, per le quali
si arrivava ai posti distinti diventati platea, e dalle quali i
tardivi guardavano sollevandosi sulle spalle di chi stava loro
innanzi, si raddoppiava. Le corsie brulicavano. E in alto, nel cielo
del teatro, le scalee del loggione parevano in un'ondulazione di
bosco, mentre, forse nella vanteria di una sfida alle vertigini,
molti corpi si protendevano dal davanzale, e molte mani balenavano
in un gesto inesprimibile; e tutta quella siepe umana restava bruna,
campata in aria sopra un pericolo, che poteva essere una minaccia
per chi la riguardava dal fondo agitarsi tempestosamente. Poi il
susurro della platea, che lassù scoppiava in clamori; le grida,
nelle quali andavano rotte le parole, e che le volte comprimevano
ingrossandole, davano un fracasso di tumulto a quel frastuono di
agitazione, una violenza di rivolta alla impazienza di tutto il
pubblico, nel quale l'attesa aumentava col numero, e il sangue
s'infiammava col calore di tutti gli aliti e l'attrito di tutti i
corpi. La prima e la seconda galleria, trasformate in tanti
palchetti, erano zeppe di spettatori e di spettatrici. Le signore
più ricche di Bologna vi si mostravano in vistose toelette, a colori
chiari, coi volti animati dal calore dell'ambiente e dalla
eccitazione della serata. Le conversazioni erano vive, i binoccoli
puntati da tutte le gallerie e da tutti i palchi, dal loggione e
dalla platea. I forestieri, accorsi numerosamente dalla vicina
Romagna e dalle altre provincie, si notavano alla curiosità più
insistente delle domande, agli accenni, ai gesti, coi quali
s'indicavano le signore, e si movevano sui sedili per attirare gli
sguardi come nei loro piccoli teatri cittadini; ed alzavano la voce.
Attraverso le file degli stalli, fra i palchi, di galleria in
galleria, si scambiavano saluti e convegni per la fine dello
spettacolo: molti cercavano lungamente fra la folla per sorprendervi
qualcuno, che avrebbe dovuto convenirvi; gli studenti del loggione,
colla volgarità chiassosa della loro natura, gettavano a quando una
parola sconveniente. A fianco della bocca d'opera le barcaccie
rigonfie di uomini avevano acceso tutto il lusso delle loro candele
a gas. Gli eleganti si alternavano all'onore del parapetto guardando
nella moltitudine colla indifferenza sicura dei privilegiati. Ma
tutti alzavano involontariamente la testa, ed osservavano in alto.
Ogni galleria aveva tante file di sedie quante ne poteva contenere,
e non pertanto un'altra fila di uomini, in piedi, si schiacciava
contro il muro, nelle tenebre, con una regolarità militare. Qua e
là, disseminate fra gente sconosciuta, si vedevano molte signore
distinte, alle quali la poca sollecitudine o la troppa avarizia
avevano impedito di ottenere un palchetto: alcune affogavano nella
marea della sala, non difese nemmeno dalla rispettabilità di una
poltrona. Ma il prezzo dei palchetti era salito ad una somma
provincialmente assurda: due erano vuoti, e solleticavano tutte le
curiosità. Si sospettava più di una grande famiglia, si susurravano
molti nomi. Gli uomini alla moda avevano il loro contegno più
disinvolto, quella finta negligenza di chi, avendo vissuto qualche
mese a Parigi, non si meraviglia più di nulla; mentre le signore dei
palchetti, abbassando tratto tratto uno sguardo inorridito sulla
platea, cercavano d'incontrarsi negli occhi delle amiche, che già vi
soffocavano, e che quella sera non guardavano a nessuno.
Ma l'orchestra non si apprestava ancora. Secondo il gergo teatrale,
quella sera avevano fatto porta da tre ore, e da tre ore il loggione
era pieno. La platea aveva cominciato a riempirsi poco dopo, e molti
installativisi al buio aspettavano, chi sa da quanto, in piedi,
addossati ad una colonna o ad una panca che tutto fosse rigonfio, e
finalmente il direttore salisse sulla scranna. Ma l'orologio
avanzava con lentezza disperante. Intanto il teatro stipato era già
uno spettacolo per se stesso. Le piccole lumiere, a tre becchi,
sospese in giro agli ordini, avventavano una vampa al viso delle
signore appoggiate sui davanzali, ed illuminavano ogni macchia della
decorazione. Il parapetto della prima galleria, enfiata come un
ventre, sembrava vicino a crepare sotto il peso enorme che la
dilatava; e la sua tinta gialliccia, diluita e scrostata, accresceva
il terrore di tale impressione. Il teatro con tutta quella luce e
quella gente pareva più vecchio: i cuscinetti dei davanzali orlati
di passamanteria, che avrebbe dovuto essere bianca, erano di una
sordidezza senza nome; la tappezzeria dei palchi, divisi da un
tramezzo poco più alto dei sedili, e che consisteva in una povera
carta a quadretti nerognoli e rosei, aveva una povertà più
vergognosa fra quegli abiti di seta, le trine e i merletti, il
scintillamento dei colori, i ventagli piumati, i guanti
grigio-perla, il balenìo dei binoccoli perlati, i razzi delle gemme,
lo schiumare dei fazzolettini di battista, tutto quel lusso del
teatro comunale, che ne richiamava la magnifica decorazione a
rilievi e a dorature, a frangie e a velluti. Una volgarità di ressa
usciva da ogni palco; le signore in gran toletta, gli uomini senza
l'abito nero e il piastrone bianco, tutti i posti occupati, così che
le pose eleganti diventavano impossibili, e le figure aristocratiche
scapitavano. Alcune grandi dame, forse non mai comparse al Brunetti,
avevano un'aria impacciata, una specie di malessere, che era forse
un malcontento: qualche vecchia invece, dalla fisonomia signorile e
mummificata, tornata fanciulla nell'ingenuità dell'oblio, osservava
con beata compiacenza; mentre forse nella memoria le si ridestavano
i ricordi della Malibran, quegli entusiasmi, che oggi paiono
impossibili, e che allora erano così veri fra quei vecchi senza
passato, e quei giovani senza presente. Infatti gl'iniziati del
piccolo gran mondo bolognese si accennavano sorridendo la presenza
di molte fra le antiche glorie mondane, dimenticate da venti anni
nel fondo dei loro palazzi; e che riapparivano forse un'ultima volta
con un ultimo rimasuglio di mode trapassate, un cravattone o una
bavarina, e mettevano nella confusione di un palchetto il rilievo
delle loro fisonomie di antenati, il disaccordo della loro
immobilità. Poi tutto il teatro ondulava, le fiammelle del gas
avevano uno sbattimento increscioso, tutte le teste si movevano, i
discorsi fluttuavano in un mormorio incessante; il telone della
bocca d'opera, un immenso lenzuolo giallo a toppe, cogli orli
segnati da due o tre striscie cremisi, che gli davano un'apparenza
di tendone da fiera, palpitava; un'agitazione sommessa scuoteva
tutti gli spiriti, un incomodo scomponeva tutte le pose. Sotto
l'ombra della prima galleria, dalle gradinate e dalla platea, dal
loggione e perfino dall'atrio gremito più che un mercato, saliva e
discendeva un fremito mano mano più tempestoso, una trepidazione
barcollante, nella quale si sentivano come degl'impeti di collera e
delle sospensioni di minaccia. Ma nell'aria già morbida di tutti
quei fiati cominciava a pesare un'oppressione sempre più grave: la
freccia dell'orologio s'appressava alle otto, e molti sguardi si
alzavano alla volta, osservando il timpano di cristallo e i quattro
sfiatatoi agli angoli, che naturalmente non si aprirebbero per tutta
la sera. Una voce dal loggione, dove si soffocava per tempo, avventò
una protesta, alcune altre le si unirono, ma tutto il teatro si
volse sdegnato, e le voci tacquero. Fuori l'aria era così frizzante,
che, aprendo la vetriata, qualche corrente pericolosa poteva
invadere il palcoscenico. Ad un tratto il direttore, in abito nero,
salì sulla sedia. Un sibilo di silenzio corse per tutto il teatro, i
suonatori guardavano le partiture, l'orologio era quasi sulle otto.
Il pubblico ebbe un enorme sospiro di soddisfazione: lo spettacolo
sarebbe puntuale. Ma nel loggione e sotto la prima galleria il
murmure si allontanava come un susurro di vento per un bosco; tutti
si adattavano il più comodamente sugli scanni, le fisonomie si
ricomponevano, le pose da teatro ricomparivano. La bacchetta del
direttore percosse la lingua di latta sul leggìo, e l'orchestra
attaccò la sinfonia. Era la Traviata di Verdi, cantava la Patti. Il
pubblico stette fra contegnoso e disattento. L'orchestra diretta
mediocremente eseguiva colla stessa bravura che al Comunale, poichè
composta all'incirca degli stessi elementi: i violini erano
numerosi, tutti allievi o quasi dell'illustre Verardi. Mano mano il
pubblico si faceva più immobile, gli sguardi si aguzzavano. La
sinfonia passò inosservata, forse qualche frase destò un fremito, ma
l'opera era troppo vecchia per tutte le curiosità, troppo udita per
tutti gli orecchi, e cantavano la Patti e Niccolini. Però verso il
finale, quando il telone parve ondeggiare insensibilmente, tutto il
pubblico ebbe un sussulto. La Patti doveva essere in iscena, la
grande artista, la diva, come la chiamavano i giornali, l'usignolo,
come molti se la ricordavano ancora, diventata adesso una cantante
drammatica, e che ritornava al Brunetti, perchè il Comunale non
poteva contenere tutta la folla necessaria per i suoi diecimila
franchi di ogni sera. Il telone fiottava già sotto il soffio di
tutte le bocche, e la frase finale della sinfonia si smorzava senza
che la sua tragica mestizia impietosisse pure un cuore. Per un
momento sembrò che nessuno respirasse, poi come se l'anelito di
tutto il pubblico avesse uno scoppio, il telone si scisse e sparve
in alto sotto le quinte. La Patti era in iscena, seduta sopra un
divano, discorrendo col medico e con alcuni amici. Tutti non videro
che lei. Era vestita da ballo, scollacciata, con un abito
elegantissimo, volgendo le spalle al pubblico. Nella platea sorse un
applauso di saluto, ma la curiosità e l'emozione erano tali, che
l'applauso fu scarso, ed ella si torse appena colla testa per
coglierlo. Quindi i cori degli invitati entrarono, ed ella si alzò
gettando loro le prime note in una parola d'invito. Allora quella
donnina, piccola, colla fisonomia rapace, gli occhi neri, secca,
colle spalle aguzze, la persona senza forme, ma circonfusa di
un'eleganza che impediva ogni analisi, campeggiò fra quella folla di
straccioni, abbigliati di un povero uniforme in velluto da
gentiluomini in un secolo equivoco, colle calze di cotone e i pizzi
rammendati. Era in piedi, trascinando fra gli abiti orlati d'oro
annerito delle coriste il suo magnifico strascico, sul quale
scintillavano i ganci brillantati; ma così straniera a quella festa,
che la sua contraddizione col teatro sprizzò vivamente. La scena era
la solita di tutte le rappresentazioni. Una specie di gran salone di
quell'architettura da palcoscenico, la quale fortunatamente ha
trovato pochi imitatori, occupava tutta la bocca d'opera, con una
sola porta nel fondo, e una tavola da locanda nel mezzo, lunga e
stretta. La tavola aveva una tovaglia di carta, e una vecchia tenda
orlata d'oro, che la fasciava fino ai piedi, dandole una strana
fisonomia da altare e da banco di pasticciere. Sulla tavola i soliti
calici di legno inargentato, quattro candelabri di bronzo, una conca
in legno dorato piena di fiori naturali, quattro pasticci di
cartone, cinque o sei bottiglie di legno nero col collo bianco, e
due bottiglie vere di champagne dinanzi alle poltrone, che
interrompevano alle estremità il giro delle sedie. Le poltrone,
vecchio stile indefinibile, erano dorate, in felpa rossa; mentre le
altre sedie ad angolo retto le avrebbero superate in ricchezza se la
loro doratura fosse stata più visibile e lo stile meno sgraziato; ma
non avevano imbottiture di sorta. Evidentemente a quella cena
dovevano assistere due personaggi. Non v'erano altri mobili.
Solamente due tavolini dorati, da muro, sostenevano nella parete di
carta due specchi dipinti, bianchi da un lato e turchini dall'altro,
per imitare possibilmente il gioco luminoso dei cristalli: e due
ritratti di antenati fiancheggiavano la porta, adorna di un gran
lavoro di stucchi, a volute e fiorami. Il sofà era rimasto vuoto.
Alfredo doveva arrivare ad ogni istante; infatti entrò poco dopo col
visconte suo amico. Ambedue erano abbigliati come coristi, solamente
di abiti più ricchi; una casacca smollata colla bavarina, le
orlature a merletti, i calzoni larghi a mezza gamba, le scarpine
scollate, e un cappellone piumato nella mano. Impossibile immaginare
un costume più falso, e due fisonomie meno amabili. Alfredo aveva
una grossa testa a lineamenti regolari, che il volgo poteva forse
trovar bella, coi lunghi capelli neri, divisi femminilmente sulla
fronte e accartocciati sulle orecchie, ma che sulle sue spalle quasi
esili, e con quella rotondità piuttosto boffice delle guance, gli
davano un'aria di fantoccio. Il visconte era insignificante come un
cameriere. Un mormorìo di ripugnanza corse fra il pubblico, che
probabilmente si ricordò l'Armando di Dumas. L'apertura drammatica
era presso che la stessa, però quale differenza nel secondo
personaggio! La Patti poteva ben essere Margherita: forse non aveva
nè la sua anima buona malgrado tutti i capricci, nè il suo corpo
ancora soave di tutta la freschezza della gioventù e aromatizzato
dal sentimento della morte vicina; ma la magrezza della sua persona
poteva ben far credere ad una tisi, e lo sfarzo inimitabile del suo
abbigliamento bastava a spiegare tutto un presente di dissipazioni
parigine, di milioni fusi con uno sguardo, di amori pagati con poco
più di un sorriso. Le camelie, che le guernivano il vestito e le
biancheggiavano sulla testa, erano forse una vera predilezione di
questa donnina, che, avendo odorato tutti i fiori della vita,
preferiva adesso per orgoglio nauseato i fiori senza profumo e l'uva
candita, ultimo ricordo della sua infanzia povera nei campi, che le
ritornava falsificandosi attraverso la vita di cortigiana e la sua
cucina di malata. I lumi, il belletto, la biacca, tutte le risorse e
le menzogne delle tolette teatrali aiutavano nella fantasia del
pubblico l'immagine di Margherita, così poco vera e così poco
grande, e che nullameno ha commosso per dieci anni l'Europa; ma
Armando, questo provinciale ingenuo sino alla goffaggine, che si
trova un po' dappertutto, e attraversa per un istante la gran vita
mondana per finire in un impiego subalterno, dove oblia prontamente
la breve primavera della gioventù, che può averlo reso poeta un
mattino: l'Armando di Dumas, che Parigi ha ingentilito senza
corrompere, che la passione spiritualizza, e la sincerità rende
quasi simpatico, non era certo riconoscibile in quel figuro vestito
di velluto, coi calzoni orlati di una passamanteria, che gli velava
i magri polpacci, e quella testa, che avrebbe figurato abbastanza
bene nella vetrina di un barbiere fra le guglie dei ceroni e le
iridi delle boccette.
La cena fu brevissima: gli ospiti si erano appena seduti, che
Alfredo fu invitato a ripetere quel brindisi di una intonazione da
baccanale, con cui Verdi ha creduto inutilmente di soddisfare alla
doppia esigenza di una scena di baldoria e di un coro. Alfredo non
fu nè gran signore, nè gran tenore; non ebbe alcuna delle finezze di
entrambi, e sparve quasi nella risposta di Margherita. Ella fu
splendida di brio, e quando tutti si alzarono, e aggirandosi fra di
loro col bicchiere in mano cantò l'ultimo ritornello, se quella
gente fosse stata davvero elegante, sarebbe parso di assistere ad
un'ultima ora carnevalesca in casa di una grande mantenuta. Non fu
che un lampo, il pubblico non lo colse, e rimase nella prima
diffidenza. Sciaguratamente il biglietto era troppo alto per una
città di provincia, e lo spettacolo solamente alla prima scena,
perchè gli spettatori lo avessero già dimenticato. Quindi Violetta,
sorpresa da un deliquio, andò a cadere sul sofà; Alfredo, che stava
per uscire cogli altri, si trattenne, e le fece quella celebre
dichiarazione dello stile verdiano il più puro, nella quale l'amore
del collegiale è forse reso con tutto il caldo ed i fiori della sua
rettorica. Non era certo la dichiarazione di un elegante ad una
donna del genere di Margherita; ma se il suo soffio lirico,
arrivando da una terra vergine ed ardente, saliva troppo in alto,
dissipava con felice contrasto i fumi grassi di quella cena, per
crudele fatalità dei coristi troppo apparente. Ella lo sentì, e come
desta da un olezzo di aria nativa, ruppe in un grido di emozione.
Quel linguaggio poetico, il solo genere di linguaggio falso che non
avesse udito da molto tempo, e che in quel momento esprimeva una
vera passione, le ricordò forse un altro mondo, dove si amava e si
viveva altrimenti: se non che ricomponendosi d'improvviso, ed
avanzando la fronte verso di lui come per bagnarla nel sentore delle
sue ultime parole, con un sorriso ancora gaio, ma già diversamente
gaio di poco dianzi, quando agitava nella piccola mano il bicchiere
dello champagne, e con una bonomia intenerita nella voce, che era
già una tristezza nel cuore, consigliò ad Alfredo il solito
consiglio di fuggire e di amare un'altra. Il rimedio volgare era
forse ben adatto, ma la piccola beffa, che lo accompagnava in fondo,
ne impediva singolarmente la pratica. Malgrado la bontà di quella
commozione, il gesto e le parole di Margherita avevano ancora la
monellesca amabilità, il pungente scetticismo della mantenuta:
Alfredo n'era impacciato, Violetta tornava a riderne.
Il suo magnifico abito di raso aveva dei sibili di serpente, mentre
il suo ventaglio piumato, che valeva forse tutto il patrimonio di
Alfredo, le batteva sul petto colla impertinenza superba di chi non
ha cura nemmeno di se stesso. Se Alfredo non fosse stato sincero,
avrebbe provato la falsa vergogna di quella posizione, e sarebbe
fuggito; invece fu goffo e fu amato. Le donne pretendono sempre un
sacrificio, e preferiscono fra tutti quello di un'umiliazione. Il
dramma vivo di Dumas e di Verdi cominciava a questo punto. La Patti,
fino allora una prima donna impeccabile, fu improvvisamente
l'artista, che sapeva recitare come la Ristori. Seduta languidamente
sopra quel povero sofà rosso, sorreggendosi la testa colla mano, in
un abbattimento, che tradiva già un'implacabile malattia, parve
perdersi silenziosamente nel vuoto gelido del passato. La sua posa,
che avrebbe entusiasmato uno scultore per la involontaria
espressione di tristezza, era già un capolavoro. A che pensavano in
quell'istante Violetta e la Patti? Alla dichiarazione di Alfredo, o
di Niccolini? A quell'amore vergine, idolatra, del povero
provinciale, che ha vissuto quattro anni nel quartiere latino
ricordandosi la inevitabile Provenza fra i sogni incendiarii di
Parigi, dove la vita ha ancora più seduzioni dell'immortalità, e i
propositi feroci delle ambizioni soccombono quasi sempre alle
tentazioni del piacere? O all'amore tardivo di questo tenore
ammogliato con quattro o cinque figli, la voce già velata e la
fisonomia teatrale piena di rughe, che la seguiva per tutto il
mondo, attraverso le ironie del pubblico e le indiscrezioni dei
giornali, e che forse l'amava con tutto l'egoismo di un uomo, il
quale sente mancarsi ad un tempo la vita dei sensi e la vita
dell'arte? O sentiva il terrore della solitudine in quell'ignobile
teatro di provincia, dove la maggioranza l'ammirava forse più per la
paga che per la voce, ed entusiasmandosi per l'artista conserverebbe
forse tutto il proprio disprezzo per la donna? O la sua grand'anima,
sparendo davvero nel tragico destino di Margherita, si fermava come
lei a mezzo il corso carnevalesco della propria esistenza, sorpresa
da una di quelle ripugnanze, che sono come l'esplosione di un
disgusto accumulato insensibilmente, una negazione disperata di
tutto ciò che si è voluto preferire nel mondo, i diamanti veri e i
sentimenti falsi, il lusso del corpo e la miseria dell'anima? E la
sua voce aveva delle trepidazioni di spavento; mentre, passeggiando
per il palcoscenico cogli occhi sbarrati, ella sembrava cercare una
spiegazione su quelle asse, dalle quali si erano alzati tanti
desiderii e sulle quali erano cadute tante speranze di donne. Forse
in quell'istante il suo pensiero si era appannato, e la coscienza le
si destava alla puntura di un nuovo sentimento. Poi le ultime parole
della dichiarazione le tornarono involontariamente sulle labbra,
quando, lontano dalle quinte o dalla strada, la voce di Alfredo
risalse e la percosse. Era un'eco del cuore o un'illusione
dell'orecchio? O il povero innamorato, che aveva giurato di partire
per sempre e che ella aveva trattenuto scherzosamente con un fiore,
era ancora sotto le finestre, a Parigi, dove la folla passa come la
fiumana; e, non sapendo spiccarsene, le ripeteva di laggiù a tutta
gola, come un vero ragazzo, la sua prima dichiarazione? Forse ella
non lo comprese bene, ma la follia di quell'insistenza le rianimò
tutte le follie della sua vita tragica ed allegra. Perchè amare? Chi
amare? Comunque principii, l'amore non finisce sempre ad un modo,
nella voluttà prima, nella nausea poi? La morte non era essa pure la
nausea della vita? Se Alfredo l'amava davvero, tutti quelli, che si
erano rovinati per lei, l'avevano amata almeno altrettanto, poichè
qualcuno n'era morto. Avevano goduto con lei, poi l'avevano
abbandonata. E godere dunque, sempre e dappertutto, sinchè si può
essere o si può ricevere una voluttà! La fiumana di Parigi, che
passava a notte così avanzata sotto le sue finestre, era sempre così
torbida; tutti i caffè erano aperti, i clubs affollati, i teatri
rilucenti, tutti si apprestavano a godere, gli uomini offrivano un
desiderio, le donne donavano una soddisfazione, nessuno aspettava il
mattino, nessuno credeva all'indomani. Essere bella ancora, avere
più diamanti che sorrisi, più sorrisi che pensieri, era tuttavia un
destino; e mentre laggiù, in fondo, la massa della popolazione
lavora e stenta, non avere che a bramare per ottenere, essere una
piccola regina, alla quale tutti i re della ricchezza offrano un
trono; bella come un capriccio e debole come una malata, giovane
come il mattino e nullameno moribonda come la sera. Si era decisa
nuovamente. Il suo gesto piccino aveva avuto l'espressione
superbamente scettica del giuocatore, che arrischia per la centesima
volta l'ultima posta. Allora la sua canzone di guerra col mondo
scoppiò in un ritornello pieno di trilli e di baci, di note acute e
di sentimenti leggieri come il suo sacco di giovane volontaria nelle
bande del brigantaggio femminile. La sua voce aveva degli scoppi di
fanfara, l'abito le garriva come una bandiera al vento, il ventaglio
brillantato balenava come un'arma omicida. Una gaiezza di recluta
alla prima marcia le animava tutti i moti, e le accendeva già i
fuochi della vittoria negli occhi neri come l'abisso. Non era più la
Violetta della cena, sofferente ed avvilita pur non volendo
sembrarlo; ma la Violetta di vent'anni, l'etèra moderna, che deve al
lusso tutto il proprio prestigio, e uccide col lusso tutti quelli
che lo sentono. L'ingenuità di questa vanteria, uscendo
dall'abbattimento di poco d'ora, aveva la soavità di una brezza e il
fresco mordente di un'alba. Così trovando nell'ultima ostinazione
della vanità femminile le stesse lunghe compiacenze delle sue prime
conquiste, si attardava sulle frasi del soliloquio, dilettandosi ad
esaurirne la sonorità nelle gamme più bizzarre del ritmo, nelle
pazzie più scapestrate della modulazione. Quindi sollevando
improvvisamente una parola la sparpagliava in un turbine di note, la
raggruppava ancora, l'avventava sopra un'altra, la perdeva in una
discesa precipitosa; e riafferrandola giù nel crepuscolo dell'ultima
nota, la gittava entro un gorgheggio, riscagliandola in alto, sulla
cima più acuta di un trillo, dove vibrava come uno squillo e
raggiava come un baleno. E la sua mano secca sotto il guanto
grigioperla sembrava appuntarla con un gesto indefinibile, mentre il
suo volto splendeva di luce febbrile, e il suo sorriso passava sulle
teste della platea come un riverbero, che faceva vacillare i cuori e
battere le palpebre.
Poi tutte le mani si percossero, e una nuvola gialla cadde sugli
sguardi del pubblico. Il primo atto era finito. Allora il teatro fu
in sommossa: quasi tutti gli uomini si alzarono in piedi, quasi
tutte le signore mutarono attitudine. Le conversazioni
rumoreggiavano.
- Dunque?! - proruppe, torcendosi come uno scoiattolo sulla sedia,
il violoncellista dell'ultima fila al secondo contrabbasso della
prima, appoggiato al parapetto della ribalta e sorreggendosi sul
manico dell'istrumento - mi pare che questo sia canto! La tua
Frezzolini non ci ha che fare.
Ma s'interruppe dispettosamente per guardare nel pubblico, che
lasciava finire il primo applauso di convenzione, obliandosi nel
fracasso dei discorsi.
- Vedi - proseguì levandosi in piedi senza parere niente più alto,
cogli occhi grigi, scintillanti come quelli di un pollo, e la voce
stridula come una lima: - vedi - ripetè, mostrandogli il pubblico
con un gesto veemente di disprezzo; - non hanno capito. Hanno
battute le mani agli ultimi trilli, e diranno che la Donadio li sa
fare anche lei. Ti ricordi Salvini? - seguitò stringendosi la fronte
illuminata da un pensiero - la Patti è Salvini che canta.
- La Cazzola allora.
Il violoncello si volse al violinista, che aveva parlato, un ragazzo
dai capelli rossi e la fisonomia ebete, e insultandolo collo
sguardo:
- Questo dev'essere per te un ricordo di muratore.
Il contrabbasso ebbe un principio di sorriso.
Era un vecchio alto e grasso, la faccia del tutto rasa, con un
cravattone nero, che a prima vista sembrava un collare. Due ganascie
di gran mangiatore, penzoloni sotto il mento, gli scoprivano due
magnifiche fila di denti ancora bianchi, capaci di stritolare tutti
gli ossi di un pranzo. La calvizie inoltrandosi gli aveva dato un
po' d'intelligenza alla fronte, sotto la quale una bonomia
inalterabile ammolliva ancora i suoi lineamenti linfatici,
congiungendogli insensibilmente il sorriso della bocca con quello
degli occhi. Il resto della persona gli spariva dietro l'enorme
contrabbasso, sul quale la sua mano di pizzicagnolo posava con una
specie di poderosità pacifica. Un immenso soprabito, tagliato a
giacca, coi bottoni neri di prunello sopra un fondo color tabacco,
gli ingrossava il busto smollato dentro un immenso corpetto, sul
quale una collana femminile, d'oro, attorcigliata con un resto di
pretensione, faceva sospettare di qualche antico orologio a cipolla.
Ma in quel momento Bartolomeo sembrava concentrato in un pensiero
difficile. I suoi sopraccigli, grigi e ricurvi sugli occhi,
s'andavano contraendo, mentre una contentezza ilare gli saliva dalle
labbra, illuminandogli le guancie tinte ancora di un magnifico
vermiglio. Rimase qualche minuto così, poi la marea del teatro,
sorpassando la ringhiera dell'orchestra e scompigliandola, lo destò.
Il teatro reboava. Un rumore composto di un'infinità di mormorii, di
gesti, di cenni, di occhiate e di sorrisi riempiva tutto l'ambiente,
agitandone l'aria, che si vedeva distintamente bruciare sulle
fiammelle del gas. Il caldo era opprimente, tutte le fronti
rilucevano, i ventagli susurravano sui petti delle signore, i
fazzoletti biancheggiavano in tutte le mani. Nella platea era un
continuo sorgere e risedersi, nei palchi già pigiati le visite
sopravvenivano e si pigiavano, il frastuono cresceva per le
gallerie, scoppiava in grida sul loggione. Lassù il calore
dell'entusiasmo, raddoppiato da tutto l'altro del gas e della gente,
doveva essere arrivato ad una temperatura di deserto africano.
Nullameno panche, gradinate, muri, parapetti, tutto rimaneva
letteralmente imbottito di figure umane; lo skacò placchettato di un
poliziotto, arenatosi lassù come in un banco di sabbia fino al
collo, gettava qualche riverbero metallico fra quel grigio
tumultuoso di bruma: e dalla platea all'atrio, per la porta, l'onda
di coloro, che uscivano e rientravano, quelli che non potevano più
reggere all'arrembatura, e quelli non ancora entrati, i quali non
speravano se non in ciò, s'accavallava in grossi fiotti, vibrando
nel frastuono della sala grida di soffocazione. Le signore della
platea erano già ardenti, le altre dei palchi scintillavano. La luce
profusa di tutte le fiamme diventava la sola aria dell'ambiente, non
si vedeva più una faccia pallida, tutti gli occhi rutilavano, tutte
le bocche si movevano. Solo in un palchetto una principessa
ottuagenaria, vestita di un moerro del suo tempo, con una fisonomia
di mummia, ancora spiritosa quando parlava, e la nipote gracile,
smorta, vestita di bianco come un angelo, diafana come una visione,
fredda come una statua, sembravano non partecipare alla confusione
bollente della serata. La vecchia teneva quasi sempre la testa
bassa, la giovane l'appoggiava al tramezzo, e guardava in alto con
due occhi affossati, che sulla sua faccia impassibile avevano una
luce spettrale. La gente si voltava spesso a guardarle. Poi su
quell'agitazione di marea, contenuta e raddoppiata dalle gallerie,
fra tutte le conversazioni, nelle teste e nei cuori, suonava il nome
della Patti. Quel primo atto, un capolavoro per qualche iniziato,
non aveva soddisfatto interamente al gusto sempre grossolano, e
questa volta avaro del pubblico. Ma quel turbine di note esplose
all'ultima scena, e l'atmosfera del teatro dissolvevano già ogni
incertezza; mentre la famigliarità di tutte le pose pigiate e delle
attitudini compromesse disponeva involontariamente a maggiore
compiacenza.
Poi la bacchetta del direttore percosse sul leggìo, che il pubblico
non si era ancora ricomposto.
L'idillio campestre della Signora delle Camelie, narrato dal Dumas
con minutezza così vera e commovente, si apriva invece con una
romanza di Alfredo, eco indebolita dall'altra del Rigoletto, senza
luce e senza calore. Quel povero Alfredo, che per far credere di
essere in campagna, compariva in stivaloni di pelle lucida, vestito
di velluto granatino, i pizzi ai polsi ed al collo, il gran cappello
piumato nelle mani per darsi un contegno, era ancora più ridicolo
che alla presentazione del primo atto, nel quale la goffaggine
stessa della situazione poteva far scomparire la sua. Egli venne
dritto alla ribalta, come chi si affretti a sdebitarsi di un
incarico, e cantò con sicurezza di vecchio tenore la propria
felicità di giovane innamorato. La frase leziosa del finale gli
valse il primo applauso della sera, e il dramma si riannodò
immediatamente. Colla delicatezza sempre poco delicata delle sue
pari, Violetta voleva vendere i cavalli guadagnati in altri amori
per aiutare quello di Alfredo, e seguitare quella vita di campagna,
che Verdi in tutto il melodramma non ha voluto svolgere con una
scena sola. Forse il suo temperamento tragico e lirico ad un tempo,
innamorato delle catastrofi e delle passioni esplodenti, non ha
osato di affrontare un interno casalingo, la mattina, quando l'aria
è fresca, il cielo azzurro, e la casetta apre tutte le proprie
finestre alla primavera. Una magnifica scena, come nel Tristano e
Isotta del Wagner, avrebbe potuto spiegare il passaggio troppo
brusco dell'ultima decisione di Violetta nel primo atto al
sacrifizio nel secondo, appena si presenta il padre di Alfredo; ma
Verdi non potè o non volle, e senza saper come si siano uniti,
Alfredo e Violetta si separano immediatamente. Così quest'idillio,
quest'amore, sul quale si è tanto discusso e che tanti hanno provato
nella vita, non trova dentro l'opera destinata ad immortalarlo una
sola frase, che lo renda nell'abbandono gentile della confidenza,
quando il mondo lo aveva quasi obliato, e la natura lo riconfortava
colla sua eterna salute. Ma Dumas nella Signora delle Camelie
disegnava un carattere, e Verdi nella Traviata espresse il solito
amore di tutti i suoi melodrammi, senza preoccuparsi delle
differenze, che potessero correre fra Violetta e le sue altre
eroine. Nella gamma dell'amore egli arriva subito ed
involontariamente alle note più acute, alla prepotenza più acre del
desiderio o al dolore più spasimante del sacrificio. Come per Victor
Hugo il personaggio è per lui una forma vuota, nella quale gittare
indifferentemente una passione o un pensiero, che lo animi di quella
vita eccessiva, cui l'uomo non prova davvero se non in qualche
terribile coincidenza. Quindi l'architettura complicata dei loro
drammi, le passioni irrefrenabili, gli eroismi fatali, le
contradizioni strazianti, tutto l'apparato romantico, che,
trasfigurando la realtà, squilibra incessantemente il sentimento del
personaggio stesso e del pubblico. Malgrado la differenza di nazione
e di razza, Manrico e Radamès sono lo stesso individuo, come Gilda e
Violetta, Ernani e Don Alvaro, Riccardo e Don Carlos, Dea e Cosetta,
Gilliat e Guynwplaine, il marchese di Lantenac e Don Silva; perchè
Hugo e Verdi fanno delle statue e non degli uomini, e sono come due
fratelli, dei quali il minore aspetta che il primogenito abbia
parlato per cantare. Talora si uniscono, e ne esce una grand'opera
come il Rigoletto; talora non s'intendono, e producono due mostri
come nell'Ernani. Così della Signora delle Camelie, aneddoto triste
e volgare della cronaca parigina, che Dumas ha narrato con vecchia
sapienza di novelliere e giovane entusiasmo di predicatore, Verdi ha
fatto una tragedia, nella quale non si sente che un grido di amore,
con quattro personaggi insignificanti come una decorazione, una
trama molle quanto una matassa, una sceneggiatura falsa come quella
di un giornale illustrato, un processo psicologico, che mutila i
caratteri e deforma le situazioni. Invano l'anima, stanca da
quest'alternativa di cicalio e di gemiti, o disorientata da tutti
questi avvenimenti, che cadono come tante tegole dai tetti, domanda
la dolce malinconia di quest'amore, nel quale il sorriso della tisi
ingannava così spesso ambo gli innamorati, e la verginità
dell'inesperienza nell'uno e dell'oblio nell'altra si fondevano come
due soffi in un bacio, due note in un accordo. La figura di
Violetta, questa donna, della quale ogni particolare dovrebbe essere
supremamente elegante: sempre leggiera anche nelle violenze più
inebrianti del senso, o negl'impeti più disperati del sacrifizio:
sempre mantenuta anche nel breve idillio coniugale, poichè invece di
morire ricacciandosi nella miseria morale della sua vita anteriore,
riprende facilmente il corso delle antiche feste: sempre sfarzosa e
sempre con un uomo, al quale concede le proprie notti: la figura di
Violetta così vera nelle contradizioni e così falsa nell'eroismo,
fragile e terribile nella sua effimera prepotenza di grande mondana,
spregevole e pietosa nell'ultima lotta col destino, contro al quale
non ha mai saputo lottare colle forze del lavoro e le energie della
volontà; questa figura composita come i suoi pranzi, i suoi profumi,
le sue tolette, le sue preferenze e le sue antipatie, diventa una
figlia nobile dalla bellezza spirituale, colle stigmate del
romanticismo sulla fronte; povera anima che aspira al cielo,
assetata di amore e di ideale, che parrebbe un angelo smarrito sulla
terra, se i singhiozzi laceranti del suo petto di tisica non la
tradissero per una donna. La bianchezza della sua fronte di
predestinata è la stessa di Gilda, la vergine soave; il sacrificio
del suo amore quello medesimo di Eleonora, l'altera castellana: il
suo cuore è sempre puro, la sua testa illuminata dal sole della
poesia. Malgrado la differenza degli abiti e delle parole, mutando
scena, ella sarebbe probabilmente l'una e l'altra; e quando si
sentirà soccombere sotto il peso del dramma, o morire nell'ultima
stretta della catastrofe, troverà la frase di quelle martiri,
ineffabile e sublime come l'ultimo accento dell'amore e la prima
parola della fede.
In quel momento Violetta stava attendendo il padre di Alfredo. Era
vestita semplicemente, ma le cattive abitudini della mantenuta, o la
falsa vanità della cantante le avevano fatto mettere una moltitudine
di brillanti sopra quel corsettino da campagna. Le signore, che non
l'abbandonavano un solo istante col cannocchiale, susurrarono
mostrandosi la raggiante ricchezza di quelle gemme. Evidentemente
Violetta preferiva i diamanti ai cavalli. Ma il padre di Alfredo,
Moriami, bell'uomo camuffatosi male appositamente, dal portamento
vivace e la voce poderosa, entrò poco dopo. Con una condiscendenza
inesplicabile per la decorazione della scena rimproverò acerbamente
a Violetta l'estrema eleganza della casa, che pareva appena quella
di un giardiniere; e perdendosi subito dopo nelle rimostranze di
padre offeso dalle follie del figlio per una donna, stava per
trascendere, che Violetta lo trattenne con un gesto. Allora la vera
ed unica scena dell'opera scoppiò; Moriami fu un padre ordinario, ma
un baritono corretto, la Patti un miracolo di arte e di natura. La
insulsaggine del pretesto inventato da Dumas e musicato da Verdi per
mettere la tragedia nel racconto e l'equivoco sulla scena, uccidendo
nell'anima di Violetta la vita e in quella di Alfredo l'amore; la
povera storia di quella sorella perduta in un villaggio di Provenza,
la quale deve sposare un possidentuccio qualunque con centomila lire
di patrimonio, mentre ella ne porterà forse ventimila in dote, e che
spaventati dallo scandalo di Alfredo non possono più unirsi, come se
le amanti dei fratelli disonorassero le sorelle a cinquecento miglia
di lontananza; questo padre, che arriva dal fondo della Provenza
attirato dai debiti del figlio, una delle più forti attrazioni, e
per persuadere la donna, che egli crede il suo mal genio, ad
abbandonarlo, non trova nulla di meglio a dirle che lo scrupolo
piuttosto ebete del proprio futuro genero; la musica triviale come
le parole del racconto e la posizione del dialogo, la cantilena dei
ritornelli, la nudità del motivo e la miseria dell'accompagnamento,
tutto si illuminò e disparve alle prime parole di Violetta.
Coll'accento della paura, che la sorpresa intenerisce ed aggrazia,
la voce rotta dai singhiozzi, sublime di debolezza e di entusiasmo,
ella gli confessò il proprio amore per Alfredo, amore quasi santo
per la redenzione della donna, quasi sacro in quella brevità di
tisi. E mano mano che il canto angosciato le si affievoliva, quasi
il solo pensiero di perdere Alfredo le rompesse l'ultimo filo di
voce, le sue parole frettolose risuonavano con un borbottio
d'invocazione, e i suoi occhi si figgevano nella faccia del vecchio
con espressione imbambolata. Forse col presentimento degli infelici
aveva paura di quel volto bonario, sul quale le passioni non avevano
mai balenato, e che solo la morigeratezza e l'egoismo avevano potuto
conservare così fresco. Tutto in lei pregava per l'amore. Ma colla
testardaggine della gente onesta, la quale, trovandosi ad avere dal
proprio canto la virtù e l'interesse, diviene scettica sulla
importanza delle passioni, egli seguitò a darle i consigli di
circostanza. Nè la magrezza della sua personcina, nè il rossore
della febbre l'impietosivano: non si accorgeva di strapparle dalle
labbra l'ultima goccia di cordiale, di soffocarle nel cuore l'ultima
speranza della vita. E la musica nella sua fraseologia rettorica e
plebea esprimeva abbastanza bene questo carattere vero a forza di
essere brutale, questa posizione tragica, nella quale la ragione
parlava col vecchio e la poesia singhiozzava colla giovane.
Naturalmente il pianto è uno dei primi sintomi della debolezza, e
Violetta cedè. Forse ella stessa non ne capiva bene il motivo, ma
per uno di quegli abbandoni disperati, propri delle nature
patetiche, si lasciava cadere ai piedi della prima contraddizione
colla voluttà singhiozzante del sacrificio. Allora la vita degli
ultimi mesi in campagna coll'amore di Alfredo, affluendole
impetuosamente al cuore, le sgorgò in lagrime dagli occhi. La sua
fiacchezza di donna e di malata le fece provare anticipatamente
tutto l'orrore del distacco, e di un ritorno alla vita della
cortigiana, che non può credere più alle illusioni del lusso, o
sperare in un ideale più alto. Per un momento si era lusingata di
rientrare nella virtù di un unico amore, e la virtù la rigettava sul
corso rumoroso del vizio. Il cuore le batteva, il petto le bruciava.
Le pareva impossibile di cedere, ella che aveva tutti i diritti di
una moribonda, il suo ultimo mese a chi vivrebbe ancora molti anni;
mentre sapeva di non costar nulla ad Alfredo, e che una rottura
sarebbe forse la morte per entrambi. Ma una mano di ferro le era
discesa sul cuore, e l'aveva prostrata. Il feroce destino della sua
vita la ripigliava stracciandole tutti i sogni, pestandole tutte le
speranze. La cortigiana doveva morire cortigiana, nella miseria di
uno spedale, o nella vergogna di un sequestro. Quindi una luce
improvvisa illuminò il destino, che la uccideva, e riapparve la
provvidenza della sua infanzia, quando la mamma l'ammaestrava
accanto al focolare, inculcandole l'umiltà dei principii e la
purezza dei sentimenti. Le sembrò di ritrovarsi nell'antica casetta
montanara, intatta ancora dal giorno della sua fuga, poichè la mamma
ne era morta poco dopo. Ma un'altra casa sopra una più bella
costiera piena di aranci e di olivi, fra una corona di colline,
sotto un cielo di smalto, in faccia ad un mare di zaffiro, in
un'aria imbalsamata, in mezzo ad un sorriso eterno di giocondità e
di salute, le passò come una visione nel pensiero. La conosceva, era
la casa di Alfredo, che egli le aveva tante volte descritto. Il
vecchio cane pastore era sdraiato sulla porta, la capra favorita
della mamma brucava ad una siepe. La porta era spalancata, il prato
deserto. Ma ad una finestra del primo piano una fanciulla pettinata
modestamente ricamava un paio di pantofole da uomo, col volto
illuminato da un impercettibile sorriso. Era la sorella d'Alfredo,
la vergine, alla quale ella non poteva essere presentata, l'angelo
della famiglia, che stava per aprire le ali bianche al volo. Le
sembrava di vederla in alto, dal prato della casa, alla guisa dei
mendicanti, che venivano spesso ad implorarla. Allora tutta la
ribellione del suo dolore ammutolì, e comprese di essere
inevitabilmente perduta. Il destino, che la buttava ai piedi di
quella vergine, come gli antichi guerrieri venivano a gettare ai
piedi delle loro spose i prigionieri di guerra, era la provvidenza
della sua infanzia, che sparisce talvolta, ma non dilegua, perdona
forse, ma non oblia. L'ora della espiazione era suonata prima
dell'ora del pentimento. Le ginocchia le si piegarono quasi
involontariamente; ma come se l'aria di quella visione l'avesse già
purificata, col gesto del pellegrino, che sta per riprendere
coraggiosamente la via dolorosa del pellegrinaggio, stese la mano al
vecchio, e cantò la preghiera dell'addio. Come la figlia di Jefte
ella moriva per la parola di un padre, ma senza la poesia
dell'innocenza e l'onore del corteggio. La sua lamentazione, lenta
come i rintocchi di un'agonia, calava laggiù, in una valle della
Provenza, sotto la finestra, alla quale la sorella di Alfredo
lavorava senza alzare gli occhi dal ricamo; mentre Violetta,
stringendo convulsamente la mano del padre, gli mormorava un saluto
per la vergine, che doveva ignorare per sempre l'infamia del suo
nome, e l'eroismo del suo sacrificio. La sua voce, sempre soave,
aveva un accento ineffabile di malinconia in questa romanza, la più
bella e la più vera di tutta l'opera; ma alla ripresa, quando il
presentimento della morte le ebbe tolto ogni forza, anche la voce le
si affiocò senza appannarsi, ed abbandonando la mano del vecchio,
gli ripetè con tale sfinitezza - Dite alla giovane sì bella e pura -
che il pubblico strozzato dall'emozione scoppiò in un urlo.
Istantaneamente l'incanto si ruppe, Violetta scomparve e rimase la
Patti, un'artista inimitabile, alla quale il teatro chiese due volte
il bis, due volte soffocandolo sotto un grido fanatico di applauso.
A poco a poco il calore dell'ambiente aveva guadagnato tutte le
anime, quella romanza le incendiò. La sua tristezza era così vera,
che l'amore ed il suicidio di Violetta diventavano reali, atroci,
inevitabili. Non si vide altro, non si comprese di più. Per qualche
minuto lo spettacolo rimase sospeso. L'applauso diventava ovazione,
crescendo d'intensità e di frastuono; si sentivano i fremiti,
scoppiavano già le strida della demenza. L'emozione del pubblico era
talmente viva, che per sopportarla dovette ricorrere al bis. L'arte
è un punto, l'artificio una linea: questo si raggiunge una volta,
questa si può prolungarla sempre. Il pubblico, che aveva sobbalzato
alla voce di Violetta, giudicò allora quella della Patti, e il
giudizio fu così lusinghiero, che la grande cantante ebbe un sorriso
di regina, curvandosi sotto il vento degli evviva. L'artista ed il
popolo si erano intesi prima; la donna ed il pubblico s'intendevano
adesso.
Quando il padre fu uscito, Violetta rimase sola per scrivere ad
Alfredo il terribile biglietto. I violini di Verardi interpetrarono
mirabilmente le poche e stupende note, colle quali Verdi ha reso
l'ansia di quel momento, ma nè la musica, nè la voce, nè la
perfezione inimitabile dell'attrice poterono risollevare il
pubblico. La reazione dell'entusiasmo lo prostrava. Alfredo rientrò,
e l'accordo fra il pubblico e la Patti si ruppe di nuovo.
Quella figura di barbiere, camuffato da postiglione, smagava tutta
la passione di Violetta. Ella avrebbe avuto talmente torto di
amarlo, che era impossibile credere al dolore delle sue menzogne e
alla verità del suo olocausto. La farsa spuntava sotto la tragedia.
Forse Violetta fingeva quel convulso per non parere troppo
cortigiana; poichè l'insulsaggine in mostra sulla fisonomia del suo
innamorato doveva averle reso ben uggioso il lungo faccia a faccia
in campagna. Flora l'invitava ad una festa. Parigi rumoreggiava da
lontano, attirandola come l'oceano attira il marinaio.
Involontariamente tutti gli orecchi riudivano i gorgheggi
leggermente avvinazzati del primo atto: ma d'improvviso, mentre
l'ironia del pubblico, malcontento del tenore e forse geloso
dell'uomo, agghiacciava quella scena di addio a parole mozze,
Violetta riapparve con un grido talmente lacerante, che tutti
impallidirono. Molti si voltarono, sporgendosi per vedere se fosse
caduta ai piedi di Alfredo con una bava di sangue alle labbra; ma
Violetta era già scomparsa, e Alfredo si fregava le mani in faccia
al pubblico colla vanità di un uomo idolatrato.
Il resto dell'atto sembrò interminabile, il dolore di Niccolini fu
ridicolo essendo falso, e lo sarebbe stato più essendo vero; i
conforti di Moriami, di una scioccheria appena perdonabile ad un
padre, che non può aver torto vantando i prodigi del proprio cielo
provenzale. Niccolini seduto sull'unica poltrona di casa, la mano
alla fronte, conservava abbastanza sangue freddo per non scomporsi
la sapiente pettinatura; mentre Moriami imbarazzato sotto quella
parrucca ed entro quegli abiti da vecchio, egli che la sera dopo
doveva essere il più bel Barbiere di Siviglia, seguitava la predica.
La quale produsse finalmente il solito effetto, e quando sperava di
aver persuaso il figlio a prendere il primo treno per la Provenza,
questi indovinando dall'ultima lettera di Flora, trovata sul tavolo,
che Violetta sarebbe a quella festa per trovargli il successore,
scappava impetuosamente per Parigi.
Si credeva che il telone sarebbe calato secondo il solito, per dare
alla prima donna il tempo della grande toletta da ballo; ma forse la
Patti volle provare di riuscirvi in pochi minuti, e l'atto seguitò.
Solamente la scena passava dalla campagna a Parigi, in casa di
Flora, che quella sera dava un ballo in costume. Gl'invitati alla
cena di Violetta dovevano convenire nella festa di Flora. Infatti
un'orda di zingarelle e di ballerine sboccò da una porta laterale
del gran salone, illuminato da palle di carta oliata, che imitavano
i globi di cristallo: ma Verdi o l'impresario non avendo osato
affrontare la realtà di un ballo, la scena rimase fredda. Poco dopo
un fiotto di mattadori spagnuoli irruppe dalla medesima porta, e
volle cantare un secondo coro alla padrona di casa, che non ne capì
nulla come il pubblico. Se gl'invitati seguitavano a venire a torme,
la festa doveva finire per essere ben numerosa. Però la crisi del
dramma appressava. Alfredo, pallido ancora dalla lunga corsa dal
casino a Parigi, entrava vestito da ballo come alla prima cena di
Violetta: gli stessi amici lo aspettavano al giuoco. Accettò, ed
aveva appena puntato il primo luigi, che Violetta giungeva a braccio
del barone, parata di un abito di raso bianco, meno bianco tuttavia
del suo volto. Uno strascico lungo come la coda di una cometa,
ornato di camelie bianche e costellato di brillanti, la seguiva
ondulando sulla scena. L'abito era un capolavoro di ricchezza e di
semplicità. Ella pareva uno spettro. I capelli neri, divisi sulla
fronte come quelli di una madonna, le cadevano sulle orecchie con
una trascuratezza, che stringeva il cuore. All'estremo pallore della
faccia e al largo cerchio turchino sotto gli occhi, si capiva subito
che quella donna doveva aver pianto troppo o dormito troppo poco; e,
venuta per forza alla festa, si era lasciata abbigliare dalla
cameriera senza accorgersene. Violetta non si sarebbe mai disposto
quelle camelie in fila sul fianco, come un rosario di fiori, nè
piantato quel fermaglio sull'ultimo bottone del corsetto scollato.
Fiori e gemme erano troppi: una collana di perle le cingeva il
collo, i monili le salivano per tutto il guanto quasi all'altezza
del gomito, una minutaglia di brillanti le balenava da ogni piega
dell'abito, persino dalle fibbie delle scarpe. La pompa insultante
della toletta guastava l'aristocratica delicatezza della sua figura,
alla quale la piccola camelia bianca sulla fronte avrebbe dato un
ben altro significato di poesia.
Come tutti gl'innamorati, che cercano uno scandalo, Alfredo aveva
subito alzato la voce provocando il barone al giuoco. Il barone
aveva acconsentito ed aveva perduto. Fortunatamente quando l'alterco
stava per scoppiare, e Violetta lo seguiva con occhio smarrito, un
servo venne ad annunziare la cena. In due ore era la seconda per i
coristi, che nullameno urlarono ad unanimità: andiamo! I due rivali
dovettero seguirli per ultimi, non senza scambiare prima qualche
frase equivoca di minaccia; e la scena rimase vuota. Ma Violetta
rientrò barcollando quasi immediatamente; aveva indovinato il
disegno di Alfredo, e voleva impedirlo affrontando magari tutte le
contumelie ed i graffi della sua gelosia. Da vero collegiale Alfredo
non capì nulla della sua costernazione. Violetta avrebbe voluto
inginocchiarglisi ai piedi, se il pericolo di essere sorpresi non
l'avesse trattenuta, e cogli occhi dilatati dallo spavento, che le
battevano come nell'abbarbaglio di un miraggio, vacillava ad ogni
sua cattiva parola. Egli era superbo, affettato. Quella preghiera
sbigottita gli saliva alla testa come l'ultimo incenso di un amore
non ancora ben spento; epperò, malgrado ogni feroce proposito, gli
trasse di bocca qualche motto di fuga. Allora Violetta ebbe un gesto
così sublime di disperazione, che tutto il teatro fremè: Niccolini
invece saltò alla porta con due grandi passi tragici, e, prima che
ella avesse il tempo di vietarlo, chiamò tutti i coristi. Era
destinato che quegl'infelici non dovessero cenare. Infatti
accorrendo di malumore gli fecero cerchio intorno come in piazza:
gli altri invitati arrivavano, Flora si mise a fianco di Violetta,
il barone pretesto imbecille di tutta la scena, si cacciò
coraggiosamente fra loro ed Alfredo, che aveva avuto il tempo di
atteggiarsi con tutta la maestria di un provetto cantante. Ma questa
volta fu tenore e buono. La sua invettiva, da principio a voce
sorda, crebbe tremendamente di parola in parola, come se nella
veemenza dell'ira gli si rischiarasse la voce. I capelli neri
arricciati con tanta civetteria sulla fronte, questa volta gli
squassavano come una criniera, mentre colla faccia vampeggiante di
rossore, e i garretti tesi come un leone che sta per spiccare lo
slancio, gualciva nella mano contratta la terribile borsa.
Sciaguratamente per lui Verdi aveva perduto tutto l'impeto della
maledizione, ripigliandone la cadenza con una modulazione da
stornello nel momento, che lo scoppio di quella collera, quasi degna
di un eroe e così vera per un geloso, doveva avere la detonazione di
una bomba. Niccolini dovette scomporsi. Il pubblico lo perdette di
vista per Violetta. Aggrappata alle sottane di Flora col viso
stravolto dall'orrore dello sfregio imminente, il seno anelante, la
bocca aperta per un urlo impossibile, che sospendeva il battito di
tutti i cuori, tremava ed oscillava come un giunco. La sua veste
bianca pareva una falda di neve, la sua faccia una faccia
fantastica. Era troppo! Quella scena di Alfredo doveva essere un
sogno peggiore di ogni realtà, una immaginazione spaventevole di un
fatto non mai accaduto! E in quel raccapriccio Violetta
rassomigliava all'olandese del vascello incantato, colla
indescrivibile fisonomia, che solo una tempesta di mille anni ha
potuto comporre. Non le restavano più che gli occhi e la bocca, il
resto era tutto bianco come una nebbia, che sarebbe svanita con un
soffio. Ma i suoi occhi ardevano, e nelle contrazioni della bocca
muta le ruggivano tutte le strida della procella. Tratto tratto una
frase infame di Alfredo l'attirava e la respingeva, mentre un
terrore tragico le saliva dall'anima sul volto come un'ombra sopra
una larva. Le sue mani sole parlavano, e una parola inarticolata,
unica e tremenda, una negazione irresistibile ed inutile le
crepitava nell'ultima convulsione dei lineamenti. Ognuno tremava, ma
la tensione delle anime era tale, che la più piccola percossa
avrebbe determinato un'esplosione. E fra il rombo di quell'anatema
ed il silenzio di quell'esecuzione, nella quale la vittima era
innocente, Violetta cresceva. Ritta sulla punta dei piedi, le mani
raggrinzite sulle spalle di Flora come per sollevarsi al disopra di
quel gesto che le cadeva sul capo, la sua bianca figura sembrava
allungarsi in un prodigio di luce bianca: e quando Alfredo, sfinito
di rabbia, le scaraventò in faccia la borsa, trattenendo lo scatto
più brutale di uno schiaffo, ella pure gli si avventò dall'alto del
suo bagliore di angelo, e respinta dalla ferita mortale si abbattè
vacillando sulle spalle di Flora.
Il teatro ruppe in un urlo di liberazione; l'incubo si era risolto
nella morte.
Ma invece di attendere ai rimproveri del padre, che arrivava in buon
punto per compiacersi dell'opera propria, o al borbottio di Alfredo
prolungato dalla musica in una imitazione di gargarismo, mentre il
barone approfittava del frastuono per minacciare impunemente, tutti
gli sguardi si accalcarono intorno al sofà di Violetta. Era svenuta
in atteggiamento scultorio. Poi sembrò ridestarsi, e girando intorno
gli occhi, sentì nella cantilena del coro il dolore della propria
ferita. Alfredo si era quasi rincantucciato come un pauroso dietro
la gente. Allora senza vederlo, con un gesto di martire, ella esalò
l'ultimo sospiro d'amore. Il sacrifizio era compiuto e la vittima
era viva. Il suo abito bianco pareva una tunica di angelo, la
camelia della sua fronte un astro. La sua voce pura, come il suo
cuore dopo l'olocausto, cantava fra quella turba ad una visione
trionfante, quando Alfredo sapendo finalmente la verità verrebbe a
morire d'amore sulla sua fossa recente. Un'ultima generosa
malinconia velava la gioia del suo perdono, mentre i suoi occhi
illuminati dalla fede si appannavano di una lacrima tardiva. Ella si
obliava nel canto. La sua invocazione, forte sul principio come il
grido di un risorto, s'indeboliva lentamente nel murmure concitato
della folla, sulla quale la sua anima bianca si librava come una
nuvola di sacrificio sull'altare. L'accordo tumultuoso di quel
pieno, che sembrava sostenerla, dava un'acutezza quasi più limpida
agli squilli, una lentezza più mesta alle cadenze della sua voce.
Tutta l'orchestra ondeggiava, la bacchetta del direttore non
percuoteva più la lingua di latta, e la Patti cantava sempre in
quell'attitudine di statua, animata da un sentimento che eccedeva la
vita, e al quale solamente il suo canto poteva infondere la verità.
Quindi il telone avviluppò nuovamente tutta la scena, e il finale
s'interruppe senza che paresse esaurito.
Il pubblico, che non se l'aspettava, ne rimase intontito. Poi le
conversazioni risorsero in mezzo ad un applauso pieno di urla rotte
e di gesti maniaci. La platea era in piedi, uomini e signore, tutta
la gente si sporgeva dai palchi, si protendeva dalle gallerie,
precipitava quasi dal loggione. Era come un'enorme scommessa a chi
troverebbe la percossa più sonora, l'evviva più clamoroso, il grido
più entusiasta. E tutto ciò in uno strepito di sommossa, che
eccitava perfino le adesioni compassate dei pochi aristocratici,
alzando il pigolìo delle signore a schiamazzo di fanciulli. Per tre
o quattro volte il telone si squarciò, e la Patti vi apparve nel
mezzo come dentro una nuvola; la sua testa non aveva più il tragico
pallore, e si chinava sotto la carezza della tempesta con una grazia
di airone. Quindi un bisogno più intenso arrestò l'ondata
dell'applauso, e ognuno si volse con una specie di precipitazione al
vicino: vi furono ancora degli scoppi parziali, degli impeti, che
dal loggione attraversavano la platea, e l'ovazione si sommerse nel
rumorio delle conversazioni. L'aria era salita a una temperatura
tropicale senza che alcuno vi badasse: i visi erano caldi come le
parole, gli occhi scintillavano come le osservazioni.
- Bartolomeo, meo, marameo - guaì il violoncellista slanciandosi
verso il contrabbasso caduto pesantemente a sedere; e ripetendo con
perfetta intonazione le ultime note della Patti nel finale
dell'atto: - finalmente se ne sono accorti; hanno applaudito al
miracolo! Te lo avevo predetto - insistè con una esplosione di
orgoglio dispettoso.
La sua testina di monello ingegnoso e depravato gettava lampi,
mentre tutti i suoi moti scattavano con un'energia, che non si
sarebbe mai sospettata in quel corpicciattolo. Tutta l'orchestra era
in piedi, una ressa di artisti stringeva il direttore disceso dal
pulpito.
- Li vedi, Bartolomeo - proruppe accennandoglieli imprudentemente
del dito - che ricevono l'imbeccata? Ah! se io fossi quella donnina,
piccola come tutti i tesori, che hanno un valore inestimabile;
ancora abbastanza bella, perchè la sua voce che è la prima bellezza
del mondo sia bene incorniciata dal suo volto, credi tu che vorrei
venire al Brunetti? Perchè canta questa donna? Diecimila franchi per
sera... e poi? A che cosa le servono diecimila franchi? per comprare
un abito, e tornando nuovamente sulla scena guadagnarne altri
diecimila. Ciò è assurdo: è la nostra vita miserabile trasportata
nelle ricchezze, il nostro mestiere nel genio. Noi possiamo vivere
così: abbiamo preferito di tirare un arco piuttosto che una sega, ci
pagano quattro franchi per sera la nostra segatura di note, che il
pubblico piglia per musica e se la goda: ciò è abbastanza degno di
noi e di lui. Io non canterei.
- Perchè? - domandò ingenuamente Bartolomeo, che aveva ascoltato
mezzo distratto quel discorso proferito con una precisione piena di
sussulti.
- Tu non lo capisci, aspetta - fe' attirando una sedia col piede, e
sedendoglisi presso con famigliarità protettrice ed ironica.
- Ti sentiresti capace d'innamorarti della Patti?
Bartolomeo provò una tale percossa a quest'esordio, che il
violoncellista gli posò una mano sopra i ginocchi per trattenerlo.
Quindi riprese:
- Ti sono piaciuti i diamanti della Patti? Te lo leggo sulla faccia,
li hai ammirati. Ella ha voluto farne pompa anche in campagna, ed
era una scempiaggine; nel ballo, ed è stata una provincialata.
Eppure il più piccolo di quei diamanti costa forse più di quello,
che nè tu nè io guadagneremo mai nella nostra carriera di suonatori.
I diamanti bisogna averli, ma nel cassetto, per godere ogni tanto
della loro purezza, che supera quella dei fiori, della loro luce,
che vince quella del sole. Li porti? Ed allora fossi pure un
imperatore, non sei più che un povero borghese, il quale ha bisogno
di fare invidia per sentirsi superiore, e fra tutte le invidie
sceglie quella dei miserabili, che è la più bassa. Perchè la Patti
se li è messi stasera? Per provare al pubblico che i diecimila
franchi di ogni sera sono una verità, e alle signore dei palchi, che
essa, una cantante, ha più gioie di loro, principesse di nascita o
milionarie di posizione. La Patti è una donna: ecco perchè canta.
Perchè vendere per diecimila franchi la sua voce e la sua anima? Se
io le fossi amico, le direi che un cavallo da corsa, a Londra, in
tre minuti vince centomila lire di premio, e due milioni di
scommessa, in faccia allo stesso pubblico, al quale essa getta così
se medesima, e che non l'ha mai applaudita come Gladiateur o
Iroquois. Bada; il Brunetti contiene tremila persone, il Covent
Garden poco più: al gran Derby, io ci sono stato, nelle corse meno
frequentate vi sono trecentomila persone. Ecco il pubblico nella
verità della sua natura grossolana, che non può andare al di là
della sensazione, e preferisce quindi la più acuta, quella di una
scommessa sopra un cavallo, all'altra di una sorpresa in una scena.
Credi tu che questa gente, la quale applaude con tanto fracasso,
possa aver compreso l'arte divina, con cui la Patti ha cantato tutto
quell'atto? Allora perchè non ha applaudito il primo, diversamente,
ma non meno perfetto? Ma il sentimentalismo di questo è più facile
del brio di quell'altro. Si distingue una donna, che pianga da una
che rida, ma cogliere la differenza fra due lagrime o due sorrisi,
ecco l'incomodo per coloro, ai quali manca l'intelligenza penetrante
della realtà, o il senso squisito dell'arte. Vedrai che a
quest'altro atto la platea scoppierà in grida, e i palchi in
singhiozzi; la Patti sarà sublime a buon mercato, poichè il patetico
profuso nella scena basta per sè solo a commovere una massa. Ed ella
colla Malibran, la prima artista del nostro secolo, al disopra della
Sontag e della Galletti; ella, che crea colla voce, come Verdi può
creare colla penna, e spesso molto meglio; già abbastanza ricca per
vivere come una regina, ed abbastanza gloriosa per rientrare
nell'isolamento di tutti i grandi spiriti, viene in quest'ignobile
cantina del Brunetti davanti a un pubblico, nove decimi del quale
non conoscono la musica, per ottenere diecimila franchi di paga, e
diecimila applausi di buona mano. Ciò è ancora più vigliacco che
assurdo.
Bartolomeo travolto da quest'eloquenza fece un gesto per resistere.
- Aspetta - gridò l'altro. - Se la sua fosse la beneficenza del
genio, che si prodiga in capolavori per decorare la vita sciagurata
dell'umanità, e si getta egli stesso in elemosina come un gran
signore, il quale non avendo più denaro si offre per un servizio: se
ella fosse Dante o Beethôwen, Michelangelo o Shakespeare,
bisognerebbe cadere colla fronte per terra, e adorare quest'artista
incomparabile, che passa attraverso l'Europa per improvvisare un'ora
di gioventù nei cuori più invecchiati, un profumo di primavera nelle
anime più inaridite. Ah! sarebbe più bello di Dante, e più grande di
Shakespeare: l'arte non ha altra missione, far dimenticare la vita
rappresentandola, illuminare la realtà trasfigurandola nel sogno. Ma
no, mio caro - proseguì incalorandosi e contraendo la faccia a una
fisonomia ringhiosa di scimmia: - diecimila applausi, che valgono
ancora molto meno, di gente, che ella non conosce e non vorrebbe
conoscere personalmente, che la farebbero forse ridere se non
piangere coi loro giudizi.
E si arrestò ansante: il teatro tumultuava sempre. Si girò intorno
uno sguardo, quindi rivoltandosi verso Bartolomeo quasi inebetito da
quel lungo discorso:
- Non è vero che ho ragione?
- Ma allora come faremmo noi a sentirla?
- Faremmo a meno. Bevi forse del tokai tu? Ho forse una madonna di
Raffaello sopra il mio letto, io che non ci credo, e la terrei tanto
volentieri? Guarda: se io avessi dei milioni, non come i nostri
milionari di Bologna: essi sono miserabili, nessuno ne ha nemmeno un
paio di dozzine, e vedi che è un'inezia. Se io fossi milionario
anderei subito domattina dalla Patti, e le direi: il vostro
impresario vi dà diecimila franchi per sera perchè cantiate, io ve
ne do quindicimila, e compro il vostro silenzio. Se me lo
permettete, verrò a tenervi compagnia; canterete, se ve ne salta il
ticchio, ma se m'accorgo che lo fate per sdebitarvi, ve ne manderò
altrettanti ogni mattina per il mio cameriere, e non metterò mai il
piede nel vostro appartamento. Ecco che cosa direi a questo genio
che si degrada, a questa donna che si prostituisce. Le direi: andate
a Roma, a Parigi, vi darò un palazzo grande come una reggia: voi già
sareste ricca da comprarlo volendolo; siate una gran signora,
gettate alla porta quel Niccolini, che non è mai stato un gran
tenore e non può essere più un grande amante; aprite i vostri saloni
a tutta l'aristocrazia del pensiero, e componetevi una corte di
sovrani come Napoleone I. Voi avete la sua potenza ed il suo genio,
giacchè vi trascinate dietro la stessa Europa incatenata al vostro
carro: aspettate che il vostro spirito avvampi nella febbre
dell'arte, e allora cantate per essi, che potranno comprendervi.
Aspettate che Victor Hugo, il vecchio sublime, venga qualche sera a
riposarsi nel vostro salotto, e ravvivatelo col canto: egli sarà
l'idea e voi sarete la parola, egli il ritmo e voi la modulazione:
aspettate che qualche grande ambizioso vinto vi domandi un'ora di
calma, e allora cantate come voi sola potete cantare. Sarete la
prima donna, e la prima dama del nostro secolo. Ma non mischiate mai
danaro nella vostra arte, siate come Dante e come Shakespeare, come
Beethôwen e Michelangelo: lasciate agl'istrioni la plebe dei teatri,
che vuole divertirsi perchè fatica, e giudicare perchè paga. Il suo
denaro eccellente per pagare delle scarpe o saldare dei pranzi non
può valutare la vostra anima, essere il prezzo della vostra voce. I
capolavori sono fatalmente gratuiti, anche quando non sono pubblici.
Forse ella è donna, e non mi comprenderebbe, e allora le getterei un
milione in faccia, proprio come nel finale di quest'atto, e le direi
colla mia voce più insolente: giacchè la sordidezza della vostra
anima è pari alla purezza della vostra voce, tenetevi il pubblico e
Niccolini, fatevi pagare tutte le sere come le coriste; ma, per
quanto gl'impresari vi paghino bene, non raggiungerete mai il prezzo
di un cavallo da corsa, e sarete sempre meno stimabile; il cavallo
corre per guadagnare la bandiera, mentre voi cantate per intascare
il premio.
In quel momento il direttore risalse sulla scranna.
- Aspetta - gridò il violoncellista vedendo Bartolomeo, che si
alzava senza rispondere: - sai che cosa è la Patti?
- Sei matto, tu!
- Infelice! - egli rispose compiangendolo con un gesto comico di
disperazione - tu non mi comprenderai, e la mia definizione della
Patti sarà la più bella di quante ne daranno i giornali.
- La Patti è...
Fortunatamente la bacchetta del direttore percosse la lastra
tagliandogli netta la parola; ma Bartolomeo, che l'aveva intesa,
alzò vivamente l'arco per darglielo sulla testa. Il violoncellista
fu presto a balzare indietro, e sempre ridendo tornò alla propria
sedia. Bartolomeo guardava già al sipario; la preoccupazione del suo
spirito si era fatta grave come una malinconia. Appoggiato al grosso
manico del contrabbasso arricciato e borchiato come un pastorale, la
mano sulle chiavi e la testa sulla mano, aspettava che il telone si
squarciasse nell'atteggiamento vanitoso di un concertista, che
attende il proprio pezzo. La sua alta statura, che lo faceva quasi
dominare tutta l'orchestra, rendeva anche più sensibile il contrasto
della posa romantica colla sua fisonomia bonaria di grande
mangiatore. Il violoncellista, che non lo perdeva d'occhio, se ne
accorse, e quando il sipario si scisse, e la Patti apparve in fondo
all'alcova, sdraiata sul lettino, vestita di bianco, alle ultime
note del celebre preludio celando rapidamente la testa dietro il
violoncello:
- Meo! - gridò.
Egli si volse, e l'altro gli rise in faccia con tale escandescenza,
che raccapricciando di essere penetrato, Bartolomeo impallidì.
A rovescio di Dumas, che descrive la miseria di Margherita in mezzo
al magnifico appartamento sequestrato dai creditori, Verdi ha
immaginato una modesta cameretta, come se uscendo da quel ballo
fatale, Violetta avesse abbandonato il barone e fosse ricaduta nella
miseria. Ma la musica non avrebbe potuto raccontare tutti i dolorosi
particolari della Signora delle Camelie, analizzare le ultime
lacerazioni della realtà nella trama già troppo logora dei suoi
ultimi giorni. In questo la musica, linguaggio eccezionale, rimane
troppo al disotto dal linguaggio ordinario, pel quale un'esistenza
può passare intera. La piccola camera aveva le pareti giallognole,
una toeletta dozzinale in un canto, una specie di alcova in fondo,
con uno straccio di cortina bianca, sotto la quale riposava una
forma ancor più bianca. Era la Patti. La scena indicava il mattino,
e pareva notte. Una miseria mal dissimulata dalla decenza faceva
sentire un'aria fredda nella camera, che il respiro troppo tenue
dell'inferma, e il sonno troppo lieve dell'infermiera non bastavano
ad animare. La camera vuota pareva troppo grande. Il caminetto di
carta non aveva nè fuoco nè legna: era in sulla fine di carnevale,
l'aria di Parigi all'alba pungeva senza dubbio. Sul tavolo da notte
una bottiglia d'acqua, e due o tre boccette luccicavano alla fiamma
del lumino riparato da un cappello verde. Violetta si destò per
chiedere un sorso d'acqua, ma nell'accostare le labbra al bicchiere
nascose la faccia contro il grembo dell'Annina. Per un'ultima
civetteria di grande artista la Patti riservava l'effetto del
proprio volto per quando scenderebbe dal letto. Adesso non si
discerneva che una cuffietta bianca, dalla quale sfuggivano
sull'origliere alcune ciocche brune: il resto era confuso sulla
coperta. Poi il medico arrivò mattiniero secondo il solito, e
Violetta volle alzarsi.
Allora un raccapriccio gelato corse per tutto il pubblico. La tisi
lenta, che la divorava da qualche anno, non le aveva lasciato più
che la pelle cenerognola e poche ossa, fortunatamente nascoste dal
vestito. Ma i suoi movimenti erano così rotti, che sembrava di
intenderle scricchiolare ad ogni istante. Il suo bel viso da uccello
di rapina, a forza di assottigliarsi, era rientrato nel profilo
tagliente del naso, mentre gli occhi le si erano sprofondati
nell'orbita, e il loro cerchio turchino era disceso giù nello scavo
delle guancie. Ma la bocca livida aveva ancora i denti bianchi come
nei giorni del suo bel sorriso. Una piccola cuffia da notte, di una
semplicità molto povera, tratteneva il disordine dei suoi magnifici
capelli neri, e le si annodava sotto il collo con due lunghe
cordelle cadenti sul seno. Ella si appressava, sorreggendosi sulla
spalla del medico e sul braccio di Annina con uno sforzo così
faticoso, che le traeva ad ogni passo dal petto uno scoppio di
tosse. Nulla restava più della Violetta, che Parigi aveva ricevuto
un mattino dalle mani della provincia, fresca come un pomo, per
gettarla nella terribile operosità delle proprie cucine, e trarla
frutto candito dall'aspetto malsano e il sapore composito. Tutta
quella decorazione, abbagliante a forza di essere ricca, che aveva
fatto di Violetta una delle tante fantasime del lusso, una figura
volgare e straordinaria appunto come una decorazione improvvisata,
nella quale non si erano risparmiati nè danari nè uomini; la
Violetta, che passava fra le duchesse del bosco di Boulogne come una
duchessa di un'altra aristocrazia, che era una curiosità per tutti
gli uomini ed una novità per tutti i luoghi; la Violetta, che una
sera, d'improvviso, era saltata a piè pari dal proprio trono
vendereccio per infilare il braccio di Alfredo, e fuggire con lui in
campagna a respirare l'aroma della terra; la Violetta dell'ultimo
ballo, spettro regale, che ricompariva nella sala del trono per
ricevere un insulto plebeo da un suddito pazzo di amore: tutto era
sparito senza traccia e senza speranza. Solo i capelli, ricciuti e
neri come una volta, gettavano ancora sotto il trapunto della
cuffietta qualche ilare riflesso.
Tutto le era stato egualmente fatale, il vizio come la virtù.
Poi, sedendosi, trovò ancora un gesto della passata eleganza, e
lasciando la mano, bella tuttavia, sulla spalla del medico, lo
ringraziò con uno straziante sorriso. E cantò.
La musica delle sue parole sembrava battuta sul ritmo affaticato del
suo cuore, mentre la sua voce, fattasi più pura nello sfacelo di
tutto il corpo, aveva l'inesprimibile limpidezza del pensiero nei
moribondi. Si sentiva morire. Invano il medico colla pietà dozzinale
del mestiere le diceva di confidare nella convalescenza vicina,
mischiando le proprie frasi fredde tra le parole intenerite di
Violetta. Poi l'ultima speranza, la sublime illusione di ogni
martire, che aspetta di veder squarciarsi il cielo, ammalata
anch'essa di tisi, le si svegliò in cuore. Da molti giorni Violetta
aspettava una lettera di Alfredo. In quella rassegnazione d'agonia
ella non domandava più che di vederla per inebriarsi l'estrema volta
d'orgoglio, e concedergli il perdono del martirio. Sempre donna,
voleva Alfredo ai piedi per sentirlo rabbrividire al suo aspetto di
agonizzante, egli che le aveva affrettato la morte, e, mentre
singhiozzerebbe, adagiargli il capo sulla spalla e spirargli l'anima
nel petto. Era l'ultima decorazione della sua vita, il gran finale
del suo ultimo atto. Quindi uscita l'Annina, si trasse di seno la
lettera del padre, conciso rescritto di grazia, e la rilesse forse
per la centesima volta. Dopo essersi battuto col barone ed averlo
ferito, Alfredo era scappato all'estero per stordirsi; ma il padre
impaurito del suo cordoglio ostinato, gli aveva scritto rivelandogli
finalmente il secreto: Alfredo era già forse in viaggio, ed
affrettava col cuore febbricitante d'impazienza l'impeto del treno,
che lo portava. Ella lo vedeva laggiù, in fondo alla Francia,
cacciare la testa dagli sportelli, guardando verso Parigi, e
ritirarla con atto di scoraggiamento. Allora una eguale paura la
sopraffaceva, e, piegando il volto sul seno, ripeteva a bassa voce
colla parola di tutti gl'infelici, che la vita uccide e la morte non
disillude: è tardi! Ma l'orgasmo di quell'attesa le si fece
improvvisamente così vivo, che dovette levarsi. Un raccapriccio
gelato le passò sulla faccia, travedendosi nello specchio: vi si
appressò. Una boccetta azzurra, dal collo lungo, vi esalava ancora
il profumo favorito dei suoi fazzoletti, sui quali aveva forse tante
volte lasciata la bava sanguigna dei primi scoppi di tosse. Ella
sorrise, poi chinandosi sulla lastra sino quasi a toccarla colla
fronte, parve voler esaminare attentamente la povera sembianza, che
la guardava dal cristallo con due grandi occhi di spettro. Una mano
le corse involontariamente al riccio, che le usciva dalla cuffia,
immutata bellezza della sua gioventù, sul quale avevano scintillato
tanti brillanti, e nel quale forse si erano tuffati tanti baci di
tante persone. Quindi ridivenne seria obliandosi per qualche minuto
nella propria apparizione. A che pensava? Quali ricordi le tornavano
alla memoria dai giorni lontani della vita, dal mattino campestre o
dal meriggio parigino, e, migrando lontano come uccelli passeggeri,
quale strido le gettavano dall'ultima curva dell'orizzonte? Forse il
loro volo era così denso, che la loro ombra le imbruniva il volto:
lo abbassò, e sempre barcollando tornò ad aggrapparsi alla poltrona.
Vi sedette.
Allora l'ultima speranza, che le agonizzava in cuore, si rizzò per
dare uno sguardo d'addio al mondo. Era un canto sommesso come una
preghiera mormorata ai piedi di un altare, sotto la volta scura di
una chiesa, che le colava insensibilmente dalle labbra, mentre
l'occhio le strisciava sullo smorto paesaggio della vita. Le ultime
foglie gialle erano già cadute sul terreno, tutte le mandre avevano
riparato alle stalle, il vento passava in silenzio per la campagna
brulla, il sole si spegneva a poco a poco come una lampada funerea.
Ma ella non rabbrividiva. La sua canzone solitaria si perdeva
nell'aria come l'ultimo fumo di una ruina. La testa abbandonata sul
cuscino, che le rammorbidiva la spalliera della poltrona, le mani
incrociate sul grembo nell'attitudine dei morti, l'occhio immobile
come vetro, cantava lentamente. Quella cuffia da nonna dava un'altra
malinconia alla sua nenia, una inconsapevolezza di vecchiaia, nella
quale il linguaggio non è più che un'eco. Finì, poi riprese, cullata
dalla sua monotonia, trasportata dal suo murmure verso il silenzio
del sepolcro. Che cosa diceva quel canto? Nessuno lo distingueva
bene, ma tutti capivano ed impallidivano al barcollamento di quella
testa vicina ad addormentarsi nell'ultimo sonno, e che affondata nel
cuscino sembrava dentro una culla. Tutto il genio infermo di Verdi
mormorava in questa ultima romanza del dramma più accarezzato dal
suo cuore di artista. Poi un singhiozzo, che era un insulto di
tosse, la interruppe. Il pubblico rattenuto sino allora dal rispetto
della morte, si scatenò in un applauso furente mentre il baccanale
del bue grasso passava sotto le finestre dell'inferma con strepito
avvinazzato. Quindi Violetta, ridivenendo nuovamente la Patti,
dovette ripetere la romanza.
Naturalmente la ripetizione fu ancora più acclamata, ma la Patti si
scompose talmente alla fine, che se la cameriera avesse tardato a
rientrare colla grande notizia di Alfredo, forse non avrebbe saputo
ricoricarsi moribondamente sulla poltrona. Allora la Violetta
d'altra volta riapparve entro un baleno acciecante di vita. Aveva
già compreso; ansava, cogli occhi in fiamme, le mani brancicanti,
sentendolo salire per le scale, mentre Annina non si era ancora
spiegata. Vedeva, udiva, poi l'anelito la soffocava, e le forze
stavano per abbandonarla, quando Alfredo comparì sulla porta, ed
ella gli si precipitò nelle braccia con un urlo straziante di
demenza. Perchè mai Alfredo era sempre Niccolini, cogli stessi
stivaloni e il medesimo cappello piumato? Perchè Verdi, obliando
tutto il proprio ingegno, ha scritto il dialogo dei due amanti con
quella volgare stampiglia di frasi, sciupando una scena, che sarebbe
stata sublime in mano a qualunque altro: e stretto della necessità
di una bella romanza è andata a cercarla nell'ultimo atto del
Trovatore? Perchè Verdi è così spesso un altro, che scrive della
musica da capobanda, senza testa e senza cuore? Perchè quando si sa
mettere nella bocca di Violetta quell'ultima frase, mandando
l'Annina per il medico, nella quale si sente dissolversi tutto il
suo cuore, e che la Patti cantava come non è possibile immaginarlo
senza averla sentita; perchè dunque mungerla in una cadenza, che
dovrebbe far trasecolare la stessa Annina, e cader le braccia ad
Alfredo per quanto sinceramente innamorato? Perchè nel duetto
seguente la disperazione ribelle di Margherita, e la speranza
rassegnata di Alfredo si esprimono col medesimo canto, mentre
sentimento e parole sono così terribilmente opposti? Perchè questo
fatale convenzionalismo, che deforma la bellezza e mutila l'arte:
perchè, essendo grandi, non si osa essere liberi, e Verdi viene
anch'egli colla turba dei minori e degli uguali a curvare la fronte
incoronata sotto certe forche caudine? Perchè mai, quando Wagner le
ha rovesciate con un cozzo superbo, i critici le rialzano, e artisti
come Verdi vi ripassano?
La Patti era in piedi: un riflesso d'incendio le bruciava il viso
illividito, la cuffia gettata indietro con gesto quasi feroce le
svelava l'altezza della fronte, solcata da una ruga profonda e
battuta da un vento di tempesta. Un momento parve dimenticarsi di
Alfredo per ridiscendere come un giudice nella propria vita, e
risalirne come un condannato, che montando il patibolo si ferma in
faccia al cielo per disonorarlo con una suprema bestemmia
d'innocente. L'accompagnamento su tutte le corde basse imitava
l'anelito faticoso d'un'ultima collera. Poi fece un passo, e
sollevandosi sulle punte dei piedi, le braccia levate, le mani
raggrinzite nello sforzo impotente di un graffio, squassando la
testa nel delirio di una imprecazione, avventò la prima nota. Era
orribile, era vero. Tutta l'orchestra batteva, tutte le dita
pizzicavano le corde con inconscia veemenza; Niccolini stava
intontito, il pubblico era perduto di terrore. Ma le forze
l'abbandonarono, e l'imprecazione le morì in lamento soffocato. Il
destino aveva vinto. Perchè dunque le gettava Alfredo fra le
braccia, pronto a condurla sposa in Provenza, adesso che ella non
aveva più la forza di un bacio? Ah! era vile, era degno di Dio!
Invano con faccia di marito bonario, Alfredo ripigliava uno ad uno i
suoi accenti, e la pregava di calmarsi per non fare troppo soffrire
lui medesimo; chè ella non lo sentiva nemmeno, e seguitava a gemere
nel singhiozzo convulso dell'orchestra.
Allora la corda di un contrabbasso vibrò con tale violenza, che la
Patti stessa, curva sui lumi della ribalta, fra le braccia di
Alfredo, si volse involontariamente. Era Bartolomeo con due grandi
lagrimoni per la faccia, che pizzicava rabbiosamente la propria
corda: ma l'arco gli cadde di mano a quell'occhiata, rumoreggiando:
ella si rivoltò, alcuni suonatori si torsero. Bartolomeo era
scoperto, piangeva; però nessuno sorrise, tutti erano commossi. Il
maligno violoncellista, estatico, non si avvide fortunatamente di
nulla; poi, quando la Patti si abbattè nuovamente sulla poltrona,
l'orrore fu tale, che egli stesso balzò in piedi. Il pubblico non
potè nemmeno applaudire. Quindi l'ultima scena precipitò. Annina, il
padre di Alfredo e il dottore rientrarono insieme. Naturalmente la
musica sofferse del loro ingresso, e ricomparvero le frasi di
riempitivo, questa volta quasi naturali, per la qualità dei
personaggi e la loro posizione drammatica. La stessa volgarità delle
parole li rendeva veri. Violetta moriva: l'anelito delle spalle e il
cerchio turchino sotto gli occhi le diventavano più visibili, il
naso le si profilava sotto la mano della morte. La vittima era
adagiata sull'altare attendendo la fiamma del cielo. Una emozione
religiosa s'impadronì di tutti i cuori, assiderandoli nella paura
dell'invisibile. La fisonomia della morente si illuminò. Il
martirio, nobilmente accettato e intrepidamente sofferto, le dava
l'ineffabile sembianza dei santi. Cortigiana immolatasi per la
felicità d'una vergine sconosciuta, moriva sulla soglia del
santuario, come gli antichi romei in vista del Golgota, sul quale
era spirato il loro Dio: e allora, pregando per un più santo Romeo,
cui il cielo concederebbe di baciare la terra bagnata del sangue
divino, gli affidava nell'ultima preghiera l'adempimento del proprio
voto mortale. La peccatrice perdonata, non era degna di morire nel
tempio di Dio. Un'altra vergine sconosciuta, forse romita di qualche
povera casetta, doveva ricevere dalle mani di un sacerdote il cuore
di Alfredo. Ella solamente doveva essere madre, e piangendo sul capo
dei figli insegnar loro la virtù del dolore. Violetta no; il suo
labbro non avrebbe potuto baciare, senza profanarle, quelle teste
innocenti, il suo nome sarebbe sempre stato per loro una condanna
d'infamia. Ma in quel momento, purificata dalla morte, coi piedi
sulla terra e la fronte nel cielo, non pregava più, ammoniva. China
sul suo diletto, porgendogli come reliquia il proprio medaglione,
gli ordinava di amare un'altra donna e di procedere come un forte
sul cammino della vita. La sua voce non era più umana, la sua musica
era più che divina. Era un alito più leggiero di quello d'un
morente, e profumato come d'un fiore; una voce, che salendo in alto
si attardava in un'eco, aveva la dolcezza diffusa di un murmure e la
soavità penetrante di un bacio. Non era più nè voce, nè musica, ma
l'anima che si dilatava in una oscillazione di luce; la fiamma, che
discesa sull'altare del sacrificio aveva consumato la vittima, e
risaliva lentamente verso il cielo. Allora un grido supremo di
Alfredo percosse il teatro, grido di spavento e di negazione umana
dinanzi a quella visione di paradiso; poi il coro degli altri
mormorò bassamente, e tutto tacque. Violetta era morta; ma il suo
cadavere respirava ancora. Si alzò, battè gli occhi, brancicò la
luce, mandò qualche suono che parve di parole, indi un grido, e si
spezzò. Violetta era morta prima.
Allora tutti cacciarono il solito urlo, e il telone si abbassò per
sempre sulla Traviata.
Lo spettacolo essendo finito, incominciava il trionfo. L'aria era di
fornace, densa ed insoffribile: un'afa torbida s'aggravava su tutti
i respiri e tutti gli occhi. Palchi e platea si alzarono: nel
loggione il soffio dell'uragano piegò tutte le teste della plebe sul
parapetto, e squassò sonoramente tutte le braccia. Fu uno scoppio
irresistibile, che salì come un unisono procelloso, mentre la
percossa delle mani imitava lo scroscio della grandine, e l'accento
dell'applauso femminile vi aggiungeva come un sibilo di rami secchi.
Uomini e signore, aristocratici e borghesi, tutti applaudivano col
medesimo orgasmo, con una impossibile vanità di far spiccare il
proprio applauso. Nelle barcacce gli eleganti erano montati sui sofà
e sugli sgabelli, i fiori piovevano; i cartellini a mille colori,
coi due versi della lapide collocata a perpetua memoria nell'atrio,
svolazzavano con un volo di farfalle intorno alle lumiere: la gente
li ghermiva e si sentiva ripetere lo splendido distico
dell'impresario poeta:
/* Adele Patti dell'Italia vanto, Qui Felsina beò col divo canto. */
Un vecchio dandy con un piede sul parapetto della barcaccia immaginò
di agitare il fazzoletto bianco, e tutti lo imitarono con un urrà,
di cui gran parte andava a lui stesso: altri gestivano coi cappelli,
gli aggettivi più entusiastici e più audaci esplodevano. La folla
fraternizzava, tutti vociavano col vicino incoraggiandosi a battere
più violentemente, nessuno accennava ad uscire, i volti
s'infiammavano come le teste ad ogni squarciarsi e racchiudersi del
telone. La Patti correva sola alla ribalta con passo saltellato di
fanciulla, sorridendo, ringraziando con un sorriso di vanità
intenerita, ponendosi le mani sul cuore, portandosi una volta le
dita sulle labbra. Intorno a lei i mazzetti fioccavano percotendola
sulle vesti: ella li raccoglieva, ne inseguiva qualcuno, lo
raccattava, lo perdeva sempre sorridendo, con una famigliarità di
scherzo, con un sollazzo di ricreazione. E il pubblico andava in
visibilio di questo sfarfallare della grande artista, di questo
giuoco, nel quale egli era il leone ed ella la cagnuola. Poi
l'entusiasmo vero lo riprendeva, e allora in mezzo a quella
compiacenza metà paterna e metà infantile, ritornava popolo, e le si
serrava intorno per alzarla sulle proprie voci se non sulle proprie
braccia. Il palcoscenico stesso era invaso: molti, i più fortunati,
avevano rotto la consegna, e si erano affollati nelle quinte per
stringerle la mano fra una chiamata e l'altra: non si pensava più
alla presentazione, al decoro dell'etichetta, alla distanza del
genio. Quindi nella dimestichezza della ressa erano spuntati
addirittura sul palco, in soprabito e cilindro, in giacca,
disinvolti come tanti inservienti, dividendo l'ovazione colla diva,
applaudendola dietro la testa, urlandole sul volto i loro
complimenti forsennati. Ed ella rideva, facendosi sempre più
piccola, discendendo al livello di tutti, curvandosi per cogliere
l'applauso di tutti. Un momento, sulla soglia d'una quinta, mentre
affranta dall'incessante ringraziare riparava nell'interno, si vide
un signore, un vecchio notissimo, trattenerla porgendole da bere in
un calice d'argento: era una reliquia, il bicchiere consacrato dalle
labbra della Malibran. Ella lo prese con nobile gesto d'orgoglio, e
bevve. Il pubblico non comprese, ed applaudì anche più
strepitosamente. Intanto nessuno si moveva. Il telone si abbassava e
si alzava come al vento, ed ella con quell'abito semplice, il volto
ripulito dalla fisonomia biaccosa di tisica, arrivava insino alle
barcacce, ai lumi della ribalta, si piegava sull'orchestra più
rumoreggiante di tutto il resto del teatro, si gettava nella platea
e nei palchi a gesti commossi e graziosi. Ma il loggione, troppo
alto e troppo lontano per essere veduto, ingelosiva e lanciava urla,
che parevano minaccie: ella alzò una volta il capo, e lo chinò con
tale espressione di meraviglia sbigottita, che fu per lui il miglior
complimento possibile. Il loggione indovinò e ruggì. Allora dalle
sue tenebre, fra gli urli degli evviva e dei bis, una voce più forte
di tutto lo schiamazzo ridomandò l'ultima romanza: tutti si volsero
ed acconsentirono, le domande s'intrecciavano, si rivolevano tutti i
pezzi più belli, ostinandosi in quell'impossibilità di averli con
una compiacenza demente ed adulatrice. Giammai tempesta di teatro fu
più ruinosa, nè folla più fitta e scompigliata. La maggior parte era
in piedi sugli scanni, battendo i piedi, percotendo i bastoni,
sbatacchiando i coperchi dei sedili per disperazione di non poter
fare di più. Ma se il pubblico non si stancava, la Patti era
esausta. Il suo passo diventava lento, il suo gesto spossato: la
fatica dell'opera e l'emozione di quel turbine, per quanto vi fosse
avvezza, la sopraffacevano. Il pubblico lo sentì, e si acquetò quasi
d'improvviso. Ella riapparve ancora una volta, un urrà fece tremare
la volta del teatro, e un paio di guanti, lanciato da un palchetto,
venne a caderle ai piedi. Era l'ultima follia della sera. Ella lo
raccolse con un sorriso, lo strepito ondeggiò, il sipario calò per
l'ultima volta. Allora le piccole vanità vollero tentare di mettersi
in mostra applaudendo ancora, mentre la folla si voltava per uscire:
vi furono sforzi feroci, grida isolate e rauche, parve quasi che
l'applauso si ragglomerasse, salì, oscillò, e si disciolse
inutilmente. Tutti erano stanchi. Quindi la moltitudine cominciò ad
occuparsi di se stessa, e un'altra curiosità la distrasse. Così
denso ed illuminato, in quell'ondeggiamento di colori e di persone,
il teatro era un altro spettacolo.
Mezz'ora dopo in una piccola bottiglieria presso il Brunetti,
affollata di gente, un gruppo di suonatori d'orchestra discuteva la
Patti. Erano tutti giovani, che avevano preso nel mezzo Bartolomeo
come un giocattolo, ma che nel calore della disputa se lo andavano
dimenticando. Il buon uomo ascoltava intontito quella diatriba
appassionata, nella quale sfolgoreggiavano le nuove teoriche
dell'arte. I nomi celebri abbondavano fra una agglomerazione
violenta di giudizi e di osservazioni bislacche, di argomenti acuti
e di appunti sensati. Naturalmente Bodoni, il violoncellista, col
suo entusiasmo a fondo pessimista, dominava la discussione,
animandola. In quel momento lottava col primo violino di spalla, un
giovane alto e magro dalla fisonomia malaticcia e l'accento freddo.
Era il miglior allievo dell'illustre Verardi, una speranza
dell'arte, di già celebre per tutta la città. Bartolomeo,
contrabbasso dozzinale d'orchestra, guardava con rispetto misto di
ammirazione quel ragazzo di vent'anni, che dava dei concerti, e
ch'egli credeva destinato ad un immenso avvenire.
- Ah, lo stile! - interrompeva il violoncellista - hai ragione. La
Patti lo ha castigato, la sua misura è ineffabile, il suo accento
sicuro. D'accordo; bisogna saper disegnare per essere pittore, ma il
colore è più che il disegno, e il colore stesso non è che un
elemento dell'arte. La vita sola, mio caro, chiamala anima, realismo
o idealismo, tutte parole inutili, che spiegano male il secreto; la
vita sola è tutta l'arte.
Ma si fermò come sorpreso da una interna contraddizione. Rimase un
istante concentrato, indi proruppe quasi stizzosamente:
- Credi tu che la Patti sia un genio? No, perchè allora sarebbe
troppo grande. Essere stasera Violetta per diventare domani sera
Rosina nel Barbiere, poi Ofelia nell'Amleto, poi Dinorah, poi
Margherita nel Faust, poi Amina nella Sonnambula: mio caro, ma
allora è un fondere Verdi con Rossini, Rossini con Thomas, Thomas
con Meyerbeer, Meyerbeer con Gounod, Gounod con Bellini: e nota che
dietro Verdi c'è Dumas, dietro Rossini Beaumarchais, dietro Thomas
Shakespeare, dietro Gounod Goethe, dietro Bellini c'è Romani, e
quindi non c'è nessuno. Sarebbe troppo, ed è impossibile. La sua
piccola testa dovrebbe contenere tutta la sostanza di quei cervelli
creatori, se la magìa del canto le venisse da coscienza di ingegno
drammatico. Ella non ne sa niente.
- Che! - esclamarono tutti in coro.
- Silenzio! Non m'interrompete - gridò con gesto vivacissimo,
levandosi in piedi e cacciandosi più innanzi coi gomiti fra i
bicchieri - . Credi tu che Salvini sia arrivato al fondo
dell'Amleto, egli che lo fa come nessuno al mondo lo ha mai fatto? O
Modena, il suo sublime maestro, che declamando Dante spingeva
l'impudenza del proprio genio fino a fingersi Dante medesimo
nell'atto d'improvvisare quei versi, come se Dante li improvvisasse,
e si arrestava correggendoli: credi tu che Modena abbia sorpreso il
processo del genio dantesco? Parla con Salvini di Shakespeare, e
sentirai che genere di analisi: leggi ciò che Modena ha scritto su
Dante, se vuoi comprendermi, e comprenderai che nessuno dei due
artisti ha capito i due poeti. Eppure li rendono, e forse nè Dante,
nè Shakespeare, assistendo alle loro recite, li avrebbero rinnegati.
Perchè? Mistero. Cantanti, comici, suonatori, non comprendono mai
quello che fanno; qualche volta lo sentono e nullameno lo rendono
male; più spesso non lo sentono, e lo rendono benissimo. Quando la
Patti fugge singhiozzando fra le quinte, la prima cosa, che le
presentano, è un bicchiere di acqua o di vino per risciacquarsi la
bocca; ecco per la sincerità della sua emozione drammatica. È la
voce, il gesto, la fisonomia, è un arcano inesplicabile, che crea
questi artisti, i quali muoiono senza provare quasi mai nessuna
delle emozioni o delle idee, che destano negli uomini d'ingegno. La
Patti possiede questo segreto: la sua voce ha le flessioni di tutti
i sentimenti, le gradazioni di tutte le espressioni, lì, pronte al
minimo cenno, sopra qualunque parola. Rossini si vantava di poter
mettere in musica anche la lista del bucato, e ci sarebbe riuscito;
la Patti, se vuole, ti farà piangere con uno stornello da osteria e
col più sciocco. Rossini è un genio intellettuale, la Patti è un
genio fisico. Qui sta la differenza.
- Come si accordano allora?
- Ecco ancora il mistero! Come stanno assieme anima e corpo? eppure
ci stanno. Tu sei un grande suonatore: lasciamelo dire - ripetè ad
un gesto del violinista: - tu suoni Beethôwen. Ebbene, giacchè
dovresti secondo il tuo sistema averlo compreso, ti sentiresti di
tradurre nel linguaggio comune le idee, che egli ha espresso col
linguaggio musicale? Boito, e vedi che ha dell'ingegno, si è provato
di scrivere la poesia di alcune fra le romanze senza parole di
Mendelsonn, e ha dovuto smettere, poichè si accorgeva di diventare
ridicolo. E tu vuoi che la Patti, afferrando il significato morale
delle due Margherite, quella di Dumas e quella di Goethe, senta
egualmente la diversità di questi due amori, ella che nell'amore è
arrivata fino a Niccolini, e si è fermata? Eccolo lì il tuo genio
femminile colla sua gamma di mondi e la sua scala semitonata di
personaggi, che vanno dalla servetta alla dama, dalla civettuola
alla martire, passando attraverso l'imperatrice e l'eroina: il tuo
genio, che, identico a se stesso in ogni secolo e in ogni clima,
rivivrebbe in tutti i temperamenti: eccolo lì, in adorazione,
davanti alla testa grossa di Niccolini, il quale, credo, si tinga i
capelli, e dovrebbe tingersi la voce per farla parere più giovane;
eccolo lì, che viaggia l'Europa per fare quattrini, e si mette i
diamanti regalati come i galloni della propria livrea di cantante.
Questo genio - seguitava con una specie di rabbia - il quale in
fondo non è che l'eco delle idee altrui, e non ha più coscienza di
un'eco; questo miracolo, che appassiona tutto un mondo e me per il
primo; quest'artista, che adoro e che disprezzo, che ha aspettato,
dicono, quarant'anni per innamorarsi di Niccolini, un Alfredo, che
ne ha cinquanta, e ch'ella ha nullameno anteposto al marchese
proprio marito. Eccolo lì; questo genio femminile, al quale Rossini,
il genio intellettuale, disse un giorno colla sua solita profondità:
quando si è la Patti, si sposa un principe del sangue o un tenore:
cioè, o si ha una grand'anima, e si diventa una gran dama, che non
canta più che per amore; o si ha una piccola anima, e si resta una
grande artista, che canta per i quattrini e s'innamora sul
palcoscenico come le coriste. Naturalmente il tuo genio non capì: ed
ecco la tua Patti, marchese di Caux, al Brunetti con Niccolini.
Assurdo, demenza, vigliaccheria!
Questa violenta diatriba pronunciata con voce stridula e
accompagnata da una bufera di gesti sbaragliò per un momento tutto
il coro degli elogi. Bodoni era rimasto in piedi, assaporando sulle
faccie ammirate e confuse degli amici il trionfo dei propri
paradossi. I suoi occhietti grigi di pollo scintillavano, mentre le
dita per un vizio di suonatore gli picchiavano inconsciamente sul
marmo del tavolino una suonata inintelligibile. Ma il violinista
replicò. Egli era freddo e non gestiva. La sua fisonomia, smorta di
ammalato, sarebbe stata quasi inanime senza la vivacità degli occhi,
nei quali a quando a quando passava un baleno. Bodoni stava per
ribattere, quando un altro lo prevenne.
- Tu già sei sempre dell'avviso contrario - gli disse un clarinetto
con accento piccato. Ma Bodoni non gli si volse nemmeno, e seguitò a
guardare il violinista.
Questa attenzione lo lusingò.
- Tu parli benissimo, ma sei andato fuori di questione. Appunto
perchè la voce della Patti non è perfetta come quella della
Frezzolini, e Bartolomeo aveva ragione...
- Niente, niente, non lo dirò mai più - interruppe Bartolomeo con
impeto così comico di convinzione, che tutti sorrisero; e l'altro
seguitò:
- Appunto per questo avevo voluto insistere sulla purezza del suo
stile e sulla perfezione del suo metodo. Se non hai ragione in
tutto, ne hai moltissima qui: il segreto dei cantanti sta nella
impostatura della voce, nel conoscerne bene il registro, e nel saper
formare la nota. Il resto è natura; il timbro, l'accento, la pasta,
l'estensione non si acquistano. Per esempio, io preferisco i bassi
della Stolz a quelli della Patti: la Galletti ha molte note
migliori, ma è un altro temperamento di artista; forse egualmente
forte, ma più limitato. Non so se la Patti nell'ultimo atto della
Favorita la vincerebbe. La Patti invece è insuperabile, e mi pare
che oltrepassi persino le esigenze dell'immaginazione nell'agilità:
le sue note si sgranano come perle e balzano come tanti martelli di
pianoforte. Quanti anni di studio le costeranno!...
- Peggio per lei - irruì Bodoni. - Guerra all'agilità, abbasso le
variazioni. Se Thalberg non fosse morto, io voterei serenamente la
sua decapitazione; egli rappresenta la putrefazione nella musica. Le
sue variazioni sopra un motivo mi hanno sempre avuto l'aria di vermi
sopra una carogna.
- Bene! - fu urlato in coro.
- Non è questo che intendevo - proseguì senza scomporsi il
violinista. - Prima di tutto vi è variazione e variazione.
- Cioè gargarismo e gorgheggio, d'accordo - intercettò ancora
Bodoni.
- Sia come vuoi; ma quelle del finale del primo atto...
- Ah, non me lo dire! Sì, ecco le variazioni: ciò è giusto, è
sublime. Io firmo, io, e non vario per questo. Ma che accento in
quegli scatti, che legature di orefice fra quegli sbalzi di tono e
in quel rimescolamento di note! Ma questo è vero, questo è ancora
canto, e non vocalizzo! Ti ricordi la Donadio nella Sonnambula? E
c'è chi la paragona alla Patti! Morte alla Donadio, a questa bella
donna, che pare una fattora e deve avere, sono io che te lo
assicuro, un'anima più grossa del corpo della Patti. Il suo rondò
finale nella Sonnambula, che faceva delirare al Corso, è un affare
di cariglione, o, se ti piace meglio, non è più un pezzo della
Sonnambula, ma uno squarcio d'esercizio.
- È troppo! - esclamò il violinista rattenendolo con un gesto di
pacificazione.
- Sì, ciò che dissi anch'io quella sera; è troppo! - replicò
l'implacabile Bodoni con accento di scherno - ma il pubblico allora
applaudiva in delirio, e stasera è quasi rimasto freddo ai gorgheggi
della Patti. Giustissimo: Berlioz, Beethôwen, Donizetti, che muoiono
quasi nella miseria, mentre Marchetti, che ha musicato il Ruy-Blas
di Hugo peggio che Garibaldi non abbia scritto il proprio sbarco dei
Mille, morirà nelle ricchezze guadagnate.
Lascia stare Garibaldi - disse severamente il clarinetto entrato
nella disputa: - tu non sei neanche degno di nominarlo.
- Come tu di averlo avuto generale a Mentana quando sei scappato.
Niente: io sono aristocratico. Se i repubblicani arrivassero al
potere, forse la loro prima legge sarebbe di abolire la dote dei
teatri per distribuire ai poveri i diecimila franchi della Patti. Io
che invece sono aristocratico, preferisco la musica ai poveri.
Probabilmente per l'onore dell'umanità, la tua repubblica del dovere
non sarà mai che una prosa fredda come quella di un processo
verbale, la forma più bassa della letteratura, mentre la musica è la
cima più alta dell'arte. Se ti dicessero stasera: sta in te, puoi
fare la repubblica o avere la Patti? Ebbene, tu sceglieresti la
repubblica, infelice clarinetto, e anderesti in piazza con un'altra
guardia nazionale a stonare l'inno di Garibaldi, che è brutto.
Ricordati, patriota repubblicano, che l'inno austriaco di Haydn è
sublime. Se tu fai la repubblica, io ti abbandono Niccolini, che è
degno di cantare i vostri inni democratici, e mi tengo la Patti.
Bartolomeo, tu sei un uomo onesto: giurami che sei del mio gusto, e
che accetterai la Patti piuttostochè la repubblica.
Una risata clamorosa accolse questa diversione su Bartolomeo, che
sbattè gli occhi in segno di assenso.
- Pensaci, mio caro Bartolomeo, se vuoi diventare il suo amante,
perchè sei vecchio e il tempo stringe. La Patti non è bella come
femmina, ma è talmente elegante come donna, che Cremona, il pittore
milanese, le ha proposto di farle un ritratto, sedotto dalla
intonazione della sua toeletta. T'immagini tu di essere il suo
amante, nel suo magnifico appartamento di Parigi, perchè sono sicuro
che ne ha uno magnifico, dopo averla veduta in teatro fra il delirio
del pubblico, sopra una bufera di desiderii: sapendo che fra un'ora
ella ti aspetterebbe in un gabinetto di raso, e che quattromila
persone si farebbero tagliare a pezzi per entrarci in vece tua. Ciò
è superbo. Ecco la vita, mio povero clarinetto repubblicano: posare
i piedi dove gli altri arrivano appena colla fronte, possedere ciò
che tutti desiderano, e magari gettarlo. La tua repubblica è una
livellazione, una pianura: io pittore preferisco il paesaggio
accidentato della montagna, io uomo adoro le cime e vi pianto sempre
i miei castelli fantastici. Se fossi come te, mio grande Bartolomeo,
l'amante della Patti, vorrei un gabinetto di raso cilestro, mi
coricherei sopra un divano colla pancia in aria, e vorrei che ella
mi si accovacciasse daccanto sul tappeto come una cagnina. Allora
chissà a che cosa si pensa. Ma in mezzo alle tue distrazioni non
avere che a dirle: Adelina, accendimi il sigaro, e cantami il finale
del Trovatore, la frase più bella di Verdi, la frase più sublime di
Eleonora: ed ella, che la canterebbe per me solo, come in teatro e
meglio. Tu sai la mia stranezza: io adoro la voce senza
accompagnamento di sorta, perchè mi pare che il linguaggio vero sia
così. L'Adelina mi canterebbe sul capo come a Manrico, e all'ultima
nota, colla sua leggerezza di prima donna, che ha migliorato sul
palcoscenico la naturale facilità di cadere, mi si rovescerebbe
addosso, gettandomi un bacio dentro la bocca. Così.
E accompagnando il fatto alle parole, si avventò alla faccia di
Bartolomeo, che lo aveva ascoltato a bocca aperta, e vi soffiò
dentro come sopra una candela.
Bartolomeo, che si era abbandonato alla poesia buffona e voluttuosa
di quel sogno, ebbe un tale sussulto e strizzò gli occhi così
comicamente che la discussione degenerò in baia, ed egli ne fu la
vittima. Allora gli rinfacciarono la commozione all'ultimo atto in
quel violento pizzicato, quando piangeva a lacrimoni, guardando
morire la Patti. Egli non negava.
- Che! sissignore, ho pianto, ed ella mi ha visto.
- Lo hai dunque fatto apposta - esclamò Bodoni.
- Io! no; mi vergognavo anzi: ma non ho potuto mandarla giù; mi si è
serrato il gozzo a quella vocina, con quella cuffia, che la faceva
quasi parere più bella.
- La voce?
- No.
- E tu ti sei innamorato!
- No.
- Sì, sì - gridavano in coro.
- Domattina - disse il violinista - io debbo esserle presentato da
Verardi, che ella desidera gentilmente di conoscere: glielo dirò.
A queste parole, pronunciate coll'accento più freddo, Bartolomeo
ebbe davvero spavento. Il carattere serio del violinista fra tutti
quei cervelli scapestrati gl'ispirava una tale stima, che non dubitò
nemmeno dello scherzo. Ma Bodoni non gli diede il tempo di
rimettersi.
- Io ti osservavo, sai. Tu le hai fatto la corte tutta la sera:
negli intervalli, quando ti parlavo, eri distratto, pensavi a lei.
Senti, mio povero Bartolomeo. Tu lo sai se ho amato nessun
contrabbasso come te: questa passione ti ucciderà. Nel - Gran Dio,
morir sì giovane - la Patti si è voltata per vedere quale era il
contrabbasso, che accompagnava con gemiti così sdegnosi e profondi
le sue ultime grida di disperazione. In quell'occhiata le vostre
anime si sono intese, ma una barriera insormontabile dividerà sempre
i vostri corpi. Ella è un soprano e tu un basso. La natura e l'arte
ti hanno votato all'accompagnamento, per te non vi sono duetti. Tu
non dormirai questa notte: domani sera soffrirai come un dannato
vedendo il tuo tragico ideale trasformato in una Rosina briosa sino
alla sfrontatezza; perchè capirai, che se la Patti dovesse
trattarti, avrebbe per te le maniere canzonatorie di Rosina e non la
dolcezza mesta di Violetta. Poi la Patti partirà, e tu cosa farai a
Bologna? Penserai a lei.
- Senza dubbio - esclamò Bartolomeo.
- Questo pensiero ti ammazzerà, perchè l'impotenza è più micidiale
dello stravizio, e il desiderio logora più dell'uso.
- Ma io non sono innamorato.
- Generosa menzogna! Tu vuoi salvare la tua donna dal ridicolo: ma
giacchè sei generoso, sarai naturalmente sciagurato. Ella non ti
imita, e affronta la caricatura: in questo momento la Patti e
Niccolini sono in una camera da letto dell'Hôtel Brun. Tu
impallidisci - gridò - mentre tutti invece lo facevano arrossire,
guardandolo: infelice, tu vali più di Niccolini, e morirai della sua
morte! Avete quasi la stessa età: solamente tu morrai di fame, ed
egli precisamente dell'opposto: te l'ho già detto, ma se il
desiderio logora più dell'uso, l'uso ha questo di orribile, che
logora anche il desiderio.
Queste ultime parole portarono l'ilarità al colmo. Ma il padrone
disse di voler chiudere, e il gruppo degli amici dovette alzarsi. I
conti della birra e del vino sviarono per un momento l'attenzione,
Bartolomeo potè alzarsi, ricevette ancora qualche risata, e,
infilandosi il sopratutto, si avvicinò alla porta. Una contestazione
minacciava d'insorgere, l'oste piuttosto villano alzava la voce,
quando Bartolomeo si ricordò improvvisamente di essere aspettato a
casa, si volse, diede un'occhiata e, vedendosi inosservato, se la
svignò.
Quando arrivò a casa, Adelaide, che lo attendeva, da due ore, lo
accolse malamente. Per un motivo inesplicabile, invece di coricarsi,
lo aveva aspettato in cucina, a tavola, con un vecchio mazzo di
carte in mano.
- Finalmente! - esclamò con quella collera fredda, che in certuni è
il colmo della esasperazione.
Bartolomeo divenne mogio mogio, perchè aveva paura: Adelaide era la
sua amante da sei mesi. Si erano conosciuti da lunghi anni in teatro
senza parlarsi, poi il caso li aveva messi ad uscio e uscio, e
allora avevano stretta relazione, passando alle intimità per finire
nell'amore. Ma veramente non si amavano. Adelaide, vedova, aveva
maritata l'unica figlia fuori di Bologna, e, rimasta sola,
s'ingegnava a levar le macchie dagli abiti, a stirare, per buscarsi
la vita; poi la sera, capitando, faceva la corista al Brunetti o la
cameriera alle prime donne di prosa e di canto, che vi transitavano.
Naturalmente a tutti questi mestieri la sua coscienza si era fatta
più larga che pulita. Ella non se ne nascondeva, anzi sui primi del
loro incontro aveva affettato una tale insubordinazione beffarda a
tutti gli scrupoli, che Bartolomeo, timido anche in quell'età,
trovandovi del piccante, si era lasciato accalappiare. Solo, di
costumi morigerati, suonando tutte le sere, aveva messo da parte
qualche cosa; l'Adelaide l'aveva indovinato. Quindi cercò di
attirarselo, e Bartolomeo gliene fornì il pretesto; poichè,
costretto a mangiare in trattoria come tutti gli scapoli, aveva
finito per rimpiangere la vita di famiglia, il pranzetto quotidiano
discusso ogni sera ed allestito ogni mattina, le piccole provviste,
le festicciuole, tutte le gioie casalinghe, pigre e squisite
malgrado la loro volgarità. Alla trattoria non poteva fare nessuno
dei propri comodi, non sbottonarsi il corpetto e il primo bottone,
il più alto, dei calzoni, come la natura gl'imponeva sempre a mezzo
del pranzo: l'inverno aveva freddo alla testa mezzo calva, ma tenere
il cappello mangiando era troppo, la berretta sarebbe stata
abbastanza, ma non l'osava per soggezione dei camerieri e degli
avventori. Sopra tutto la pipa l'angustiava. Bartolomeo possedeva
una enorme testa di moro, in spuma, diventata nera come un moro
originale, e nella quale fumava da molti anni in casa per non
correre il rischio e l'incomodo di portarla fuori. Il solo astuccio
era già un bauletto, la lunghissima cannuccia, a nocciolo d'ambra, e
di ciliegio boemo, diceva lui, odorava ancora. Per Bartolomeo questa
pipa era quasi tutta la famiglia, perchè il vecchio merlo dal becco
giallo, che teneva in cucina, rappresentava l'amicizia. Pranzare
modestamente in cucina, massime l'inverno, col merlo che verrebbe a
beccare sulla tavola, la pipa, carica come una bomba inoffensiva a
fianco, con un immenso paltò spelato, che gli faceva da veste da
camera, annusando il profumo dei piatti sopra i fornelli, dando
un'occhiata alle casseruole, servendosi e servendo qualcuno, era da
lungo tempo il suo ultimo sogno. Secondo lui le serve erano tutte
ladre; giovani aprivano la casa agli amanti, vecchie ai figli e ai
parenti. Così, ammassando qualche mobile e le stoviglie necessarie a
piantar casa, aveva oltrepassato la cinquantina senza sapere neppur
egli come: una volta faceva da scrivano in uno studio di notaro, poi
aveva smesso, e non faceva più nulla. L'inverno andava al sole nei
giardini pubblici, e si fermava coi giardinieri in lunghi cicalecci:
al tempo cattivo in qualche caffè a leggere i giornali o giocare la
partita a domino, o da qualche amico. Del resto suonava spessissimo,
anche di giorno, avendo la clientela di quasi tutti i curati: non vi
era festa senza il suo contrabbasso.
Poscia aveva conosciuto l'Adelaide. Una volta doveva essere stata
piuttosto bella, adesso era ancora benissimo conservata: aveva le
carni vermiglie, i capelli neri, i denti bianchi. Naturalmente le
borsine degli occhi si cominciavano a gonfiare, e gli angoli della
bocca le si raggrinzivano; ma il suo seno aveva ancora un magnifico
turgore, massime per la vita troppo corta e le spalle un po' tozze,
che lo facevano stare più alto. Il resto era quasi insignificante,
statura comune, naso regolare, fronte egualmente, come nei connotati
dei passaporti. Solo, come segno particolare, aveva una lanuggine,
oramai barba, lungo le guancie, e due occhietti neri, rotondi,
affossati, di una mobilità eccessiva, a volta a volta di una gelida
durezza. Adelaide conquistò Bartolomeo in pochi giorni. La prima
domenica pranzarono assieme in cucina, la stessa sera Adelaide
rimase nella sua camera. Bartolomeo era felice: l'Adelaide, da donna
accorta, aveva conservato la propria stanza, che comunicava colla
cucina e rispondeva libera sul pianerottolo, per ricevervi qualcuna
delle proprie pratiche: vi aveva messo un fornello, e talora vi
stirava. Ma siccome qualche soldo lo guadagnava essa pure, sul
principio contribuì alle spese domestiche. Fu un incanto, giammai
due coniugi avevano vissuto più armonicamente. Bartolomeo
ringiovaniva, sebbene si accorgesse di non essere innamorato.
Sedotto da quel benessere sensuale, cui l'ordine e l'economia davano
quasi un'apparenza di virtù, e soddisfatto nell'egoismo di vecchio
celibe, che vorrebbe la famiglia senza i suoi impicci, si
abbandonava morbidamente in quella nuova vita del focolare. Avevano
comprato un fusto di vino e un mezzino di castagne da cuocere sotto
la cenere alla sera. Adelaide, che s'intendeva veramente di cucina,
preparava certi pranzetti, ai quali Bartolomeo paragonava con
voluttà orgogliosa i pranzi della locanda, cogli umidi riscaldati
mille volte e gli arrosti lessati prima nella pentola. Ma, per
l'istinto di tutte le felicità e la prudenza naturale ai suoi anni,
Bartolomeo non aveva aperto bocca con alcuno; solamente aveva finto
di sdegnarsi coll'ultimo oste e di averne trovato un altro, che gli
mandava il pranzo a casa. Infatti la colazione colle ova e la
Gazzetta dell'Emilia la faceva sempre al solito caffè.
Ma Adelaide lo dominava. A poco a poco gli invadeva tutta la vita a
forza di rendergliela comoda e di risparmiargliene le brighe. Gli
aveva compiuto il fornimento della casa, aumentata la biancheria,
rimesso quasi a nuovo il vecchio letto di noce a due posti,
ricoprendolo di un grande baldacchino bianco e decorandolo di una
bella madonna a stampa colorata. Ella stessa faceva la spesa, e
stabiliva il pranzo: gli fissava l'ora per tornare a casa o per
alzarsi, lo mandava sino in giro per qualche commissione, che egli
sulle prime accettava con una specie di contentezza galante. Se non
che una volta avendo voluto rifiutarsi, ella fu così ragionevole
nelle osservazioni e severa nelle parole, che dovette arrendersi con
un sentimento di soggezione. Quello fu il primo sintomo del
servaggio. Poco tardarono gli altri, insignificanti all'apparenza,
ma così frequenti, che si trovò arretato prima di sentirsi nella
rete. Un altro giorno gli fece una scena di gelosia. Bartolomeo, che
non vi aveva mai pensato, ne ringalluzzì, ma poco dopo si sorprese a
pensare sul passato poco scabro di lei, e a domandarsi se alla
propria volta dovesse essere geloso. Il problema era difficile, la
china molto sdrucciolevole. La loro vita di camerati, alla quale la
differenza di sesso aggiungeva un'attrattiva di più, leggiera fino
allora, diventerebbe una vita di matrimonio, tanto peggiore quanto
era fuori della legge, il giorno che, facendosi geloso, affermasse
la propria solidarietà con quella donna. Si accorgeva di non amarla,
ma che d'ora innanzi non avrebbe più potuto fare senza di lei. E lì
erano rimasti, quando capitò la Patti. Adelaide, che avrebbe voluto
servirle da cameriera per buscarsi qualche grossa mancia, non voleva
saperne di corista, ma quando si vide rifiutata per la prima volta,
diceva lei e non era vero, la sua collera e la sua lingua non
conobbero più freno. Bartolomeo, cui i lirismi dei giornali avevano
desto il prurito delle negazioni, l'aveva secondata, promettendosi a
teatro una cattiva impressione; ma a rovescio di ogni calcolo,
sollevato dal più grande entusiasmo, si era nella sincerità della
propria grossolana natura dimenticato persino della Adelaide.
Quando entrò nella cucina, e la vide alla tavola colle carte in
mano, allibì: la fisonomia dell'Adelaide stanca dal sonno e gonfia
dall'ira, non prometteva niente di buono; e, sintomo spaventevole,
ella non si era tratta nemmeno il sopratutto. Bartolomeo indovinò,
che lo aspettava così da quasi tre ore. Poi le sue frasi a pranzo
contro la Patti gli tornarono nella mente, urtandosi coi discorsi
entusiastici della bottiglieria. L'Adelaide fu tremenda. Invano per
calmarla egli affettava la più grande docilità; la voce di lei si
alzava ad ogni parola, stridula e sibilante, come uno scudiscio,
sferzandolo, non lasciandogli nemmeno il tempo di offendersi,
destandogli una inesprimibile ripugnanza per quella donna, che gli
si rivelava in un momento, mentre la sua anima era tutta piena della
rivelazione della Patti. Ma colla prudenza di un uomo, che sa
compatire una stranezza, e rattenuto da un sentimento delicato,
poichè l'Adelaide non era in fondo che sua ospite, e si sarebbe
vergognato di cacciarla così su due piedi, si lasciò generosamente
opprimere: solamente, essendogli sfuggito un moto di diniego ad una
sua laida stupidaggine contro la Patti, ella esclamò furiosamente:
- Ah! anche tu sei innamorato di quel baccalà?! Tutti urlavano
stasera: sì! perchè non la vedevano da vicino come noi. Va là, è
secca come un uscio, ha tutta la pelle grinza. Se ci aveste guardato
al collo, invece di guardarla cantare, ve ne sareste accorti. Ci
voleva ben altro che quel vezzo di perle, che ella si sarà
guadagnato senza cantare. Oh! - insistette ad un altro suo moto -
credi che cantasse anche allora! Sarebbe carino per l'uomo in quel
momento di sentirla stonare, perchè la tua Patti stona. L'ho sentita
io, non importa che mi dicano di no, perchè le orecchie io le ho
buone, più degli altri, e me ne sono accorta. Sì, stona come
Niccolini, che è vecchio come te ed è il suo amante: degni uno
dell'altro: vivono assieme e guadagnano assieme - aggiunse con un
sibilo, che esprimeva più di tutte le frasi di Bodoni.
- Cosa importa se ama Niccolini - disse nobilmente Bartolomeo.
- A me?! e a te?
- Io...
- Mo! innamòrati: è la donna dei vecchi; già alla sua età bisogna
essere ragionevoli. Non ho fatto così anch'io? - strillò,
guardandolo con una sfacciataggine, che era il colmo dell'ingiuria.
A questo insulto, che lo toccava nella sua sola debolezza,
Bartolomeo provò una stretta al cuore.
- Solamente - seguitò, gonfiando il petto e arrovesciando il collo
con moto d'orgoglio - la tua Patti pare la carcassa di un ombrello.
Pelle e voce, come i rosignuoli; non è vero, tu che la credi tanto
brava, la prima donna del mondo?
- Ma non ne parliamo più; a te non è piaciuta, ecco tutto.
- Ti do fastidio?
- Ma no: hai ragione, se la vuoi.
- Se la voglio? tientela la tua ragione; per chi mi pigli? Credi che
sia perchè non mi ha voluto nel camerino? Non ci penso nemmeno. La
sua cameriera l'ho vista: dicono che è una sarta di Parigi, ma
l'ultimo abito dell'ultimo atto non era nemmeno stirato. Fin lì ci
arriviamo anche noi, a Bologna, non ci è bisogno d'andare a Parigi
per questo. Cosa credono questi forestieri? Poi lei è italiana, e
dovrebbe avere più riguardi: invece li ha tutti per Niccolini. È
lei, che gli tinge i capelli per ingannare il pubblico; lo vorrà
forse vendere. Già quello che si compra si può anche vendere.
Bartolomeo non ne poteva più.
- Ci mettiamo a letto? - borbottò dopo un momento, andando verso il
lume sulla tavola.
Ma ella lo fermò con una occhiata. Bartolomeo non l'aveva mai vista
così.
- Hai sonno! - quindi si gonfiò ancora, ghermì il lume e con un
gesto, che la Patti stessa le avrebbe invidiato, gli si avanzò fin
sotto al naso, e gli soffiò in faccia:
- Buona notte! - quindi voltandogli le spalle, invece di andare
nella camera, aprì l'uscio della propria stanza, e lo rinchiuse a
chiavistello.
Bartolomeo rimase al buio. Non capiva bene. Il furore dell'Adelaide
doveva dipendere da altro che l'avere egli fatto troppo tardi quella
sera: forse ella non aveva potuto perdonare alla Patti lo sfregio di
averla ricusata, e la ovazione del teatro l'aveva esasperata. Egli
no invece, amava il merito ed applaudiva volentieri. Ma quella
congiura in tutti di dirgli che era innamorato della Patti,
cominciava ad impensierirlo seriamente. Se n'erano dunque accorti?
Aveva commesso qualche imprudenza, o tra le sue parole, che pure gli
sembravano castigate, glien'era sfuggita qualcuna, la quale potesse
comprometterlo?
E intanto che questi pensieri gli battevano sul cervello, aveva
acceso un altro lume. Attese, origliò. Adelaide non si andava a
letto. Allora si arrestò discutendo seco medesimo se dovesse dirle
qualche buona parola: ma a mezzo la riflessione si accorse di essere
egli dal lato della ragione e di avere ricevuto in compenso un sacco
di contumelie. Infine il torto era di Adelaide. Però una voce
segreta gli diceva con insistenza sempre maggiore di picchiare al
suo uscio. Naturalmente Adelaide doveva aver sofferto dello sfregio,
in teatro, dove i pettegolezzi sono così facili e pungenti;
bisognava compatirla, le donne sono sempre donne. Tornò ad
aspettare: la sua bontà avrebbe voluto, ma il suo coraggio non
osava; tentennò, si ammonì, si spinse due o tre volte verso
quell'uscio chiuso, che in quel momento rappresentava il più grande
ostacolo di tutta la sua vita. Era molto tardi, aveva quasi freddo.
L'aspetto del focolare e degli arnesi tenuti con estrema pulizia lo
commossero; l'Adelaide era pure una brava donna. Forse le avrebbe
dovuto maggiori riguardi in tale critica circostanza, giacchè colle
donne non è mai questione che di tatto. In quel momento la sua
grossa faccia di contrabbasso esprimeva un imbarazzo pieno di
benevolenza, che avrebbe commosso un nemico. Finalmente la bontà del
suo cuore trionfò della timidezza del suo carattere, e camminando
sulle punte dei piedi, colla circospezione d'uno scolaro, che vuole
origliare alla porta del maestro, venne ad incollare l'orecchio alla
fessura dell'uscio. Però malgrado tutti gli sforzi di leggerezza lo
scricchiolio delle scarpe lo aveva tradito. Un fruscio di abiti
usciva dalla stanza. Si sveste! pensò Bartolomeo, e credendo il
momento buono, picchiò discretamente alla porta: ma quasi
contemporaneamente, come risposta collerica, che non lascia nemmeno
esaurirsi la domanda, uno stivaletto lanciato a tutto braccio venne
a percuotere proprio dove egli si appoggiava colla fronte.
La sua anima era così disposta alla benignità d'un accomodamento,
che fu miracolo se non gli cadde la candela di mano. Si drizzò
pallido, e sempre indietreggiando sulle punte dei piedi, tornò alla
tavola. Pareva prostrato. Una malinconia improvvisa venne da tutti
gli angoli della cucina, nella quale aveva sorriso a tanti
pranzetti, e che in quel momento era tornata fredda come prima
quando, vivendo solo, non vi accendeva mai il fuoco. Abbassò la
testa. L'altro stivaletto gettato collo stesso impeto, invece di
battere nella porta, urtò nel canterano e produsse un suono secco:
intese il letto scricchiolare sotto il peso di Adelaide, che vi si
rannicchiava ferocemente, sentì il suo soffio smorzare la candela, e
rimase colla propria in mano guardando. Aveva tuttavia il paltò
nelle braccia, il largo cappellone in testa. Sospirò, poi, scuotendo
malinconicamente il capo colla rassegnazione della buona gente che
crede di disarmare il destino accettandolo, andò verso l'uscio della
propria camera, e vi sparì. La cucina restò abbandonata come un
campo di battaglia, dal quale ambe le parti si erano ritirate negli
accampamenti.
Ma a letto il pensiero gli tornò sulla Patti. Sentiva ancora la sua
voce, vedeva ancora la sua gracile e pallida figura muoversi
stancamente sul palcoscenico in una penombra mortuaria, con
un'aureola di martirio sulla fronte; e, mentre il cuore gli si
tornava giovanilmente ad intenerire, la Patti rientrava nella scena
sorridendo sotto la grandine degli applausi, disinvolta come una
regina, amabile come una fanciulla. Allora tutto il pubblico subiva
il prestigio della donna dopo aver provato il fascino dell'artista,
e l'onda del desiderio di tutti arrivando al cuore di Bartolomeo lo
bagnava entro una spuma mordace. Invano Niccolini, preso per mano la
Violetta, veniva ad opporsi all'impeto della marea; la tempesta
raddoppiava di violenza, e investendo quel bianco fantasma di donna,
lo portava sempre più in alto, come quelle larve di nebbia, che
dondolano mollemente in fondo all'orizzonte marino. Bartolomeo
pensava alla Patti. Tutti i sarcasmi sguaiati di Bodoni e le infamie
dell'Adelaide gli suonavano alle orecchie. Le aveva intese susurrate
tutto il giorno, le aveva lette nei giornali velate dalla forma più
trasparente dell'indiscrezione, abbigliate colla frase più ipocrita
d'un complimento: poi le aveva ascoltate la sera nell'orchestra, le
aveva colte nel pubblico, finalmente Bodoni le aveva disciplinate in
una teoria paradossale e l'Adelaide denudate nel più cinico
impudore. Ma la Patti usciva radiosa da quella bruma d'improperi.
Egli non ci credeva. Forse l'amore di Niccolini non era vero, forse
era la pietà d'una grand'anima d'artista per questo infelice tenore,
vicino a perdere la voce senza essersi acquistato un patrimonio.
Fors'anco la Patti lo amava, ma se la ragione intima di questo amore
gli sfuggiva, doveva esserci, e degna di una donna, che arrivava col
proprio genio all'altezza dei genii più eccelsi. Giammai donna aveva
potuto cantare così. La Malibran, egli non l'aveva sentita, e
nullameno era sicuro che a quei tempi dovevano contentarsi di poco.
E quell'ultimo sogno tratteggiato con causticità così voluttuosa da
Bodoni gli fluttuava sul letto, riempiendogli la camera di luce.
Essere la Patti o essere il suo amante era troppo anche per un
sogno. Essere giovane, perchè la Patti per lui, malgrado ogni
verità, non aveva che venticinque anni; essere bella e cantare a
quel modo! Nessuna regina aveva un regno più vasto o un popolo più
innamorato. Tutti i giornali bruciavano per lei gli incensi più
odorosi, la gente si pigiava alle porte del suo albergo, si
schiacciava nei suoi teatri; molti avrebbero rubato per comprare un
biglietto di loggione, i milionari le gettavano i diamanti come
fiori, i sovrani andavano in camerino a baciarle la mano. In nessun
paese del mondo vi era una donna come lei. Ma essere il suo amante
era ancora più bello. Qui la sua immaginazione si perdeva. Solo, in
quel letto a due posti, non pensava più all'Adelaide e non sentiva
più la realtà della camera. I suoi desiderii non si formulavano
ancora, ma le immagini più bislacche si accendevano e svanivano nel
suo cervello come fosforescenze di legno imputridito, che, imitando
il bagliore delle gemme, vibravano nella notte incomprensibili
sorrisi. In quell'aurora boreale della passione tutti gli oggetti e
tutti i colori gli si confondevano; Niccolini e la Patti non erano
più che una luce ed un'ombra, un canto ed un accompagnamento, che
passandogli per l'anima, se la trascinavano dietro. Egli non sapeva
bene se vegliava o sognava.
La mattina si era già scordato di tutto, ma attese invano che
l'Adelaide gli portasse il caffè a letto, una delle ultime e più
voluttuose abitudini della sua nuova vita. Si alzò avvilito, poi
sentendo rumore nella cucina, così come si trovava, in manica di
camicia e in ciabatte, finse di aprire sbadatamente la propria
porta: nello stesso momento, quasi il suo pensiero fosse stato
penetrato, l'uscio dell'altra stanza si rinserrava, e la cucina
restava deserta. Il focolare era spento, un fornello acceso. La
cocoma del caffè vi gorgogliava spumeggiando. Egli non osò
trattenersi, ritornò nella propria stanza, e uscì di casa senza aver
visto l'Adelaide. Appena fuori la regolarità delle abitudini lo
calmò al punto, che entrando nel caffè aveva già il solito sorriso
per i camerieri. A colazione lesse tra gli amici abituali un
brillante articolo del Panzacchi sulla Patti, poi rimase solo,
rilesse l'articolo, lo confrontò coll'altro della Gazzetta
dell'Emilia, andò verso i giardini. A quell'epoca non c'erano ancora
i tramways. Vi rimase fin tardi, poi ritornando s'incontrò
fortunatamente in Bodoni. Quel giorno era vestito di un paltò
incredibile, giallognolo di crema, sul quale la sua piccola testa
smorta, senza quella barbetta tosata rabbiosamente alla Enrico IV e
macchiata di rossiccio e di castano, sarebbe parsa una cimasa di
latte e miele. Ma era serio.
- Vieni a pranzo con me - gli disse a bruciapelo.
A Bartolomeo si allargò il cuore.
Il discorso cadde naturalmente sulla Patti e sugli articoli dei
giornali, che Bodoni trovava nauseanti d'imbecillità. In nessuno,
nemmeno il tentativo di un'analisi, tutti s'erano tratti d'impaccio
rovesciando sul capo dell'artista i superlativi più strani; così chi
aveva capito aveva capito.
- Invece - seguitava con accento severo - hanno gratificato
Niccolini di complimenti velenosi. Anzi tutto questo amore potrebbe
essere una invenzione sciagurata, ma quando pure fosse una realtà,
il pubblico non avrebbe a ridirvi. Che importa se una grande artista
ama un genio o un idiota, un sovrano o un paltoniere? La Patti non è
la Patti, che sulla scena, e allora Niccolini scompare nel proprio
personaggio tenorile: fuori essa è libera d'avere, e non può a meno
di averli, tutti i gusti della femmina e le incongruenze della
donna. Chi deciderà del gusto? L'eccessiva raffinatezza coincide
colla brutalità, o se non vi coincide sempre, vi si allea sovente.
Il selvaggio e il gastronomo preferiscono le bistecche crude: il
facchino non cerca che la carne nelle donne; in Oriente, dove la
voluttà fu più profondamente studiata, la carne è rimasta l'unico
pregio delle donne. Se la Patti ama Niccolini, forse è nella regola
del genio. Le nature volgari trovano facilmente qua e là il proprio
ideale; le nature superiori se lo formano nella disperazione
d'incontrarlo, e lo incarnano nel primo venuto. Che io getti dunque
un mantello di porpora sopra un manichino di pioppo o di amaranto,
il mantello solo dà al manichino quel paludamento da re o da regina,
sul quale vengo a deporre i miei baci o le mie corone. In questa
creazione dell'amore fra creatore e creatura non vi può essere
giudice, poichè il giudice vede cogli occhi del corpo, e il creatore
con quelli dell'anima. Sai tu perchè i giornali stamane celiavano
educatamente su Niccolini? Perchè la folla non tollera superiorità,
colle quali non possa avere contatto, e accusando la Patti di amare
Niccolini, ha creduto di bollare il suo genio col marchio della
natura femminile. Se nella Patti la donna fosse pari all'artista non
sarebbe più donna. Ma la folla affermando la gran legge, che non vi
siano individui slegati nella serie della vita e il genio non debba
essere immune dalle nostre infermità, non sente che l'istinto
invidioso del rettile contro il volatile, dell'anitra contro
l'aquila.
Bartolomeo, cui la conclusione troppo filosofica del discorso aveva
imbarazzato, non ne gustò meno per questo l'assennatezza del
principio, e avrebbe quasi voluto rinfacciargli i paradossi della
sera innanzi, se il timore di qualche altra scarica non l'avesse
rattenuto. Bodoni sembrava malinconico: Bartolomeo glielo disse.
- La Patti mi fa male. È triste, mio caro, avere ventiquattro anni,
capir tutto e capire per giunta che non faremo mai nulla. Fra
vent'anni io sarò come te. Che cosa ti è accaduto nella vita? nulla.
Che cosa mi accadrà? nulla. Tu almeno non capisci; perdonami, mio
buon Bartolomeo, questa insolenza che t'invidio: io debbo invece
morire di freddo al sole.
Con questi discorsi erano arrivati dinanzi alla locanda, una delle
solite, metà osteria e metà albergo; molta gente l'ingombrava. Un
cameriere di vecchia conoscenza venne incontro a Bartolomeo e gli
fece mille complimenti, domandandogli dove era stato per sei mesi,
se ritornava davvero, e scherzando gettava tratto tratto
un'allusione galante, arrischiava un gesto confidenziale. Bartolomeo
s'impacciava, Bodoni si era già seduto alla tavola col capo fra le
mani. La sala rumoreggiava, era un va e vieni di camerieri, un
vociare stonato, un cozzar di bicchieri e di piatti: dalla cucina,
che si vedeva in fondo alla sala, veniva un odore grasso, uno
stridio di frittura, che nauseava il palato; le berrette bianche dei
cuochi passavano e ripassavano davanti all'uscio con un volo di
colombi, gli ordini dei camerieri in cucina salivano e discendevano
sulla gamma più assurda, nella varietà più strampalata di accenti.
Bartolomeo si faceva grave, era senza appetito: Bodoni sembrava
mangiare per compiacenza. Intorno a loro fioccavano i giudizi e le
osservazioni sulla Patti, la esorbitanza del suo prezzo di cantante,
nel quale nessuno osava acconsentire.
- Eppure - osservò Bartolomeo - tutta questa gente non avrà mai
speso meglio quindici lire. Quante volte le avranno bevute in tanto
vino cattivo. In fin dei conti la Patti è unica al mondo.
- Quale voluttà, ma quale sciagura! - mormorò Bodoni. Ad un tratto
s'imbrunì.
- Ecco - disse - accennando ai discorsi di quella gente, perchè io
avevo ragione d'insultare la Patti per essere venuta al Brunetti; il
pubblico sarà sempre al disotto dell'arte, che per una fatalità
della creazione gli è destinata. Vedi, mio caro, la gloria, che
attira tutti gl'ingegni, è composta di questi discorsi; tutto
finisce nel popolo, scienze, arti, industria, commercio, tutto per
questo bruto che è senza riconoscenza, perchè è senza intelletto. I
grandi uomini vissero sempre miserabili: e che importa al monello,
il quale mangia le pesche, se l'albero muoia? Egli non ci pensa o,
se pure, non se ne preoccupa, perchè sa che i peschi non finiranno
mai. Quattro secoli fa non c'era musica a proprio dire, musica come
intendiamo noi, quindi malgrado la ferocia dei costumi la poesia e
la pittura erano nella massima voga. Oggi la poesia è rimasta nel
sentimento di pochi, la pittura di pochissimi. Invano si fanno le
esposizioni e si vende un quadro di Meissonier cinquecentomila lire:
ciò prova che il lusso dei ricchi ha ancora bisogno di questa
decorazione, ma l'anima del popolo non è più nella pittura. Sai tu
che cosa si diceva quattro secoli fa in ogni palazzo e in ogni
taverna? Michelangelo sta sbozzando una statua, Raffaello dipinge un
quadro, Brunelleschi alza un palazzo, Ghiberti fonde un bronzo; e
ognuno s'interessava all'opera, e l'artista povero si sentiva
intorno una simpatia, che lo sorreggeva e dalla quale assorbiva la
vita necessaria all'opera propria. E quando l'opera era finita, la
moltitudine si pigiava alla porta del santuario, bestemmiando,
osannando, perchè quella era l'opera di tutti eseguita da un solo.
Oggi non è più così. Lo sviluppo dell'industria e delle macchine ha
quasi ucciso l'uomo nell'operaio; i miracoli della meccanica più
grossolani e di una utilità più immediata bastano alla sua fantasia,
l'arte si è isolata nella classe dei ricchi. Qui la musica ha
battuto la pittura. Siccome l'arte non giova che a interrompere la
serie delle sensazioni reali con un'altra serie di sensazioni
ideali, la musica è più facile ed efficace della pittura. La musica
dell'orecchio vinse quella dell'occhio, giacchè in fondo, si tratta
di due specie e di un genere solo. Anzitutto un quadro non si
traduce, e sebbene al mondo si facciano molte copie, esse rispondono
meno a un vero bisogno di pittura che a una moda decorativa: la
musica invece la traduci, la trascrivi e, quello che è infinitamente
meglio, la suoni da te solo, forse malissimo, ma ancora abbastanza
bene per appagare il tuo sentimento di mezz'ora. La musica della
pittura ci arriva attraverso un'immagine immutabile e che non
possiamo quindi consultare in tutti i nostri bisogni: l'altra musica
invece non ha immagini, parla e noi inventiamo il personaggio,
magari noi stessi o un altro, poco monta; ride e noi inventiamo la
bocca, piange e noi inventiamo gli occhi, esulta e la sua gioia
serve ugualmente alla gioia di tutti, sospira e il suo sospiro
solleva egualmente tutti i dolori. Alteri il tempo d'un motivo e ne
fai così il linguaggio di qualunque situazione; e mentre il quadro
non è appeso che alla parete del milionario e devi andare a
cercarvelo, la romanza ti segue dappertutto entro il cervello, la
riprendi e l'abbandoni dove vuoi. Ricco e povero ne hanno quasi un
numero uguale, una medesima ricchezza, e perfino l'infelice, cui la
natura discordò l'organo vocale, può ripeterle e gustarle nel
pensiero. Sai tu perchè gli appartamenti sono oggi meno decorati e
meno artisticamente? Perchè in ogni appartamento vi è un pianoforte:
il pianoforte ha cacciato il quadro. Metti una statua in una
soffitta e ne avrai una cattiva impressione, mettivi un violino e
potrai dimenticarti presto di essere in una soffitta. Vedi:
l'architettura è morta, la scultura sta morendo, la pittura per
salvarsi è diventata letteratura. Al secolo d'oro il soggetto del
quadro era un pretesto per disegnare un bel corpo o stendere un
magnifico accordo di colori; adesso che il sentimento della bellezza
e il senso del colore si è perduto anche nella classe dei ricchi,
che comprano i quadri, la pittura è diventata romanzo. I compratori
le domandano dei fatti e non dei colori, delle idee e non delle
forme: quindi l'epopea e la tragedia vi signoreggiano, sotto di esse
imperversa il dramma, più basso sghignazza la commedia, in fondo
smorfeggia l'idillio, dal cui incesto colla realtà è nata la pittura
di genere, il genere più odioso fra tutti i generi esistenti e
possibili. Ma nella musica stessa comincia il decadimento, e la sua
diffusione n'è causa; la diffusione, che degrada anche le religioni,
perchè così si arriva nel popolo. Il concime fa nascere il fiore, ma
se il fiore lo tocca colle foglie avvizzisce. Ti vuoi persuadere
della nullità del popolo in arte, una verità che la scempiaggine del
giornalismo liberale è quasi riuscita a far passare per una
menzogna? Ricordati tutte le canzoni popolari delle nostre due
rivoluzioni '48 e '59 e giudica se il maggior avvenimento accadutoci
da millecinquecento anni, la resurrezione della terza Italia
ottenuta con tanti miracoli di ingegno e di sangue, non ha inspirato
che l'inno di Garibaldi e «l'Armata se ne va». Il popolo, mio caro,
non è che plebe, e la plebe è un bruto. I Romani, che l'avevano
conosciuta, invece di buttarle come noi la sovranità nazionale o la
infallibilità politica, le davano «panem et circenses», cioè pane e
sangue. Ma in questo caso il pane era sprecato.
E Bodoni stanco egli stesso dalla lunga dissertazione non disse
altro. Bartolomeo, che non ne aveva capito quasi nulla, invece di
domandarne spiegazioni, sedotto dai discorsi dell'altra gente
ritornò sulla Patti, e l'altro, che per caso si trovava ad essere
veramente serio quel giorno, cominciò su lei un'analisi fine e
profonda. I più vicini si misero ad ascoltare, ed allora alzò
involontariamente la voce, crebbe di vena, trovò una vivacità
d'appendicista, per uno di quei successi di trattoria, ai quali si
resiste così difficilmente e che ottenuti umiliano tanto.
Fortunatamente l'ora del teatro si avvicinava, pagarono il conto,
Bartolomeo trovò che era troppo caro avendo mangiato così male, poi
fu tutto contento di accompagnare Bodoni a casa per non passare
dalla propria.
Il teatro fu egualmente affollato, la Patti una Rosina inimitabile,
una cantante anche più perfetta.
Siccome la maggior parte del pubblico l'aveva già veduta nelle parti
di Violetta, la sua trasformazione parve ed era veramente un
miracolo; l'ovazione salì di scena in scena, piovvero i fiori, tutti
i complimenti che una folla in delirio può tributare a un idolo.
Bartolomeo piangeva, ma erano lagrime d'allegria. A rovescio delle
predizioni di Bodoni, la malizia di Rosina gli riusciva più grata
del sentimentalismo di Margherita. Niccolini fu un Lindoro come era
stato un Alfredo, Moriami invece il più bel barbiere di Siviglia.
Alle emozioni terribili della sera innanzi successero le emozioni
gaie, il solletico sensuale della commedia più bella, forse l'unica
che si conosca nell'arte. La Patti sfoggiò tutte le risorse del
mestiere, fu un organetto come sua sorella Carlotta, un usignolo,
una capinera, un'equilibrista, che si dondolava sopra il filo d'una
nota, e l'attenuava all'infinito senza romperla. La sera innanzi
aveva trionfato lo stile, quella sera signoreggiava il metodo, prima
il sublime dell'arte nel canto, poi il sublime della natura nella
voce.
Durante lo spettacolo Bartolomeo, che si era dimenticato di essere
sotto gli occhi dell'Adelaide, fu di una ilarità clamorosa, cercando
inutilmente di ottenere una seconda occhiata dalla Patti, mentre
svolazzava col suo gramurrino di farfalla sui lumi della ribalta.
Poi, quando il telone si abbassò all'ultimo atto, egli fu dei primi
ad applaudire cacciando addirittura le mani sul palcoscenico. Il suo
faccione imporporato dallo sforzo e la sua statura gli avrebbero in
tutt'altra occasione attirato gli occhi del pubblico, ma l'emozione
dell'ultimo addio alla grande artista e la confusione di tutta
l'orchestra non lo permise. La Patti tornò chi sa quante volte a
salutare, duecento mani parevano volerle brancicare la veste; ed
ella tornò ancora, ricevette sulla fronte tutto l'anelito di quel
saluto, aprì i raggi di tutte quelle occhiate, strisciò come un
sogno su tutte quelle fantasie, battè come un palpito in tutti quei
cuori, si chinò, si rizzò nel suo sottanino di libellula, coi suoi
occhi d'Andalusa, col suo corpo d'uccellino, sopra i suoi stinchi di
mosca, col suo prestigio di artista, colla sua magìa di cantante,
balenò, oscillò, disparve.
Il telone la celava forse per sempre agli occhi dei bolognesi.
Quella sera i suonatori si dispersero col pubblico, e Bartolomeo
rimase solo. Attese mezz'ora nella bottiglieria, poi dovette andarsi
a casa. La casa gli parve deserta, sulla tavola non trovò la candela
coi zolfini, nella camera dell'Adelaide non si udiva rumore.
Nullameno era rientrata. Tutto il suo buon umore sparì: la cucina
abbandonata aveva un aspetto desolante, non vi erano legne
nell'angolo, mancava l'acqua nei secchi. Perse qualche minuto in
questa analisi, poi vergognandosi di potere essere sospettato
dall'altra stanza, prese l'ordinaria risoluzione contro la
tristezza, e si mise a letto.
Il pensiero della Patti lo riassalì nuovamente. Una a una si ricordò
le moine del suo gesto, le carezze della sua voce, le sue malizie
procaci di Rosina nelle scene col vecchio o negli incontri con
Lindoro, e un fremito sottile gli passava fra la pelle e le
lenzuola, dove aveva dormito l'Adelaide. Bartolomeo avendo trovato
il letto disfatto, come al mattino nell'uscire di casa, si era
coricato dall'altro lato. Quindi le memorie di tutta la sua vita
povera e modesta s'illuminarono come ai bagliori di un gran sogno,
nel quale era solo colla Patti. Finalmente poteva alla propria volta
essere come tutti i principi e farle la corte. Per loro tutte le
porte erano sempre aperte, avevano dei brillanti da offrire, dei
grossi titoli, e quella disinvoltura da gran signori, la sola, che
anche vincendo l'indomani una cinquina al lotto, egli non potrebbe
mai sperare. Per lui non c'era nulla. Povero suonatore di fila,
accettato raramente al Comunale, vivendo delle proprie economie, non
aveva che il diritto di sognare; miserabile diritto, che aumentava
la forza del desiderio e il rammarico della impotenza. Nullameno si
cacciava voluttuosamente in quel sogno. La Patti gli pareva la
donnina più adorabile, per lui che aveva il gusto delle donnine da
tenere sulle ginocchia. Steso sul letto, la pancia in aria, la testa
ravvoltolata in un vecchio folardo, guardava con due grandi occhi
spalancati nella tenebra la magìa della propria visione. Aveva
caldo, la faccia gli scottava. Colle mani brancicanti sotto le
coperte, e un prurito per tutte le vene, si veniva accarezzando il
ventre come nell'intima e indefinibile voluttà di premerlo sopra una
donna e di sentirla schiacciarvisi sotto. Se la Patti fosse stata
seco in quel punto l'avrebbe forse soffocata per farle sentire tutta
la propria forza. Poi chiudeva gli occhi, il sogno cresceva. La
scena arrivava al punto, nel quale le commedie fanno calare il
telone e i romanzi di una volta mettevano i puntini, ma sul quale si
ostinava come al punto migliore agitando la testa sul cuscino. E un
riso di contentezza gli restava sulle labbra di essere così felice,
senza che il pubblico potesse nemmeno sospettarlo, con quella donna,
difesa dalla etichetta di tutte le aristocrazie, e che era allora
nel suo letto, di Bartolomeo, il quale la chiamava semplicemente
Adelina, un nomignolo più breve di Adelaide ed infinitamente più
vezzoso.
D'un tratto si sorprese a ripeterlo con voce alta; allora si scosse
e si volse sopra un fianco.
Il sogno si alterò, si confuse, finchè svanì in un altro e si
sciolse.
Ma la mattina sentì più acutamente la necessità di una spiegazione
con Adelaide.
Sebbene l'avesse già osservato la sera nel coricarsi, il disordine
della camera gli fece male; il portacatino era ancora presso la
finestra pieno di acqua sudicia, la tovaglia gettata sul comò, il
letto disfatto anche dall'altra parte. Una tale confusione nella
propria vita e nelle proprie cose non se la ricordava. Fece la
grande risoluzione. Così come si trovava, udendo l'Adelaide in
cucina, uscì di camera. Non aveva che i calzoni con le tracolle e i
piedi dentro due ciabatte tagliate da lui stesso colle forbici in
due stivaletti vecchi. L'Adelaide accennò di ritirarsi, ma egli la
trattenne:
- Adelaide!
- Che cosa volete?
- Sei stizzita?
- Che cosa ve n'importa? - E aveva già la maniglia della propria
porta in mano.
La cocoma del caffè fumava sul fornello.
- Ma aspetta almeno di fare il caffè.
- Quando sarà fatto tornerò - e disparve.
Egli rimase come un palo. Cominciava a perdere la testa. Se aveva
compreso lo sdegno dell'Adelaide la prima sera, mezzo giustificato
dalla mancia perduta e dalla sua vanità offesa di grande cameriera,
non capiva l'ostinazione contro di lui, che alla fin fine non
c'entrava nè punto nè poco. L'Adelaide lo sospettava dunque di
qualche cos'altro? Era gelosa del suo entusiasmo per la Patti,
entusiasmo sincero, che egli non aveva avuto mai per nessuna donna?
Finì di vestirsi ed entrò in cucina. Ella non tornava, allora
convenne a lui di ritirare la cocoma, che schiumava sul fornello, ed
attese inutilmente. Quindi con malizia di ragazzo pensò di tornare
nella propria camera e di spiare l'Adelaide, quando verrebbe a
prendere il caffè. Vi riuscì. Ella era seria.
- Ma che cos'hai contro di me? - conchiuse finalmente, non riuscendo
a finire l'esordio.
- Io! nulla.
- Allora?
- Allora?
- Io non capisco più.
- Già gl'innamorati...
Bartolomeo tremò, nullameno si affrettò a negare.
- La Patti vi ha stregato, me ne sono accorta, non importa che
facciate degli sforzi per negarlo, perchè anche l'altra sera me ne
avvidi alle prime parole. Cosa volete farvene di una povera corista
come me dopo una prima donna come lei? Avete ragione: tutto il
pubblico dalla vostra parte. Io non sono mai stata una prima donna.
Zitto! - esclamò vedendo che voleva interromperla... - Che cosa vuol
dire? che ritorniamo come prima: voi non avete mai sentito nulla per
me, e se io non posso dire altrettanto per voi - aggiunse con un
tremito nella voce - la colpa sarà tutta mia. Delle sciocchezze al
mondo ne facciamo tutti: benedetto chi non le paga. Lasciate stare;
qui le parole sono di più, ci siamo capiti. Voi avete delle pretese,
che io non posso soddisfare: se lo sapessi, non sarei costretta a
menare la vita che meno. Dunque voi farete a modo vostro come avete
sempre fatto, e se non mi volete più vedere in cucina, ditemelo.
- Ma io...
- Non siete voi il padrone?
- Andate là, andate là...
Ella afferrò la cocoma, e gli volse le spalle con quel gesto di
bonomia rassegnata, che fa tanta impressione in certi momenti.
Bartolomeo rimase prostrato. Al caffè trovò i soliti avventori che
parlavano della Patti leggendo gli addii dei giornali: uno propose
di andare alla stazione per vederla, che ci sarebbe chi sa quanta
gente, ma il cameriere bene informato assicurò che era partita per
Roma colla corsa delle otto. I discorsi seguitarono su quel tema,
poi gli avventori si dispersero ognuno dal proprio canto. Bartolomeo
rimase solo. Era una giornata umida di primavera. Egli si avviò a
testa bassa sotto i portici meditando sul proprio caso, ma non aveva
fatto cento passi che se lo era scordato entro la tristezza del
tempo. Quindi tornò alla Patti e, soffrendo per causa sua, entrò
poco a poco nel carattere dell'innamorato. Mentre ella seguitava la
strada dei trionfi, egli più povero ed abbandonato di prima
cominciava a morire in quella giornata senza sole, umida e
solitaria. Non sapeva nè dove stare, nè dove andare. Le gambe lo
portavano ai giardini, ma non sarebbe possibile rimanervi: i
nuvoloni crescevano in cielo. Si rimise a riflettere sul celibato
impostogli per una metà dalla sua posizione sempre troppo incerta e
per l'altra dall'avarizia dell'egoismo, che lo lusingava di vivere
sempre colla medesima forza. Adesso egli non apparteneva a nessuno,
non poteva attaccarsi a nessuno. I suoi amici di una volta erano già
tutti vecchi ed accasati; i giovani li vedeva qualche sera dopo il
teatro, e ridevano; ma se domani si fosse ammalato non avrebbe
ricevuto una visita, non avrebbe avuto una mano per curarlo. Ebbe
paura. I giardini erano bruni e deserti, qualche monello sfuggito di
bottega o di scuola, o qualche altro abbandonato come Bartolomeo vi
vagolavano: i giardinieri erano scarsi e non zufolavano come al
solito. Sedendosi sopra uno dei sedili artificiali di gesso, gli
sembrò che fosse bagnato. Il Brunetti resterebbe chiuso forse per
una settimana; dove passare la sera? Allora sentendosi cadere
addosso i brividi delle fronde intirizzite, pensò per la centesima
volta alla Patti. L'eco solo del suo nome pronunciato a bassa voce
lo riscuoteva. Si scaldò un istante alla sua visione, poi
rincantucciandosi in un angolo di quella vita, che riempiva tutto un
mondo, si compiacque a seguirne il pellegrinaggio imperiale. Almeno
ella era felice. Gli pareva di essere diventato come del suo
seguito, un fagotto di quei moltissimi, che si portava sempre
dietro, e sui quali chi sa quante volte chinava la testa per
dormire. Rimase molte ore nel giardino, cercando d'incontrarsi in
qualcuno; quindi tornò in città, annasò ancora in qualche caffè e,
non imbattendosi in anima viva, pensò di andare a pranzo. In tanta
ruina il suo stomaco era ancora intatto. Sciaguratamente tornò alla
trattoria del giorno innanzi, dove il cameriere lo accolse colle
solite chiacchiere; il pranzo gli parve detestabile: la sera per
disperazione egli, che abbominava il teatro come suonatore
d'orchestra, andò al Corso. I discorsi della Patti lo seguivano
dappertutto, l'aria pareva vibrare ancora delle sue note. Lo
spettacolo, una commedia, gli sembrò incomprensibile; quando la
gente se ne andò, uscì macchinalmente egli pure. Per istrada
incontrò Bodoni col paletot di crema, che salutandolo senza fermarsi
gli ravvivò tutti i pensieri del mattino sulla miseria
dell'isolamento. Dovette andarsi a casa; qui lo aspettava un secondo
stringimento di cuore. La cucina era assettata, la sua camera era
tornata al solito aspetto di ordine e di decenza, rifatto il letto,
chiusi i cassetti del comò, le scarpe lustrate sul baule, il
portacatino colla brocca pieno d'acqua al suo posto; ma l'Adelaide
non c'era. Se ci fosse stata e avesse solamente aperto bocca sarebbe
scoppiato a piangere come un bambino. Invece si coricò e per colmo
di stranezza, egli, che non l'aveva mai fatto per riguardo alle
lenzuola, caricò ed accese la magnifica pipa. E allora col caldo del
letto e col fumo del tabacco, le due voluttà, che maggiormente li
attirano, i sogni della Patti tornarono a riempirgli la camera.
Nell'altra Adelaide dormiva pacificamente.
Così durò molti giorni. Siccome ella aveva smesso di farsi il caffè
la mattina, Bartolomeo non vide più l'Adelaide. Sulle prime non
indovinò, poi aprendo a caso la madia, gli cascò la mano sul vaso
del caffè, e lo sentì vuoto: forse la povera donna non aveva denari
per comprarne. Egli fremè ed uscì per riempirlo; ma per quanto vi si
scervellasse quel contegno gli riesciva inesplicabile. Mise il caffè
nella madia, e attese lungamente nella cucina, se la sentisse
rientrare. Giorno per giorno l'Adelaide gli assumeva nella coscienza
una grande dignità di carattere, e se al principio gli era stata
simpatica per i modi aperti, adesso gli diventava rispettabile come
una dama. Aveva maritato bene la figlia e non volendo esserle a
carico, come diceva lei, s'ingegnava in mille lavori: non era più
giovane, ma tuttavia abbastanza ben mantenuta per ispirare qualche
cosa ad un uomo.
Chi sa se non c'era molto cuore sotto quelle sue bruscherie, e
dentro quella sua vita troppo spalancata. Alle volte il lepre sta
dove meno si pensa. D'altronde in quei cinque o sei mesi egli non
aveva avuto a lagnarsi di lei, nè come donna, nè come massaia. La
vivacità dei suoi discorsi rendeva anche più saporiti i pranzetti,
che sapeva fare con sì poca spesa; e qui Bartolomeo, guardando la
fiamminga della minestra asciutta, si ricordava il proprio piatto
prediletto, recato da lei all'ultima perfezione, un ricordo di
Napoli, dove il grande Bottesini lo aveva una sera invitato a cena.
Erano maccheroni all'acciugata, che a Bologna avevan dovuto
diventare vermicelli senza troppo scapitarne. Si rammentava come
l'Adelaide li riserbasse per il venerdì, giorno nel quale, malgrado
tutte le bravate, voleva assolutamente mangiare di magro; e soleva
farli seguire da alcune cotolette di tonno alla graticola, un tonno,
che pareva a quel modo tutt'altra cosa.
Ma l'Adelaide non si vide.
La sera Bodoni al caffè aveva due magnifiche fotografie della Patti,
in costume di Violetta all'ultimo atto; e rammentandogli la famosa
occhiata nel «Gran Dio, morir sì giovane», gliene volle regalare
una. Il suo cuore si commosse nuovamente a quella povera immagine
bianca, abbandonata sulla spalliera della poltrona.
- Sei ancora innamorato? - gli domandò Bodoni accarezzandosi la
barbetta.
- Matto!
- Io incomincio ad innamorarmi adesso. La lontananza per i grandi
artisti è come la morte per i grandi uomini: l'uomo scompare nel
personaggio, i difetti sfumano e la fisonomia vigoreggia. La Patti!
- seguitò con quell'entusiasmo, che faceva di lui una contraddizione
così piena di sorprese - darei tutta la mia miserabile vita di
suonatore per essere il suo amante solo una mezz'ora, e potermela
stritolare sul petto come un istrumento, troppo buono per cederlo ad
un altro. Guarda la bocca: t'immagini tu come debbano baciare queste
labbra, che fanno delle note più dolci di tutti i baci?
E cedendo all'impeto riprese dalle mani di Bartolomeo la fotografia
per baciarla.
- Bacia anche tu.
Bartolomeo non se lo fece ripetere due volte.
Poi Bodoni notò improvvisamente la sua tristezza e gliene chiese la
causa con accento amichevole. Bartolomeo titubò, perchè da molti
giorni soffriva un gran bisogno di sfogarsi, ma il carattere
caustico dell'amico lo rattenne. Si fece più serio, intascò la
fotografia, ravvoltolandola in un giornale, che Bodoni rubò
tranquillamente al caffè, e cadde in un pesante silenzio. Quella
vita cominciava a superare le sue forze. Poi, sentendoselo
continuamente attribuire per malizia o per ischerzo, aveva finito
col credersi davvero innamorato della Patti; e se non voleva
convenirne, dipendeva dalla ripugnanza istintiva di ogni passione a
mostrarsi apertamente. Ma questo culto ideale non bastava a
sorreggerlo contro le difficoltà rinascenti delle giornate deserte e
dei cattivi pranzi in trattoria. Invano nei momenti più difficili
ricorreva all'occhiata del «Gran Dio, morir sì giovane», nella quale
le loro anime, trasportate dalla medesima poesia, si erano sfiorate
in un contatto fatale. Quello sguardo era stato per lui come una
stretta di mano in un'ora di pericolo, una parola d'eguaglianza
barattata in un momento d'ispirazione fuori delle differenze e delle
contraddizioni del mondo.
Bodoni gli aveva spiegato in modo molto oscuro il contatto secreto
degli spiriti sotto la pressione di un medesimo sentimento, ma egli
non vi aveva capito se non che Bartolomeo solo e la Patti avevano
cantato quel pezzo.
E gli bastava.
Tornando a casa Bartolomeo si andava tastando in tasca la
fotografia. Non sapeva ancora dove nasconderla, e provava già le
trafitture voluttuose di un secreto pieno di pericoli. Passò per la
cucina senza fermarsi, e si chiuse a chiave nella propria camera.
L'indomani invece di andare da Bodoni, che si scordò l'appuntamento,
dovette gironzolare per Bologna, comperò l'Illustrazione Italiana,
che rappresentava la Patti nella Traviata alla scena della borsa. Il
quadretto gli parve un capolavoro, l'articolo, datato da Roma,
carico di ironie per Niccolini, una vera indecenza. In fondo
all'articolo si annunziava che la Patti partirebbe l'indomani per
Madrid; ma egli non se ne fece caso, perchè la loro distanza non
cresceva così e non scemava.
Invece passando dal Brunetti imparò che il teatro si sarebbe
riaperto fra tre giorni, e questa notizia lo esilarò; fece la solita
passeggiata ai giardini, vi si trattenne poco, rientrò in città
sempre in preda alla solita inquietudine. A casa la cucina era
vuota, il focolare freddo. Allora gli venne in mente il caffè, e
andando alla madia guardò se l'Adelaide se ne fosse servita. Nulla:
il vaso era intatto al posto dove l'aveva lasciato.
- È dunque una scommessa! Ma perchè - seguitò ad alta voce - mi fa
la camera se non vuole saperne? - Così dicendo spinse la porta per
constatare rabbiosamente come tutto fosse assettato; senonchè,
appoggiata sulla cimasa del letto, sotto l'immagine della madonna di
San Luca, la fotografia della Patti, che egli aveva studiosamente
nascosta fra cinque o sei quaderni di musica, gettava un baleno
nerognolo.
Bartolomeo cacciò un grido: era impossibile, l'Adelaide vinceva.
Da quattro o cinque giorni non l'aveva veduta. Come potesse vivere
da se stessa, lavorando poco o punto ed essendo senza risparmi,
Bartolomeo non lo capiva; giacchè, vissuto sempre celibe e non
avendo conosciuto le donne che in certi momenti e da certi punti di
vista, ignorava la loro scienza minuscola della vita, come esse, che
dissipano così facilmente i milioni, riescano a campare senza stento
con pochi centesimi. Gli venne persino in mente di osservare nella
cucina e negli armadi se l'Adelaide non gli rubasse qualche cosa;
non lo credeva, ma il dispetto di sentirsele inferiore era tale, che
se ne sarebbe quasi compiaciuto. Contò i rami, andò all'armadio; fra
le biancherie cercò subito l'involto, nel quale teneva le quattro
posate d'argento comprate a peso da un amico orefice; esaminò la
bica dei lenzuoli, sommò ad occhio i mantili e le tovaglie, senza
osare di spostarli. Tutto gli parve a posto, allora arrossì. Perchè
dunque l'Adelaide gli teneva il broncio? Si mise a riflettere sulla
natura di lei; benchè non vi trovasse a ridire, n'era poco contento.
Era una donna onesta, nel senso popolano della parola, che lasciava
la roba a posto e non tirava a far sacchetto, sapeva cucinare e
mandare innanzi una famiglia con poca spesa, ma in fondo a tutte
queste belle qualità, egli sentiva un difetto, una certa freddezza
di animo, una soverchia maturità di ragione, che gli faceva paura.
L'Adelaide non aveva mai torto, non si stupiva di nulla. Spesso
chiacchierando dopo cena col bicchiere in mano, lo aveva fatto
precipitare di sorpresa in sorpresa colle sue massime sulla vita, di
uno scetticismo pratico ben più tremendo di quello che affettava
Bodoni. L'Adelaide gli voleva dunque bene? Abbandonata dalla figlia,
sola nel mondo colla vecchiaia e la miseria dinanzi, forse gli si
era affezionata per una conformità di gusti e di destini; però,
essendo ancora donna, aveva le gelosie del proprio sesso. Fra tutti
quei pensieri decise di volere un secondo discorso con lei, e uscì
di casa colla fotografia della Patti in tasca per andare a pranzo.
I vermicelli furono detestabili, le acciughe erano rancide, l'olio
sapeva di muffa: perfino la pasta di Faenza, solita ad essere buona,
non aveva retto alla cottura, e i vermicelli facevano, come suol
dirsi, la colla. Nulla gli andava più per il verso: gli dettero
delle seppie per calamaretti, ordinò un mezzetto di Chianti invece
del solito vino romagnolo, e gli portarono del vino rosso bolognese,
che è l'ultimo vino del mondo. A poco a poco la sua collera saliva.
Nella sala molti mercanti di granaglie e di maiali facevano un
chiasso indiavolato, bevendo e mangiando come tanti eroi di Omero;
due orbini che vennero a suonare, e che essi accolsero colla
vanteria crapulona dei mercanti, riempiendo loro il piattino di
soldi ed offrendo loro da bere nei propri bicchieri, lo fecero quasi
dare in escandescenza. Poi gli orbini non finivano più, le risa e le
oscenità degli altri montavano di tono, quasi tutta quella gente
aveva il cappello in testa e stava a tavola nelle più sguaiate
attitudini, mentre egli per educazione, sebbene mezzo calvo,
rimaneva a testa nuda. Non prese nemmeno la frutta e scappò. Gli era
venuto un pensiero. Nella cucina, sotto la tavola, ci doveva essere
un barilotto di vino di Castel San Pietro, ancora mezzo, da quando
s'erano bisticciati coll'Adelaide: comprò una ciambella inzuccherata
dal primo fornaio, e corse a casa per accendere il fuoco, e fumare
nella pipa. Il barilotto era quasi vuoto: dunque l'Adelaide se n'era
servita anche dopo? Questa debolezza lo rallegrò, ma nel cantone non
c'era legna: si mise in veste da camera, si cavò le scarpe, accese
la pipa e portando la bottiglia del vino sul focolare, si sedette
sotto la cappa del camino come nell'inverno. Sulle prime tutte
queste buone disposizioni non sortirono effetto, ma al quarto
bicchiere la sua malinconia si rischiarò: fortunatamente la boccia
di vetro bianco, dalla quale mesceva, era capace di due buoni litri.
Egli si stese sul seggiolone di faggio, allungò i piedi sugli alari,
e finita la ciambella che gli parve piccola, cominciò a soffiare nel
fumo. A poco a poco diventava allegro. Le memorie della cucina gli
calavano intorno dalle casseruole appese alle pareti, come da tanti
quadri, dei quali la poca fiamma della candela non lasciasse
distinguere le immagini: ed erano figure grasse, profumate di
intingoli, con un riso giocondo sul volto, che tratto tratto si
illuminava di un grande riverbero, quasi che il focolare fosse
acceso. Di sotto alla tavola, dalla madia uscivano echi di vecchi
discorsi, frammenti di scene casalinghe, quando collo stomaco pieno
ed il cuore digiuno si era abbandonato alle piacenterie
confidenziali della luna di miele coll'Adelaide. Dalla trave di
mezzo penzolava ancora la canna, alla quale si erano dondolati tante
volte i coteghini grassi, fra le ghirlande delle salciccie, mentre
un prosciutto attaccato più in là, ad un gancio, aveva l'aria d'un
violino. Egli stesso gli aveva trovata questa somiglianza e l'aveva
mille volte ripetuta coll'Adelaide, quando giungendo a casa troppo
presto se ne tagliava una fetta dicendo:
- Suono, eh!
E l'Adelaide sorrideva al suo bell'appetito di suonatore.
Poi il fumo alcoolico della pipa, giacchè da fumatore arrabbiato vi
fumava dei mozziconi di sigaro lavati nel rhum, avvolgeva quelle
figure paffute e rossiccie in una nuvola aromatica. Mezzo coricato
sul seggiolone, la pipa sul petto, respirava lentamente, operazione
che aveva la voluttà di tutti i giuochi automatici e nella quale si
sarebbe addormentato, se la necessità di tenere la cannuccia fra i
denti non lo avesse tenuto desto; tornò a bere. Ma l'ebbrezza del
vino, più calda di quella del fumo, gli accese i sensi già
vellicati. Ad un tratto la cucina rischiarata a stento dalla candela
di sego sopra la tavola, allargandosi in un incendio di luce,
divenne un teatro gremito di spettatori; il focolare era il
palcoscenico, lo sfondo giù ai lati l'apertura delle quinte dove
formicolava la popolazione misteriosa dei teatri. Lo spettacolo era
abbagliante. Un'oppressione voluttuosa pesava nell'aria facendo
battere tutte le palpebre e aprire tutte le bocche. E una figura
patetica di donna, moribonda bellezza di martire, alla quale la
morte aggiungeva una bellezza di più, taceva in mezzo a
quell'aureola, sopra a quel silenzio angosciato di tutti. Una storia
indicibile di dolori era scritta sul suo volto, una memoria d'amore
le impallidiva sulla fronte. Poi senza scomporsi, come se non ne
avesse avuto la forza, cominciava a cantare, calando un lungo
sguardo verso di lui.
Ma in quella l'Adelaide, non sospettandolo in casa, rientrava per la
porta della cucina. Aveva il solito impenetrabile di Casimiro
grigio, il cappello scuro con una vecchia penna di struzzo colorata
di rosso. La sua figura atticciata diventava tozza sotto l'ombra di
quelle grandi ali. Sembrava aver fretta, ma vedendolo si arrestò. La
candela del tavolo non illuminava abbastanza bene la scena, perchè
ella potesse vedere subito la boccia, ed il bicchiere sopra lo
sgabello del focolare. Nullameno finì per accorgersene.
- Oh! - esclamò Bartolomeo rimettendosi a sedere sul seggiolone.
- Scusate se vi disturbo - rispose con accento secco, che finì di
svegliarlo, andando verso la madia per accendervi una candela e
ritirarsi. Bartolomeo accennò di scendere.
- Non v'incomodate, ho già fatto: vi lascio in libertà - seguitò con
intenzione evidente.
- Non potete fermarvi un pochino!
- A far che?
Bartolomeo avrebbe voluto calar giù, ma temendo di farlo male per il
vino, che cominciava a pesargli sullo stomaco, rimase sotto l'ombra
del camino, che ingrossava singolarmente la sua figura già grossa.
Tutti i proponimenti del giorno gli si affollarono nella memoria.
- Aspettate: oh! ecco: sentite.
- Cosa?
- Ve l'ho pur detto, io non ci capisco nulla.
- Nemmeno io.
- Allora?
- Cosa volete dire?
Bartolomeo s'incagliò ancora: ella ripetè l'atto di andarsene.
- Io sono sempre quello stesso - disse finalmente con un immenso
sforzo, e un sospiro di soddisfazione.
Ella finse di non comprendere.
- Volete far la pace?
- Sentiamo: condizioni e patti!
- Ah! - fece Bartolomeo.
- Scusate; questo nome vi dà fastidio?
Egli s'imbrogliò nuovamente, ma per una di quelle scappate, che non
vengono se non agl'ingenui in certi momenti:
- Cosa avete fatto tutti questi giorni? - prosegui.
La domanda era così imprevista che ella stessa titubò.
- Ho lavorato.
Bartolomeo comprese la portata di quella parola, e si arrestò.
Malgrado tutta la buona volontà non trovava modo di venire ad una
spiegazione, parendogli di aver egli tutti i torti e nel sentimento
della vergogna sentendosi crescere ancora l'imbarazzo. Un sospiro
leggiero, che l'altra colse benissimo, gli uscì dalla bocca.
- Buona notte! - ella disse questa volta incamminandosi.
- Ma è dunque molto tardi?
- Non saranno nemmeno le nove.
- È presto.
- Buona notte!
- Buona notte! - rispose Bartolomeo con voce, nella quale l'umiltà
dell'accento faceva sentire la malinconia di una preghiera.
Ella entrò nella propria stanza, e l'altro, appena scomparsa, fece
un gesto violento contro se medesimo quasi per darsi un pugno.
- Bamboccio!
Quella fu la sua sera peggiore. Per uscire di casa avrebbe dovuto
rivestirsi, rimettersi le scarpe, riannodarsi il fazzoletto, tutta
una farragine d'incomodi, dei quali ognuno aveva in quel momento
l'intensità di un supplizio. Poi non sapeva, una volta fuori, dove
dare del capo. Ma rimanere in casa, solo in cucina, coll'Adelaide di
là, che lo sentirebbe andarsi a letto così presto, era impossibile.
Tentennò lungo tempo in preda ad una collera, che cresceva di minuto
in minuto, coi ricordi di tutte le contrarietà toccategli nella
giornata e le difficoltà di una soluzione altrettanto inevitabile
che impossibile.
Nei giorni seguenti cadde in una tetra malinconia, dalla quale non
uscì nemmeno a teatro.
L'oscurità, che l'aveva protetto contro i pericoli del mondo
permettendogli di vegetare prosperamente all'ombra come una pianta
grassa, gli diventava una tenebra di prigione, fuori della quale il
paesaggio ardente della vita spiegava la pompa delle sue
decorazioni. Tutti erano felici intorno a lui, il giorno si
occupavano dei propri affari, la sera andavano a teatro per
divertirsi, mentre egli, accasciato tutto il giorno sotto l'incubo
di se medesimo, doveva venirvi per diventare parte inavvertita del
loro divertimento. Almeno la Patti aveva diecimila franchi ogni sera
senz'essere schiava del pubblico. Al Brunetti due settimane dopo
ognuno parlava ancora di lei, che era in Ispagna e faceva delirare
quel popolo, ancora abbastanza romano per preferire l'orgoglio a
tutte le virtù e il sangue a tutti i piaceri.
E allora si obliava nei sogni della Spagna, che non conosceva
nemmeno per lettera, alla quale non attribuiva nè gli aranci, nè le
palme, nè i costumi ancora medioevali, nè le architetture moresche
capricciose come le sue colline e trasparenti come le sue nuvole.
Però in fondo ad ogni sogno trovava sempre una tristezza più cupa,
simile alla tenebra di una lanterna magica, che pare più densa
quando l'apparizione è svanita. Il giorno non andava più ai giardini
pubblici, che la esultanza di primavera gli rendeva odiosi, ma
girellava per la città come tutti i vagabondi, che cercano
d'ammazzare il tempo e invece soccombono sotto di lui. E poco a poco
si scordava della Patti e dell'Adelaide, le due cause della sua
infelicità, per non sentire che il proprio malessere, una stanchezza
morale, che gli dava l'uggia di ogni persona, un esaurimento fisico,
che gli dava la nausea di ogni cosa. Trascorse ancora una settimana.
Il suo aspetto cominciava ad intristire, le borse sotto gli occhi
gli si erano ingrossate, perfino il suo bell'appetito, l'amico
fedele di tutta la vita, stava per abbandonarlo. Allora per
disperazione cominciò ad alzarsi più tardi e a coricarsi più presto:
aveva fatto una specie di raccolta di tutti i giornali, che
parlavano della Patti, e li andava rileggendo. Qualche mattino mancò
alla colazione del caffè, dove i soliti avventori si fecero caso
della sua assenza; a pranzo non andò più alla trattoria, che aveva
scelto dopo il disastro domestico, e si abbandonò alla ventura per
l'izza di dover parlare col cameriere, o di incontrarsi con persone
conosciute. Anche Bodoni, cui prediligeva sopra tutti, gli era
divenuto insoffribile; mentre una delle sue ultime parole di quella
sera alla bottiglieria gli era rimasta confitta nella memoria come
un chiodo arroventato.
- Ella ti avrà reso miserabile per sempre!
Era un venerdì di primavera, era piovuto tutto il mattino, poi aveva
soffiato un vento freddo senza spazzar via le nuvole. Il cielo era
torbido, la città pareva bigia. Bartolomeo era uscito. Fosse il
tempo o altro, si sentiva anche più triste; da due giorni non aveva
quasi mangiato, aveva fatto un giro per il Pavaglione, era entrato
macchinalmente in S. Petronio, poi era tornato a casa, sorpreso da
un freddo, che in quello scoraggiamento prese per un sintomo di
malattia. Si sdraiò sulla vecchia poltrona, affagottato dentro un
paltò d'inverno, lasciando errare gli occhi sui tetti vicini, pei
quali i passeri pigolavano lamentevolmente. Il sentimento della
morte lo invadeva. La sua camera poco allegra per la qualità
dell'arredo e il colore della luce gli ricordò quella della Traviata
all'ultimo atto; proprio in quel momento tornava a piovere. Le
percosse dell'acqua contro i vetri lo fecero fremere di terrore, poi
abbassò la testa come un malato, e chiuse gli occhi. Il Bartolomeo
di una volta era morto.
Ma la porta della camera si aperse con fracasso, e l'Adelaide entrò
rossa come un gambero. Aveva un giornale in mano.
- Leggi - esclamò dandogli del tu per la prima volta dopo la
rottura.
Egli si destò di soprassalto, ma l'altra non badando alla
prostrazione del suo aspetto, cogli occhi sfolgoranti di disprezzo:
- Ah! tu non ne saresti capace. Te lo leggo io; sta attento, come
tratta in Spagna la tua Patti; - e senza dargli tempo nè di
rispondere, nè di capire, con voce concitata, che la passione di
quel momento aguzzava come un pugnale, spuntandolo tratto tratto ad
una frase, gli lesse un articolo riportato da un giornale di Madrid.
Con stile vivace, pieno di reticenze insidiose e di approvazioni
ironiche si narrava come re Alfonso si fosse invaghito della Diva e
per non imbarazzarsi con Niccolini, diventato geloso fuori di tempo,
gli avesse fatto bere d'accordo con lei un narcotico a cena.
Niccolini si era addormentato, ma o la dose fosse troppo lieve, o
essi profittandone subito facessero troppo rumore, si era svegliato
prima. Allora il re aveva sorriso e se ne era andato; Niccolini era
rimasto e aveva bastonato la Diva. Forse questa era una storia di
giornale, ma l'Adelaide lo credeva, e:
- Tieni - fe' lanciandogli il giornale sul ventre - te lo diceva
pure: è una... e si fermò meravigliata della faccia di Bartolomeo,
che ella credeva allibito. Era quasi ilare.
- Ma tu! - esclamò.
Egli si levò in piedi. La pioggia scrosciava ancora nei vetri, il
cielo si era fatto più buio, e nullameno egli riacquistava il bel
colore d'una volta.
- Non eri dunque innamorato tu, che hai fatto tanto?
Bartolomeo ebbe un gesto di stupore, che voleva dire:
- Puoi crederlo?!
- Però confessalo, se non fosse stato così...
- Sei tu, che lo hai detto.
Rimasero incerti tutti e due, ella collo sguardo ardente, egli quasi
curioso. Per un momento si studiarono.
- Ma se è brutta!... - ella proseguì esaminandolo; Bartolomeo non si
mosse.
Allora Adelaide ebbe come un gesto di dispetto contro se stessa
nello sforzo di cercare inutilmente una spiegazione, e ripetè più
forte:
- Che cos'era dunque? Tutti impazziscono per questa donna, che pare
un'acciuga.
Bartolomeo ebbe un lampo.
- Oggi è venerdì.
Ella comprese, egli titubò.
- Se potessi credere...
- Li faresti?... i vermicelli all'acciugata...
- Forse...
- Te lo dirò io - esclamò con un sorriso che gli morì nullameno in
un sospiro: era, ecco...
E non trovò altro.
Tre mesi dopo Bodoni, incontrando Bartolomeo al caffè del Corso, gli
correva incontro col suo riso sinistro sulle labbra.
- È proprio vero che hai sposato la grossa Adelaide?
Bartolomeo chinò la testa.
Bodoni si arrestò, poi dardeggiandogli un'occhiata in faccia:
- Ti piace la trippa?
- No - rispose ingenuamente Bartolomeo.
- Avrai una vecchiaia infelice.
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